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Rassegna stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA del 2 luglio 2018

Estratto da “LA SICILIA”

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Estratto dal GIORNALE DI SICILIA

Modica, Nicosia e Mistretta reclamano il Tribunale.

Modica

Nicosia, Mistretta e Modica reclamano la riapertura del Tribunale in virtù del «patto» sancito fa Lega e M5S.

L’associazione Confronto presieduta da Enzo Cavallo, che coordina la rivendicazione dei tre comuni siciliani andrà

venerdì prossimo a Roma per partecipare all'incontro del Coordinamento nazionale dei comitati costituiti a difesa dei

Tribunali soppressi in tutto il Paese. A decidere la partecipazione dell’associazione modicana è stata l'assemblea che ha

delegato Enzo Cavallo, componente storico del Comitato ProTribunale di Modica. Dalla città della Contea in cui ha sede il

Tribunale, soppresso negli anni scorsi per essere accorpato a quello di Ragusa, si alza anche la voce del comitato

regionale di cui è portavoce è Enzo Galazzo, dell'associazione Confronto e quella del consigliere comunale del

Movimento Cinque Stelle, Marcello Medica, fresco di elezioni nella civica assise di palazzo San Domenico. «Sulla

chiusura del Tribunale di Modica e sulla possibile ed auspicata riapertura ho già interpellato la deputazione regionale e

nazionale del M5S rappresentata da Stefania Campo e Marialucia Lorefice, affinché interagisca fattivamente, ognuno per

le proprie e rispettive competenze, con il neo ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede – afferma Medica – perché gli uffici

giudiziari vengano riaperti. Non dobbiamo dimenticare che la riapertura del Tribunale di Modica, assieme a quelli di altri

centri periferici in tutta Italia, fa parte integrante dell’attuale contratto di governo nazionale tra Movimento 5 Stelle e Lega.

Contratto che a pagina 22 spiega come occorre una rivisitazione della geografia giudiziaria modificando la riforma del

2012 che ha accentrato sedi e funzioni con l’obiettivo di riportare tribunali, procure ed uffici del giudice di pace vicino a i

cittadini e alle imprese».

Il consigliere Medica non manca di toccare il tasto del grande edificio di piazzale Beniamino Scucces attualmente

sottodimensionato. Infatti in esso, costato la somma di oltre 11 milioni e realizzato nel rispetto della normativa antisismica

ed edilizia, attualmente vi operano solo alcuni uffici del Giudice di Pace dopo le soppressioni delle sedi di Scicli e di

Ispica. Ad inglobare tutte le attività proprie delle materie giudiziarie e civili è il tribunale di Ragusa.

Da anni si sottolinea da più parti la necessità di riaprire i piccoli tribunali soppressi al fine di essere, come lo sono stati nel

passato, valvole di decongestionamento del lavoro in carico al Tribunale. Le speranze di una riapertura sono aumentate

dopo l'approvazione, alla Regione Sicilia, dell’emendamento e del sub emendamento che istituiscono un capitolo di spesa

dell’importo di 50 mila euro a favore di ciascuno dei Comuni di Nicosia, Modica e Mistretta finalizzati all’utilizzo dei palazzi

di giustizia dei Tribunali soppressi e alla convenzione tra la Regione ed il Ministero della Giustizia. Il documento congiunto

– sottoscritto dai sindaci di Modica, Nicosia e Mistretta e dai portavoce dei tre Comitati dei tre Comuni siciliani, indirizzato

alle massime autorità istituzionali della Regione tentendo la mano verso una piena collaborazione. In tutta Italia sono 31 i

Tribunale soppressi. «Si confida nel fatto che il governo non volti la testa dall’altra parte - afferma Enzo Galazzo,

portavoce Comitato pro Tribunale Modica – come è avvenuto sin qua, che si prenda atto del fallimento della legge sulla

geografia giudiziaria che ha provocato sprechi, che ha aggravarsi l’aspirazione di giustizia dei cittadini, specie di coloro

che, per gli insopportabili costi, hanno dovuto rinunciare a rivolgere al giudice per fare valere le proprie ragioni». (*pid*)

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Estratto dal GIORNALE DI SICILIA

Il presidente Musumeci al raduno dei leghisti.

La prima volta di un siciliano a Pontida: ed è polemica

Basta poco perché la «sindrome di Siracusa» che soltanto una settimana fa ha spalancato crepe nella maggioranza, diventi «mal di Pontida». La partecipazione di Nello Musumeci alla kermesse leghista al fianco di Matteo Salvini, le ferite le ha allargate, dopo che nel capoluogo aretuseo uno del suo stato maggiore - non uno qualunque, Fabio Granata - ha prima corso da solo e poi si è tirato fuori dal sostegno al ballottaggio del candidato sindaco dell’«altro» centrodestra, quello azzurro e centrista.

