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Page 1: Realtà psichica e realtà storica nel pensiero di C. G. · PDF file75 (1) S. Freud, « II disagio della civiltà» (1929), in Opere 1924-1929, Torino, Boringhieri, 1980, pp. 627-628.

Realtà psichica e realtàstorica nel pensiero diC. G. Jung

Umberto Galimberti, Milano

L'impianto teorico di Jung è percorso dalla persuasioneche la realtà psichica è a tal punto connessa con la realtàstorica da costringere la psicologia analitica ad unacontinua trasformazione epocale. Questa relazione trapsiche e storia, che Freud era costretto a ignorare per lecaratteristiche cliniche del suo metodo e per la suaaspirazione a fare della psicologia una scienza, imponealla psicologia analitica una dinamica che la psicoanalisifreudiana è costretta a ignorare perché clinica da un latoe aspirazione scientifica dall'altro portano a concepire lapsiche come un apparato a schema rigido, formalmentenon dissimile dagli apparati che i medici descrivono alivello corporeo. E come una malattia dello stomaco o delfegato non è modificata dalla storia, ma è identica pressoi greci e presso di noi, così la nevrosi non subiscevariazioni storiche, per cui va benissimo Edipo, l'eroetragico di Sofocle, per descrivere le vicende psichiche cheaffliggono gli uomini del nostro tempo. Jung è invecepersuaso che la psiche è così solidale con la storia daesserne profondamente attraversata e modificata. Questavariazione continua non consente

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una costruzione della psicologia come scienza esatta, maun'attenzione ininterrotta alle sue mutazioni che sonodecise dalla forma che di volta in volta assume la storia.Questa, infatti, inaugurando delle idee dominanti e deimodi collettivi di vita di volta in volta diversi, modificacontinuamente la natura dell'inconscio che si trova adospitare ciò che le varie epoche storiche rimuovono comenon confacenti alla visione del mondo che di volta in voltainaugurano.Prima che una terapia, infatti, la psicologia del profondo èuna visione del mondo che guarda l'uomo e la sua storiadal punto di vista di ciò che abitualmente è rimosso ocomunque non è immediatamente evidente nell'ordinedelle motivazioni che si è soliti assumere per giustificare ilproprio modo di pensare e di agire. Ciò che è rimossoagisce come ignorato, la sua comparsa ha l'aspettodell'incidente che interrompe la continuità dell'ordine.Accadendo insieme [sun-tómos) all'ordine costituito, ilrimosso si manifesta come sintomo che, insinuandosi neldiscorso, lo fa troboccare, esponendolo ad un senso cheè quasi sempre fuorviante rispetto all'esigenza unitariache l'epoca storica di volta in volta esprime. In quantoscarto, in quanto trasgressione, in quanto marginalità, ilsuo recupero produttivo e la sua iscrizione sonoessenziali al mantenimento del potere, formano lecondizioni del suo esercizio. Per questo tra civiltà, che ècura dell'ordine intersoggettivo, e psicologia del profondo,che è cura dello scarto soggettivo, c'è rapporto e sguardoreciproco.È evidente che questo rapporto non è definito una voltaper tutte, perché la variazione delle forme di civiltàproduce una variazione corrispondente nella naturadell'inconscio che, a questo punto, lungi dall'essere unapparato a schema rigido, si modifica in base a ciò chel'epoca storica impone di volta in volta di rimuovere.Questa è la vera differenza tra Freud e Jung, ben piùradicale di quella descritta dallo stesso Jung ne Ilcontrasto tra Freud e Jung. Basta accostare i testi perrendercene conto. Ne Il disagio della civil-

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(1) S. Freud, « II disagio dellaciviltà» (1929), in Opere 1924-1929, Torino, Boringhieri,1980, pp. 627-628.

(2) C. G. Jung, Tipi psicologici(1920), Opere, voi. 6, Torino,Boringhieri, 1970, p. 464.

