Relazioni internazionali - Vivere Scienze Politiche · 2018. 5. 19. · relazioni internazionali ci...
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Appunti di Luisiana Schiera e Alberto Presti
VIVERE SCIENZE POLITICHE
Relazioni internazionali
Supporto appunti
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1. Natura ed evoluzione delle relazioni internazionali
2. Balance of power
3. Le teorie realiste
4. Le teorie egemoniche
5. Le teorie marxiste
6. Interdipendenza complessa e regimi
7. Il paradigma groziano
8. Le teorie pluraliste
9. Rapporto tra democrazie e conflitti
10. L’evoluzionismo
11. Il costruttivismo
12. L’organizzazione del sistema politico internazionale
13. Il mutamento del sistema politico internazionale
14. Sicurezza internazionale e conflitti armati
15. Conflitti armati e operazioni di pace
16. La globalizzazione
VIVERE SCIENZE POLIT ICHE
Indice
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
Natura ed evoluzione delle Relazioni Internazionali
Per comprendere la politica nazionale occorre capire cosa avviene in territorio internazionale. Tra
India e Pakistan vi è un conflitto a bassa tensione, che è uno dei più importanti del momento; pur
essendo distinti tra loro, sono profondamente influenzati da quello che avviene nell’altro paese. Tra i
due i rapporti sono altamente legati dal terrorismo: in India vi sono stati numerosi attentati terroristici
che hanno matrice pakistana. L’influenza reciproca potrebbe essere originata dalla vicinanza
territoriale. Ma ad esempio in Italia arrivano flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana.
Provare a considerare gli Stati come autosufficienti è irrealistico. Quando si parla di relazioni
internazionali si parla di relazioni tra stati che prendono decisioni. Gli attori possono cambiare, e
sono ampiamente cambiati nel tempo; ad esempio la Vallonia (Belgio) ha bloccato per molto tempo
il trattato tra Europa e Canada, è un caso in cui una realtà regionale ha avuto un ruolo importante.
L’approccio delle relazioni internazionali considera insoddisfacenti gli studi che sono stati svolti in
precedenza; ad esempio le relazioni internazionali avevano portato al fatto che le guerre fossero
sempre più mortali. Prima era sufficiente vincere una battaglia, non si trovava la necessità di
distruggere il nemico. Nella contemporaneità le guerre diventano guerre di nazioni: l’elemento
identitario è fondamentale. Si arriverà poi alle guerre totali, dove è fondamentale annientare il nemico.
La guerra diventa sempre più inaccettabile; prima era considerata positivamente, ma questo fattore
cambia proprio per la distruzione che causa. Se la guerra è un fattore negativo, come si fa a non andare
in guerra? Gli Stati cominciarono a darsi delle regole che devono essere rispettate. Il problema che si
crea è però che queste regole non vengono rispettate; allora quali sono le cause che spingono a
rispettare o no le regole? L’approccio storico è utile ma serve qualcosa che spieghi cause ed effetti.
Nel quadro di dare più ampio spazio alle relazioni internazionali, nascono le relazioni internazionali.
È proprio questo che porterà alla creazione della Società delle Nazioni; questa benne quasi imposta
da Wilson a Gran Bretagna e Francia in un momento in cui la Gran Bretagna era la forza egemone.
In Gran Bretagna la disciplina delle relazioni internazionali nasce con la prima cattedra in Galles, che
aveva come scopo la volontà di creare pace tra le nazioni, ricercando l’antidoto alla guerra generale.
Gli Stati che svolgono ruoli primari hanno il maggiore interesse nelle relazioni internazionali, per
questo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si è sviluppata maggiormente la materia. Nel corso degli
anni molto è cambiato, e si è sempre più sviluppato un approccio eurocentrico. Quando si parla di
relazioni internazionali ci si riferisce ad una materia che cerca di capire cose che altre materie non
sarebbero in grado di comprendere. Alla base c’è il rapporto matematico se 𝑋 allora 𝑌, come nella
scienza politica. se per lo studioso di storia gli eventi sono rilevanti singolarmente, gli studiosi di
relazioni internazionali cercano di individuare elementi comuni che daranno la possibilità di tracciare
linee di tendenza; cercherà di individuare le relazioni tra le principali variabili. Sono importanti i nessi
causali, solo così possono essere fatte previsioni sul futuro. L’analisi che viene fatta è atemporale, si
parte dalla storia per arrivare a generalizzazioni. Altra differenza può essere fatta con il diritto
internazionale; esso è legato alla regolamentazione, per cui dovrebbe essere rispettato, ma non esiste
un’autorità superiore quindi è anarchico. Unico soggetto dotato di autorità parziale è il Consiglio di
Sicurezza dell’ONU, ma non è paragonabile ad un governo mondiale. Nei fatti non c’è nessuno che
possa obbligare un altro stato a fare qualcosa. L’aspetto che interessa allo studioso di relazioni
internazionali è capire i vantaggi che hanno portato alla sottoscrizione di un determinato trattato:
cristallizzando un rapporto di egemonia. Altra differenza è la differenza tra scienza politica e relazioni
internazionali. Nella seconda, i fattori da tenere insieme sono molti di più: non è una differenza
banale. Se si tiene in considerazione il contesto esterno, può essere compresa la politica estera di un
paese.
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
Balance of Power
Dall’anarchia deriva l’insicurezza degli Stati. Rilevante per le politiche degli stati sono le capacità
relative. L’assunto principale della balance of power è la caratteristica che distingue gli statti. Già
nella fase di Utrecht troviamo caratteristiche dell’equilibrio di potenza ante-litteram. Esso ha assunto
diversi significati, come stabilità all’interno di un sistema. Alcuni Stati sono ritenuti necessari per
l’equilibrio; l’equilibrio è necessario per far sì che uno Stato non sovrasti l’altro. Il sistema è composto
da tutti gli Stati, ma vengono presi in considerazione solo quelli necessari all’equilibrio, che si
mantiene attraverso le guerre e la diplomazia. Gli studiosi realisti e neo-realisti partono dal fatto che
la guerra è naturale. Hans Morgenthau sostiene che la balance of power è l’unico strumento che riesce
a mitigare l’anarchia, o meglio le conseguenze di essa. Gli Stati sono naturalmente anarchici e per
questo esiste la balance of power, per mitigare la propensione alla guerra. Se l’unico fine fosse la
stabilità allora non servirebbe che uno stato egemone, ma il fine è la stabilità e il mantenimento degli
elementi centrali deli sistema che non possono essere soppressi, per questo Morgenthau sottolinea
l’importanza della balance of power. Le politiche di ban vagoning non servono, ma quelle di
balancing invece sì: i più deboli contro il più forte fa sì che si mantenga l’equilibrio. Fino a quando
c’è l’equilibrio, la sopravvivenza degli Stati è assicurata, mentre se l’equilibrio non fosse presente, si
potrebbe arrivare alla guerra generale. La regola principale che deve guidare gli allineamenti è quella
della Realpolitik, il nemico del mio nemico è mio amico. Vi sono due schemi principali della balance
of power: opposizione diretta e competizione. Il primo si basa sul fatto che lo stato 𝐴 può
intraprendere una politica imperialistica verso 𝐵 e 𝐵 può intraprendere una politica dello status quo
o imperialistica, sperando di avere successo. 𝐴 =>
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non essere opportuno. La quarta strategia, è quella delle alleanze mirate per la flessibilità degli
allineamenti, anche un amico dello Stato più forte dovrebbe passare dall’altra parte.
Gli attori principali tendono a sopravvivere, perché troveranno sempre coalizioni che garantiranno la
loro sopravvivenza. L’idea della balance of power è fortemente influenzata dalla visione ciclica della
storia, gli Stati non potranno che comportarsi in un certo modo. Per portare il sistema in equilibrio
non si deve guardare alla dimensione etica degli Stati, perché la loro sopravvivenza dipende
dall’equilibrio e da ciò che fanno per mantenerlo. Sia nella versione dei realisti sia dei neo-realisti la
teoria dell’equilibrio ha bisogno che gli Stati si alleino per volontà di potenza. Le alleanze tendono a
non sopravvivere dopo la loro vittoria, perché queste sono alleanze di scopo.
Le teorie realiste
Il mondo delle teorie realiste è molto variegato. Ad esempio è molto difficile decidere se il sistema è
bipolare o multipolare: Kenneth Waltz tra i due pensa che il sistema bipolare sia il più stabile.
Morgenthau invece pensava che il sistema più stabile fosse quello multipolare. Gli errori di
percezione sono sempre dietro l’angolo: il sistema può rimanere in equilibrio solo se tutti conoscono
le regole del gioco (altrimenti guerra generale). La balance of power è il meccanismo che ha
funzionato molto bene nel XVIII secolo, successivamente è stato messo in discussione dalle stesse
grandi potenze. Sono molti i casi che mettono in discussione questo meccanismo: spesso gli Stati
seguono politiche di ban vagoning non di balancing. Waltz pensa che un correttivo vada introdotto:
è legato alla minaccia che uno stato pone; grado di minacciosità, cioè se sei una potenza imperialista
oppure no, è l’elemento di cui tenere conto nella politica internazionale. Questa correzione aiuta a
spiegare cose non spiegabili: ad esempio perché nella Prima guerra del Golfo gli Stati Uniti si
allearono con il Kuwait? Perché l’Iraq era revisionista; questa teoria è meno falsificabile. All’interno
delle teorie realiste si riescono ad individuare quattro correnti: quella classica di Morgenthau,
democrazia essenziale; strutturale, ovvero è sufficiente che gli Stati si accorgano che l’anarchia
naturale li porti alla balance of power; offensiva, ovvero una ramificazione della seconda, la quale
ritiene che lo Stato per sopravvivere sia costretto ad avere sempre di più, per questo tutti gli Stati
cercheranno di annettere più Stati fino all’equilibrio: gli Stati sono più violenti ovviamente;
eterodossa, ovvero l’elemento dell’ideologia qui è importante, si sofferma sulla tendenza a fare
cambiamenti di natura interna; gli Stati che hanno alcune ideologie non mirano solo ad aumentare
risorse, ma anche a cambiare il sistema interno negli Stati, porta ad un tipo di conflitto più sanguinoso,
il diverso deve essere distrutto (aumenta l’instabilità del sistema). L’ultima corrente è quella
difensiva, il meccanismo dell’equilibrio di potenza è di deterrenza, perché gli Stati rispondono solo
se ritengono che la loro esistenza è messa in pericolo e quindi non sono violenti, la politica interna e
l’ideologia sono rilevanti. Ovviamente sono state mosse delle critiche, la balance of power è troppo
fragile per farci affidamento, il rischio che porta a non capire quando sia stato raggiunto l’equilibrio
è troppo elevato; è più un’illusione che un meccanismo sul quale basare la politica internazionale. Ci
sono poi elementi nuovi come la nessificazione della politica, o anche la crescita della democrazia:
ciò comporta un irrigidimento delle linee di potenza (la flessibilità è essenziale per la balance of
power); proprio per le ideologie, molti stati democratici si sono alleati e si trovano bene insieme.
