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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 8 febbraio 2017 SOMMARIO “Il potere attacca l’informazione quando è in difficoltà – scrive il direttore di Repubblica Mario Calabresi nel duro editoriale di oggi -, quando la vive come un intralcio alla sua azione o alla sua narrazione. Succede da sempre, ma oggi i nuovi potenti, che amano comunicare direttamente con i cittadini senza fastidiose mediazioni e senza il rischio di fastidiose domande, sono più radicali e cercano di risolvere il problema all’origine: delegittimare i giornalisti. I nuovi potenti amano raffigurarsi come outsider, si chiamino Trump o Grillo, come freschi e genuini rappresentanti del popolo a cui giornalisti e giudici cercano invece di mettere i bastoni tra le ruote. Nel caso italiano la polemica contro i magistrati ancora non c’è ma è solo questione di tempo. Il Movimento non governa ancora il Paese ma ha già conquistato la sua capitale e ha capito che nella strada verso Palazzo Chigi l’informazione può essere un ostacolo. Questi nuovi potenti, che hanno costruito le loro fortune sulla critica radicale di ogni establishment e sulla promessa di trasparenza, dovrebbero essere abituati alla dialettica, dovrebbero accettare il confronto, invece appaiono, se possibile, più segreti e opachi dei loro predecessori. Guardate Trump, un uomo che manipola la comunicazione e squalifica chiunque metta in evidenza incongruenze e bestialità, siano essi i giudici o i giornali, arrivando ad accusarli di una sorta di complicità col terrorismo per cercare di silenziarli. Lo ha fatto fin dall’inizio della sua presidenza, indicando l’informazione come la vera opposizione, non per riconoscerne la funzione di cane da guardia del potere bensì per additarla come nemico. Lo stesso nemico che due settimane fa Alessandro Di Battista ha indicato agli ambulanti che manifestavano di fronte a Montecitorio, ottenendone come risultato grida in cui si prometteva di ammazzare quei servi maledetti che sono i giornalisti. Guardate Grillo: mai una conferenza stampa, mai un confronto, mai risposte limpide e chiare alle domande. Solo post sul blog, su Twitter e su Facebook in cui dispensa insulti e contumelie verso tutti coloro che disturbano il nuovo manovratore. Nessuno ha accesso alla Casaleggio, nessuno può chiedere conto di come si formino i processi decisionali (dalla nascita della giunta Raggi alla decisione, poi abortita, di lasciare Farage in Europa) e nessuno ottiene risposte se si permette di chiedere. Ieri sera Luigi Di Maio ha accusato giornali e giornalisti di aver orchestrato una campagna diffamatoria contro Virginia Raggi, di cui non si raccontano invece i successi. Si tratta dello stesso vicepresidente della Camera che per settimane la scorsa estate ha negato e tenuto nascosta la notizia dell’inchiesta sull’ex assessora Muraro. Nel merito delle accuse, ma soprattutto nel merito delle omissioni, entra con grande precisione Carlo Bonini all’interno del giornale, ma c’è qualcosa che continua a non tornare: perché il Movimento non fa chiarezza una volta per tutte sulle opacità e sugli inquietanti interrogativi di un gruppo di potere che ha circondato la sindaca di Roma accompagnandone l’ascesa e le prime mosse? Perché non indica nei dettagli idee e programmi? Ma soprattutto perché i grillini non imparano ad accettare che la conquista del potere porta ad un necessario cambio di status: da controllori a controllati o perlomeno controllabili? Non si può pensare di avere una delega in bianco soltanto perché si arriva da fuori, soltanto perché si è giovani e nuovi. Non basta. Il giornalismo italiano non gode di ottima salute e il nostro sistema di informazione paga un deficit di credibilità e fiducia. Lo sappiamo e ci sforziamo ogni giorno di migliorare per colmarlo. Quando Grillo rappresenta elegantemente questo giornale come un rotolo di carta igienica indica la fine che ci augura. Ci preferirebbe addomesticati, come si è sempre illusa di fare la politica, ridotti a cantori, intenti a raccontare le magnifiche sorti di una città come Roma che dovrebbe rinascere e invece è abbandonata a se stessa. Anche se forse converrebbe metterci dove tira il vento e non di traverso, continueremo a formulare domande ad alta voce, a pretendere risposte e a fare denunce. Lo abbiamo fatto con la Dc e i socialisti, con

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 8 febbraio 2017

SOMMARIO

“Il potere attacca l’informazione quando è in difficoltà – scrive il direttore di Repubblica Mario Calabresi nel duro editoriale di oggi -, quando la vive come un

intralcio alla sua azione o alla sua narrazione. Succede da sempre, ma oggi i nuovi potenti, che amano comunicare direttamente con i cittadini senza fastidiose

mediazioni e senza il rischio di fastidiose domande, sono più radicali e cercano di risolvere il problema all’origine: delegittimare i giornalisti. I nuovi potenti amano

raffigurarsi come outsider, si chiamino Trump o Grillo, come freschi e genuini rappresentanti del popolo a cui giornalisti e giudici cercano invece di mettere i

bastoni tra le ruote. Nel caso italiano la polemica contro i magistrati ancora non c’è ma è solo questione di tempo. Il Movimento non governa ancora il Paese ma ha già

conquistato la sua capitale e ha capito che nella strada verso Palazzo Chigi l’informazione può essere un ostacolo. Questi nuovi potenti, che hanno costruito le

loro fortune sulla critica radicale di ogni establishment e sulla promessa di trasparenza, dovrebbero essere abituati alla dialettica, dovrebbero accettare il

confronto, invece appaiono, se possibile, più segreti e opachi dei loro predecessori. Guardate Trump, un uomo che manipola la comunicazione e squalifica chiunque metta

in evidenza incongruenze e bestialità, siano essi i giudici o i giornali, arrivando ad accusarli di una sorta di complicità col terrorismo per cercare di silenziarli. Lo ha fatto fin dall’inizio della sua presidenza, indicando l’informazione come la vera

opposizione, non per riconoscerne la funzione di cane da guardia del potere bensì per additarla come nemico. Lo stesso nemico che due settimane fa Alessandro Di Battista ha indicato agli ambulanti che manifestavano di fronte a Montecitorio, ottenendone

come risultato grida in cui si prometteva di ammazzare quei servi maledetti che sono i giornalisti. Guardate Grillo: mai una conferenza stampa, mai un confronto, mai

risposte limpide e chiare alle domande. Solo post sul blog, su Twitter e su Facebook in cui dispensa insulti e contumelie verso tutti coloro che disturbano il nuovo

manovratore. Nessuno ha accesso alla Casaleggio, nessuno può chiedere conto di come si formino i processi decisionali (dalla nascita della giunta Raggi alla decisione,

poi abortita, di lasciare Farage in Europa) e nessuno ottiene risposte se si permette di chiedere. Ieri sera Luigi Di Maio ha accusato giornali e giornalisti di aver orchestrato una campagna diffamatoria contro Virginia Raggi, di cui non si raccontano invece i successi. Si tratta dello stesso vicepresidente della Camera che per settimane la

scorsa estate ha negato e tenuto nascosta la notizia dell’inchiesta sull’ex assessora Muraro. Nel merito delle accuse, ma soprattutto nel merito delle omissioni, entra con grande precisione Carlo Bonini all’interno del giornale, ma c’è qualcosa che continua a non tornare: perché il Movimento non fa chiarezza una volta per tutte sulle opacità e sugli inquietanti interrogativi di un gruppo di potere che ha circondato la sindaca di