(3) S. Freud, « II disagio delleciviltà », op. cit., p. 602.

tè (1930) Freud, ad esempio, scrive: «e In ogni tempo si èassegnato all'etica il massimo valore come se tutti se neaspettassero importanti conseguenze. Ed è vero chel'etica, come è facile riconoscere, tocca il punto piùvulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come unesperimento terapeutico, come uno sforzo perraggiungere, attraverso un imperativo del Super-lo, ciòche finora non fu raggiunto attraverso nessun'altra operadella civiltà »'(1). Jung, dal canto suo, nei Tipi psicologici(1920) scrive: « La norma diventa sempre più superflua inun orientamento collettivo della vita, e con ciò la veramoralità va in rovina. Quanto più l'uomo è sottoposto anorme colle » (2). Due tesi opposte che aprono il gioco atutto campo e che inaugurano due immagini dell'uomo chevai la pena di delineare per scorgere i modelli di libertà efelicità che sottendono.Innanzitutto c'è un tragitto dell'umanità e un suo disagioche Freud condensa in queste rapide espressioni: « Difatto l'uomo primordiale stava meglio perché ignoravaqualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la suasicurezza di godere a lungo di tale felicità era moltoesigua. L'uomo civile ha barattato una parte della suapossibilità di felicità per un po' di sicurezza » (3).Ma che cosa pensa qui Freud quando parla di felicità? Inche cosa propriamente consiste il baratto a cui la civiltà cicostringe « per un po' di sicurezza »? La felicità qui allusaè la mancanza di « qualsiasi restrizione pulsionale », percui, se questo è il problema, avrà buon gioco Marcusenell'indicare il risolvimento del « disagio » nella creazionedi una civiltà non repressiva, dove sarà possibile lariconciliazione del principio del piacere col principio dellarealtà, e dove l'eros, spaziando libero, potrà riportare leattività dell'uomo alle loro matrici istintuali in cui è il lorolibero esprimersi.Nella Prefazione politica del 1966 è lo stesso Marcuse adire: « Eros e civiltà: con questo titolo intendevo esprimereun'idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, laconvinzione che i risultati raggiunti dalle

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società industriali avanzate potessero consentire all'uomodi capovolgere il senso di marcia dell'evoluzione storica, dispezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertàe repressione — potessero, in altre parole, mettere l'uomoin condizione di apprendere la scienza [Gaia scienza),l'arte cioè di utilizzare la ricchezza sociale per modellare ilmondo dell'uomo secondo i suoi istinti di vita, attraversouna lotta concertata contro gli agenti di morte » (4). Ma quitanto la diagnosi di Freud, secondo cui la civiltà si basesulla repressione e la sublimazione degli istinti, procede inbase ad esse, e di esse si nutre, impedendo all'individuo lapiena esplicazione delle proprie tendenze pulsionali,quanto la terapia di Marcuse, secondo cui le condizioniopulente raggiunte dalla nostra civiltà potrebberoconsentire l'ipotesi di una società che non ha più bisognodi essere repressiva, e quindi di ottenere prestazionilavorative a spese degli impulsi istintuali, concordano in unpunto che nessuno dei due ha mai messo in discussione, eprecisamente che la felicità dell'uomo consiste nella pienaesplicazione delle pulsioni istintuali.Questo punto fermo, comune tanto alla diagnosi quantoalla terapia, ne porta con sé un altro secondo cui la libertàè tanto maggiore quanto minore è la repressione dellepulsioni. Ma allora, come assenza di repressione dellepulsioni, la libertà dice in negativo quello che in positivo èdetto dalla felicità come piena esplicazione delle pulsioni. Idue concetti, in questo modo, coincidono e, per effetto diquesta coincidenza, l'antitesi che Freud ha individuato trafelicità e civiltà si ripropone per la libertà: « la libertàindividuale non è un frutto della civiltà. Essa era massimaprima che si instaurasse qualsiasi civiltà, benché in realtà aquell'epoca non avesse mai un grande valore, in quantodifficilmente un individuo era in grado di difenderla. Lalibertà subisce delle limitazioni ad opera dell'incivilimento, ela giustizia esige che queste restrizioni colpiscanoimmancabilmente tutti »(5).Ma qui, sia la coincidenza tra libertà e felicità, sia

(4) H. Marcuse, Eros e civiltà(1966), Torino, Einau-di,1968, p. 33.

(5) S. Freud, « II disagio dellaciviltà », op. cit., p. 586.

