[email protected] Aprile 2017 SCHEGGE · di Michele Consolini, Ludovica Borsci e...

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SCHEGGE IL GIORNALE DEGLI STUDENTI UNIVERSITARI DI FORLÌ [email protected] Aprile 2017 ... di PRIMAVERA

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SCHEGGEI L G I O R N A L E D E G L I S T U D E N T I U N I V E R S I T A R I D I F O R L Ì

r e d a z i o n e s c h e g g e @ k o i n e o n l i n e . o r g A p r i l e 2 0 1 7

... di PRIMAVERA

2 SCHEGGE Aprile 2017

... dopo una lunga pausa il nostro amato Schegge è tornato! Questo numero di Aprile segna una fine quindi un inizio o, per meglio dire, un passaggio…

Non si può però pensare di costruire un futuro senza conoscere le proprie radici ed è per ciò che in questo passaggio di consegne vorrei ringraziare quanti negli anni ci hanno fatto arrivare fin qui, guidandoci nelle scelte di ogni mese. Dalla precedente caporedattrice Mariagrazia Carbotti, alla Presidenza di Koiné, fino ai singoli redattori che riempendo pagine bianche di inchiostro ci hanno informato, smentito, divertito o più semplicemente appassionato!

È con grande piacere che questo numero, arricchito di voci e pagine, vi dà il benvenuto e spera di trovare tutta la stima di voi lettori. Desidero quindi presentarvi le nuove firme e introdurvi le nuove idee che ci hanno allettato e che speriamo possano essere all'altezza delle vostre aspettati­ve. Un'analisi scientifica in ambito sociologico, medico e biologico sarà il tessuto delle rubriche di Michele Consolini, Ludovica Borsci e Sofia Calderone. La musica e le sue note non saranno mai state così intonate e sul pezzo come ora, grazie a Michele Veneziano e Lorenzo Crippa! Re­sta, come da tradizione, la rubrica sui libri curata da Maria Giulia Minnucci e quella di cinema di Manuel Lambertini. Per la costante attenzione all'attualità, Leandra Borsci, Irina Aguilari, Luca Giovagnola, Luca Giro, Giorgia Miccoli, Giada Pasquettaz, Ignazio Pisanu, Sara Tanan, Agnese Zoppelli, Davide Cuoccio che ci terranno informati sulle novità locali, nazionali e internazionali. Ringrazio anche i ragazzi Erasmus che mensilmente si avvicendano nel raccontarci la loro espe­rienza, così come i collaboratori esterni Mar'yana Polovchuk e Kevin Carboni. Le nuove rubriche dedicate a viaggi, fotografia e poesia vogliono esplorare campi che troppo spesso vengono trala­sciati o peggio, banalizzati. Ridare loro lo spazio e veste originale è lo scopo primo e ultimo della loro presenza, fortemente voluta. Infine, un grazie particolare va a chi in passato come in futuro ha personalmente e interamente curato la grafica di ogni mensile, la cui preziosa collaborazione è un vanto per questo giornalino e per tutti noi redattori. Grazie Leandra Borsci!La varietà ed eterogeneità degli articoli sono la cifra distintiva del nostro impegno… Lo sono per­ché vorremo che ognuno di voi possa ritrovare un pezzo di sé nelle schegge di carta… ricordan­dovi come, spesso, l'arma più tagliente e potente sia proprio la parola. Buona lettura!

Anna Battistella

SCHEGGE realizzato con UBUNTU&SCRIBUS&THE GIMP nelle Officine KoiNerd

EDITORIALECARI LETTORI...

redazioneschegge@koi‐

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Schegge

Schegge è un giornale

universitario aperto,

che nasce per dare

spazio alle idee di tutti e

per stimolare un di‐

battito che sia reale ed

argomentato: uno spa‐

zio in cui confrontarsi

liberamente.

Le opinioni espresse

negli articoli di

Schegge, salvo dove di‐

versamente specificato,

non implicano quelle

dell'Associazione Uni‐

versitaria Koiné ma so‐

no piena ed esclusiva

responsabilità degli au‐

tori degli articoli stessi.

SOMMARIO

A. Zoppelli ‐ Il braccio destro della moda................................................................................................................................ 3L. Borsci ‐ Made in Korea............................................................................................................................................................. 4S. Tanan ‐ IQRA............................................................................................................................................................................... 5A. Battistella ‐ Rubrica di Poesie............................................................................................................................................... 6I. Aguiari ‐ Il pane, oltre le rose................................................................................................................................................. 7A. Battistella ‐ Frida Kalho, una nuova i‐dea di bellezza...................................................................................................... 8M.G. Minnucci ‐ Riappropriamoci del nostro corpo............................................................................................................... 9S. Calderone ‐ FakeBio................................................................................................................................................................. 10L. Borsci ‐ InfoMed......................................................................................................................................................................... 11A. Badel ‐ Voce di Erasmo #1...................................................................................................................................................... 12M. Polovchuck ‐ Voce di Erasmo #2.......................................................................................................................................... 13I. Pisanu ‐ The wind of change......................................................................................................................................................14G. Miccoli ‐ Cartoline da Bruxelles..............................................................................................................................................15K. Carboni ‐ Di cosa parliamo quando parliamo di libertà di stampa?..............................................................................16G. Pasquettaz ‐ Bello Figo: il cantante più politico del momento?......................................................................................17L. Giro ‐ 25 Aprile: la Resistenza e la sua luce........................................................................................................................18L. Giovagnola ‐ I lavori che ho svolto.........................................................................................................................................19M.G. Minnucci ‐ KCB ‐ Voci dalla luna, Andre Dubus..............................................................................................................20M. Lambertini ‐ Buio in Sala: un angolista al cinema.............................................................................................................21M. Consolini ‐ Codice a Barre......................................................................................................................................................22M. Veneziano ‐ Recensioni oneste..............................................................................................................................................23

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Per gli amanti della bellezza e dello sfavillante mon­do della moda ma anche per tutti i sostenitori della

città di Forlì, vorrei far conoscere ancora una volta, quello che essa nasconde. Si è tenuta, dal 25 febbraio 2017 al 19 marzo, presso il palazzo del Monte di Pietà, in corso Garibaldi, la mostra “Suggestioni, l’arte del fi­lo”. Perché ve ne parlo? Non sono un’intenditrice di mo­

da, né una fashion blogger, ma sono attratta da tutto ciò che è bello agli occhi e quello che ho visto merita un ri­conoscimento. Si è trattato di un’esposizione di una ventina di capi di abbigliamento come coprispalla, vesti­ti da sera, borse, scarpe, oltre a paramenti sacri. Tutti questi oggetti hanno in comune tra loro l’appartenenza alla stessa azienda produttrice, ”Arte e Ricamo”, situata a Forlì in via Euclide 6. È stato raccontato, a coloro che sono andati a visitare

la mostra, la storia e gli obbiettivi di questa ormai gran­de realtà imprenditoriale. L’azienda nasce nel 1973 e la sua fondatrice, la Signora Dina Sbaragli, forlivese, già in tenera età si è appassionata al ricamo e al cucito ispi­rata dalla madre sarta. La passione per l’abbigliamento e il ricamo, l’hanno portata a creare un suo campionario che ha poi girato in tutt’Italia facendosi conoscere dai maggiori stilisti del tempo. Oggi, in azienda lavorano 18 collaboratrici tra sarte, designer, laboratoriste, archiviste e la ditta vanta una nomea che ha fatto il giro del mon­do. Le tecniche di produzione avanzate, l’utilizzo di macchinari altamente sofisticati, una produzione tutta al femminile con orari di lavoro adatti alle esigenze di ogni singola donna, hanno reso quest’industria all’avan­guardia. Ma che cosa è il ricamo?Esso nasce in Cina, attorno al 1200 a.C, grazie alla

scoperta del filo da seta e approda in Italia tramite gli arabi. In arabo, ricamo è detto "Rakam", molto impor­tante in passato perché indicava la classe sociale di ap­partenenza. Tutt’ora è (ancora) ritenuta un’arte applicata e i musei di tutto il mondo hanno spazi dedicati a questa disciplina. Di cosa si occupa “Arte e Ricamo”? Gli abiti che vediamo nelle vetrine dei più importanti

negozi, indossati dalle star di Hollywood e durante le

sfilate di alta moda, hanno tutti una storia e per alcuni di loro, questa nasce proprio a Forlì! L’azienda si occupa di fornire, ai clienti che lo richiedono, campioni di tes­suto, prototipi di ricami, abiti che serviranno da ispira­zione agli stilisti per confezionare il vestito vero e proprio. L’archivio al quale attingono conta più di 250mila articoli tra passamanerie e prodotti finiti come scarpe e borse, solo per fare qualche esempio. Il perso­nale racconta che clienti e stilisti passano intere giornate tra quei corridoi, tornando alla luce di tanto in tanto. Ma come funziona? Il primo passo è l’incontro con il cliente, il quale può arrivare già con il suo progetto, può volere qualche sug­gerimento o può essere letteralmente in cerca di ispira­zione. Nell’ultimo caso, la ricerca d’archivio è il punto d’inizio, nel primo, invece, l’agente si reca in azienda munito di disegno e da questo si passa direttamente al secondo passo, ovvero la realizzazione di un program­ma. Al giorno d’oggi, il lavoro a mano è assai raro per­ché è un dispendio di denaro e tempo, che nel mondo di oggigiorno scarseggiano. Non per questo però, il lavoro attraverso macchine deve essere visto sotto una luce ne­gativa; anche lui ha un valore. Ritornando a noi, la crea­zione di un programma è una delle parti più complesse. Si tratta di realizzare un software da inserire successiva­mente nei macchinari per creare svariati tipi di ricami, su determinate zone dell’abito. Il programma ricorda in che punto, in che modo e in quale momento, la paillette deve essere inserita nel ricamo. In seguito, essenziale è la scelta del materiale e la sua preparazione. Hanno rac­contato che le richieste dei clienti sono molteplici e se a noi può sembrare strano, una lavorazione su una pelle di razza, per loro, invece, non è una novità! Le macchine da cucire che vengono usate sono di origine giapponese, meno robuste di quelle tedesche ma più tecnologiche. Per completare il lavoro, mancano solo le fasi del con­trollo qualità e una questione dolente, ovvero l’applica­zione dei prezzi.I prodotti di questa azienda servono il mercato

dell’alta moda e alcuni di quelli esposti in mostra sono i prototipi di vestiti poi indossati da cantanti come Laura Pausini, Adele o Rihanna. Gli stilisti che si rivolgono a loro appartengono a grandi firme come: Gucci, Armani, Celine, Ralph Lauren. Nonostante questo, la competi­zione con altre zone del mondo è alta. La globalizzazio­ne e la delocalizzazione non sono state d’aiuto. Il concorrente più pericoloso è l’India. La titolare d'oggi si chiama Patrizia Gelosi, figlia di Dina Sbaragli che rin­graziamo per aver offerto ai cittadini di Forlì l’occasione di averci avvicinati al mondo della moda di cui non sap­piamo mai abbastanza.

Agnese Zoppelli

IL BRACCIO DESTRO DELLA MODAArte e ricamo a Forlì

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Fruire l’arte, riuscendo ad entrare in empatia con essa ed esperirla, è una delle forme più nobili di viaggia­

re. Nel viaggio che stiamo per intraprendere, si vola in Corea del Sud, grazie agli scatti di Filippo Venturi, gio­vane documentarista cesenate. La mostra rientra all’in­terno del progetto Artealmonte, unitamente promossa dall’Associazione culturale Regnoli 41, che dal 2011 propone una serie di eventi culturali sul territorio forli­vese, con il fine ultimo di rivalutare il centro storico del­la città, da diversi anni oggetto di degrado e svalutazione, e dalla Fondazione della Cassa dei Rispar­mi di Forlì. L’iniziativa Artealmonte, ospitata nella sug­gestiva location del cinquecentesco Palazzo del Monte di Pietà, in Corso Garibaldi 37, contempla l’esposizione di diversi lavori di artisti forlivesi e romagnoli, per la promozione del territorio. Il reportage fotografico Made in Korea, pluripremia­

to e che vanta diversi riconoscimenti e pubblicazioni su importanti testate giornalistiche come l’Internazionale, coglie appieno i problemi che affliggono la Corea del Sud attraverso lo sguardo prostrato dei soggetti catturati, che appaiono alienati rispetto alla dimensione nella qua­le si ritrovano a vivere. Il malessere che affligge la po­polazione sudcoreana, sapientemente immortalato da Venturi nei quarantuno scatti che compongono il suo progetto, è da ricondurre allo stravolgimento tecnologi­co che il Paese ha dovuto subire negli ultimi sessant’an­ni, passando in meno di mezzo secolo da una condizione di sottosviluppo, pressoché medievale, ad essere anno­verato tra i Paesi più moderni al mondo. L’innaturale processo di ammodernamento ed il con­

seguente sconvolgimento degli stili di vita, hanno ce­mentato nella popolazione, ma soprattutto tra i giovani, un forte senso di competizione. La costante ricerca della perfezione è permeata in diversi ambiti, da quello pro­fessionale a quello estetico, sterilizzando l’esperienza giovanile, costretta in canoni e modelli di perfezione da raggiungere.

I giovani sudcoreani, il soggetto preponderante dell’obiettivo di Venturi, sono assorbiti nello studio an­che per più di venti ore al giorno, spronati dall’ideale comune che una buona prestazione accademica sia la chiave per il successo lavorativo. L’investimento

sull’istruzione, alimentato dalle alte aspettative dei ge­nitori, facendo leva sul senso del dovere filiale tanto ca­ro agli asiatici, rende i giovani particolarmente vulnerabili al punto che, stressati dalla competizione e dall’affannosa corsa al primato, si abbandonano spesso ad azioni estreme, come l’abuso di alcool, l’isolamento sociale e, nel peggiore dei casi conducono al suicidio. Eccellere in ambito accademico è il passe­partout

per il successo nel mondo lavorativo, secondo i sudco­reani, solo se però accompagnato da un bell’aspetto; in­vero, di per la promozione all’università, i ragazzi frequentemente ricevono in regalo un intervento di chi­rurgia plastica dalla propria famiglia.