Basta poco, due righe, a Gianfranco Micciché, leader siciliano di Forza Italia e presidente dell’Ars, per accendere la miccia mentre l’alleato Nello Musumeci, presidente della Regione e capo della destra sociale di Diventerà Bellissima, parla e passa la giornata nel tempio del salvinismo. A molti farebbe gola che il cerino gli restasse in mano, dall’opposzione Cinque stelle a Palermo fino (va da sé) al Pd e, quello che più conta, anche a pezzi di Forza Italia. «Preferisco un presidente Musumeci_Staff che parla di Sud al tavolo col ministro Lezzi, piuttosto che quello in piedi che applaude Matteo Salvinimi sul prato di Pontida», ha twittato Micciché con tanto di hashtag giusto perché non si dica che ha parlato a nuora perché suocera intenda. Addirittura un suo avversario irriducibile, l’alto quadro dem Antonio Rubino, lo riprende e cita, rincarando poi la dose con una nota: «La notizia non mi stupirebbe più di tanto ma se fosse confermata potremmo dire di avere il primo governatore leghista di una regione del sud», ironizza, attaccando pure il fedelissimo di Musumeci Ruggero Razza, assessore alla Salute. Il compagno di partito e deputato Carmelo Miceli parla di «servo encomio di Musumeci a Salvini in quel di Pontida, un insulto alla Sicilia, alla sua storia e alla dignità di un popolo da sempre dileggiato e oltraggiato dal leader dei padani».

Il Movimento 5 Stelle dribbla con destrezza, nello scomodo doppio ruolo di partner di governo di Salvini a Roma e di furente oppositore del centrodestra al potere a Palermo. «Musumeci dica chiaramente ai suoi elettori da che parte vuole stare, invece di sostare nel limbo dell'ambiguità - dichiara Cancelleri -. Sta con Forza Italia? Con la Lega? O con due piedi in una scarpa? Renda atto che governa sulle sabbie mobili», dice la capogruppo Valentina Zafarana. Rincara la dose il vicepresidente dell’Ars Giancarlo Cancelleri, che stocca da una parte e dall’altra dando del «raccattapalle» a Micciché. «Mentre in Sicilia governa con Forza Italia, Musumeci va al raduno della Lega. Solo il peggiore dei dorotei democristiani - afferma Cancelleri - potrebbe farlo: sono due cose incompatibili. Coerenza vorrebbe che Forza Italia uscisse dal governo della Regione, ma ormai è fin troppo evidente che Micciché e soci preferiscono fare i raccattapalle di Musumeci».

Per un altro deputato 5 Stelle, l’ex capogruppo Sergio Tancredi, la maggioranza traballa eccome. E non c’è nulla da scandalizzarsi per «la novità di un governatore siciliano che parla a Pontida. È l’esempio lampante che è arrivato il momento di prendere coscienza che i vecchi cliché sono definitivamente superati e che è diventato prioritario ragionare sui processi di cambiamento necessari per dare risposte ad una nazione in grande difficoltà, passando anche dal raccordo con le regioni. Questo passaggio, soprattutto per quello che riguarda il federalismo, era stato ampiamente anticipato da Grillo in un post del 2010. Se questa novità di Musumeci in salsa leghista aprirà scenari nuovi, lo vedremo presto anche in Assemblea regionale. È chiaro che la coalizione che gli ha permesso di diventare presidente, di fatto non esiste».

Musumeci a Pontida non era l’unico presidente di Regione invitato e presente. Con lui i colleghi della Liguria Giovanni Toti, forzista alleato in giunta con la Lega, della Lombardia Attilio Fontana e del Molise Donato Toma. Le foto a sorriso unificato si sono sprecate. Toma diffende la scelta, sua e di Musumeci: «Non potevo non essere a Pontida per salutare un partito alleato e ringraziare tutti i parlamentari della Lega che sono venuti fisicamente in Molise a sostenere la nostra coalizione. Io sono un presidente di centrodestra - ha continuato Toma - eletto da una coalizione unita e compatta. Dialogo istituzionalmente con il governo, l’unità del centrodestra non è messa in discussione. Viviamo una fase dinamica della vita politica: Silvio Berlusconi, con grande senso di responsabilità, ha dato l’ok alla formazione di un governo tra i due partiti che hanno ottenuto più voti e che hanno trovato una convergenza programmatica per superare l’impasse».

Forza Italia ieri si è presa una pausa domenicale nelle esternazioni. Una sua esponente di punta, l’ex ministro Stefania Prestigiacomo, che a proposito di «sindrome» e di Siracusa ne sa più di chiunque altro, si è tirata fuori dai commenti al Pontida-day. Sui desk dei giornali la nota indirizzata dal gruppo azzurro all’Ars, firmata dal deputato regionale Michele Mancuso: «Ai partecipanti siciliani alla festa di Pontida consiglierei, piuttosto che pensare a fermare i migranti per poi far finta di impietosirvi dinanzi ai poveri bimbi annegati, fermate le navi cariche di grano che da tutto il mondo vengono ad avvelenare la salute e l’economia siciliana».

Salvatore Ferro

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Estratto dal GIORNALE DI SICILIA

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Estratto dal GIORNALE DI SICILIA

Via D’Amelio, tanti interessi dietro al depistaggio.