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(6) L. Binswanger, Ricordi diSigmund Freud (1955), Roma,Astrolabio, 1971, pp. 82-83.

(7) S. Freud, « II disagio dellaciviltà », op. cit., p. 626.

la loro inconciliabilità con le esigenze della civiltàdipendono dal fatto che Freud per le esigenze che imponel'ordine scientifico, ha instaurato l'ordine pul-sionale comeunico orizzonte entro cui definire l'umano: « Sì, lo spirito ètutto » disse Freud a Binswanger in una conversazione del1927 « l'umanità certo sapeva di possedere Io spirito; iodovetti indicargli che vi sono anche gli istinti » (6).Preziosa indicazione, solo che quell'« anche », stradafacendo, si smarrì, e l'effetto fu che la teoria di Freudrimase definitivamente imprigionata nella riduzionedell'essenza dell'uomo alla sua istintualità, a cui venneconferita quella giurisdizione totale sull'essere umano, percui tutte le manifestazioni, di cui ogni epoca storica èportatrice, non sono che un epifenomeno camuffato che ilmetodo analitico deve smascherare per verificare la pre-messa secondo cui l'uomo si risolve in quella sua naturaistintiva che Freud si incarica di ricordare all'umanità.Riducendo il disagio della civiltà alla repressione dellepulsioni, Freud ha reso un ottimo servizio al disegnorepressivo della civiltà occidentale che ora è nellecondizioni di poter liberare anche le pulsioni senza ridurreil tasso e la qualità della sua repressione. Questa, infatti,non si esercita tanto sull'ordine istintuale, quantosull’ordine dei significati, il cui senso è deciso in modo cosìunivoco e rigoroso che all'individuo non resta la possibilitàdi esprimersi in un altro senso, che può essere tanto ilcontro-senso, quanto il senso adiacente. Ma forse « lalotta tra individuo e società » che Freud con tantachiarezza vede come « ostilità tra due processi costretti adisputarsi il campo l'un l'altro » non è, come vuole Freud, «un contrasto presumibilmente insanabile tra due pulsioniprimarie » (7), ma come pensa Jung, fra diversi modi diconferir senso alle cose, un modo che per poter valere pertutti deve essere unico, e un modo che per poterrispondere alle esigenze dell'individuo deve sottrarsi aquesta universale validità.Prima che un campo di gioco di pulsioni impersonali,l'uomo, infatti, è apertura al senso, e la sua libertà,

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prima che nella piena esplicazione delle sue pulsioni, siesercita nell'ampiezza di questa apertura. Se questo èvero, efficace non sarà la repressione che si esercita sullepulsioni, ma quella che si esercita come restringimentodell'apertura dei significati. In una parola, sarà larepressione del codice sociale che, rimossa l'ambivalenzadi ogni significato, di cui il simbolo è geloso custode, saràin grado di imporre ad ogni individuo lo stesso segno. Perquesto genere di repressione non è necessaria la forza,perché sarà lo stesso individuo, a cui è stata ristrettal'apertura del senso, a scegliere tra i sensi che la dittaturadel codice gli mette a disposizione, in modo che ogniprocesso di individuazione avvenga nel reticolo pre-disposto.In questo senso Jung può dire che « la norma diventasempre più superflua in un orientamento esclusivamentecollettivo della vita, e con ciò la vera moralità va in rovina.Quanto più l'uomo è sottoposto a norme collettive, tantomaggiore è la sua immoralità individuale » (8). Si tratta diuna immoralità che non ha nulla a che fare con l'ordinedelle pulsioni, ma con il coraggio di mantenere la propriaapertura al senso oltre e al di là dei sensi consentitidall'ordine sociale codificato. In questo senso "l'individuazione rappresenta un ampliamento della sferadella coscienza (Die Individuation bedeutet daher eineErweiterung des Sphäre des Bewusstsein] », uno sporgereoltre e al di là, quindi « una funzione trascendente[transzendent Funktion] » (9).Prima che « la piena esplicazione delle pulsioni » ciò cheuna società codificata teme e perciò reprime èun'eccedenza di senso rispetto a quello che essa è ingrado di controllare. Il vero rimosso della nostra civiltà nonè dunque l'istinto, ma la trascendenza, intesa comeulteriorità di senso rispetto al senso codificato, quindi ilsimbolo che, per la sua naturale ambivalenza, si sottraealla dittatura del segno. Questa è la « vera differenza » traFreud e Jung: differenza di diagnosi nell'identificazione delrimosso, e differenza di terapia che, invece di promuoverela subli-

(8) C. G. Jung, « Tipi psi-cologici », op. cit., p. 464.