Roma accompagnandone l’ascesa e le prime mosse? Perché non indica nei dettagli idee e programmi? Ma soprattutto perché i grillini non imparano ad accettare che la

conquista del potere porta ad un necessario cambio di status: da controllori a controllati o perlomeno controllabili? Non si può pensare di avere una delega in

bianco soltanto perché si arriva da fuori, soltanto perché si è giovani e nuovi. Non basta. Il giornalismo italiano non gode di ottima salute e il nostro sistema di

informazione paga un deficit di credibilità e fiducia. Lo sappiamo e ci sforziamo ogni giorno di migliorare per colmarlo. Quando Grillo rappresenta elegantemente questo giornale come un rotolo di carta igienica indica la fine che ci augura. Ci preferirebbe addomesticati, come si è sempre illusa di fare la politica, ridotti a cantori, intenti a

raccontare le magnifiche sorti di una città come Roma che dovrebbe rinascere e invece è abbandonata a se stessa. Anche se forse converrebbe metterci dove tira il

vento e non di traverso, continueremo a formulare domande ad alta voce, a pretendere risposte e a fare denunce. Lo abbiamo fatto con la Dc e i socialisti, con

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Berlusconi come con tutte le sigle dell’ex Pci fino all’odierno Pd, di cui abbiamo raccontato scandali e reclamato più volte dimissioni e passi indietro. E non ci battiamo

per conto di qualcuno, ma solo per i nostri lettori e per i cittadini, che meritano di vivere con gli occhi aperti. Perché ogni volta che un potente, anche se nuovo di

zecca, attacca ferocemente chi lo critica, allora bisogna preoccuparsi e non abbassare la testa” (a.p.)

In questa Rassegna il testo integrale del messaggio per la Quaresima 2017 di Papa

Francesco sul tema “La Parola è un dono. L’altro è un dono”

3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 3 Sud, l’ingiustizia finalmente da sanare di Angelo Scelzo Chiese delle regioni meridionali a convegno Pag 14 “Apriamo le porte al debole, al povero” Il messaggio per la Quaresima del Papa: ogni vita che ci viene incontro è un dono e merita accoglienza CORRIERE DELLA SERA Pag 11 I giovani del Sud foglie al vento”. La mossa della Chiesa sul lavoro di Marco Demarco I vescovi preparano un documento. Sarà il quarto dal dopoguerra LA REPUBBLICA Pag 17 “Nostro figlio vittima dell’ex prete per colpa della Chiesa e dei suoi silenzi” di Giuliano Foschini Foggia, la rabbia dei genitori del giovane abusato da don Trotta Pag 17 Il Vaticano sulle diocesi: poche le denunce di Paolo Rodari Un alto prelato: senza l’obbligo di segnalare gli abusi, in Italia non ci sarà nessun “caso Spotlight” SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Ultime da Santa Marta. Porte aperte alle donne sacerdote 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 18 “La mia generazione è perduta. Mai un lavoro, vi dico addio” di Andrea Pasqualetto e Alessandra Arachi Udine, la lettera in cui un 30enne spiega il suo suicidio. Lo psichiatra: “Il precariato aumenta le sofferenze di chi sta male” Pag 19 Martina firma il contratto a dieci giorni dal parto. “E’ incinta? La assumiamo” di Alice D’Este Il titolare dell’azienda: licenziarono mia moglie, non sarò come loro AVVENIRE Pag 3 L’impresa giovane è “ibrida”, il sociale non ha più confini di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai Così la mutazione del non profit contagia il mercato Pag 9 Scuola, la crescita inarrestabile dei Licei di Paolo Ferrario Scelti dal 54,6% dei ragazzi. Il 30,3% andrà al Tecnico e il 15,1% al Professionale CORRIERE DEL VENETO

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Pag 5 Assunta al nono mese, quando l’impresa crede nel valore delle donne di Sara D’Ascenzo Mestre, la nuova vita di Martina e la scelta di Creative Way LA NUOVA Pag 1 È il sistema del credito da cambiare di Franco A. Grassini Pag 6 Spread, malattia da curare in fretta di Roberta Carlini 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 23 Tumori, più malati ma ora si guarisce di Simone Bianchi Crescono i numeri delle diagnosi e anche le possibilità di farcela. Morandi (8Ospedale dell’Angelo): “Grazie a tecnologia e nuovi farmaci” 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 11 “Mose, nessuna data esatta per la conclusione dei lavori” di Roberta Brunetti Preoccupato il provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti: “Stiamo creando un crono programma, ma sono tante le incognite” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX “Il Comune sposti Ca’ Letizia” di Alvise Sperandio Venturini apre alla proposta, San Vincenzo e Caritas: “Disposti al dialogo” Pag IX “Repressione? No, serve più mediazione” di Raffaele Rosa Confronto fra l’assessore alla Coesione sociale e il sociologo Bettin al Laurentianum su degrado e povertà CORRIERE DEL VENETO Pag 11 “Faremo funzionare il Mose. Le bonifiche? Spettano a noi” di Alberto Zorzi Intervista al nuovo provveditore Linetti Pag 12 Bissuola, via i cubi ma al parco arriva la biblioteca per ragazzi di Alice D’Este Periferie sociali, confronto tra Venturini e Bettin LA NUOVA Pag 25 I cubi dividono Bettin e Venturini di s.b. Dibattito al Laurentianum. L’assessore: “Creavano solo disagio”. Il sociologo: “Serve altro” Pag 25 “Un tavolo sui problemi di Ca’ Letizia” di m.ch. Appello del comitato di via Querini 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Il Nordest che appare rassegnato di Giancarlo Corò … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 2 È finita la guerra? di Davide Frattini Putin, l’Isis e le trattative per la pace: capire (oggi) il conflitto. Siria, 13mila scomparsi in carcere

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Pag 10 Il paradosso di un governo sostenuto dalle minoranze di Massimo Franco Pag 15 Perché il Marocco “cancella” la pena di morte per l’apostasia di Roberto Tottoli LA REPUBBLICA Pag 1 I nuovi potenti e l’informazione di Mario Calabresi LA STAMPA Proporzionale, un ritorno con molti rischi di Giovanni Sabbatucci AVVENIRE Pag 1 Il mercato della vita di Giuseppe Anzani Sulla pelle dei poveri e dei deboli L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Al di sopra della politica di Lucetta Scaraffia I cattolici di fronte ai temi cruciali del nostro tempo IL GAZZETTINO Pag 1 Unione Europea, un’altra fuga può disintegrarla di Giulio Sapelli LA NUOVA Pag 8 Donald e Beppe, i “gemelli” di Claudio Giua

