relazione

13
SÌ, MA CHE CI FAI CON LO SPAZIO VUOTO? NIENTE. Relazione illustrativa Progetto, direzione artistica e coordinamento di Luca Diffuse Direzione scientifica di Elena Pirazzoli Con: Based Architecture Emanuela Ascari, Nicola Di Croce, Giuseppe Maiorana Studio Iknoki

description

relazione progetto

Transcript of relazione

Page 1: relazione

SÌ, MA CHE CI FAICON LO SPAZIO VUOTO? NIENTE.

Relazione illustrativa

Progetto, direzione artistica e coordinamento

di Luca Diffuse

Direzione scientifica

di Elena Pirazzoli

Con:

Based Architecture

Emanuela Ascari,

Nicola Di Croce,

Giuseppe Maiorana

Studio Iknoki

Page 2: relazione

UNA COLONIA ARTISTICA REMOTAPensiamo di installare ad Auletta un sistema di residenze artistiche. Una colonia internazionale permanente, orientata curatorialmente ad uno scambio capacitivo con la comunità locale. Una colonia capace di riconoscere il luogo ed i suoi comportamenti sociali e di lavorare con gli abitanti ad una estetica relazionale recuperata.

“Ci sentivamo diversi, e ci mancava inoltre la vocazione di missionari per fare accettare agli altri la nostra verità. Che questa nostra eventuale verità poteva definirsi solamente confrontandoci con la verità degli altri. Da questo incontro con il diverso noi siamo stati costretti a rivelare, attraverso tutta una serie di reazioni che ignoravamo prima, qual’è il dislivello tra le nostre intenzioni e quel che siamo in grado di realizzare.”1

Lo avevamo anticipato durante la cronaca della nostra partecipazione a questo concorso su Abitare.it2: “un lavoro del genere parte con un apparato evocativo o non parte proprio.” Per ora comunque è urgente chiarire che un modello basato sulla creazione di una comunità artistica stabile è quello che ci consente di passare da un approccio del tipo:

“cosa ci inventiamo per portare chiunque qui ad Auletta per almeno un week end?”

Ad un approccio del tipo:

”come ci mettiamo in contatto con persone davvero motivate a vivere e lavorare per periodi anche lunghi qui ad Auletta senza che noi si faccia nulla di particolare?”

Che è sicuramente un approccio più efficace, economico, consapevole. Anche perchè queste persone esistono. Vediamo di chi stiamo parlando.

1

1 Nel 1974, l’Odin Teatret di Eugenio Barba soggiornò per 5 mesi a Carpignano, nell’intervista della quale ripor-tiamo alcuni brani, realizzata per la televisione danese da Stig Krabbe Barfoed, Eugenio Barba propone per la prima volta il concetto di baratto per spiegare la strate-gia usata dall’Odin Teatret per entrare in contatto con la popolazione locale.

2 http://www.abitare.it/it/diffuse-outtakes/coauletta-–-diretta-web-1/

Page 3: relazione

2

Ancora con la seconda uscita delle nostre considerazioni su Abitare.it (http://www.abitare.it/it/diffuse-outtakes/coauletta-–-diretta-web-2/) abbiamo cercato di mettere assieme due dati. Il primo è quello evidente di quanto siano vuoti tutti i paesi dell’Appennino centro-meridionale rispetto alla loro reale capacità. Il secondo dato – culturale – è di quanto potente sia attualmente il riferimento alla terra ed al folklore, in tutte le comunità più o meno definibili come creative in nord Europa, nord America, Russia e Giappone3. E quindi di quanto sia appetibile la contemporanea disponibilità - tutta italiana - di spazio ed immaginari locali legati al sistema dei paesi.

Mettere assieme i due dati costruendo la possibilità di far lavorare i paesi in senso poetico è istantaneo4.