(9) Ibidem, p. 464-465.

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inazione delle pulsioni, mette in gioco i simboli comeulteriorità di senso rispetto al senso codificato.Questo nesso che compone il processo di individuazionealla funzione trascendente, e la funzione trascendente alsimbolo, è la trama profonda e continuamente ribadita intutte le variazioni del pensiero junghiano.Schematicamente può essere letta in quel rinvio esplicitoche Jung stesso stabilisce tra le definizioni diIndividuazione e di Simbolo. « II processo di individua-zione — si legge infatti — è strettamente connesso con lacosiddetta funzione trascendente, in quanto, mediantequesta funzione, vengono date quelle linee di sviluppoindividuali che non potrebbero mai essere raggiunte perla via già tracciata da norme collettive (vedi la voceSimbolo] » (10). Sotto questa voce, l'ulteriorità di sensopromossa dalla funzione trascendente all'interno di unprocesso di individuazione è ricondotta all'atteggiamentosimbolico definito come « l'emanazione di unadeterminata concezione del mondo che attribuisce agliaccadimenti, ai grandi come ai piccoli, un senso, e aquesto senso attribuisce un determinato valore, maggioredi quello che è solito essere ascritto alla realtà di fatto,così come si presenta » (11).Promuovendo col linguaggio simbolico quest'ulteriorità disenso, questo senso « maggiore di quello che è solitoessere ascritto », Jung oltre a smascherare il controllo e ildominio sotteso alla logica della ragione occidentale, oltrea far emergere il carattere esclusivamente funzionale delsuo linguaggio, e le componenti efficientistiche econformistiche della sua etica, offre all'individuo lapossibilità di desituarsi, di oltrepassare la situazione chelo ospita e Io costringe, non con la repressione, ma con larimozione di ogni possibile senso ulteriore ed eccedente.Che qui si nasconda il vero disagio della civiltà ne ha ilsospetto Io stesso Freud là dove dice che « oltre agliobblighi cui siamo preparati, concernenti la restrizionepulsionale, ci sovrasta il pericolo di una condizione chepotremmo definire « la miseria psicologica della massa ».Questo pericolo incombe maggiormen-

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(10) Ibidem, p. 463-464.

(11) Ibidem, p. 486.

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tè dove il legame sociale s'è stabilito soprattutto attraversol'identificazione reciproca dei vari mèmbri... La presentecondizione della civiltà americana potrebbe offrire unabuona opportunità per studiare questo temuto male dellaciviltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica ditale civiltà, non voglio destare l'impressione che io stessoami servirmi dei metodi americani » (12).In questo rapido accenno al « legame sociale stabilito peridentificazione reciproca dei vari mèmbri » Freud superal'interpretazione " naturalistica » che sta alla base della suaconcezione della nevrosi come repressione delle pulsioni,per aprirsi all'epoca storica che però, per « esigenzescientifiche », lascia cadere come metodo. Jung, invece,che fa suo questo metodo, avverte che contro ogniulteriorità di senso si mobilita la razionalità del sistema,che quindi non reprime tanto le pulsioni (Freud) quanto isimboli nel tentativo di vanificare sul nascere ogni parolache si riferisca a sensi e a significati assenti dal sistema equindi potenzialmente sovversivi. Dare un nome alle coseassenti significa infatti spezzare la magia diffusa da quellepresenti, significa fare entrare un ordine differente entrol'ordine stabilito. Contro « il lavoro che fa vivere in noi ciòche non esiste » (13) si mobilita tutto il sistema con i suoistrumenti di censura, che vanno dal divieto più grossolanoalla più elegante mobilitazione dei media che, coordinandotra loro i mezzi di espressione e quindi le possibilità dicomprensione, rendono la comunicazione dei contenutitrascendenti tecnicamente impossibile.Questo pericolo è stato ben individuato da Heidegger inquelle pagine dedicate al dissolversi dell'esistenza nelmodo collettivo dell'esistere dove: « nell'uso dei mezzi ditrasporto, nei mezzi di trasmissione delle informazioni,ognuno è come l'altro. Un siffatto essere-assieme dissolvecompletamente il singolo esserci nel modo di essere deglialtri, sicché gli altri dileguano ancora di più nella lorodiversità e concretezza. In questa irrilevanza eimpersonalità, il Si {Man) esercita la sua tipica dittatura. Cela passiamo e ci divertiamo