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 3 Sud, l’ingiustizia finalmente da sanare di Angelo Scelzo Chiese delle regioni meridionali a convegno Poco manca, con i (difficili) tempi che corrono, che parlare del Mezzogiorno d’Italia venga preso come una provocazione bella e buona. Più che a un tema da rimettere in corso sembra di essere di fronte a una condanna già passata in giudicato, sulla quale non conviene sprecare altre risorse. E di nessun tipo, poiché le cifre, il clima sociale, la progressiva decomposizione di un’emergenza troppe volte sopravvissuta a se stessa portano a considerare come inattuale ogni ulteriore tentativo di riportare il Sud al centro di un concreto interesse generale. C’è anche poco da illudersi, in partenza, che l’accoglienza possa cambiare se è la Chiesa a scendere in campo, dal momento che il muro della diffidenza è alto di per sé, e si erige in maniera implacabile contro chi tenti una qualche uscita fuori dal coro di un’economia resa sempre più severa dai suoi stessi fallimenti. Appare anzi realistico mettere in conto perfino una certa dose di insofferenza, di fronte a un’iniziativa che viene a richiamare che il problema del Sud non è solo questione di cifre e di bilanci, e che semmai si è di fronte a una colossale ingiustizia della quale l’intero Paese – anche per salvare se stesso – non può continuare a disinteressarsi. La Chiesa italiana che rimette in prima linea il Mezzogiorno, sotto la spinta del magistero di papa Francesco, è una notizia di giornata, ma con una lunga storia alle spalle. A Napoli oggi e domani si riuniranno, su iniziativa della diocesi, le Chiese delle sei regioni meridionali (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna). Non si tratterà, neppure tecnicamente, di un convegno, ma una volta tanto di un punto di arrivo, al centro un tema ben definito – 'Chiesa e lavoro: quale futuro per i giovani del Sud?' – per illustrare e porre in relazione iniziative e progetti già in corso nelle varie diocesi e tutte orientate allo sviluppo e all’occupazione, pilastri tuttora malfermi della realtà meridionale. Fare il punto di fatti già in corso è un passo avanti

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rispetto alla prospettiva di elaborare nuove analisi sul corpo già ampiamente sezionato di una parte considerevole del Paese. Non che lo studio dei segni di cambiamento e dei dati vadano messi da parte, ma è certo che la realtà segnala al di sopra di tutto l’urgenza di interventi mirati e non evanescenti. Suonano a distesa da tempo le sirene di un allarme il cui primo rischio è l’assuefazione a uno stato perenne di pronto soccorso sociale: la disoccupazione alle stelle – in Calabria e Sicilia per i giovani si raggiungono punte del 40% –, la rete di servizi smagliata da ogni parte – la sanità in prima linea –, la malavita che spadroneggia e ingrassa, nello scenario di un territorio di suggestiva bellezza, ma devastato dallo sfruttamento e sfregiato dall’incuria e dagli interessi di pochi. Non è possibile accostarsi a tutto ciò senza pensare alla necessità di far presto e, allo stesso tempo, omettere di considerare la costante condivisione che la Chiesa ha saputo innestare nella storia tormentata del Mezzogiorno. Napoli, con i segni ancora rintracciabili dell’antica capitale, rappresenta l’emblema di tutto: il vecchio e il nuovo, oltre che le mille contraddizioni di un’area che non trova pace e continua a rincorrere speranze spesso inafferrabili. Proprio da Napoli, però, ha preso avvio l’impegno sistematico della Chiesa del Sud, dal caposaldo della 'Lettera collettiva dell’episcopato meridionale' pubblicata nel 1948, lo stesso anno della Costituzione. Quel documento rappresentò un fatto costitutivo dal momento che aprì il campo a una lunga serie di interventi, dottrinali e sociali, della Chiesa sul Mezzogiorno, diventato col tempo problema non solo territoriale. Fu tale consapevolezza a spingere la Chiesa italiana nel 1989 a porre a capo del suo documento («Sviluppo nella solidarietà: Chiesa italiana e Mezzogiorno») l’affermazione che «il Paese non crescerà se non insieme». Era stata forte in quegli anni la spinta del magistero di Giovanni Paolo II, più volte pellegrino nel Mezzogiorno, grazie al quale la «questione meridionale» assunse una precisa rilevanza ecclesiologica. Vent’anni dopo, nel febbraio del 2009, Napoli attualizzò con un incontro delle Chiese meridionali i temi essenziali emersi da quel testo. È la Chiesa di Napoli, con il suo pastore, il cardinale Sepe, a riprendere ora il filo di discorsi mai interrotti, ma certo da aggiornare di fronte alle nuove e più aspre sfide di tempi che cambiano. Pag 14 “Apriamo le porte al debole, al povero” Il messaggio per la Quaresima del Papa: ogni vita che ci viene incontro è un dono e merita accoglienza Pubblichiamo il Messaggio di papa Francesco per la Quaresima 2017 sul tema “La Parola è un dono. L’altro è un dono”. Cari fratelli e sorelle, la Quaresima è un nuovo inizio, una strada che conduce verso una meta sicura: la Pasqua di Risurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte. E sempre questo tempo ci rivolge un forte invito alla conversione: il cristiano è chiamato a tornare a Dio «con tutto il cuore» (Gl 2,12), per non accontentarsi di una vita mediocre, ma crescere nell’amicizia con il Signore. Gesù è l’amico fedele che non ci abbandona mai, perché, anche quando pecchiamo, attende con pazienza il nostro ritorno a Lui e, con questa attesa, manifesta la sua volontà di perdono (cfr Omelia nella S. Messa, 8 gennaio 2016). La Quaresima è il momento favorevole per intensificare la vita dello spirito attraverso i santi mezzi che la Chiesa ci offre: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. Alla base di tutto c’è la Parola di Dio, che in questo tempo siamo invitati ad ascoltare e meditare con maggiore assiduità. In particolare, qui vorrei soffermarmi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19- 31). Lasciamoci ispirare da questa pagina così significativa, che ci offre la chiave per comprendere come agire per raggiungere la vera felicità e la vita eterna, esortandoci ad una sincera conversione. 1. L’ALTRO È UN DONO - La parabola comincia presentando i due personaggi principali , ma è il povero che viene descritto in maniera più dettagliata: egli si trova in una condizione disperata e non ha la forza di risollevarsi, giace alla porta del ricco e mangia le briciole che cadono dalla sua tavola, ha piaghe in tutto il corpo e i cani vengono a leccarle (cfr vv. 20-21). Il quadro dunque è cupo, e l’uomo degradato e umiliato. La scena risulta ancora più drammatica se si considera che il povero si chiama Lazzaro: un nome carico di promesse, che alla lettera significa «Dio aiuta» . Perciò questo personaggio non è anonimo, ha tratti ben precisi e si presenta come un individuo a cui associare una storia personale. Mentre per il ricco egli è come invisibile, per noi diventa