I paesi poi sono capaci di mettere in campo un altro valore aggiunto. L’isolamento5. Vediamo molte delle dinamiche emotive e produttive attuali come un conflitto tra la necessità di concentrazione ed una certa dipendenza da forme varie di intrattenimento. Come non crediamo che ci si debba trasferire definitivamente ad Auletta o in un altro paese appenninico, altrettanto sicuramente non crediamo alla necessità di spendere energie per puntare sul turismo da week end. Ci interessa invece ragionare sull’efficacia di un modello basato sull’alternarsi di periodi intimi di concentrazione, ricerca e produzione e periodi pubblici di comunicazione e marketing.

Vedi quadro 01

3 Cerchiamo di rappresentare meglio il particolare im-maginario visivo che queste comunità si scelgono negli ultimi anni. A Dumbo e Williamsburg prima, a Bushwick ora, ed a Gowanus Channel a breve (per quanto riguarda New York City), così come a Vesterbro e Gunnerlokka e in tutti i quartieri statunitensi e nordeuropei che ospitano episodi di gentrification, è possibile rilevare - sempre – una elevata percentuale di camice di flanella a scacchi e barbe e baffi a manubrio. Insomma, se si mette da parte tutto l’armamentario digitale che gli hipsters si portano dietro, di solito le sensazioni visive che offrono sono quelle di una comunità di cacciatori di cervi.Il poco folklore disponibile americano, quello del Mid-west, delle zone rurali lungo i fiumi e quello più potente del Nord Ovest Pacifico, quel poco che c’è viene saccheg-giato.In Italia invece ci fermiamo sereni al nostro – non so – provincialismo? Che l’altro giorno mi sono fatto aprire una stanza del museo archeologico di Sulmona, quella del museo etnografico. Anche se scientificamente ho un interesse davvero basso al riguardo, era possibile trovarci dentro dentro qualcosa come centinaia di spunti che possono andare a finire nell’architettura, nella grafica, nell’illustrazione, nella moda, nella scrittura creativa. E invece vai con la flanella a scacchi.

4 “Perché una delle componenti centrali e non scontate dell’idea di Wilderness è proprio il “poetico”, inteso come pratica dell’immaginario, come consapevolezza del mondo quale alterità, e come testimonianza creativa di questa alterità. Ho sempre in mente una frase di Claude Lévi-Strauss che recupero nella parafrasi di un poeta, e che dovrebbe suonare più o meno così: «l’arte sopravvive nel mondo civilizzato come piccole isole di Wilderness

per mostrarci da dove veniamo» (Snyder 2007: 63). In questo senso il poetico non è solo una via di accesso al lato selvatico, ma può configurarsi come una tecnica di sopravvivenza ecologica in un mondo in cui la coloniz-zazione dell’immaginario crea danni individuali e collet-tivi irreparabili.”(Matteo Meschiari, Terra sapiens. Antropologie del pae-saggio. Palermo, Sellerio, 2010)

5 Come caso studio pensiamo al Baltic-Nordic Network of Remote Art & Residency Centres (http://remotenet.nidacolony.lt/) che comprende otto colonie artistiche stabilite in luoghi remoti:Center for Visual Art Skaftfell, (http://skaftfell.is/), in Islanda;Kultivator, (http://kultivator.org/about/), in un villeggio rurale su un isola a Sud-Est della Svezia;MOKS, (http://moks.ee/), nel villaggio rurale di Mooste in Estonia;Mustarinda, (http://www.mustarinda.fi/), nella riserva naturale di Paljakka in Finlandia a 23 km dalla cittadina più vicina;Nes Artist Residency, (http://neslist.is/), nel villaggio di pescatori di Skagaströnd in Islanda;Nida Art Colony, (www.nidacolony.lt), nel parco nazionale della penisola di Curlandia in Lituania;Sanna Culture Manor, (http://www.kultuurimois.kultuu-ritehas.ee/kultuurimoiseng.html), in un villaggio disabi-tato nel sud dell’Estonia;SERDE, (http://www.serde.lv/), in un villaggio medievale a 200 km da Riga, in Lettonia.Comunità tutte finanziate attraverso gli EEA and Norway Grants (http://www.eeagrants.org/) e riunite dal motto: Remoteness is an Advantage / Centres in the Periphery.