(12) S. Freud, « II disagiodella civiltà », op. cit., p. 603.

(13) P. Valéry, « Poesie etpensée abstraite », inOuvres, Bibliothèque de laPlèiade, Paris, Gallimard,1947, p. 1333.

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come ce la si passa e ci si diverte, leggiamo, vediamo egiudichiamo di letteratura e di arte come si vede e sigiudica. Ci ritiriamo anche dalla « gran massa » come ci siritira, troviamo rivoltante ciò che si trova rivoltante. Il Si,che non è alcun essere determinato, bensì tutti, (ma noncome somma), decreta il modo di essere nella quotidianità(14).L'impersonalità del Si opera un livellamento di tutte lepossibilità di essere, di pensare, di volere, e quindi facilitaalla razionalità del sistema il proprio compito di controllo.Ciò che si lascia prevedere, infatti, si lascia anche piùfacilmente controllare. Livellando le esperienze e leaspirazioni, il collettivo è in grado di compiere la sua operadi repressione senza l'impiego di strumenti brutali chepotrebbero determinare la sua distruzione. Non solo, maavendo già anticipato l'ambito di ogni possibile decisione, ilSi sottrae ai singoli il peso della loro responsabilità e,gratificandoli dei mezzi necessari per portare acompimento le decisioni da loro prese, si rende gradito adessi, e così approfondisce il suo radicato dominio.Di qui l'« incomunicabilità » del linguaggio simbolico. Lasua eliminazione dall'alto e il disinteresse che lo circondadal basso concorrono nell'intento repressivo dellaprepotenza della regione, per la quale non esistonoproblemi che non possono essere discussi in modo pianoe ragionato o sottoposti a sondaggi d'opinione, nonesistono parole cariche di un senso loro proprio e specificoche non siano traducibili nel linguaggio coerente dellacomunicazione funzionale, non esiste la solitudinedell'individuo che con il suo linguaggio pregno di sensi e disignificati privati possa porsi contro e oltre la sua società.A questo proposito Rilke scriveva che « per i nostri avi,una 'casa', una 'fontana', una torre loro familiare, un abitoposseduto erano ancora qualcosa di infinitamente di piùche per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa eraun recipiente in cui rintracciavano e conservavanol'umano. Ora ci incalzano dall'America cose nuove eindifferenti, pseudocose, aggeggi per vivere. Una casa nelsenso americano, una

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(14) M. Heidegger, Essere etempo (1927), Torino,U.T.E.T., 1978, pp. 215-216.

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mela americana, o una vite americana non hanno nulla incomune con la casa, il frutto, il grappolo in cui eranoriposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri »(15).In rapporto alla vita quotidiana, il linguaggio simbolico èpassato e futuro, ha i toni dell'evocazione e dell'allusioneche l'universo razionale ha messo a tacere, privandolo delpeso e della capacità di esprimere l'umano. Unificando gliopposti e non esitando a esibire le proprie contraddizionicome contrassegno della sua sincerità, la razionalità sirende immune dalla sollecitazione simbolica, escludendoogni discorso che non si svolga nei propri termini. Inquesto modo, monopolizzando ogni significato possibile, larazionalità è in grado di accogliere anche i propri negatori,perché sa che questi non possono costituirsi se non comesuo dono, e non possono impiegare altro linguaggio senon quello che essa ha messo a loro disposizione; e così,assimilando tutti i termini dei discorsi possibili, puòcombinare la tolleranza con la massima unità.L'unità si consegue unificando le aree linguistiche dopoaverle svuotate della pregnanza simbolica che lesostanzia. Ciò è possibile con la creazione di un linguaggioche, fissando dei concetti, impedisce lo sviluppo el'espressione dei simboli, per accogliere solo segni ingrado di escludere tutto ciò che si oppone a talerisoluzione. In questo modo la razionalità del sistemaraggiunge lo scopo di dissolvere qualsiasi realtà che nonsia quella da essa stabilita, e così si immunizza da ogniopposizione che, in quanto trascendente il sistema, si ponecome potenzialmente distruttiva.La riduzione del simbolo a immagini fisse, come è ri-scontrabile nella letteratura di James Hillman mi paresostanzialmente infedele al metodo inaugurato da Jung,perché, come bene ha mostrato Mario Trevi nei suoi scritti,per Jung il simbolo è una traccia discorsiva che porta fuoridalle razionalizzazioni che le varie epoche storiche di voltain volta inaugurano. Il suo valore è « metaforico » per queltanto che le metafore