Gli interventi, eseguiti indistintamente da uomini e donne, sono mirati al perfezionamento di occhi e bocca, per renderli più simili al taglio occidentale; l’ultima frontiera delle operazioni di chirurgia estetistica è lo smile lipt, un intervento che fissa in alto gli angoli della bocca in un sorriso perenne.La maniacale ricerca dell’eccellenza fa emergere, tut­

tavia, una controindicazione latente: l’ideale comune di­venta il solo obiettivo da raggiungere per tutti; così, l’idea di unicità, di distinguersi dagli altri, tutti troppo uguali, crolla su se stessa, lasciando spazio al conformi­smo ed al soffocamento dell’eccellenza. La mostra di Venturi ha girato il mondo, portando le

contraddizioni della società sudcoreana in città impor­tanti come Pechino, New York e Milano; anche Forlì, hanno riscosso un enorme successo gli scatti dell’artista romagnolo il quale, durante un’intervista rilasciata alla webtv di Campus, MMP webtv, ha dichiarato di voler intraprendere lo stesso reportage in Corea del Nord, malgrado le avversità che di sicuro lo attenderanno.

Leandra Borsci

MADE IN KOREALa società sudcoreana raccontata dagli scatti di Filippo Venturi

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IQRA

Il luogo comune della donna musulmana op­

pressa è ormai così radicato nell’opinione pubblica da essere considerato una leg­ge inconfutabile. Concetti come "libertà", "autodeter­minazione", "indipendenza" sono assunti in genere (e per genere) come necessa­riamente antitetici all’imma­gine della donna nell’Islam. Se si prova, infatti, a fare un veloce esperimento su Goo­gle, digitando sulla barra di ricerca "muslim women", i suggerimenti nella parte su­periore della pagina web includono frasi quali: «le rego­le delle donne musulmane», «il codice di abbigliamento delle donne musulmane», «cosa indossano le donne mu­sulmane?». È immediato notare quindi, quanto in realtà la donna

musulmana sia spesso accostata al suo abbigliamento o ai suoi obblighi religiosi, nonostante quegli stessi indu­menti e precetti siano in larga parte finalizzati ad elevar­la ad uno status superiore, a scindere la sua immagine da tutto ciò che è meramente legato al suo corpo, dandole importanza come essere autonomo, dotato di intelletto e al pari dell’uomo; tutti principi che noi oggi riconoscia­mo essere universalmente validi (seppur non sempre concretizzati) ma che all’epoca della nascita dell’Islam, in un mondo in cui le tribù politeiste nella penisola ara­bica sotterravano vive le figlie neonate perché viste co­me una vergogna e in Europa si discuteva se considerare o meno la donna una bestia, rappresentarono una vera e propria rivoluzione. La donna nell’Islam viene tutelata in quella che è la

sua posizione paritaria all’uomo, tant’è che il Corano si riferisce sia alle credenti che ai credenti in egual modo e allo stesso tempo, marcando l’intenzione egalitaria dell’intera Rivelazione. Di certo, nel quadro di tutta la tradizione religiosa islamica, sia gli uomini che le don­

ne, seppur ritenuti uguali davanti ad Allah (Dio) per ciò che concerne la loro spiritualità e i loro diritti mondani, hanno doveri e responsabilità differenti. Uno dei più diffusi pre­giudizi sulla fede islami­ca è che siano solo le donne ad essere soggette a regole di abbigliamen­to o, più in generale, di condotta. In realtà, non è così. Stando a quello che è uno dei principi cardi­ne dell’Islam, la mode­

stia, sia gli uomini che le donne sono chiamati ad ispirarsi ad essa; tanto nel modo in cui vestono quanto nel modo in cui si atteggiano. Per gli uomini musulmani è doveroso, ad esempio, indossare pantaloni non attillati e che scendano sotto le ginocchia, non indossare abiti in seta o che striscino a terra, non portare ornamenti in oro e coprire la parte che va dall’ombelico alle ginocchia con abiti larghi. Ovviamente ogni precetto nell’Islam ha una sua fina­

lità pratica, una sua logica, quasi sempre volta al perfe­zionamento dello stile di vita di chi lo applica. Inoltre, ciascuno di essi si fonda su un valore sacrosanto dell’Islam: la misericordia. Essa deve rappresentare ne­cessariamente per ciascun musulmano il valore (motore) unico di ogni suo gesto, sia esso rivolto verso di sé o verso il prossimo. Basandosi dunque su questo presupposto, che legitti­

mazione hanno le imposizioni o le interdizioni di vario genere spesso associate all’Islam e in particolare alle donne musulmane, vi starete chiedendo voi. Semplice: nessuna. Nessuna, per lo meno dal punto di vista religio­so. Se si assume come precetti basilari e fondamentali, la parità tra uomo e donna, la mancanza di costrizione all’adempimento degli obblighi religiosi, l’inviolabilità della persona, in quelli che sono i suoi diritti sociali e politici ma anche e soprattutto nella sua umanità, da do­ve nascono tutte queste realtà contraddittorie, fonti delle più accanite accuse islamofobe? Ancora una volta, sem­plice: dalla cultura. Se una cultura è patriarcale, se la società in cui vige quella cultura è composta in larga parte da persone non istruite o se istruite, non conoscitri­ci della loro identità, in questo caso religiosa, è ovvio che qualcosa di semplice seppur profondo come la fede, può essere facilmente mal interpretata e filtrata attraver­so le lenti delle credenze popolari che nulla hanno a che vedere con una religione, l’Islam, che vuole accompa­gnare l’uomo verso la scoperta del principio e del fine ultimo dell’esistenza umana. Non a caso, ormai si sente spesso ripetere in seno alla

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comunità islamica, che i nemici dei musulmani sono i musulmani stessi. Anche se poi, bisogna aggiungere, non tutti i musulmani sono praticanti e non tutti sono stati formati religiosamente. Insomma, dei quasi due miliardi di musulmani, ciò

che è certo, è che solo una parte ha imparato a non con­fondere la cultura e la mentalità del suo popolo, con gli insegnamenti dell’Islam. Sicuramente vi è ancora molto da fare, molti miti da

correggere e considerazioni da reinterpretare, ma a que­sto, molti uomini, e soprattutto, molte donne, stanno la­

vorando da tempo, tanto da essere annoverate da Forbes tra le donne più influenti al mondo. Basti pensare a Ibti­haj Muhammad, la prima schermitrice musulmana a competere internazionalmente per gli Stati Uniti, rom­pendo ogni stereotipo; a Linda Sarsour, Americana­Pale­stinese, attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, direttrice esecutiva dell’"Arab Muslim Asso­ciation" di New York, ormai conosciuta in tutto il mon­do per la sua tenacia e leadership; a Tawakkul Karman, attivista Yemenita, Premio Nobel per la pace nel 2011 per la sua lotta a favore della sicurezza e del riconosci­mento dei diritti delle donne. Tutte palesemente donne oppresse. Oppresse, sì. Non però dal velo che portano o dalla religione che professano, piuttosto dall’ignoranza di chi giudica senza conoscere. Dunque "Iqra", leggi. Perché nulla oltre la conoscen­

za richiama l’uomo all’uso dell’intelletto e nulla l’oltre l’intelletto permette all’uomo di non abbassarsi al livello delle bestie. Non a caso, è la prima parola rivelata al Profeta Muhammad nel Corano.

Sara Tanan

LA PRIMA FRASE È SEMPRE LA PIÙ DIFFICILE [Wislawa Szymborska]

PARIS AT NIGHT

T rois allumettes une à une allumées dans la nuit

La première pour voir ton visage tout entier

La seconde pour voir tes yeux

La dernière pour voir ta bouche

Et l'obscuritè tout entière pour me rappeler tout cela

En te serrant dans mes bras.

T re fiammiferi uno dopo l'altro accesi nella notte

Il primo per vedere il tuo volto intero

il secondo per vedere i tuoi occhi

l'ultimo per vedere la tua bocca

e l'oscurità completa per ricordarmi questo

Mentre ti stringo tra le mie braccia.

Jacques Prévert, poeta e sceneggiatore francese, nac­que a Neuilly­sur­Seine il 4 Febbraio 1990. Visse nella Parigi di Satre, Camus e Carné, eppure fu il poeta del quotidiano, l'uomo che fece crescere e sognare una ge­nerazione e le successive, avvicinando il mondo dell'arte e della letteratura di quell'aura sacrale e inarrivabile che incuteva soggezione, rendendole più vicine e umane. Fu e resterà il poeta che ha bisogno dei paroloni dei

professori, né del dizionario dei traduttori per essere ca­pito. Parlava la lingua di tutti, la lingua dell'oggi. Parla­va alla città, agli uccelli, alle fanciulle. Nell'immaginario comune è il poeta che meglio rac­

conta l'amore, quello nostalgico, trasognato, raccontato con vivide immagini quasi cinematografiche. Non per questo, però, rimase muto di fronte al frastuono del suo secolo. In Barbara racconta la storia di una donna, di un amore e del Secolo Breve. Della guerra e dell'amore che altro non sono che una connerie.Morì l' 11 Aprile 1977 a Omonville­la­Petite.

Anna Battistella

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IL PANE, OLTRE LE ROSELo sciopero femminista in Italia e nel mondo

Il '17 sembra essere un anno propizio per le rivoluzioni e lo scorso 8 Marzo le donne di tutto il mondo, unite nella gior­nata di sciopero indetta in oc­casione della Giornata Internazionale della Donna, ne hanno dato autorevole prova. Si sono svolte manifestazioni in più di 50 Paesi a livello in­ternazionale e in oltre 60 piaz­ze della penisola grazie all'organizzazione dei collettivi di Non Una Di Meno, neonato movimento femminista italiano. Il primo sciopero di genere è stato un evento storico e

politico senza precedenti. Ogni organizzazione aderente ha lavorato sul proprio fronte nazionale: in Irlanda si scioperava per reclamare l'indizione di un referendum per il diritto all'aborto legale; la Polonia dopo la mobili­tazione di Ottobre, è tornata a manifestare per i diritti ri­produttivi e il diritto all'aborto libero e legale; il movimento femminista spagnolo è sceso in piazza in uno dei peggiori anni della sua storia recente, quello con più femminicidi documentati da gennaio; ad Istanbul si è svolta una marcia serale contro il governo turco e in solidarietà alle donne kurde; in Rojava, le donne dello YPG hanno scritto nel loro comunicato di sostegno allo sciopero: «ogni donna libera sarà un Paese libero»; in Argentina sono state le donne a scioperare per prime contro il governo Macri e le sue politiche neo­liberiste e negli Stati Uniti, a poche settimane dalla Womens' Mar­ch, le donne sono tornate in piazza. Sono solo alcuni esempi di come ogni Paese abbia protestato con le sue specificità e contemporaneamente in solidarietà con il resto delle manifestanti in tutto il mondo. Il percorso italiano fino all'8 marzo è stato breve ma

denso di contenuti. Il movimento "Non Una Di Meno" nasce durante l'autunno 2016 e prende il nome dagli slo­gan utilizzati in America Latina e Spagna contro la vio­lenza di genere. Dopo la manifestazione del 27 Novembre, si è tenuta un'assemblea nazionale a Bolo­gna in preparazione allo sciopero di Marzo e, fattore an­cora più positivo, se ne terrà una a Roma in Aprile a dimostrazione del fatto che l'organizzazione proseguirà oltre questo sciopero. In questi mesi, le femministe han­no elaborato un dibattito che dalla violenza di genere passa alla lotta per il salario minimo e il reddito di auto­

determinazione, fino alla parità salariale, dai diritti riproduttivi alla teoria "queer" ed hanno scelto lo strumento dello sciope­ro non solo dai luoghi di lavoro tradizionali, ma anche e soprattutto dal la­voro di cura gratuito o sottopagato che quotidia­namente ricade sulle don­ne.

I numeri relativi alle lavoratrici in sciopero sono an­cora parziali (il Corriere della Sera ha parlato di un'ade­sione delle lavoratrici INPS del 24%, senza riferimenti precisi), ma le immagini condivise direttamente dalle strade hanno mostrato milioni di persone coinvolte che non lasciano dubbi sul successo dello sciopero globale.

Ciò nonostante, analizzare questa giornata in base ai numeri è inappropriato. Innanzitutto perché non è rile­vabile, ma è rilevante il dato della partecipazione del la­voro autonomo, precario, gratuito e nero per cui il diritto di sciopero semplicemente non esiste. In secondo luogo, perché il silenzio imbarazzante prima, dopo il 26 novembre, e l'apparente opposizione poi con l'organiz­zazione di assemblee sui luoghi di lavoro durante l'8 Marzo dei sindacati confederali sottolinea ancora di più il successo dello sciopero delle donne come strumento politico efficace. Se durante i primi decenni del '900 le donne al fianco

dei loro mariti lavoratori chiedevano le rose oltre al pa­ne, lo scorso otto Marzo ha rivoluzionato anche questo. Con lo sciopero femminista le donne hanno dimostrato di poter essere interpreti del riscatto di tutt* coloro che si riconoscono in qualcosa d'altro, oltre i confini, i gene­ri e le razze. Lo scorso otto Marzo abbiamo chiesto il pane, oltre le rose e siamo certe di non aver sbagliato.

Irina Aguilari

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Al secolo Frida Kahlo, è stata una pittrice, un'icona di stile, di vita e anche, suo malgrado, di morte.