Altro pericolo è lo sviluppo tecnologico elevato: le guerre non sono più come prima, e questo cambia
in continuazione, vi è l’impossibilità di fare affidamento all’equilibrio di potenza e alla riduzione di
conflitti intrastatali. Secondo Ikenberry si è passati dalla balance of power ad un ordine costituzionale
negoziato che si basa sull’idee della sicurezza collettiva; la sicurezza è garantita meglio da un
egemone o da un meccanismo di ordine negoziato anche dall’egemone stesso. Per capire quali son le
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grandi potenze oggi bisogna partire dalle capacità militari, economiche, attrazione ideologica e
volontà: bisogna capire quali sono gli stati che hanno proiezione globale delle risorse militari; ci
interessa capire chi ha capacità economiche tali da organizzare il sistema e inoltre chi ha ideologia
ammirate da altri e volontà di diventare stato egemone.
Le teorie egemoniche
L’equilibrio di potenza non dovrebbe mai portare ad una forma egemonica, ma non è così. A
dimostrazione che la soluzione dell’equilibrio di potenza non sia un assetto definitivo, può evitare le
guerre generali, ma è necessario che ci siano piccoli conflitti. Rappresentano quindi una
contraddizione rispetto alla balance of power. Le teorie egemoniche nascono come critica ad alcuni
aspetti delle teorie realiste. Se solo il fattore militare fosse importante non staremmo a parlare della
Corea del Nord. Certamente rilevanti sono i fattori militari, ma dagli anni ’70 vi è la consapevolezza
che altri fattori sono altrettanto importanti. Nel 1973 scoppia la crisi petrolifera, ci si accorge che la
dimensione economica è importante (si crea interdipendenza tra stati). Di conseguenza si fa un passo
avanti, la gestione dell’ordine economico internazionale diventa importante quanto l’ordine politico
internazionale. L’ordine egemonico, secondo Robert Gilpin, è un ordine contemporaneamente
economico e militare, di portata globale: questo significa che a livello mondiale non si viene a creare
una coalizione alternativa che sfidi l’ordine egemonico. La potenza egemone ha bisogno del controllo
funzionale. L’egemone può avere disinteresse su alcuni stati regionali dove si crea un equilibrio di
potenza; l’ordine che si crea nel teatro regionale deve essere sopportabile dalla potenza egemone.
Quando si parla di egemonia, si parla di una disuguaglianza multidimensionale e nell’organizzazione
producono regole e istituzioni sulle quali troveranno maggior consenso o opposizione. Lo stato che
riceve più consenso sarà quello che diventerà egemone. Quello che rimane è che il sistema è
gerarchico, il potere dell’egemone sarà superiore rispetto a quello degli altri stati del sistema. Nella
Seconda guerra mondiale la Germania era uno sfidante della Gran Bretagna, volendo creare un
sistema alternativo. Quando la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si alleano, viene promossa una nuova
organizzazione. Per mantenere i costi della situazione egemonica, la potenza deve dare qualcosa in
cambio. Gli stati sono attori razionali e Gilpin trae spunto dalle teorie microeconomiche: l’egemone
ha un costo e dei benefici, inizialmente i benefici supereranno i costi, ma alla fine addirittura i costi
supereranno i benefici. Con il passare del tempo, come si erodono i profitti, si erode il consenso.
Dall’insoddisfazione degli Stati del sistema, si creerà una organizzazione dell’insoddisfazione e lo
stato scelto come egemone creerà uno sfidante che porterà ad una guerra totale egemonica. Dallo
scontento delle organizzazioni esistenti, si creano alternative. È un meccanismo ciclico, l’egemone
nasce ma non può non morire.
Gilpin introduce l’elemento del consenso, nessuno stato ha potere da solo per organizzare l’egemonia
(insostenibile non avere consenso, fondamentale mantenerlo): è diverso dall’impero mondiale che si
caratterizza per la costrizione. Per le teorie realiste quello che succede oggi o domani è sempre lo
stesso; per gli egemonici l’aspetto del cambiamento della leadership è significativo. Lo scopo dello
stato egemone è quello di convincere che la situazione egemonica è ancora la migliore. Nella struttura
l’organizzazione rimane uguale, ma nelle fasi cambia. Gilpin ha formulato 5 assunti fondamentali: il
primo è che il sistema internazionale è in equilibrio se nessuno stato vuole cambiare il sistema; il
secondo è che uno stato cercherà di cambiare la situazione se i benefici attesi sono minori dei costi
attesi, la sfida verrà lanciata quando l’egemone sarà in declino, di conseguenza questo deve mantenere
alta la spesa militare; il terzo è che uno stato cercherà di cambiare il sistema attraverso l’espansione
politica, economica e territoriale fin quando il beneficio marginale è maggiore del costo marginale:
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inizialmente c’è una crescita rapidissima fin quando non si manifesta il dissenso, l’egemone è
inarrivabile e inarrestabile. Il quarto è che una volta raggiunto l’equilibrio tra costi e benefici, i costi
successivamente per mantenere lo status quo cresceranno sempre più, e questo è fonte di
indebolimento. Il quinto infine è che se lo squilibrio del sistema internazionale non si risolve, verrà
stabilito un nuovo equilibrio periferico, un nuovo assetto del potere (ad esempio gli Stati Uniti utilizzò
agli inizi del ‘900 il sistema fordista, che gli consentì di essere economicamente più forte di altri
paesi; Gilpin fa notare che poi anche gli altri stati hanno imparato a produrre allo stesso modo e quindi
il divario di produzione si è ridotto, il vantaggio si riduce progressivamente).
Altra teoria egemonica riguarda Charles Kindleberger; l’ordine economico liberale non può esistere
senza un egemone che lo sostenga: questo viene dall’esperienza storica. Affinché l’egemone possa
sostenere l’ordine, la potenza egemonica deve essere creata su fondamenti liberali anche dall’interno:
se c’è competizione politica all’interno, si aprono competizioni in ambito economico. Inoltre i
principali protagonisti devono trasferire gli ideali del liberismo anche in campo socio-politico,
l’egemone per esercitare quel ruolo deve avere non solo capacità ma anche volontà, questo si applica
anche alo sfidante: deve avere la volontà di portare aventi la sfida egemonica e di comportarsi come
stato egemone. Per di più, gli attori principali del sistema internazionale devono avere relazioni
economiche con la potenza egemone, questa deve essere luogo di attrazione. La politica egemonica
non può permettersi gli alti costi di una politica competitiva, gli altri stati devono volere mettersi in
relazione con la potenza egemone. Deve essere diffusa e condivisa la credenza che la potenza
egemonica sia legittimata e necessaria, gli stati devono essere convinti che accettare la potenza sia
meglio per loro, non devono avvertire l’elemento coercitivo. I protagonisti del sistema politico
internazionale non devono percepire che la potenza stia facendo i propri interessi, l’organizzazione
egemonica è utile solo per l’egemone ma questo gli altri paesi non lo devono capire. Allo stesso
modo, anche i cittadini della potenza egemonica non devono avere la percezione che mantenere
l’egemonia comporti più costi che benefici; quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti.
George Modelski elabora la teoria dei lunghi cicli, che ha qualche punto di contatto con Gilpin. I
fattori di disuguaglianza sono anche politici e culturali, oltre a quelli economici e militari. Per
Modelski l’organizzazione politica internazionale dipende dalla capacità della potenza di controllare
l’esito dei processi più importanti, non deve impegnarsi in ogni territorio altrimenti s’indebolisce.
Questa teoria analizza un periodo più lungo: Gilpin dà due cicli di egemonia, quello della Gran
Bretagna e quello degli Stati Uniti; Modelski identifica il primo ciclo di egemonia nella guida
portoghese, si guarda a quel periodo come inizio dell’egemonia; il secondo lo identifica nella guida
danese, il terzo e il quarto a guida inglese e infine il quinto a guida statunitense. Questi sono durati
cinque secoli, quindi più o meno un ciclo di egemonia dura un secolo. Modelski individua alcune
caratteristiche degli egemoni: capacità militare, storicamente quella più importante ovvero quella
navale, ma non sappiamo se oggi la capacità aeronautica o satellitare possano sostituire la dimensione
navale. L’egemone deve avere una società stabile, aperta e pluralista, chi non ha queste capacità non
può vincere, perché si ritiene che questa modalità organizzativa fornisca un vantaggio nella sfida
egemonica, chi è abituato a gestire la pluralità, può gestire l’egemonia. Deve essere in grado di gestire
diritti e doveri. Deve possedere un’economia significativa, la ricchezza non basta, l’economia del
paese egemone deve poter influenzare le altre. L’egemone deve avere la capacità di innovare, la
capacità di rispondere ai problemi mondiali e proporsi come guida nella risoluzione dei problemi: se
il problema è sempre il consenso, fondamentale è la sfera politico-culturale. Modelski è tra quelli che
pensano che il controllo territoriale sarà fatale per l’egemone. La potenza sarà costretta ad imbarcarsi
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in forme di controllo di potere che la porteranno alla rovina. La potenza egemone deve assumere
poteri globali e non territoriali.
