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In questo numero: Natalino Balasso Luca Belloni Romolo Cacciatori Paolo Cassetta Alessandro Ceccotto Elizabeth De Boehmler Milena Dolcetto Foto Club Adria Anamaria Girdescu Fiorella Libanoro Giolo Dimer Manzolli Giuseppe Pastega Claudia Piccolo Bruna Giovanna Pineda Maurizio Romanato Sergio Sottovia Alessandra Tozzi Matteo Veronese Anno II, n. 2 del 01 Giugno 2011 - € 5.00 9 772038 342001 1 5 0

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Periodico culturale quadrimestrale pensato e scritto tra l'Adige e il Po

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In questo numero: Natalino Balasso Luca Belloni Romolo Cacciatori Paolo Cassetta Alessandro Ceccotto Elizabeth De BoehmlerMilena Dolcetto Foto Club Adria Anamaria Girdescu Fiorella Libanoro Giolo Dimer Manzolli Giuseppe PastegaClaudia Piccolo Bruna Giovanna Pineda Maurizio Romanato Sergio Sottovia Alessandra Tozzi Matteo Veronese

Anno II, n. 2 del 01 Giugno 2011 - € 5.009 772038 342001

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Nuovo polo turistico italiano e divisione di uno dei più importanti gruppi industriali al mondo, Marcegaglia Tourism gestisce attualmente tre assets turistici: l’Isola di Albarella situata nel Parco del Delta del Po, Pugnochiuso Resort nei pressi di Vieste sul promontorio del Gargano e il Villaggio Le Tonnare in Sardegna a Stintino.Marcegaglia Tourism stile di vita per tutta la vita = Creazione di... valoreMarcegaglia Tourism vuole proporsi come punto di riferimento europeo nel settore TURISTICO – CULTURALE – SPORTIVO, attraverso il miglioramento continuo della qualità dei servizi e la valorizzazione dell’ambiente.Intende perseguire gli obiettivi tramite un’organizzazione nella quale il gruppo dei collaboratori fa propri i valori di onestà, professionalità, apertura verso gli altri, di sensibilità verso il cliente e verso l’ambiente, creando armonia e gratificazione all’interno e all’esterno.Marcegaglia Tourism... il ponte ideale verso il futuro.

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SOMMARIO

RUBRICHE

Taccuino futile - Natalino Balasso ....................................................................................7

Visti da lontano - Paolo Cassetta .....................................................................................8

Flash & News - Sergio Sottovia .....................................................................................10

Visti da vicino - Elizabeth De Boehmler ..........................................................................13

STORIA

Adria 1849-1866 la lunga strada verso l’Italia - Giuseppe Pastega ...........................14

ATTUALITA’

Anche Rovigo è una “Città gentile” - Alessandra Tozzi e Bruna Giovanna Pineda ........22

LUOGHI

Polesine 1815-1820 - Maurizio Romanato ...................................................................26

Bosgattia - Dimer Manzolli .............................................................................................31

PAROLE

Due Paesi, un solo inno - Anamaria Girdescu ..............................................................36

Scatti in rapida sequenza sull’Isola di Albarella - Monica Scarpari ........................38

PALCOSCENICO

Il Teatro Sociale di Rovigo - Milena Dolcetto ...............................................................43

SUONI

Il popolo di Verdi - Luca Belloni ....................................................................................46

IMMAGINI

L’Italia unitaria illustrata 1861-1914 - Alessandro Ceccotto ......................................50

Come eravamo, come siamo - a cura del Foto Club Adria ..........................................58

PERSONAGGI

Giovanni Miani da Rovigo, il leone bianco - Matteo Veronese ................................68

STORIE

Menotti Garibaldi ad Adria - Alessandro Ceccotto ........................................................71

I ricordi di nonna Rita - Fiorella Libanoro Giolo ............................................................74

SAPORI E SAPERI

Il Polesine in cucina - Romolo Cacciatori ......................................................................78

STRISCE

Erano altri tempi - Claudia Piccolo ................................................................................84

Anno II, n. 2 del 01 Giugno 2011

Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010

Direttore Responsabile:Sandro Marchioro - [email protected]

Editore: Apogeo Editore - [email protected]

Coordinamento Editoriale:Cristiana Cobianco, Monica Scarpari, Paolo Spinello

Grafica e Impaginazione:Michele Beltramini

Stampa:Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (Ro) Tel. 0426.45900

Ufficio stampa:Milena Dolcetto

Blog e Social Network:Sabrina Donegà

Hanno collaborato a questo numero:Natalino Balasso, Luca Belloni, Romolo Cacciatori, Paolo Cassetta, Alessandro Ceccotto, Elizabeth De Boehmler, Milena Dolcetto, Foto Club Adria, Anamaria Girdescu, Fiorella Libanoro Giolo, Dimer Manzolli, Giuseppe Pastega, Claudia Piccolo, Bruna Giovanna Pineda, Maurizio Romanato, Sergio Sottovia, Alessandra Tozzi, Matteo Veronese.

Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Apogeo Editore di Paolo Spinello - Corso Vittorio Emanuele II, 147 45011 ADRIA RO, Tel.0426 21500, Fax 0426 945487, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03.

Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010

Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze.

Numero chiuso in redazione il 19/05/2011

ISSN 2038-3428

Il QR Code memorizza al suo interno indirizzi e URL facilmente raggiungibili con una semplice fotografia scattata dal proprio cellulare munito di apposito software.

Ringraziamo il prof. Giuseppe Pastega per la consulenza e i preziosi consigli. Ringraziamo inoltre il Foto Club Adria per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo GRATUITO per l’inserimento nella rivista REM. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore.

La redazione di REM ha deciso di dedicare gran parte di questo numero al 150° Anniversario dell’Unità d’Italia. Il logo qui a fianco identifica gli articoli ad esso dedicati. Alcune immagini, originariamente a colori, sono riprodotte in scala di grigi o a due colori.

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RUBRICA

Che da noi l’Unità d’Italia non sia arrivata nel 1861, sem-bra per gli amanti delle com-

memorazioni cosa di poco conto. Quando l’Italia si dice fosse affare ufficiale, noi eravamo sotto gli au-striaci. A ben vedere dovremmo fe-steggiare tra qualche anno, da soli, giusto per capire quanto si senta uni-ta questa nazione. Ma anche un centinaio d’anni dopo sembrava già una missione ardua unire Ca’ Venier a Porto Tolle, altro che peni-sola; di qua e di là da quel piccolo ramo che noi chiamavamo Po c’erano isole che vivevano la propria quotidianità con una punta di stizza nei confronti degli alie-ni abitanti dell’altra sponda. Porto Tolle (Cacépolo) era la metropoli mentre Ca’ Venier (Cavnièro) era il satellite e giusta-mente i cacepolanti venivano visti dai cavnieranti come dei “grandùn” che si stimavano più evoluti. Possedevano il Comune, una concessionaria d’auto, un forno che vendeva pane e poi mulini e aziende agricole non di poco conto. Per rag-giungere il lato civile, noi di Cavnie-ro prendevamo il passo. Erano già arrivati i tempi moderni, quindi il passo andava a motore ma ancora si raccontava di quando l’im-barcazione si muoveva a forza di muscoli umani e animali. C’era un uomo che viveva nel passo, faceva uscire quelle due o tre macchine che

ci stavano e poi i gruppi di persone che andavano di qua e di là senza apparente mo-tivo. S’incontrava spesso sul passo la Mafalditi, che significa piccola Ma-falda secondo una desinenza quasi spagnola. Lei era adorata da noi bambini perché era poco più alta di noi ma vestiva da adulta, parlava da adulta anche se si muoveva con una bicicletta abbastanza infantile.

Insomma la Mafalditi sembrava la dimostra-zione che anche per noi bambini ci fosse la possibilità di esse-re adulti da un giorno all’altro ma senza ac-quisire quell’aria pre-occupata e avvilente che spesso hanno i grandi.Ma la cosa precipua del passo era l’attesa. Il passo per lo più si attendeva, lo si ve-deva arrivare da lon-tano col suo piccolo carico che quasi mai stupiva, quasi mai re-

cava novità e poi ci si saliva sopra e si fendeva l’acqua con una calma senza chiglia, una calma quasi piat-ta. Ci voleva tempo per riempire una piccola distanza, perché il passo ci faceva capire che si può arrivare an-che senza fretta. E’ per questo che noi si arriva sempre un po’ dopo. Però arriviamo. Come con l’Unità d’Italia, ci vuole un po’ di più, bisogna aspettare il passo giu-sto. Senza fretta, ma arriviamo.

“Ma ancheun centinaiod’anni doposembrava giàuna missioneardua unireCa’ Venier

a Porto Tolle...

di Natalino Balasso

Taccuino futile

Il passo

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nei 100 negozi associati! Foto di Nicola Boschetti

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REMRUBRICA

biamo chiacchierato, e anche quella sera ho pensato: ho conosciuto qual-cuno che proviene dalla mia terra e questo mi fa sempre sentire bene. Comunque un collega che abita in città ci ha raccontato che ci sono molti Italiani residenti in Florida e molti dell’area veneziana, credo an-che polesana. “Persone perfettamen-te integrate, ma sempre con quel filo che li lega alla loro terra”; mi diceva inoltre che se vuoi scoprire una casa di italiani è molto semplice: sono le uniche che hanno l’orto. Tradizione atavica, ancestrale: avere l’orto è come essere a casa. Ecco questi sono stati i miei “incontri ravvicinati” con persone della mia terra e questo mi ha reso felice, anche se mi ritorna in mente una storia che mi ha racconta-to mia madre che abitava a Ca’ Emo e che mi ha sempre fatto tristezza; una storia alla quale lei ha assistito personalmente visto che la ragazza era sua amica: mi disse che ave-va pianto per una settimana intera quando la famiglia poverissima del suo ragazzo aveva deciso di emigra-

H o avuto nel passato ed ho tuttora per lavoro la for-tuna di viaggiare. Per sei

anni sono stato fuori casa circa un centinaio di giorni all’anno, per cui ho avuto modo di incontrare e co-noscere una moltitudine di persone di razze, culture, religioni e costumi lontanissimi dai nostri canoni, ma paradossalmente così vicini che mi hanno scrollato di dosso certi pregiu-dizi infondati, non veri e mi hanno liberato la mente da svariati condi-zionamenti culturali. Posso dire solo adesso di essere cittadino del mon-do: una parola grossa ma in realtà molto semplice perché i bisogni e le necessità delle persone sono uguali dovunque. Chicago, Lake Forest, North Ballard Drive 1992: dopo un giorno di lavoro con il nostro Distri-butore per gli States, assieme a tutti i ragazzi andiamo a bere una birra in un locale. Ridiamo e scherziamo, beviamo birra, ma io vedo il came-riere, quando passa tra i tavoli, che mi guarda in modo curioso, quasi mi fissa e quando tocca a me offri-re il giro, lo chiamo e in inglese gli chiedo di portare altre birre. Lui, in perfetto inglese, mi risponde molto gentilmente, sempre guardando in modo strano; poi andandosene, si volta di scatto e mi chiede in dialetto polesano: “Di dove sei?” Io colpito da quello che sta accadendo dico quasi balbettando: “Di Rovigo”, e lui mi risponde sempre in dialetto: “Non parli il ‘rovigoto’. Penso tu sia dal-le parti di Cavarzere”. Allora dico: “Sono di Fasana” e lui risponde: “Ecco mi pareva… hai un dialetto quasi uguale al mio”. Così abbiamo iniziato a parlare molto divertiti e colpiti entrambi. Lui era di una loca-lità vicino a Cavarzere, verso Loreo, sulla strada che porta a Tornova. Quella sera sono stato molto felice

dare continuità alla commercializza-zione del prodotto: hanno stravolto lo “status” degli Uffici, inserendo la pausa caffè alle 10 di mattina, rigo-rosamente con caffé Italiano, portan-do allegria, perfettamente integrati e accettati di buon cuore dagli Inglesi; anzi, addirittura avevano fondato una squadra di calcio che faceva il torneo cittadino e mi ricordo come fosse oggi la tristezza dei colleghi Inglesi quando hanno deciso di tor-nare in Italia: baci ed abbracci a qualcuno sfuggì qualche lacrima e l’ufficio non fu mai più uguale a quando “fu invaso dai polesani”, mi ha detto un collega Inglese che ho in-contrato poco tempo fa. Una grossa comunità di polesani l’ho trovata in Florida. Era il 2008 ed eravamo al-loggiati in un hotel di Marco Island, un’isola sulla costa ovest della Flori-da, direttamente opposta a Miami, dall’altra parte dell’estremo sud. Una sera decidiamo di andare a Miami Downtown; in questo punto la Flori-da è tagliata dalla Interstate 97 o da una parallela più a sud che è la 90, che ti porta dritto a Miami. Girova-gando per la città fino alle spiagge di Miami Beach e South Beach senti nell’aria il profumo della cultura la-tina: la gente parla spagnolo, qual-cuno Italiano e appena ci sediamo in un ristorante all’aperto a sinistra della Biscayne Blvd di fronte all’ Hard Rock Cafe, le due cameriere ci guardano e quando stiamo per ordi-nare ci dicono la solita frase: “Siete italiani?”, parlando in Inglese. E noi ridendo rispondiamo in Italiano “No siamo spagnoli” e siamo scoppiati a ridere tutti quanti: una era di Torino e abitava a Venice mentre l’altra era di Palermo City, ma i nonni proveni-vano dall’Alto Polesine. “Incredibile - abbiamo pensato - incredibile”. E poi ci siamo fatti foto assieme, ab-

di Paolo Cassetta

Visti da lontano re in America dopo la guerra; quel giorno, al momento della partenza, hanno raccolto quel poco che aveva-no su valige di cartone e sono partiti. Piangevano tutti. Credo non si siano più rivisti. Nel periodo della grande emigrazione, dal 1890 al 1946, più di 20 milioni di Italiani sono andati per il mondo: alcuni si sono perfetta-mente integrati, alcuni meno, alcuni per niente. A volte mi immedesimo in queste persone e mi viene tristezza, perché fuggire dalla disperazione in cerca di fortuna deve essere terribi-le. Credo che i primi a sbarcare in America fossero contenti del nuovo nome dato dai poliziotti nei campi di accoglienza: il nome più famoso di un italoamericano è Tony e penso che per un attimo qualcuno sia stato felice con il nuovo nome nel nuovo mondo: “Visto come ci hanno accol-to? Ci hanno dato persino un nome nuovo, un nome americano”. Non sapendo che “Tony” era solo una de-stinazione: To NY, TO NEW YORK (per New York). E per alcuni era un biglietto di sola andata.

di incontrare questo ragazzo, aveva circa 18-20 anni e ho pensato “che coincidenza” trovare fuori Chicago un “mio compaesano”. Non l’ho più rivisto, perché l’anno dopo tornai allo stesso locale e chiesi al barman dov’era il cameriere Italiano. Il bar-man mi disse che se n’era andato: “Bravo ragazzo” aggiunse “ma ha scelto l’avventura; sai, qua in Ame-rica è normale spostarsi, penso sia andato in California; comunque” ri-petè il barman “ci manca molto, era veramente un bravo ragazzo”. East-bourne, a sud di Londra, Cavendish Hotel, 2008: Siamo a colazione con Italiani in UK per un Sales Meeting, vedo arrivare il cameriere e la faccia non mi è nuova, penso di averlo già visto “Ma questo – penso - non è in-glese”, infatti appena si avvicina e sente che parliamo, tutto sorridente ci dice in dialetto “Io sono di Rotta-nova, anzi, vicino a Rottanova, sono nato sulle sponde dell’Adige”; rima-niamo un momento spiazzati poi ini-ziamo a parlare con gli Inglesi che ci guardano divertiti e lui inizia a chie-dere se conosciamo questo e quello, che fine ha fatto quest’altro, come se avesse voglia di conoscere le ultime novità dalla sua terra, come se voles-se mantenere quel filo che lo lega al suo paese lontano. Penso si tratti di nostalgia, di voglia di essere a casa. Aveva circa 55-60 anni, era molto British,ma polesano fino in fondo. Vi-veva a Eastbourne da circa 40 anni ed era quasi pronto per la pensione. Anche questo non l’ho più rivisto. Ho un carissimo amico di Bellombra che lavora tuttora in un’azienda a sud di Londra con la quale abbiamo anco-ra dei rapporti di lavoro; mi raccon-tava che all’inizio, quando l’azienda Italiana è stata incorporata in quella inglese, una parte di ragazzi polesa-ni sono andati a lavorare in UK per

Siamodappertutto

Ufficio immigrazione, Ellis Island, New York.

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REMRUBRICA

a Pintoise attraverso la foresta di St. Germain. Già, la maratona: la quin-tessenza dello sport! Con 58 mara-toneti alla partenza, a vincere fu il taglialegna finlandese Albin Oskar Stenroos con il tempo di 2h 41’ 22’’ 6; secondo fu il contadino Romeo Bertini, da Gessate Milanese, terzo lo statunitense Clarence DeMar. E il nostro Tullio? Strepitoso al 22esimo posto, col tempo di 3h19’05’’. Stre-pitoso se consideriamo che all’arrivo furono solo in 30 ad arrivare. Strepi-toso se pensiamo che tra gli italiani solo lui e Bertini arrivarono all’arrivo, mentre si ritirarono Ernesto Alciati, Ettore Blasi, Alberto Cavallero e An-gelo Malvicini. Così lo stoico Tullio Biscuola (68 kg su 1, 70 di altezza) entrò nella storia di quelle Olimpiadi di Parigi; nella primavera del 1927, poi, sarebbe entrato anche nella leggenda. E dalla porta principale. Pensate: è andato a vincere la ma-ratona là proprio dove la maratona ha il suo significato più profondo: ad Atene, sotto l’acropoli. Ai famosi Giochi dell’Averoffa perché organiz-zati da quel magnate di Averoff, una

di Sergio Sottovia

Tullio Biscuolauna vita di battagliee di vittorie specie di Onassis ante litteram. E che

trionfo al suo ritorno a Rovigo, per il leggendario Biscuola e i suoi due preparatori atletici (i fratelli Fabbro, i barbieri – ciclisti che accompagna-vano Tullio nei quotidiani 10/20 chilometri di allenamento). Intanto la storia poliedrica di Biscuola ce lo propone anche in ‘maglietta’ della società Viscosa Padova e sul podio di Bologna: terzo nei 10.000 alle spalle del veneziano Attilio Conton e del piacentino Chiusa, prima di tra-vasare la sua esperienza come alle-natore di atletica per tanti allievi, tra cui il saltatore Pacchioni. Tutto questo mentre stava tornando la tempesta: scoppia la seconda guerra mondia-le e Tullio farà parte del “5° Reggi-mento Artiglieria da Montagna”, quello che dal 19 ottobre 1941 fino ad agosto 1942 viene impiegato sul fronte greco – albanese. Quel ‘Reg-gimento’ che tra i suoi comandanti, nel periodo 1936-43, annovera in sequenza come comandanti Mazzi-ni, Norcen, Molinari, appunto il no-stro Biscuola, e Bizzarri. Ed è là nel Montenegro che Tullio Biscuola viene

Arti e cultura, una storia lunga 150 anni identificata in un personaggio sportivo. Sa-

rebbe riduttivo, se non fosse Tullio Bi-scuola il maratoneta. Perché signori, 150 di storia è una maratona. Quel-la di Filippide con la sua corsa “ex-treme” da Maratona fino ad Atene, 42 km per morire e diventare eterni. Quella ‘lunga maratona di vita’ di Biscuola in corsa tra due secoli, da combattente sia nella Prima Guerra Mondiale (o quarta Guerra d’Indipen-denza?) e sia nella Seconda Guerra Mondiale. Due uomini nell’immensità della storia, Filippide e Biscuola. E per quanto riguarda il ‘nostro Tullio’ ci preme oltre tutto sottolineare che fa parte della storia ‘primaria’ delle Olimpiadi, nella quale le date e i luo-ghi citati (Atene, Londra, Parigi) sono gli elementi fondamentali e la esegesi della storia di Tullio Biscuola. Perciò, quando lo misi per primo nella Top Ten Made in Polesine del libro sugli “Olimpionici & Gentlemen” lo catalo-gai subito come “il nostro maratone-ta e capostipite ‘Olimpionico Polesa-no’, il nostro uomo –copertina al qua-le fare accendere, con la fiaccola, il nostro ideale braciere olimpico”. Una storia quella di Tullio Biscuola, nato a Verona 12 luglio 1894, che peraltro sviluppa flash paralleli con Dorando Pietri, nella leggenda come vincitore ‘barcollante’ della Olimpia-de di Londra 1908. Un personaggio, Tullio Biscuola, che trascende il lato sportivo, per affondare le radici nel-la ‘gioventù’ dell’Italia Unita, quella nata nel 1970, quando l’atletica e la ginnastica erano ancora ‘parte integrante’ dell’italiano combattente. Un corridore nato, il Biscuola, tra-sferitosi giovanissimo da Verona a Rovigo, dove iniziò presto a gareg-giare, tant’è che a 12 anni correva già su delle distanze dove il fiato e

Flash & News

ferito. Una ferita che lascia il segno, e che vedrà poi, a partire dal 1944, l’ex maratoneta Biscuola sempre atti-vo nel suo negozio di abbigliamento di Rovigo, un luogo che diventa uno dei punti di incontro degli aderenti al movimento clandestino antifascista. Poi Tullio ‘sportivamente’ sarà punto di riferimento nel capoluogo, dove sarà tra i fondatori nel 1959 del Pa-nathlon Club Rovigo, di cui è stato primo presidente Eugenio Zuolo. Co-lui che è stato anche presidente del Coni Rovigo, colui che ha inaugurato a Rovigo lo stadio di atletica giusta-mente intitolato a ‘Tullio Biscuola’. Il maratoneta che era scomparso a febbraio del 1963, dopo essere ri-masto un punto di riferimento asso-ciativo/istituzionale, ma che resterà “Olimpionico” per sempre: per aver partecipato alla Olimpiadi di Parigi 1924, per aver ‘aiutato’ anche eco-nomicamente l’amico Dorando Pietri e per aver vinto la Maratona di Ate-ne nel 1927. E che oltre tutto, meri-ta il nostro tricolore per aver servito l’Italia dei 150 anni in entrambe le due Guerre Mondiali.

la resistenza contavano molto. Ma la corsa allora non era solo sport, e la ‘passione’ di Biscuola era talmente tanta che ha pensato bene di capita-lizzarla andando ( assieme al veneto Donà) ad indossare la ‘maglietta’ fer-rarese della S.p.a.l., dal significativo acronimo Società Polisportiva Ars et Labor. La storica società che vedrà Tullio protagonista anche sulle distan-ze dei 10.000 e dei 15.000 metri. Che Tullio fosse forte lo dimostrano i suoi 15 titoli veneti consecutivi, ma anche le corse da protagonista in una Italia settentrionale che propo-neva campioni come il bergamasco Alfonso Orlando (5° alle Olimpiadi di Stoccolma), Carlo Speroni (Busto Arsizio), Becattini e Veroni (entrambi della Italia FI), il modenese Adelmo Rossi, laziale Braga e il bolognese Fava. E’ costante e metodico negli allenamenti, Biscuola, ma oltre che sportivo, il nostro Tullio fa parte del-la Storia dell’Italia. Certo nel 1912 verrà assegnata a Berlino l’organiz-zazione delle Olimpiadi 1916. Ma poco dopo ci sarà l’attentato di Sara-jevo e scoppierà Prima Guerra Mon-diale. Vengono annullate le Olimpia-di di Berlino e non si parlerà più di Biscuola come atleta e podista, ma, nel periodo 1915/18, soltanto come ufficiale dell’esercito. Poi, per fortu-na, anche le guerre finiscono; e così il podista Biscuola come portacolori della Rhodigium Sport si consolida nella hit parade su distanze sempre più lunghe. Così vince il prestigioso “Premio di Natale” a Bologna e nel 1923, anno preolimpico, addirittura vince la gara Parigi – Corbeille sulla distanza dei 30 chilometri. Pensate: un rodigino in trionfo a Parigi! Là dove l’anno dopo correrà la leggen-daria maratona ai Giochi Olimpici, nella afosa domenica del 14 luglio 1924, dallo stadio di Colombes fino

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51. Tullio Biscuola

2. Il campione alla preolimpica Parigi-Corbeille

3. Eugenio Zuolo (primo a sinistra) presidente del Coni Rovigo durante l’intitolazione dell’impianto sportivo a Biscuola (primo a destra).

4. Biscuola tra il campione di rugby Maci Battaglini (a sinistra) e Giuseppe Mantovani (a destra) campione di motociclismo.