Nasce nel 1907 a Coyoàcan, Città del Messico e nel Messico degli anni '30 si inscrive la vicenda umana e ar­tistica di questa donna dalla forza straordinaria che ha affrontato la morte senza maschere né armi, solo con il viso duro di chi non nega la propria condizione ma la combatte, poiché l'attaccamento alla vita è più forte di qualsiasi dolore. Infatti nel 1925, rimane vittima di un incidente che le segnerà la vita, cambiandone senso e destino. Il tram su cui viaggiava si schiantò: la ballerina dorata (così urlarono i passanti alla vista di quell'esile corpo martoriato e ricoperto di polvere d'oro da pittura) impalata, con la colonna vertebrale rotta in tre punti e con una trentina di fratture, rimase allettata per diversi anni, ingabbiata in busti e gessi. A soli 18 anni, il primo incontro con la Pelona, la morte, è dunque fatto. Negli anni a venire Frida non si farà cogliere impreparata e sa­pendo che le farà nuovamente visita, la aspetterà sull'uscio pronta a cacciarla ancora e ancora. L'incidente fu una condanna a morte, scontata per anni prima dell'esecuzione ma questo la costrinse ad una rinascita. Dirà di sé: «sono nata nella pioggia. Sono cresciuta sot­to la pioggia. Una pioggia continua nell'anima e nel corpo» e sarà sempre così, tormentata dal susseguirsi di eventi avversi: alle sofferenze fisiche si aggiungono quelle sentimentali. Il matrimonio con l'amatissimo e odiato Diego Rivera, che la introduce nel mondo politi­co e culturale, nonché sulla scena artistica dell'epoca, sembrava aver placato le ire del destino e alleviato le sue pene e invece, si rivela un fallimento. I continui tra­dimenti, il divorzio, l'aborto, le continue operazioni, il secondo matrimonio, segneranno indelebilmente il suo animo già temprato.

Frida Kahlo non rappresenta la sua epoca, il suo paese, quel Messico colmo di colori e pro­fumi accesissi­mi, coinvolto in vorticosi giochi di potere che vede la nascita

del primo Partito Comunista locale per mano proprio di Rivera. È interprete unica di se stessa, della sua vita. At­trice, aspra ed acuta critica, mai mera spettatrice! Le sue opere non rappresentano, ma sono la sua vita: la sua ma­lattia, la sua salvezza, la sua condanna. Non è chiaro do­ve finisca il dipinto, la rappresentazione e dove cominci la sua pelle, la sua anima, la cruda realtà. Non rispetterà né aderirà ad alcun canone, se non quello dell'esaltazio­ne delle vita e del disprezzo più totale della morte. Avrà come unico metodo la stretta aderenza alla realtà. Co­

mincerà a ritrarsi per diletto e finirà per essere la cura per sopravvivere. Una vita plagiata dall'arte e le opere dal dolore. Mai però una sofferenza fine a se tessa, de­primente o angosciosa, bensì sempre esorcizzata, derisa. Si potrebbe pensare che del surrealismo prenda le forme immaginifiche, del Messico i colori e dalla sua vita la profondità, la prospettiva, la tragica realtà. Eppure non è esponente di alcun movimento: «Pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni». Frida dovrebbe avere uno spazio nelle memoria co­

mune come uno degli esempi più alti di coraggio e pas­sione. Una donna che pur avvinta da mille ostacoli, non ha mai smesso di ardere per la politica, l’arte e l’amore, senza bruciarsi mai. Incarna un modello di bellezza che non è propriamente sinonimo di beltà, effimera estetica, ma di forza, di quel­la luce di cui brillano solo gli illusi, gli eterni e strenui combattenti. Quell'aura di cui solo gli inarrendevoli, co­loro che si struggono per un sentimento o una causa, senza remore né regole, si pregiano; quel fascino pro­prio di chi vive tutto d'un fiato, animato da forti passio­ni. Proprio al suo indiscusso fascino non rimasero indif­

ferenti il poeta André Breton, Lev Trockij e Tina Modot­ti, di cui ne attirò le bramosie e ne fu forse amante.Negli anni perse il controllo del suo corpo, mai della mente, salda e inarrestabile nella lotta contro la Pelona, quella morte che la rincorse notte e giorno e che riuscirà a prendersela solo nel 1954.Frida Kahlo avrebbe avuto mille e un motivo per non af­frontare la vita, per chiudersi dentro un guscio che non fosse solo il busto che dovette sempre indossare, ma una cosa la salvò: il pieno e lucido controllo della sua mente su cui esercitò pieno potere, le permise di fare della sua vita un’opera d'arte chiamata "Frida". Una breve esistenza che racchiude una storia immen­

sa: quella di chi non ha mai ceduto all'incombere del proprio destino ma lo ha strenuamente combattuto, tanto da gridare anche in punto di morte "viva la vida"!

Poi ho capito, ricordando ciò che non avevo mai sapu­to: che per i grandi cuori che muoiono nel corpo ma che continuano a battere nel respiro della notte, non ci sono canoni o bellezze regolari, armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore,

nascosto, di struggente bellezza.

Anna Battistella

FRIDA KAHLO, UNA NUOVA I‐DEA DI BELLEZZAFrida, come solo ai miti accade, basta un nome per essere riconosciuta

9 SCHEGGE Aprile 2017

RIAPPROPRIAMOCI DEL NOSTRO CORPOStoria di donne in palestra

WARNING: Questo articolo parla di donne e del loro corpo. Non è stato scritto da una femminista, né da una sostenitrice della superiorità femminile su quella maschile, ma da una persona che vede tutte le disuguaglianze come un male da estirpare, quella di genere inclusa.

Frequento palestre dal 2012, e lo faccio da utente medio, senza scopi agonistici ma con una certa co­

stanza e passione. Non ho mai smesso di allenarmi, a prescindere dal Paese in cui mi trovassi. Mi sono allena­ta in Corea come in Australia, a Riccione come a Forlì. Si può dire che sia un minimo comun denominatore di me stessa. Mi fa sentire a casa, a prescindere dalla di­stanza fisica che c’è dal luogo in cui mi trovo ed essa. Lo dico perché quello che sto per fare è un discorso di maturità e consapevolezza, e mi rendo conto che mi è possibile farlo solo grazie al tempo che ho speso tra bi­lancieri e tapis roulant. E tuttavia, è importante che noi donne iniziamo a riflettere su alcuni temi.L’altra settimana mi allenavo, come sempre con le

cuffiette e senza occhiali, impermeabilizzata dal mondo esterno, e noto questa ragazza. Giovane, sui vent’anni, che cerca in maniera discreta di fare esercizio in un an­golo, con scarso successo. Si guarda intorno sperduta, in mano due manubri da 2kg l’uno. Non è vestita in ma­niera appariscente, niente leggins in tessuto ultra mo­derno, niente scarpe della Nike fluorescenti. È in difficoltà, e lo noto da come si muove. Si guarda intor­no, prova a fare l’esercizio, si rende conto di sbagliare, ma non sa come correggersi. Si sente non solo impac­ciata, ma d’impaccio per gli altri. Ha scelto un punto del corridoio abbastanza trafficato. Grossi energumeni e spocchiosi PT le passano a qualche centimetro di di­stanza, noncuranti del disagio che le provocano. Io solitamente in palestra mi faccio i fatti miei, però

quel giorno mi sentii in dovere d’intervenire. Mi avvici­no e le chiedo se posso darle un consiglio. Glielo chiedo con discrezione perché potrebbe non gradire, potrei averne avuto un’idea sbagliata, e magari sa benissimo che fare. Ma lei, con una nota di sollievo nella voce, mi risponde che si, lo vuole sentire il mio consiglio. Le spiego velocemente come correggere gli affondi con manubri che sta facendo, le dico di non guardare per terra mentre svolge l’esercizio, di tenere l’asse della co­lonna vertebrale diritto e lo sguardo fisso avanti a sé, di allargare la falcata. Cose così, piccolezze. Dettagli tec­nici che ho imparato guardando video su YouTube, e confrontandomi con persone competenti. Mi ringrazia tantissimo, mi chiede se quel peso va bene per «sentire che i glutei lavorano», le dico che può stare tranquilla, anche se 4kg non sembrano tanti, l’indomani avrà i suoi DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness). Qualsiasi palestra è piena di ragazze come quella di

questa storia. Ragazze normalissime, discrete, alle pri­me armi, che vogliono solo “fare un po’ di movimento”, ma che si lasciano intimorire dalla preponderante com­

ponente maschile di questi luoghi. Le guardo e penso che io ero uguale, e che se ora sono più sicura di me è solo grazie alle rare persone competenti incontrate negli anni. Ma sono sempre troppo poche le volte in cui i PT si accorgono di loro. Magari sono un piccolo gruppo, che fanno a turni la macchina per l’interno coscia con 10kg di carico, che si sentono più forti ad avere un’ami­ca vicino, con cui condividere l’allenamento. Mi piace­rebbe andare da ciascuna di esse e incoraggiarle, spronarle, farle sentire a loro agio, dire loro che hanno tutto il diritto di stare li, anche se ad altri il loro eserci­zio apparirà irrisorio e inutile.

Vorrei che noi donne, tutte le donne, riuscissimo a non farci intimorire da questi ambienti maschili. Vorrei che nel 2017 non ci sentissimo più a disagio con noi stesse e col nostro corpo, in relazione all’ambiente in cui ci troviamo. So che non è un disagio totalizzante, ma è comunque sbagliato. Mi fa rabbia vedere ragazzi­ne di diciassette anni che non sanno dove mettersi, per­ché hanno paura di intralciare il superset di qualche esibizionista impegnato a correre da una macchina all’altra. Mi fa rabbia che ci siano “PT” che lo permet­tono. Mi fa invece schifo, e non solo rabbia, vedere che è

sempre più spesso una questione estetica: l’aiuto viene offerto alle più avvenenti e provocanti. Amiche, donne, compagne di palestra, di lezione, di studio, di caffé, so che la colpa non è nostra, ma sta a noi reagire. So che c’è ancora una classe di persone che ha il potere di farci sentire inadeguate in alcuni posti che frequentiamo, so­prattutto in quelli convenzionalmente “maschili”. Dob­biamo però riappropriarci dello spazio mediante i nostri corpi e il modo in cui li vestiamo. Rendiamoci conto che si parte da noi, dalla nostra presenza e dalla sicurez­za che essa emana. Non dobbiamo permettere a nessuno di farci sentire di troppo, inadeguate, ma anzi, dobbia­mo imporre la nostra persona con fermezza e determi­nazione. Che non vuol dire invadenza né maleducazione, ma iniziare ad abbattere dogmi preisto­rici e riprenderci di uno spazio che non solo ci è conces­so, ma soprattutto ci è dovuto.

Maria Giulia Minnucci

10 SCHEGGE Aprile 2017

«Tu credi ancora in Bio?»

«Si, perché non dovrei?»

«Non hai visto il servizio di Report? Uno dei 14 enti di certificazione biologica che opera in Italia, il CCCPB, dovrebbe controllare le 160 aziende bio più grandi d’Ita­lia. Tuttavia, queste sono associate in un consorzio di produttori, Il Biologico, che si è scoperto essere proprie­tario dello stesso ente di certificazione, CCCPB. Para­dossale no? Il controllore e il controllato convergono nella stessa figura».

«Si, lo so. Le aziende, così come gli enti di certificazio­ne, sono dirette da esseri umani e, in quanto tali, sono fallibili e corruttibili. Ma non bisogna mai fare di tutta l’erba un fascio. Conosco aziende che lavorano onesta­mente per far fronte ai rigidi controlli degli ispettori de­gli enti certificatori. Quindi si, continuerò a credere in

Bio, anche pagandolo il doppio». «Perché?»

«Perché acquistando un prodotto biologico non compro semplicemente del cibo sano, ma contribuisco a tutelare l’ambiente, in quanto si tratta di una coltivazione soste­nibile. Bisogna vantarsi del fatto che gli Italiani l’abbia­no capito. Siamo i primi in Europa. Secondo i dati della FederBio, gli operatori biologici certificati in Italia am­

montano a 62.596».

«Ma anche io cerco di comprare del cibo sano e natura­le, che è diverso da quello certificato “biologico”. Ogni mercoledì al Labàs fanno il mercatino biologico di quar­tiere, vado sempre lì e inizio a parlare con i contadini lo­cali, che sono gli stessi rivenditori. Mio caro, la differenza fra me e te sta nel fatto che tu hai fiducia nell’industria biologica certificata e io no. Mi fido più del biologico non ufficiale, non certificato, “clandesti­no”».

«Ma come fai ad essere sicuro che questi prodotti siano effettivamente coltivati secondo i canoni del biologico? È necessario un controllore, un ispettore che ti dica, in base ad analisi chimiche del terreno, se siano presenti o meno sostanze chimiche nocive. I produttori biologici, per ottenere i certificati bio, devono seguire un regola­mento ben preciso e sottoporsi al controllo da parte di enti di certificazione privati. Il controllo viene fatto da ispettori che individuano eventuali irregolarità, come

l'uso di pesticidi. Vengono controllate soprattutto le fat­ture che devono dimostrare l'acquisto di concimi e pro­

dotti per la lotta biologica, oppure di mangimi biologici».

