Religioni e buona morte di sergio manna

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1 FINO ALLA FINE: FESTIVAL DEL SAPER VIVERE Tolentino, Castello della Rancia Domenica 12 ottobre 2014 Tavola rotonda sul tema: La religione ha (ancora) qualcosa da raccontare sulla buona morte? In apertura; Ascolto: ''Komm, süßer Tod'', di J.S. Bach, BWV 478: http://youtu.be/U-I7wbMY-A4 (min 3,36, con power point in cui si mostra la traduzione del testo) Care amiche a cari amici, ho voluto iniziare con l’ascolto di un brano di J.S. Bach perché da esso traspare qualcosa di quella che dalla mia prospettiva, cioè quella di un cristiano, pastore valdese e cappellano clinico, potrebbe essere una “buona morte”. Certo si tratta di un brano che proviene da un’altra epoca, un’epoca nella quale la morte non era un tabù, un’epoca nella quale (per riprendere concetti espressi da Philippe Ariès, nel suo splendido libro Storia della morte in Occidente 1 ) ci si confrontava con la “morte addomesticata” (al cui incontro si cercava di arrivare preparati); l’epoca nella quale si reci tava la preghiera “de morte repentina libera nos Domine” (Signore preservaci dalla morte improvvisa). Noi però viviamo in un’altra epoca, un’epoca molto diversa; quella nella quale la realtà della morte viene continuamente rimossa. Se J.S. Bach e i suoi contemporanei erano pienamente consapevoli di quella semplice verità enunciata nel libro biblico del Qoelet, secondo il quale “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire” (3:2) ed erano dunque più disponibili ad accogliere la morte nel proprio orizzonte, noi viviamo in un un’era in cui tutto questo è scomparso. La grande differenza tra noi e il Qohelet, come direbbe il teologo protestante Paul Tillich, è che noi ci illudiamo di aver tempo, mentre lui è ben consapevole che siamo a tempo (We are timed!). Noi viviamo come se non dovessimo mai morire, quasi che il possedere l’orologio ci desse l’illusione di possedere il tempo, di averlo nelle nostre mani. Di conseguenza, non ci prepariamo più alla morte e dunque, il più delle volte, non siamo nemmeno preparati ad accompagnare chi muore. La nostra è l’epoca della “morte selvaggia” (come la chiama Ariès); l’epoca in cui la morte è quasi sempre vissuta come un’ingiustizia, un’affronto; quella nella quale la morte improvvisa (naturalmente il più tardi possibile) è quella auspicata, nell’illusione che il morire all’improvviso comporti il non accorgersi che si sta effettivamente morendo. Date queste premesse se alla domanda che da il titolo a questa Tavola Rotonda La religione ha ancora qualcosa da raccontare sulla buona morte? dovessimo dare una risposta a bruciapelo, a partire dall’osservazione della società nella quale viviamo, si 1 Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano, 1989.

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Noi viviamo come se non dovessimo mai morire, quasi che il possedere l’orologio ci desse l’illusione di possedere il tempo, di averlo nelle nostre mani. Di conseguenza, non ci prepariamo più alla morte e dunque, il più delle volte, non siamo nemmeno preparati ad accompagnare chi muore. La nostra è l’epoca della “morte selvaggia” (come la chiama Ariès); l’epoca in cui la morte è quasi sempre vissuta come un’ingiustizia, un’affronto; quella nella quale la morte improvvisa (naturalmente il più tardi possibile) è quella auspicata, nell’illusione che il morire all’improvviso comporti il non accorgersi che si sta effettivamente morendo.

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FINO ALLA FINE: FESTIVAL DEL SAPER VIVERE

Tolentino, Castello della Rancia

Domenica 12 ottobre 2014

Tavola rotonda sul tema:

La religione ha (ancora) qualcosa da raccontare sulla buona morte?

In apertura; Ascolto: ''Komm, süßer Tod'', di J.S. Bach, BWV 478:

http://youtu.be/U-I7wbMY-A4 (min 3,36, con power point in cui si mostra la traduzione del

testo)

Care amiche a cari amici,

ho voluto iniziare con l’ascolto di un brano di J.S. Bach perché da esso traspare

qualcosa di quella che dalla mia prospettiva, cioè quella di un cristiano, pastore

valdese e cappellano clinico, potrebbe essere una “buona morte”.