5. Biscuola con Romeo Bertini.

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RUBRICA

Mi chiamo Elizabeth e abito ad Adria da 15 anni. Vivo in Italia da

22 anni e insegno inglese come seconda lingua. Sono nata su un’isola nei Caraibi ma sono cresciuta in parte in Canada e in parte negli Stati Uniti. I miei an-tenati però sono Italiani, Francesi e Irlandesi: infatti provengo da una famiglia di nome Tagliaferri. Ho vissuto in città italiane molto più grandi di Adria come Milano e in altre grandi città del mondo. Mi con-sidero una cittadina del mondo perché la mia esperienza di vita vissuta nelle più grandi metropo-li come New York, Londra etc. mi ha ar-ricchita sia dal pun-to di vista culturale che come persona. Per questo vivendo in una cittadina piccola come Adria è facile fare un confronto, nel bene e nel male. Il Polesine è un territorio ricco di tradizioni, cultura e storia e più che altro ric-co di persone volonterose, dispo-nibili e legate alle loro radici e sarebbe brutto se dovessero per-derle o sostituirle con quelle di al-tri paesi. È stato molto piacevole imparare il vostro dialetto, la vo-stra cucina, le vostre canzoni e i vecchi detti. E’ stato emozionante ascoltare i racconti della guerra e dell’alluvione; ascoltare le sof-ferenze e le conquiste di questa terra. I polesani sono per me dei

grandi lavoratori che amano la loro terra. Uno dei problemi più grandi nel Polesine è il poco svi-luppo: i polesani aspettano che i loro problemi vengano risolti dalla politica o da altre realtà e che siano sempre questi a creare sviluppo per la loro città. A mio avviso trovano faticoso guardare oltre e cercare soluzione ai pro-pri disagi. La tendenza al lamen-to di questo territorio è un grosso

peso per la società locale. Se ognuno di noi pensasse a cosa potrebbe fare per il suo paese e non quello che il paese dovrebbe fare per lui, il Po-lesine sarebbe un posto migliore. Ri-guardo all’integra-zione, credo che la chiave sia che in ogni paese il pen-siero debba essere

questo: bisogna “farsi uno”: cioè essere coscienti di far parte del paese dove si vive, con i relativi problemi, gioie, tradizioni, valori e fede e cercare le cose che ci uniscono non quelle che ci divi-dono. Dico questo non solo come straniera ma anche e soprattutto come cittadina italiana acquisita. E ho sempre la speranza che l’Ita-lia sarà per il mondo un esempio di speranza, giustizia, valori e umanità.

“Il Polesineè un territorio

ricco di tradizioni, cultura e storia

di Elizabeth De Boehmler

Visti da vicino

Cittadina delmondo

Apogeo Editore è disponibile ad esaminare raccolte inedite di poesia per un’eventuale pubblicazione nella terza serie della Collana “Aneliti”. I manoscritti possono essere consegnati presso la Libreria Apogeo o inviati in forma elettronica a i n f o @ l i b r e r i a - a p o g e o . i t

Amo i colori,tempi diun anelitoinquieto…

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STORIA

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REM

“1849 - 1 settembre Tornano Don Costante Businaro che non ebbe più cattedra al Ginnasio, Don Sante Tretti che

penò più mesi a riavere prebenda Canonicale, il Com-messo Postale … Vecellio che non riebbe il posto. Tutti del resto amnistiati. Si fa la solita fiera. Notizie dei patimenti di Venezia”.Con questa brevissima nota Francesco Antonio Bocchi (1821-1888) sottolinea, per quanto riguarda Adria, la fine del biennio rivoluzionario 1848-49 e l’inizio di quel periodo che gli storici hanno chiamato Seconda Restau-razione o Decennio di preparazione.Lo storico adriese non esprime commenti espliciti, ma co-

gliamo benissimo il tramonto di ogni illusione liberale alla caduta di Venezia e la durezza dell’Austria già tornata a dominare sull’intero Lombardo-Veneto.I tre patrioti citati (due sacerdoti accorsi come Cappellani alla difesa di Venezia, il terzo un combattente di cui il Bocchi non riferisce il nome) sono rientrati in Adria per l’amnistia concessa dopo la resa di Venezia, ma da que-sto momento saranno sorvegliati dalla polizia, in qualche occasione subiranno perquisizioni od arresti, scontando comunque l’aver combattuto contro l’Austria: il Businaro, già docente presso il locale Ginnasio vescovile non ot-terrà più il posto, Mons. Sante Tretti riavrà il Canonicato solo dopo qualche tempo, mentre l’ufficiale postale verrà

Adria 1849 - 1866 la lunga strada verso l’Italia

allontanato per sempre dal servizio.F. A. Bocchi, conservatore, clericale, non compromesso nelle lotte risorgimentali, ma prezioso testimone dell’atmo-sfera e degli avvenimenti di quest’epoca, ci ha lasciato una serie di piccole schede (quasi tutte di cm. 9x9, conser-vate nell’Archivio Comunale Antico di Adria – cassette n. 50 e 51), brevi appunti di diario e annotazioni che interes-sano alcuni secoli della storia della città. Seguendole per il periodo 1849-1866, benché a volte saltuarie, abbiamo una cronaca in diretta e l’atmosfera della vita di Adria, cit-tà periferica non coinvolta in gravi tumulti e manifestazio-ni, marginale, ma ugualmente toccata dagli avvenimenti risorgimentali per la partecipazione di un buon numero di patrioti alle vicende del tempo e per essere interessata, in quanto territorio di confine con lo Stato Pontificio fino al 1859 e poi con il Regno d’Italia fino al 1866, agli espatri dei fuoriusciti e alle scaramucce di frontiera.Adria, abbiamo detto, è abbastanza quieta negli ultimi mesi del 1849, “ma molti animi bollono ed aspettano oc-casioni – 12 ott. 1849”. Spesso avvengono “perlustrazio-ni di malviventi”, o si procede ad arresti da parte della polizia, come ad esempio il 25 maggio 1850 “di pieno giorno, durante il mercato” quando viene arrestato L.P. (?), che però, condotto a Rovigo per il processo, presentato un valido alibi con testimoni, viene rilasciato.Non sempre va così bene. L’Austria, che vuol dare esem-pio di rigore, ha istituito un tribunale speciale itinerante (il Tribunale Statario), temutissimo per la spietatezza delle condanne sommarie: “1851 – 22 aprile Martedì SS. Pa-squa. Giungono molti soldati con la Commissione di Este (il Tribunale Statario). – 23 mercoledì. L’Arciprete porta SS. ai detenuti in sala terrena del Palazzo Civico (l’attuale Municipio). Gran popolo colle due Confraternite. S’apre il Consiglio il mattino nella sala superiore del Municipio”. Si tratta di malfattori comuni, ma l’esempio è terribile: le sen-tenze di morte, cinque secondo il Bocchi, vengono imme-diatamente eseguite pubblicamente nel prato della Fiera, gli altri imputati vengono condannati a pene detentive di varia durata, anche per l’intervento del Vescovo Bernardo Antonino Squarcina (1842-1851), che ottiene dal colon-nello che presiede il tribunale la commutazione della pena di morte. La scheda più lunga e fitta del solito ha anche una strana e incongruente annotazione, almeno per chi non conosca la passione archeologica del Bocchi e l’attac-camento al Museo familiare: “5 pomeridiane (subito dopo le esecuzioni del primo giorno di processo) – Vengono a visitare il Museo tutti”.Non si tratta di episodi isolati o che riguardano solo

Adria. L’Austria, ripreso il controllo del Lombardo Veneto, ha istituito un governo poliziesco. Pur permettendo il rien-tro dei patrioti, procede spesso a perquisizioni, arresti, imposizioni di indennità fiscali straordinarie, mantiene in varie città la presenza di truppe a carico delle comunità, ha proibito gli assembramenti pubblici, ha introdotto la censura preventiva, le scuole vengono rigidamente sorve-gliate, anche se in tema di istruzione possiamo registrare una cauta apertura con l’istituzione nei Ginnasi dal 1852 dell’insegnamento della materia Lingua e Letteratura Italia-na, presto controbilanciata dall’insegnamento obbligato-rio del Tedesco dal 1855.F. A. Bocchi, abbiamo visto, è un conservatore, ma sa guardarsi intorno e cogliere le sfumature e le posizioni politiche più diverse:“23 agosto 1855 – Alla chiusura dell’anno scolastico Ginnasiale .., presente Vescovo e Municipio” pronuncia un discorso sull’influenza del Cristianesimo nel Medioe-vo. Discorso “… molto applaudito dal Vescovo, non dal Segretario M. perché vi svolgo idee antirivoluzionarie”. Non sappiamo chi sia celato sotto l’iniziale M., ma è evi-dente che in Adria c’erano dei democratici, o almeno dei progressisti, che non apprezzavano le idee conservatrici espresse dal Bocchi.L’Austria intanto pur proseguendo la sua politica polizie-sca e di oppressione non trascura alcune opere pubbliche che hanno il compito di favorire lo sviluppo economico del territorio. Vengono pertanto, tra il 1852 e il 1855, garan-tite con lavori di scavo alla foce e due dighe l’officiosità di Porto Levante e la navigabilità del Canalbianco, si attiva il telegrafo, si pensa all’illuminazione civica a “gaz”; nel 1857 è aperto il Ponte di Boara sull’Adige per la via di Monselice e Padova senza alcun pedaggio. Tutte innova-zioni che portano progresso, anche se è diffusa la convin-zione nell’intero Lombardo-Veneto che l’Austria prelevi dal territorio con la sua politica fiscale più di quanto restituisca con un governo che apre ad alcune innovazioni in campo economico.

E arriva il fatidico 1859, l’anno della II Guerra di Indipen-denza italiana.“S’accendono gli animi dopo il discorso di Napoleone III al ricevimento del 1° d’anno. Previsioni belliche. Tafferu-glio a Padova in occasione del funerale del Prof. Zambra (di fisica) fatto dalla scolaresca. Chiusura dell’Università. Fu chiusa poco prima anche Pavia per l’assassinio (politi-co) d’un professore di essa” annota il Bocchi, che eviden-temente ricava le notizie dai giornali del momento. Anco-

di Giuseppe Pastega

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agli accadimenti d’Italia (le annessioni delle Romagne, della Toscana e dei Ducati) ci dà l’indicazione della sua propensione o posizione politica: “Animi s’acquetano, perché rivoluzione procede, ma io osservo che prende indirizzo antireligioso”.Per trovare un’altra annotazione di carattere politico bi-sogna attendere il 4 luglio 1860, quando la spedizione dei Mille è già avanzata, ed è una annotazione per certi tratti stupefacente se consideriamo che si riferisce alla tranquilla Adria ri-masta sotto lo stato poliziesco au-striaco: “Molta gente in duomo all’ultima messa per solenniz-zare Natalizio di Garibaldi. Molte chiamate al Com-missario. Il Vescovo [il veneziano Camillo Ben-zon] sgrida Bennati [il sacerdote celebrante] che si giustifica”. Tra le righe osserviamo la netta distinzione degli adriesi in due posizioni politiche: gli antiaustriaci e pa-trioti [non si dimen-tichi che 5 adriesi stanno combattendo con i Mille] che ap-poggiano la spedi-zione e già seguono il mito di Garibaldi, e i fi-loaustriaci, forse per po-sizione clericale più che politica, evidentemente autori di quelle “molte chia-mate al Commissario” perché intervenga.E intanto è ripreso l’esodo degli emigrati, tanto che si parla di “seque-stro da farsi dei [loro] beni”. L’espatrio non sempre riesce per la difficoltà di attraver-sare il Po, “due annegano in Po di Goro”, e l’attenzione delle pattuglie di confine che hanno “ordini severi di far fuoco” soprattutto dopo che di fronte a una nuova coscri-zione, ben 6500 uomini per tutto il Veneto, “ricominciano più numerose le migrazioni”.Intanto Garibaldi è entrato a Napoli dopo la fuga del

re Francesco II (12 settembre 1860) e ha riportato una vittoria sul Volturno (1-2 ottobre) dove “vi sono molti di Adria”, tra cui in tal “Scarpa (Gatto) ferito in una coscia”.Minute annotazioni si susseguono e testimoniano il clima del momento: “24 settembre 1860 – Gendarmi intimano e Commissa-rio prega sia levata bandiera tricolore da una rascana

[forse una imbarcazione per il trasporto di cereali] proveniente da Badia” e nello stesso mese

“giunge altra rascana che non leva ban-diera”.

L’anno dopo, l’1 giugno 1861, “Per festeggiare Statuto Sardo

[è stata già dichiarata il 17 marzo la formazione del Regno d’Italia] sono acce-si vari fuochi del Bengala in più parti della città”. I festeggiamenti a sfon-do patriottico manda-no in bestia la gen-darmeria tanto che avviene “l’arresto del farmacista Botner fal-samente imputato”. Viene liberato dopo 10 giorni di carce-re. La resistenza e il dissenso nei confronti degli Austriaci, in for-me più o meno eclatan-ti, si espande sempre di

più in tutto il Veneto. Si-gnificativa la nota del 13

giugno 1861 che riporta un episodio veneziano che

coinvolge Adria indirettamen-te: “Messa fatta dire a S. Marco

per l’anima di Cavour[morto il 5 giugno]. Misure di Polizia. Perquisi-

zioni. Arresti anche di signore. La Con-tessa Labia dà 100 fiorini al parroco di S.

Maria Zobenigo…Poco dopo il V. Gasgnoni che aveva fatto di tutto per salvare dall’arresto la Goretti sua mo-glie, ammala e muore: Fu mandato a prendere in Adria per assisterlo Mr. Colli [canonico della Cattedrale, primo prefetto del Ginnasio vescovile di Adria e Vescovo della stessa diocesi dal 1867 al 1868]”.

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ra una volta i tumulti nel Veneto partono dall’Università di Padova, ma il dissenso (qualche storico ha chiamato il de-cennio 1849-1859 “l’epoca del dissenso”) è ormai vasto, profondo e generale in tutte le classi sociali. A Venezia la Fenice è chiusa per protesta patriottica nel giugno 1859 e riaprirà solo nel 1866. I balli e le feste austriache sono disertati, oppure vi si presentano le dame vestite di bian-co rosso e verde. Intanto aumentano i “rumori bellici e l’Emigrazione [diviene] copiosa e continua dal Lombardo-Veneto in Piemonte. Idem in Toscana e dal Pontificio”. I giovani, soprattutto per evitare la lunga e aborrita ferma austriaca di ben otto anni, si sottraggono con l’espatrio e corrono ad arruolarsi numerosi nell’esercito piemontese o nella brigata dei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi.“1859 – 20 maggio. Da due mesi anche Adria dà molti emigrati. Molti passano anche per di qua. Sono assisti-ti…. M. e T. sono del Comitato segreto d’Emigrazione” [Comitato segreto adriese costituito da Alfonso Turri, ade-rente a quelli veneti e al Comitato Centrale di Torino]. Adria, terra di confine, è infatti un centro di attivo soste-gno per coloro che vogliono passare il Po.[lungo la linea del Po agiva Pietro Pegolini, sfuggito all’arresto in Adria]. Presto la città è presidiata fortemente: “3 giugno – Giun-gono in Adria 3000 austriaci, parte dei quali va in Aria-

no ed alle Bocche di Po”. In Adria si teme che si voglia tagliare gli argini dei fiumi per frenare con allagamenti pilotati eventuali avanzate nemiche. La guerra inoltre non è favorevole agli austriaci di fronte all’avanzata franco piemontese in Lombardia. Ecco che allora “Sciami di im-piegati austriaci di Polizia inondano il Veneto provenienti dall’evacuata Lombardia”. Eppure nonostante l’infittirsi delle sentinelle “ogni notte vien passato il Po da Emigran-ti”. L’andamento della guerra visto dall’osservatorio pe-riferico di Adria è annotato puntualmente da Francesco Antonio Bocchi: la gravezza delle truppe da foraggiare (circa 3000 uomini sono posti a carico della sola Adria), requisizioni di buoi e carriaggi (2500 buoi devono esse-re consegnati dall’intero Polesine, 65 da Adria), le voci sulle battaglie e su quanto accade negli stati vicini. “24 giugno – Oltre Po tutto in Rivoluzione. Legati [i Cardinali governatori per lo Stato Pontificio] fuggono da Ferrara e Bologna. Popolazioni aderiscono a Vittorio Emanuele II”. Segue la notizia delle cruente battaglie di Solferino e San Martino (25 giugno) e dell’armistizio di Villafranca. E il “13 luglio – Bullettino annunzia firmati preliminari di pace. Veneto rimane all’Austria. Scoraggiamento. Brutti giorni”. Il Bocchi non esprime precisi giudizi, si limita il più delle volte a registrare, anche se una frase relativa

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Sono gli anni in cui il dissenso politi-co contro l’Austria si manifesta sem-pre di più anche in Adria tanto che il nostro F.A. registra brevemente:“1864 – Giugno – Immoralità, cor-ruzione, canzoni oscene a carico specialmente di donne sospettate amanti militari”. Fino ad arrivare ad una sorta di rivolta amministrativa organizzata: “1864 – luglio – Il par-tito Or. [forse Bernardo Ortore capo dei democratici adriesi] cerca che nessuno sia nominato podestà e che sia posto un incarico governativo. Il Commissario persuade i tre della terna [il Consiglio Comunale espri-meva una terna tra cui veniva scelto dal Governo austriaco il Podestà] ad accettare (Vianello. Lupati. Poli) e la spedisce alla superiorità”, ma poco dopo, il 15, “Il Commissario trova un foglio di ingiurie attaccato alla sua porta”.E arriviamo al 1866, l’anno dell’unione del Veneto all’Italia. Ecco una scheda più lunga del solito:“ 28 maggio - Emigrazione prende proporzioni sempre più vaste; spe-cialmente dopo ordine di leva di 6400 nel Veneto ( di cui ad Adria toccano 100) … Dicesi che il Pode-stà spenda molto pegli emigrati (noi assistiamo M. B.do, F. e A.M.) ciò forse principio di sua rovina? Proce-de alacremente spianata di Rovigo” [gli Austriaci prima di ritirarsi nel quadrilattero si preparano a far sal-tare i quattro forti costruiti attorno a Rovigo]1 giugno – Muore all’ospedale di Adria dopo pochi dì uno ferito dal-le Guardie di Polizia, mentre si ap-prestava a passare il Po con altri. Si nominava Lodovico Ferrari. Pessimo vivere a Rovigo. Pressione qui ed in Lusia per far emigrare i giovani. Peri-coli sospetti immoralità4 giugno – Diverbi al caffè. Allusioni

piccanti5 giugno – Lettera ingiuriosa all’ag-giunto Taxis [funzionario austriaco di guarnigione ad Adria]”. Non possiamo dalle sigle sopra riportate identificare di chi si tratti, ma sottoli-neiamo l’azione del Podestà in aiuto degli emigrati, il fermento sempre più vivace ed il fatto che per la prima volta F.A. Bocchi sembra prendere posizioni antiaustriache, dichiaran-do di dare assistenza a qualcuno che cerca di espatriare.A questo punto le schede che si ri-feriscono agli avvenimenti locali dell’intero 1866, alla III guerra di indipendenza e alla ricongiunzio-ne del Veneto all’Italia si fanno nu-merose (ben quaranta), dandoci la sequenza dei convulsi e a volte contraddittori avvenimenti visti da Adria: Domenica 24 giugno ven-gono levate le insegne imperiali au-striache dai luoghi pubblici e diffuso un proclama a stampa del Generale Franzini comandante delle truppe italiane che stanno per attraversare il Po a Bottrighe su un ponte di bar-che quasi terminato. Anzi ci sono in città “vaghe voci di pattuglie a Lama e a Bresega”. In lontananza si sente il rombo dei cannoni da ovest. Mol-ti credono che giunga da Rovigo, “ma è Custoza!” . La situazione si fa caotica per la partenza con la truppa dei rappresentanti austriaci. F.A. il 25 giugno ci dà una scheda piuttosto confusa accennando ad av-venimenti e rivalità politiche locali: “Anarchia. Intorno arresto voluto da alcuni di varii (fra cui me) è da andar molto cauti, perché se S. era un vio-lento ed altri con lui, poco leale era anche L.V. e L.L. e si può sospettare esagerate molte cose da costoro per gravare sul partito Oriani [esponente dei moderati]”. Le sigle non permet-tono di individuare gli attori di que-

sto momento, ma è chiara l’esistenza in città di diversi gruppi che mano-vrano per impadronirsi dell’ammini-strazione comunale. A complicare la situazione e l’incertezza del mo-mento basta il mancato arrivo delle truppe italiane. Anzi il 26 giugno all’alba “comparisce pattuglia di 12 ussari[austriaci]: vedono tre bandie-re. Tentano forzar porta Casellati. Il Podestà parte a piedi, va per pon-te S.Andrea e si cela in campagna. Come vengono prese dagli ussari le bandiere. Pistolettate al Palazzo Municipale. Guardie fuggite.” Sono i momenti successivi alla battaglia di Custoza, quando il Generale Franzi-ni viene richiamato sul Mincio a rin-forzo delle truppe del Cialdini. Adria viene nuovamente occupata da trup-pe austriache. Sono gli ultimi giorni del dominio asburgico con qualche episodio di segno opposto:“1 luglio – Domenica. Sull’argine di Panarella Ing. Pagan arrestato da gendarmi condotto in Adria. Maltrat-tato, poi legato fu condotto a Rovigo con iscorta di cavalli e fanti”. Ritenu-to probabile spia o per delazione di un certo Targa, fu liberato qualche giorno dopo. Giunge infine l’ordine di partenza definitivo da Adria de-gli occupanti austriaci: “Domenica 8 luglio. Ordine improvviso che parta Taxis con tutta truppa e gendarmi, e guardia di finanza. Alle 9 partono Croati, poco dopo gli altri. Resta Mi-lani cui s’accordano 12 fucili e pochi altri pe’ comuni limitrofi”. Questo Mi-lani è di fatto un “praticamente com-missario posto come reggente” per gestire l’ordine pubblico in attesa della nuova amministrazione italia-na. Nel frattempo “tornano emigran-ti e fuggiaschi”. Il 12 luglio (giovedì) “Strepiti evviva perché un Biasioli di Adria ufficiale italiano venne a sa-lutare i suoi Si spiegano bandiere”,

ma a conferma dell’incertezza del momento “municipio le fa levare”. A questo punto è un continuo susse-guirsi di brevi schede che testimo-niano una sorda lotta in città tra le due tendenze politiche contrappo-ste: Martedì 17 luglio, ad esempio, il Commissario governativo[Antonio Allievi, nominato dal Governo Italia-no Commissario per la Provincia di Rovigo] comunica la sospensione del Consiglio Comunale convocato per il giorno dopo, cosicché “entrambi i partiti sono per ora paralizzati”. Sabato 21 luglio “Ordinanza Muni-cipio per formazione ruoli Guardia Civica giusta leggi del Regno d’Ita-lia. E’ in Adria ……Si vede con B.L. e P.P. [Bortolo Lupati e Pietro Pegoli-ni, entrambi di fede mazziniana]. La città ha ripreso andamento relativa-mente tranquillo”. Tanto tranquilla in realtà non deve essere la competizio-ne politica se qualche giorno dopo segnala: “1866 – lunedì 23 luglio. Manifesto Allievi pubblicato. A sera notizie battaglia di Lissa.Mercoledì 25, giovedì 26. Muri im-brattati W Oriani, abbasso Milani e Giunta.27 venerdì. Oriani chiamato a Ro-vigo. 28 Sabato. Nominato Podestà dal Re (ossia dal Commissario Allie-vi). Suo manifesto imbrattato la notte.Domenica 29. Poesie per Oriani Po-destà. Città imbandierata. Banda”.La competizione politica come si vede si è trasferita presto sui muri della città, con contumelie e offe-se dirette ai vari contendenti. Poco dopo, l’1 agosto, essendo stata sciol-ta la “vecchia Congregazione pro-vinciale di Rovigo”, così era chiama-to il Consiglio Provinciale durante la dominazione austriaca, il Consiglio Comunale di Adria nomina deputati provinciali provvisori Fortunato Via-nelli e G.Battista Salvagnini, nell’in-

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tento di normalizzare una situazione che tuttavia rimane ancora turbata da manifestazioni di contrapposto indiriz-zo politico:“1866 – Agosto 3 Venerdì. …Seguono fatti qui nuovi … grida notturne: viva la Repubblica. Viva Garibaldi – Mor-te a Napoleone – Morte al Re”.Tutto il mese di agosto è caratterizzato da episodi simili, o perché, nominato Comandante della Guardia naziona-le Ferrante Zen compaiono “cartelli sui muri contr’esso, e che richiedono a Comandante G.B. Salvagnini” , o per-ché “Si vende infame foglietto intitolato: dottrina Garibal-dina” [scritto fortemente anticlericale e perciò inviso al nostro Bocchi], o perché si intendono “ogni notte grida sediziose”. In qualche occasione le controparti si trovano d’accordo, magari nel tentativo di fare i conti con chi si era maggiormente compromesso come collaborazionista degli austriaci: “Venerdì 17 agosto. Mattino giungono due carabinieri. 4 pomeridiane altri due conducono il famigerato Cocchieri (detto Freguglia) a stento salvato dal furor popolare (era spia a danno degli emigrati)”, mentre nello stesso giorno altri carabinieri si stanziano nell’ex Caserma dei Gendarmi nella piazzetta del grano (attuale piazza Oberdan), forse per presidiare una città che non si dimostra poi tanto tranquilla: compaiono anco-ra sui muri alcune scritte inneggianti alla Repubblica con un inedito e nostalgico “W S. Marco” oltre che una più sediziosa “Morte al Re V. Em. II”.Concludiamo con la scheda “1866 – domenica 21-22 ottobre. Plebiscito. Io sono della presidenza in Duomo. Banda la sera. Unico NO del Canonico Paolucci”. La circoscrizione di Adria diede il seguente risultato: SI’ 5134, NO 1, in sintonia con quello dell’intero Veneto: SI’ 641.758, NO 69, voti nulli 273. La lunga strada del Veneto verso l’Italia era compiuta, anche se le cifre sopra riportate non possono che far pensare ad una attenta regia del Governo Ricasoli che gestì il plebiscito. Il successivo 26 ottobre in Cattedrale venivano comme-morati solennemente i caduti per la libertà d’Italia con una messa celebrata da Mons. Sante Tretti e un discorso di don Costante Businaro nel quale affermava che “reli-gione e patria sono amori che devon ardere nei petti di tutti”.In Adria tuttavia le dispute elettorali molto vivaci e i disor-dini tra liberali costituzionalisti-moderati da un lato e radi-cali, repubblicani e anticlericali, con punte di socialismo, dall’altro continueranno per decenni.Infine da “Il Polesine” del 12 dic. 1866, riferendo sui risultati delle elezioni amministrative di Adria, si legge:

“Non si sa comprendere come in una città eminentemen-te patriottica vengano eletti taluni che rappresentano l’elemento austriaco, che dominarono dispoticamente, che perseguitarono accanitamente i liberali, mentre riu-scirono dimenticati patrioti onesti e sinceri i quali brandi-rono le armi per cacciare lo straniero”.