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noto e quasi familiare, diventa un volto; e, come tale, un dono, una ricchezza inestimabile, un essere voluto, amato, ricordato da Dio, anche se la sua concreta condizione è quella di un rifiuto umano (cfr Omelia nella S. Messa, 8 gennaio 2016). Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono. La giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore. Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita. Il primo invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto. La Quaresima è un tempo propizio per aprire la porta ad ogni bisognoso e riconoscere in lui o in lei il volto di Cristo. Ognuno di noi ne incontra sul proprio cammino. Ogni vita che ci viene incontro è un dono e merita accoglienza, rispetto, amore. La Parola di Dio ci aiuta ad aprire gli occhi per accogliere la vita e amarla, soprattutto quando è debole. Ma per poter fare questo è necessario prendere sul serio anche quanto il Vangelo ci rivela a proposito dell’uomo ricco. 2. IL PECCATO CI ACCECA - La parabola è impietosa nell’evidenziare le contraddizioni in cui si trova il ricco (cfr v. 19). Questo personaggio, al contrario del povero Lazzaro, non ha un nome, è qualificato solo come 'ricco'. La sua opulenza si manifesta negli abiti che indossa, di un lusso esagerato. La porpora infatti era molto pregiata, più dell’argento e dell’oro, e per questo era riservato alle divinità (cfr Ger 10,9) e ai re (cfr Gdc 8,26). Il bisso era un lino speciale che contribuiva a dare al portamento un carattere quasi sacro. Dunque la ricchezza di quest’uomo è eccessiva, anche perché esibita ogni giorno, in modo abitudinario: «Ogni giorno si dava a lauti banchetti» (v. 19). In lui si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre momenti successivi: l’amore per il denaro, la vanità e la superbia (cfr Omelia nella S. Messa, 20 settembre 2013). Dice l’apostolo Paolo che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm6, 10). Essa è il principale motivo della corruzione e fonte di invidie, litigi e sospetti. Il denaro può arrivare a dominarci, così da diventare un idolo tirannico (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 55). Invece di essere uno strumento al nostro servizio per compiere il bene ed esercitare la solidarietà con gli altri, il denaro può asservire noi e il mondo intero ad una logica egoistica che non lascia spazio all’amore e ostacola la pace. La parabola ci mostra poi che la cupidigia del ricco lo rende vanitoso. La sua personalità si realizza nelle apparenze, nel far vedere agli altri ciò che lui può permettersi. Ma l’apparenza maschera il vuoto interiore. La sua vita è prigioniera dell’esteriorità, della dimensione più superficiale ed effimera dell’esistenza (cfr ibid., 62). Il gradino più basso di questo degrado morale è la superbia. L’uomo ricco si veste come se fosse un re, simula il portamento di un dio, dimenticando di essere semplicemente un mortale. Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è dunque una sorta di cecità: il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione. Guardando questo personaggio, si comprende perché il Vangelo sia così netto nel condannare l’amore per il denaro: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). 3. LA PAROLA È UN DONO - Il Vangelo del ricco e del povero Lazzaro ci aiuta a prepararci bene alla Pasqua che si avvicina. La liturgia del Mercoledì delle Ceneri ci invita a vivere un’esperienza simile a quella che fa il ricco in maniera molto drammatica. Il sacerdote, imponendo le ceneri sul capo, ripete le parole: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai». Il ricco e il povero, infatti, muoiono entrambi e la parte principale della parabola si svolge nell’aldilà. I due personaggi scoprono improvvisamente che « non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via» (1 Tm 6,7). Anche il nostro sguardo si apre all’aldilà, dove il ricco ha un lungo dialogo con Abramo, che chiama «padre» (Lc 16,24.27), dimostrando di far parte del popolo di Dio. Questo particolare rende la sua vita ancora più contraddittoria, perché finora non si era detto nulla della sua relazione con Dio. In effetti, nella sua vita non c’era posto per Dio, l’unico suo dio essendo lui stesso. Solo tra i tormenti dell’aldilà il ricco riconosce Lazzaro e vorrebbe che il povero alleviasse le sue sofferenze con un po’ di acqua. I gesti richiesti a Lazzaro sono simili a quelli che avrebbe potuto fare il ricco e che non ha mai compiuto. Abramo, tuttavia, gli spiega: «Nella vita tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti» (v. 25).

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Nell’aldilà si ristabilisce una certa equità e i mali della vita vengono bilanciati dal bene. La parabola si protrae e così presenta un messaggio per tutti i cristiani. Infatti il ricco, che ha dei fratelli ancora in vita, chiede ad Abramo di mandare Lazzaro da loro per ammonirli; ma Abramo risponde: «Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro» (v. 29). E di fronte all’obiezione del ricco, aggiunge: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (v. 31). In questo modo emerge il vero problema del ricco: la radice dei suoi mali è il non prestare ascolto alla Parola di Dio; questo lo ha portato a non amare più Dio e quindi a disprezzare il prossimo. La Parola di Dio è una forza viva, capace di suscitare la conversione nel cuore degli uomini e di orientare nuovamente la persona a Dio. Chiudere il cuore al dono di Dio che parla ha come conseguenza il chiudere il cuore al dono del fratello. Cari fratelli e sorelle, la Quaresima è il tempo favorevole per rinnovarsi nell’incontro con Cristo vivo nella sua Parola, nei Sacramenti e nel prossimo. Il Signore - che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto ha vinto gli inganni del Tentatore - ci indica il cammino da seguire. Lo Spirito Santo ci guidi a compiere un vero cammino di conversione, per riscoprire il dono della Parola di Dio, essere purificati dal peccato che ci acceca e servire Cristo presente nei fratelli bisognosi. Incoraggio tutti i fedeli ad esprimere questo rinnovamento spirituale anche partecipando alle Campagne di Quaresima che molti organismi ecclesiali, in diverse parti del mondo, promuovono per far crescere la cultura dell’incontro nell’unica famiglia umana. Preghiamo gli uni per gli altri affinché, partecipi della vittoria di Cristo, sappiamo aprire le nostre porte al debole e al povero. Allora potremo vivere e testimoniare in pienezza la gioia della Pasqua. Dal Vaticano, 18 ottobre 2016, Festa di San Luca Evangelista Francesco CORRIERE DELLA SERA Pag 11 I giovani del Sud foglie al vento”. La mossa della Chiesa sul lavoro di Marco Demarco I vescovi preparano un documento. Sarà il quarto dal dopoguerra Solo nella provincia di Napoli i giovani senza lavoro sono 200 mila. «Sono come foglie al vento», dice il cardinale Sepe. L’ottimismo delle slide e dei patti regionali non è bastato. Così, mentre si discute sull’efficacia della recente stagione riformista e su vaghe ipotesi di «reddito universale», la Chiesa ci riprova. Il primo documento dei vescovi sul Mezzogiorno è del gennaio 1948. Il più recente è del febbraio 2010. Nel mezzo c’è quello dell’ottobre 1989. Il prossimo vedrà la luce tra oggi e domani a Napoli, dove con i messaggi di papa Francesco e Mattarella si apre un convegno delle Conferenze episcopali me-ridionali. Presenti il cardinal Bagnasco e monsignor Galantino, parteciperanno più di 100 vescovi invitati da Sepe. Molte Curie annunceranno di voler mettere a disposizione terreni e immobili per sperimentare forme nuove di occupazione e di gestione cooperativa, come si è già fatto a Policoro e Pomigliano. Quattro documenti in 69 anni. Un continuo interrogarsi, come ricorda Massimo Milone in Dal Sud per l’Italia. La Chiesa di papa Francesco, i cattolici, la società, un libro scritto per l’occasione. E colpisce il lasso di tempo, sempre più ravvicinato, tra un appello e l’altro: 41 anni tra il primo e il secondo, 21 tra il secondo e il terzo, 7 tra il terzo e l’ultimo. Come dire: facciamo presto! La questione della terra - Nel ‘48, i vescovi sanno di parlare in un’ora «di gravi trepidazioni, di violenti contrasti e di decisive battaglie». Ma hanno la guerra alle spalle, e intuiscono che quella in cui l’Italia è immersa, sebbene «penosa e torbida», è una crisi «di maturazione e di crescenza». Il tema centrale che sollevano è quello della terra: il latifondo da smantellare, lo spazio vitale da assicurare ad ogni famiglia, i diritti di proprietà da riconsiderare. Macigni! Ma la Chiesa li rimuove non cedendo né al capitale, che troppo aveva «aggiudicato» a se stesso, né a quelle tendenze (di ispirazione marxista) che «volgendo lo sguardo sul Mezzogiorno d’Italia», lo facevano con un duplice scopo. Per un verso, «nel sincero desiderio di avviarlo verso una rinascita materiale e sociale». Per un altro «nel subdolo tentativo di aggiogarlo al carro delle proprie ideologie». I vescovi spingono per la riforma agraria, che infatti arriverà subito dopo. Una svolta clamorosa seguita dal boom economico.