Certo si tratta di un brano che proviene da un’altra epoca, un’epoca nella quale la

morte non era un tabù, un’epoca nella quale (per riprendere concetti espressi da

Philippe Ariès, nel suo splendido libro Storia della morte in Occidente1) ci si

confrontava con la “morte addomesticata” (al cui incontro si cercava di arrivare

preparati); l’epoca nella quale si recitava la preghiera “de morte repentina libera nos

Domine” (Signore preservaci dalla morte improvvisa).

Noi però viviamo in un’altra epoca, un’epoca molto diversa; quella nella quale la

realtà della morte viene continuamente rimossa. Se J.S. Bach e i suoi contemporanei

erano pienamente consapevoli di quella semplice verità enunciata nel libro biblico del

Qoelet, secondo il quale “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire” (3:2) ed

erano dunque più disponibili ad accogliere la morte nel proprio orizzonte, noi

viviamo in un un’era in cui tutto questo è scomparso.

La grande differenza tra noi e il Qohelet, come direbbe il teologo protestante Paul

Tillich, è che noi ci illudiamo di aver tempo, mentre lui è ben consapevole che siamo

a tempo (We are timed!).

Noi viviamo come se non dovessimo mai morire, quasi che il possedere l’orologio ci

desse l’illusione di possedere il tempo, di averlo nelle nostre mani.

Di conseguenza, non ci prepariamo più alla morte e dunque, il più delle volte, non

siamo nemmeno preparati ad accompagnare chi muore.

La nostra è l’epoca della “morte selvaggia” (come la chiama Ariès); l’epoca in cui la

morte è quasi sempre vissuta come un’ingiustizia, un’affronto; quella nella quale la

morte improvvisa (naturalmente il più tardi possibile) è quella auspicata,

nell’illusione che il morire all’improvviso comporti il non accorgersi che si sta

effettivamente morendo.

Date queste premesse se alla domanda che da il titolo a questa Tavola Rotonda La

religione ha ancora qualcosa da raccontare sulla buona morte? dovessimo dare una

risposta a bruciapelo, a partire dall’osservazione della società nella quale viviamo, si

1 Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano, 1989.

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sarebbe tentati di rispondere: “No. La religione non ha più nulla da raccontare sulla

buona morte!”.

E, in effetti, se parliamo di religione intesa nel senso di un insieme di miti e riti, di

credenze e comportamenti fortemente sentiti e vissuti, è innegabile che la religione,

per i più, ha smesso di essere un riferimento esistenziale fondamentale.

Ma in verità, se ci pensiamo, le cose non sono però poi così semplici.

La realtà è molto più complessa, perché la nostra vita è complessa.

Può allora accadere che alcune tematiche che in alcune fasi della nostra esistenza,

quando ci sentiamo pieni di vita e salute, possono apparire irrilevanti, diventino

invece importanti quando la salute viene meno e la vita comincia a sfuggirci, quando

realizziamo che non abbiamo tutto il tempo, perché siamo a tempo.

Molto spesso è in quelle situazioni che riemergono le domande sul senso e lo scopo

della vita, con tutto il corollario di questioni che spesso rimandano alla religione o,

meglio, alla spiritualità.

Cosa ha da raccontare allora la religione sulla buona morte? Cosa ha da offrire a chi

sta per lasciare questa vita e a coloro che rimangono?

Personalmente ritengo fondamentale che ogni parola pronunciata da chi si occupa di

cura spirituale dei malati e dei morenti (ma ciò vale naturalmente anche per i sani) sia

una parola autentica, una parola che nasce soltanto dopo che ci si è concentrati

sull’ascolto profondo di colui o di colei che abbiamo di fronte.

Sono stato per diversi anni cappellano ospedaliero e devo moltissimo ai corsi di

Clinical Pastoral Education (CPE) frequentati negli Stati Uniti, in ospedale, e che

hanno cambiato radicalmente il mio modo di fare cura pastorale.

L’iniziatore del movimento che ha dato vita al CPE, Anton Theophilus Boisen (1876-

1965) era un pastore presbiteriano che, ricoverato in ospedale per episodi psicotici,

aveva sperimentato sulla propria pelle quanto la cura pastorale tradizionale fosse

inefficace e quanto fosse urgente imparare a leggere oltre alla Bibbia e ai testi di

teologia e spiritualità, quello che egli definiva il living human document (il

documento umano vivente, cioè la persona umana nella sua complessità, biologica,

biografica, psicologica, emotiva e spirituale), per arrivare ad esercitare una cura

pastorale che fosse davvero terapeutica.