F.A. BOCCHI E ALCUNI PROTAGONISTI DEL RISORGIMENTO ADRIESE

Francesco Antonio Bocchi (1821 – 1888)

Di nobile famiglia presente in Adria fin dal 1300, figlio del notaio Benvenuto, si laureò a Padova nel 1847 in Giurispru-denza. Insegnò materie letterarie nel Ginnasio vescovile dal 1853 alla morte. Letterato e storico tra i più importanti del Polesine, ricoprì cariche pubbliche nella sua città: per circa un ventennio fu consigliere comunale; fu anche presidente della casa di riposo “Renovati” aperta nel 1852 e presidente della Fabbriceria della Cattedrale e della Società Filarmonica Adriese. Socio dell’Accademia dei Concordi di Rovigo. Eredi-tò dal padre il Museo Archeologico di famiglia, fondato alla fine del Settecento dal nonno Francesco Girolamo, lo diresse e lo ampliò con competenza e passione, conducendo scavi in Adria. Nel 1871 fu nominato ispettore degli scavi archeolo-gici del Polesine. Fu socio dell’Istituto Archeologico di Roma e Berlino, della Deputazione di Storia Patria di Venezia, col-laboratore dell’Archivio Veneto, dell’Archivio Storico Italiano e dell’Istituto di Storia Lettere ed Arti di Roma. Copiosa ed importante la sua produzione letteraria, storica ed archeolo-gica. Alla sua figura è stato dedicato nel 1990 dall’Associa-zione Culturale Minelliana il Convegno di Studi Storici “Fran-cesco Antonio Bocchi e il suo tempo (1821.1888)”.

Don Costante Businaro, nato ad Adria nel 1821. Sacer-dote dal 1845 e insegnante nel Ginnasio vescovile dal 1846. Nel 1848 aderisce al movimento rivoluzionario. Cappellano militare nel 1848 a Cornuda presso il generale Durando e poi all’assedio di Venezia. Rientrato ad Adria nel 1849, fu arrestato nel 1851 e nel 1852. Nel 1842 era procancelliere vescovile. Nel 1857 è arciprete di Polesella e aiuta i patrioti ad attraversare il Po. Nel 1870 ad Adria, dopo un discorso, benedisse la bandiera consegnata solennemente ai superstiti del 1848/49. Muore a Polesella nel 1903.

Bortolo Lupati, nato nel 1812. Mazziniano. Partecipò ai tumulti dell’Università di Padova nel 1848. Fu alla difesa di Venezia.

Pietro Pegolini, studente di ingegneria a Padova. Mazzi-niano, dal 1840 iscritto alla Giovine Italia. Nel 1841 scontò nove mesi di carcere per disordini studenteschi a Padova. Tornò ad Adria solo nel 1851. Nel 1852 fu arrestato al caffè della Civica in Adria; mentre lo traducevano a Venezia sotto scorta, a Cavarzere riuscì a fuggire e ad emigrare con l’aiuto di Massimiliano Raule. Tornò ad Adria per amnistia nel 1856. Nel 1858 sfuggì ad un altro arresto e riparò oltre il Po. Nel 1859 fu volontario nell’esercito piemontese. Tornò ad Adria nel 1860 e scontò dieci giorni di prigione.

Don Sante Tretti, cappellano a Venezia. Morì a Firenze nel 1870.

Alfonso Turri, medico. Si trasferì da Padova ad Adria dopo il 1849. Moderato cavouriano. Attivo nel comitato veneto per l’emigrazione. Assessore comunale nel 1867, sindaco nel 1869.

Gaetano Zen, nato nel 1822. Studente di medicina dal 1842 al 1844 a Padova. Interruppe gli studi per “grave tra-sgressione di polizia”. Li riprese nel 1850, ma forse non si laureò Volontario nel 1849 a Venezia. Nel 1859 si arruolò come ufficiale medico nell’esercito sabaudo. Venne congeda-to dopo Villafranca .Partecipò alla spedizione dei Mille come ufficiale medico. Non rientrò in Adria e si stabilì a Milano (aiutato dal medico garibaldino Agostino Bertani). Nel 1863 partecipò come ufficiale medico all’insurrezione della Polo-nia contro i Russi. Tornò ad Adria dopo l’unione del Veneto all’Italia. Morì il 27 maggio 1867, probabilmente di malaria.

Volontari adriesi nel 1859: 67

Volontari adriesi nel 1860: 70

Volontari adriesi nel 1866: 150

Le immagini di questo articolo sono tratte da “il mito di garibaldi”ARCILIBRI, 2007

Sopra in questa pagina: Rapporto attestante la perquisizione dell’abitazione dell’arciprete di Polesella Don Costante Businaro

Pag. 14: “Garibaldi a cavallo”, inizi XX sec. Sagoma in cartone ritagliato.Cromolitografia, 320x250 mm.

Pag. 17: “Garibaldi”, XIX sec. Litografia dipinta a mano, 590x440 mm.

Pagg. 18/19: “Garibaldini, les volontaires de Garibaldi n. 327”, litografia Epinal, XIX sec., soldatini da ritagliare, 400x270 mm.

(Collezione di Alessandro Ceccotto)

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Anche Rovigoè una

“Città gentile”

di Alessandra Tozzie Bruna Giovanna Pineda Ogni due giorni in Italia una donna muore a causa della violenza

domestica. A volte si comincia con un semplice schiaffo, a volte sono le parole a cadere pesanti come macigni sulla donna, tanto

da farla sentire inerme, incapace di reagire. La prima reazione da parte del-le vittime è il rifiuto dell’accaduto. L’uomo che amano, la persona che dorme loro accanto ogni notte non può essere un violento… Continuano a ripetersi che è stato un episodio sporadico, che il loro compagno è stressato per il lavoro o ha solo esagerato con l’alcool; quest’uomo chiederà loro scusa,

magari con una carezza o un mazzo di fiori, e tutto tornerà come prima. In questo modo possono trascorrere anni di violenze fisiche e psicologi-che subite in silenzio, senza la forza di raccontare a nessuno l’umiliazio-ne di essere diventate “vittime”. Poi c’è la paura. Paura di non essere credute, paura di essere giudicate, paura di perdere i figli e di trovarsi invischiate in peripezie burocratiche a causa di separazioni non volute, paura di non essere in grado di mantenersi e di provvedere ai propri figli. Il fenomeno della violenza di genere è così diffuso nel mondo da aver dato origine a un neologismo. Con il termine “femminicidio” oggi si

intende ogni forma di discriminazio-ne e violenza rivolta contro la donna “in quanto donna”. E’ la violenza di genere in ogni sua forma, l’esercizio di potere che l’uomo esercita affin-ché il comportamento della donna ri-sponda alle sue aspettative e a quel-le della società patriarcale, la violen-za e ogni forma di discriminazione esercitata nei confronti della donna che disattende queste aspettative. Esempio eclatante di femminicidio è il caso di Ciudad Juarez in Messico: qui si stima che siano state seviziate e uccise 3100 donne nel 2010, e ben 300 solo nel primo mese e mez-zo del 2011. Non si conoscono gli autori delle violenze, o forse troppo

spesso la società finge di non co-noscerli. La caratteristica principale che accomuna i casi di femminicidio è lo scarso valore attribuito alla vita della donna, al quale si aggiunge un’estrema brutalità realizzata at-traverso stupri, torture, mutilazioni, spesso consumati in famiglia, per mano di parenti, compagni, cono-scenti o amici. Purtroppo si tratta di un fenomeno trasversale che interes-sa tutte le classi sociali. Nel mondo, ogni 8 minuti, viene uccisa una don-na. Il dato è emerso da un’indagine relativa all’anno 2003 presentata da Josè Sanmartin, direttore del centro spagnolo per lo studio della violenza Santa Sofia. La violenza domestica

“Flash mob” del 25 novembre 2010 in occasione della “Giornata contro la violenza sulle donne”

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è la prima causa di morte nel mon-do per le donne tra i 16 e i 44 anni: il marito, il fidanzato o l’amante, a volte anche i figli, uccidono più del cancro, degli incidenti stradali e del-le guerre. In Italia il maggior studio statistico sull’argomento è una ricerca svolta dall’ISTAT nel 2006, dal titolo “La violenza contro le donne”. Dallo studio emerge che “il fenomeno della violenza fisica e sessuale degli uomi-ni contro le donne ha riguardato un terzo delle donne che vivono in Italia: sono, infatti, 6 milioni e 734 mila (il 31,9%) le donne vittime di tali violen-ze nel corso della propria vita”. I cen-tri antiviolenza hanno diffuso alcuni dati che si basano su parametri diver-si, ma che raccontano comunque di un fenomeno, quello della violenza in famiglia e nello specifico sulle don-ne, “drammaticamente in crescita”. Nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna. Oggi l’Italia detiene il triste primato in Europa per le liti intrafamiliari.Nonostante ciò, difendersi dalla vio-lenza di genere è possibile. Prima di tutto riconoscendo i segnali di violen-za: una donna non deve mai sotto-valutare gli episodi in cui il partner le manchi di rispetto o si approcci a lei in modo violento; è importante abituarsi a parlare con amiche o co-noscenti della propria vita di coppia, non per creare pettegolezzi, ma per confrontarsi su temi condivisi, come l’essere moglie, l’essere madre, l’es-sere una donna che lavora. La violenza può assumere varie for-me, come illustra il portale Internet del Ministero delle Pari opportunità dedi-cato alla tutela delle donne. Con il termine di “violenza sessuale” si intende ogni imposizione di prati-che sessuali non desiderate. Il “mal-trattamento fisico” comprende ogni

tipo d’intimidazione o azione in cui venga esercitata una violenza fisica su un’altra persona: esso va dal sem-plice schiaffo all’uccisione. Si parla di “maltrattamento “economico” rife-rendosi ad ogni genere di privazione e controllo che limiti l’accesso all’in-dipendenza economica di una perso-na. Il “maltrattamento psicologico”, infine, identifica ogni forma di abu-so e mancanza di rispetto che leda l’identità della donna. Esso accom-pagna sempre la violenza fisica ed in molti casi la precede, convincendo chi ne è oggetto di essere una perso-na priva di valore, il che può determi-nare in essa l’accettazione di ulteriori comportamenti violenti. Si tratta spes-so di atteggiamenti che si insinuano gradualmente nella relazione e che finiscono con l’essere accolti dalla donna, al punto che spesso essa non riesce a vedere quanto siano dannosi e lesivi per la sua identità.E’ importante che in ogni ambito del-la società vengano diffuse informa-zioni sull’esistenza di centri specializ-zati in grado di aiutare le donne in difficoltà. Uno di questi centri è attivo anche nella nostra piccola Rovigo: si tratta del Servizio Antiviolenza, nato nel 2008 e ubicato presso il Centro Don-na Interculturale in via Donatoni 4, di fronte alla Questura. In esso sono presenti un’assistente sociale, una psicologa e un’avvocata, che forni-scono consulenza gratuita di tipo so-ciale, psicologico e legale. Le donne che approdano al centro non sempre hanno le idee chiare su ciò che in-tendono fare: l’unica loro certezza è il desiderio di uscire dalla situazione di violenza in cui si trovano. Alcune cercano aiuto per ottenere la sepa-razione dal marito, altre chiedono di essere accompagnate presso servizi e percorsi istituzionali di emancipa-

zione, altre ancora chiedono solo di essere ascoltate o di intraprendere la via del sostegno psicologico, che può durare da qualche settimana a diversi mesi.Il Servizio Antiviolenza è in rete con gli altri servizi del territorio: Servi-zi Sociali del Comune, consultorio dell’ASL 18 di Rovigo, Forze dell’Or-dine e associazioni di volontariato. Recentemente, per formare gli opera-tori e per creare una relazione anco-ra più stretta tra gli agenti territoriali che operano per la prevenzione del-la violenza, la Provincia di Rovigo, in collaborazione col Comune, ha aderito ad un progetto promosso dal Ministero delle Pari Opportunità chia-mato “Città Gentili”. Nell’ambito di tale progetto si è costituito un parte-nariato composto da Provincia di Ro-vigo, Comune e Cooperativa L’Arco di Portogruaro, Associazioni Xena e Mimosa di Padova, Coop. C.M.C. Hope e Associazione di Promozione Sociale Ametiste di Rovigo. Tra gli obiettivi più importanti del progetto vi sono la formazione degli operatori, la sensibilizzazione dei cittadini sul tema della violenza e l’elaborazione dei dati relativi ai casi di violenza sul-le donne nei territori interessati .In conclusione, è importante sottoline-are che la violenza sulle donne è un fenomeno sommerso, che può essere efficacemente contrastato tramite la prevenzione: la diffusione delle infor-mazioni sull’argomento può aiutare le donne a non sentirsi sole e a trovare il coraggio di denunciare gli episodi di violenza già al loro primo manifestar-si; l’informazione riveste inoltre un’im-portanza fondamentale per aumenta-re nella società la consapevolezza di quanto il fenomeno sia grave e diffu-so, e rafforzare in essa gli anticorpi che possano aiutarla a combatterlo e a debellarlo una volta per tutte.

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nismo d’accatto ora tanto di moda. Forse la Carboneria, per non essere riuscita nell’intento di dare subito un’impronta costituzionale e unitaria all’Italia, non appare, se non a sen-sibili studiosi, come propulsore del-le aspirazioni nazionali; forse una lettura frettolosa della storia porta a considerare (e non è la prima volta), il Polesine marginale nel processo di unificazione. Eppure, passano dalle zone rivierasche del Po, da Crespi-no, Occhiobello, Polesella e Calto, fino a Rovigo e Fratta, i fermenti di libertà frammisti alle inevita-bili sconfitte. Storia di idee e storia di uomini (e donne) per un terra di confine, fatalmen-te aperta a influenze diverse.Dissolta senza colpo ferire a Campoformido la decrepita Serenissima repubblica (che verso il Rodigino non era mai stata prodiga se non per l’interesse esclusivo di Vene-zia), il Polesine napoleonico è un territorio instabile che si barcamena tra miseria e alluvioni, coscrizione per le continue guerre e brigantag-gio, tanto che Crespino vive un moto di ribellione verso la domi-nazione francese. Con l’asservimento al nuovo padro-ne, giungono però i principi della rivoluzione che instillano il verbo liberale in parte della nobiltà, della borghesia e delle menti più istruite. Princìpi, costruzioni statuali, che evolvono in senso illuministico il rap-porto tra stato e cittadino e tra i po-teri. Così, quando l’Austria consenti-rebbe anche una pace letargica sot-to l’egida imperiale, vi è chi non si rassegna a un mondo che si richiude in se stesso, magari sotto un’ammini-strazione efficiente, ma estranea al carattere della gente. Tra impiegati,

militari, persone che ambiscono a ruoli di rilievo nella società emerge la sofferenza della perdita di spe-ranza nell’evoluzione delle proprie aspirazioni. L’intellighenzia liberale considera realizzabile una ribellione mediante la partecipazione alle set-te segrete, di cui la Carboneria è la più importante e diffusa. Nel 1815 paiono crearsi le condizioni per con-cretizzare gli auspici unitari. Gioacchino Murat, l’ex generale e cognato di Napoleone che lo aveva creato Re di Napoli, aveva cercato

l’indipendenza dal suo protettore con contorsioni politiche non troppo convincenti per gli Stati vincitori.Non appena Napoleone era fuggi-to dall’Elba, Murat aveva preso a risalire l’Italia accreditandosi cam-pione dell’indipendenza nazionale e lanciando quel Proclama di Rimini che sembrò infiammare gli animi di spirito unitario. Proprio di fronte a Occhiobello fallisce il suo tentativo di entrare nel Lombardo Veneto (7-13 aprile ’15), malgrado in Polesine agiscano possidenti come Carlo Ca-vriani, presidente della Municipalità estense sotto il Regno d’Italia, dispo-sto a far distruggere i suoi mulini sul

Po per facilitare l’ingresso di Murat; oppure Giuseppina Cecilia Monti, attorno alla quale ruoteranno tante vicende. Donna affascinante, nata a Fratta Polesine nel 1763, figlia di Francesco Giuseppe Monti e Lucre-zia Gallimberti, nipote di un genera-le del genio delle fortificazioni sotto la Serenissima, è entrata nel gran mondo per essere l’amante del duca Francesco IV di Modena, da cui ha avuto tre figlie e un maschio, Kunzer; è un’educatrice del figlio di Napole-one, il Re di Roma, e quindi in stretta

conoscenza con Maria Luisa d’Austria. Tre anni dura la vi-cinanza con la corte imperia-le, poi donna Cecilia ritorna nella natìa Fratta accompa-gnata dal generale francese Jean Baptiste d’Arnaud che nel frattempo ha sposato. Da lì ha modo di propagare a parenti e concittadini fidati, le idee sovvertitrici dell’ordine appena ricostituito. Si sposta quasi freneticamente, è rice-vuta da Napoleone all’Elba.Gioacchino Murat la incontra a Ferrara nei giorni prece-denti Occhiobello. Deve fa-

vorire un’accoglienza favorevole del Re di Napoli in Polesine e manda al fratello Sebastiano simboli adatti a mostrargli fedeltà. Nulla di tutto questo accade. Murat si ritira dal Po, in maggio è travolto a Tolentino, Napoleone in giugno è sconfitto a Waterloo e la nobildonna, che ha murato documenti compromettenti nel camino della residenza in villa Molin Grimani ora Avezzù, dopo qualche tempo torna a Fratta. Van-ta contatti con liberali italiani. Lo zio, Paolo Antonio Monti, anch’egli nato a Fratta, è gran maestro della Vendita Carbonara di Fermo. Nelle Marche nel 1817 dovrebbe scop-

Polesine 1815-1820

di Maurizio Romanato L’Europa, dopo la bufera napoleonica, non è più la stessa. Prostrata da 25 anni di guerre, subisce l’artificiosa ricostruzione del passato voluta dall’austriaco Metternich per salvaguardare le case regnanti d’ante-ri-

voluzione. Nel quadro della Restaurazione, nel 1815 gli Asburgo edificano il vicereame Lombardo Veneto creando la provincia di Rovigo.Questa, nel primo quinquennio d’esistenza, è teatro di vicende storiche base della prima cospirazione antiaustriaca nel segno dell’indipendenza italia-na. Se ne parla ben poco nei libri moderni, non soltanto quelli del revisio-

La cospirazione antiaustriacanel segno dell’indipendenza italiana

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piare un moto insurrezionale contro il governo papalino. L’insurrezione non si verifica, forse perché i codici segreti sono caduti nelle mani sba-gliate, o, soprattutto, per il vizio di base della Carboneria di restare un club di iniziati. L’intreccio carbonaro si realizza con Eleuterio Felice Fore-sti (Conselice 1789), laurea in leg-ge a Bologna e giudice di pace nel 1811 a Crespino per nomina fran-cese. Con il nuovo regime politico mostra di trovarsi ugualmente a suo agio perché, su incarico del conte di Wullersdorf, Imperial Regio governa-tore del Polesine (che si suiciderà per amore nel 1819 durante una battuta di caccia nel Delta), scopre le trame di coloro che vorrebbero la Transpa-dana ferrarese ancora affiancata a Ferrara. Vienna lo nomina nel 1818 pretore di Crespino, da lì Foresti favorisce la Vendita Carbonara di

Rovigo con succursali nella stessa Crespino e a Polesella. Si amplia an-cor più il cerchio dei patrioti, dalla famiglia Monti della Fratta a perso-naggi di Cavarzere (Antonio Molin, avvocato), a militari di Murat come Giovanni Bacchiega, possidenti qual è Costantino Munari di Calto, o il no-taio Antonio Villa di Fratta.L’avvocato Tommasi di Ferrara nella Locanda Ponzetti, ora pizzeria Due Torri, di Rovigo in occasione della fiera del 1817 affilia alla Carbone-ria 16 convenuti tra cui Vincenzo Zerbini, legato a Cecilia Monti da parentela acquisita, Giovanni Monti, entrambi di Fratta, Natale e Vincen-zo Maneo di Polesella.La cena dell’11 novembre 1818 organizzata da Cecilia Monti e dal marito in villa a Fratta cui partecipa-no Molin e Foresti, Villa e il cappel-lano don Marco Fortini, imparentato

con la nobildonna, e chiamato come insegnante del quattordicenne Kun-zer, si chiude con il brindisi al Re di Roma, Napoleone II, che dovrebbe diventare negli auspici dei convenuti il nuovo re dell’Italia indipendente e unita, magari sotto la reggenza di Maria Luisa, ora duchessa di Parma.C’è un po’ d’ingenuità e forse una visione non chiara dei possibili even-ti e della loro realizzabilità. Tan-to basta alla voce del popolo per pensare a chissà quali trame ordite alla presenza di un prete. Il sospetto transita per Roma che riferisce tutto alla polizia austriaca. Un mese dopo partono gli arresti. 4 dicembre: An-tonio Molin, racconta quasi tutto; il 6 Cecilia, Sebastiano e il generale francese, di seguito gli altri, con An-tonio Villa, fino al 6 gennaio 1819: Foresti viene prelevato in ufficio, con Giovanni Bacchiega, smantellando

l’organico della Pretura di Crespino; con loro il medico 32enne Vincenzo Carravieri. Seguono la lunga istrutto-ria, la detenzione a San Michele e ai Piombi di Venezia. C’è chi parla (Villa soprattutto) e coinvolge i soda-li, come lo sfortunato conte Ferdinan-do Oroboni nella cui cappella della villa di Fratta si trovano giuramenti carbonari e quella Constitutio Latina base giuridica dello stato ipotizzato dai cospiratori e scritta da Costanti-no Munari a Bologna nel 1818. Poi è tutto noto. Cecilia, espulsa dal Lom-bardo Veneto, muore mentre si sta re-cando in Francia il 13 giugno 1819 in un albergo tra Milano e Torino. Foresti mette la polizia austriaca sul-le tracce dei patrioti lombardi (Con-falonieri e Pellico); le 13 condanne a morte sono commutate in carcere duro (20 anni allo Spielberg per Vil-la, Foresti, Solera e Munari, 15 per Bacchiega, Fortini e Oroboni), altri vanno al castello di Lubiana. Orobo-ni muore in prigione a 32 anni nel 1823, Villa a 40 nel 1827.Fortini e altri sono graziati succes-sivamente: Foresti a 47 anni, nel 1836, va in America, dove diventa console, quindi amico di Garibaldi che presenta a Cavour a Genova e muore nel 1858 a 69 anni.Il Polesine, da tempo, non è più tea-tro delle cospirazioni unitarie. Godrà della libertà e dell’unione al Regno d’Italia nel 1866, quando gli austria-ci abbandoneranno il territorio tra Po e Adige alle truppe del genera-le Cialdini, mentre diversi suoi figli come il dottor Antonio Monti di Frat-ta, nipote di Federico e della stessa famiglia di Cecilia, sono a fianco di Garibaldi nella conquista del Trenti-no fermata a Bezzecca dall’Obbe-disco del Generale tanto amico del lendinarese Alberto Mario.