Le teorie marxiste
Con gli studiosi marxisti l’attenzione di sposta totalmente sulla dimensione economica e ideologica.
L’analisi marxista considera il sistema internazionale come un insieme di questioni che portano a
disuguaglianze. L’analisi di Marx che analizza i sistemi politici interni, pone in luce un aspetto
rilevante per le relazioni internazionali, ovvero il sistema capitalistico è un sistema che produce
inevitabilmente disuguaglianze e sfruttamento causate da caratteristiche tipiche del capitalismo, che
costringevano i capitalisti all’uso della forza; debellarli per debellare il conflitto armato. Lenin si
concentra più sulla politica estera e sostiene che l’imperialismo è fase suprema del capitalismo; è un
periodo in cui l’idea di impero/colonie è normale e anzi la situazione attribuisce loro maggiore status.
L’impero era qualcosa di auspicabile. L’eccessi di produzione, la ricerca di nuovi mercati, per Lenin
spingevano gli stati ad adottare politiche imperialiste. L’imperialismo ha avuto anche la funzione di
ritardare la rivoluzione del proletariato: rinviare crisi che sono insite del capitalismo. Aspetto che è
importante per questo filone, è la distinzione tra centro sfruttatore dominante e periferia sfruttata.
L’analisi di Lenin non era originale, si rifà a John Hobson; la differenza tra i due è che per Lenin il
profitto è un bene finito, mentre per Hobson il profitto non è un bene finito e viene anche dimostrato
nel moltiplicatore keynesiano; egli quindi criticò Lenin. Questo però acquista senso se si pensa al
periodo storico, l’accrescimento delle potenze europee con le colonie era pratica diffusa, ma avveniva
per cause insite del capitalismo o per altri scopi, come motivazioni strategiche?
Altra critica mossa a Lenin fu fatta attraverso un’osservazione empirica; quello che egli sostiene
comporterebbe che la motherland dovrebbe vendere i suoi beni alla colonia, l’analisi empirica ci dice
che la motherland finivano per commerciare tra di loro, quindi il commercio verso le colonie era
marginale. Quello che accadeva più spesso era invece l’afflusso di materie prime dalle colonie. L’idea
che la dimensione economica sia importante è stata messa in risalto da Immanuel Wallerstein, il quale
ha introdotto l’idea del sistema mondo: una sola unità di portata mondiale con tante sub-unità
culturali. Per Wallerstein esistono due tipi di sistema mondo: il primo fa riferimento all’età
capitalistica, ovvero al mondo-impero, in cui esisteva un potere centrale che usava la forza per portare
le risorse dalle zone periferiche al centro; il secondo è il mondo-economico nel quale esistono tanti
centri di potere in competizione tra loro, i principi economici guidano la redistribuzione delle risorse,
e non esisterà un centro dominante. Il sistema modo si divide in centro, periferia e semiperiferia. Nel
sistema centro vi sono governi democratici, salari elevati, esportazione di manufatti, servizi di
welfare, importazione delle materie prime e investimenti elevati. Nel sistema periferia i governi non
sono democratici, i salari sono sotto il livello di sussistenza, vi è l’esportazione di materie prime,
l’importazione di manufatti, e non vi sono servizi di welfare. Nel sistema semiperiferia vi è una
condizione intermedia, i governi sono autoritari, i salari bassi, vi è sia l’importazione che
l’esportazione dei manufatti e delle materie prime, e il welfare poco evoluto. La discriminante per
Wallerstein è la struttura economica che determina il potere. Esistono poi sistemi di crisi: il sistema
capitalista è arrivato al suo capolinea con la globalizzazione; non esistono modalità d’espansione. La
ricchezza di produce in più paesi e non c’è solo in un paese: il centro tende a diluirsi, con la
globalizzazione si ha avuta una redistribuzione della ricchezza tra paesi ricchi e poveri; quelli poveri
sono meno poveri, quindi si è ridotto il divario; all’interno però dei paesi del Nord il divario tra ceti
si è esteso, creando quindi l’opposizione global-no global. Il sistema mondo capitalista non è più
capace di anestetizzare e inglobare i movimenti antisistema, oggi si presentano con sempre maggiore
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evidenza. L’idea dei movimenti no global sono un’opposizione non eliminabile, al sistema mondo e
questo non può dare risposte e ci sarò qualcuno che continuerà a chiederle. Dietro al non potere e non
sapere rispondere ci sta dietro la globalizzazione: il movimento no global si presenta sotto diverse
forme; ad esempio manifestazioni contro l’integrazione europea, più forti in questi momenti perché
sono in grado di organizzarsi entro i confini. La cultura di protesta si mondializza e diventa
incontrollabile: non si può né soddisfare le loro domande perché a volte sono anti-sistemiche né si
possono reprimere. Secondo Wallerstein il sistema mondo capitalista è entrato quindi in crisi. Per
molti di questi studiosi, la crisi economica non si colloca nel 2000 ma negli anni ‘70: in quel momento
l’enorme potere economico degli Stati Uniti viene indebolito. Questo è il principio del declino
(relativo, ma declino). Per Peter Katzenstein il mercato è il fattore principale dell’organizzazione del
sistema politico internazionale e questo deriva dal sistema economico: la diffusione delle tecniche
produttive, cambiamenti nei tassi di profitto, sono condizioni di mutamento. Per Katzenstein
l’egemonia è risultato di due fattori: potere coercitivo che porta più vantaggio dei suoi soggetti
economici, le imprese cha stanno dentro lo stato operano e sono competitive nel sistema economico
mondiale. Robert Cox invece, sostiene che il ruolo di produzione determina lo stato e questo
determina il sistema mondiale. Esistono un ordine egemonico e un non egemonico; nel primo vi è la
supremazia di un soggetto sociale che può essere lo stato ma può essere una classe, secondo ideologia
e interessi; nel secondo non c’è internazionalizzazione della produzione e non vengono usati
strumenti per far prevalere la produzione interna. L’ordine naturale viene creato, il dominio di uno
stato di per sé non da egemonia ma quando i modi di fare e pensare dello stato egemone sono stati
riconosciuti anche dagli altri paesi, allora l’ordine viene percepito come ordine naturale e legittimo.
Interdipendenza complessa e regimi
Robert Keohane e Joseph Nye, intorno agli anni ’70, hanno messo in discussione il fatto che la politica
internazionale fosse analizzata con la lente degli stati: vedono sempre più quella che è la politica
transnazionale in opposizione alle teorie realiste, teorie di tipo hobbesiano. In quegli anni vi furono
crisi petrolifere e le organizzazioni internazionali fecero sentire la loro presenza. Questo portò gli
studiosi a studiare le relazioni tra gli stati e questi soggetti e tra questi soggetti. Gli attori
transnazionali a volte sono anche più forti dei governi, ad esempio in un piccolo paese una
multinazionale detta al governo di questo paese le politiche da adottare; la presenza di questa
multinazionale diventa fondamentale. Ma vi sono anche esempi in stati più potenti, dove soggetti non
statali hanno determinato l’agenda: ad esempio la CNN all’interno della Nazioni Unite o la Bill &
Melinda Gates Foundation, principale attore nel campo delle politiche sanitarie globali; grazie a loro
si inseriscono in agenda determinati problemi. Le decisioni di questi soggetti non sono soggetti a
controlli, nessuno gli può dire cosa devono fare, sono nuovi soggetti della politica internazionale.
Grazie alle donazioni di fondazioni private si realizzano dei progetti, e si instaurano nuovi soggetti
della politica internazionale, e quello che ci si deve chiedere, in quanto studiosi della politica
internazionale, se queste fondazioni sono subordinabili all'unità statali.
L’interdipendenza genera situazioni caratterizzate da effetti reciproci tra paesi o attori in situazioni
specifiche. Perché si abbia interdipendenza queste relazioni devono comportare dei costi, senza questi
si parlerebbe di interconnessione non di interdipendenza. Perché questi abbiano costi, ci deve essere
dietro un beneficio, la dimensione politica. L’interdipendenza è sempre asimmetrica e vengono
distinte relazioni caratterizzate da sensibilità, quando il cambiamento di un attore influenzerà il
cambiamento nell’altro (relazione tra Stati Uniti e Canada; gli Stati Uniti, in base ai bisogni della
Canada, o viceversa, possono modificare le proprie politiche o adattarsi); e da vulnerabilità, quando
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i cambiamenti in un paese avranno conseguenze negative nell’altro, il quale non potrà adattarsi ai
cambiamenti (relazione tra Stati Uniti e Haiti, il quale non è capace di gestire i cambiamenti).