Ma torniamo alla nostra domanda:

Cosa ha da raccontare la religione sulla buona morte? Cosa ha da offrire a chi sta

per lasciare questa vita e a coloro che rimangono?

Un operatore spirituale, pastore o laico che sia, può offrire molto se sa innanzitutto

ascoltare in maniera empatica, se sa accogliere con vivo interesse la narrazione di chi

gli sta di fronte, se non si affretta a rispondere con frasi fatte, preghiere generiche non

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richieste e letture sacre che non hanno nulla a che vedere con quanto espresso dal

paziente; può offrire molto se sa accoglierne anche la rabbia e perfino la bestemmia

senza scandalizzarsi, senza fuggire via, senza affrettarsi a difendere Dio anziché

solidarizzare con il sofferente (Cfr. gli amici di Giobbe, da lui chiamati “consolatori

molesti”).

Apprendendo e poi insegnando pastorale clinica ho imparato che quando una persona

chiede “Perché Dio mi fa questo?”, la sua non è una domanda teologica che necessiti

di un sermone o di una lezione di catechismo, bensì un grido d’aiuto al quale si

risponde con l’esserci, con la presenza personale, spesso silenziosa, e che quella

presenza può comunicare molto di più la vicinanza di Dio di quanto non possano fare

mille discorsi o i migliori testi di teologia o di spiritualità.

Se vi è vero ascolto, vera vicinanza umana e spirituale a chi soffre, allora quando si

offrirà una lettura biblica sarà quella di un brano che è in piena sintonia con lo stato

d’animo del paziente, con la storia che lui o lei ci ha raccontato; se vi sarà una

preghiera sarà una preghiera che nasce da quelli che sono i desideri, le speranze, le

ansie o le preoccupazioni che lui o lei ha condiviso con noi.

Chi si avvicina alla morte si aspetta da noi cura, ascolto, vicinanza, solidarietà.

In particolare, dagli operatori pastorali ci si aspetta una teologia che sappia incarnarsi

nella condizione umana.

Quando questo avviene veramente, diventa possibile fare esperienze sorprendenti.

Se impariamo ad ascoltare profondamente scopriremo che spesso sono proprio i

morenti che ci aiutano a comprendere come vogliono essere accompagnati e a

suggerirci (direttamente o indirettamente) quale testo biblico o quale preghiera

possono aiutarli a conseguire una buona morte. E’ il caso di Bruno B.

Racconto della visita a Bruno B., morto a 61 anni di cancro al cervello Estratto dal verbatim della visita a Bruno B. (indicato come P, che sta per paziente, nel testo

che segue, mentre io sono C, che sta per cappellano):

…(P sembra risvegliarsi dal sonno. Apre gli occhi, che scopro essere grandi e azzurri, e mi sorride.

Ogni tanto, durante la conversazione, sembrava farfugliare nel dormiveglia qualcosa di difficile

comprensione, ma adesso, stringendo forte la mia mano, prende la parola parlando con una chiarezza

che mi lascia stupito.)

P1: Stiamo andando… Stiamo andando.

C9: (sento che P vuole comunicarci qualcosa di importante e che devo aiutarlo ad esprimerlo. Nel

dire quello che sto per dire spero che la figlia comprenderà il perché mi comporto così): Dove stiamo

andando P?

P2: Dobbiamo andare alla casa del Padre.

C10: (le parole di P mi toccano profondamente. So che non è sotto l’effetto della morfina, che non gli

è stata ancora somministrata. Mi sembra che questo sia un momento sacro. Dopo una pausa decido di

osare) E’ lì che vuole andare P?

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P3: (con grande serenità) Si.

C11: E il Signore ci accoglierà lì, nella sua casa.

(P sorride con gli occhi spalancati, come se vedesse qualcosa che noi non vediamo. Nel frattempo la

moglie è entrata nella stanza e la figlia le racconta quello che è successo. C’è grande commozione

nella stanza. Dal volto di P promana una grande serenità. E’ evidente che è pronto ad andarsene.)

C12: (rivolto a P) C’è un brano del Vangelo che parla della casa del Padre. Vuole che lo

leggiamo?

P4: Si.