Page 4: relazione

TEMI RELAZIONALIDescritta la contingenza economica e culturale che produce la possibilità di installare una colonia artistica ad Auletta, vediamo qual’è l’orientamento curatoriale di partenza che possiamo immaginare.

Il campo di attenzione sarà la sfera delle relazioni umane.

“Questa generazione di artisti non considera l’interazione come un gadget teorico alla moda, la assume come punto di partenza e conclusione, come il principale informatore della sua attività. Lo spazio in cui le opere si dispiegano è interamente quello dell’interazione, dell’apertura che inaugura ogni dialogo. Ciò che esse producono sono esperienze interpersonali che tentano di liberarsi dalle costrizioni dell’ideologia della comunicazione di massa; in qualche modo producono luoghi in cui si elaborano modelli di partecipazione sociale alternativi, modelli critici. Le opere si presentano come interstizi sociali all’interno delle quali queste esperienze si rivelano possibili: oggi sembra più urgente inventare relazioni possibili coi propri vicini che scommettere sul domani. È tutto qui eppure è qualcosa di enorme.” (Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale).

La comunità è chiamata anche ad azioni di riconoscimento delle tradizioni offuscate - ancora - dall’adeguamento all’ideologia della comunicazione di massa. L’area di intervento è allora quella definita dalla crisi della presenza6, dallo spaesamento, indicato da Ernesto de Martino come la condizione rischiosa in cui gli individui temono di perdere i propri riferimenti domestici, che in qualche modo fungono da indici di senso.

6 La presenza in senso antropologico, nella definizione di Ernesto de Martino è intesa come la capacità di conser-vare nella coscienza le memorie e le esperienze necessa-rie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e andandovi oltre attraverso l’azione. La presenza significa dunque esserci (il “da-sein” heideggeriano) come persone dotate di senso, in un contesto dotato di senso. Il rito aiuta l’uomo a soppor-tare una sorta di “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, sentendo minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene in seguito definita come “tradizione”.

3

Vedi quadro 02

Page 5: relazione

IL BARATTOSemplifichiamo e proviamo ad immaginare le dinamiche che possono stabilirsi tra una comunità artistica internazionale di creativi con un immaginario più o meno consapevole da contadini e boscaioli ed una comunità italiana di (ex?) contadini e boscaioli con un immaginario più o meno consapevole alla Sex and the city. E’ evidente che ci può essere un lavoro sul recupero e la costruzione di una consapevolezza reciproca, al suo meglio simile alle forme di baratto teatrale impostate dal lavoro di Eugenio Barba7.

“Fino a che punto la vostra è una iniziativa altruista?”

“I motivi dell’Odin Teatret per lavorare a Carpignano sono egoistici: siamo qui perchè il nostro compito ci stimola, ci da la possibilità di metterci in una situazione di sfida. Puoi definire i nostri motivi come egoistici ma è alle conseguenze, ai risultati che tu devi rivolgere la tua attenzione. Come percepisce la popolazione di Carpignano la nostra presenza nel loro paese? Siamo uno stimolo così forte da mettere in moto dei processi che permettono loro di ritrovare un legame culturale comune che li definisce in rapporto a noi? Se la popolazione risponde all iniziative dell’Odin Teatret con una serie di azioni che hanno un senso culturale – danze, canzoni, teatro improvvisato, scene grottesche – allora i nostri motivi apparentemente egoistici divengono un forte catalizzatore di un avvenimento sociale.”

“Ci siamo dovuti domandare che cosa vogliamo qui. Non volevamo imboccare queste persone col Teatro, un fenomeno culturale di cui hanno fatto benissimo a meno per secoli. Volevamo che ci rispondessero con la loro voce, con la loro lingua, con i loro legami, con quello che li lega assieme, quello che li fa forti, quello che si vuole spezzare in loro: la loro cultura, una cultura popolare che – ed è l’essenziale – non divide ma accomuna.”