L’interdipendenza quindi porta effetti costosi, asimmetria di potere, e non è detto che produca
benefici reciproci. Il potere è l’abilità di un attore di far sì che gli altri facciano qualcosa che gli altri
non farebbero a costi sostenibili dall’attore 𝑥. Il potere non è fungibile, in ciascun settore funzionale
il potere sarà caratterizzato da funzioni di tipo diverso. C'è una scomposizione delle aree, soprattutto
il potere di un settore, non è detto che a cascata si ripercuota sugli altri settori, quindi il potere è
settoriale. Occorre rivedere l'idea che noi abbiamo dell'importanza dei diversi settori, la loro è
un'analisi secondo la quale, infondo la politica internazionale è determinata dal fattore militare. Però,
sostiene Waltz, che il potere militare non basta a determinare gli esiti. È possibile che nel settore
militare avere un esercito importante sia fondamentale, ma non nel settore economico, c’è quindi uno
scollegamento dei vari settori, quindi il potere è settoriale, a seconda dei settori ci sarà uno stato più
potente. Waltz e Morgenthau vedono il fattore militare determinante, come ha mostrato la storia fino
alla Seconda guerra mondiale. Da quel momento però la contrapposizione degli stati avviene in altri
settori. Ci sono delle caratteristiche del modello di interdipendenza complessa, quando il numero
delle unità di interdipendenza diviene così elevato da non poter essere controllato dai singoli stati. La
prima caratteristica è che esistono molteplici canali di comunicazione, transnazionali e
intergovernativi. Le politica interne di ogni paese hanno sempre più conseguenze negli altri paesi,
confondendo i confini tra politica interna e politica estera. Il confine che sembrava netto tra interno
ed esterno è sempre più sfocato; ciò è massivamente evidente nei paesi europei, per cui è difficile
capire chi ha preso la decisione. La High policy diventa l’unica che determina la low policy. La
seconda caratteristica è l’assenza di un ordine gerarchico, alcuni aspetti della high policy saranno
determinati da aspetti di low policy, la sicurezza militare non è in cima all’agenda. La terza
caratteristica è l’esclusione dell’uso della forza tra paesi che appartengono ad alcuni gruppi; la forza
spesso non è il modo per ottenere altri scopi che stanno diventando più importanti.
Esistono anche processi politici dell’interdipendenza complessa: linkage strategies cioè capacità che
si ha di legare una tematica ad un’altra; io ti do una cosa in un settore se tu mi dai una cosa in un altro
settore, questa è agevolata dalla presenza di organizzazioni internazionali. Agenda setting cioè
capacità di inserimento di un tema nell’agenda degli stati, il problema deve essere per lo meno
discusso; fare in modo che il problema venga inserito in agenda, da potere allo stato o al soggetto non
statale che c’è riuscito. Relazioni transnazionali e transgovernative, ad esempio una riunione del G7
incide sulla stessa idea di ridefinizione di interesse nazionale; se questo interesse nazionale si
definisce e ridefinisce continuamente, si sta andando contro i realisti che sostenevano che ce ne fosse
soltanto uno. Attribuzione di maggiori ruoli alle organizzazioni intergovernative, queste agiscono per
la formazione di coalizioni; se nelle arene internazionali è possibile creare coalizioni, anche gli stati
più piccoli riescono a contare nel ruolo internazionale.
I regimi, secondo la definizione di Krasner, sono principi, norme (standard comportamentali), regole
(prescrizioni precise), procedimenti decisionali (pratiche che servono a prender edecisioni) impliciti
o espliciti, attorno ai quali convergono le aspettative degli attori in una data area delle relazioni
internazionali. Due tipi di regimi sono ad esempio il Fondo Monetario Internazionale, ovvero un
regime economico e la NATO, ovvero un regime di sicurezza. Il regime non è formalizzato, esiste
nella misura in cui gli stati si uniformino a quei determinato principi; aiuta a mitigare l’incertezza che
vaga negli stati. Il sistema è anarchico ma non anomico, rispettano sono principi e adottano
comportamenti che sono prevedibili. Non essendoci governo del sistema, gli stati si comportano
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
secondo la loro convenienza; il regime c’è nell’aspettativa che si sia. Keohane ha messo in evidenza
che è vero che molti regimi nascono sotto interesse dell’egemone, ma riescono a sopravvivere anche
nell’assenza di esso (dopo la sua morte). Ad esempio le Nazioni Unite sono nate sotto l’input degli
Stati Uniti, e a questo punto possono sopravvivere anche se gli Stati Uniti uscissero. Il problema è
quello che potrebbe succedere se gli Stati Uniti creassero un sistema alternativo; in questo caso,
secondo le teorie egemoniche, alcune nazioni si sposterebbero da un sistema all’altro. Non tutti i
regimi poi sono egemoni (come l’OPEC), fondamentale è il capitale politico iniziale. Un regime non
esiste oggettivamente ma esiste nel caso in cui gli stati si aspettano che esista; è un ordine naturale
perché è anarchico. La cooperazione è qualcosa di auspicato e gli stati tendono a considerare più
importanti i costi assoluti e non quelli relativi, al contrario dei realisti.
Il paradigma groziano
Il paradigma groziano identifica relazioni di tipo cooperativo, le cui teorie si sono formate
recentemente. Gli stati saranno sì diseguali, ma soprattutto hanno reciproca legittimità; hanno quindi
iniziato a stipulare dei trattati che sono stati rispettati anche senza un governo centrale. Soprattutto in
area europea, si è capito che la sicurezza non si raggiunge con la costruzione dell’impero, l’idea
dell’impero viene superata e altre organizzazioni diventano importanti. Il passaggio consente di
apprezzare la possibilità che i problemi tra stati possano essere affrontati pacificamente. La vita
associativa degli stati comincia ad essere apprezzate; le diseguaglianze di potere non scompaiono,
ma, accanto a queste, gli stati intrattengono relazioni cooperative. Questo perché riconoscono
l’esistenza di alcuni principi sociali che sono fondati sull’elemento della pari sovranità. Verranno così
guidati ad agire ed attenersi spontaneamente ai principi sociali dei quali riconoscono i vantaggi;
ritengono più conveniente il costo del principio piuttosto che la sua assenza. Il diritto internazionale
assume diversi significati: paradigma hobbesiano, ovvero i trattati sono cara straccia; su questo il
paradigma groziano invece ci dice esattamente il contrario, ci sono elementi così importanti che
spingono gli stati a rispettare prevalentemente le norme del diritto internazionale. Quali norme sono
le più importanti? Il diritto internazionale consuetudinario si forma sulla base di quello che gli stati
fanno abitualmente, non ingerendo negli affari interni degli stati, sanciscono l’esistenza del diritto; il
diritto internazionale pattizio invece, viene concordato, rappresenta però una norma inferiore anche
quando sottoscritta da tutti gli stati. L’esistenza stessa del diritto internazionale fa capire che gli stati
si sono obbligati a comportarsi in un certo ruolo. Il paradigma groziano ci dice che gli stati vogliono
autolimitarsi perché lo ritengono utile a raggiungere certi obiettivi. Questo paradigma ha prodotto
meno teorie, ma tutte importanti. Ad esempio l’ordine sociale di Hedley Bull, appartenente alla scuola
inglese delle relazioni internazionali, il quale scrisse The Arnarchical Society. L’elemento
dell’anarchia non viene messo in discussione, ma gli stati vivono come in una società. Gli stati
accettano i vincoli autoimposti, perché ritengono conveniente il vivere insieme. Bull si concentra sui
principi sociali fondamentali che possono essere: principio di non ingerenza degli stati, limitazione
nell’uso della forza in caso di un conflitto armato. Gli stati hanno adottato questi principi attraverso
le loro interazioni continue; i principi si sono cristallizzati nel tempo. È quando i principi sociali si
istituzionalizzano che diventano più forti. Per Bull l’ordine sociale viene prima dell’ordine politico,
esso nasce quando si sono consolidati i principi sociali. Ci sarà sempre interazione tra i due, ma
l’ordine sociale è preminente. I principi sociali possono cambiare e cambiano, l’affermazione del
rispetto dei diritti umani ha cambiato la situazione, ad esempio, la norma della responsabilità di
proteggere nasce come alternativa a quella della non ingerenza, come sua opposta. Con il passare del
tempo si capirà quale delle due prevarrà. Bull dice in pratica che non perché si è una grande potenza
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
si può fare quel che si vuole, la grande potenza potrà essere sanzionata. La violenza, soprattutto nel
caso dei conflitti armati, non deve essere usata indiscriminatamente. È ritornato utile adattare
comportamenti condivisi così che uno stato non potesse schiacciare un altro solo per superiorità
militare. Le istituzioni diventano rilevanti, perché sottolineano che i principi sociali abbiano un ruolo
di cogenza. Le guerre contemporanee non rispettano i principi. Quando i principi sociali vengono
violati anche per Bull l’unico strumento è ricorrere all’uso della forza. Inoltre, chi compie la
violazione è fondamentale, dato che uno stato grande e potente ha più facilità nell’imporre l’uso della
forza, ma persino lui deve spiegare l’intervento che sta mettendo in atto. L’uso della forza è comunque
l’ultima soluzione, anche se non va messo da parte. La guerra diventa l’ultima istituzione ma la più
importante. L’ordine politico inizialmente sarà debole ma con il passare del tempo si rafforzerà.
Coteau ha individuato una sorta di continuum che va dagli accordi taciti a regole negoziate, stipulate
a tavolino. La loro violazione non provoca le stesse conseguenze della violazione dei principi. Le
regole del gioco servono a fare in modo che il gioco funzioni. Tendono a rispettarle perché riducono
l’incertezza e insieme ai principi riescono a costituire l’ordine politico. Nel momento in cui si deve
prendere una decisione politica, ci sono elementi che incidono su essa; come ad esempio le dottrine
adottate in quel momento come la Dottrina Monroe o Truman. Inoltre anche le analogie storiche
condizionano le scelte che gli stati fanno; di fronte ad un caso che si presenta simile, si agisce in un
certo modo per evitare delle conseguenze, è possibile che però possano essere inappropriate. E infine
anche le metafore e i miti, come il comunista che mangia i bambini.