«Io sto dalla parte di quei produttori che si rifiutano di pagare gli enti certificatori per farsi certificare il biolo­gico, con tutti i rischi di corruzione che ne potrebbero seguire. Quei contadini del territorio che coltivano in modo naturale, per la famiglia, vendono parte della pro­duzione anche ai cittadini residenti nel loro stesso terri­torio. Così, il prodotto “naturalmente bio” costa di meno rispetto a quello certificato, sia per l’assenza di costi di trasporto, sia perché non è soggetto alle restrizioni fisca­li imposte alle aziende; d’altro canto, però, non benefi­cia dei cospicui finanziamenti dell’UE verso i produttori bio. Ad esempio, vedi il movimento Genuino Clandesti­no, nato a Bologna con l’idea di sottrarsi alle logiche di (super)mercato. Oggi è diventato una realtà estesa a tut­to il territorio italiano. È un’alternativa per tutti quei consumatori critici che cercano un nuovo modo di far la spesa. “Genuino” perché rimanda direttamente al rap­porto umano con il produttore, esorta il consumatore a visitare il terreno e i (pochi) contadini che vi lavorano per vedere, con i propri occhi, i metodi di coltivazione utilizzati. È un mercato “all’antica” basato sulla fiducia, sul rapporto umano diretto, reso possibile in quanto “a km 0”. “Clandestino” perché è un mercato che non è a norma di legge. Da un lato, perché le norme e le restri­zioni italiane a riguardo non sono adeguate alle esigenze dei piccoli produttori, bensì solo a quelle delle grandi industrie. Dall’altro, perché racchiude un diverso punto di vista, quello di tutti i contadini che si rifiutano di pa­gare gli enti certificatori per farsi certificare il biologico, in quanto reputano tale atto un’assurdità. Questi produt­tori preferiscono farsi giudicare direttamente dalla gente che acquista o vuole conoscere i loro prodotti. Il consu­matore, visitando i produttori, diviene egli stesso ispet­tore».

«Non so che dirti, avrai ragione tu quando affermi che sia assurdo per i produttori pagare gli ispettori al fine di ottenere la certificazione bio. È chiaro che il rischio cor­ruzione c’è, come in ogni cosa. Tuttavia, per quanto l’ir­ruzione dei mercatini biologici nei quartieri d’Italia sia un fenomeno molto affascinante, non credo che il siste­ma di controllo proposto sia praticabile. A tal proposito, ti chiedo quanti consumatori vanno di persona negli orti di questi venditori clandestini a constatare la genuinità

dei prodotti? E attraverso quali criteri lo fanno?»

«Il fatto che questa possibilità esista è già un evento straordinario in sé. La discussione non si può esaurire su questo punto che hai appena sollevato. Non è un obbli­go per i cittadini andare direttamente nei terreni, bensì è un’opportunità che tutti noi, compreso tu, dovremmo cogliere».

Sofia Calderone

FAKE BIOTu credi in Bio? Dal biologico industriale a quello territoriale

11 SCHEGGE Aprile 2017

INFOMED

Il tema dei vaccini ormai da anni vede contrapposti la comunità scientifica, che prosegue nella ricerca e nel­la sperimentazione di tecniche sempre più efficaci, ed i cosiddetti “antivaccinisti”, secondo i quali i danni pro­vocati dai vaccini sono maggiori di quelli che potrebbe­ro causare gli agenti infettivi stessi.In medicina, la vaccinazione viene definita come la

somministrazione di microrganismi vivi attenuati o uc­cisi o di parte di essi all’interno dell’organismo umano, il cui sistema immunitario si attiva riconoscendo l’anti­gene, attivando l’immunità e portando ad un’acquisizio­ne della memoria immunologica. Essa è nata come scoperta empirica per opera di Jenner, medico britanni­co vissuto tra la metà del ‘700 ed ‘800, ed è stata una vera e propria rivoluzione perché ha permesso di com­battere malattie infettive molto pericolose come il vaio­lo e di ridurre fenomeni come la mortalità infantile e molto altro.Nonostante i progressi e i successi derivanti da tale

scoperta, l’opinione pubblica a riguardo, ancora oggi come molto tempo fa, si divide tra coloro a sostengo delle vaccinazioni considerate come “fondamentali” ai fini della propria sopravvivenza, e coloro che mantengo­no fermamente una posizione avversa e considerano i vaccini “pericolosi” per la propria incolumità. Di sicuro, la troppa disinformazione e le fake news sparse qua e là per il web non aiutano in tal senso; ad esempio, molti ri­tengono che vi sia una stretta correlazione tra i vaccini e l’autismo, disturbo del neuro­sviluppo che si manifesta entro il terzo anno di età, e che comporta deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale, spesso asso­ciato a disturbi neurologici e/o comportamentali.

Tale concezione, totalmente priva di alcuna validità scientifica, affonda le sue radici nel 1998 quando tra le pagine della rivista “Lancet”, compare un articolo redat­to da un medico inglese, Sir Andrew Wakefield, nel qua­le dichiarava che vi fosse una reale connessione tra i vaccini contro il morbillo, rosolia, parotide e l’autismo. Ma, sebbene alcuni anni dopo lo stesso dichiarò di aver inventato i dati per semplice interesse e tornaconto per­sonale (una decisione che gli costò la radiazione dall’Ordine dei medici), ancora oggi la sua tesi è molto in voga. Basti pensare, infatti, a personaggi come Ro­

bert Jr. Kennedy, conduttore radiofonico e avvocato am­bientalista, il quale dichiarò fermamente il nesso causale tra i vaccini e l’autismo, una posizione quest’ultima por­tata avanti da Kennedy anche grazie alla pubblicazione di alcuni testi e a numerosi discorsi pubblici sulla tema­tica. Egli riveniva in un conservante a base di mercurio presente nei vaccini, la causa primaria in grado di gene­rare disturbi neurologici; nonostante ciò sia stato larga­mente smentito dalla comunità scientifica, per eludere qualsiasi sospetto, tale componente è stato progressiva­mente eliminato dai vaccini a partire dagli anni ’90.Nel 2012, l’Organizzazione Mondiale della Sanità

(OMS) ha voluto far luce sulla questione, vista la dila­gante disinformazione sul tema, affermando che l’unico aspetto avverso a dosaggi contenente thimerosal si con­cretizzano in reazioni allergiche locali, di breve durata e di piccola entità, che si manifestano attraverso rossore o gonfiore della pelle anche se, tali manifestazioni cuta­nee, potrebbero essere causate in egual misura da altre sostanze presenti nei vaccini.Di recente, Kennedy è stato nominato dall’ammini­

strazione Trump, anche quest’ultimo fervente sostenito­re della causa “anti­vaccini”, con il ruolo di guida di una commissione, che verifichi e dimostri l’efficacia e la si­curezza dei vaccini, e metta in discussione l’integrità scientifica e la legislazione riguardante le vaccinazioni dei bambini.Beninteso, un vaccino non potrà mai avere un’effica­

cia pari al 100%; di fatti, la differenza è fatta dal nume­ro di vaccinati. Si parla, infatti, di “Herd Immunity” o detta anche “Immunità di Gregge”: gran parte della po­polazione è immune perché vaccinata e, solo così, è in grado così di resistere all’attacco dell’agente infettivo e di proteggere anche chi non può vaccinarsi. È grazie all’immunità di gregge se, per alcune malattie, si parla non solo di eliminazione ma anche di sradicamento, in­tendendo nel primo caso la scomparsa dell’agente pato­geno da una certa area, mentre nel secondo la scomparsa dell’agente infettivo e della malattia in modo permanen­te.La scoperta dei vaccini è stata una svolta fondamen­

tale nel mondo scientifico perché ha permesso di ridurre la mortalità e di combattere alcune patologie considerate letali in passato. Pur tuttavia, ciò non è bastato e non ba­sta a contrastare la disinformazione, con il rischio ormai radicato di distogliere l’attenzione dai progressi della scienza senza i quali, ad oggi, vivremmo una realtà mol­to differente, scegliendo piuttosto di alimentare creden­ze che creano panico, generano ignoranza e finiscono per essere il “vero male” da sconfiggere.

Ludovica Borsci

Vaccini: tra evidenze scientifiche e disinformazione

12 SCHEGGE Aprile 2017

ALICE BADEL, 20 ANNI, ERASMUS A FORLÌ

Hi everyone! My na­me is Alice Badel

and I am a French Era­smus student currently stu­

dying here in Forlì. I am studying translation in Geneva and I chose to come to Italy because I wanted and needed to improve my Ita­lian, and as Forlì holds a very good school for transla­tors and interpreters in Italy, my choice was pretty easy. As I am studying translation, I already knew Italian be­fore coming here, but nevertheless, I learn new Italian words every single day! So, if you want to improve your Italian, don't hesitate to come and try, nobody will judge you, I can tell you! At the time I am writing this article, I have spent one

month and a half here. Already! Time flies so fast. The first half of the semester is gone, I have met so many amazing people and I don't want my exchange to end. I really enjoy sharing experiences with people from other countries and cultures to discover what are the different customs and traditions of everyone.Obviously, Forlì is not a big city like Bologna or

even Rome and some people can find this disappointing. However, living in a smaller city also has its advanta­ges: everything in the city centre is accessible by foot or by bike, the station is not far either, you can find every­thing you want in the vicinity of the centre, no need to go out of the city… Indeed, I have been very surprised to learn that a lot of other Erasmus students weren't aware that they were actually going to be here in Forlì when then made their application. They chose Bologna without knowing that there were different campuses, but if it's your case, don't worry, you will also enjoy your ti­me here, for sure! I may not be very objective because Geneva is not a big city either, but it is at least bigger than Forlì, and I found the same advantages in both.For me, Forlì is the kind of little Italian town that I

love. Italian people often ask me if I enjoy my time here in Forlì, and when I answer them that I like this town a lot, they seem surprised because Erasmus students usually don't expect to end up in this town and feel a bit disappointed, and so do Italians! Obviously, I wouldn't live my whole life here, but for a few months, it's exac­tly what I was expecting for, so I try to enjoy it as much as possible! What I like a lot in Forlì are the arches in the main street, some lovely little hidden churches that you didn't expect at all, small cobbled streets, the Parco Urbano where you can see dozens of free and cute bun­nies everywhere, and obviously, the main square, Piazza Saffi, which is one of the most beautiful squares I have ever seen, mostly during night time… And there are also many things to do! The Koiné association organises a lot of different activities for us Erasmus students, such as tandems, cinema evenings, dinners and, of courses, parties! I personally enjoy a lot these parties because they allow us to meet new people, both Erasmus studen­

ts and Italians. Obviously, it's not like huge parties in clubs such as what you may find in Bologna, but at least you can have a good time around a few drinks. I have to say that I allow myself to go out like this also because I don't have a lot of homework here, I actually do have much more work in Geneva, so I try to enjoy my stu­dent nightlife here as well!Moreover, about the parties, there is something that

has surprised me a lot: Italians go out, whatever day of the week it is. Until then, for me, you could go out on Thursdays, Fridays of Saturdays, but here there are par­ties even on Tuesdays! And once you have been to one of these during the week, you get addicted, at least you feel that it is the way they live here, so why not? I think it is the main thing that struck me, as well as the sense of hospitality of Italian people. Everybody is so open and kind with you for any sort of service, it is so plea­sant to live in a country where the people are nice like this to you.Another advantage of this lovely city that is Forlì is

that it is pretty easy to travel around. There are other lit­tle beautiful towns such as Cesena, Ravenna or even Ri­mini if you want to have a look at the sea, but you can also easily travel to bigger cities like Milan with a fast train. One thing that you must also consider is the food. It is so amazing! I already knew part of the Italian coo­king, but when you have access to all the fresh and cheap products, it's even better to try and enjoy Mediter­ranean food. There are also lots of little cafés, snacks and restaurants where you can have a good piadina or pizza for a few euros! As well as the food, the weather is also pretty nice. In a month and a half, I think it only rained twice or maybe three times, which is also a good point, especially when you like to travel around on the week­end like I do!I also have to say that I have been very well prepa­

red. The Koiné staff is so kind, I mean, they can find you an accommodation, they come and get you from the station to your apartment (having previously explained you how to reach Forlì if you come by plane for exam­ple!), they get in touch with your landlord and they ex­plain to you all the administrative stuff… It is so pleasant to have a support like this. And thanks to them, you can also meet Italian people ­ because the risk of the Erasmus experience is to hang out mainly with Era­smus people, and not actually meet people who are from the country you live in. It was not what I was looking for, so I found that being a part of Koiné's events was also a cool way to meet Italian people and thus practise the language if you want to improve your Italian.Lastly, I look forward to enjoying the rest of my stay

here even more with the beginning of the spring season, and in case you were wondering to coming to Forlì for a potential next Erasmus, don't hesitate, it is absolutely worth it!