7 “Gli attori dell’Odin e la popolazione di Carpignano sono veramente poli opposti. I giovani dell’Odin con la loro cultura scandinava, il loro modello di comporta-mento, il loro modo di pensare, il pregiudizio della loro apparente mancanza di pregiudizi, sono totalmente dif-ferenti da questa società contadina saldata da profonde norme.Non siamo venuti qui per insegnare qualcosa alla popo-lazione, per illuminarli sulla loro situazione umana e sociale; non volevamo dar loro coscienza di qualcosa che noi credevamo di avere. Né volevamo diventare il loro passatempo. Immaginati due tribù che sono molto diverse e che si incontrano sulle rive opposte di un fiume. Uno non passa il fiume per fare ricerche etnografiche, per vedere come gli altri vivono, ma per dare qualcosa

e ricevere qualcosa in cambio. Ma un patrimonio cul-turale si può barattare? Siamo partiti da situazioni molto semplici in cui gli attori dell’Odin Teatret cantavano canzoni scandinave e dove era organico e naturale che i presenti rispondessero con le loro canzoni. Dopo abbiam allargato queste situazioni inserendovi alcune danze a cui la popolazione ha risposto con proprie danze. Quindi ap-parvero brevi scene e sketches improvvisati. La situazione comincia a rassomigliare a una festa collettiva a cui tutti partecipano. C’è sempre qualcuno di questi paesi che ha capacità spiccate come entertainer. Questo è il nostro baratto. Noi non abbiamo rinunciato a quello che era nostro, loro non hanno rinunciato a quello che era loro. Ci siamo definiti reciprocamente attraverso il nostro patrimonio culturale.”

4

Page 6: relazione

REGISTRARE, RIASCOLTARE, ARCHIVIARE Accennato al campo culturale ed estetico – quello delle relazioni reciproche – cui orientare inizialmente il lavoro della colonia artistica, vediamo ora come impostare e poi comunicare questa produzione.

Andiamo per metafore ed immaginiamo in questa fase di definire come obiettivo degli artisti residenti, quello di lavorare ad una registrazione ambientale. Registrare suoni, ma anche comportamenti, racconti, relazioni personali, producendo un nastro denso ed impreciso, fatto di un numero elevato di tracce audio, video e testi. Lavorando attraverso pratiche che si muovano in modo disinibito tra analogico e digitale. Registrando una quantità esuberante di materiale, per poi trovare nuovi sensi eventuali, nuove tradizioni in fase di montaggio, di archiviazione, di riascolto e poi nuova messa in comune.

“Il destino della “mente locale”, come il destino di ogni cultura indigena, è connesso alla condizione di riconoscimento della sua dignità. Questa implica non solo “libertà di costruire” per le comunità locali, ma anche il diritto alla terra su cui abitare e alle risorse ad essa connesse; richiede inoltre il riconoscimento che ogni gestione del territorio è in primo luogo una questione di conoscenza locale.”(Franco La Cecla, Perdersi, Saggi Tascabili Laterza, Roma-Bari, 1988)

5

Vedi quadro 03

Page 7: relazione

8 Quanto all’addomesticamento riportiamo una delle dinamiche raccolte da Elena Pirazzoli per il suo A partire da ciò che resta – Forme memoriali dal 1945 alle mac-erie del muro di Berlino. In particolare quella legata all’eccidio nazista ricordato come strage di Marzabotto, condotto nell’autunno 1944, e che interessò un’area molto più ampia, tutta la zona collinare di Monte Sole. Nel dopoguerra il sacrario dei caduti è stato costru-ito nel comune più grande, Marzabotto appunto, ma fuori da tale area, inoltre l’inaugurazione avvenne solo nell’ottobre 1961 e in questo ampio lasso di tempo si perde man mano la memoria della realtà dell’eccidio, in rapporto al suo effettivo luogo e alla condizione specifica delle vittime. Inoltre, il Sacrario di Marzabotto raccoglie anche spoglie di soldati caduti nelle due guerre mondiali, per alcuni espandendo il suo significato di monito contro tutte le guerre, per altri confermando la necessità di monumentalizzare la memoria dei caduti per la patria: in ogni caso, disperdendo il suo legame con gli eventi – peculiari e fortemente caratterizzati – dell’ottobre 1944.“La perdita del legame avviene anche con la progres-siva dimenticanza del luogo. L’area di Monte Sole, la cui popolazione venne sistematicamente eliminata in quell’operazione nazista, divenne poi area di combatti-mento tra tedeschi e alleati, portando al bombardamento della zona. Nel dopoguerra si raccolgono i pochi resti delle vittime tra le macerie di quelli che un tempo erano state le case e le chiese dei piccoli centri agricoli. Pochis-