Le teorie pluraliste
Il padre del funzionalismo si concentra sulla formazione delle organizzazioni intergovernative. Il
bisogno è l'elemento organizzativo fondante, contrariamente a quanto detto da realisti, in realtà se gli
stati si mettono insieme lo fanno perché hanno bisogno e soltanto mettendosi insieme, cooperando
riusciranno a trovare soluzioni a quel bisogno. Non è il potere che porta alla costituzione
organizzativa ma l'esigenza che gli stati hanno di risolvere un problema che da singoli non
riuscirebbero a risolvere: sovranità funzionale. Nel momento in cui gli stati aumentano nelle
organizzazioni ci devono essere delle regole comuni. Siccome le regole e le procedure sono
concordate, questo risolve un bisogno a costo che queste regole o procedure sono dettate
dall'organizzazione internazionale non dal singolo governo. Quando gli stati traggono un vantaggio
diretto dalla sovranità funzionale, la cedono senza obiezione. Proprio perché il mercato unico è
diventato forte, Trump sta cercando di spaccare il fronte europeo, in alcuni settori emerge chiaramente
la formazione di organizzazioni non governative alle quali gli stati cedono la propria sovranità. Per
fare questo lo stato si indebolisce, e il continuo bisogno di delegare alle organizzazioni internazionali
una molteplicità di funzioni abbassa il controllo degli stati su vari settori. Stiamo parlando di delega,
quindi lo stato potrebbe riprendersi il potere, ma questo significa non fornire servizi, magari, che
prima forniva. La situazione diventa più complessa quando abbiamo una serie di organizzazioni
internazionali che sono a loro volta, un insieme di altre organizzazioni, il tutto per fornire dei bisogni.
Quindi abbiamo dei molteplici livelli, come fa lo stato a controllare o influenzare il processo
decisionale delle nazioni. Oggi è facile parlare di terze generazioni di organizzazioni internazionali.
Se è questa la dimensione, il singolo stato per quanto potente, non riesce a influenzare né
l'organizzazione dell'organizzazione, la forma segue la funzione: il potere è solo uno degli elementi
organizzativi, ma è la necessità di risolvere un problema, che diventa essenziale, il processo
decisionale stesso sarà più tecnico che politico. Gli interessi e i vincoli che gli stati pongono in questi
casi, sono meno frenabili. Un'altra questione sulla quale si sofferma Mitrani è l'espansione alla quale
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
si assiste, gli stati nel momento in cui iniziano a cooperare fra di loro, apprendono il processo politico,
e apprendono anche quali sono gli elementi più rilevanti. I paesi fondatori dell'unione europea hanno
iniziato a cooperare in questi settori specifici. Iniziando a cooperare in questi settori, ci si rende conto
che si possono mettere assieme altri settori funzionanti, e quindi sarà utile procedere all'integrazione
di altri settori. Con il passare del tempo si ritiene che perché la cooperazione funzioni meglio, anche
l'aspetto politico sia fondamentale. Tutto questo avviene perché da un lato c'è l'esigenza di rispondere
ai bisogni, poi perché funzioni la cooperazione questa si deve espandere. Dall'altra parte questo
avviene perché si creano legami transnazionali, cioè man mano che i funzionari degli stati membri si
incontrano a Bruxelles per parlare della materia di cui si occupano, ci sono nuove pratiche che si
possono adottare. Le imprese iniziano ad investire, i commerci partono e legano insieme attori diversi
in diversi mercati europei. Quindi per incidere non basta più rivolgersi a Roma o Berlino ma
direttamente a Bruxelles. In quel settore funzionale si sposteranno gli interessi funzionali. Gli stati
perdono sovranità con questi passaggi, e noi in Itali abbiamo assistito a questa resistenza.
Balton sostiene che esiste una pluralità di centri di identificazione, lo stato è indebolito da processi
transnazionali. In qualche modo quindi i conflitti politici e sociali sono determinati da percezione di
appartenenza ad una o più comunità piuttosto che allo Stato, questa è una delle cause di conflitto.
Quindi questo richiama al concetto di fedeltà nei confronti dello Stato. Questa pluralità di centri di
identificazione fa sì che lo stato sia uno dei centri di identificazioni ma non il principale.
Rapporto tra democrazie e conflitti
L’osservazione dalla quale si parte è quella che il progressivo aumentare del numero degli stati
democratici nel mondo ha provocato conseguenza importanti; ma allo stesso tempo anche i processi
di globalizzazione hanno provocato conseguenze importanti. Da queste considerazioni sono nati
quattro filoni di pensiero. Il primo filone si occupa dell’analisi sugli effetti della globalizzazione e in
particolar modo gli effetti negativi che questi hanno nelle democrazie interne. La complessità delle
democrazie moderne porta gli stati a cooperare tra di loro poiché non sono in grado di risolvere certe
problematiche, una conseguenza è la nascita di pluralità di centri decisionali; i processi di
globalizzazione presentano sia un sovraccarico di input che arrivano agli stati democratici, sia una
tendenza a ricorrere sempre di più a soluzioni tecnocratiche; questo provoca una contrazione della
democrazia. Un secondo filone riguarda le forme possibili della democratizzazione, l’accento viene
posto sul fatto che con il passare del tempo gli stati hanno perso la capacità di controllare i processi
decisionali, in particolar modo la tendenza a creare organismi multilaterali intergovernativi è finita
con l’alterare la capacità dei cittadini degli stati democratici a partecipare al processo di formazione
delle decisioni. Il terzo filone riguarda il fatto che se è vero che il regime democratico si è diffuso,
quindi il numero di stati democratici è cresciuto, è anche vero che sempre di più i cittadini si aspettano
che il regime sia interno che internazionale sia democratico, è un passaggio importante, se il regime
democratico è diventato la norma per quel che riguarda i sistemi politici interni, è vero che si è diffusa
l’aspettativa che a livello internazionale ci siano processi e organizzazioni democratiche. Oggi si
sente sempre di più la volontà di legittimare le decisioni che vengono prese anche a livello
internazionale perché si riconosce che queste decisioni hanno impatto diretto sulla vita dei cittadini.
Antonio Papisca, studioso italiano, si è concentrato sul tema dei diritti umani e sull’espansione di
questi a livello internazionale; egli mette in evidenza l’importanza delle organizzazioni non
governative, che riescono a esercitare una funzione di proposta e controllo anche nelle organizzazioni
inter-governative. Sempre di più oggi le organizzazioni intergovernative operano attraverso quelle
non-governative per svolgere compiti che spetterebbero a loro; da un lato la relazione con
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organizzazioni non governative presenta dei vantaggi, come per esempio una razionalizzazione delle
operazioni che devono essere fatte, dall’altro lato invece diventa problematico, nella misura in cui il
settore dello sviluppo e della sicurezza si sovrappongono. L’ultimo filone è il cosiddetto filone della
pace democratica, ovvero la relazione tra regime politico interno e propensione a ricorrere all’uso
della forza. Il mondo è possibile suddividerlo in zone di pace e zone di guerra, tipicamente le zone di
pace sono zone in cui la pace regna da un periodo molto lungo e sono caratterizzate dalla presenza
omogenea di regimi democratici, quelle di guerra invece, hanno regimi non democratici o in alcuni
casi vi è la presenza di regimi democratici e non allo stesso tempo. Gli studiosi quindi, si sono chiesti
se i regimi democratici sono più pacifici rispetto a quelli non democratici. Già Kant nello scritto Per
la Pace Perpetua in qualche modo ci suggerisce che i regimi politici possono incidere alla
propensione all’uso della forza. Dagli anni ’80 in poi sono state svolte delle analisi per vedere se vi
fossero delle correlazioni tra i regimi democratici e l’uso della forza. Sulla base di queste analisi si è
arrivati a sostenere che non è vero che i regimi democratici di per sé siano più pacifici di quelli non
democratici, la stabilità interna non è considerata un indicatore di pacificità; però è pur vero che i
regimi democratici combattono meno guerre, i regimi democratici sono più pacifici nei loro rapporti
reciproci. Un conflitto tra due regimi democratici non genererà in un conflitto armato, quindi non
sono più pacifiche di per sé ma lo sono tra di loro. Michael Doyle, studioso della pace democratica,
incrocia i dati sulle guerre e cerca di comprendere che tipo di rapporto esiste tra democrazia e guerra,
dando una propria definizione di democrazia: viene considerata democrazie se tale è presente da
almeno tre anni, de presenta un’economia di libero mercato, la proprietà privata, è uno stato sovrano,
esiste la tutela giuridica dei cittadini, vi è la subordinazione dei militari all’esecutivo, il potere
legislativo è autonomo ed eletto tramite almeno il 30% percento degli uomini e dalle donne da almeno
un anno da quando si è stabilito il suffragio universale. Le democrazie vanno in guerra secondo Doyle,
ma non si sono verificati mai conflitti tra regimi democratici. Il punto è che questa relazione vale solo
quando ci si trova con due stati democratici, ma non vale se vi sono delle alleanze che si
contrappongono. L’analisi di Maoz del 1989 su 332 coppie di stati afferma che nella relazione diadica,
solo il 5% dei conflitti avviene tra stati democratici e comunque questi non sono mai combattuti sul
campo aperto. L’analisi di Russet invece, del 1993, dimostra che in particolar modo nell’arco di
tempo 1946-1985 le coppie di stati democratici non si fanno mai la guerra. Sulla base di questi
elementi risulta un dato rilevato empiricamente con regolarità, il fatto che quando si ha un conflitto
tra due stati democratici, questo non degenera in conflitto armato. Come spieghiamo allora questa
regolarità empirica che si verifica tra regimi democratici? I regimi non democratici tendono a
mostrare un ricorso più frequente alla forza. Vi sono diverse cause che dimostrano quanto appena
citato. La prima spiegazione è data dalle cause istituzionali, quindi dagli assetti istituzionali e dai
meccanismi decisionali delle democrazie; il primo e banale meccanismo riguarda il fatto che in una
democrazia il governo deve rispondere all’elettorato quindi ha bisogno di consenso sulla decisione di
utilizzare la forza; questo costituisce un freno rispetto ai regimi non democratici, i quali ricorrono
all’uso della guerra più facilmente e questo costituisce un pericolo. Un secondo elemento che viene
ritenuto importante tra le cause istituzionali è che nei regimi democratici esistono dei controlli e dei
contrappesi, che non sono presenti nei regimi non democratici, questi meccanismi interni controllano
le azioni del governo, ma dall’altra parte rallentano le decisioni che un governo possa decidere di
adottare; esistono più veto players in una democrazia. Un’altra questione collegata al primo punto è
che la guerra comporta dei costi sia finanziari che umani, sono i cittadini che pagano i costi finanziari
(tasse e meno servizi); anche nel caso dei regimi non democratici succede questo, però in un regime
del genere, i cittadini non sono in grado di potersi ribellare. I costi umani sono sempre più divenuti
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insostenibili sia perché la guerra è diventata sempre più distruttiva, sia perché morire in guerra non è
più visto come un atto nobile. Il ruolo dell’opposizione è un elemento importante, fa sì che i
governanti si aspettino dei costi politici molto più alti in un regime democratico che in uno non
democratico. La divisione dei poteri e la trasparenza degli atti sono tipici dei regimi democratici.