13 SCHEGGE Aprile 2017

Sono una studentessa all'ultimo anno della lau­rea magistrale SID, ucrai­na di origini, naturalizzata calabrese e forlivese d'ado­

zione. Scrivo questo breve articolo per raccontare cosa è significato per me passare un semestre fuori dalla routine dell'UNIBO e mettermi in gioco vivendo sei mesi dall'altra parte del mondo: in Argentina.Una nazione da mille e una meraviglie che è passata

da essere un paese che mi aveva sempre affascinato, tanto da indirizzare gli studi universitari verso quell'area del mondo, ad essere quasi una parte di me. Spesso scherzando e raccontando di quest'esperienza affermo di «esser partita innamorata dell'Argentina e tornata come sua sposa». Di sicuro chi sta leggendo queste righe e ha fatto un'esperienza all'estero di questo tipo (che sia un Erasmus o un Overseas) comprenderà queste sensazio­ni, quella iniziale di paura seguita poi dall'innamora­mento verso la meta scelta e quella di nostalgia e di gioia al ripensare a quel posto. Di qualsiasi viaggio si tratti, una volta tornati non si è più la stessa persona. L'Argentina non è solo tango, mate e asado. L'Argen­

tina è tutto e tutti: un Paese nato dall'immigrazione eu­ropea e lo avverti camminando per le sue vie dallo stile europeo, osservando la loro tradizione culinaria o anche dai modi di fare un po' "all'italiana"; ma è anche un po­polo con un'identità forte ed unica che ha saputo supera­re momenti tragici della propria storia, uscendone a testa alta. L'impatto iniziale di un forestiero/straniero che si trasferisce a Buenos Aires è forte: ti senti investi­to da un insieme di sensazioni e di contraddizioni che ti travolgono (e non puoi resisterle, devi accettarle e farti trasportare). In una sola giornata assisti almeno ad un paio di manifestazioni, di cortei per la strada che blocca­no tutto il traffico, gente che può approfittarsi del tuo di­sorientamento per derubarti ma anche persone che ti aiutano nel caso ti vedano sperduto tra una calle e una avenida in cerca di una direzione. Spesso mi avvertiva­no gli stessi porteños (gli abitanti di Buenos Aires) di starci molto attenta, come in qualsiasi altra metropoli gli inconvenienti e pericoli erano in agguato, ma l'iniziale scombussolamento e paura erano superati dalla voglia di conoscere e sopratutto vivere quella meravigliosa città. Già dai primi giorni avevo scoperto cosa significasse prendere un mezzo pubblico (e farlo all'ora di picco non lo auguro a nessuno), che spesso le fermate degli auto­bus non sono ben indicate da una segnaletica bensì si tratta di fermare un autobus «vicino a quel albero lì» oppure «all'angolo di quel chiosco». Da sottolineare però come gli argentini sappiano for­

mare e rispettare le file (per qualsiasi cosa: dalla fila alla fermata degli autobus a quella per entrare in banca, file che spesso possono arrivare anche a fare il giro intorno ad uno stesso palazzo o attraversare una piazza intera. In

ogni caso la fila si rispetta!). E per quanto si tratti di un paese del terzo mondo, gioivo ogni qualvolta che trova­vo un Wi­Fi libero in qualsiasi luogo pubblico: dalla metro ai parchi, dalle vie più frequentate ai caffè, alle università. Partita con una buona conoscenza di spagnolo presto

mi sono resa conto che potevo anche metterlo da parte e arrendermi al "sh" argentino al posto della "ll" o "y"; così il mio "yo me llamo" dovette trasformarsi in "sho me shamo" e così via. Il mio esser straniera traspariva non (solo) dall'accento e dai modi di fare, ma dalla mia ostinazione ad usare il "tù quieres" al posto del loro "vos querés". Devi esser pronto poi a vedere di tutto e di più per le

strade di Buenos Aires: dai bar "fighettini" nei quartieri più in della città (come Palermo, Hollywood o Recole­ta) ai bimbi che giocano tranquillamente a pallone in mezzo alle vie sporche e poco frequentate come in Boca o Constitución. Buenos Aires è la "città della furia", come la battez­

zó il cantante rock argentino Gustavo Cerati perchè lì «nessuno sa di te ma tu sei parte di tutto»; perché è una metropoli dal carattere cosmopolita, una città moderna che ha saputo conservare le sue antiche tradizioni tra­sformandosi in un posto in grado di sorprenderti e farti innamorare. Non mi bastano le poche righe concesse qui per de­

scrivere tutto ciò che è Buenos Aires e nemmeno credo di averla conosciuta al cento per cento io: ogni suo an­golo ha mille storie da raccontare e ti rapisce con l'odore di una medialuna appena sfornata o un richiamo melodi­co di Carlos Gardel, il padre del tango. Non ti stanchi mai di ricorrere la Avenida 9 de Julio, conosciuta come la via più larga del mondo, ammirare l'Obelisco che spicca nel cielo durante un tramonto, sfogliare i libri in El Ateneo, una libreria­paradiso situata all'interno di un antico teatro o sentirsi a casa grazie a quell'ospitalità e calore che emettono gli argentini. Sono ritornata in Italia portando con me i momenti,

le avventure e anche quella voglia di godermi la vita con le piccole gioie, che ho imparato a conoscere solo lì, con un nuovo motto tutto porteño «¿Qué me impor­ta?».

Me veras volarPor la ciudad de la furiaDonde nadie sabe de miY yo soy parte de todos

Soda Stereo, 1988

MAR'YANA POLOVCHUCK, 26 ANNI, ARGENTINA

14 SCHEGGE Aprile 2017

THE WIND OF CHANGEFrammenti di Mosca

Ventotto anni fa il vento del cambiamento ha spazzato

via il muro di Berlino, ha scosso l’Europa. Il vento di Dresda e Berlino è diventato una tempe­sta che ha sgretolato il patto di Varsavia portandosi dietro, sotto le macerie dell’Urss, una carica di speranza e di fiducia. La fine della Guerra Fredda

ha proiettato l’Europa dell’Est e la neonata Federazione Russa nel mondo del capitale. “The wind of Change”, il vento del cambiamento, soffiava nelle piazze del Vecchio Continente, volava insieme alle note degli Scorpions e proiettava la speranza fino alla Grande Madre Russia, seguendo la Moscova, giù fino a Gorky Park.La realtà è che il crollo del Muro di Berlino e il 1991

non hanno spazzato via un mondo, non avrebbero mai potuto distruggere ogni cosa. La nuova alba, il sorgere della Russia post sovietica ha in realtà traghettato il pae­se in un periodo di crisi violenta e acuta. Le immagini dell’epoca raccontano di una Russia in festa, lanciata verso un nuovo mondo, verso un futuro ed una rinascita sponsorizzata dalla privatizzazione. Ma la privatizzazio­ne di tutto ciò che apparteneva all’Urss andava di pari passo con l’esplodere della corruzione, con il rafforza­mento dei legami clientelari, con l’arricchimento di oli­garchi come l’attuale presidente del Chelsea Abramovich e con l’impoverimento degli strati più de­boli della popolazione. È l’immagine della Russia di Boris Yeltsin, una Russia percepita – non a torto – come debole e corrotta, vittima dei capricci degli oligarchi e del nucleo di clientes costituitosi attorno alla figura dell’allora presidente. Oggi cammino per Mosca, e nei pressi di Tverskaya,

a piazza Teatralnaya, i turisti scattano foto con gli Ipho­ne, si fanno un selfie con la statua di Karl Marx. “Prole­tari di tutto il mondo unite­vi”, scriveva il padre del Ca­pitale. Prose­guendo verso ovest, a 800

metri da Marx possiamo pranzare da McDonald’s. Mo­sca mostra fiera le cicatrici del passato e il progresso del presente. L’era di Yeltsin non poteva durare a lungo ed ecco che un giovane ufficiale del KGB, dopo una rapi­dissima ascesa e dopo aver bypassato buona parte del cursus honorum politico, conquista la Duma e ascende al Cremlino. I sondaggi rivelano l’amore dei russi per il

loro presidente. Putin è considera­to come l‘uomo capace di prende­re per mano il suo paese e di accompagnarlo verso un nuovo futuro. Considerato dalla CNN “The most powerful man in the world”, il presidente russo è riu­scito a cancellare le opposizioni, a sottrarre credibilità ai suoi avver­sari, a controllare i Mass Media. Passeggiando per il centro di Mo­sca, dal Cremlino alla statua del Generale Žukov, l’eroe della

“Grande guerra patriottica” fino alla Moscova, passando per Piazza Rossa e per il Mausoleo di Lenin, non si può non notare la concezione russa del potere. Un potere che resiste al tempo, che rimane tangibile nell’estetica stessa della città. Mosca è enorme, in ogni senso, da ogni pro­spettiva; persino i suoi colori ci raccontano qualcosa e ci traghettano dall’esplosione di vivacità della cattedrale di San Basilio al grigiore delle sterminate periferie so­vietiche. Grigio è il cielo e grigio è il volto della Russia e dei russi ma rosso è il cuore e deciso lo spirito. La mia università, la People’s Friendiship University

of Russia, ospita studenti da tutto il mondo e in partico­lare da Cina, Africa ed ex Repubbliche Sovietiche. Gli studenti internazionali si incontrano e si scontrano con la realtà quotidiana russa. Viviamo nei “blocchi”, i dor­mitori dell’università, composti da mini appartamenti da 7­10 persone: le camere singole non esistono e il princi­pio di internazionalità influenza la stessa composizione “etnica” degli appartamenti e delle camere. Io ad esem­pio condivido la camera con un ragazzo cinese e uno su­dafricano: tre continenti, tre storie di vita diverse, tre modi di vedere il mondo diversi e una cinquantina di ore di volo in 20 metri quadrati scarsi. In questa notte di primavera fuori dal mio blocco ci

sono zero gradi e io cerco di raccontarvi confusamente frammenti di Russia e frammenti di Mosca, sperando di riuscire a comunicare qualcosa. Forse la confusione è lo stile più adeguato per raccontare questa città in 5000 battute dopo un mese di esperienza.Tornando agli Scorpions, il vento del cambiamento

ha veramente scosso pesantemente questo paese. La vergogna e il senso di umiliazione che la Russia prova dopo la caduta dell’Urss, dopo la fine di quello che i do­cumentaristi della CNN chiamano “impero russo” non ha distrutto niente. La Russia di Putin ha voglia di tor­nare protagonista nella geopolitica mondiale e probabil­mente è riuscita nel suo intento. La guerra in Cecenia, la guerra tra Russia e Ucraina per la Crimea, la voglia di giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente testi­moniano che, anche se nel profondo l’uomo non smette mai di sperare, sono le armi e il sangue a macchiare i li­bri di storia.

Ignazio Pisanu

15 SCHEGGE Aprile 2017

CARTOLINE DA BRUXELLESL’incontro ravvicinato con un’Unione Europea che ha imparato ad accorciarsi le maniche

A Bruxelles il cielo grigio d’inverno pesa sui tetti a punta delle case nordiche del centro e sugli alti pa­

lazzi grigi di Rue de la Loi, che sfrontati sfidano i limiti di quel confine freddo. Le vie si costruiscono tra palazzi giganteschi religiosamente definiti e rigorosamente a specchio, tanto da rendere le vie della Bruxelles del quartiere delle istituzioni indistinguibili per un’esterna come me. I locals ­ anche se definirli così significherebbe pri­

varli della loro vera origine italiana, spagnola, tedesca e così via ­ la chiamano la “bubble”, la bolla, una sezione della capitale belga che si trasforma rapidamente anche nella capitale dell’Unione Europea, che respira superan­do i confini nazionali, che è costante lavoro, che è pas­sione e che si spinge oltre per vedere in prospettiva, il futuro che spetta alla Comunità. Nella bubble sembra di allontanarci per un momento dalla quotidianità dei Bru­xellois, per addentrarci a passo spedito in un mondo pa­rallelo fatto di molteplici nazionalità, di giovani realtà, che ogni sera dopo l’ennesima giornata di tirocinio con­clusa, si riuniscono in uno dei pub di Place de Luxem­bourg. È facile dire che qui, nel cuore pulsante, nel motore dell’Unione Europea, sembra di essere in un mondo parallelo, in un mondo a sé stante che procede non indisturbato mentre tutto il resto continua a puntar­gli gli occhi e gli indici addosso.Camminare per le strade di questa città a quasi un an­

no dagli attentati del Marzo scorso ed incrociare amara­mente le scritte “forget” e “remember” sulla facciata principale della stazione di Maelbeek, porta con se la stessa sensazione di una ferita aperta al tatto.

Che l’Europa stia soffrendo lo si percepisce dall’aria densa che si respira, ma più che abbandonarsi alla con­vinzione che l’Unione approcci le molteplici sfide che si trova dinnanzi con fare di sconfitta, è interessante inda­gare in profondità, leggere tra le righe e scoprire che la strada futura tracciata da Bruxelles è intessuta con il filo conduttore della “resilience”. Le paure degli europei, la chiusura di alcuni ideali e progetti politici, sfiorano ed incentivano le priorità di un’Unione in profonda crisi e non ne scalfiscono la volontà di ripartire. Il recente documento sulla Global Strategy, prodotto dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, si con­

centra sullo sforzo di sviluppare, per quanto possibile, una politica estera europea. Questo nel tentativo di ac­quietare la schizofrenia che da sempre caratterizza le re­lazioni esterne dell’UE, rispondendo alle calde sfide del terrorismo e dell’amministrazione Trump, che da oltreo­ceano invoca una maggiore partecipazione europea alla propria difesa. Le sfide che gravano sulle spalle della

Comunità non sono poche, ma è parlando con chi si trova die­tro le quinte e fa funzionare l’Eu­ropa, costruen­dola giorno per giorno che è possibile carpire l’importanza di questo momento

per ripartire. Le volubili dinamiche del sistema interna­zionali permettono di valutare nuove opzioni e, al con­tempo, di porre sul tavolo delle discussioni temi critici, talvolta accantonati a causa della debolezza di un’UE che non può considerarsi in grado di percorrere una pro­pria strada politica definita ed unitaria.A sessant’anni dai Trattati di Roma, gli obiettivi cen­

trali che a Bruxelles si cerca di porsi sono essenzialmen­te obiettivi di sicurezza e di rafforzamento delle relazioni con i paesi terzi, che guardano all’Unione con meno forza ed attrattività di prima. Questo, a partire dal­la necessità di riconcedere alla comunità un ruolo forte, alla base del quale si pone una rinnovata e rinforzata collaborazione tra gli stati membri per affrontare il nuo­vo ruolo della NATO, infiacchita dall’amministrazione Trump.Guardando all’Unione con gli occhi di chi è da poco

passato dai libri alle scrivanie degli uffici nei piani più o meno alti degli edifici nel quartiere europeo, si può toc­care con mano la tangibilità dell’operato di Bruxelles. La destinazione ultima è verso nuovi orizzonti, con la presa di coscienza di quelle che sono le contraddizioni e le difficoltà che oggi più che mai caratterizzano questo percorso. Chi vive le istituzioni dai momenti di gloria, invece, soffre nel realizzare le differenze che questa Eu­ropa ha con quella del passato. Tuttavia, la speranza di un futuro più roseo è presente negli intenti e traspare dalla passione che guida le parole di chi parla, di chi pur ricoprendo posizioni di prestigio, decide di lasciarsi an­dare ad inviti alla riflessione e alla presa di coscienza, con una forte fiducia in quello che sarà, in quello che riusciremo a costruire nel domani, partecipando alla rea­lizzazione di un nuovo capitolo nella storia dell’Unione Europea.