simi sopravvissuti decidono di tornare a viverci, meno ancora sono i nuovi abitanti, e in ogni caso il ritorno a Monte Sole avviene solo per scelte consapevoli del pas-sato che aveva attraversato quei luoghi, come nel caso della comunità religiosa fondata da Giuseppe Dossetti.”“Il luogo, fino ai primi anni Novanta, appariva come ab-bandonato dagli uomini e ripreso a sé dalla natura, in mezzo alla quale era possibile scorgere le tracce del vis-suto di quel territorio. Il silenzio, l’assenza di luce nella notte, il tangibile scorrere delle stagioni sulle macerie delle case: anche l’abbandono permetteva di leggere l’entità di quello che era passato. Tutto questo segnava la differenza di quel luogo dalle aree circostanti. La differ-enza del nudo luogo.”“Purtroppo, il Parco ha recentemente intrapreso un’operazione archeologica attorno ai resti – le reliquie – dei luoghi degli eccidi, perdendo la stratificazione della vegetazione e del tempo, perdendo quella dimen-sione di abbandono che suscitava attenzione, interesse, cura, pensiero. Generando, all’opposto, delle rovine indifferenti e addomesticate, senza capire che a essere messa in discussione non era la precedente presenza di quelle case (di cui esistono fotografie e altre testimo-nianze), quanto piuttosto la qualità della violenza (il «delitto castale» nelle parole di Dossetti) e la totalità di quell’azzeramento, prodotto prima dall’eccidio e poi dal passaggio del fronte.”

UNA ECCITAZIONEDELL’ARIAAll’inizio di questa relazione abbiamo accennato allo spazio come possibilità di insediamento. Ma noi lo sentiamo anche per la sua capacità evocativa, per il potenziale narrativo e cercheremo di stare piuttosto attenti ai modi di occuparlo, proprio per non intaccare tale capitale.

Se uno degli obiettivi del bando era quello di generare una visione post-sisma innovativa, la nostra si articola proprio attorno a questo punto: il terremoto ha ucciso persone e tirato giù case. Ma il terremoto ha pure lasciato nel paese spazio ed aria, morti e rovine su cui poi ha fatto presa una certa natura. Forse non sappiamo bene cosa farci ma sicuro non ci interessa addomesticare8 questi dati di progetto che definiscono una configurazione imprevista e di grande potenziale, se interpretata poeticamente. E’ il titolo del nostro lavoro.

Non ci interessa occupare lo spazio vuoto ora disponibile. Però magari una certa vibrazione, una certa eccitazione di quest’aria la possiamo ottenere. Questi suoni e voci registrati, possono riemergere in tutto il paese ed essere distribuiti e georeferenziati sul territorio attraverso le comuni pratiche di ICT, producendo nuove ed indefinite esperienze. Suoni e parole disponibili tanto online quanto nello spazio reale, che addensano l’aria lavorando sulla qualità dello spazio attorno al quale si organizza tutto il progetto. Mantenendolo vuoto.

6

Page 8: relazione

Al suo meglio si tratta della versione digitale dell’idea di Rilke della conservazione del visibile attraverso il passaggio all’invisibilità9.