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Divario e criminalità - Eppure la questione meridionale non finisce in archivio. Da ideologico, il nocciolo del problema diviene morale. Nel senso, come si legge nel documento dell’89, che per effetto di uno sviluppo «incompiuto, distorto, dipendente e frammentato», il divario italiano, l’evidente diseguaglianza tra Nord e Sud, non poteva più essere moralmente tollerato. Per la prima volta, spunta anche il tema della criminalità organizzata. I vescovi ne parlano per «le forme di impresa e di economia sommersa e parallela» che comincia ad assumere. Si appellano di conseguenza a un mercato «non scisso da valori e vincoli etici». Da Tangentopoli in poi - Ma la storia italiana va da un’altra parte, in direzione opposta. Arriva infatti Tangentopoli, e anche per la Chiesa l’indignazione morale non può più bastare. Il problema del Sud diventa istituzionale. Si tratta di mettere a frutto le riforme più recenti: dall’elezione diretta dei sindaci, e poi dei governatori, al nuovo assetto dello Stato. Nel documento del 2010 i vescovi nutrono qualche speranza in «un sano federalismo che rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno». Ma esprimono dubbi sul fatto che «la complessa e contraddittoria ristrutturazione delle relazioni tra le istituzioni nazionali e il mercato» abbia liberato risorse per il Sud. E censurano le nuove leadership locali che non hanno scardinato «i meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica». La disoccupazione - Passati gli ultimi 7 anni, il problema è ora quello che conosciamo. Il tasso di disoccupazione tra i giovani meridionali non è mai stato così alto: dal 45% dell’89 è passato, in alcune aree del Sud, al 53%. Il che fa diventare quella meridionale una questione democratica. Il punto, infatti, è se una democrazia possa pagare un prezzo tanto alto, cioè la mortificazione di un’intera generazione, senza allo stesso tempo mettere a rischio se stessa. Di questa generazione conosciamo nei dettagli le storie estreme: quelle dei cervelli in fuga e delle «paranze» criminali. Ma ancora tutte da scrivere sono le altre, come è apparso chiaro dopo il voto meridionale e giovanile del 4 dicembre. LA REPUBBLICA Pag 17 “Nostro figlio vittima dell’ex prete per colpa della Chiesa e dei suoi silenzi” di Giuliano Foschini Foggia, la rabbia dei genitori del giovane abusato da don Trotta Foggia. Il papà: «È difficile, forse impossibile. Avrebbero dovuto evitarlo, certo che avrebbero dovuto». La mamma: «Non ho mai frequentato troppo la parrocchia. Ma ora mi piacerebbe incontrare Papa Francesco, mi dà grande fiducia. Vorrei stringergli la mano, guardarlo negli occhi e chiedergli di fare in modo che non accada più. Nostro figlio si sarebbe potuto salvare se solo il Vaticano avesse fatto l'unica cosa giusta da fare: denunciare, avvertirci di quel pericolo». Questi sono i genitori di uno dei bambini abusati da Gianni Trotta, l'ex prete foggiano accusato dalla procura di una dozzina di abusi sui minori. Le violenze sono avvenute quando l'uomo allenava una squadra di calcio di ragazzini: era già stato cacciato dalla Chiesa per fatti di pedofilia, ma la Curia non l'aveva denunciato. E così ha potuto colpire di nuovo. Per il figlio di questi signori, che aveva 11 anni al momento degli abusi, Trotta è stato condannato a otto anni di carcere. Una pena arrivata grazie anche alla determinazione di queste due persone che, assistite dall' avvocato Lina Fiorilli, non hanno avuto paura di chiedere giustizia. Ieri si è celebrata l'udienza del nuovo procedimento che vede imputato l'uomo per altri nove casi. Solo una famiglia si è costituita parte civile. «Questo mi dispiace: non serve avere coraggio per denunciare chi ha rovinato la vita di tuo figlio. È la natura che ce lo chiede». Signora, come avete conosciuto Gianni Trotta? «Don Gianni Trotta, perché nessuno sapeva in paese che non fosse più un prete. Io frequento poco la parrocchia, ma il nostro è un paese da 2 500 abitanti. Lui seguiva i bambini al catechismo. Soltanto i maschietti, però». Trotta nel 2012 era stato cacciato dalla Chiesa per pedofilia. Nessuno vi aveva informato? «Assolutamente no. Ricordo che trovò una scusa per non celebrare il matrimonio di una sua cugina, ma tutti in paese, dove vivevano i suoi genitori anziani, erano convinti che fosse in attesa di una destinazione in Africa».

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Come entrò in contatto con suo figlio? «Al campetto di calcio. Mio figlio è malato di pallone. Poco dopo gli propose di fare doposcuola da lui e io non ebbi niente da ridire: che male poteva fargli don Gianni? E invece... Noi non potevamo immaginare, ma la Chiesa sapeva tutto: perché non l' hanno denunciato? Perché gli hanno permesso di condannare a vita i nostri bambini?». Lei si è data una risposta? «Ci ho provato. Ma non c'è nessuna giustificazione. Per questo vorrei parlare con questo Papa che mi piace, sta facendo piazza pulita. Deve imporre l'obbligo di denuncia». Anche nel suo paese non ha denunciato nessuno. «È terribile. In tantissimi avrebbero potuto fermarlo, e invece non lo hanno fatto. E mi dispiace molto che oggi soltanto una famiglia abbia avuto il coraggio di metterci la faccia. Io appena ho capito, ho fatto di tutto. Mi hanno addirittura detto che lo facevo per soldi. Che poi, quali soldi, quello è un poveraccio, abbiamo pagato anche le spese legali. Ma è giusto così, non potevamo fare altrimenti. Qual era l'alternativa, il silenzio? Come avrei fatto a guardarmi allo specchio, la mattina? Io non ho avuto paura perché sono madre, semplicemente madre, e dovevo difendere mio figlio in tutte la maniere. E l'ho fatto nel processo, visto che prima purtroppo non abbiamo capito nulla di quello che stava succedendo. Siamo gente che lavora la terra, siamo semplici, ma conosciamo bene alcune regole: se la mela è marcia, va tolta». Come sta suo figlio, adesso? «Va a scuola, è seguito da alcuni psicologi, le cicatrici immagino rimarranno, ma per fortuna ci sono i suoi sogni, le sue passioni, e quel pallone che non abbandona mai. Alle volte si sveglia e mi chiede: "Mamma, ma è vero che non torna più? Non è che don Gianni esce dalla galera?". Di questo per lo meno sono sicura: può stare tranquillo, per un bel po' di tempo don Gianni rimane lì». Pag 17 Il Vaticano sulle diocesi: poche le denunce di Paolo Rodari Un alto prelato: senza l’obbligo di segnalare gli abusi, in Italia non ci sarà nessun “caso Spotlight” Città del Vaticano. «Negli Stati Uniti oggi sono più preparati. Non coprono perché hanno dovuto pagare cause milionarie. È stato anche grazie alle denunce che hanno capito - e meno male, dico io - la gravità del loro atteggiamento, l'ingiustizia che legittimavano. In Italia, purtroppo, ancora molto dipende da vescovo a vescovo. Ci sono quelli che denunciano sempre i casi, e altri che invece sono meno preparati e, non sapendo come gestirli, tendono a silenziare. Non lo fanno malevolmente, ma per inesperienza. In ogni caso, va detto anche che i casi italiani sono in proporzione meno di quelli americani». L'alto prelato vaticano chiede di restare anonimo, ma, in sintesi, spiega a Repubblica l'"anomalia" italiana. E continua: «Certo, ritengo che sarebbe necessario l'obbligo di denuncia, mantenendo ovviamente la privacy delle persone coinvolte. In alcuni Paesi è obbligatoria, in Italia no. Ma al di là di quanto prevede la legge, sarebbe buona cosa una dichiarazione chiara in merito da parte dei vertici della Chiesa». Anche se l'Italia non ha i numeri statunitensi ben evidenziati in Spotlight, le vittime della pedofilia esistono anche da noi, e, con loro, i predatori. Spesso dietro chi abusa c' è una curia inesperta, incapace di giudicare, di fare luce. Questa, in fondo, è la storia di don Mauro Inzoli, il sacerdote legato a Comunione e Liberazione che è stato ritenuto colpevole di otto episodi di abusi, mentre un'altra quindicina è andata prescritta. Nessuno intorno a lui ha mai detto nulla. E, anzi, le stesse vittime hanno trovato il coraggio di parlare solo dopo un lungo e sofferto percorso. Molti di questi casi italiani li mette in fila Emiliano Fittipaldi. In Lussuria racconta come «negli ultimi due lustri, contando solo i condannati e gli indagati, sono oltre 200 i sacerdoti italiani denunciati per atti di lussuria con adolescenti». In Calabria, vicino a Reggio, c'è don Antonello Tropea, già padre spirituale del seminario di Oppido Mamertina, che nel marzo del 2015 viene trovato dalla polizia in un'auto con un diciassettenne conosciuto grazie alla app Grindr usata per incontri gay. Venti euro il costo della prestazione del ragazzo. Scrive Fittipaldi: «Indagato per prostituzione minorile, il don continua a fare il prete, confidandosi di tanto in tanto con il suo vescovo, monsignor Francesco Milito. "Evita di parlare con i carabinieri di queste cose", gli suggerisce il superiore, senza sapere di essere ascoltato». A Ostuni, c'è Franco