Giorgia Miccoli

16 SCHEGGE Aprile 2017

Un anno fa, il 4 di maggio, le pagine online di alcuni tra i maggiori quotidiani nazionali riportavano tito­

li di questo genere «Pino Maniaci accusato di estorsio­ne» oppure «L’antimafia sporca del direttore di Telejato». Per quanti non conoscano questi nomi si apri­rà una necessaria parentesi, nel tentativo di presentare gli attori e l’ambientazione di questa serie all’italiana.La Sicilia, in particolare la provincia di Palermo, può

sembrare una luogo simile a molti altri. Paesaggi stu­pendi, mare, ottimo cibo, amministrazioni che saltano, opere incompiute, corruzione, attributi normali in un Paese come il nostro. La particolarità, sconosciuta da chi non hanno vissuto questo territorio intimamente, si trova nella cultura, nelle abitudini e nella “normalità” quotidiana dei suoi abitanti. Perché, se nelle teorie de­mocratiche l’individuo cede il proprio diritto all’uso della forza allo Stato, in cambio della salvaguardia dei propri diritti e della libertà, in questa realtà lo Stato sembra aver avuto le idee confuse. Non solo acconsen­tendo allo sviluppo di poteri alternativi ad esso, ma con­segnandogli la forza coercitiva della violenza impunita, tanto da arrivare, tra il 1992 e il 1993 a subire undici at­tentati che coinvolsero innocenti e funzionari della Re­pubblica. Lo stato dentro lo Stato palesa la sua esistenza e lo Stato risponde, apparentemente sconfiggendo que­sto potere criminale. Dopo venticinque anni, è chiaro come questa vittoria non abbia eliminato il problema e come le persone che vivono sul suolo siciliano siano an­cora soggette a logiche e angherie mafiose. In questo contesto, nel 1999, un Signor Nessuno rile­

va una piccola televisione commerciale nel comune di Partinico (PM) con un’idea ben precisa in mente: un te­legiornale in cui dire nomi e cognomi dei mafiosi e dirli nella terra dell’omertà. Pino Maniaci, sbrigativo, inven­tore di insulti coloritissimi e una faccia di bronzo che porta a chiedersi come possa non essere già sotto terra. Nei successivi diciotto anni Telejato svolgerà sostanzial­mente un servizio pubblico, farà giornalismo antimafia d’inchiesta e i suoi risultati arriveranno all’attenzione di Reporter sans Frontières e della CNN.

Sembra quasi una storia a lieto fine quando, dopo undici anni, finalmente l’Italia si accorge di questo lavoro gra­zie ad un intervista di Pif ne “Il testimone”. Il titolo del­

la puntata in questione è “Gli Scassaminchia”, al secolo, i Rompicoglioni. In effetti il lavoro dei giornali­sti di Telejato rompe parecchio, non solo negli ambienti mafiosi ma anche all’interno delle forze dell’ordine lo­cali, dei consigli comunali e della società civile, perché nel lavoro di giornalisti non si deve aver paura di dire tutto ciò che si sa, tutto ciò che il pubblico deve sapere e chi lavora a Telejato, non ha mai avuto paura di questo. Nel 2015 un’inchiesta avviata proprio da qui, porta a scoprire un giro criminale che coinvolgerà circa venti persone tra funzionari, giudici e avvocati del Tribunale di Palermo, accusate di aver utilizzato beni sequestrati alla mafia per accrescere la propria ricchezza e posizio­ne, invece di restituirle alla comunità. L’inchiesta, in sintesi, svela come amministratori giudiziari nominati per il recupero di imprese tolte al controllo mafioso, si facessero assegnare decine di casi per poi portare al fal­limento le aziende in questione, incassare le liquidazioni e spartirle tra i complici. Il cosiddetto “Caso Saguto” verrà seguito anche da “Le Iene” che andranno a chie­dere spiegazioni direttamente alla presidente della Com­missione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi. Lei non gradirà la visita. Tutto ciò ad ottobre 2015, a novembre le pagine web di alcuni giornali titoleranno più o meno così «La Corte Europea vuole chiudere Telejato, distur­ba le frequenze di una rete di Malta». La notizia ha dell’assurdo, gli stessi giornalisti si chiedono che logica ci possa essere dietro queste notizie, però nella sede del­la televisione a Partinico, gli agenti incaricati arrivarono per davvero, pronti a disconnettere e sigillare i server necessari per la messa in onda del palinsesto, bloccando il tutto fino a data da destinarsi. Grazie alla resistenza dello staff della televisione, dopo appena due settimane, questa non ben definita “Corte Europea” sembra scor­darsi di Telejato e Pino e gli altri vengono rassicurati dalle autorità competenti che non c’è nessun conflitto di frequenze e che le trasmissioni possono continuare rego­larmente. Però i dubbi restano su cosa possa essere real­mente accaduto. Sul significato di questo tentativo di chiusura. Chi? Perché? E come mai in due settimane sembra essere finito tutto?Maggio 2016, i siti internet di alcuni dei maggiori

quotidiani nazionali pubblicano un collage di intercetta­zioni e video, preparato dai carabinieri di Partinico. Il soggetto è Pino Manici che parla con una presunta amante, che da dello stronzo al presidente del consiglio, che parla con il sindaco di un comune limitrofo chieden­dogli 466 euro. Il titolo del video è «Pino Maniaci l’eroe dell’antimafia accusato di estorsione». Trala­sciando il fatto che dare dello stronzo al presidente del consiglio nel proprio privato non è estorsione, né lo è avere un’amante o vantarsi con lei o anche la cifra as­surda da estorcere 466 euro precise, non 470, non 450 ma 466, l’attenzione va focalizzata sul quando questo

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI LIBERTÀ DI STAMPA?Lui, l’antimafia e l’amante, tragedia in tre atti

17 SCHEGGE Aprile 2017

Bello Figo è un nuovo fenomeno del web. Vive a Parma ma è originario del Ghana. Da un mese a

questa parte tutti lo conoscono e tutti ne parlano, bene o male, poco importa.Ha iniziato pubblicando delle sue canzoni su Youtu­

be, un rap “trash”, nonostante avesse comunque note­voli visualizzazioni, non aveva acquisito la fama che lo distingue ora. Le sue ultime canzoni “No Pago Affitto”e “Referendum Costituzionale” lo hanno portato ospite della trasmissione su rete 4, “Dalla vostra parte”, un sa­lotto in cui indignazione e buonismo dilagano; capro espiatorio di tutti le persone presenti ed in particolare di Alessandra Mussolini, la quale ai suoi insulti è stata dabbata dal sopracitato. Offese e minacce sono state la diretta conseguenza a seguito dell'andata in onda del programma.

Tre concerti annullati, il primo a Brescia alla Latteria Molloy, poi la sera di Capodanno a Mantova (Borgo Virgilio) e il terzo a Legnano al Land of Freedom. No­nostante il 21 gennaio Bello Figo sia riuscito a fare un Sold out all'Astoria (Torino), le minacce non si sono placate. Iniziate come commenti offensivi sugli eventi

di Facebook sono giunti, come nel caso di Mantova e più recentemente a Roma, a striscioni razzisti. Il 4 feb­braio, infatti, il cantante italo­ghanese ha tenuto un con­certo agli Ex Magazzini di Roma, ma gli esponenti di Azione Frontale, estrema destra, lo hanno minacciato settimane prima della data e avevano mandato “una dif­fida tramite raccomandata agli organizzatori di tale evento”.I suoi testi sono provocatori, cavalcano gli slogan dei

populisti applicandoli allo stereotipo del migrante, di colui che non paga l'affitto che il governo gli cede, colui che “ci” ruba il lavoro e le “nostre” donne bianche. Iro­nia che molti non hanno compreso e a cui hanno saputo solo rispondere con insulti e minacce. Altri, invece, uti­lizzano queste canzoni come inni per rispondere ai corirazzisti, come è avvenuto a Milano durante un corteo di Forza Nuova, in cui un gruppo di quindicenni in rispo­sta a “Italia agli Italiana, la Patria prima di tutto” hanno messo a tutto volume “No pago affitto” e hanno dabba­to davanti ai manifestanti. Questi ultimi hanno cacciato malamente dalla manifestazione il gruppo di giovani. Sicuramente non si può paragonare Bello Figo a

Giorgio Gaber e altri artisti che hanno urtato il sistema politico, ma sicuramente sta facendo smuovere la destra xenofoba e ignorante e al contempo sta scoperchiando le falle presenti in una sinistra che non sa come rispon­dere.

Giada Pasquettaz

BELLO FIGO: IL CANTANTE PIÙ POLITICO DEL MOMENTO?Tre concerti annullati e minacce ai successivi

video viene pubblicato su scala nazionale. Un giorno prima che all’imputato fosse consegnato l’avviso di ga­ranzia.

Non serve una laurea in Mass Media e Politica per capire che ci troviamo davanti a un piano diffamatorio costruito ad hoc. Anche il tentativo di chiusura di no­vembre 2015 assume una connotazione chiara, fungeva

da scappatoia, un modo per chiudere onorevolmente, senza scandali. A Pino viene vietato il domicilio a Parti­nico, la sua casa, il suo lavoro. Praticamente viene trat­tato come un ultras violento che prende il daspo. Da allora chiunque sia passato per la bocca di Pino o per gli articoli di Telejato ha incominciato a querelare lui e la televisione. «Siamo sommersi di querele, non possiamo più lavorare» così si leggeva sul sito di Telejato il 4 aprile u.s. «Ebbene, così andando avanti chiudiamo noi», «Chi ci ama ci scusi, è stato bello». Mentre il mondo parla di post truth e fake news, l’Ita­

lia continua ad essere al 77° posto per libertà di stampa. Individui che lottano contro le carenze strutturali del no­stro Stato, sopperendo alla sua mancanza di attenzione e amore, vengono stremati nelle forze e nello spirito dallo stesso Stato che essi sostengono. Chissà perché poi.

Kevin Carboni

18 SCHEGGE Aprile 2017

25 APRILE : LA RESISTENZA E LA SUA LUCE

La Festa della Liberazione non è una ricorrenza riassumibile in un

unico romanzo. Per l'enorme comples­sità del tema e il suo intreccio prospet­tivistico, non racconterò in queste righe i fatti dal 1943 al 1945 come un manua­le di storia, perché la Resistenza non è una sola storia, ma una grande famiglia di racconti che non si possono racco­gliere tutti insieme. Il lungo e doloroso processo che ha portato alla Liberazio­ne ha una data di inizio, l'8 Settembre e l'entrata in vigore dell'armistizio di Cassibile, e si conclude, simbolicamen­te, con la proclamazione dello sciopero generale del futuro presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini, che presiedeva il CLNAI, ai cittadini e lavoratori milanesi: «contro l'occupazione tedesca, con­tro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: ar­rendersi o perire». Nel mezzo ci sono storie di partigia­ni, di vite spezzate e molte ambiguità, che anche attraverso la memoria, quella frutto di studi e confronti, non soltanto “di stato” o imposta dalle istituzioni, siamo chiamati a non dimenticare giacché la vera lotta, direbbe Pasolini, si svolge «nell'intimo delle nostre coscienze» prima che nelle piazze. La ricorrenza del 25 Aprile non si può riassumere in

un romanzo, non in uno soltanto, quindi credo che ognuno possa sentire come proprio questo giorno, con­dividendone i principi nazionali di unità, di riscatto tota­le di una nazione (compresi coloro che non hanno preso parte a tale conflitto, primariamente civile e poi di clas­se, per chi non ha parteggiato, per chi è rimasto odiosa­mente indifferente o ha abbracciato la parte repubblichina), di ritorno alla democrazia dopo il ven­tennio fascista. Eppure è grazie anche alla letteratura italiana e alle testimonianze dirette se siamo riusciti ad ascoltare altri racconti lontani, a partire dal commovente esordio “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947) di Italo Calvino, dove il punto di vista del bambino nel mondo dei grandi gappisti spegne tutte le voci che, previste dall'autore con grande lungimiranza, hanno cercato di dipingere gli ideali partigiani come criminosi. Lo stesso Calvino, sentendo la responsabilità di testimone speciale di tale periodo storico, quindi il dovere imperativo di pubblicare un romanzo lontano dagli eroismi e circon­dato di monelli e vagabondi, rispose alle polemiche: «Anche chi si è gettato nella lotta senza un chiaro per­ché, ha agito un'elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!». Forse questa sen­tenza dovremmo annotarcela per le prossime discussioni con un negazionista qualsiasi, perché il significato ulti­

mo dell'opera è il “ricordo”, quello che vince su ogni ideologica messa in dubbio futura, quest'ultima destinata ad appiattire le ragioni storiche di tale conflitto fratricida, accomunando i morti perché “tutti uguali”, tacciando ogni motivazione per la quale si sono combattuti in vita, se per una repub­blica democratica o per una dittatura. Primo Levi, che più di tutti concen­trò la morale della sua opera sulla memoria, già nel dopoguerra si pre­occupò di chi l'avrebbe persa sugli eccidi e di chi si sarebbe auto­assolto con «Queste cose (i lager) le hanno

fatte loro, non noi», rafforzando così il mito degli «ita­liani brava gente» e dimenticando che il nazismo è stata «una metastasi di un tumore che è nato in Italia e che ha poi condotto vicino alla morte l'intera Europa». Complice il colpo di spugna dell'amnistia Togliatti del 1946, pensata in ragione «dell'impossibilità di processa­re un intero paese», ha ottenuto una pacificazione nazio­nale per favorire il processo costituente, e allo stesso tempo una scarcerazione indifferenziata anche per cri­minali di fatto: dunque la giustizia sacrificata in nome della ragion di stato.Se l'anniversario della Liberazione appartiene ad una

famiglia di racconti e ricordi, il mio più umile e perso­nale, in base agli studi e ai legami con la terra d'origine, sarebbe una vecchia foto: era il 28 Aprile a Venezia, le trattative di resa con i tedeschi terminarono e il CLN proclamò lo “sciopero generale insurrezionale” e le calli e i campi furono percorsi in lungo e in largo da gruppi di partigiani e gente comune che si accoda a loro; la foto ritrae la folla veneziana in piazza San Marco, per la prima volta dal Marzo 1848, che occupa un luogo aperto con la stessa gioia risorgimentale del secolo pre­cedente, la stessa ansia di giustizia e libertà.Per questo, ancora oggi è necessario il 25 Aprile: la

storia siamo noi, un popolo di op­pressi che si sono liberati, come do­po un lungo sonno nella loro quinta guerra d'indipen­denza, atto finale del nostro risorgi­mento. E mai co­

me oggi serve lottare con tutte le armi del sapere perché i nuovi oppressi siano liberati dai nuovi muri. E ancora risuona, nella sua pura luce di speranza, il monito di Ca­lamandrei nella sua Lapide ad ignominia: «Ora e sem­pre, RESISTENZA».