A pag. 26: Fratta Polesine, Villa Molin - Avezzù

A pag. 27: Fratta Polesine, Monumento ai “Carbonari della Fratta”

A fianco: Fratta Polesine, Villa Oroboni

A pag. 29: la lettura della condanna al Conte Oroboni in una stampa del tempo (collezione privata); in “Dove finisce il fiume” Amm. Prov. di Rovigo, 1998

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di Dimer Manzolli

BosgattiaUna Repubblicanel “secolo breve”

www.deltaradio.it

LA RADIO DI ROVIGO

“Dopo i pesci e gli uccelli, i primi a giungere nella Lanca erano stati i cacciatori e i pescatori.

Poi, trascinando i battelli per l’erba, trasci-nandoli sulle spalle da un canale all’altro fino al fiume e risalendo lungo la fascia delle gole-ne, l’avevano scoperta e Bosgattesi. Per dormirvi, avevano addirittura rovesciata la barca sopra il letto di reti ancora umide….”Così inizia il libro del prof. Luigi Salvini “Una tenda in riva al Po – 14 racconti di Basgattia”, Marzocco 1957. E’ questa una delle storie più affascinanti che Po riesce a raccontare grazie Luigi Salvini, lo slavista di fama mondiale che su di un’isola, che il grande fiume formava a Panarella di Papozze, su-bito dopo l’incile tra il Po di Venezia e il Po di Goro, costituì una sua repubblica autonoma, “Repubbli-ca di Bosgattia”, dove si stampava moneta che aveva valore soltanto nei sogni, condivisi da centinaia di studiosi che nello Stato di Salvini trascorrevano le vacanze estive, a contatto con la natura, senza regole se non quelle del rispetto e della solidarietà reciproca.Luigi Salvini, nato a Milano nel 1911, verso i vent’anni era già noto per il suo singolare impegno linguistico e per la sua preparazione nel campo filologi-

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sare” la barca, riordinare ami e lenze, esaminare il mo-tore a seconda che si voglia andare a pesca, esplorare il fiume o arrivare sino all’Adriatico.A Bosgattia le case sono semplici tende; il gas forni-sce la luce; niente letture, niente radio, niente notizie che interessano l’altro mondo, quello al di là dei confini dell’isola. Ma, come sostiene lo stesso Salvini, per la felice posizione geografica la Bosgattia costituisce una tappa d’obbligo per i turisti stranieri che a fitti sciami da vicino e da lontano si precipitano a visitare il paese e ad ammirare, invidiosi, la felice vita dei suoi abita-tori, malgrado la lunghezza del viaggio e gli ostacoli che la provvida natura ha posto per limitare l’afflusso e l’invasione. Il turismo – aggiunge – si è andato svi-luppando con notevolissima, preoccupante rapidità, la Repubblica, onde farvi fronte, ha costruito ben due ampi complessi tendelizi, il “Caravanserraglio degli Ospiti” e la “Casa dello sbafatore di turno”. I turisti che si trattengono oltre due giorni hanno l’onore di essere assoggettati a tutti i lavori, i servizi, le prestazioni diurne e notturne dei bosgattiani. Gli stranieri, muniti di lascia-passare, sono soggetti al loro ingresso a firmare il “Liber Barbarorum”, testimonianza dell’indecoroso loro stato di alfabetismo. Hanno visitato Bosgattia: pittori, scultori, stagnai, contadini, scrittori, bovai, balie, gatti, aviatori, giornalisti, cani sciolti, ingegneri, operai idraulici, finan-zieri, soldati, capitani di lungo e corto corso, professori, abbonati alla “Gazzetta dello Sport”, lettori di fumet-ti, cartolai, notai, mugnai, avvocati, gasisti, panettieri, giunti dalla Romagna, Sicilia, San Marino, Austria, Ju-goslavia, Frascati, Piemonte, Lombardia, Verona, Sve-zia, Sardegna, Provenza, Germania, Centocelle, Stati Uniti, Stato Città del Vaticano, Svizzera, Lazio, Parigi, Marche, ecc. ecc…Se i visitatori esterni hanno bisogno di lasciapassare, i bosgattiani sono dotati di passaporto che viene rilascia-to su parere del Consiglio degli Anziani dalla Presiden-za della Repubblica. La moneta avente corso legale a Bosgattia è il çievaloro che circola in bellissime banco-note stampate e controfirmate a mano; esistono pezzi da 1, 5, 50, 100, 200 çv; il cambio è di 1 çv per 5 lire, un marco tedesco vale 30 çv, un franco svizzero 27 çv, un dollaro 124 çv, una sterlina 350 çv. Regolarmente stampati e colorati a mano anche i francobolli, sono da 1, 2, 3, 5, 6, 8, 10, 15 çievaloro, esistono valori per la posta aerea (12 çv), pacchi (25 çv), espresso (20 çv); un valore di 14 çv è stato emesso per celebrare il decennale della Repubblica. I francobolli servono ad

co, tanto che qualche anno più tardi venne nominato ispettore centrale per l’insegnamento delle lingue del Ministero della Pubblica Istruzione (probabilmente era ed è stato l’unico funzionario che a 25 anni si è trovato ad un tale grado nell’Amministrazione dello Stato). Nel 1947 gli venne conferita per chiara fama la libera do-cenza in filologia slava.In Polesine il prof. Salvini, seguace di Diana, trovò i suoi due grandi amori: la moglie, la signora Matelda, figlia del celebre musicista adriese Nino Cattozzo, e la bel-lezza di questa terra incontaminata, una bellezza che volle far conoscere agli altri, soprattutto ai tanti amici in tutta Europa.Il periodo della guerra parla soltanto di paure, distruzio-ni, dispersi, morti. Ma con la liberazione si fa galoppa-re la fantasia. Si esce da un lungo letargo per “pensare” in libertà.E Luigi Salvini fa nascere la sua Tamisiana Repubblica di Bosgattia dove uomo e natura diventano un tutt’uno. E così la golena di Panarella, là dove il Po, dopo esser-si separato dal Po di Goro, fa un’ampia ansa, con un fascino selvaggio e sempre mutevole, secondo l’ora e il tempo, assume il ruolo principale.Chi andava alla “Tamisiana repubblica di Bosgattia” non poteva certo mettersi a pancia al sole, ma per vive-re doveva arrangiarsi con quello che offriva la natura, del resto molto generosa, cacciando e soprattutto pe-scando.Non dobbiamo essere tratti in inganno dal termine dia-lettale “Bosgattia”, nel dialetto di queste zone “bosgato” vuol dire maiale, la spiegazione viene dallo stesso Salvi-ni quando scrive “… Se chiedete oggi infatti ai Bosgat-tiani perché si richiamino al Tamiso o al Bosgatto, essi vi spiegheranno a muso duro come il filtro pronubo del pane alluda solo alla rete che tamisa le acque e che essi maneggiano con singolare perizia; e come parlando di Bosgatto essi non si richiamino più tanto al più utile e misconosciuto animale domestico, sacrificato all’ingor-digia ed all’ingratitudine umana, quanto allo storione, la più grassa e grossa delle prede fluviali, che essi inse-guono, in verità senza troppa fortuna”.Nella repubblica la vita inizia a luglio e finisce quan-do settembre riserva all’uomo giornate sempre più corte per riprendere l’anno successivo.La giornata ogni mattina inizia all’alba con l’alzaban-diera, poi, mentre il sole incomincia appena a lambire le cime dei pioppi, i bosgattiani si avviano al lavoro stabilito la sera prima. Bisogna preparare le reti, “ripas-

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ornare le lettere e le cartoline. Se queste hanno la fortu-na di arrivare a destinazione senza far pagare la multa al destinatario costituiscono una preziosa rarità filatelica. Nell’isola la popolazione “soffre” di una eccellente salute e ciò costituisce una grave e permanente minaccia per l’ordine mondiale dei Medici. Vari tentativi fatti per ricon-durre la Repubblica nell’orbita dei pazienti d’Esculapio non hanno sortito alcun esito. Corre voce che un paio di medici ed un farmacista, dopo essere penetrati nel terri-torio bosgattiano allo scopo di compiere opera di sobilla-zione, siano stati colti da improvvisa pazzia ed abbiano gettato in acqua, per mancanza di ortiche, il camice bian-co e il ricettario. Salvini tuttavia ammette che due forme di malattia cronica accompagnano il bosgattiano. La prima è la “mangite” o febbre vorace che dà violenti attacchi tre o quattro volte al giorno di solito all’avvicinarsi dell’ora dei pasti; la seconda è la “bosgattite” morbo stagionale con uno strano decorso. Durante l’inverno ha forma più blanda ed è rivelato dall’improvviso pulsare disordina-to ed impetuoso del cuore ogni qualvolta si parli della “Bosgattia”, dalla furia predatrice che coglie gli individui quando scorgono persone o cose che possono essere in qualche modo utilizzate durante il risveglio estivo, quin-

di una recrudescenza tormentosa all’avvicinarsi di luglio. Questo morbo può essere vinto soltanto cambiando subito clima ed ambiente. Raggiunto il territorio della Repubbli-ca la guarigione è assicurata. Sul fronte culinario nella Repubblica la cucina è collettiva e comune e si servono piatti tipici del luogo: la minestra di pesce alla bosgatta, il risotto di cefalo, il rinatto (carpa) arrosto, i cefali alla griglia, i caifa (pesce gatto) in umido, i bisatti (anguilla) “da re”, le uova alla bosgatta, il tamiso d’insalata mista. Ottimi i meloni e le angurie. La dogana è molto rigida e non permette l’ingresso a tratte e cambiali da pagare, giornali e riviste, libri di ogni genere, radio, grammofoni. Sono, inoltre, escluse senza appello le persone afflitte da malumore, reumatismi, musoneria e quelle che affliggono il prossimo con discorsi scolastici, filosofici e con barzel-lette di seconda mano. In questa sorta di zona franca del sentimento, all’insegna della libertà dai condizionamenti del quotidiano, la vita continuò felice sino al 1955. Il prof. Salvini, uno dei più preparati ed applauditi messaggeri della cultura italiana all’estero, stroncato da un morbo che non perdona, morirà il 5 giugno 1957. Di Bosgattia vive ancora il ricordo nel cuore di quanti hanno avuto la fortu-na di fare quella singolare esperienza.

Dimer Manzolli è stato relatore in un incontro organizzato nel mese di aprile ad Arquà Polesine dall’Associazione TERAdaMAR sul tema: “Ciò che non si conosce attrae… Una storia sconosciuta del Polesine, una storia di attua-lità”, in cui ha delineato la figura del Prof. Luigi Salvini.

TERAdaMAR nasce in provincia di Rovigo nel 2010 dal-la volontà di Daniele Bergantin (geologo), Maria Chiara Gualandi (laureata in lingue), Lorenza Perini(storica), Ros-sella Ruzza (geologa) e Stefano Turolla (storico dell’archi-tettura). Nel suo nome sono racchiusi la mission e le radici che la contraddistinguono: una terra da amare e al tempo stesso una terra che prende vita dal mare.

TERAdaMAR intende infatti promuovere il territorio attra-verso il monitoraggio, la gestione, la salvaguardia, la tu-tela, la valorizzazione e la divulgazione del patrimonio culturale, archeologico, storico, artistico, architettonico, ambientale ed etnografico.

Nel suo statuto è contemplata la promozione e il coordi-namento di studi e ricerche da attuarsi anche in collabo-razione col mondo accademico, con gli Istituti Culturali, gli Enti Locali, le scuole e con altre associazioni; la pro-mozione e l’organizzazione di convegni, mostre, eventi, conferenze, corsi di aggiornamento e di formazione per studenti, insegnanti, tecnici ed operatori culturali. Nella sua breve vita associativa, l’Associazione TERAdaMAR ha organizzato una serie di incontri volti alla conoscenza e alla divulgazione di aspetti meno conosciuti, ma non per questo meno interessanti, del territorio polesano (“Opifici sull’acqua. Il mulino natante sul Po tra storia, cultura ma-teriale ed immaginario” ad Occhiobello; “Ciò che non si conosce attrae… Una storia sconosciuta del Polesine, una storia di attualità” ad Arquà Polesine; “A ritroso nella venezianità, da Loreo a Corte Cavanella passando per Tornova” a Loreo) spesso frutto di personali ricerche stori-che dei componenti del gruppo associativo. La conoscen-za del passato come forza propulsiva per una presa di coscienza del territorio attuale è alla base anche del nuo-vo progetto che vedrà protagonisti contemporaneamente alcuni Comuni della provincia rodigina e la Fondazione Cariparo nell’autunno prossimo.

Sopra: il çievaloro, la moneta avente corso legale a Bosgattia

A sinistra: cartolina postale speditadall’isola di Bosgattia

Nella pagina seguente: passaportodella Tamisiana Repubblica di Bosgattia

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La mia nazionalità è rumena, ho ventuno anni di età e vivo in Italia da circa metà decennio, da quando ho deciso spontaneamente di segui-re i miei genitori che all’epoca si trovavano nella Penisola per motivi di lavoro. La mia non è una storia drammatica, poiché andare via dal mio Paese non ha significato allonta-narmi dalla famiglia in cerca di una vita migliore, bensì andare ad abita-re stabilmente con i miei che prima, sempre per motivi di lavoro, riusci-vano a tornare in Romania durante i loro congedi. La mia può essere dunque vista come una storia “al ro-vescio”, in cui la partenza è stata ne-cessaria per ritrovare le mie origini.Questo non vuole e non deve esse-re un resoconto della mia storia, ma questi piccoli dettagli li ho ritenuti im-portanti e necessari per la compren-sione delle mie impressioni riguar-danti la Festa nazionale di una Na-zione che mi ha adottata da poco (o che ho adottato da poco, chissà…). Nel mio caso, preferisco sempre usare parole come “adottare” per descrivere il mio rapporto con l’Ita-lia, poiché semanticamente nascon-dono qualcosa di intimo, di umano e di affettuoso. Preferisco “adottare” persino alla parola “integrare”, visto che quest’ultima comincia ad essere troppo burocratica e fredda, proba-bilmente perché associata a un im-pegno o, meglio, a un dovere che si compie con fatica e senza molta

voglia. Durante la Festa nazionale italiana, sentivo come la mia città, Adria, non si lasciasse sfuggire l’oc-casione di sfoggiare il patriottismo.Da cinque anni, da quando abito in Italia, questo è stato il primo anno in cui una Festa tipicamente italiana è riuscita a rimanermi impressa nella memoria. E le ragioni non sono tante ma, a quanto pare, sono state suf-ficienti a farmi aggiungere nel mio registro mentale la data di 17 Mar-zo accanto a quella del 1 Dicembre, data della celebrazione della Festa nazionale rumena. Intanto, come pri-ma ragione, confesso che, a forza di sentirlo in televisione, ho finalmente imparato le prime parole dell’inno italiano che prima avevo soltanto letto da qualche parte senza riuscire ad afferrarne il messaggio di fondo.Sottolineo “a forza di sentirlo in te-levisione” perché non vorrei che qualcuno pensasse che un giorno mi sia rinchiusa nella mia stanza a imparare l’inno: non perché sareb-be negativo, ma semplicemente non è questa la verità. Sapere le prime parole dell’Inno del Paese ospitante non è affatto un aspetto superficia-le, almeno non per chi preferisce la parola “adottare” a “integrare”. Poi, sempre traendo spunto dall’inno ita-liano, vorrei soffermarmi su un punto che mi sembra alquanto interessante.Ho notato che, mettendo a confronto i miei due inni, rumeno e italiano, ci sono delle somiglianze non proprio

insignificanti a livello lessicale e con-cettuale. Torniamo sempre alla mia fede nell’importanza delle parole, grazie alla quale tendo a credere che non sia un caso il fatto che in en-trambi i testi si faccia riferimento alla sveglia del Paese (“L’Italia s’è de-sta”; “Destati rumeno” - primo verso dell’inno rumeno) che non ha paura della morte in battaglia per conqui-stare una vita di gloria (“Moriamo piuttosto in lotta con piena gloria” - inno rumeno) e di vittoria (“Dov’è la Vittoria?/Le porga la chioma,/che schiava di Roma/ Iddio la creò.”).Ecco, è meglio se finisco qui questo tentativo di analisi, poiché non sono affatto in grado di offrire nozioni o certezze. È sicuramente significativo il fatto che la Festa dell’unità italiana mi ha spinta a riflettere non solo sulla Storia italiana, ma anche su quella rumena e europea nel senso più am-pio. Si tratta della Storia di due Paesi apparentemente diversi che per me si sono sondati in un unico inno in cui essenzialmente si canta l’amore per la libertà e per una vita priva di schiavitù. La conclusione la vorrei sfruttare per modificare una sempli-ce espressione che ho usato sopra e che ora non mi soddisfa più. Invece di “giovani italiani o immigrati”, è forse meglio dire “giovani italiani” o “giovani immigrati-italiani”. Comun-que sia, europei e appartenenti al mondo.

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PAROLE

Due Paesi, un solo inno

Quando mi è stato chiesto di contribuire a questo numero della rivista REM con una riflessione sull’Unità d’Italia ho provato un’emozione particolare, come provo ogni volta che il mio punto di vista da

immigrato non viene ignorato. Ciononostante, ammetto un certo imbarazzo di fronte all’importanza di un argomento che, a mio avviso, non dovrebbe mai essere messo in disparte dalle coscienze dei giovani. Giovani italiani o immigrati.

di Anamaria Girdescu

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REM

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PAROLE

Scatti in rapida sequenzasull’Isola di Albarella

di Monica Scarpari

Foto di Caterina Lodo

Le immagini e i ricordi lontani nel tempo, che la mente talvolta ci restituisce, soprattutto quelli che riguardano la nostra infanzia, mescolano e confon-dono realtà e fantasia: mi rivedo bambina in una barca in viaggio con

i miei genitori e altra gente verso l’isola di Albarella. Una distanza breve, da Adria dove abito, ma un viaggio che sembra non finire mai. Sì, credo di esserci arrivata in barca, la prima volta, ad Albarella, quando ancora non c’era quel

lembo arginale che da tempo unisce la strada Romea all’isola, quella lunga e stretta striscia di asfalto che si snoda verso il mare tra l’acqua che riempie le valli e l’ultimo tratto di Canalbianco. L’isola, ai miei occhi di bambina, appariva come un luogo magico, diverso da qualsiasi altro, un posto dove mi sentivo sciolta dal controllo costante dei miei genitori; per altri versi, una specie di “paese dei balocchi”, un misterioso, immenso e rigoglioso giardino dove scoprire continua-

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PAROLE

mente cose nuove e inaspettate, insoli-te e piacevoli. Spaziare in libertà con la bicicletta, scivolare per le strade con i pattini a rotelle, spostarmi con il trenino turistico, trascorrere la giorna-ta con poche cose addosso e scalza in quell’ambiente un po’ selvaggio, naturale e pieno di verde.Ho presto imparato a salire in sella ai cavalli, a seguire con gli sci d’acqua la scia di un motoscafo, a vagare in solitudine dentro una canoa alla ri-cerca di piccole insenature, a tuffarmi e nuotare nell’acqua tranquilla dei fiordi, a passeggiare verso sera o al mattino presto lungo un’interminabile spiaggia libera a volte senza incon-trare anima viva, a godermi tramonti infuocati su un argine sterrato tra l’ac-qua delle valli.L’adolescenza e la gioventù hanno poi allargato i miei orizzonti, cambiando ed alterando la coscienza dei luoghi. Mi sono spinta alla ricerca di nuo-vi spazi, ho conosciuto persone, ho frequentato gruppi, in sintonia con il mio modo di concepire una vacanza. Neppure adesso che sono adulta con-sidero Albarella un’Isola per vip.

Non lo è o io non l’ho mai vissuta come tale, neanche quando un tempo ne poteva avere tutte le caratteristiche. E’ un luogo eclettico, Albarella, un po’ camaleontico, usando la fantasia po-trebbe ricordare una donna volubile, un po’ pigra, capricciosa e imprevedi-bile. E’ una specie di grande villaggio vacanze che non ha niente a che fare con i luoghi turistici da “passeggiate in centro la sera”; è un posto tranquil-lo, dal vivere “lento”, che facilita la socializzazione tra le persone di ogni età forse proprio per quanto offre: non molte cose ma diversificate tra loro, un luogo dove ciascuno può trovare quel che cerca in base alle proprie esigen-ze o all’umore del momento.Mi sono spesso allontanata dai rumori di una discoteca correndo a un pic-colo bar, tranquillo e informale; dalla casa e dal giardino di qualcuno dove ero rimasta giorni senza avvertire l’esi-genza di uscirne a un gruppo di spor-tivi che praticano ininterrottamente uno stile di vita integrato nella natura. Sono uscita di casa in vestito da sera per ritrovarmi al ristorante accanto a commensali in ciabatte e bermuda,

proprio perché ad Albarella nessuno ci fa caso, anche se si potrebbe sup-porre il contrario.Mi sono confusa in luoghi affollati di gente con una gran voglia di appa-rire, conoscere e divertirsi, ed ho tra-scorso momenti indimenticabili facen-do “due passi” o qualche pedalata in bicicletta, estraniandomi dal mondo, nella quiete più rilassante, senza che nessuno mi potesse più trovare.Ho scelto coscientemente un ombrello-ne in mezzo ad altri cento, perdendo-mi in chiacchiere tutta la giornata ed ho cercato il luogo giusto per stende-re il mio asciugamano sulla spiaggia libera con un buon libro come unico compagno.Albarella si odia o si ama. E chi la ama non riesce a non tornarci, anche solo per pochi giorni in un anno, quan-do l’isola diventa un punto di ritrovo, di rinnovato incontro per persone che la frequentano da sempre, e che nella sua geografia minuta ritrovano le cose semplici da fare in compagnia, risco-prendo la noia e il torpore del dolce far niente, tra un giro in pedalò tra le insenature del fiordo, una chitarra

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PAROLE

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PALCOSCENICO

Il Teatro Sociale di Rovigo200 anni dal sapore eroico

di Milena Dolcetto

C’è un luogo a Rovigo dove tutti siamo stati, dove le emozioni e gli ideali si fondono con la

storia, con quella di tutti e poi con quella proprio nostra. La gente del Po-lesine. E’ il Teatro Sociale: dal 1819 ad oggi. Ovvero quasi 200 anni dal sapore eroico: una luce accesa e una speranza. Quella di fare cultura e far innamorare il pubblico e ancora farlo crescere con una coscienza pulita e

vera, con uno spirito critico lucido e con un bagaglio intellettuale di spesso-re. Ecco il proposito della Società del Teatro, costituitasi proprio nel ‘19 ma già operativa in embrione ma fattiva-mente dal 1815, tanto da pianificare e dare vita alla costruzione del nuovo teatro di Rovigo. Che infatti si chiama Sociale. Un miracolo non tanto impro-babile, vista l’attività artistica di cui godeva la città già da metà Seicento,

ma senza dubbio un grande e incredi-bile successo, se si pensa comunque alla posizione poco fiorente di questa zona rispetto alle altre realtà venete. Scrivere che i proprietari dei palchet-ti fossero spinti da nobili ideali verso tutta la popolazione forse non è pro-prio preciso: questi possidenti terrieri, borghesi e industriali di casa, aveva-no ottenuto con la loro quota il loro prestigio firmato, la giusta visibilità

attorno al fuoco sulla spiaggia, qual-che istantanea scattata all’alba o al tramonto, una rapida corsa in pineta a piedi o in bicicletta, una chiacchie-rata sotto il portico di casa. Tra ricordi comuni o riflessioni in solitudine, tra le immancabili zanzare e un po’ di umidità, nel rito del giocare a carte quando piove o nel ritrovarsi appiso-lati sul divano per un riposo fuori ora-

rio. Libertà, natura, sport, tranquillità, famiglia, amicizia, intimità, solitudine, serenità: a questo penso quando par-lo con qualcuno di Albarella, e questo è quello che mi basta, anzi è proprio quello che cerco, in una vacanza come io la intendo. - Un luogo surre-ale e inqualificabile. - lo definì un mio carissimo amico, abituato al caos di Milano, un tipo che aveva viaggiato in

mezzo mondo. Quella volta lo avevo “mollato” da solo in isola, lasciando-gli la casa in prestito in tre giorni di ottobre che si rivelarono pieni di piog-gia. Non convinto e anche annoiato quando accadde, adesso ne conserva un ricordo indelebile - incisivo e quasi mistico, - a sentir lui, e mi dice ogni tanto: - Dato che ci sono sopravvissu-to, sai… vorrei tornarci, prima o poi.