“Preferisco parlare di “mente locale” per intendere cultura dell’abitare, del costruire-abitare e non di “architettura vernacolare”, “senza architetti”, “spontanea”, “primitiva”, “tradizionale”, perchè ognuna di queste definizioni è, non solo una umiliazione dell’immenso affresco che è l’umana facoltà di abitare, ma una definizione senza speranza. Non sono infatti i resti visibili a rendere giustizia alla cultura dell’abitare. Questa consiste anche e soprattutto di tutti gli invisibili processi che possono confluire o meno nell’edificato.” (Franco La Cecla, Mente Locale, Elèuthera, Palermo, 1993)

Un obiettivo di bando richiedeva la generazione di dispositivi che permettano la messa in rete dell’offerta del territorio. In questo senso i dispositivi e le piattaforme esistono e sono disponibili più o meno gratuitamente, non vanno quindi generati quanto alimentati. Il focus è quindi quello della produzione, della formattazione e della distribuzione dei contenuti. E si tratta dello schema usato per integrare le competenze del nostro raggruppamento. Gli artisti residenti individuano, producono ed editano i contenuti, formattati tipograficamente da Studio Iknoki che li distribuisce eventualmente anche online georeferenziandoli, mentre l’ufficio stampa di Based Architecture provvede alla loro diffusione verso i media tradizionali10.

9 ”Ancora nei padri, nei padri dei nostri padri, una casa, una fontana, una torre significavano infinitamente più, perfino la loro propria veste, il loro mantello, quasi ogni cosa era infinitamente più familiare, un vaso in cui essi accumulavano ancora altro umano. Ora incalzano dall’America vuote cose indifferenti [...]. Le cose ani-mate, vissute, consapevoli con noi, declinano e non pos-sono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che hanno conosciuto tali cose. [...]. La Terra non ha altro scampo che diventare invisibile. In noi che con una parte del nostro essere partecipiamo dell’invisibile, abbiamo (almeno) cedole di partecipazione a esso, e possiamo au-mentare il nostro possesso di invisibilità durante la nos-tra dimora qui – in noi soltanto si può compiere questa intima e durevole metamorfosi dal visibile all’invisibile, indipendentemente ormai dalla visibilità e tangibilità.”(R. M. Rilke, Lettere da Muzot, Cederna, Milano, 1947, lettera 323)

10 Aggiungiamo qui una sfumatura a quello che pensia-mo possa essere il ruolo dell’ICT e della georeferenziazi-one di contenuti nel progetto, un ruolo che contribuisca a mantenere fisicamente invisibili soglie e distinzioni spaziali affidandole invece ad un nuovo tipo di conoscen-za localmente condivisa. “La forma di un insediamento è una costruzione culturale, una mappa mentale che solo gli abitanti sono in grado di tenere in vita. Vi sono soglie invisibili ma solide quanto porte o mura [...] Queste direzioni privilegiate, queste soglie e gli stessi confini di un insediamento costituiscono le notazioni su cui si articola il “discorso parlato” dello spazio. Ci si intende consentendo e ribadendo ambiti, orientamenti, tracce. La struttura sociale stessa si appoggia a questi riferi-menti. Lo spazio serve a distinguere e a distinguersi: può avvenire che vi si attestino le identità fondamentali di un insediamento.” (Franco La Cecla, cfr.) Questa negozi-azione sociale potrebbe essere il campo di diversi giochi tra la colonia artistica e gli abitanti di Auletta. Abbiamo spesso pensato agli effetti – ad es. – di un reset della toponomastica stradale ed alle conseguenze sociali della contrattazione di un nuovo modo di riferirsi agli spazi, cui chiunque possa contribuire attraverso la creazione di storie. In questo caso pensiamo alle sfumature impre-viste della ospitalità di città in cui è difficile orientarsi e che richiedono l’apprendimento di pratiche narrative o cartografiche specifiche (Venezia, Tokyo).

7

Page 9: relazione

QUALE MARGINE DI PROGETTOQuesto per quanto riguarda il flusso di lavoro. Torniamo alla scelta di metodo della registrazione – montaggio – riproduzione, perché aggiunge una declinazione del nostro approccio allo spazio disponibile, fisico e narrativo.