Luca Giro

19 SCHEGGE Aprile 2017

I LAVORI CHE HO SVOLTOStoria semiseria di un laureato che si arrangia

Vorrei scrivere un articolo che sia pieno di consigli sul mon­

do del lavoro, ma per farlo ho biso­gno di farvi passare attraverso la mia rete di esperienze, che dise­gnano la mappa della mia vita. Durante tutto il periodo di studi, ho svolto attività parallele di tipo la­vorativo che considero alla stregua di un “libero tirocinio”: cercavo di ca­pire come funzionassero gli strumenti usati dai liberi professionisti per la rileva­zione statistica, che mi permettevano d'integrare gli stu­di universitari. Da un giorno all'altro mi sono trovato senza soldi, così mi sono chiesto «Cosa posso fare da domani per poter comprare del cibo?». È stata la do­manda che mi ha cambiato la vita, perché avevo bisogno sin da subito di trovarmi qualcosa che potesse sostener­mi, avevo bisogno di soldi per estinguere le mie esigen­ze primarie. All'inizio vendevo oggetti che ottenevo accompa­

gnando dei magazzinieri che sgomberavano cantine e soffitte; poi con i soldi accumulati ho iniziato a compra­re e vendere partite di quaderni o elettrodomestici. Una volta ho acquistato una partita che nel 2010 sarebbe val­sa almeno 400 euro; solo dopo ho scoperto che l'usato elettronico oggi diminuisce il suo valore sul mercato di quasi il 50% in sei mesi e me la sono cavata dando fon­do a tutti i risparmi per compensare la perdita. Con il tempo ho capito quali tipi di beni avessero sempre un valore economico e quali non valeva la pena comprare se non sapevi a chi venderli; ciò nonostante spesso sono andato alla ricerca di categorie nuove di oggetti che ora giacciono inutilizzati in qualche deposito. Ho imparato sulla mia pelle che la libera impresa è

sempre un rischio, che quasi sempre vale la pena prova­re ma soprattutto che è importante riuscire. Lavorare ti dà delle skills pratiche che poi puoi applicare in situa­zioni diverse, ti obbliga ad essere sempre aggiornato. Il fatto di avere capacità che siano sempre efficienti, se le­gato alla situazione di dover collaborare in modo profi­cuo con altre persone in ufficio, dovrebbe portare la persona a migliorarsi ogni giorno, e per me questo ha si­gnificato essere sempre sul pezzo. Per imparare ad esse­re sempre aggiornato, fare il ghostwriter è stato utile perché, nonostante la paga scarsa, apprendi molto; in re­dazione passano domande su nuove app e arrivano noti­fiche che parlano di nuovi investimenti fruttuosi. Dopo un po' di tempo che sei costretto a comprendere

il funzionamento di app ed investimenti, il passaggio a fare il trader è breve e, se fatto oculatamente, fruttuoso. Essere sempre sul pezzo è importante come l'empatia, l'educazione ed avere buon senso. In ogni azienda si collabora con persone che vengono da realtà diverse e

che fanno lavori diversi, per cui bisogna anche abituarsi all'idea di vedere lavori degli altri che sono l'opposto di tutto ciò che noi riteniamo tale e bisogna accettare che questo può an­che ottenere un discreto suc­

cesso. Sopravvivere a tutto questo è formativo soprattutto

perché ti evita la paura del "senza esperienza imbottito d'idee" su come

dovrebbe essere un ambiente di lavoro, che non ha mai fatto nulla e non sa cosa accade o come ci si comporta. In particolare, durante le prove che se­guivano i colloqui, mi trovavo avvantaggiato perché sa­pevo come comportarmi rispetto a dei ragazzi che avevano la laurea quinquennale e non avevano lavorato un solo giorno. Ciò mi ha portato ad interessarmi di più alla questione del lavoro in Italia: dopo la crisi del 2008 si presenta in una situazione frammentata dove esistono zone in cui il lavoro scarseggia perché legate a sistemi di lavoro non più sostenibili oggi, ed altre situazioni in cui, invece, il lavoro cresce perché cresce l'economia lo­cale, essendo ben gestita. Da questo tipo di attività, ho iniziato a cercare annunci di lavoro dove gli indicatori segnalavano le zone più virtuose, e così ho iniziato a trovare lavoro ad amici e parenti. Per comunicare, però, è necessario tenere allenate an­

che le due forme comunicative fondamentali: convezio­ni formali ed empatia. Le prime le ho apprese facendo il PR. In questi casi, devi essere competitivo, ed io ho ri­nunciato per paura ed esasperazione di dover sempre competere con i colleghi nelle relazioni dirette con il pubblico, attività per la quale sono meno dotato rispetto all'uso del computer. Questa mia debolezza mi faceva passare la notte in giro per casa con una boccetta di An­siolin sotto il braccio, finché un giorno non ho resistito più ed ho mollato. Il nostro Paese ha un forte bisogno d'imprese e non

d'impiegati, perché ogni impresa che riesce a sopravvi­vere alle banche, alla burocrazia e alla mala politica ed intercetta fette nuove di mercato, è destinata ad avere successo, soprattutto in questo momento storico dove è in atto una vera rivoluzione tecnologica. Il punto è: quante persone sono davvero disposte a portare avanti le loro idee affinché tutti le riconoscano come affermate?

Luca Giovagnola

20 SCHEGGE Aprile 2017

La prima volta che lo vidi in scaffa­le, mentre spolveravo svogliata­

mente in libreria in un afoso pomeriggio di agosto, Andre Dubus non mi fece nessun particolare effetto. Non sono una di quelle lettrici che sceglie i libri in base alle recensioni, io. Come le persone, anche le letture per me sono questione di pelle, di chimica, di quel brivido di curiosità che ti smuovono in­volontariamente. E tra me e Andre, nul­la. Lo spolvero per bene, e lo ripongo al suo posto, delicatamente e con distacco. Per me era già finita.Capita poi che passano le stagioni, e

mi ritrovo da cliente in quella stessa li­breria dove in estate mi guadagno qual­che soldo, ed eccolo di nuovo lì. Voci dalla luna mi stava aspettando, credo sapesse che avevamo un conto in sospe­so, io e lui. L’avevo giudicato troppo frettolosamente, ed era pronto a farmi ricredere. Leggendo la quarta di co­pertina, capisco che forse ero stata troppo affrettata, e lo acquisto. Sono passati un altro paio di mesi prima che fosse il suo turno, ma poi, complice una riunione parti­colarmente tranquilla del KCB, anche Dubus riesce a farsi spazio tra le assegnazioni del club, e di conseguen­za tra le mie letture della settimana. Voci dalla luna è un sogno onirico pericolosamente

reale e concreto. Parte da un fatto di vita quotidiana, quasi un pettegolezzo. C’è un padre divorziato con due figli, e c’è come sempre una storia d’amore pretestuosa, quella della ex moglie di uno dei due figli con il capofa­miglia. C’è lo scandalo, la discussione, i rapporti strap­pati. C’è Richie, che a 12 anni si domanda come farà a rimanere cristiano in una famiglia ingarbugliata come quella, e che coltiva segretamente il desiderio di entrare in seminario, e ancor più segretamente – e inconsape­volmente – un’attrazione adolescenziale verso una vici­na di casa, che profuma «di rossetto e sigarette». In uno scenario empio, Dubus costruisce un racconto

breve pieno di dignità. Grazie alla dimensione ciclica del racconto – un capitolo per ciascun personaggio, cia­scuno un momento diverso della storia – Andre Dubus mette su carta un dramma con la discrezione di ogni grande autore. La sua mano si perde dietro i protagoni­sti, e la si nota solo nell’umana dignità che conferisce al suo racconto. In Voci dalla luna nessuno urla, strepita, piange, ma tutti si confrontano con il loro io più profon­do, e fanno i conti con la situazione in cui si sono cac­ciati o sono stati trascinati. Lo fa il capofamiglia, Greg, che si domanda dove questo amore improbabile per Brenda lo porterà e quanto questo farà male a Larry e Richie, i figli. Lo fa Larry, che dopo un divorzio stra­ziante dalla stessa Brenda, s’interroga sul perché vederla con un altro uomo gli faccia ancora male, e su che dirit­

to possa ancora avere sulla sua ex moglie. Lo fa Brenda, che capisce il perché si sia innamorata di Greg, e che semplicemente si rende conto di non poter fare a meno di questo sen­timento, un misto di sicurezza, tran­quillità e maturità. Lo fanno Joan e Richie, madre e figlio separati dal primo, più tragico, divorzio di que­st’ultima da Greg, che l’ha portata ad abbandonare il figlio, a doverlo guar­dare rientrare a casa solo, dopo un weekend passato assieme, mentre si domanda che razza di madre sia e cosa abbia fatto per partorire un ra­gazzino così incredibilmente maturo per la sua età. Ma soprattutto Richie, vero perno del racconto, vera anima del libro, voce profonda nel mare in tempesta, come la corrente fredda

che ti morde i polpacci quando fai il bagno al largo in mare, che scorre inesorabile sotto la superficie increspa­ta dell’acqua. Lucido e sognatore assieme, Richie sa es­sere incredibilmente ironico e tragico. La sua dolcezza commuove e intenerisce il lettore: il ragazzo è preoccu­pato che i costumi “dissoluti” della sua famiglia lo por­tino lontano dalla strada verso il sacerdozio, non rendendosi minimamente conto che il pericolo si cela dietro la sua attrazione per la coetanea Melissa, e lo fa con un candore e con una tenerezza che ti fanno sorride­re.Peter Orner di Voci dalla luna, scrive: «È uno di quei

libri che, una volta terminati, ti spingono a concentrarti con più forza sul tuo respiro, perché ti senti più vivo. Perché ti sei ricordato, ancora una volta, che hai a di­sposizione solo un numero finito di respiri. Capita sol­tanto a me? Oppure anche tu passi la maggior parte delle tue giornate in un volontario diniego? Io cerco di risolverlo leggendo – così non posso dimenticarmi che un giorno il mio cuore malconcio smetterà di pompare». No, caro Peter, è capitato anche a me. Voci dalla luna ti permette per un attimo di vedere al di là del varco, di scorgere il montaliano "oltre" di cui si parla ne La casa dei doganieri. «Il varco è qui?». Il confine tra fiction e realtà, tra pettegolezzo e vita vissuta, tra scandalo e di­gnità, tra sogno e veglia. Voci dalla luna è lo strappo sulla tela che per un secondo ti permette di vedere cosa c’è dietro, come un Fontana della letteratura. È un atti­mo fugace, solo 128 pagine per capire che «il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è ca­pire e portare avanti le vite che abbiamo». Ed è esatta­mente questo che t’insegna il libro: la dignità che serve per vivere. «Ma tu non ricordi la casa di questa mia se­ra. Ed io non so chi va e chi resta».

Maria Giulia Minnucci

KCB – KOINÉ CLUB DEI BIBLIOFILI

VOCI DALLA LUNA, ANDRE DUBUS

21 SCHEGGE Aprile 2017

Nel commentare l’ultima opera di Jim Jarmusch si avverte quella

forma di imbarazzo che dovrebbe sfio­rarci ogniqualvolta ci troviamo costret­ti a spiegare il senso di una poesia. Ad un primo sguardo, Paterson potrebbe sembrare il regno della ripetitività, o magari il malinconico omaggio ad una provincia americana in cui il tempo scorre con monotonia e la vita procede senza riservare emozioni; ma guai a non cogliere l’invito ad aguzzare la vi­sta – e a rinnovare lo sguardo – che trapela dai piccoli particolari e dai tan­ti doppi significati di cui è disseminata la storia.Il primissimo bagliore poetico del

film lo vediamo rifulgere nel titolo: Pa­terson (Adam Driver) è un giovane au­tista di autobus – un driver, appunto – che è nato e vive nell’omonima città di Paterson, in New Jersey. La routi­ne che scandisce ogni sua settimana gli impone di sve­gliarsi presto per guidare la linea 23 tra le vie della contea di Passaic, assecondando amabilmente le velleità artistiche di un’incantevole moglie persiana, Laura (Golshifteh Farahani), e rendendo quotidiani servigi al suo dispettoso bulldog inglese, Marvin (Nellie). Le vite degli altri passano accanto a quella di Paterson senza la­sciare tracce visibili, filtrano attraverso il ronzio delle conversazioni che sente sull’autobus o le liti di cui è te­stimone al bar di Doc (Barry Shabaka Henley), dove si ferma ogni sera per una birra prima di rientrare dalla passeggiata con Marvin.Di questo microcosmo e di qualche mancanza si ali­