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Legrottaglie, condannato nel 2000 per atti di libidine violenta su due ragazzine, mai sfiorato da processi canonici, e in seguito designato nel 2010 dal vescovo cappellano dell'ospedale e prete in una chiesa del paese. Poi c' è don Siro Invernizzi, che nel 2013 è stato mandato dal vescovo di Como a fare il viceparroco a Cugliate, vicino a Varese, nonostante i due anni con la condizionale patteggiati per aver approcciato in strada un ragazzino rom di tredici anni che si prostituiva. Vicende tristi e dolorose. Ma forse evitabili se l'obbligo di denuncia divenisse prassi per tutti i vescovi. SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Ultime da Santa Marta. Porte aperte alle donne sacerdote Il 2 agosto del 2016 papa Francesco ha istituito una commissione per studiare la storia del diaconato femminile, ai fini di un suo eventuale ripristino. E alcuni hanno visto in questo un primo passo verso il sacerdozio delle donne, nonostante lo stesso Francesco sembri averlo escluso tassativamente, rispondendo così a una domanda sull'aereo di ritorno dal suo viaggio in Svezia, lo scorso 1 novembre: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa cattolica, l'ultima parola chiara è stata data da San Giovanni Paolo II, e questa rimane". A leggere però l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", la questione delle donne sacerdote appare tutt'altro che chiusa. Anzi, apertissima. "La Civiltà Cattolica" non è una rivista qualsiasi. Per statuto ogni sua riga è stampata con il previo controllo della Santa Sede. Ma in più c'è lo strettissimo rapporto confidenziale che intercorre tra Jorge Mario Bergoglio e il direttore della rivista, il gesuita Antonio Spadaro. Il quale a sua volta ha il suo collaboratore più fidato nel vicedirettore Giancarlo Pani, anche lui gesuita come tutti gli scrittori della rivista. Ebbene, nell'articolo a sua firma che apre l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica" padre Pani fa tranquillamente a pezzi proprio "l'ultima parola chiara" – cioè il no tondo tondo – che Giovanni Paolo II ha pronunciato contro il sacerdozio delle donne. Per vedere come, non resta che rileggere questo passaggio dell'articolo, propriamente dedicato alla questione delle donne diacono, ma che da lì prende spunto per auspicare anche delle donne sacerdote. NON SI PUÒ SOLO RICORRERE AL PASSATO di Giancarlo Pani S.I. […] Nella Pentecoste del 1994 papa Giovanni Paolo II ha riassunto, nella Lettera apostolica "Ordinatio sacerdotalis", il punto di arrivo di una serie di precedenti interventi magisteriali (tra cui l’"Inter insigniores"), concludendo che Gesù ha scelto solo uomini per il ministero sacerdotale. Quindi «la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale. Questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Il pronunciamento era una parola chiara per quanti ritenevano di poter discutere il rifiuto dell’ordinazione sacerdotale alle donne. Tuttavia, […] qualche tempo dopo, in seguito ai problemi suscitati non tanto dalla dottrina quanto dalla forza con cui essa era presentata, veniva posto alla Congregazione per la Dottrina della Fede un quesito: l’"ordinatio sacerdotalis" può «considerarsi appartenente al deposito della fede?». La risposta è stata «affermativa», e la dottrina è stata qualificata "infallibiliter proposita", cioè che «si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli». Le difficoltà di recezione della risposta ha creato «tensioni» nei rapporti tra Magistero e Teologia per i problemi connessi. Essi sono pertinenti alla teologia fondamentale circa l’infallibilità. È la prima volta nella storia che la Congregazione si appella esplicitamente alla Costituzione "Lumen gentium", n. 25, dove si proclama l’infallibilità di una dottrina perché insegnata come da ritenersi in modo definitivo dai vescovi dispersi nel mondo ma in comunione fra loro e con il successore di Pietro. Inoltre, la questione tocca la teologia dei sacramenti, perché riguarda il soggetto del sacramento dell’Ordine, che tradizionalmente è appunto l’uomo, ma non tiene conto degli sviluppi che nel XXI secolo hanno avuto la presenza e il ruolo della donna nella famiglia e nella società. Si tratta di dignità, di responsabilità e di partecipazione ecclesiale. Il fatto storico dell’esclusione della donna dal sacerdozio per l’"impedimentum sexus" è innegabile. Tuttavia già nel 1948, e quindi molto prima delle contestazioni degli anni Sessanta, p. Congar faceva presente che «l’assenza di un fatto non è criterio decisivo per concludere sempre prudentemente che la Chiesa non può farlo e non lo farà mai». Inoltre, aggiunge un altro teologo, «il “consensus fidelium” di tanti secoli è stato