Palermo Leopoldo Gargano

Un quarto di secolo dopo, sulla strage Borsellino si conosce soltanto un’amara e sconvolgente verità. Alcuni che hanno indagato per anni sull’eccidio hanno commesso «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana» che ha avuto come protagonisti uomini delle istituzioni. È il giudizio senza mezzi termini espresso dalla corte d’assise di Caltanissetta, presidente Antonio Balsamo, che 14 mesi fa concluse l’ultimo processo sulla strage: quello scaturito dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. E in una motivazione lunga 1.856 pagine, punta il dito contro i servitori infedeli dello Stato che imbeccarono manovali del crimine, diventati improvvisamente pentiti di primo piano nella lotta a Cosa nostra. Ne venne fuori una falsa verità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino e alla sua scorta, condannati con una sfilza di ergastoli. E così si sarebbe chiusa la vicenda se una decina d’anni dopo non avesse iniziato a parlare Spatuzza, killer di padre Pino Puglisi e reggente del mandamento di Brancaccio, la cosca che più di ogni altra avrebbe partecipato all’organizzazione dell’attentato. Le motivazioni riguardano il dispositivo che, il 20 aprile del 2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di «una serie impressionante - scrivono i giudici - di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» venne dichiarata la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri. Le reali conoscenze di Scarantino sulla strage sono pressoché nulle e la sua competenza criminale in un attentato di questo livello viene così bollata: «Scarantino palesa una incompetenza assoluta in materia di esplosivi - si legge - mostrando di ritenere che l’esplosione di una “bombola” faccia un danno molto maggiore di quello che si potrebbe provocare con un comune esplosivo. Ma è evidente anche che lo Scarantino non sa nulla circa le modalità di confezione della carica esplosiva utilizzata in via D’Amelio». Ed i giudici a questo proposito sottolineano la nota che venne scritta da due pubblici ministeri dell’epoca. «Non a caso, già gli appunti di lavoro per la riunione della Dda del 13 ottobre 1994, predisposti dalla dottoressa Ilda Boccassini e dal dottor Roberto Saieva - scrivono i magistrati - segnalavano che l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino in ordine alla partecipazione alla strage di via D’Amelio... di Cancemi, La Barbera e Di Matteo (ma anche di Raffaele Ganci) suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di tale collaboratore». Invece proprio il falso racconto di Scarantino per anni è stato al centro di indagini, processi e sentenze. Come sia potuto accadere è ancora oscuro ed è il tema delle nuove indagini avviate sul maxi depistaggio.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il processo per tre poliziotti del «gruppo stragi», guidato dall’ex capo della squadra mobile e della questura di Palermo, Arnaldo La Babera, deceduto da anni. Sotto inchiesta il funzionario Mario Bo, che è stato già indagato per gli stessi fatti e che ha aveva ottenuto l’archiviazione, ed i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono accusati di calunnia.

Ma dietro questo colossale imbroglio, su una delle vicende più terribili della Repubblica, non possono esserci certo solo tre funzionari di polizia, più il loro capo. A tirare le fila ci sarebbero uomini dello Stato, mossi da «un proposito criminoso», che avrebbero esercitato «in modo distorto i poteri». Su mandanti e coordinatori del depistaggio si sa ancora poco o nulla, sugli esecutori qualcosa in più. Nel mirino c’è sempre il famoso «gruppo stragi» guidato da La Barbera. Il cui metodo d’indagine prevedeva singolari comportamenti. «Mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia - si legge - dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie d i appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo “Borsellino uno”».

Alla gestione anomala di Scarantino, si aggiunge il mistero dell’agenda rossa di Borsellino. «Si è già sottolineato il ruolo fondamentale assunto, nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, dal dottor Arnaldo La Barbera, il quale è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». Mandanti ancora nell’ombra, forse gli stessi che subito dopo organizzarono il depistaggio. Da ricercare non solo tra gli uomini dello Stato ma anche nel mondo della finanza e degli affari. A questo proposito i giudici citano le dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè e perfino le ultime parole dette da Borsellino alla moglie.

«L’indagine sulle reali finalità del depistaggio - conclude la corte - non può, poi, prescindere dalla considerazione sia delle dichiarazioni di Antonino Giuffrè (il quale ha riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico, ha precisato che questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a “fare affari” con essa, ha ricondotto a tale contesto l’isolamento – anche nell’ambito giudiziario - che portò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha chiarito che la stessa strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione - rivelatasi poi infondata - che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla “normalità”), sia delle circostanze confidate da Paolo Borsellino alle persone a lui più vicine nel periodo che precedette la strage di via D’Amelio. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”, e la drammatica percezione, da parte del magistrato, dell’esistenza di un “colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”». La figlia di Borsellino, Fiammetta chiede che la sentenza sia «solo il punto di partenza. Ora le motivazioni ci sono. Mi aspetto quindi che il procedimento disciplinare vada avanti. Finora il Csm è stato purtroppo silente».

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Estratto da “LA SICILIA”

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Estratto da “LA REPUBBLICA”

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Estratto dal GIORNALE DI SICILIA

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Estratto da “LA REPUBBLICA”

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Estratto da “LA SICILIA”