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luminazione a gas. Ma per compren-dere l’effervescenza del Gobbatti vie-ne in aiuto Nicolò Biscaccia, “nobile rodigino, socio dell’i.r. accademia di Padova, del trevigiano ateneo, ecc.”, letterato e elargitore di lavori in prosa di ottima fattura che scrisse: “(il Gob-batti) volle che tutto il restauro fosse splendido, di buon effetto, relativo in una parola a questi tempi svegliati. Volle per primo che anche la facciata illanguidita dal tempo fosse abbellita e che l’atrio fosse incrostato di marmo-rino e lucido. Si circondò dei migliori artisti, i quali secondarono felicemente la sua impresa. La maestà della por-ta d’ingresso, che dall’atrio introduce al teatro, è lavoro dei fratelli Voltolini intagliatori distinti di Lendinara. Nel mezzo dell’erta sta la bella testa do-rata di una Baccante, lavoro eseguito con distinzione sul grazioso disegno

del Signor Voltan... Il Professor Santi dipinse a tempera il soffitto, ornato di rilievi in legno dorato e arricchito di fiori intagliati con cinque gruppi di fi-gure rappresentanti le Muse. Tenendo i parapetti, dipinti a colori, con rilievi d’oro retti da eleganti mazzi di fiori; nel secondo ordine stanno giudiziosa-mente collocati i ritratti dei più celebri italiani per musica e cioè, Bellini, Do-nizetti, Mercadante, Pacini, Rossini, Verdi, con putti che stanno scrivendo sul libro dell’eternità il nome di quei figli di questo suolo immortale; nel ter-zo ordine si veggono alcuni putti che scherzano e portano emblemi allusivi alla commedia, alla tragedia... Il pal-coscenico fu intieramente rifatto, e così pure il meccanismo di scena ridotto a moderna scorrevolezza per opera del valente macchinista padovano Anto-nio Nalato. Le belle scene nuove sono

lavoro del pittore scenografo Signor Cesare Recanatini anconitano. Venne sensatamente eseguito un corridoio, per la porta del quale entrano i suona-tori e quelli che tengono scanno in tea-tro, tolto così l’incomodo di passare in mezzo alla folla del parterre nel quale nuovi e decenti sedili furono e seguiti”. L’incendio del 1902 non offre la pos-sibilità di apprezzare questi interventi ma quello che emoziona è con quanta profusione l’animo nobile di questo sensibile sostenitore regalò rinnovata luce al Sociale. Gobbatti ebbe a com-piere il suo progetto e il successo della nuova stagione interamente da lui fi-nanziata lo ripagò. Successivamente, ben dieci anni di mancate program-mazioni belcantistiche tennero i cuori dei rodigini in fibrillazione per poi restituire loro pace, in cartelloni mera-vigliosi, dopo il tormento dell’assenza.

Immagine del tardo ‘800 che rappresenta la Piazzetta (oggi Piazza Garibaldi) antistante il Teatro Sociale di Rovigo

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PALCOSCENICO

all’interno di quella struttura poco flu-ida allora come oggi che si definisce come “posizione sociale”. Ma grazie al cielo l’operazione “teatro” ebbe anche una utilità etica e in questi due secoli, dove almeno in parte la strut-tura piramidale della nostra piccola storia benestante si è modificata spin-gendosi a confini più orizzontali e ad impalcature meno definite, Rovigo ha respirato tanta cultura: tanta Arte di altissimo livello. Ma la storia la fanno le persone e ce ne sono alcune che meglio di altre tessono con passione e meriti le trame di quel tessuto sociocul-turale che spesso ci confonde le idee. C’è stato? C’è? Siamo consapevoli del nostro percorso e del nostro dna storico? Rovigo e i suoi abitanti sono stati sempre avidi di “grazie” a chi si è speso ma c’è chi ricostruisce la me-moria del nostro passato con un rigore

certosino e con un piacere nel sapere e nel tramandare che commuovono. E così si va a fondo nel trascorso un po’ sbiadito e a volte sconosciuto, quello che poi ha brindato all’Unità d’Italia quanto al celebre capolavoro in La Traviata. E vogliamo allora riportare un pezzo di storia approfondita sul vo-lume dedicato al Teatro Sociale edito da Marsilio a cura di Sergio Garbato. La sensibilità di un uomo lungimiran-te: il Cavalier Antonio Gobbatti. Finiti i moti del 1848 e calmate le acque degli ideali risorgimentali, il Sociale sosteneva le sue programmazioni con grandi sacrifici da parte dei palchet-tisti e solo grazie a mani generose e prodighe i presidenti che si passava-no il testimone potevano mantenere fede agli intendimenti. Ci furono però anni così bui che se il citato ricco pos-sidente terriero non fosse intervenuto,

il teatro avrebbe chiuso i battenti. Me-cenate, sponsor e attivo nell’organiz-zazione e nella scelta degli spettaco-li, Gobbatti pagò di tasca propria le stagioni dal 1844 al 1847. Quattro anni di successi e di attività coinvol-gente. E ancora profuse elargimenti per la stagione di fiera del 1858 e nello stesso anno fu determinante per il primo restauro del teatro. Un palaz-zo prestigioso in centro città dal quale gustare il dolce rintocco del campanile del duomo, il grado di Maggiore nel-la guardia civica rodigina dal 1848, una fuga repentina in Piemonte agli ordini del maresciallo Radetzky e poi il rientro per dedicarsi agli affari di famiglia e al “suo” teatro. Ecco l’im-ponente restauro che interessò tutto lo stabile del Sociale. Dal palcoscenico alle decorazioni, dal riscaldamento all’introduzione della tanto ambita il-

Facciata del Teatro Sociale di Rovigo

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SUONI

di Luca Belloni

Il popolo di VerdiL’opera verdiana tra aspirazionecollettiva ed anelito individuale

analoghe alle istanze irredentistiche ottocentesche, sono appositamente pensate per diffondere le idee di indipen-denza nazionale. Così dai Crociati che vogliono liberare la Città Santa dal giogo musulmano (I lombardi alla prima crociata) agli scozzesi oppressi dal tiranno (Macbeth) la galleria di al-lusioni alla situazione politica italiana spazia attraverso i secoli. Qual è dunque l’idea di popolo che sorregge la prima stagione della produzione verdiana? Ad un primo sguardo il “popolo” in Verdi è un’entità collettiva concor-de e tesa ad un medesimo scopo: riconquistare una (più o meno metaforica) “patria” che, manzonianamente, sia “una d’arme, di lingua, d’altare”. Ma è davvero tutto qui? Davvero possiamo leggere le opere del giovane, infuocato compositore come un solo monolitico inno alla concordia nazionale? Affinando lo sguardo notiamo che, fin dagli esordi, Verdi dedica una cura tutta particolare alla caratterizzazione di certi personaggi che, mano a mano, si emancipano dallo stereotipo operistico per dive-nire sempre più persone, entità dotate di un tale livello di

Giuseppe Verdi è da sempre considera-to uno dei simbo-

li del nostro Risorgimen-to. L’afflato patriottico

dei suoi cori (a partire dal celeberrimo “Va’ pen-

siero” del Nabuc-co che pure non aveva, nelle inten-zioni dell’Autore, immediata valenza “politica”) si inseri-sce infatti in costru-zioni drammaturgi-che che, attraverso l’escamotage della rappresentazione

storicizzata di situa-zioni evidentemente

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SUONI

determinazione umana e drammatur-gica da divenire familiari allo spet-tatore. Fenena, Ernani, Attila, Lady Macbeth (per citarne solo alcuni) sono davvero soggetti che esprimo-no vizi e virtù (dal sacrificio eroico all’abbrutimento sanguinario, fino al delirio psicotico) dell’individuo visto da Verdi sempre più come un coa-cervo inestricabile di bene e male. D’altro canto la nota venerazione del compositore per Shakespeare ci informa in maniera assai eloquente sul paradigma teatrale che, pur nella differenza dei mezzi espressivi, gui-da l’operato del musicista. Così le crude riflessioni di Rigoletto davanti a Sparafucile (“Pari siamo!”), la ra-diografia di un’anima innamorata fino al punto di essere capace del

supremo sacrificio (il meraviglioso duetto del II atto di Traviata), il si-smogramma del delirio di Azucena (in Trovatore) o l’angosciosa notte di Filippo II (Don Carlos), così simile per molti versi all’analoga notte del manzoniano Innominato, sono tassel-li che ci aiutano ad illuminare le pla-ghe oscure, le aspirazioni, i desideri più nascosti e le inconfessabili paure che ci abitano. “Niente di umano ritengo mi sia estraneo” insegnava Agostino e sulle sue orme si colloca anche Verdi, inesausto esploratore di ogni segreto palpito, di ogni infinite-simo moto del cuore. Nei suoi per-sonaggi possiamo trovare sempre al-meno una stilla di ciò che siamo e di ciò cui aspiriamo. Percorrendo que-sto doppio binario (l’affresco corale

e la lucida definizione del carattere individuale) possiamo dunque scan-dagliare le opere del genio di Busse-to ritrovandovi sempre nuovi spunti che ci permettano una vera immede-simazione oltre ad una reale crescita personale. Anche così, ci insegna il musicista, si può contribuire alla costruzione di una nazione che sia davvero tale. In fondo, sembra dir-ci il compositore fin dalle sue prime opere, per fare davvero un popolo è necessario che ognuno sia piena-mente se stesso e che, nella libera cooperazione, lavori per costruire un mondo nuovo, una nuova socie-tà modellata sui tratti essenziali che ciascuno riconosce come patrimonio comune. Anche in questo Verdi ci è stato Maestro.

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La mostra L’Italia unitaria illustra-ta 1861–1914 è stata allestita nella Sala Sichirollo dell’Archi-

vio di Stato di Rovigo, che ne è stato anche il promotore con la Provincia di Rovigo e il Comitato Provinciale per le Celebrazioni del 150° anni-versario dell’Unità d’Italia. Si è potu-ta visitare dal 19 marzo al 2 aprile e poi dal 10 al 17 aprile 2011 per la XIII Settimana della Cultura. La mo-stra è stata realizzata grazie al con-tributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.Mostra e catalogo sono state curate da Alessandro Ceccotto e Luigi Con-tegiacomo.

Il periodico illustrato come specchio della società italiana post-unitaria

Poche arti come la letteratura, pro-babilmente, possono vantare il meri-to, indiscutibile, di aver contribuito a “costruire” concetti che sono alla base del Risorgimento italiano ed eu-ropeo come Nazione e Patria, al di là dell’analisi – pur necessaria – su come tali concetti si siano andati for-mando e con quali e quante sfumatu-re e significati diversi si imposero, di-venendo valori condivisi, che solo la stolida e antistorica miopia odierna, alimentata da revisionismi di segno spesso contrario ma quasi sempre strumentali a ideologie politiche, può negare. Nel campo letterario un indi-scutibile apporto all’unificazione cul-turale dello Stato italiano è stato of-ferto anche, seppur spesso in modo indiretto, dai tantissimi periodici cir-colanti all’indomani dell’unificazione in Italia. Tali testate, spesso oggi ca-dute nell’ombra dell’oblio, molte del-le quali a firma di grandi autori della

nostra letteratura (Collodi, De Ami-cis, D’Annunzio, Bontempelli, per citare solo alcuni tra i più celebri), come di grandi illustratori (si pensi alle splendide tavole delle riviste umoristiche o quelle per bambini), incisori e disegnatori italiani del cali-bro di Severini, Beltrame, Galantara e Scarpelli, sorprendono per origina-lità e varietà e si affiancano in modo per nulla trascurabile ad altre più tra-dizionali forme letterarie dell’Otto-cento come il romanzo, il feuilleton, l’opera in versi, la cronachistica, il libretto dell’opera lirica etc.: tutte assieme tali diversissimi “linguaggi” hanno contribuito in modo irripeti-bile alla condivisione della lingua manzoniana, facendone l’idioma nazionale. I periodici illustrati ren-dono oggi, come allora, in maniera peculiare il contenuto dei messaggi che vengono tramandati all’immagi-nario collettivo con la stupefacente immediatezza di illustrazioni, carica-ture, strumenti della comunicazione di massa, di cui il nostro Ottocento è ben consapevole e cui contribuisce in modo straordinario la diffusione di nuove tecnologie editoriali, in grado di proporre, successivamente, anche immagini fotografiche, a basso costo e a prezzi popolarissimi.

La mostra ha offerto in questo senso un quadro esteso, anche se, per for-za di cose, incompleto, di tale com-plessa e straordinaria realtà editoria-le: infatti si è dovuta praticare una scelta, anche se dolorosa, tra una più ricca varietà di riviste disponibili. I 212 periodici, di 163 testate diver-se, che sono stati esposti e che, per fortuna sono anche stati pubblicati in un maneggevole catalogo, sono stati

di Alessandro Ceccotto

Copertina de “La Domenica Illustrata”, n. 1 del 20 dicembre 1914

Copertina de “La Gara degli Indovini”, n. 1 del 1886

A sinistra: copertina del catalogo della mostra “L’Italia unitaria illustrata 1861-1914”

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suddivisi nelle seguenti sezioni: i periodici Prima del 1861, dove sono esposte alcune testate illu-strate, nate soprattutto tra il 1834 (“L’Album”, “Teatro Universale”), ed il 1848 (“Il Fischietto”, “Il Don Pir-lone”, “Pasquino”, “Il Lampione”), queste ultime tutte satiriche e umori-stiche. La Tribuna, la Domenica e le altre, dove per “Tribuna” si inten-de la “Tribuna Illustrata” pubblicata tra il 1893 e il 1969, e per “Cor-riere” si intende la “Domenica del Corriere” del 1899 e per “le altre” si intende un’enorme quantità di ri-viste illustrate di attualità e di crona-ca, nate negli anni immediatamente successivi all’unificazione dell’Italia: l’”Emporio Pittoresco” (1864), “L’Il-lustrazione Popolare” (1870), “Il Secolo Illustrato” (1889); e poi nel nuovo secolo: “Pro Familia” (1900), “Il Mattino Illustrato” (1903), “La Set-timana Illustrata” (1910) e la “Do-menica Illustrata” (1914), di cui è esposto il raro primo numero. Altra rarità è sicuramente l’“Avanti della Domenica” (gennaio 1903), nato inizialmente come supplemento del quotidiano “Avanti!”. Primo direttore fu Alfredo Angiolini, sostituito nel set-tembre dello stesso anno da Savino Varazzani e da Vittorio Piva (figlio del generale garibaldino Domenico Piva di Rovigo e fratello dello scrit-tore e giornalista Gino). Questi, per aver voluto fare un’inchiesta sull’an-timilitarismo, entra in contrasto con l’”Avanti!” e con la direzione del Partito Socialista. Il Piva, pertanto, sottrae il periodico alle dipendenze del partito, costituendo la società editrice de “L’Avanti della Domeni-ca”. Il giornale durerà fino al marzo del 1907, anno della morte di Vitto-rio Piva. Caratteristica del giornale è quella di affidare la realizzazione

della copertina, compresa la grafica del titolo stesso, ad un artista diverso in ogni numero, così abbiamo Gino Severini, Luigi dal Monte, Filiberto Scarpelli. Tra i collaboratori si nota-no, tra gli altri: Massimo Bontempel-li, Gabriele D’Annunzio, Edmondo De Amicis, Filippo Turati. La terza parte è dedicata alle Illu-strate di lusso, cioè quelle riviste illustrate di grande formato e a volte stampate su carta pregiata, di diffu-sione non certamente popolare, con-siderato il prezzo di vendita. Si tratta di fogli rivolti alle classi più elevate, che privilegiano raffinatezza e lusso. Tra queste la più conosciuta è certa-mente “L’Illustrazione italiana”, nata nel 1874 e chiusa nel 1962 e poi ripresa, dall’editore Guanda, tra il 1981 e il 1996. Si passa poi alle Culturali, che si occupano appunto di cultura nel sen-so più ampio del termine: dal teatro, alla musica, all’arte, ai viaggi, alla letteratura, ma vi troviamo anche le prime riviste di passatempi ed enig-mistica, come “La Gara degli Indo-vini” nata nel 1875: prototipo delle tantissime testate dedicate al giocoso e al faceto, ma strizzando l’occhio all’erudizione. Un vero esercito di periodici per tutti i gusti e per tutte le tasche, tra cui si segnala “Cronaca Bizantina” (1881), la prima rivista diretta da Gabriele d’Annunzio. La sesta parte è dedicata alle rivi-ste Infantili, per la maggior parte indirizzate più alla formazione che allo svago. Si va da “L’Amico dei Fanciulli” del 1870 a “La Domenica dei Fanciulli” (1900), al famoso “Il Giornalino della Domenica” (1907) in cui verrà pubblicato a puntate Il giornalino di Gian Burrasca. Dob-biamo aspettare il 1908 (anche se per la verità “Il Novellino” (1899) fu la prima rivista con illustrazioni

Copertina de “L’Arte per Tutti”, n. 18 del 2 ottobre 1879

Copertina de “Musica e Musicisti”, n. 5 del 15 maggio 1904

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a colori con didascalie in rima) con l’uscita del primo numero del “Cor-riere dei Piccoli”, edito anch’esso, come la “Domenica del Corriere”, dal Corriere della sera, per vedere pubblicati i primi “fumetti” o racconti disegnati commentati da didascalie in rima e quindi i primi giornalini di puro svago per bambini. Tra le riviste Umoristiche sono presen-

ti testate conosciutissime come “Lo Spirito Folletto” (1861), “La Rana” (1865), “L’Asino” (1892), che sono entrate ormai a far parte della storia, ma anche altre molto meno conosciu-te e molto meno impegnate politica-mente: “La Luna” (1882), “Cri-Kri” (1887), “Il Telefono” (1889), “La Sigaretta” (1906), foglio piuttosto spinto per l’epoca. Forse il più raro e

particolare, anche per il piccolo for-mato, è “L’O di Giotto” (1890), inte-ramente disegnato e scritto da Luigi Bertelli detto Vamba, autore del cele-berrimo Gian Burrasca. Vi è poi una sezione dedicata alle riviste Catto-liche e clericali, da “L’Ateneo” del 1870 a “La Settimana Sociale” del 1909, in cui al di là di una visione tendenzialmente parziale e bigotta della società, dominata dal concet-to oramai consunto dell’assistenzia-lismo e del paternalismo, appaiono anche interessanti dibattiti politici ali-mentati dalle menti più progressiste di un Toniolo o di un Sichirollo, che coniugano saggiamente i principi as-sistenziali con la necessità di moder-nizzare il credito contrapponendo al credito rurale cooperativo di segno “rosso” quello “bianco” delle casse rurali. Un altro gruppo di testate è costituito da quelle che si possono considerare come le antesignane delle Sportive, come “La Caccia” del 1876, “L’Eco dello Sport” e “Lo Sport Illustrato”, ambedue del 1881. Nutrito è poi il gruppo dei periodi-ci Femminili a cui appartengono numerose riviste rare e graficamen-te molto belle e curate: “La Novità” (1864), “La Moda Illustrata” (1886), “Corriere delle Signore” (1898) solo per citare le più note, in cui tratto elegante e fotografie patinate fatica-no a mascherare la superficialità dei contenuti di pubblicazioni dedicate ad una componente sociale ancora emarginata sotto l’aspetto lavorativo e culturale, ma ricercata nei salotti in nome di un’estetica dell’apparenza che nulla ha a che spartire con i sa-lotti culturali delle poche ma grandi protagoniste del Risorgimento ita-liano come Cristina di Belgioioso o Jessie Whyte Mario. Si chiude con l’ultimo nucleo di periodici Scienti-fico-divulgativi e sul lavoro, dalla

rara “La Scienza a dieci centesimi” del 1864 a “La Scienza per tutti” del 1894, a tutte quelle riviste che venivano edite durante le molteplici Esposizioni di Torino e Milano.Leggendo i titoli delle testate, a qual-sivoglia categoria esse apparten-gano, non sfugge la ripetizione di alcuni termini, soprattutto per quelle edite nell’Ottocento. Prima di tutto il termine preferito nei titoli e nei sot-totitoli è sicuramente Illustrato con le sue varianti Illustrata e Illustrate, che si ripete per più di cinquanta volte sulle 164 testate scelte per la mostra. Il messaggio prevalente è far sapere che il giornale è illustrato, condizio-ne questa non comune, laboriosa e costosa per l’epoca e quindi un’attra-zione in più per chi l’acquista. Altri aggettivi piuttosto ricorrenti nei titoli e sottotitoli sono Universale o Univer-so, 12 volte, mentre Pittorico o Pitto-resco, termine quest’ultimo utilizzato soprattutto nelle testate più vecchie, assume lo stesso significato di Illu-strato, comparendo ben 7 volte.A questo punto è opportuno ricor-dare alcuni tra coloro che diressero alcune delle testate illustrate in cata-logo, soffermandoci sui direttori “ga-ribaldini” che dalla baionetta, con cui contribuirono alla nascita dello Stato unitario, passarono presto alla penna per fare di quello Stato luogo ideale della libertà di stampa e fuci-na di idee liberali.Napoleone Colajanni (Castro-giovanni, 1847 – 1921) direttore e proprietario di “Rivista Popolare”.Deputato, nel 1895 fu uno dei fon-datori del Partito Repubblicano.Ernesto Teodoro Moneta (Mila-no, 1833 – 1918) direttore di “La Vita Internazionale”. Unico italiano Premio Nobel per la Pace.Carlo Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini (Firenze, 1826 - 1890)

direttore del “Giornale per i bambi-ni”. Nel “Giornale per i bambini” (di cui fu direttore), uscì la prima punta-ta delle sue Avventure di Pinocchio.Per quanto riguarda la situazione dei periodici pubblicati nella provincia di Rovigo, nel periodo preso in esa-me, 1861-1914, escludendo quindi i 6 quotidiani usciti negli anni non oggetto di questo studio, si contano

nel territorio ben 33 testate. Di que-ste 5 non sono reperibili, ma ne ab-biamo notizia da recensioni su altre riviste e sono: “Il Birichino”, “Risve-glio”, “La protesta proletaria”, editi ad Adria, “Eco dell’Adige” di Badia Polesine e “El diga?” di Rovigo: la prima e l’ultima sono riviste umoristi-che. Delle altre 28 testate reperite, 15 sono state stampate a Rovigo, 12

Copertina de “Novellino”, n. 9 del 28 febbraio 1907 Copertina de “La Moda Illustrata”, n. 21 del 23 mag gio 1912

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a Adria e 1 a Lendinara (vedasi elenco completo a pagina 82). Aggiungendo le non reperite abbiamo la seguente distribuzione: 16 di Rovigo, 15 di Adria, 1 di Badia e 1 di Lendinara, situazione che ben riflette l’importanza dei rispettivi centri sotto l’aspetto demo-grafico e culturale. Non si esclude che ve ne possano essere state altre, tanto che “L’amico del popolo” è scoperta relativamente re-cente, non rilevata da Isa-bella Ledda nel fondamen-tale I periodici di Rovigo e provincia (1866-1926) pubblicato nel 1971 a Padova. La maggior par-te dei periodici polesani è di chiara ispirazione politica. A parte 2 di cui non si conoscono dati precisi, gli altri 16 sono: 2 liberali, 1 monarchico costituzionale/anticlerica-

le, 1 liberale progressista, 12 appartengono generi-camente all’area che oggi definiremmo di sinistra (repubblicani, democra-tici, radicali, socialisti e sindacali). E’ significativo che ben 10 di questi ultimi vengano editi ad Adria, ad ulteriore prova della voca-zione del Basso Polesine al dissenso politico, già manifesto prima dell’annes-sione del Veneto. Due titoli sono cattolici, 2 del mondo della scuola, 6 del mondo agricolo e 4 umoristici. Pra-ticamente nessun periodico locale veniva illustrato, a parte forse gli umoristici, che non essendoci perve-nuti non possiamo conosce-re nei dettagli, e un numero de “L’Amico del popolo” che in prima pagina mette la xilografia di un busto di Mazzini.