mentano le poesie che Paterson annota su un taccuino nei ritagli di tempo. Laura vorrebbe che le pubblicasse e gli fa promettere che nel weekend andrà a fotocopiarle, ma un infausto evento – con un responsabile ben identi­ficato – vanifica per sempre tutto il suo lavoro. È dun­que in un momento di estremo sconforto che Paterson si reca nel suo posto preferito, le Grandi Cascate del Pas­saic River, dove viene avvicinato da un ignoto giappo­nese (Masatoshi Nagase) che dimostra di conoscere assai bene l’opera di William Carlos Williams, celebre poeta vissuto in città. L’incontro sembra dargli tutta la forza di cui ha bisogno per riempire con altro inchiostro le pagine di un nuovo quaderno.Il realismo asciutto e intimista che Jarmusch aveva

già da tempo elevato a personale cifra stilistica qui sov­verte anche i ritmi accelerati del cinema, conformandoli al fluire ordinario e cadenzato del tempo della vita. Il minimalismo delle poesie di Paterson, che possono par­tire da una scatola di fiammiferi per abbracciare senti­menti universali, fa il paio con la caccia al tesoro imbastita da Jarmusch, un’autentica chiamata alla ricer­

ca della bellezza nelle piccole cose. Un gioco di simmetrie e contrasti che è ben raffigurato anche dal bianco e nero con cui Laura colora ogni cosa sulla quale metta mano, dall’arreda­mento della casa ai biscotti che cuci­na, dagli abiti che indossa alla chitarra da aspirante cantante country che ha comprato su internet.Trattandosi di Golshifteh Farahani,

un’attrice che ho incontrato nel mon­do reale prima di poterne apprezzare le doti sul grande schermo, sento che mi sarà perdonata la condivisione di un ricordo che definirei “monocolo­re”. Correva l’anno 2013, l’episodio ebbe luogo durante la 70ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia: animato dal proposito di attirare le in­

vidie di molte teenager, stavo seguendo la delegazione del film La Jalousie di Philippe Garrel per fare un selfie con il figlio del regista, Louis Garrel, che fin lì non ave­va dato prova di particolare affabilità. Sospesi l’opera­zione, a malincuore, nel momento in cui lo vidi prendere per mano una ragazza dai capelli ondulati av­volta in un bel vestito bianco, verginalmente bianco. Restai poi sbalordito quando mi accorsi che si trattava di lei, la giurata iraniana della sezione Orizzonti che fi­no a quel giorno avevo visto in abiti sempre eleganti, ma mai così vistosi: la graziosa attrice esiliata dal regi­me di Teheran che aveva già lavorato con i più grandi registi del suo Paese – da Bahman Ghobadi ad Asghar Farhadi, da Abbas Kiarostami a Marjane Satrapi – e che era apparsa in un action movie di Ridley Scott, Nessuna verità (2008). Il suo garbo si rifletteva anche negli auto­grafi che generosamente accettava di rilasciare, correda­ti dal disegno stilizzato di un piccolo volatile al posto della “G” di “Golshifteh”.Per la cronaca, tra lei e Louis non durò. Nel momento

in cui scrivo, Garrel fa coppia fissa con Laetitia Casta e Golshifteh è sposata con lo psicoterapeuta Christos Dor­je Walker. Il tempo passa, talvolta più velocemente di quanto non accada in Paterson. Volgendo un ultimo sguardo a quattro anni fa, tuttavia, ricordo come l’obbe­dienza che lui le dimostrava facesse credere a molte del­le donne presenti che la dolce fidanzata lo avesse «addomesticato». Una condizione che, plausibile o me­no, sarebbe difficile non considerare per i suoi aspetti più piacevoli e – perché no? – poetici.

Manuel Lambertini

BUIO IN SALA: UN ANGOLISTA AL CINEMAPATERSON

22 SCHEGGE Aprile 2017

CODICE A BARRE

Lettere e riflessioni di sociologia e rapTraccia 1: 2017, Odissea nello Specchio durata (di lettura): 4'10''

«Parlo sempre di me perché so troppo pocoe cerco di scoprire da chi mi nascondo quando sono da solo»Vieni ViaMecna ­ Lungomare Paranoia, 2017

Chi sono? Cosa faccio? E perché lo faccio? Sono do­mande ancestrali, imperiture, a cui nessuno sa dare

una risposta. Ma qualcosa è cambiato. Eh già, perché in passato a queste questioni irrisolvibili vi era data una ri­sposta. Vera o falsa, resistente o duttile. Era pur sempre una risposta. Risposte brevi, come queste frasi. Sequen­ziali, come queste frasi. Logiche.Arriva un momento, però, in cui l'essere umano inizia

ad averne abbastanza di affermazioni pre­confezionate di religiosi o filosofi i quali spesso coincidevano nel ruolo. Queste risposte sanno di stantio, della stessa muf­fa che si accumula sui polverosi scaffali dei monasteri. Quando la bomba "Illuminismo" viene sganciata, nessu­no è più al sicuro. Il cogito cartesiano divampa come il fuoco di Caparezza in "Sono il Tuo Sogno Eretico" e da un tocco di freschezza. Ma ora? A cosa ci ha portato questo processo?Ebbene sì, oggigiorno siamo immersi in una realtà

fluida, liquida. Ci guardiamo attorno cercando un appi­glio, uno scoglio o riparandoci nel porto petrarchesco, un porto che non esiste più o del quale la posizione è ignota. Non ci conosciamo più. E no, non parlo di Noi con gli Altri, ma di Noi con Noi. Il nostro inconscio è perso nel labirinto dell'insicurezza, della perdita di ogni valore fondante la nostra vita, quegli stessi valori che un tempo per lo meno davano una direzione all'azione umana, l'ago della bussola che si poteva decidere di se­guire oppure a cui voltare le spalle con convinzione. La perdita del Padre teorizzata da Lacan, Padre riferito co­me l'Ideale portatore di senso, come Dio o come crisi genitoriale crescente dagli anni '80, ci ha fatto perdere quella mano che stringevamo nel buio cosmico della mente umana. Quella mano che dava una sicurezza, apriva una via luminosa, nonostante la sua fallacità. Or­mai la conoscenza di se stessi è diventato un imperativo per cercare il vero senso della vita. O forse solo per es­sere determinati a perseguire i propri obiettivi. «That's why! Knowledge of Self, Determination» di­

ceva il grandissimo Talib Kwali. Ma questa conoscenza di sé è davvero utile? Le grandi patologie psicologiche del nuovo millennio riguardano l'inadeguatezza a certi standard imposti da un mercato che ci vuole "turbo­con­sumatori" e gioca sulle nostre paure, sulle nostre insicu­rezze e, soprattutto, sulla nostra conformazione ad un format precostituito; tutti i nostri pensieri sono veicolati

da questa idea. Lo spettacolo tanto caro a Debord ha portato alla disfatta della società attiva a discapito di una società frammentata, insicura, suscettibile e passiva, pronta per essere pilotata in ogni sfaccettatura: dal cibo al corpo, dalla moda all'intrattenimento. Mezzosangue direbbe «Le TV accese, le anime spente».Così la bellezza occidentale diventa un dogma, le pa­

lestre si popolano fino ad esplodere per mettere in mo­stra ciò che si ha, cogito ergo ho. Il fenomeno viene chiamato "Spornosexuality" in quanto la mancanza di una direzione psichica stabile ha condotto soprattutto i giovani ad identificarsi con la fisicità del proprio corpo e con l'immagine del corpo data da sportivi e pornoatto­ri. La prestazione, la prestanza. Tutto viene valutato con un criterio di riuscita­non riuscita e chi fallisce viene ta­gliato fuori ­ in gergo sociologico: left out ­. In questa rincorsa all'approvazione pubblica e all'accettazione pri­vata, un dubbio sorge. «Chi sono io? Ma non Io in senso essere umano. Figurati, già tanto se so cosa mangiare stasera e se riesco a sopravvivere a questa sessione. Ma no, dico io io, quello che costituisce questa immagine nello specchio, questo confusionale incontro di persone, esperienze, casualità, volontà, paranoie e attese». Panico.Ogni giorno si cambia idea su tutto. Sul mondo, sulle

persone, sugli affetti, su ciò che ci piace mangiare, ascoltare. Su ciò che consideriamo sacro, speciale o pro­fano, quotidiano. Scelte piccole diventano dubbi amleti­ci, i dubbi amletici diventano così tanto astratti e metafisici che un nuovo paio di scarpe ci aiuta ad alle­viare quell'ansia di esistere. E lo sappiamo. Sappiamo che è una certezza inutile. Ma se snobbiamo le certezze e non vogliamo navigare nelle incertezze, come si so­pravvive a questa guerra? «Non c'è la grande guerra tranne quella contro il niente che ci ingoia», fate una statua a Mistaman.La soluzione rimane semplice. Prenderne atto. Forse

ancor più di conoscere noi stessi dobbiamo osservare il quadro della consapevolezza attraverso l'amore, l'apatia, la stanchezza, la speranza. Una guerra che combattiamo in casa nostra, nella nostra mente. Aprite gli occhi di fronte alla realtà. Ecco, ben fatto. Benvenuti a Sarajevo."Non voglio star da solo ma nemmeno stare assiemenon voglio candidarmi né salvare le balenenon voglio bere ma bevoné lavorare ma devoogni mattina apro gli occhi, è Sarajevo "Non chiedere di me, non ho voglia di parlarneFunk Shui Project ft. Willie PeyoteFunk Shui Project, 2014

Michele Consolini

23 SCHEGGE Aprile 2017

RECENSIONI ONESTE, SPASSIONATE, POLITICAMENTE E GRAMMATICALMENTE SCORRETTE

La consocrazione alcolica di Thundercat ‐ Drunk (2017, Brainfeeder)

Ok, mi rendo ben conto che Thundercat non sia proprio

un artista che suoni familiare alle orecchie di tutti. Nonostante ciò, ci sono svariati motivi per cui dovre­ste iniziare ad amarlo, a partire da questo preciso istante. Prima fra tutte è la sua faccia simpatica che non può non farti venire voglia di berti una birra con lui (più di una magari), magari mentre indossa uno dei suoi pittoreschi costumi cui sembra calzino a pennello. Se poi magari vi interessa anche la musica allora il discorso diventa un filo più complesso ma decisa­mente più interessante. È vero che il nome di Thundercat (Stephen Bruner

all’anagrafe) è rimasto per molto tempo conosciuto solo agli appassionati, ma dal 2015 con l’uscita dell’ep The Beyond / Where the Giants Roam e quel pezzo micidiale di Them Changes (*Stevie Wonder approves*), la sua fama è decisamente aumentata ed è arrivata anche a per­sone non avvezze a certe sonorità. Stephen è un musici­sta ecclettico e talentuoso che non si è mai dato degli schemi rigidi nella sua vita artistica. Ciò lo ha portato a collaborare con i più svariati progetti musicali (dai Sui­cidal Tendencies, a Kimbra passando per Childish Gam­bino). È impossibile non provare un piacevole stupore nel leggere i nomi di Pharell Williams, Flying Lotus, Kendrick Lamar, Kamasi Washington, Wiz Khalifa tra le collaborazioni dei 23 brani che compongono Drunk. Con questo disco Thundercat si conferma essere uno de­gli artisti più importanti della scena black, sperimentale, fusion, neo­soul, e tutto quel nuovo sound americano jazzy che sta rendendo le nostre giornate senza ombra di dubbio meno noiose, meno pop nelle sonorità ma non nell’attitudine. Un vero e proprio paradosso di cui ave­vamo decisamente bisogno. La cosa veramente impor­tante però rimane la profonda coerenza di questo artista, che riesce ad essere credibile qualsiasi cosa decida di fa­re.Drunk è un disco che si descrive da solo, fin dal tito­

lo. Non ci lascia dubbi di nessun tipo. L’ebbrezza è il sentimento che permea i brani e che ne rappresenta il vero e proprio significato. La sensazione di essere esa­geratamente ondeggianti, completamente consapevoli e incoscienti nello stesso momento, come quando mandi un messaggio alla tua ex completamente sbronzo in mezzo a una festa, poi il secondo dopo sei a ballare con una biondina che hai conosciuto mentre aspettati il tuo gin tonic, ti siedi e inizi a parlare col primo ragazzo che passa di quanto sia ingiusta la guerra. Tutto sembra non avere il benché minimo senso a primo impatto e invece,

quando ci ripensi il giorno dopo, il senso arriva. E tu sei quasi conten­to (anche se la tua ex ti ha risposto «se mi riscrivi ti denuncio per stal­king»). Ascoltare Drunk significa passare attraverso questi stati d’animo. I brani scivolano leggeri e ballerini. A volte si nascondono dietro un' illusoria semplicità, altre volte non hanno assolutamente paura ad imporre tecnicismi, in modo quasi beffardo, e detto tra amici, con non poco stile. La mano di Stephen «po esse fero e po esse piuma», e a volte pure tutte e due le cose contemporaneamente. Ca­

rissimi, fatevi un favore una volta tanto e dategli un ascolto.Ps: vi sfido onestamente ad ascoltare Friend Zone e

provare a non muovere le vostre belle chiappe.

Consigli ­ Tre dischi che dovresti ascoltare mentre fai finta di studiare:

GOMMA ­ Тоска (2017, V4V­Records / Believe Di­gital): Perché siamo tutti emo e punk dentro, e perché ci ricordano tanto i Distanti, che sono una delle cose più belle che Forlì abbia prodot­to.

SAMPHA – Process (2017, Young Turks): Perché il suo R&B elettronico ci ha fatto raggiungere livelli di mistici­smo mai provati prima.

GIORGIO POI – Fa Niente (2017, Bomba Dischi): Per­ché la Bomba Dischi dopo Calcutta doveva decidere se cadere nel dimenticatoio o azzardare. Ha azzardato be­ne, con un pop a tratti psichedelico che cattura.

Michele Veneziano

Schegge realizzato con il contributo di

ALMA MATER STUDIORUM ­ Università di Bologna

Il cuore è un motore perfetto.Ha bisogno di bruciare…

per garantire un'esecuzione ottimale!

Tributo ad Ashraf Fayad