Fermo restando che non è il folklore di per sé ad interessarci, perché allora la pratica della registrazione, dell’editing e della riproduzione può diventare metodo?

Perché attraverso le parole di una persona, le fiabe o i racconti storici prendono coscienza della creazione poetica di chi narra. Esiste un margine aperto e possibile che le migliori narrazioni personali sanno prendersi ed interpretare rispetto al fatto nudo o alla ripetizione identica della fiaba. Restando alle tradizioni pensiamo ad es. alle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani raccolti dal Pitré nel 1875 ed a quanto sia stato importante il contributo della sua migliore raccontatrice Agatuzza Messia.

“Tutt’altro che bella essa ha parola facile, frase efficacie, maniera attraente di raccontare, che ti fa indovinare della sua straordinaria memoria e dell’ingegno che sortì da natura”.

Rispetto al vuoto, rispetto a tutta l’aria ora disponibile, lo spazio in cui impegniamo il nostro lavoro è quello minimo della creazione poetica attorno a storie già scritte, che prima di essere nuovamente interpretate e raccontate vanno ascoltate e mandate a memoria.

8

Page 10: relazione

A BASSA DEFINIZIONETanto la colonia quanto gli eventi che verranno prodotti richiederanno interventi progettuali. Per l’ospitalità, le mostre, gli eventi. Nel caso si cercherà di realizzare davvero poco se non nulla, cercando interventi minimi ed intelligenti. Ancora non intaccando il capitale di possibilità narrative legate alla disponibilità di spazio ed alle atmosfere che determina.

Architetture che dovranno poi essere in grado di assumere la vocazione relazionale dell’intero progetto. Facciamo un esempio: se in paese ci sono dieci vedove ottime cuoche, direi che il problema di pensare a come realizzare dei refettori non si pone. L’esempio è banale ma definisce l’obiettivo ed il metodo di rinserrare lo spazio delle relazioni attraverso momenti concreti di scambio che non abbiamo come scenario necessario quello di qualche nuova realizzazione.

La sensibilità in grado di guidare interventi di questo tipo è quella di una progettazione a bassa definizione.

“La bassa definizione è una sensibilità che riserva speciali attenzioni all’indeterminato e al non risolto. Una sensibilità che si è sviluppata in molti ambiti della produzione e del consumo culturali contemporanei, arricchendosi di molte consapevolezze teoriche.

Applicata all’architettura, la bassa definizione si trasforma in un’opzione di ordine culturale, un punto di vista che scardina molte convinzioni e consuetudini mentali, che induce ad interpretare il costruire come un processo in realtà mai finito. Così anche nei suoi aspetti oggettuali, l’architettura si diluisce, diventa entità necessariamente imperfetta, che si avvalora quando possiede molti gradi di apertura.” (da LO-Fi Architecture, http://www.marsilioeditori.it/mostre/libro/3170778-lo-fiarchitecture, libro e mostra collettiva, evento collaterale della mostra di architettura alla Mostra di

9

Vedi quadro 05

Vedi quadro 04

Page 11: relazione

Architettura della Biennale di Venezia 2010. A cura di Mario Lupano, Luca Emanueli e Marco Navarra e con Luca Diffuse ed Emanuela Ascari).

Ci sarà spazio allora, all’interno di qualche vecchio edificio e nel parco a ruderi tutto attorno. Questo spazio può essere colonizzato progressivamente da piccoli interventi, semplici cabin. Piccole case nidificate, anche provvisorie all’interno degli edifici e nel parco. Basta portare la tecnologia e l’intimità sufficienti ad installare ateliers e laboratori, spazi in cui ritrovarsi e stare assieme, in cui dormire. Tipologie nido che aggirano i costi di ristrutturazione degli spazi che le contengono, mantenendone il valore evocativo legato al carattere sospeso, non finito, grezzo.