In alto: copertina de “La Tribuna Illustrata”,n. 23 dell’8 giugno 1902

A sinistra: copertina de “Il Bazar”, n. 6 del maggio 1876

A destra: copertina de “Avanti della Domenica”, n. 36 del 17 settembre 1905

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Come eravamo, è stato il ti-tolo della proiezione che il Foto Club Adria ha effettua-

to al teatro comunale di Adria la sera del 16 Marzo u.s. nell’am-bito delle celebrazioni del 150° dell’unità d’Italia. Una cinquantina di immagini si sono succedute sullo schermo attentamente seguite da giovani e meno giovani. I primi curiosi di vedere aspetti della no-stra città mai conosciuti; i secondi un po’ rimpiangenti il tempo che fu. A dire il vero, le strade libere da autoveicoli ed insegne stradali

sono più accattivanti delle attua-li fisicamente soffocate da auto, cartelli stradali ed insegne di ogni tipo. Basta guardare le foto attuali di ponte S.Andrea, piazza Grotto e riviera Matteotti per rendersene conto. Lo stesso corso Vittorio Ema-nuele all’altezza di Ponte Castello è inguardabile dal punto estetico con cartelli stradali che parzial-mente lo sbarrano e deturpato dai condizionatori appesi alle pareti esterne. Si salva un po’ Galleria Braghin anche se piena di cartel-loni e dove l’automobile in esposi-

zione degli anni ’30 è stata sostitu-ita dall’automobilina per bambini. E si potrebbe proseguire facendo il confronto con tante altre imma-gini di Adria ed anche dei paesi limitrofi. Le auto sono dappertutto! Nessuno vuole mette in discussio-ne la loro utilità e comodità, ma ci stanno ormai “stringendo” assieme all’annessa cartellonistica stradale. Possibile che la nostra intelligenza non trovi un rimedio, per migliora-re in definitiva la nostra stessa esi-stenza?

Come eravamo,come siamo

a cura del Foto Club Adria

Adria, Corso Vittorio Emanuele II

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Adria, Galleria Braghin Adria, Piazze Bocchi e Cieco Groto

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Adria, Ponte Castello Adria, Ponte Sant’Andrea

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Contarina, Parrocchia e Villa Carrer Contarina, Via Roma

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Adria, Riviera Matteotti

Vie E. Filiberto, 30ADRIA (RO)Tel. 0426.900455Fax [email protected]

ICONA DEL TUO PRESENTE

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PERSONAGGI

Giovanni Miani nel 1860 fu il primo europeo a giungere più a sud di qualsiasi altro nel

continente africano.Ma facciamo un passo indietro. Il 17 marzo 1810 viene alla luce a Rovigo un bimbo di cui solo la madre, Mad-dalena, è nota, mentre il padre rimane ignoto; e questo sarà un fardello che peserà per tutta la vita di Giovanni. Dopo poco la madre si trasferisce a Venezia al servizio di Pier Alvise Bra-gadin lasciando il figlio alla sorella Caterina che per quattordici anni lo cresce in condizioni di estrema pover-tà. Il 1824 è l’anno del trasferimento a Venezia e del “risveglio”, come lui stes-so scrive sui suoi diari, nella casa di SE Alvise Bragadin, discendente dell’eroe

Giovanni Miani da Rovigo, il leone bianco

di Matteo Veronese

Ritratto di Giovanni Miani, con autografo

disegno di A. Musatti, lit. Virano-Teano, Roma

in “Giovanni Miani”, a cura di G. Romanato,

Rovigo, Minelliana, 2005

scorticato vivo dai Turchi a Famagosta nel 1571 poco prima della battaglia di Lepanto. Qui Giovanni cresce tra gli agi con la possibilità di accedere ad una educazione di ottimo livello, de-dicandosi alla musica, all’arte e alla poesia. Nel 1834 eredita dal Braga-din una piccola fortuna che riesce a dilapidare in poco tempo. Nel tenta-tivo di affermarsi dà il via alla stesura di un trattato sulla storia della musica, un’opera ciclopica della quale verrà pubblicata solo una parte e che contri-buirà alla rovina economica di Miani. Sempre con lo scopo di cogliere gloria e onori, partecipa ai moti rivoluzionari del ‘48-49 ma deve fuggire imbarcan-dosi verso l’Egitto. Stabilitosi al Cairo continua la stesura del trattato e duran-te un viaggio di ritorno dalla Francia, dove era andato alla ricerca di un editore, partorisce l’idea di diventare esploratore dell’Africa alla ricerca del-le sorgenti del Nilo.Si butta a capofitto nella nuova impre-sa, studia l’astronomia, la topografia, la geografia e l’arabo, si inventa in-somma esploratore e riesce anche ad ottenere un piccolo finanziamento per una prima spedizione. Nel 1859 parte con il minimo di attrez-zatura ed una mappa da lui disegna-ta che lo guiderà ad esplorare zone sconosciute del Nilo bianco. Giunto a Galuffì deve fermarsi a causa di una rivolta di indigeni a cui si sommano una febbre incessante ed una piaga al piede. Rientra a Khartoum. L’impor-tanza delle sue scoperte convincono il viceré d’Egitto a finanziargli una nuo-va missione che termina in circostanze assai strane a Omdurman, porto di Khartoum, (un complotto per favorire la missione di Speke e Grant). Miani non si dà per vinto, parte per l’Europa alla ricerca di finanziamenti per prose-guire le sue esplorazioni. É ad un pas-so dal trovarli quando riceve la notizia

della scoperta delle sorgenti del Nilo da parte di Speke e Grant. Fu un colpo durissimo, non solo per la perdita del-la possibilità di esplorare l’Africa, ma soprattutto per la vanificazione di tutti i suoi sforzi per apportare onori e gloria al suo nome, cosa che fin da giovane lo angustiava. Si riapre una possibilità quando vie-ne a sapere che in molti mettono in

dubbio la scoperta dei due, e di fatto la corsa alle sorgenti del Nilo rimane aperta. Difficile reperire nuovi fondi, ma Miani decide di partire con un nuovo intento: la ricerca dei Pigmei.Il terzo viaggio ha inizio tra numerose difficoltà e imprevisti. La spedizione procede a fasi alterne attraverso vil-laggi e popolazioni che Miani cono-sce ma che sono pur sempre antropo-faghe. Giunto con la carovana nella provincia di Monbuttu (Zaire), il 21 Novembre 1872 a 62 anni muore so-praffatto dalle febbri. Sono proprio le popolazioni indigene che gli tributano gli onori e la gloria che lui tanto cercò in Europa. Da ogni

villaggio arrivano a rendergli onore le più alte cariche locali. Re Bunza, capo della confederazione denka, disperato per la sua morte, volle radergli la lun-ga barba bianca e appendersela al collo per mantenere su di sé lo spirito dell’amico. Il tamarindo sul cui tronco il leone bianco Giovanni Miani incise le pro-prie iniziali, nell’attuale Uganda, indi-cato in tutte le carte geografiche del tempo come il “Miani’s tree”, è entrato di diritto nella storia dell’Africa.Come lui stesso scrive nei suoi diari, Miani è una persona caparbia e osti-nata che vuole a tutti i costi lavare l’on-ta di non avere un padre, motivo per cui la sua infanzia è stata miserabile, in una Rovigo povera e malsana e della quale non parlerà mai. Rinasce, come lui stesso scrive, al suo arrivo a Venezia in casa del Bragadin, suo pro-tettore che lo metterà in condizioni di potersi scrollare di dosso i tempi bui passati, ma che nulla potrà fare per to-gliersi il marchio di “bastardo” che lo bollerà per tutta la vita in una società come quella veneziana del tempo bi-gotta e perbenista. Bragadin lo mette in condizioni di agio economico che però favoriscono lo sperpero scellerato del giovane Miani con lo scopo di af-fermarsi nella società veneziana, tanto che deve essere tutelato da un provve-dimento ufficiale che ne denigra ulte-riormente la fama. La continua ricerca di gloria per sopraffare e nascondere le origini infelici sono il motivo di una vita irrequieta e spericolata; prima si dà alla musica, spendendo denari per lezioni di mandolino a Napoli, poi si infervora per i moti rivoluzionari del ‘48 che lo costringono all’esilio forza-to. Il destino lo porta in Africa dove riesce a costruirsi una vita in un luogo dove nessuno guarda al suo passato, dove Giovanni Miani viene apprezza-to per le sue doti umane, le sue intu-

“Sempre con lo scopodi cogliere

gloria e onori,partecipa ai

moti rivoluzionaridel ‘48-49 ma deve

fuggire imbarcandosiverso l’Egitto

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PERSONAGGI

Virgilio Milani, monumento all’esploratoreGiovanni Miani (1931), Rovigo, Largo della Libertà,

in Antonello Nave “Virgilio Milani e la sculturadel Novecento nel Polesine”, Rovigo, Minelliana

izioni, e la sua capacità di stringere rapporti di amicizia e stima con popo-lazioni prima d’ora sconosciute. Miani si inventa esploratore, elabora un doppio piano di esplorazione del Nilo via mare e via terra, disegna una mappa dettagliata delle zone che in-tende esplorare, e nonostante le scar-se finanze decide comunque di partire via terra, certo della sua impresa. Al suo rientro in Europa è l’uomo che si è spinto più a sud nel continente africa-no; ciò nonostante a Venezia è ancora visto con scetticismo. Ma la comunità scientifica lo prende in considerazio-ne e ne vuole ascoltare le esperienze. Sembra proprio che Miani sia riusci-to nella sua impresa di legare il suo nome ad un’impresa eroica, quando si intromettono Speke e Grant. Il Leone bianco ritorna in Africa e pur di ripar-tire con le esplorazioni si affida ad un gruppo di mercanti senza scrupoli che lo abbandoneranno in fin di vita lungo il sentiero, dove però scoprirà (anche se in cuor suo l’aveva già fatto) di ave-re in quelle popolazioni indigene gli affetti che mai ebbe in Italia. A Rovigo di Giovanni Miani rimango-no i resti, custoditi in Accademia dei Concordi assieme ad un busto di Giu-seppe Soranso. Una statua invece è posta all’inizio della via a lui dedicata nel centro della città. Altro busto è cu-stodito all’Istituto tecnico per Geometri A. Bernini.A Venezia, presso il museo di Storia Naturale, è allestita una sala con l’im-mensa collezione di oggetti considera-ti dagli specialisti come la più antica collezione europea di etnografia afri-cana.

Per approfondire la figura e l’opera di Giovanni Miani: “Giovanni Miani e il contributo veneto alla conoscenza dell’Africa” a cura diGianpaolo Romanato, Rovigo, Minelliana, 2005

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STORIE

Menotti Garibaldiad Adria

di Alessandro Ceccotto

Nell’agosto del 1849 un gruppo di patrioti, otto in tutto, fuggiti da Roma al seguito di Garibaldi, giunsero nel Delta del Po nel tentativo d’arrivare

a Venezia. Chiesto l’aiuto di alcuni abitanti del luogo, vennero invece da questi denunciati e nell’osteria di un certo Fortunato Chiarelli detto Capitin vennero arrestati dagli austriaci. Il comandante del reparto, Tenente Luca Rokavina, li interrogò subito con l’aiuto di un’interprete, l’agente comunale Pietro Marchesi, dopo di che diede l’ordine che venissero immediatamente fucilati. Furono inutili tutti i tentativi di far revocare la decisione del co-mandante, da parte dello stesso Marchesi, di Luigi Man-tovani fattore della famiglia Papadopoli e addirittura del fratello di Rokavina sottotenente nello stesso reparto.Alla mezzanotte del 10 agosto vennero fucilati ed alcuni abitanti del luogo furono costretti a scavare le otto fosse. I fucilati, oltre a Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, furono il figlio Lorenzo di appena 13 anni, il sacerdote Stefano Ramorino e Lorenzo Parodi di Genova, i romani Gaetano Fraternali e Paolo Baccigalupi, Luigi Bossi di Terni che era in realtà il figlio maggiore di Angelo Brunetti (quindi Luigi Brunetti) e che cambiò nome dopo essere stato accusato quale esecutore materiale dell’assassinio di Pellegrino Rossi, capo del governo pre-rivoluzionario Francesco Laudadio di Narni. Gli abiti e gli oggetti personali dei patrioti vennero divisi fra i soldati che le vendettero ai popolani. Alcune monete d’oro vennero cambiate dal parroco di Ca’ Venier, Don Marco Sarto.

Fin dal 1861 Garibaldi si adoperò perché venissero condotte indagini per individuare le sepolture, ma solo nel 1866, dopo l’unificazione del Veneto all’Italia, il Consiglio comunale di S. Nicolò (in seguito cambiato in Porto Tolle) fece trasportare le ossa, raccolte in una sola cassetta, presso il battistero della chiesa di Ca’ Venier dove una lapide ricorda ancora l’avvenimento. Venne posta anche una croce sul luogo dell’eccidio, ma nel 1874 ne venne proibita la commemorazione per il 25° anniversario della fucilazione, come si può leggere in un’interessante lettera di protesta del Comitato promotore del 7 agosto di quell’anno, a firma tra gli altri dell’adriese Pietro Pegolini. Nel l879 Giuseppe Garibaldi, il Comune di Roma e la Società Veterani del 1848-49 espressero il desiderio che i resti dei patrioti venissero uniti agli altri caduti del 1849, cioè raccolti nell’ossario sul Gianicolo a Roma. Inizialmente sembrava che la cerimonia del trasporto dei resti funebri avvenisse il 30 aprile, come si evince da una lettera, datata 1 marzo 1879, del Comitato Promotore, nella quale ci si lamentava che la banda musicale cittadina non avesse una divisa decorosa per la circostanza, ma solo un semplice berretto. Lo stesso Comitato, composto da: Ferrante Zen, Cesare Cavaglieri, Pietro Raule, Bonandini Giovanni, Giovanni dott. Tretti, Ugolino Goffrè, Giulio maestro Rossi, Libero Malfatti, aprì una sottoscrizione per dotare i componenti della banda di una dignitosa divisa.

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STORIE

Il 13 marzo, Bernardo Ortore inviò un’accorata lettera a Giosuè Carducci, che si trova nell’archivio della Biblioteca Carducciana, ora inserita nel Museo del Risorgimento di Bologna. Nella missiva informava il Carducci che “un comitato costituitosi in seno della Società dei Reduci delle Patrie Battaglie di Roma con a capo l’onorev. Menotti Garibaldi, stà per venire ad Adria nel prossimo Aprile a ricevere gli avanzi mortali sepolti ora a Ca-Tiepolo territorio del distretto di Adria.”E con l’occasione “… mi rivolgo a V.S. pregandola a scrivere od’un Epigrafe, od’un componimento in versi come meglio Ella crederà conveniente all’uopo, che valga ad’inovare la memoria dei poveri assassinati.” E con una certa insistenza e veemenza chiuse la lettera con “Mi mandi quanto più presto le sarà possibile questo da me tanto desiderato componimento, m’indulga, e mi creda Dev. Ammiratore di Lei.”Non si sa se il Carducci abbia mai composto le liriche richieste, o se abbia risposto alla lettera di Ortore.Per motivi a me ignoti, la cerimonia venne però spostata nell’ottobre dello stesso anno; infatti una commissione, presieduta dal Generale Menotti Garibaldi, secondogenito del ben più noto Giuseppe, giunse ad Adria da Roma il mercoledì 8. Il giorno successivo, accompagnati da autorità civili e militari, approdarono alle 9 del mattino, con un battello a vapore, sulle rive del Po di Tolle, nel punto esatto in cui si consumò l’eccidio. Sostarono, brevemente, in raccoglimento sull’argine e poi raggiunsero il Municipio ed infine nella chiesa di Cà Venier, dove presero in consegna le spoglie degli otto garibaldini trucidati. Risalirono il Po con lo stesso piroscafo, giungendo alle 17,00 all’altezza del ponte di chiatte di Corbola, dove vi era ad attenderli una grande folla esultante.Presero posto su alcune carrozze che, precedute da alcune bande musicali dei comuni deltizi, tra cui quella

di Adria posta in testa al corteo, percorsero prima strada Chieppara e poi la via maggiore, l’attuale corso Vittorio Emanuele II, giungendo alla stazione ferroviaria, dove le spoglie verranno depositate e sorvegliate a turno, per tutta la notte, da diversi garibaldini, sia di Adria che dei paesi bassopolesani. L’intero percorso si snodò tra due ali di popolo festante. Vox populi tramanda che Menotti e la commissione giunta da Roma soggiornarono e cenarono nell’albergo Stella d’oro a due passi da piazza delle biade, l’attuale piazza Oberdan. Nella stessa serata la Commissione venne invitata ad assistere a uno spettacolo al teatro Politeama. Al suo apparire in sala venne accolta da un lunghissimo applauso, Menotti venne circondato dai garibaldini che avevano combattuto ai suoi ordini nel Trentino, nella campagna romana ed in Francia.

Il programma della serata prevedeva l’opera Il Paria (1872 di Giuseppe Burgio

di Villafiorita), dopo la quale vennero eseguiti un Inno per coro e orchestra di Giulio Rossi, direttore anche dell’opera, e le Rimembranze Elegiache dello stesso Giuseppe Burgio di Villafiorita, composizioni dedicate entrambe alla memoria degli otto patrioti, in particolare le Rimembranze Elegiache, che, nella seconda parte sviluppano una serie di variazioni sull’Inno di Mameli.Dell’Inno di Giulio Rossi (insegnante di musica all’Istituto musicale Buzzolla, direttore dei cori della Cattedrale e della Corale

Adriese) esiste solo il testo trascritto da Francesco Antonio

Bocchi, mentre per le Rimembranze Elegiache sono in corso ancora

ricerche.Il giorno successivo la Commissione si recò

in visita al piccolo Museo Archeologico di Francesco Antonio Bocchi, sul Primo Registro dei Visitatori compare infatti la firma di Menotti Garibaldi. Lo stesso Bocchi partecipò con entusiasmo a tutte le cerimonie e al momento della partenza, proprio in

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stazione, davanti a praticamente tutta la città, recitò un suo componimento poetico, conservato tra le carte dell’archivio antico della biblioteca di Adria, dedicato allo stesso Menotti, che venne poi pubblicato ne Il Popolo d’Italia del 14 agosto 1929. Il treno partì alle 13 per Roma, dove i resti vennero deposti nell’ossario che raccoglie tutte le spoglie degli eroi caduti combattendo nel 1849 nella difesa della città e della Repubblica Romana.Anche Don Businaro scrisse un componimento poetico dal titolo Dalle marine adriesi al Gianicolo, edito dalla tipografia Guarnieri di Adria nello stesso 1879 (con ogni probabilità ne venne donata copia ai componenti la Commissione). Durante questa occasione vennero consegnate alla sezione di Adria della Società Veterani 1848-49 alcune ossa, quale segno di riconoscimento per aver organizzato la cerimonia. Gli altri cimeli (bretelle, tabacchiera in radica, frammenti di tessuto, ecc.) furono donati all’Associazione Veterani da coloro che avevano acquistato gli effetti personali dei fucilati direttamente dai soldati austriaci, piccoli frammenti, ma che vennero trattati come vere e proprie reliquie.

L’art. 5 dello Statuto dell’Associazione Volontari 1848-49 della Città e circondario di Adria recita: “... Al cessare poi di detta Associazione sarà obbligo degli ultimi cinque superstiti di consegnare al Municipio [di Adria] la Bandiera come pure tutti gli oggetti storici che formano il piccolo Museo della Società, e ciò a imperitura memoria; ...”. E con gli ultimi 5 membri superstiti nel 1916 venne il momento dello scioglimento dell’Associazione. Il 2 ottobre di quell’anno vennero consegnati, rigorosamente inventariati, i cimeli al Comune di Adria, allegando anche un elenco che tuttora si conserva nell’Archivio Antico della Biblioteca Comunale; assieme anche a un articolo del Polesine democratico del 18 novembre 1916 nel quale si ringraziano i Veterani per l’avvenuta donazione. Il materiale rimase a lungo dimenticato, ma nei primi anni novanta venne dignitosamente esposto nella saletta risorgimentale, che è rimasta, anche dopo lo spostamento della Biblioteca Comunale, nel palazzo Cordella.

A pag. 71: ritratto di Menotti GaribaldiNella pagina accanto: ritratto di Angelo Brunetti detto Ciceruacchio

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STORIE

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In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia ho pensato di raccogliere, in modo un po’ più ordinato, i ricordi di quanto mi aveva raccontato la mia carissima nonna Rita (maestra Rita Raule Barzan) soprattutto durante i mesi invernali, quando c’era la guerra e si andava a dormire abbastanza presto per risparmiare legna ed elettricità.

I racconti che preferivo riguardavano episodi accaduti durante il Risorgimento e che avevano coinvolto la famiglia Raule, nella casa di Campagna vecchia, dove il bisnonno Massimiliano conduceva l’idrovora di quella località. Gli avvenimenti si sono fissati nitidamente nella memoria perché me li sono fatti raccontare decine e decine di volte. Mi affascinavano come le storie avventurose di Salgari. Forse ancor di più.

Tutti gli avvenimenti sono accaduti nella bella casa in stile neoclassico costruita nel 1855 come idrovora per la bonifica di quella zona. Probabilmente la famiglia di Massimiliano, conduttore di macchine a vapore, fu la prima ad abitare lì, poiché sposò Orsola Sampieri nel 1856. Ebbero tre figli: Umberto e due femmine, la nonna Rita nata nel 1861 ed un’altra di cui non ricordo né il nome (forse Gemma) né la data di nascita. Con loro abitavano la cognata Catina, austera e silenziosa, e la zia Candida, moglie di Domenico Sampieri, garibaldino sempre fuori casa, al seguito di Garibaldi prima e poi deputato a Firenze.

La zia Candida

La casa di Campagna vecchiain località Capitello ad Adria

Il barcaiolo Toni

La carrozza tricolore

Una mia bambolina era chiamata dalla nonna “la zia Candida” perché dice-va che gliela ricordava molto. Ricordava pure che la zia Candida, ogni tanto presa dalla nostalgia di suo marito garibaldino, andava alla finestra e canta-va “Rondinella pellegrina che ti posi sul verone e mi canti ogni mattina la tua flebile canzone…”, canto patriottico di quell’epoca. I protagonisti, che a me bambina sembravano i vecchi delle favole, erano in realtà molto giovani nel 1861. Il bisnonno Massimiliano, nato nel 1824, aveva appena 36 anni, lo zio Domenico (n.1828) il garibaldino ne aveva 32, ma erano patrioti dal 1848. Si trattava perciò di giovani coraggiosi, non di vecchi signori con la testa bianca come li immaginavo io.

La nonna la descriveva così: aveva sul davanti da una parte un pezzo di terreno coltivato a orto dalla zia Catina, che sovraintendeva alla gestione della casa, e dall’altra un giardino con molte piante di rose che d’estate venivano curate dalla zia Candida. Un vialetto di ibisco conduceva dal cancello sulla strada provin-ciale all’abitazione. La casa aveva il soffitto del tinello dipinto, partendo da un piccolo punto centrale, “a cerchi concentrici” (parole della nonna) con i colori bianco, rosso e verde. Il soffitto oggi non esiste più poiché nel tempo sono stati eseguiti lavori di ristrutturazione.

Questo operaio dell’idrovora era certamente nel gruppo dei resistenti adriesi, di lui la nonna parlava con ammirazione perché sempre pronto a traghettare i patrioti che fuggivano dagli austriaci. Nel canale di fronte era ormeggiata una barca per far passare il Canalbianco e condurre i patrioti nelle zone intorno a Mazzorno, da dove attraversavano il Po. Per richiamare l’attenzione dell’altra sponda, Toni si soffiava rumorosamente il naso e batteva le mani tre volte.

Il nonno Massimiliano amava stuzzicare gli austriaci che occupavano Adria. Per andare alla Messa in Cattedrale usava una “ carrozza” che aveva fatto colorare di verde e la attaccava ad un cavallo bianco che aveva al collo una coccarda rossa. Mentre attraversava la città gli austriaci che incontrava ammiccavano e dicevano: “Ah, ah, bandiera italiana!”, molto indispettiti, mentre il nonno, diver-tito, faceva come se niente fosse.

I ricordi di nonna Ritadi Fiorella Libanoro Giolo

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STORIE

I segnali convenzionaliconosciuti solo ai patrioti

Le coccarde tricolorisulla facciata del Vescovado

Oltre ai segnali che utilizzava Toni il barcaiolo, c’era una canzone: “Trilorico, Trilorico” che Massimiliano aveva portato in Adria dopo l’assedio di Venezia (1848), canzone che mio cugino Piero ha imparato benissimo. Le parole sono dello stornello patriottico “La bandiera dei tre colori”, che veniva cantata con le sillabe rovesciate, anagrammate e faceva così: “Trilorico, trilorico, l’andierabi isianzol”, cioè “trecolori, trecolori, la bandiera si innalzò”. Cantavano questo ritornello per avvisare che si stavano avvicinando degli austriaci, ritmando la canzone sul desco da maniscalco dell’idrovora. I patrioti avevano adottato quel particolare linguaggio che tutti, anche i familiari, parlavano. Era ancora in uso nella famiglia di nonna Rita. I tre figli (Giovannina, Orsolina e Alberto) lo parla-vano correntemente. L’ho sentito parlare anche dai cugini grandi. Veniva usato quando non volevano farsi capire da noi più piccoli o da estranei. “piere, che l’è odri regneve el locopi” (attento che sta arrivando il piccolo), oppure “fa tafin de tignen” (fa finta di niente). El drepa (il padre), la drema (la madre), so lofio (figlio) e così via. Si divertivano a stuzzicare gli austriaci. Nella trattoria dove si incon-travano, i patrioti servivano agli ufficiali contorni di tre colori, a seconda delle stagioni: insalata o verdura cotta verde, cipolle o patate, pomodori o rape rosse.