C13: (cerco nel Vangelo di Giovanni, ma ho una pessima memoria numerica e spero soltanto di

riuscire a trovare quel brano che amo molto e che mi sembra proprio esserci stato suggerito da P. Ho

già la certezza che questo sarà il brano per il suo funerale e non mi sembra cinico che questo pensiero

si sia già affacciato nella mia mente. Quest’uomo è pronto ad andare alla casa del Padre e ce lo ha

detto chiaramente. Finalmente trovo la pagina giusta. E’ il capitolo 14 di Giovanni, i versetti da 1 a 6.

Li leggo, non senza emozione. Durante la lettura mi accorgo che la moglie ascolta con attenzione):

1 «Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!

2 Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che io vado a prepararvi

un luogo? 3 Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me,

affinché dove sono io, siate anche voi; 4 e del luogo dove io vado, sapete anche la via».

5 Tommaso gli disse: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?» 6 Gesù gli

disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.

Vogliamo raccoglierci in preghiera:

“Signore, Dio nostro, vogliamo confidare in te, in te che sei la via, la verità e la vita. Tu che ci hai

promesso di accoglierci nella casa del Padre, prendi per mano il nostro fratello P, che ha espresso il

desiderio di venire a te. Liberalo da ogni dolore e donagli la tua pace. Questo ti chiediamo nel nome

di Gesù, che è benedetto in eterno”. Amen.

P5: (sempre sorridendo) Amen.

(Subito dopo Bruno B. scivola nel sonno e dopo un paio di giorni muore serenamente).

Questo è ciò che è accaduto a Bruno.

Ma non sempre le cose vanno così; non sempre si giunge ad accettare la morte con tale

serenità. C’è anche chi rimane bloccato nella fase della rabbia, senza riuscire a lasciare

andare, a lasciarsi andare. Molto spesso questo ha anche a che fare con la qualità del

nostro accompagnamento, con la nostra capacità (o incapacità) di stare accanto al

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morente accogliendo anche la sua rabbia, magari dandogli la possibilità di esprimerla.

Questo può fare la differenza!

Nella mia pratica di cappellano clinico mi è già capitato di vedere come persone

gravemente e ingiustamente colpite da malattie terribili, che maledicevano Dio, come

vedendo in lui l’origine dei propri mali, siano poi giunte a riconoscerlo non più e non

tanto nella loro malattia, o nella mancanza di guarigione, quanto piuttosto nella

presenza costante di coloro che le hanno accompagnate, aiutate e sostenute, con

amore, pazienza, rispetto, senza alcuna forma di giudizio o pregiudizio (Ricordo di

Stella S. che diceva: “Quando andrò dall’altra parte voglio portare con me un

otorino e un oculista per Dio, perché lui a me non mi ha né vista né sentita”, ma che

accompagnata nel suo percorso di malattia ha concluso i sui giorni serena e

riconciliata).

Talvolta ho potuto sperimentare come persone la cui unica preghiera poteva essere

"Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?"2, in seguito a un buon

accompagnamento spirituale concludessero la propria esistenza facendo propria

un’altra preghiera biblica, quella del Salmo 103: "Anima mia, benedici il Signore"3.

So bene che purtroppo in molti casi la vita si conclude comunque con quel grido

terribile: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?"; sono anche le ultime

parole di Gesù sulla croce, ma da credente mi consola il fatto che la risposta di Dio a

quella preghiera, per Gesù come per noi, esiste e si chiama risurrezione.

Che si condivida o meno una tale fede, una cosa è certa: un buon accompagnamento

può fare la differenza nel modo in cui le persone lasciano questa vita e, in questo, la

dimensione spirituale può avere un ruolo determinante.

Questa consapevolezza comincia faticosamente a farsi spazio anche nel mondo della

medicina se pensiamo al fatto che dal 2010 in Germania, all’Università di Monaco,

nell’ambito della cattedra di Medicina Palliativa sono stati istituiti corsi di Spiritual

Care, tenuti sia da un teologo cattolico sia da un teologo protestante, e rivolti

specificamente a chi intende svolgere la professione medica4.

L’idea di fondo è che, indipendentemente dall’esistenza o dall’assenza di una fede

personale, chi svolge la professione medica debba sapere come reagire quando un

paziente, al quale resta poco da vivere, pone domande del tipo: “Chissà cosa c’è

dall’altra parte?”, “Chissà cosa mi attende?”.

In casi come questi non bisogna fingere una fede che forse non si ha, né demandare

troppo sbrigativamente al cappellano il compito di dire qualcosa.