(15) R.M. Rilke, « Briefe ausMuzot », in GesammelteWerke, VI, Frankfurt a.M.,1961, p. 335.

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(16) J. Hillman, « Photos. Lanostalgia del puer aeternus »,in AA. VV., Dopo Jung,Milano, Franco Angeli, 1980,p. 135.

(17) J. Hillman, Re-visione

« portano fuori » (meta-forein). Il suo senso è affidato a unprogetto di eccedenza e non è articolato dal contenutomitico. Se così fosse, Jung, dopo aver liberato lapsicologia dal determinismo naturalistico di Freud,10 farebbe precipitare in un determinismo più sottile, manon meno cogente, quale è appunto il determinismoculturale in cui irrimediabilmente mi pare cada JamesHillman quando nei miti legge degli arche-tipi in sensoforte, cioè dei modelli originar! in cui è prescritta la vicendapsicologica di ognuno di noi.« Tutti gli eventi nel regno dell'anima, cioè tutti gli eventi e icomportamenti psicologici — scrive Hillman — hanno unasomiglianza, una corrispondenza, un'analogia con unmodello archetipico. Le nostre vite seguono figure mitiche;noi agiamo, pensiamo, sentiamo soltanto come ce loconsentono i modelli pri-mari stabiliti nel mondoimmaginale. Le nostre vite psicologiche sono mimetichedei miti. Come nota Proclo, i fenomeni secondari (le nostreesperienze personali) possono essere ricondotti a unterreno primario primordiale, con il quale entrano inrisonanza e a cui appartengono. Il compito della psicologiaarchetipica, e della terapia che ne deriva, è quello discoprireIl modello archetipico delle forme di comportamento.L'ipotesi è sempre che ogni cosa ha un aggancio daqualche parte: tutte le forme di psicopatologia hanno il lorosubstrato mitico e appartengono ai miti, o in essi hanno laloro dimora. Inoltre, la psicopatologia è essa stessa unmezzo per essere influenzati dal mito o per entrare nelmito » (16).Dunque il mito come modello: non più simbolo maemblema, non più trascendimento ma riconduzione, nonpiù storia ma archeologia. Inaugurazione del più rigidodeterminismo che neppure il gioco dell'immaginazioneriesce a mascherare se è vero che — sono parole diHillman — « non possiamo mai essere certi se siamo noiche immaginiamo loro, oppure loro noi. Tutto ciò chesappiamo è che non possiamo immaginare senza di loro; imiti sono le precondizioni della nostra immaginazione. Seli inventiamo allora lo facciamo con i modelli che essidepositano » (17).