Quando c’è una disputa tra uno sto democratico e uno non democratico, il non democratico sa tutto
di quello democratico per via della trasparenza delle azioni, mentre il democratico non sa nulla del
non democratico. Situazione diversa è quella tra due stati democratici che, adottando entrambi un
regime di trasparenza, sono in grado di conoscere le condizioni l’uno dell’altro. La propensione alla
guerra è più elevata tra uno stato democratico e uno non, ed è sempre lo stato democratico ad attaccare
per primo proprio per la paura dell’ignoto. Esistono poi le cosiddette cause normative che spingono
due democrazie a comportarsi tra di loro in maniera diversa. La cultura politica che caratterizza la
classe politica e i cittadini presenta delle caratteristiche diverse rispetto agli stati non democratico; in
primo luogo perché nei regimi democratici, anche internamente, la violenza non può essere utilizzata
per mantenere o per conquistare il potere, ricorrere all’uso della forza per motivi politici è considerato
inaccettabile. All’interno dei regimi democratici per quanto lo scontro politico possa essere duro, alla
fine si deve arrivare a una soluzione di compromesso, e quindi la capacità di superare le controversie
attraverso processi politici diventa un elemento caratterizzante della cultura politica democratica. La
capacità di raggiungere un compromesso è utile quando un conflitto tra due stati democratici sta per
degenerare. Infine esistono delle cause economiche che fanno riferimento alla tutela della proprietà
privata e alla libertà economica; l’esistenza di liberi mercati provoca un’interdipendenza tra gli stati
che finisce per disincentivare l’uso della forza, perché il costo della guerra sarebbe anche porre fine
a questa interdipendenza. Anche la credibilità delle democrazie è un elemento importante; questo
riguarda il fatto che le posizioni negoziali dei governanti dei paesi democratici che affrontano dispute
internazionali hanno costi più alti, perché ci sono dei costi reputazionali nel caso in cui non si
rispettassero gli accordi presi.
L’evoluzionismo
Con le teorie evoluzionistiche si riprendono i cosiddetti cicli di Modelski, dal nome del professor
George Modelski, che si occupò di cercare di comprendere i cambiamenti politici di lungo periodo
del sistema; con un’analisi, si cerca di comprendere come mutano le organizzazioni del sistema
politico internazionale, che tipologia organizzativa è possibile e come essa cambia nel tempo, e si
cerca di immaginare la direzione verso la quale ci si sta muovendo. L’attenzione è data alle mutazioni
strutturali del sistema organizzativo internazionale, in particolar modo andando indietro nel tempo,
dal 1000 in poi, la costatazione che Modelski fa riguarda questo passaggio organizzativo. L’aspetto
interessante è che l’area più adatta dal punto di vista evolutiva è l’area europea e atlantica. Quello che
è avvenuto dalla seconda metà del XII secolo con l’estensione dei regimi democratici è la creazione
delle organizzazioni internazionali e dei trattati multilaterali; tutti questi elementi hanno spinto verso
la creazione di un’organizzazione globale meno incentrata sulla leadership e la cui aspirazione è
quella di tipo democratico. Visto che gli stati si stanno abituando ai principi della democrazia, si viene
a creare l’aspettativa che i principi e le norme dell’organizzazione del sistema politico internazionale
diventano anch’essi democratici, vi è ovviamente ancora solamente un’aspettativa e una richiesta.
Quando si parla di evoluzione non si sta dicendo che la soluzione verso cui ci si muove è migliore,
non c’è un disegno di movimento verso un’organizzazione superiore, c’è la comprensione che la
nuova organizzazione verso dove ci si muove è più complessa, ma non c’è nessuna pretesa che questa
sia migliore, e i cambiamenti sono probabilistici. Per comprendere come avviene il cambiamento e
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quali sono le strategie che vengono seguite con regolarità, è necessario analizzare i problemi che
nascono a livello internazionale. I problemi che si creano nel tempo sono diversi tra di loro, per
adattarsi a questi problemi e per rispondere a questi nuovi problemi anche i sistemi politici mutano,
perché altrimenti non sarebbero in grado di sopravvivere. Chi riesce a fornire una risposta – che non
deve essere la migliore risposta - diventa una sorta di paragone e di modello per gli altri. Questo fa sì
che questa modalità organizzativa diventa quella che si diffonderà successivamente. Nel momento in
cui questa risposta è stata selezionata diventa difficile cambiarla, fino a quando arriverà un altro
problema e un altro modello che risponderà a questo nuovo problema. Il processo di selezione di
questa organizzazione, secondo Modelski, è quello delle guerre mondiali, e la capacità degli stati di
adattarsi ai nuovi organismi, potrebbe essere l’unico elemento che ci aiuterebbe a cambiare la
modalità di selezione, portando dunque ad una selezione in grado di gestire il conflitto politico senza
un conflitto armato. Questo cambiamento di selezione è basato anche sull’idea che gli stati
democratici sono diventati in numero maggiore rispetto a i non democratici e anche il numero di
popolazione democratica è superiore a quella sotto ai regimi non democratici. È la guerra generale
che fino ad adesso ha determinato i cambiamenti. In un sistema come questo, il leader globale persiste
nonostante esistano delle organizzazioni internazionali, però questo, per i negoziati, deve avvalersi
delle organizzazioni internazionali. Modelski spera, ma non ne ha la certezza, che con il passare del
tempo l’egemonia andrà diluendosi; anche se essa dovesse rimanere, avrebbe un ruolo molto minore
rispetto ad adesso, e comunque sarebbe sempre di più un ruolo politico piuttosto che militare. Questo
ciclo è una spirale, non sono cicli chiusi, ma aperti, le organizzazioni internazionali successive
saranno sempre più complesse rispetto a quelle precedenti. Modelski non considera i cambiamenti
politici come se fossero isolati, questi sono strettamente collegati ai cambiamenti tecnologici ed
economici, i tre settori si influenzano reciprocamente, influenzandosi si creano nuovi problemi che
devono essere risolti, questo costringe il sistema a reagire, sono problemi importanti per il sistema, e
per poterli individuare è necessario che questi siano inseriti nell’agenda-setting; chi riesce a far
inserire un problema in agenda ha un potere enorme. Nella fase di coalition-building invece, gli stati
si aggregano attorno ai problemi al fine di affrontarli e risolverli; con il passare del tempo si creano
delle macroaggregazioni di stati che si scontreranno nelle guerre globali e le potenze vincitrici
saranno coloro che eseguiranno le decisioni attuate nei loro programmi. A partire dagli anni settanta
hanno iniziato a manifestarsi dei problemi importanti per il sistema, in particolar modo i paesi usciti
dalla fase di decolonizzazione, manifestano la loro condizione all’interno delle istituzioni esistenti,
ma ci sono state delle decisioni contrastanti tra le potenze anche all’interno delle stesse coalizioni che
li hanno portati ad attuare decisioni differenti.
Il costruttivismo
Tra gli anni ’80 e ’90 ritroviamo un periodo in cui tutta la complessità della politica internazionale è
venuta fuori; è emerso che la politica militare non comprendeva l’interezza delle politiche
internazionali. Dal punto di vista ontologico ed epistemologico le teorie delle relazioni internazionali
presentate fino ad esso presentavano dei problemi. Il costruttivismo pone una svolta sociologica, si
pone come processo in cui non si guarda più ai fattori materiali, così come facevano le teorie che
facevano riferimento alla dimensione militare ed economica, si ritiene che i fattori ideali sono
importanti tanto quanto quelli materiali. Se le teorie che abbiamo visto erano prevalentemente
incentrate sull’agente, il costruttivismo ritiene invece che agente e struttura siano ugualmente
importanti. Proprio perché c’è uno spostamento importante rispetto alle teorie precedenti vi è un altro
elemento che riguarda la nuova attenzione posta sulla costruzione sociale dei significati, il che include
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la conoscenza, ovvero come si studia il mondo, come si apprende dal mondo, e come si impara. Se si
mette in discussione il modo in cui si impara, questo ci insegnerà a tenere in considerazione che anche
la realtà sociale è costruita, la realtà è socialmente costruita; come noi leggiamo il mondo non è
oggettivo. Un altro aspetto particolarmente importante è l’attenzione posta al cambiamento. La
stragrande maggioranza delle teorie delle relazioni internazionali non analizzarono il cambiamento,
il che significa che vi è un interesse sul permanere delle strutture e non sul cambiamento. Sicuramente
Weber e Durkheim diedero dei grandi contributi, ma anche i neokantiani; ugualmente Heidelberg e
Habermas influenzarono il pensiero costruttivista. Tra i precursori ritroviamo abbiamo John Searle il
quale afferma che “ci sono porzioni del mondo reale, che sono fatti soltanto sulla base dell’accordo
umano, esistono soltanto perché noi crediamo che essi esistano”. Egli sostiene che l’interazione è
determinante affinché si vengano a formare conoscenze oggettive, e queste si esprimeranno attraverso
le pratiche che gli stati adottano, è proprio questo che rende le strutture statali reali e oggettive. Gli
interessi sono socialmente costruiti e quindi soggetti a cambiamento. Come cambiano gli interessi
cambiano anche le identità, i costruttivisti sostengono che a seconda di come viene identificata
l’identità di un paese, questo può portare a diverse condizioni politiche.