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chiamato in causa nel XX secolo soprattutto a motivo dei profondi cambiamenti socio-culturali che hanno interessato la donna. Non avrebbe senso sostenere che la Chiesa deve cambiare solo perché i tempi sono cambiati, ma resta vero che una dottrina proposta dalla Chiesa chiede di essere compresa dall’intelligenza credente. La disputa sulle donne prete potrebbe essere messa in parallelo con altri momenti della storia della Chiesa; in ogni caso oggi nella questione del sacerdozio femminile sono chiare le "auctoritates", cioè le posizioni ufficiali del Magistero, ma tanti cattolici fanno fatica a comprendere le "rationes" di scelte che, più che espressione di autorità, paiono significare autoritarismo. Oggi c’è un disagio tra chi non riesce a comprendere come l’esclusione della donna dal ministero della Chiesa possa coesistere con l’affermazione e la valorizzazione della sua pari dignità». […] A giudizio de "La Civiltà Cattolica", quindi, non solo vanno messe in dubbio l'infallibilità e la definitività del "no" di Giovanni Paolo II alle donna sacerdote, ma più di questo "no" valgono "gli sviluppi che nel XXI secolo hanno avuto la presenza e il ruolo della donna nella famiglia e nella società". Questi sviluppi – prosegue il ragionamento della rivista – rendono ormai incomprensibili le "rationes" di divieti "che, più che espressione di autorità, paiono significare autoritarismo". In altre parole, il fatto che la Chiesa cattolica non abbia mai avuto donne sacerdote non impedisce che ne abbia in futuro: "Non si può sempre ricorrere al passato, quasi che solo nel passato vi siano indicazioni dello Spirito. Anche oggi il Signore guida la Chiesa e suggerisce di assumere con coraggio prospettive nuove". E Francesco per primo "non si limita a ciò che già si conosce, ma vuole addentrarsi in un campo complesso e attuale, perché sia lo Spirito a guidare la Chiesa", conclude "La Civiltà Cattolica", evidentemente con l'imprimatur del papa. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 18 “La mia generazione è perduta. Mai un lavoro, vi dico addio” di Andrea Pasqualetto e Alessandra Arachi Udine, la lettera in cui un 30enne spiega il suo suicidio. Lo psichiatra: “Il precariato aumenta le sofferenze di chi sta male” Una lettera d’addio, un lungo, spietato, violento atto d’accusa. Dopo averla scritta, il 31 gennaio scorso Michele è andato a casa della nonna, ha preso una corda e l’ha fatta finita. «Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere... Di no come risposta non si vive, di no si muore», ha vergato con rabbia e grande delusione per un mondo del lavoro che l’ha rifiutato fino alla fine. «Ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse... Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di colloqui di lavoro inutili, stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, stufo di fare buon viso a pessima sorte e di essere messo da parte...». Trent’anni, udinese di un paese prealpino di confine, Michele faceva il grafico. Meglio, avrebbe voluto farlo. «Ma nessuno l’ha preso. Per lui sono stati solo percorsi formativi e corsi e poi risposte negative. E una e due e tre...», dice ora il padre al telefono con un groppo in gola. «Non siamo riusciti neppure noi a cogliere la profondità del disagio. Le sue parole sono un grido strozzato, è l’analisi spietata di un sistema che divora i suoi figli migliori». È l’urlo di una generazione perduta, dice. La chiamano generazione Neet, giovani che non studiano e non lavorano e hanno pure smesso di cercare, di credere, di volere. Un popolo di sfiduciati e avviliti. I genitori hanno chiesto che la lettera del figlio fosse pubblicata integralmente dal Messaggero Veneto. «Perché questo è un allarme rosso, un grave fenomeno sociale, che lui ha voluto denunciare». Michele era un figlio di quel Nordest che dopo i fasti del boom ha conosciuto la grande crisi, lasciando sul campo i cocci di centinaia di aziende, di migliaia di disoccupati (in dieci anni sono triplicati), di decine di suicidi. «Da questa realtà non si può pretendere niente - ha scritto nelle ultime, drammatiche pagine -. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti». Dopo aver cercato lavoro per anni, aveva preso a vedere nero il presente e anche il futuro, in

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modo totale, cosmico. «Un disastro a cui non voglio assistere». Parole cariche di impotenza, rancore e frustrazione. «Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico...». Chiede perdono a mamma e papà. «Se potete». Un dolore immenso, quello di una madre e di un padre sopravvissuti al figlio. «Io lo so che questa cosa vi sembra una follia ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì». Non è follia, scrive, non è caos. «Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità». Il padre lo traduce così: «Sono giovani che hanno vissuto come sconfitta personale quella che per noi è invece la sconfitta di una società moribonda». Suo figlio ne ha fatto un incubo: «Un mondo privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento». Si scusa con gli amici e dà un titolo alla sua denuncia: «Questa è un’accusa di alto tradimento». L’ultimo schiaffo è per il governo: «Complimenti al ministro Poletti, lui sì che ci valorizza». Gabriele Sani, psichiatra della Sapienza di Roma, cosa dice del suicidio di Michele? Il ragazzo ha scritto che si sentiva vittima della società, della sua precarietà sul lavoro... «Il suicidio è un fenomeno complesso, non si può ricondurre ad una causa esterna, cos ì. Cer to è che il periodo di crisi di una società aumenta la sofferenza ed è capace di innescare meccanismi che — in persone predisposte e sensibili — possono provocare vere e proprie depressioni». Michele era un grafico senza lavoro stabile e si sentiva senza prospettive per il futuro... «Il fenomeno di una crisi economica genera una forte disgregazione sociale. E invece l’aggregazione sociale rappresenta uno dei fattori protettivi rispetto a tutte le patologie psichiatriche e quindi anche verso i potenziali suicidi». Sono i giovani i bersagli più facili della crisi? «Certamente loro lo sono, perché più fragili visto che l’identità e il proprio se non sono ancora costruiti. Ma non sono i soli. C’è anche la fascia di età opposta, i più anziani: hanno meno energie e sono bersagli». Si può fare qualche cosa per aiutarli? «Si può cercare di prevenire il dolore mentale, con l’aiuto dei medici». E come si capisce un dolore mentale? «Nel caso dei suicidi, nel 90 per cento dei casi i soggetti hanno depressioni che si manifestano con agitazione e anche molta rabbia». Pag 19 Martina firma il contratto a dieci giorni dal parto. “E’ incinta? La assumiamo” di Alice D’Este Il titolare dell’azienda: licenziarono mia moglie, non sarò come loro Mestre. Mentre si siede al tavolo per firmare il contratto appoggia lievemente una mano sulla pancia: «Ancora non ci credo». Martina Camuffo ha 36 anni e tra dieci giorni diventerà mamma per la seconda volta. È incinta al nono mese e indossa un vestito leggero che non vuole nascondere nulla. Manca pochissimo, la bimba dovrebbe nascere il 16 febbraio e lei non è distesa sul divano ma negli uffici di «The Creative Way» per firmare la lettera d’incarico. Sì, Martina è stata assunta al nono mese di gravidanza. Assunta e subito in maternità perché l’accordo è che cominci tra cinque mesi. Samuele Schiavon, il titolare della piccola impresa, e Stefano Serena avevano già visto lavorare Martina qualche tempo fa. In quel periodo lei si occupava della parte commerciale di una grande azienda di vini friulana. E ora che Samuele ha deciso di ampliare il suo team di Mestre ha pensato proprio a lei e l’ha contattata. L’azienda con sede a Padova e Mestre che si occupa dal 2010 di realizzare siti ed esperienze digitali in una forma creativa mista tra web design e web development è in espansione e Samuele cercava una figura che si occupasse della parte commerciale. Il colloquio è stato fatto due mesi fa, quando Martina era incinta di sette mesi. «Appena Samuele mi ha chiamato l’ho avvisato subito della novità - dice Martina - gli ho detto che ero incinta di sette mesi e che avrei partorito a breve. La loro proposta era molto interessante e io ero felicissima che mi avessero contattato ma immaginavo che l’opportunità sarebbe sfumata. Ci siamo incontrati, abbiamo scambiato qualche idea. E alla fine mi ha detto che era sua intenzione offrirmi un contratto. Quasi non ci credevo». Samuele Schiavon e Stefano Serena invece, quando hanno dovuto scegliere, non hanno avuto dubbi. «Non ci