2 Salmo 22:1.

3 Salmo 103:1.

44 Gian Domenico Borasio, Über das Sterben, DTV, München, 2014, p.94.

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Basterebbe semplicemente rispondere: “Lei come se lo immagina? Come vorrebbe

che fosse?”. Anche questa disponibilità ad esplorare le domande e la dimensione

spirituale dei pazienti può favorire una buona morte e questa consapevolezza

dovrebbe abitare tutto il team di persone coinvolte nel processo di cura e

accompagnamento.

E’ un dato di fatto che spesso è il paziente a decidere da chi vuole essere

accompagnato spiritualmente, e non è detto che la persona prescelta debba essere

necessariamente il cappellano.

A questo proposito vorrei condividere con voi un aneddoto che il Prof. Borasio

riporta nel suo libro.5

La Signora W.

“La signora W. , una paziente di 87 anni, affetta da cancro al seno all’ultimo stadio,

che dovevo visitare, causa “inquietudine”, si rivelò durante la visita come una

anziana Signora minuta, dotata di grande charme, senza fastidi fisici acuti e con un

eccellente controllo dei sintomi. Quando le chiesi delle sue ansie, mi disse che aveva

una terribile paura di morire e di ciò che poteva attenderla dopo la morte. Nell’arco

di un’ora mi raccontò la sua intera vita e io l’ascoltai senza interrompere il suo

monologo. Dopo era più serena e ci salutammo. Naturalmente, all’atto della visita

io indossavo tutte le insegne che rimandavano alla mia professione: il camice bianco,

il cartellino con il mio nome e la mia qualifica, lo stetoscopio, eccetera. Eppure,

quando nel pomeriggio il cappellano, responsabile per la cura pastorale dei pazienti

ricoverati in quella struttura, passò a fare il suo giro di visite venne da lei salutato

con le parole: “Non c’è bisogno che venga qui, il pastore è già passato”.

(riflessioni di Borasio sull’aneddoto).

Non è un caso, comunque, che questo tipo di esperienze avvengano soprattutto

nell’ambito delle strutture hospice e ovunque siano attive delle buone equipe di cure

palliative.

Accompagnare spiritualmente chi sta morendo può apparire come qualcosa di

titanico, ma talvolta basta essere aperti e presenti e lasciarsi guidare proprio da colui

o colei che sta per varcare la soglia tra l’aldiqua e l’aldilà.

Permettetemi di presentarvi un bell’esempio di questo mediante un breve video:

Intervista a Frank Ostaseski, tratta dal documentario Intorno alle ultime cose, di

Francesca Catarci (dal min 46,33al min 48,56).

Ecco, per me questo è accompagnamento spirituale, questo è il modo in cui la

religione può avere ancora qualcosa da raccontare a proposito di “buona morte”, e

5 Gian Domenico Borasio, op. cit., p. 97.

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non a caso ho voluto scegliere anche un esempio tratto dall’esperienza di un credente

appartenente a una fede diversa dalla mia, quella buddhista (nella fattispecie Zen).

In conclusione mi sento di poter dire, senza alcun dubbio, che la religione, anzi le

religioni, possono ancora avere qualcosa da raccontare, da dire, da offrire in vista del

raggiungimento di una “buona morte”.

Si tratta allora di riscoprire, rielaborare e attualizzare l’antica ars moriendi, aiutare le

persone a prepararsi alla morte, dando loro la possibilità di esprimere le proprie

emozioni, i propri sentimenti, le proprie paure, offrendo loro ascolto, supporto,

consolazione; stimolandole a riscoprire le proprie risorse spirituali, affinché possano

arrivare alla fine dei propri giorni senza lasciare nulla in sospeso, in pace, serenità e

dignità, riconciliate con Dio e con il prossimo, magari facendo proprio il “nunc

dimittis”, la preghiera di Simeone, che dopo aver incontrato il Salvatore dice con

serenità:

“Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola;

perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza” (Luca 2:29).

E voglio concludere proprio così, proponendovi l’ascolto di una rielaborazione del

“nunc dimittis” fatta da Johann Sebastian Bach. E’ un brano che si chiama “Ich habe

genug”6 e, secondo me, esprime al meglio la possibilità di andarsene da questo

mondo serenamente.

http://www.youtube.com/watch?v=rDmmb9DVH_E (min. 8,02, power point con la

traduzione del testo)

Dr. Sergio Manna

Pastore valdese

Supervisor in Clinical Pastoral Education (CPE)

College of Pastoral Supervision and Psychotherapy (CPSP)

[email protected]

6 J. S. Bach, Ich habe genug (BWV 82).

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