Alexander Wendt è il più noto tra i costruttivisti, e in particolar modo la sua analisi parte con una
critica nei confronti di Kenneth Waltz, neoclassico, al quale contesta gli assunti pre-teorici su cui si
fonda il neorealismo; ma effettua anche una critica di tipo epistemologico, ritiene che sia
l’epistemologia che viene portata da Waltz a portare ai risultati a cui egli arriva. Wendt si sofferma
sull’incidenza della cultura della sicurezza che si sono diffuse in un particolare periodo; distingue in
cultura hobbesiana, lockiana e kantiana.
Per i costruttivisti esistono delle regole importanti che vengono distinte in norme regolative e norme
costitutive. Le norme costitutive definiscono l’insieme delle pratiche che compongono le azioni di
un’attività organizzata, rende un comportamento possibile; sono essenziali perché si venga a costruire
la politica internazionale. L’attenzione deve essere nei confronti di ciò che è costitutivo. Le norme
regolative non tengono conto delle azioni. La logica utilizzata dai costruttivisti non è la logica delle
conseguenze ma dell’adeguatezza, ci si comporta in una certa maniera perché è adeguato, dopodiché
si cercherà di ridefinire le regole, ma finché le regole non cambiano, ci si comporterà adeguatamente,
come un buon membro della comunità, un member notwithstanding.
Un filone costruttivista è quello che fa riferimento alle autorità. I costruttivisti sostengono che
esistono delle forme di autorità, non vi è solo l’anarchia, e la presenza di questa consente di regolare
le relazioni interstatali, riducendo l’incertezza. La forma di autorità alla quale i costruttivisti hanno
posto maggiore attenzione è individuata nelle Nazioni Unite, e in particolare nel Consiglio di
Sicurezza, non generalizzando; le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono automaticamente
efficaci nei confronti di tutti gli Stati, sono vincolanti, questi sono tenuti a rispettare le decisioni prese;
diverse sono le decisioni prese all’interno dell’Assemblea Generale, quelle non hanno effetto
coercitivo. Il Consiglio di Sicurezza viene considerato un mini parlamento che delibera azioni
vincolanti; è un paragone sporco ma è effettivamente così. Un altro filone di ricerca è quello che
riguarda la costituzione di comunità di sicurezza. Questo tipo di ricerche hanno identificato quali sono
gli strumenti normativi che consentono alle comunità pluralistiche di sicurezza di istituirsi. Sono
delle comunità i cui membri hanno reciproca aspettativa di cambiamenti pacifici, sanno che potranno
regolare le loro relazioni o cambiarle ma mai usando la forza. Il più chiaro indicatore dell’esistenza
di queste comunità è l’assenza, nel lungo periodo, di piani di aggressione e di difesa nei confronti di
un altro stato; sappiamo che esistono nel momento in cui gli stati hanno deciso di smettere di
pianificare attacchi. Queste comunità continuano a pianificare attacchi solo verso gli stati che non
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fanno parte della stessa comunità, mai nei confronti degli stessi membri. Oltre all’area euro-atlantica,
che è considerata una comunità di sicurezza, queste si sono diffuse anche in altre parti del mondo
come l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), che è considerata il cuore di una
nuova comunità pluralistica di sicurezza o come l’Unione Africana. Le stesse comunità di sicurezza
sono come un uomo, non si può dare per scontato che sia destinata a durare nel tempo; mentre per gli
studiosi precedenti al costruttivismo, le strutture create tendono a permanere, per i costruttivisti il
cambiamento può avvenire, è un fattore reale. Un altro filone di studio riguarda il ciclo delle norme,
mette in evidenza diversi aspetti importanti, ancora una volta si parla di cambiamento; le norme
possono essere proposte e vengono proposte da un imprenditore di norme che deve ottenere un
consenso sufficiente da parte degli stati affinché la norma proposta posa essere presa in
considerazione, una volta che questa norma è ampliamente condivisa verrà estesa molto facilmente a
tutti. È importante perché ci spiega chi e in che condizioni si possono proporre nuove norme e quali
sono le chance di successo; le norme non sono presentate solo dagli stati ma manche dalle ONG.
Nella nascita delle nuove norme il potere militare ed economico valgono poco, vale la capacità di un
certo attore di imporsi come fautore di queste norme. Da questo punto di vista una delle applicazioni
più rilevanti di questo tipo di analisi è stata fatta in base alle norme sui diritti umani che hanno iniziato
a formarsi lentamente e che sono cresciute con il passare del tempo. Non si può dare per scontato che
una norma sia destinata a perdurare nel tempo, si deve avere la consapevolezza del cambiamento. Tra
le norme più rilevanti per le relazioni internazionali troviamo quelle riguardanti l’intervento militare
e in particolar modo gli interventi per i fini umanitari. Le analisi hanno dimostrato che la possibilità
di intervenire per fini umanitari era riservata alle grandi potenze, che precedentemente intervenivano
anche arbitrariamente, definendo un intervento umanitario una vera e propria azione militare; con il
passare del tempo si è creata una norma tale per cui solo se questo intervento avviene in una cornice
multilaterale l’intervento non viene considerato aggressione ma intervento umanitario legittimo;
questo è un cambiamento legato alla questione dell’autorità. Se fino a qualche secolo fa gli stati
potenti potevano fare sostanzialmente quello che volevano, più recentemente sono nate delle
istituzioni multilaterali che hanno acquisito legittimità e che conferiscono a loro volta legittimità;
adesso molto difficilmente uno stato interviene senza chiedere l’autorizzazione.
L’organizzazione del sistema politico internazionale
Quando si parla di sistema politico internazionale ci si riferisce all’insieme di soggetti che
interagiscono, si influenzano, e producono regole e istituzioni con le quali provvederanno alla
creazione di politiche pubbliche del sistema. Il sistema politico internazionale non si differenzia molto
da quello nazionale, le uniche variazioni riguardano i soggetti, poiché non si parla più di cittadini ma
di Stati; nella nostra idea di sistema politico internazionale sono gli Stati ad essere centrali. Gli Stati
oggi sono sempre più affiancati da soggetti non statali che acquisiscono rilievo, in questo stadio allora
parliamo di sistema politico globale, si considerano questi soggetti in alcuni settori alla stregua degli
stati, e questo è un cambiamento importante. Il sistema politico internazionale è composto dai soggetti
statali, dall’organizzazione che è composta a sua volta da ruoli, regole e istituzioni, e dal mutamento,
perché il sistema politico è soggetto al mutamento. Le regole sono l’elemento essenziale
dell’organizzazione del sistema politico internazionale, gli Stati le accettano e si sentono vincolati da
queste; esse sono di tipo diverso e hanno una diversa cogenza: il primo tipo è dato dai principi sociali
fondamentali, di questi fanno parte tutti quei principi organizzativi che gli Stati rispettano perché
ritengono sia loro interesse vivere all’interno di una società internazionale; ad esempio ritroviamo il
già citato principio di non ingerenza, oppure del principio per cui gli stati non possono esagerare
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
nell’uso della forza. Come tutti i principi e le norme di una società, esse sono soggetti a cambiamento
motivo per il quale principi sociali che per secoli sono stati rispettati adesso vengono messi in
discussione da principi sociali emergenti; quando questi si manifestano devono trovare sufficiente
consenso prima di potersi affermare. Molti di questi principi sono talmente importante da essere
indicati nei preamboli delle carte costituzionali oppure in alcuni casi li troviamo all’inizio di
dichiarazioni solenni particolarmente fondanti per la comunità. Però nel momento in cui si ha una
violazione di questi principi la sanzione non è particolarmente forte e non è automatica, dipende dalla
volontà degli Stati di mantenere la norma o fare rispettare la nuova; è un’ambiguità elevata, perché
gli Sati sostanzialmente non si siedono a tavolino decidendo quale norma si deve rispettare, ma questa
si afferma semplicemente supportandola e sostenendola; possono esistere però più norme che
contemporaneamente regolano un determinato comportamento creando un po’ di confusione. Un altro
tipo di regola che ha invece maggiore cogenza è quello delle norme del diritto internazionale, queste
proprio perché si sono affermate come tali hanno maggiore grado di sanzionabilità rispetto ai principi
sociali fondamentali; gli Stati accettano di essere legati a queste norme prevalentemente e
normalmente (prevalentemente ovvero non sempre e normalmente nel senso che ci potrebbero essere
comportamenti differenti); se uno Stato ritiene che il costo della sanzione sia minore del perseguire
la norma, allora non la rispetterà e la norma sarà indebolita ma certamente la reazione sarà
verosimilmente maggiore rispetto ai principi precedentemente elencati, che saranno tendenzialmente
reazioni di isolamento e strumenti di monito di non appartenenza alla comunità; nel caso invece della
violazione del diritto internazionale ci sono più strumenti, che sono però sempre strumenti limitati,
come le sanzioni. Un altro tipo di regole sono le regole del gioco, tutte quelle regole che sono stabilite
per giocare, per regolare il comportamento di un determinato settore in un certo momento storico, ad
esempio le regole perseguite durante la Guerra Fredda. Queste sono regole che si rispettano fino a
quando i giocatori hanno la volontà di farlo, sono regole piene di ambiguità. Oltre alle regole parte
del sistema sono le istituzioni. Le istituzioni sono singoli insiemi coerenti di regole e procedure e
quasi sempre organi e strutture decisionali, amministrative e operative sulle quali gli Stati convergono
per la gestione di problemi comuni. Queste hanno la funzione di diminuire l’incertezza, incentivano
la conformità tra Stati, incentivano l’omologazione dei comportamenti statali e sono utili poiché
danno assetto stabile alle relazioni tra gli Stati. Esistono due tipi di istituzioni, quelle intergovernative,
che sono create con negoziati formali e i regimi, che si formano attraverso azioni ripetute da parte
degli Stati; in alcuni regimi hanno trovato spazio le ONG. Le istituzioni intergovernative nascono per
essere permanenti e stabili. L’organizzazione internazionale che organizza maggiormente il sistema
è quella delle Nazioni Unite, un pilastro organizzativo fondamentale. Però va anche detto che un
elemento da non sottovalutare è la capacità di queste organizzazioni di cambiare nel tempo, di mutare
non gli scopi ma di aggiungerne altri. Nella relazione con gli stati più forti e le istituzioni, l’uso
strumentale e il rapporto di distacco, finisce con l’incidere per la propensione a far gestire
all’istituzione determinati problemi. Il regime ha come caratteristica di essere un insieme di
procedure, si basa sull’aspettativa; è utile perché possono essere prese delle decisioni che possono
essere rilevanti; incide moltissimo la diversa capacità degli Stati in relazione alla materia di
occupazione del regime.