Una sera, racconta la nonna, i grandi si radunarono tutti nel tinello con il soffitto tricolore. C’erano tutti, compreso Toni e altre persone, e mandarono a letto i bambini molto prima del solito “che c’era ancora chiaro” diceva la nonna, rac-comandando loro di stare zitti e dormire. Ma i bambini incuriositi non resistettero e andarono a sbirciare alla porta. Videro i grandi che stavano facendo delle coccarde con dei nastri bianchi, rossi e verdi che fermavano con della creta molle. Il padre se ne accorse e li sgridò molto, rimandandoli a letto e minaccian-doli di prenderli a scapaccioni se avessero parlato con qualcuno di quello che avevano visto. Deve essere stato l’anniversario della Repubblica romana, durata così poco, perché il giorno dopo, andando a Messa in Cattedrale con la famosa carrozza tricolore, videro i soldati austriaci che staccavano dalla facciata del Vescovado con lunghissime canne delle coccarde tricolori. Proprio le coccarde che avevano visto confezionare a casa loro e che durante la notte erano state lanciate silenziosamente sul muro, appiccicate con la creta che Toni era andato a prendere il giorno prima “a Po”. stagioni: insalata o verdura cotta verde, cipolle o patate, pomodori o rape rosse.

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Il culto delle reliquie dei patrioti Berretti, camicie, sciabole e quadri furono custoditi nelle famiglie dei figli di Massimiliano, che a loro volta le hanno donate ai nipoti e alcune al Museo Ri-sorgimentale di Adria. Particolare cura è stata data ad una stanza da letto, “la camera di Garibaldi,” sulla quale la nonna lasciò una chiara volontà: “se dovete disfarvene, bruciatela piuttosto di darla via, perché vi ha dormito Garibaldi“. Non so risalire al personaggio che vi dormì realmente (forse Menotti Garibaldi?). Insieme agli oggetti è stato trasmesso un grande rispetto per lo zio Domenico, senza mai gloriarsene. Lo zio Domenico (1828/1896) fu generale dei Mille e in seguito deputato al Parlamento di Firenze. Di lui restano alcuni scritti nella Bi-blioteca Comunale di Adria e il suo berretto di garibaldino nell’Archivio Risorgi-mentale. L’amicizia tra le famiglie dei discendenti dei patrioti era ancora viva nei primi decenni del 1900 finché furono in vita i nipoti di Massimiliano: gli Ortore, i Pegolini (Pace), gli Zen.

Le funzioni religiose al Capitello Ancor oggi l’indirizzo dell’idrovora è località Capitello. Deve esserci stata una piccola cappella per le funzioni religiose proprio dove oggi c’è l’incrocio fra la strada arginale e la strada provinciale che al tempo non esisteva. Il nonno deve essere stato mazziniano ed era molto arrabbiato secondo la nonna con lo Stato Pontificio per via dell’insuccesso della Repubblica Romana. Aveva perciò proibito alla moglie di spendere soldi per motivi clericali. Al Capitello però ci andavano a maggio per i Fioretti e allora le donne di casa fecero ad Umberto, fratello di Rita, una tonaca di carta piena di merletti sempre di carta e andarono alla funzione tutti insieme molto contenti del risultato ottenuto. Ma Massimiliano birbone stuzzicò le figlie perché avvicinassero la fiamma delle loro candele al vestito di carta del fratello che faceva il chierichetto. La tunichetta prese fuoco fra lo spavento dei presenti e le risate di Massimiliano, che poi a casa fu sgridato molto dalla moglie Orsola.

Adria: Facciata del Septem Mària Museum, presso l’ex idrovora Amolara; accanto: lapide recentemente posta a ricordo degli avvenimenti risorgimentali

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SAPORI E SAPERI

Il Polesine in cucina

di Romolo Cacciatori

Anche quest’anno è arrivata Pasqua e per interrompere le vecchie abi-tudini, complici le belle giornate alle porte e la poca voglia di stare ai fornelli, tutta la famiglia ha deciso di trascorrere la giornata sul

Delta e, per l’occasione, presentare così la terra delle nostre origini a Gaia, la nipotina appena nata. Prima, però, una rapida sosta ad Adria, per una passeggiata lungo il “Corso”. Il nostro girovagare si arresta quasi subito in “Piassa Castelo”. E’ qui, sul sagrato della Cattedrale, che si ritrova, anche se più organizzata, l’atmosfera del rito del mattino di Pasqua, che appartiene alla nostra infanzia e a quella dei nostri genitori: “scossare i vovi”. Bambini e non più giovani, in una disfida senza fine ma allegra e divertente, dove

Foto di Romolo Cacciatori e Irene Polinelli

www.cacciatori.org

Territorio, prodotti e tradizioni

l’avversario viene battuto a colpi di uova sode e il bottino conquistato portato a casa, come un trofeo. Dalle fine-stre si spandono nei vicoli e si mescolano gli odori del pranzo pasquale tradizionale: un ragù per il pasticcio o per le tagliatelle fatte in casa, il profumo di capretto al forno e dell’esse. Tutto si evolve, ma niente cambia, nel Polesine, per fortuna, o no? Ecco allora un momento per soffermarci sulle nostre origini e sulla nostra terra, dalla quale momenti difficili e speranze di un futuro più sicuro ci hanno allontanato, ma che rivediamo sempre con grande piacere e a cui ci sentiamo onorati di appar-tenere. E possiamo pensare che ci sia qualcosa di meglio del cibo, dei prodotti della terra, delle tradizioni ad essi legate, per riprendere questo discorso?

Il Polesine: la sua dislocazione territoriale, le coltivazioni e i prodotti naturali che influenzarono direttamente la cu-cina e la gastronomia.

Il Polesine è questa terra posta fra il Po e l’Adige, una zona che è fra le più fertili pia-nure d’Italia, lontana dai monti, con clima nebbioso e umido d’inverno, afoso d’estate. La sua denominazione Po-lesine deriva dal latino medioe-vale «policinum» (che significa terra paludosa). Una canzo-ne che parla di questi luo-ghi, nelle parole “Terra e acqua, acqua e terra” ne rias-sume l’essenza. La storia del territorio e delle sue po-polazioni è fatta di piene, alluvioni, fu-ghe sugli argini, migrazioni, duro lavoro per strap-pare all’acqua la vita e fuggire dal-la miseria e dalla povertà. Tutto vissuto sempre con estrema dignità. Danni gravissimi ha causato la rotta del Po avvenuta nei pressi di Occhiobello il 14 novembre 1951, in seguito alla qua-le gran parte del Polesine andò sommerso. Ma questa situazione non era nuova, dato che sin dai tempi antichi si hanno notizie di questo fenomeno che si ripeteva con molta frequenza. Praticamente tutti i rami del Delta del Po, fin dai primordi, erano continuamente in una fase di

assestamento e forse la fase ultima di questo processo idrogeologico la si ebbe con il Taglio di Porto Viro, messo in opera dai Veneziani, nei primi anni del 1600. Ma anche l’Adige portò i suoi nefasti contributi, iniziando dal lontano ottobre ‘589 con la rotta della Cucca fino ai tem-pi più recenti. Questa precarietà, causata dagli allaga-menti, creò un’obbligatorietà nella ricerca dei mezzi di sostentamento quotidiano; sicuramente altra cosa rispetto all’agricoltura intensiva, affermatasi invece nella pianura Padana. Il popolo del Polesine, per un periodo lunghissi-mo, continuò a contare per il suo sostentamento sulla cac-cia e sulla pesca. L’agricoltura intensiva arrivò solo in tempi seguenti, oltre il 1600, e di bonifica del Delta del Po si cominciò a parlare in modo organico attorno ai primi anni del 1900. L’alimentazione delle popolazioni si rivolse ai prodotti della terra: verdura, frutta e cereali col-tivati per uso personale. La coltivazione dei cereali ebbe impulso solo nel tardo 1500, dopo l’arrivo del mais dalle Americhe e costituì assieme al frumento la base dell’ali-mentazione della popolazione. Questa abbondanza di acqua non è stata solo una disgrazia, ma ha permesso che si sviluppasse nel Delta del Po la coltivazione del riso, che risale al 1400, che solo nel XVI secolo divenne esten-siva ed organizzata per opera della famiglia degli Esten-

si, i quali riusci rono a sfruttare i terreni acqui-trinosi che altrimenti sarebbero rimasti

ab bandonati. Questa coltura era stretta mente legata alla bonifica, in quanto permetteva di accelerare il proces so di utilizza-

zione dei terreni salsi da destina-re poi alla rota-zione colturale, come testimo-

niato da una legge della Re-

pubblica Veneta del 1594 (il territorio del Basso Delta cambiò spesso di “padrone” fra Veneziani ed Estensi). L’isolamento del ter-ritorio, la partico lare natura del terreno emerso e il suo continuo espandersi per le torbide dei rami del Po nel corso dei secoli XVI e XVII, fecero del Polesine una terra eletta per il riso, in quanto l’isolamento impediva la diffu-sione delle fitopato logie come il “brusone” e la disponi-bilità di terre nuove consentiva la ri saia avvicendata an-

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che in presenza di terreni stanchi (i veneziani mettevano all’asta il nuovo territorio che il Po formava alla foce ven-dendolo con la formula “fino a due onde in mare”). Quando il prezzo del riso, tra il 1825 e il 1835, superò il prezzo del grano, con incrementi che si protrassero per oltre un decennio, in Polesine la risaia superò gli 11.000 ettari di investimen to. Sul finire dell’800 si ridusse ai 6.900 ettari, a causa del crollo del prezzo del riso per la concorrenza del riso orien tale, la cui penetrazione com-merciale fu facilitata dall’apertura del Canale di Suez e dalla riduzione dei suoli. La crisi così innescata proseguì nel 1900, l’estensione delle risaie si ridusse ulteriormente fino a circa 2500 ettari nelle sole aree marine per poi scomparire e riemergere in tempi recentissimi. Nelle cam-pagne la vita era dura e la giornata agricola era divisa in quattro quarti. La suddivisione, suscettibile di variazio-ne in funzione delle Stagioni: il primo quarto dall’alba alle otto, ora in cui ci si fermava per la merenda; il secon-do durava fino a mezzogiorno, il terzo dalle tre alle cin-que, con una breve sosta per il “marendin”; il quarto si protraeva sino al tramonto. D’inverno ci si alzava che era ancora buio, quando gli uomini andavano in stalla; la prima cosa che le donne facevano era quella di accendere il fuoco e raccogliere i resti del man-giare che si erano accumulati vicino al focolare e poi get-tarli dentro a fuoco vivo. Alla sera non si poteva spaz-zare fuori perché si sarebbe buttata via la fortuna. Si metteva sul fuoco il paiolo per la broda del mais, si li-beravano le galline e si dava loro da mangia-re, si raccoglieva-no le uova, si pulivano e si dava da man-giare alle “cioche” che erano a covo. Dopo il “ponaro” si andava a dare da mangiare al maiale e passando per l’orto si raccoglieva-no le verdure. In casa si mettevano a bollire i fagioli per avviare il mangiare. Si svegliavano i “fioi” per mandarli a scuola e si preparava la tavola per la merenda. Gli uomini si avviavano verso la campagna, con il loro fia-schetto di bevanda o di graspia (una specie di vino che si faceva buttando acqua sulle vinacce ormai esaurite per

tirare fuori quello che rimaneva dall’uva), e finalmente la donna poteva “fare i fatti” in santa pace! Questi scorci di vita sono tratti da una testimonianza dei primi del nove-cento raccolta da Chiara Crepaldi. Al mattino quando si metteva “su il mangiare”, spesso questo consisteva in una zuppa con quello che c’era, oppure in una minestra di fagioli che cuocendo lentamente fino a sera produceva il ”brustolin”; così si poteva anche portare nei campi avvol-to in un foglio di carta da giornale. Naturalmente insieme ai fagioli veniva cotto anche il riso, detto ”risotto alla Canarola”, chiamato anche risotto col brustolin. Il riso non veniva cotto solo con i fagioli ma, quando c’erano, anche con il pesce gatto, con le rane, con le scardole, con il luccio, con il pesce di mare, riso in brodo di pesce. Al riso si abbinavano anche le erbe di stagione, sia spon-tanee che coltivate: “risi e bruscandoli”, “risi e carletti” (un’erba che cresce nei campi), risi e asparago selvatico, con nepitella, con acetosella, con equiseto, con prezze-molo e ricotta, con le ortiche. Con i prodotti dell’orto e allora: risi e sedano, con la zucca, con la cipolla, coi bisi, con le patate, con i cavoli cappucci, con la fava e con i tabinabour e il “pelao” fatto con soffritto e conserva

di casa e riso alla fine. Qualcuno con qualche possibilità economica si poteva permettere

riso con le trippe, alla cacciatora, fatto con gli uccellini “viatare” di fosso, riso con bu-

della dell’anatra, riso e latte, risotto con il tartufo di Papozze, risi e lugà-

neghe, risi e fegatini di gallina. Anche se tra le minestre do-mina incontrasta-to il riso, non mancano ricette di zuppe povere, a base di un poco

di acqua con ver-dure, per lo più erbe e

quando andava bene con un soffritto di grasso di maiale. La zuppa povera, fatta con

acqua bollita, pepe, aglio, sale ed un goccio di olio con le varianti della zuppa poveretta, a cui si aggiunge-va pane rotto, della zuppa del bovaio di Ariano, ma con aggiunta di formaggio, la poveretta di Crespino come le precedenti ma con il prezzemolo. La zuppa rossa con un battuto di lardo e pomodoro. Altre zuppe erano quella di pastinaca, zuppa di carciofi e in genere con le verdure

dell’orto. Particolarmente ricche e sostanziose e per que-sto adatte al periodo freddo erano la zuppa di trippe, i marafanti di Corbola, Villadose e Pontecchio (che consi-stevano in una polentina liquida cotta in un brodo di coda di maiale o ossi di maiale), i papariti: una polentina come la precedente ma con l’aggiunta di fagioli, mentre più delicate erano la pappina dei bambini, la minestra di olla (fatta con l’unto del maiale) e la zuppa di uovo che avrà come variante la stracciatella. Importanti ricerche su questi argomenti sono state sviluppate da Chiara Crepal-di e Paolo Rigoni nel loro libro ”Il fuoco, il piatto, la paro-la” edito dall’Associazione Culturale Minelliana di Rovi-go e anche dal Conte Capnist, d’origine vicentina, che nei suoi soggiorni nel Delta si appassionò alla tradizione culinaria locale che lo portò a realizzare un libro sulle eccellenze gastronomiche polesane. Nelle loro opere si sono dimostrati molto attenti alla tradizione popolare ed alla cultura alimentare, sulle dosi delle vecchie ricette in-vece si nutrono molti dubbi, dato che le misure adottate sono “na sbrancà de risi”, “un tuclinin a grass”, “na man de formajo”, “ un cincin de sal” e anche i tempi di lavo-razione e di cottura sono estranei all’orologio: “fin a far-ne na poentina ciareta come na crema”, “tant tant ca iena quasi bianca”, “finamente che la pa-sta la fa na crostina rossa par de sora“, “fin quand che tuto le diventà duro”. Comprendono inoltre in-gredienti scomparsi come la melassa, i tri-goli, l’erba porcella-na e quindi creano qualche momento di imbarazzo se si vogliono rifare le ricette.Oltre al riso, i prodotti base della cucina polesana erano il mais, il maiale, le uova, il pesce d’acqua dolce e marino, la selvaggina del-le valli e le verdure. Nel periodo invernale, in prossimità delle feste natalizie, nelle case contadine si uccideva il maiale, la cui carne era un tempo la sola che veniva, par-simoniosamente, consumata dalle famiglie più povere del Polesine. E’ quindi naturale che occupi il primo posto tra le carni più usate nella cucina tipica polesana. Braciole,

salami da taglio (con aglio e vino), cotechini, lardo, cic-cioli (pezzetti di carne residua dalla fusione del grasso), strutto e pancetta, coda, piedini e orecchiette sono vere e proprie leccornie. Il maiale viene anche lavorato in vari insaccati fra i quali famosa è la “bondiola affumicata”, tipica del Basso Polesine, soprattutto tradizionale nelle zone di Ariano, Taglio di Po e Porto Tolle. Si tratta di carne di maiale tritata grossolanamente, mescolata con pepe e sale, insaccata nella vescica del maiale e appesa ad asciugare. È un prodotto da consumare fresco, bollito lentamente per quattro ore. La “bondiola” è presentata come pietanza, con purea di patate o verdure cotte. Vi è poi la “bondiola di Adria”, che può essere confusa con la salama da sugo ferrarese, ma l’impasto è diverso: nella salama è fatto solo con il maiale, nella bondiola adriese ci sono carne magra di vitello macinata insieme con fesa di maiale e lardo. L’impasto viene insaporito con sale, pepe e vino rosso e insaccato nel budello cieco del bue o nella vescica del maiale. La stagionatura avviene per almeno quattro mesi in un ambiente fresco e ventilato. La bondiola va cucinata con le stesse regole della salama: lunga bollitura (almeno quattro ore) a fuoco molto basso,

sospesa in acqua senza toccare le pareti della pentola. Si serve

tagliata a spicchi su un letto di purea di patate o di

verdure saltate al bur-ro. Altri insaccati e piatti particolari sono la “pontega” (topa) di Adria (un sugo di carne di

maiale proveniente da insaccati e mangiata

con la pinsa), la carne pestata di Castelno-

vo Bariano, i san-guinacci di Loreo e di Cavanella Po, la soppressa di Panarella e di

Castelnovo Bariano, il “bundlin” di Papozze, la bondiola di Cauccio di Rovigo, la pancetta di Fasana, la lucanica matta fatta con frattaglie e carne bianca del maiale e cot-ta al momento, lo scamone a bagnomaria e le pancette di Castelnovo Bariano, le more e more matte (salsicce con sanguinacci), con le orecchie e i polmoni, con lingua, con la testa zampone, ossa lesse. Niente viene buttato!

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Anche il “sangue” di Beverare e di Contarina e le ossa vengono usati. Il primo, per preparare una torta molto particolare, le seconde, spolpate e bollite vengono ser-vite in tavola accompagnate dalle “verze sofegà”. Tante sere la cena si poteva procurare con una canna o con un “balansin” sui canali ed in Po. Il pesce che più si presta per essere bollito è il branzino e quei cefali che in dialetto vengono chiamati bòsega o volpina. I pesci che vengono preferibilmente arrostiti o messi alla griglia sono sia pesci conservati come gli scopettoni, i saracconi, le aringhe op-pure freschi come l’orata, il cefalo (otregàn), il branzino piccolo sul chilo, le passere di una certa dimensione, la reina, la cheppia, gli sgombri, i rombi e anche il “bisa-to”. Vari sono i modi di cucinare l’anguilla: fritta, con o senza pelle e spina, sempre fritta ma questa volta tagliata a fette e impanata nella farina gialla da polenta, oppure in umido, accompagnata da polenta caldissima e piutto-sto morbida, e infine alla valligiana, che è il modo più usato nel Delta, dove viene servita caldissima con fette di polenta arrostita. La polenta è bianca, accompagnamen-to questo anche della tinca in umido di Gavello, del pe-sce gatto in tocio, delle rane in umido. Naturalmente non mancano i piatti di fritto come le schie (gamberi di fosso fritti ma anche in frittata), i latterini (acquadelle), le tinche bafione, le sardine sotto sale fritte. Quando non si poteva pesca-re si utilizzavano pesci conserva-ti: il bertagnin o baccalà, cucinato con il pomodoro a Scardovari e Gavello e a Adria nella particolare preparazione “in rodolo”, alla frat-tona a Pontecchio. Ma in autunno, con un vecchio fucile, andando per campi e valli, si poteva rimediare un pranzo di selvaggina. Le prede più preliba-te tra gli uccelli di valle sono il germano reale (Masorin), la canapiglia (Pignola) e l’alzavola (Sarsegna). Di solito vengono arrostiti ma, oltre alla cottura al forno, esistono buone ricette per il germano bollito, il fischione (Ciosso) alla cacciatora e la moretta (Magàsso) associata ad una

minestra ai fagioli. L’alzavola e la marzaiola (Crècola) si prestano inoltre per preparare un ottimo pasticcio di maccheroni e per condire, scottate alla griglia o arrostite e sminuzzate, pasta o riso. Un cenno particolare meri-ta la folaga, un uccello a torto disprezzato da molti ga-stronomi, che trattata opportunamente fornisce un piatto estremamente gustoso. Sia i piatti di pesce che di carne venivano accompagnati da erbe cotte come la bigarella (fava fresca sbucciata e cotta), i fagioli schietti o in pota-cin, i cornetti con acciughe, i cappussi soffritti o con l’ace-to come a Loreo, le verze con il garbo di Badia Polesine, il cavolo al forno con besciamella. In autunno e in inverno le grosse zucche marine, consumate in mille modi, veniva-no bollite e condite, messe al forno o in pentola ad Adria (con cipolla, rosmarino, pane grattugiato e uvetta), indo-rate, con pannocchie e divenivano un pasto completo. I tapinabour e i trigoli, tuberi selvatici raccolti in riva al Po e poi cucinati come le patate: stufati, alla frattona o con cipolle; erano ottimi, ma la ricerca era rivolta soprattutto verso il re dei tuberi: la trifola o tartufo e le saporite spu-gnole. Non mancava mai la polenta che accompagnava

tutti questi piatti e serviva anche per saziare quando il compana-tico era scarso, veniva cucinata quotidianamente a differenza del

pane che ogni famiglia faceva ogni decina

di giorni. Ma sia il pane che la po-lenta venivano a volte mescolati con altri ingre-dienti e allora d i ven tavano : polenta infava-ta, polenta infa-solà de Adria o polenta dei morti

di Rosolina e de Contarina, polenta

risata, polenta e latte, polenta burro e formaggio, con il soffritto, con le cicciole, con formag-gio... Anche il pane veniva cucinato con uvetta, pepe e melasso nel pane di Natale, o con l’aggiunta di ciccioli di maiale e farina gialla: i coaréti de Adria. Ma nel forno non solo veniva cotto il pane ma anche i dolci: le pinse, le fugasse, le torte di pane o zucca o patate americane, la mariana, gli esse e le bissole per la Befana. Mentre

per carnevale venivano fritti i crostoli, i tortelli con la mo-starda, le frittelle di zucca e di riso e i tamplun, fatti con la farina di castagne che veniva usata anche per preparare i papazon e le bistoche. I dolci erano preparati solo in oc-casione delle feste e le merende dolci dei bambini erano fatte in casa con il burro, il pane e lo zucchero.Durante le fiere venivano venduti i vari “sfurissi”: lo zuc-chero filato, le brustoline, le castagne lesse e secche, il croccante con riso e zucchero, i lupini (fava luina), i bru-stolini, le baricocole (mais lessato e pulito dalla buccia), i galiti (il pop-corn di adesso). Il giovedì, quando c’era la stagione delle patate sia normali che dolci, si facevano gli gnocchi conditi con la cannella o con la melassa. I maneghi di Trecenta e i rufioi erano gnocchi fatti con le patate americane e altri ingredienti. Molti di questi piatti continuano a mantenersi nella cucina del Polesine sia nelle famiglie che nei locali pubblici, e alcuni appartengono al repertorio tipicamente veneto, ma con influenze anche delle province confinanti del Veneto (Padova, Verona) e con due diverse regioni: Lombardia (Mantova) ed Emilia (Ferrara). Particolarmente nell’ultimo periodo la qualità dei prodotti e i diversi Istituti Alberghieri hanno contribuito a valoriz-zare piatti, prodotti e gastronomia locale.Nella provincia di Rovigo si mangia bene, si è accolti con professionalità, nel rispetto delle tradizioni, con attenzio-ne alle nuove esigenze.