Ma ancora prima di questa leggera colonizzazione progressiva ci interessa la capacità di non occupare, di non realizzare necessariamente e subito. Una capacità che è densa in termini di produzione di senso. Ci interessa Un sentimento che sembra non avere nulla a che fare con gli approcci consueti del recupero, del riuso e con simili standard di simulazione affettiva. Una esperienza forse precedente ad operazioni reali di riqualificazione, ma non necessariamente motivata da queste possibilità. Un intermezzo indeciso. Un affetto ambientale che genera dinamiche inattese tra le persone, le strutture, la natura.11

In sintesi ci interessa di più elaborare una tattica intelligente di intervento sugli edifici che punti a non ‘spalmare’ le disponibilità sull’intera area di intervento scegliendo di riqualificare aree ristrette identificate con estrema selettività, mantenendo al resto degli immobili le loro attuali qualità ambientali e la possibilità di adattarsi a qualsiasi sviluppo ulteriore. Un intervento lieve a basso budget ed elevata atmosfera. Un intervento che lascia indisturbati paese e parco.

11 Dalle conclusioni di un workshop curato da Luca Dif-fuse per il magazine Abitare (http://www.abitare.it/it/abitare-lab/erba-alta-un-intermezzo-indeciso/)

10

Page 12: relazione

12 A costo zero.

IL WORKSHOP COME NUMERO ZEROVorremmo rendere operativo da subito questo nostro sistema e le dinamiche che intende innescare. Al suo meglio anzi il sistema deve funzionare già dalla sua ideazione, a partire già da questa relazione. Puntiamo a fare del workshop il momento di attivazione reale della nostra proposta come valutazione della sua fattibilità, economicità, capacità comunicativa. Se invitati, saremo presenti con la colonia artistica attivandone l’identità, le produzioni e la comunicazione. Ne proveremo anche le modalità di relazione con la città di Auletta. Avvieremo le sessioni di registrazione ambientale ed i momenti di editing e diffusione digitale, attraverso soglie sul territorio, una piattaforma web dedicata e l’ufficio stampa. Un numero zero12.

Progetto, direzione artistica e coordinamento di Luca DiffuseDirezione scientifica di Elena PirazzoliCon: Based ArchitectureEmanuela Ascari,Nicola Di Croce,Giuseppe MaioranaStudio Iknoki

11

Vedi quadro 06

Page 13: relazione

“Di contro al mondo dei re, quello dei contadini. L’avvio realistico di molte fiabe, il dato di partenza d’una condizione di estrema miseria, di fame, di mancanza di lavoro è caratteristico di molto folklore narrativo italiano... ma la situazione “realistica” della miseria non è solo un motivo d’apertura della fiaba, una specie di trampolino per il salto nel meraviglioso, un termine di contrasto con il regale ed il sovrannaturale. C’è la fiaba contadina dall’inizio alla fine, con l’eroe zappatore, coi poteri magici che restano appena un precario aiuto alla forza dele braccia e alla virtù ostinata: sono fiabe più rare e sempre rozze, tradizioni sparse, frantumi di una epopea di braccianti che mai forse uscì dall’informe...

Chi sa quanto è raro nella poesia popolare costruire un sogno senza rifugiarsi nell’evasione, apprezzerà queste punte estreme d’un autocoscienza che non rifiuta l’invenzione di un destino, questa forza di realtà che interamente esplode in fantasia. Miglior lezione, poetica e morale, le fiabe non potrebbero darci.”(Italo Calvino, introduzione alle Fiabe italiane, 1956)

Questa relazione è disponibile all’indirizzo:www.lucadiffuse.net/ftp/auletta/relazione.pdfI quadri grafici sono disponibili all’indirizzo:www.lucadiffuse.net/ftp/auletta/quadrigrafici.pdfI curricula del gruppo di lavoro sono disponibili all’indirizzo:www.lucadiffuse.net/ftp/auletta/cv.pdfLa cronaca di questa partecipazione è stata pubblicata in tre numeri su Abitare.it:Diretta web su Abitare.it 01Diretta web su Abitare.it 02Diretta web su Abitare.it 03

12