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Con Hillman si dissolve quel delicato equilibrio tra libertà enecessità che aveva caratterizzato l'antropologia di Jung.L'uomo viene sottratto alla sua dimensione trascendente eprogettuale per essere ridotto a superficie di scrittura dovesono leggibili delle tracce indelebili, quasi un ostacoloall'oblio. Non più stimoli desituanti, ma segni che fannodella psiche una memoria. Anche se parla un linguaggioapparentemente antitetico, questa letteratura offre unottimo servizio alla pre-potenza della ragione del nostrotempo e ai mezzi con cui essa difende anticipatamente[pre] la propria potenza. Ogni conflitto che dovessenascere è infatti già pre-risolto nel linguaggio archetipicoche, pre-disponendo le modalità della sua formulazione,già pre-contiene la soluzione nei termini attesi. In assenzadel simbolo come ulteriorità di senso non esistono piùsoluzioni che oltrepassano l'ampiezza del problema,perché il senso è immediatamente costretto nei limiti dellaformulazione archetipica che lo esprime. Ma là dove non cisono « parole nuove », ma solo un linguaggioautovalidantesi in grado di controllare ogni cosa, sicomprende come mai l'uomo « desidera il fascismo » (18),la dittatura del Significante dispotico. Ciò non avviene perun imbroglio dell'inconscio, come prevede l'ipotesi diReich, ne per un gioco perverso nella dialettica che siinstaura tra interesse e desiderio come ritengono Deleuzee Guattari (19); ma perché quando il Codice è diventatototalitario, per sfuggire all'anomia, non resta altro dadesiderare che i segni del Codice di cui le cose, connotatee denotate, sono solo le portatrici. Rigorosa attuazione delmito platonico della caverna dove il Sole, il Significante di-spotico, proietta le ombre che i prigionieri vedono sullosfondo: « ombre di simulacri che alcuni uomini portanodavanti all'ingresso, non diversamente dai burattinai cheinnalzano un palco tra sé e gli spettatori, e al di soprarappresentano tante belle cose » [Repubblica, 514 b).Una volta saldato il desiderio all'ordine della rappre-sentazione, il desiderio perde la sua forza potenzialmentedesituante e desidera le « belle cose » che gli

psicologica (1975), Milano,Adelphi, 1983, p. 151.

(18) W. Reich, Psicologia dimassa e del fascismo (1933),Milano, SugarCo, 1976, p.19.

(19) G. Deleuze e F. Guattari,L'antì-Edipo (1972), Torino,Einaudi, 1975, p. 418-423.

Page 13: Realtà psichica e realtà storica nel pensiero di C. G. · PDF file75 (1) S. Freud, « II disagio della civiltà» (1929), in Opere 1924-1929, Torino, Boringhieri, 1980, pp. 627-628.

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vengono rappresentate. Non c'è più bisogno di « repri-merlo », di « rimuoverlo » per iscriverlo nella legge, perchédove la legge ha monopolizzato ogni ordine dellarappresentazione, dove non c'è spazio che non siaoccupato dai segni del codice, è il desiderio stesso chenon sa più esprimersi se non come desiderio del codice edesiderio della legge.A questo punto non basta più « rimuovere » il desiderioper costruire la civiltà come prevede ì'Edipo di Freud, cosìcome non basta « liberarlo » per rinnovare le sorti comeipotizza l'Anti-Edipo di Deleuze e Guat-tari. Quando ilcodice è diventato totalitario, e i suoi segni percorronotutta la terra, il desiderio è insufficiente a desituare, perchéè incapace di sporgere oltre le « belle cose » che glivengono rappresentate.A questo punto, se l'inconscio ospitasse so/o desideririmossi, come è previsto sia dall'ipotesi di Freud sia daquella di Deleuze e Guattari, la vicenda dell'uomo sarebbeconclusa nel momento in cui si dovesse giungere, come sista tentando, al controllo totale delle rappresentazioni. Mase l'inconscio dell'uomo, oltre al linguaggio del desiderio,conosce, come vuole Jung, anche il linguaggio del simbolointeso come eccedenza e ulteriorità di significazione, allorala strategia delle rappresentazioni predisposte daltotalitarismo del codice e dall'ordine delle sue iscrizioninon avrebbe partita vinta perché, a differenza deldesiderio, il simbolo « non rinvia a cose note » (20). Perquesta sua capacità eccedente l'ordine dei sensi codificati,il simbolo è avvenire.Jung ha compreso questa relazione e perciò, a differenzadi Freud, ha elevato a metodo il rapporto tra realtàpsichica e realtà storica. Così facendo ha additato quelloche forse sarà l'unico possibile futuro della psicologia delprofondo che, per essere fedele all'uomo e alla sua storia,deve rinunciare, come vuole l'indicazione di Jung, aimetodi delle scienze esatte e alla fissità dei loro modelli.

(20) C.G. Jung, Tipi psi-cologici, op. cit., p. 485.