Situazione attuale del territorio e della cucina del Polesine

Ad occidente, nell’alto Polesine, dove le campagne sono state modificate in epoca più antica, l’aspetto è più riden-te, i campi sono limitati da filari di viti e di alberi, e inter-rotti da argini e da fossi di scolo ad andamento sinuoso. Qui, pur prevalendo la piccola proprietà, l’agricoltura è rivolta, oltre che alla produzione del frumento, anche alle più redditizie colture industriali. Il medio Polesine ha condizioni intermedie tra la zona alta e la zona deltizia; la piccola proprietà è meno diffusa; come colture prevalenti hanno il primo posto il grano e le barbabietole da zucchero.Nell’alto e nel medio Polesine, invece, si è sviluppata la viticoltura e la frutticoltura (melo, pero, pesco, susino e actinidia), che si rinnova con sperimentazioni colturali di frutti esotici, la vite è abbastanza frequente.Nel basso Polesine, che è zona di bonifiche relativamente recenti, dove un settimo del territorio è occupato da valli da pesca e due settimi da incolto produttivo, prevale la

grande proprietà e l’agricoltura viene esercitata su vasta scala; vi sono strade rettilinee e grandi fattorie.Nei porticcioli di Pila, Porto Levante e Scardovari si pesca il pesce che poi viene generalmente consumato in loco e si pratica l’allevamento e la pesca di alcune specie di molluschi.Nelle lagune aperte, degli strani primordiali tralicci in le-gno, infissi sul fondo e in parte affioranti, vengono impie-gati per l’allevamento del mitilo o meglio “peocio”. Per le vongole si tratta invece di pura e semplice raccolta, effettuata sul fondo con l’impiego di una barca a motore appositamente attrezzata (“vongolara”). Le vongole sono di due specie: la “venus gallina” o “biberassa” e la più rara e gustosa “venerupis decussata” o “vongola verace”, distinguibile per la forma più ovalizzata delle valve e per la presenza, nel mollusco, di due piccole appendici.Diffusa è anche la raccolta delle “capelonghe” che affio-rano sulla spiaggia nelle ore di bassa marea. Le produ-zioni orticole si incentrano nei poli di Lusia e di Rosolina, dove sorgono due importanti Centrali ortofrutticole per la commercializzazione degli ortaggi.Queste attività sono in continua espansione, sia per la remuneratività, sia per la continua introduzione di nuo-ve varietà. Nell’orticoltura, primeggiano il pomodoro, il radicchio e le insalate, la carota, la cipolla, la patata, i cavoli, i peperoni, i cocomeri e le fragole.Un cenno particolare merita l’aglio che, pur avendo per-so terreno per l’accresciuta competitività del prodotto estero, rimane sempre una coltura tipicamente polesana. Una terra, dunque, molto produttiva, che ha consentito lo sviluppo di una gastronomia legata a tali prodotti, con poche differenze fra le tradizioni cittadine e quelle della campagna. “Le eccellenze del Polesine” sono: il riso del Delta del Po IGP (ritornato sulla scena dopo un periodo in cui era scomparso); l’insalata di Lusia IGP, il radicchio di Chioggia IGP (coltivato in buona parte nel Delta del Po); l’aglio bianco polesano DOP, il melone del Delta del Po. Il miele del Delta del Po, la zucca di Melara, il cefalo del Polesine, la cozza di Scardovari, la vongola verace del Polesine.

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Lusia: trattoria “al Ponte”

“La vita è fatta di piccoli piaceri e saperli assaporare è un’arte che fa la felicità”. Questa è la filosofia che accompagna da tanti anni la Trattoria “al Ponte” di Luciano Rizzato e questo è lo spirito dei suoi ospiti. Sì, ospiti e non clienti, perchè chi si siede ai tavoli della trattoria è sempre un invitato speciale, al quale giorno dopo giorno il personale ama far assaggiare il me-glio della tradizionale cucina veneta e del Polesine, con la moglie Giuliana in cucina aiutata dal figlio Enrico e Silvia che aiuta Luciano in sala. Enrico, dopo un peregrinare per ristoranti stellati a forgiare la sua professionalità, ora si è insediato stabilmente ai fornelli. La Trattoria “al Ponte” è un vero e proprio punto di riferimento per tutti coloro che vogliono trascorrere una se-rata tra amici e gustare specialità stagionali all’insegna della buona cucina. Appartiene anche alla “Chaine de Rotisseurs”, la più antica Associazione di Gastronomi del mondo. La specialità della casa sono vecchie ricette a base di verdure provenienti dagli Orti e di pesce di acqua dolce: splendido il pastic-cio di pesce gatto e il risotto di pesce gatto. Ma anche il coniglio ed i dolci tipo “tiramisu” e torte di casa, risultano cose egregie. Luciano ha anche una gran bella cantina.

Trattoria “al Ponte”, via Bertolda, 27 (Località Bornio), Lusia (RO) I piatti che rappresentano il locale potrebbero esse molteplici, ma ci piace descriverne uno in particolare e raccontarvi la ricetta dei Malafanti, realmente proveniente dai piatti poveri completi di molti ma molti anni or sono.

I MalafantiIngredienti: semolino,verze, fagioli, ossa di maiale con polpa attaccata, cipolla o scalogno, brodo leggero di carne e verdure, pancetta di maiale, crostone di pane in cassetta. Olio, pepe e sale.

PreparazioneSoffriggere lo scalogno con olio, poi aggiungere ossa di maiale, pancetta e poi i fagioli che sono stati ammollati a bagno per almeno 12 ore.Aggiungere le verze tagliate e coprire con brodo; fare bollire per 2/3 ore; togliere le ossa, frullare il tutto e rimettere sul fuoco (aggiungendo brodo se occorre) ed aggiungere il semolino, lasciando bollire fino a cottura di quest’ul-timo. Impiattare aggiungendo le “briciole” di polpa di maiale che non si sono staccate dalle ossa e i crostoni di pane.

Ristoranti del Polesine

Ho individuato tre ristoranti che rappresentano le realtà dell’alto, medio e basso Polesine. La mia non vuole essere una scelta di merito sui locali ma un’indicazione, in linea con quanto espresso in queste note. Cucine, dunque, che propongono vecchie ricette o piatti nuovi, sempre però nel rispetto della tradizione e del territorio. In ognuno di questi si parlerà di una ricetta che più rappresenta il locale.

Un esterno della trattoria

Un interno del locale

Da sinistra: Stefania che segue la sala ed è sommelier, il cuoco Enrico, mamma Franca che cura l’albergo e papà Alberto che sovrintende l’attività

Il cuoco Enrico al lavoro nella cucina

Adria: ristorante “Molteni”

Sulle rive del Canalbianco, poco lontano dal bel Teatro Comunale e dalle rivie-re su cui si affacciano palazzi, ora splendenti ora in ombra per i segni inferti dal tempo, sorge il Ristorante “Molteni”. Da quattro generazioni è il principale ristorante della città e rispecchia un po’ lo stile di Adria. Un luogo dove si pos-sono ritrovare i sapori veri, le atmosfere famigliari e anche un certo stile di cui si ha nostalgia, quello della vecchia ma amata Italia di provincia degli anni ’50 o ‘60; non a caso è sede della delegazione locale dell’Accademia della Cucina. In realtà “Molteni”, locale che quest’anno festeggerà i propri 90 anni di attività, sembra aver ancora molte possibilità di crescita. Il passaggio di consegne generazionale ad Enrico, che segue la cucina, e alla sorella Stefa-nia, sembra aver dato nuova linfa al locale, mentre mamma Franca, donna di garbo, fa gli onori di casa e Alberto il papà vigila sulla tradizione del locale. Qui la scena spetta alla cucina di mare e di terra del locale, com’è giusto che sia in un Polesine sospeso fra questi due elementi. Interessante sicuramente la scelta di pesce, particolarmente di pesce crudo servito con vini appropriati che oggi fa da traino all’offerta culinaria del locale. Ma io ho chiesto invece ad Alberto Molteni di descrivermi una ricetta di selvaggina, ricordandomi che il Ristorante, da sempre, durante la stagione di caccia, trattava e cucinava la selvaggina catturata dalle doppiette degli adriesi. Ristorante “Molteni”, via Ruzzina 32/4, Adria (Ro)

Lepre alla CacciatoraRicetta della “Lepre alla Cacciatora”, ancora patrimonio del locale, fornitaci da Alberto Molteni.

Ingredienti: una lepre cacciata nei campi, carote, cipolla e sedano, vino ed aceto per la marina-tura, olio, capperi, olive verdi snocciolate, alloro, chiodi di garofano, sale e pepe q.b., farina o fecola per addensare.

PreparazioneScuoiare e lavare la lepre e tagliarla in pezzi (dovrebbero risultare alla fine circa 25 pz.), mettere i pezzi in un recipiente e coprirli di vino e aceto (50% cad.), cipolle, carote e sedano; lasciare il tutto a marinare per circa 12 ore. Prendere i profumi e fare un soffritto con olio in una casseruola, versare i pezzi della lepre in un’altra casseruola, lasciarli indorare pochi minuti e poi versare il soffritto che è stato frullato a parte. Versare il sugo proveniente dalla marinatura sulla lepre e il fegato della stessa che a sua volta è stato soffritto da solo e frullato. Mettere alloro, chiodi di garofano e capperi tritati. A fine cottura dopo circa 2/3 ore aggiungere concentrato di pomodoro q.b. Se l’intingolo è ancora liquido, addensare con un po’ di fecola o farina. Il sugo, se abbondante, può condire le pappardelle, oppure essere servito sopra una polentina gialla morbida assieme alla lepre.

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SAPORI E SAPERI

Un interno del locale

Da sinistra: la cuoca Susanna e i titolariAndreina e Angelo Cattin

L’insegna del ristorante

Donzella di Porto Tolle: ristorante “al Pescatore”

Il locale si trova proprio sotto l’argine del Po di Gnocca. Qui troviamo An-dreina e Angelo Cattin che è il cuoco, ma anche colui che procura buona parte della materia prima, perché il suo lavoro è la pesca, da cui il nome del ristorante: “al Pescatore”.In cucina è aiutato dalla cuoca Susanna, che è nata nell’Europa Orientale, ma ora ai fornelli interpreta e rispetta la tradizione popolare polesana e non ammette variazioni.Il risotto è realmente quello che faceva mio padre, originario della zona e a cui, a sua volta, era stato trasmesso dalla mamma.É un vero risotto di pesce e non di gamberetti e verdure secondo la moda, ma secondo il pesce che si pesca. Altre specialità che si possono trovare sono un ottimo pesce fritto (quasi tutto di pesca locale) o l’anguilla in umido oppure alle braci.Quindi è facilmente intuibile il perché della scelta: qui ho ritrovato riprodotta la vecchia cucina di casa mia e del Delta.

Ristorante “al Pescatore”, Donzella, Via Po della Gnocca 93, Porto Tolle (Ro)

Risotto di pesce

Ingredienti (per quattro persone): Riso 300 gr., burro 60 gr., olio per soffriggere l cipolla, 1 carota, 1 gambo di sedano, due spicchi d’aglio, 1 foglia d’alloro, ½ bicchiere di vino bianco (bicchierino di cognac), sale e pepe q.b., formaggio grattugiato a piacere. Sogliole o passere, quelle che trovi; branzini, cefali o boseghe di media taglia; anguilla (solo un 10-20% del totale del pesce). Per renderlo più delicato si può utilizzare un poco di sugo di cozze e vongole cotte precedentemente.

PreparazioneSquamare e pulire il pesce, lessarlo in poca acqua leggermente salata assie-me al sedano e carota. Quando è cotto, togliere lische e spine e ridurre la carne in piccoli pezzi minutissimi. Nel brodo di cottura rimettere: testa, lische ed i resti, la foglia di alloro e uno spicchio di aglio. Bollire a lungo restringen-do il brodo e poi filtrare. In una padella rosolare nel burro e in un po’ d’olio la cipolla tagliata finissima. Tostare il riso e poi versarlo nella padella (o vice-versa), aggiungere la polpa di pesce e il ristretto di brodo ottenuto. Quando la cottura del riso è quasi terminata, aggiungere il vino o il cognac, lasciare asciugare e finire la cottura. Fuori dal fuoco, versare il burro rimanente e una spruzzata di parmigiano, mescolando bene.A dire il vero il formaggio l’Andreina non sempre lo mette, perché a qualcuno potrebbe non piacere. Lo stesso dicasi per l’anguilla, la ricetta originale lo prevedeva e lei è d’accordo per inserirla, suggerendo che l’anguilla possa sostituire il burro nella mantecatura.

BANCADRIA

BANCADRIAe il 150° anniversario dell’unità d’Italia

Ricorre quest’anno il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e anche noi, Bancadria, daremo il nostro contributo, al fianco delle Amministrazioni e de-

gli Enti preposti alla realizzazione delle tante manifesta-zioni che sono a calendario per l’evento. Parlare di unità e di spirito identitario per noi del Credito Coopera-tivo è giocare in casa!

Ancor di più per noi di Bancadria, per la nostra compagine sociale, che riviene da un recente processo di fusione per la cui realizzazione la valutazione di opportu-nità economica, seppur molto importante, non è stata comunque ritenuta preminente.

Con la fusione si è data sostanza e contenuto ad una unità di intenti e di progetti finalizzati alla nascita di un soggetto economico dalle poten-zialità solo immaginate; un soggetto nuovo nel modo di intendere il suo posizionamento sul mer-cato, nuovo nel percepire le attuali necessità della gente, nuovo nell’atten-zione ai problemi non più procrastinabile, quali la salvaguardia dell’am-biente e la valorizzazione del territorio.

Un modo nuovo, quindi, ma anche e al contempo, la ri-

proposizione ingigantita dello spirito che da sempre ha animato l’operato delle due banche che hanno dato ori-gine a Bancadria, vale a dire le due Bcc di “Santa Ma-ria Assunta” e della “Cattedrale”, perché noi siamo oggi quello che siamo stati.

Non essendoci, non abbiamo partecipato all’Unità d’Italia ma, come Credito Cooperati-vo, possiamo sostenere di aver contribuito alla sua crescita. E se ciò è vero, come è vero, nel contesto nazionale, ugualmente e contemporaneamente, possiamo andare fieri per aver promosso e contri-buito allo sviluppo e al benessere di un territorio: il Delta.

Oggi, il nostro primo im-pegno, il nostro nuovo proponimento è di essere artefici, assieme a tutti i soggetti interessati, ad at-tività, ad azioni di qualità da protagonisti, come nel caso del progetto/prodot-to “Portale Ambientale/Finetic” che fa entrare Bancadria nel filone della green economy. Con sod-disfazione ricordo a tutti i Soci come questo pro-getto abbia ottenuto un apprezzamento nazionale

nel corso dell’edizione 2010 al premio “Green Global Banking”, con un attestato di merito per il suo contenuto altamente innovativo.

di Giovanni VianelloPresidente Bancadria

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le “G. Garibaldi, Italia e Vittorio Emanuele II !!”, Cordey e C.a editore, Torino, XIX sec., litografia colorata a mano, 335 x 274 mm. (collezione di Alessandro Ceccotto), in “il mito di garibaldi” ARCILIBRI, 2007

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I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO

Natalino Balasso è nato a Porto Tolle nel 1960. È autore e attore di teatro, cinema, radio e televisione, ha debuttato in teatro nel 1991, in televisione a fine anni novanta, in cinema nel 2007 e ha scritto alcuni libri di successo.Luca Belloni è nato a Milano nel 1969, è compositore e direttore d’orchestra. Nel 1996 fonda, in collaborazione con Luciano Chille-mi, l’Ensemble Webern col quale si dedica soprattutto alla promozio-ne del repertorio contemporaneo. Svolge anche attività di divulgatore musicale e dal 2009 è il curatore di una rubrica sulla musica d’oggi sul quotidiano online Il Sussidiario.net. Sue composizioni sono esegui-te in importanti sedi concertistiche. E’ editor della macroarea Universo musica (editoria, saggistica, di-scografia, didattica) di ABEditore essendo anche incaricato della Di-rezione Editoriale. Romolo Cacciatori è nato a Rovi-go ma da molti anni risiede a Pado-va. Ha lavorato in diverse aziende ricoprendo ruoli importanti nell’am-bito dell’organizzazione e della gestione manageriale. A questa attività si è sempre accompagnato un grande interesse per il mondo dell’enogastronomia, diventando, tra l’altro, un grande conoscitore delle tradizioni culinarie della no-stra regione. È attualmente Presiden-te del Veneto e Consigliere Nazio-nale della “Chaine de Rotisseurs”, la più antica e diffusa associazione enogastronomia del Mondo, presen-te in più di 84 paesi.Paolo Cassetta è nato a Fasana nel 1962. Ha lavorato alla Caster di Porto Viro per 18 anni, poi alla Sundyne Corporation USA per 7 anni ed è imprenditore dal 2009. Il suo lavoro lo porta da anni in giro per il mondo. E’ anche fotografo autodidatta dal 1980. Ha avuto come maestro Mauro Galligani di EPOCA e ha collaborato e lavorato con Renato Valterza. Attualmente collabora con “Il portale delle me-raviglie” di Fulvia Pell.Alessandro Ceccotto è nato e residente ad Adria da una antica famiglia di commercianti, le cui origini risalgono almeno al 1650. Diplomato al Liceo Artistico di Pa-dova e in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 1974 è impegnato sul versante della mul-timedialità artistica (foto, video, poesia visiva, mail art, copy art, computer art, installazioni, ecc.), esponendo in mostre personali e partecipando a numerose rasse-gne collettive in Italia e all’estero. Mailartista convinto. Dal 1978 esercita l’attività di restauratore di

materiale archeologico e dal 1991 è di ruolo presso il Museo Arche-ologico di Padova. Nel 1990 è stato uno dei fondatori del Gruppo Archeologico Adriese “Francesco Antonio Bocchi”. Ha ideato, curato e/o collaborato all’allestimento di moltissime mostre di vario genere per musei, associazioni private ed enti pubblici. Ha pubblicato articoli e ricerche, curato cataloghi su: re-stauro, beni culturali adriesi, arte, Mail Art, Garibaldi e il Risorgimen-to, ecc. Ma il suo vero “lavoro” è collezionare in maniera ragionata (non solo maniacale) tutto ciò che riguarda Giuseppe Garibaldi e purtroppo …molto altro.Elizabeth De Boehmler è nata in un’isola dei Caraibi, è cresciuta in parte in Canada e in parte ne-gli Stati Uniti. Abita da 15 anni ad Adria e vive in Italia da 22. Inse-gna inglese come seconda lingua.Milena Dolcetto è pubblicista, si è diplomata in pianoforte e musica vocale da camera al Conservatorio “Venezze” di Rovigo. Collabora con riviste musicali specializzate, quoti-diani (è corrispondente dal 1996 della pagina cultura e spettacoli de “Il Gazzettino”) ed enti teatrali. Ha pubblicato saggi: ”Insieme per can-tare - l’esperienza corale di Giorgio Mazzucato - Rovigo 1973 –1998” edito da Minelliana e tiene confe-renze di competenza musicologica.Il Foto Club Adria è associato dal 1966 alla F.I.A.F. (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) al numero F.I.A.F. 0312. Al Foto Club Adria è stato conferito dal Presidente della F.I.A.F. Giorgio Tani il titolo onorifico BFI (Beneme-rito della Fotografia Italiana) “Per l’impegno profuso, a iniziare dal 1966, nell’attività di promulgazio-ne e divulgazione della fotografia in ambito regionale e nazionale”. É una associazione senza fini di lucro che si propone di riunire gli appas-sionati della fotografia, divulgare l’arte fotografica soprattutto come fatto culturale, promuovere manife-stazioni, mostre, attività e quant’al-tro possa servire per valorizzare il linguaggio fotografico.Anamaria Gabriela Girdescu è nata in Romania nel 1990, dove ha trascorso l’infanzia e i primi anni dell’adolescenza. Studentessa al Liceo Linguistico “Carlo Bocchi” di Adria ha pubblicato con Apogeo Editore il libro di poesia “Le mie mute amiche”.Fiorella Libanoro Giolo vive da sempre ad Adria, dove è nata. Si è occupata di educazione, in partico-lare nello scoutismo. E’ presidente del Centro Studi “Agnese Baggio”,

che fa ricerca nell’ambito delle te-matiche interculturali.Dimer Manzolli vive a Papozze dove è nato il 24 maggio 1950. Laureato in Materie Letterarie all’Università di Padova con una tesi sugli Estensi nel mondo vene-to. Docente di Materie Letterarie nella scuola media sino al 1999, dallo stesso anno è stato, prima del pensionamento nel 2010, Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Porto Tolle. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti. Sindaco di Papozze dal 1980 al 1990 e dal 1995 al 2004. Presi-dente del Parco Regionale Veneto del Delta del Po dal 2002 al 2005. Collabora con “Il Gazzettino” sin dal 1976. Collabora con riviste specializzate. Nel 2009 vincito-re del premio “Penna d’Oca” di Unioncamere Veneto con il quader-no “E’ nata l’Accademia del tartufo del Delta del Po”. Dal 2007 è pre-sidente dell’Accademia del tartufo del Delta del Po e ne cura il sito: www.accademiadeltartufo.org Giuseppe Pastega è nato a Pe-derobba (Tv) nel 1938. Laureato a Padova in Lettere ha iniziato ad insegnare nel 1961 nelle scuole medie e superiori. Trasferitosi ad Adria nel 1964 è stato docente di Lettere presso l’ITC “Maddalena” e poi Preside per 25 anni in vari Istituti di Adria. Negli ultimi anni si è dedicato alla ricerca storica e d’archivio, pubblicando presso Apogeo Editore tre libri: “Il Gin-nasio liceo Carlo Bocchi di Adria” (2003), “et vadi alla bona ventura - Trecento anni di storia dell’Ospe-dale Civile di Adria” (2006), “Gli Annali Guarnieri-Bocchi” (2010).Claudia Piccolo è nata ad Adria (Ro) nel 1974 e laureata in Archi-tettura all’università di Venezia. Fu-metto, illustrazione ed arte le hanno valso riconoscimenti sia nazionali che internazionali. Collabora con varie riviste e fanzine italiane. Ha pubblicato l’antologia a fumetti “Around the word” (Cagliostro E-press, 2010). Vive a Santorso, in provincia di Vicenza.Bruna Giovanna Pineda è nata a Rovigo nel 1967, studia architet-tura a Venezia ma poi si mantiene facendo l’agente di commercio, come il padre. Da sempre attenta alle tematiche sociali, inizia però il suo attivismo dopo i fatti del G8 di Genova del 2001. Aderisce alla rete nazionale antirazzista e par-tecipa a varie iniziative contro le deportazioni dei migranti e contro i Cpt, oggi Cie. Aderisce al Social Forum Polesano e fonda con altri a Rovigo l’associazione Migro-diritti senza confini. Nel 2003 costituisce

con altre donne un gruppo di auto-aiuto “Amiche per la pelle”, per venire in soccorso alle donne che vivono vicino a noi ma che vengo-no da lontano. Nel 2006 viene elet-ta Assessora alle Pari Opportunità e all’immigrazione del Comune di Rovigo. Durante il suo mandato isti-tuisce il Centro Donna Intercultura-le, Il Centro Antiviolenza e avvia il progetto per la Casa Rifugio Mam-ma e Bambino a indirizzo segreto.Maurizio Romanato è nato a Rovigo il 27 ottobre 1954. Ha conseguito la maturità classica al Liceo Celio di Rovigo nel 1972, si è poi laureato in Ingegneria civile edile all’Università di Padova, è al Gazzettino redazione di Rovigo dal 1977. Giornalista professioni-sta, cura da anni la pagina della cultura-spettacoli dell’edizione pro-vinciale. Nell’ambito della storia dello sport ha scritto “Francesco Gabrielli (1857-1899) Le origini del calcio in Italia: dalla ginnasti-ca allo sport”, edito da Antilia di Treviso nel 2008; fa seguito a “Ro-vigo Calciostoria” (con Stefano Ca-salicchio) edizioni Ipag nel 1989, “Il calcio veneto” di Gianni Bre-ra, Neri Pozza editore nel 1997, mentre con Alberto Garbellini nel 2006 ha realizzato “Rovigo in C2, un’emozione per sempre”.Sergio Sottovia è nato a Crespi-no nel 1946. Pubblicista dal 1990, ha respirato l’aria sportiva dei campi di calcio, come giocatore dirigente della Fulgor Crespino. Be-nemerenza sportiva della Figc, del Coni e della Provincia di Rovigo, è stato cronista e cantastorie per il Re-sto del Carlino e per Areasport Ro-vigo. Tuttora collabora con Delta Radio e con alcune testate venete. Ha pubblicato la trilogia “Polesine gol” (circa 100 personaggi del calcio polesano) e la storia degli “Olimpionici & Gentlemen” nel li-bro edito per i “50 anni del Panath-lon Rovigo”.Alessandra Tozzi è psicologa. Fondatrice e Presidente di due As-sociazioni, Ametiste e Sagittaria, operanti nel territorio provinciale, da anni si occupa di tematiche sociali ed educative. Partner e co-ordinatrice di area del progetto comunitario “Città Gentili”, lavora attivamente per combattere e preve-nire la violenza di genere attraver-so corsi di formazione e sostegno psicologico alle vittime. Tra le sue competenze vi sono la gestione e il supporto a problematiche legate all’infanzia e alla disabilità.Matteo Veronese vive e lavora a Rovigo, di professione Paesaggista, socio AIAPP (Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio).

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