Le regioni sono molto importanti per il sistema politico internazionale poiché a livello regionale
(macro aree) si verifica la frammentazione del sistema politico internazionale; di conseguenza è
necessario identificare la distribuzione spaziale e la presenza di regioni all’interno
dell’organizzazione del sistema internazionale e dei ruoli che ricoprono. Le cause principali della
frammentazione regionale sono ad esempio la diversa penetrazione dell’economia capitalistica che
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crea quindi una diversa capacità di rispondere ai problemi di carattere economico; se prendiamo in
considerazione il periodo della Guerra Fredda è chiaro che le economie che facevano capo all’URSS
erano economie in cui il capitalismo non penetrava, e quando incominciò a penetrare provocò il crollo
di questi regimi. Non possiamo negare l’importanza di sistemazioni geopolitiche a livello locale, è
chiaro che nel contesto europeo l’uso della forza è un fenomeno molto marginale, nel contesto
africano la presenza di fragilità statale è motivo di molti dei conflitti interni e interstatali ma
sostanzialmente questi conflitti tendono a essere contenuti a livello regionale, l’unica ripercussione
extra-regionale è il flusso migratorio, ma comunque questi conflitti non hanno la probabilità di
estendersi a livello mondiale; in contesto asiatico invece, la situazione è completamente diversa, ci
sono dispute regionali importanti che se dovessero trasformarsi in conflitti armati rischierebbero di
trasformarsi in guerre generali. Tutto questo incide su quanto gli Stati sono disposti a seguire le regole.
L’organizzazione universale che è importante a livello internazionale, diventa poco rilevante a livello
regionale: la presenza o assenza di integrazione regionale porta la frammentazione del sistema
politico internazionale. Nel caso della regione europea abbiamo un processo di integrazione molto
avanzato che è in linea con l’organizzazione del sistema politico internazionale, e questo è
fondamentale; nel caso della regione africana o di quella latino-americana abbiamo qualcosa di simile
ma non è paragonabile al contesto europeo; nel caso della regione asiatica ci sono nuove spinte verso
un processo di integrazione regionale ma che sono diverse dal processo europeo. Nel caso asiatico
l’attenzione è su un processo che lascia intatta la sovranità dello stato e non viene consentito
l’ingerenza sugli affari interni, e questo non è necessariamente in linea con il sistema politico
internazionale. Quando si pensa al processo di globalizzazione, questo ha eliminato molte
discontinuità regionali, con il passare del tempo si è creata una maggiore omogeneità tra le varie
regioni; la presenza di reti locali di cooperazione riesce a configurare la possibilità di discontinuità
territoriali. Un altro aspetto che riguarda il rapporto tra globalizzazione e discontinuità territoriale è
che se in passato i conflitti potevano avvenire nella stessa regione, adesso questo può avvenire tra
regioni diverse; i conflitti economici sono più probabili tra are regionali diverse.
Un altro elemento dell’organizzazione del sistema politico internazionale riguarda i ruoli; secondo le
teorie egemoniche c’è una differenza significativa tra i ruoli esercitati. È necessario distinguere quindi
tra ruoli primari e ruoli secondari. I ruoli organizzativi più importanti, ovvero quelli primari, sono
ricoperti dallo Stato egemone e dagli Stati che giocano o che ambiscono a giocare. Questi Stati
riescono ad esercitare ruoli primari perché organizzano loro il sistema, non solo ne danno le regole,
ma nel caso di quelli sfidanti, modulano la resistenza nei confronti di queste regole e propongono
alternative. Gli Stati che esercitano ruoli primari non fanno altro che imporre agli altri Stati di
conformarsi e lo fanno attraverso gli strumenti che hanno a disposizione, militari, economici o
ideologici. In questo senso, la volontà di giocare il ruolo di leader o di sfidante è necessaria nel
momento in cui i due Stati si accollano l’onere di organizzare due gruppi che si andranno a
contrapporre. Sostanzialmente nel momento in cui uno Stato ambisce a guidare il sistema o a sfidarlo
non può limitarsi a controllare i propri ideali, deve avere la volontà e la capacità di essere presente in
tutti i contesti negoziali dell’organizzazione del sistema politico internazionale; ogni volta che c’è un
negoziato per cui il sistema rischia di cambiare, i due Stati, leader e sfidante, devono essere presenti
perché se non lo sono perdono di credibilità. Gli stati che ricoprono ruoli secondari sono quelli che
contribuiscono, in maniera secondaria, all’organizzazione del sistema politico internazionale; essi
partecipano anche per migliorare il proprio status, per presentarsi come uno Stato che può contare,
come l’Italia con le operazioni di pace in Timor Est (sud-est asiatico). Esiste però un altro gruppo di
Stati che è il cosiddetto gruppo dei free riders. I free riders sono quegli Stati che si avvantaggiano dei
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benefici dati dell’organizzazione, senza partecipare all’organizzazione; si differenzia dagli stati
secondari poiché lo stato free riders non mette a disposizione le proprie risorse, nemmeno per
un’operazione di pace, trae benefici a prescindere dall’organizzazione e di conseguenza però, non
può chiedere nulla in cambio.
Molto importanti sono le forme organizzative che il sistema politico internazionale può assumere nel
tempo. I tentativi di analisi che sono stati fatti fino ad ora identificano la possibilità di variazioni,
nelle forme organizzative, in relazione all’elemento della pariteticità, ovvero alla misura in cui i ruoli
sono rappresentati; quindi la diseguaglianza può essere un elemento presente. La misura in cui la
diseguaglianza può incidere, è relativa alla presenza o assenza di gerarchie e di gerarchizzazioni
organizzative; possiamo immaginare una sorta di continuum in cui in un estremo la gerarchia è
massima, e quindi è un’organizzazione di tipo imperiale, e nell’altro la gerarchia è irrilevante, e quindi
è un’organizzazione di tipo democratico. È chiaro che più il sistema è gerarchico, inferiore è il numero
di soggetti che saranno in grado di organizzare il sistema;
meno il sistema è gerarchico più saranno gli Stati a
contribuire all’organizzazione del sistema, e anche
all’imposizione di regole e istituzioni. Se però andiamo a guardare alle esperienze storiche, in realtà
il tentativo di creare un impero mondiale non è mai riuscito, si è arrivati ad avere solo forme di tipo
egemonico, mai un estremo imperiale; quando noi pensiamo all’estremo gerarchico dell’impero, nella
realtà dobbiamo renderci conto che questo estremo non si è mai verificato quindi si parlerà di estremo
egemonico. Dall’altra parte va detto che la storia è rilevante per comprendere quale tipologia
organizzativa può essere considerata legittima e quale no, se quindi la nostra esperienza storica è tale
per cui tutte le tipologie organizzative finora realizzatasi si sono collocate solo su una porzione del
continuum; si colloca sempre nella metà dell’egemonia non nella porzione democratica. Sulla base
di questa esperienza è più facile considerare legittima una tipologia organizzativa che si colloca sulla
porzione del continuum egemone; qualora ci siano proposte di spostamento verso il continuum
democratico, ci sarà sempre la tendenza a spostarsi verso l’egemonia, perché storicamente sono
legittimate e già esistite e conosciute; le esperienze passate tendono a limitare le spinte affinché ci si
sposti verso l’assetto democratico; la storia passata fa attrito e rallenta il processo. Questo sistema è
stato messo in evidenza da Alan Watson, esponente della scuola inglese. Sia chiaro, nel momento in
cui immaginiamo l’estremo democratico stiamo immaginando che un elevato numero di Stati
contribuiranno nei ruoli primari e secondari. Si ampia il numero di Stati che si prendono la
responsabilità che queste regole e istituzioni siano efficaci e rispettate; questo comporta un onere per
un numero più elevato di Stati; finisce per essere uno effetto frenante per il cambiamento.
Un altro elemento che assume rilievo è quello della centralizzazione del sistema, ovvero quanto il
sistema è centralizzato e quanto diviso in regioni o altre realtà territoriali; possiamo avere tipologie
organizzative che possono ampliarsi all’intero mondo, all’intero sistema internazionale, o tipologie
organizzative che possono avere carattere di regionalismo e frammentazione; nel caso in cui
l’organizzazione riesce ad essere di tipo globalista, estesa, questo
significa che dovremmo immaginare la capacità di queste regole
e istituzioni di essere efficaci; quando vi è la frammentazione
significa che regole e istituzioni non si applicano ovunque, ma
solo a livello localizzato e regionale. In questo senso abbiamo
degli indicatori per queste due dimensioni. Per esempio quando si
cerca di comprendere quanto è paritetico un sistema andiamo a
guardare alla procedura di elaborazione delle decisioni;
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Luisiana Schiera – Alberto Presti
guardiamo anche al contenuto delle decisioni prese,