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abbiamo pensato, non in questi termini almeno - dice Serena - a noi interessava l’obiettivo, a prescindere dalla situazione personale di Martina, volevamo lei per le sue competenze e capacità. Ha lavorato per un’azienda importante sul fronte commerciale, l’abbiamo vista all’opera, sappiamo come si muove. Le auguriamo il meglio per la sua vita personale e la aspettiamo prima possibile». Uno sguardo a lungo termine, quello dei tue titolari, difficile da riconoscere, oggi, nel panorama dei datori di lavoro. Quasi impossibile, anzi. E che in questo caso nasce anche da una riflessione di uno dei due titolari legata a esperienze personali. «Ho vissuto e capito le difficoltà di mia moglie - dice Schiavon -: aveva un tempo determinato e quando ha comunicato che aspettava un bambino è stata lasciata a casa. Sul piano lavorativo la maternità è quasi una condanna. Assurdo. E in ogni caso non volevo essere io a tenere comportamenti di questo tipo. Specialmente con Martina. Di fronte al valore della persona non ho avuto dubbi. Perché non aspettarla qualche mese se penso che investire su di lei sia la strada giusta?». Martina firma. «Tutto questo mi dà una carica incredibile. Metterò tutta me stessa in questo progetto». Lo racconta col sorriso, mentre prende in mano la penna per firmare la lettera d’incarico nell’open space creativo in zona ex Carbonifera, a Mestre. Lì, accanto a quella che sarà la sua postazione, lavorano già altre tre persone, più i due titolari e un altro ragazzo comincerà a breve. Anche lui ha firmato oggi la lettera d’incarico. Come Martina che si prepara a una nuova vita e a un nuovo lavoro. AVVENIRE Pag 3 L’impresa giovane è “ibrida”, il sociale non ha più confini di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai Così la mutazione del non profit contagia il mercato In una delle tante periferie della sfavillante smart city milanese si trova una cascina dedicata a Sant’Ambrogio, il patrono di Milano. È una delle tante ex fattorie che oggi punteggiano il tessuto urbano e che sono state oggetto di rigenerazione. Si trova in uno slargo tra il passante ferroviario e il trafficatissimo viale Forlanini, con vista sull’omonimo parco. A gestirla è un’associazione, CasciNet, che, come recita la dichiarazione di missione, si occupa di «studiare, tutelare e valorizzare l’identità storica, artistica e ambientale di Cascina Sant’Ambrogio». Fin qui nulla di strano, finché non ci si addentra nelle attività dell’associazione. Da lì in poi tutto si fa più 'ibrido' ed è proprio da questa ricombinazione di valori che nascono nuove forme di organizzazione di impresa a finalità sociale. CasciNet infatti ha trasformato gli spazi della cascina in «hub multiservizi di innovazione agricola, culturale e sociale» dove si trova uno spazio di coworking, un incubatore di imprese, laboratori di restauro, una foresta commestibile fruita e cogestita, servizi sociali per persone escluse e l’immancabile eventologia culturalricreativa milanese. Troppe cose – e pure diverse – per un’associazione che per di più ha siglato un accordo con il Comune di Milano impegnandosi a «garantire 190.000 euro tra investimenti obbligatori e facoltativi nella manutenzione straordinaria per il recupero della Cascina». Eppure CasciNet è sempre meno un’eccezione. È sì una 'buona pratica', figlia però di una mutazione profonda che interessa ormai da decenni il mondo del 'sociale' – associazioni, cooperative, fondazioni che formano il Terzo settore – ma che più recentemente investe, in senso più ampio, anche il modo in cui si produce valore nella nostra società. Per cui a essere chiamate in causa sono tutte le istituzioni e i confini che tradizionalmente ne sanciscono l’identità: il privato dal pubblico, il non profit dal for profit, il mercato dal dono. A essere particolarmente scossa, in questa trasformazione, è l’identità stessa delle organizzazioni sociali: perché un conto è riconoscerla tracciando un perimetro, inevitabilmente ristretto, per collocare al suo interno tutte le forme giuridiche che sono 'terze' rispetto alle istituzioni dominanti dello Stato e del mercato; altro è costruire l’identità all’interno di un percorso evolutivo che restituisce la vitalità di un settore che non è più sperimentazione, ma un vero e proprio comparto, ben diverso dalle origini. Per avere conferma di questa mutazione si può guardare ai dati di sistema. Il non profit è fatto di volontari? Vero, sono quasi 6 milioni (secondo gli ormai vetusti dati Istat del 2011), ma al loro fianco opera quasi 1 milione di lavoratori retribuiti. E ancora: il sociale vive di donazioni private e contributi pubblici? Vero, ma quasi il 20% dei 63,9 miliardi di entrate avviene attraverso scambi di mercato con famiglie, cittadini, imprese, altre organizzazioni non lucrative. E infine: il non profit eroga i suoi servizi a

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soci di associazioni, organizzazioni di volontariato e cooperative sociali? Sì, ma con consistenti eccezioni, considerando che sono oltre 20 milioni gli 'utenti disagiati' (persone malate, povere, disabili, immigrate, ecc.) che usufruiscono delle loro attività senza alcun vincolo associativo. Il tema dell’identità, insomma, emerge non per via statutaria, ma sempre di più per l’impatto che deriva dalla gestione di concrete attività. Questo è indice di un elevato grado di cambiamento, che procede sia per spinte interne sia per effetto di trasformazioni della società, di cui il Terzo settore è parte integrante. Un passaggio che ridisegna le organizzazioni dalle fondamenta, in funzione della diversa natura che assumono i bisogni – sempre più personalizzati e sempre meno intermediati dai corpi sociali tradizionali – le motivazioni delle persone che vi operano – con ruoli anch’essi sempre più ibridi tra produttore, consumatore e finanziatore – e non ultimo le tecnologie che sono sempre meno supporti e sempre più parte dell’umano, in particolare della sua dimensione relazionale. Tutto questo richiede nuovi meccanismi di generazione del valore che tendono a ricombinare sociale ed economico, e non a separarlo. Non esiste infatti solo la mutazione del non profit, che ha assunto una più estesa vocazione imprenditoriale con oltre 82mila organizzazioni (quasi un quinto del totale) che ricavano oltre la metà delle proprie risorse economiche da scambi di mercato. Vi è anche il crescente orientamento della Pubblica Amministrazione a premiare forme organizzative in cui efficienza e dimensionamento si accompagnano a capacità di co-progettualità e co-investimento facendo leva su meccanismi, tipicamente ibridi, di partnership pubblico-privata. E, ancora, va osservata la forza trasformatrice esercitata da un numero crescente di imprese for profit che costruiscono la propria competitività dentro il perimetro del valore condiviso, inteso nella sua valenza comunitaria, coesiva e collaborativa. Anche quest’ultimo è un mutamento più profondo di quel che dice la punta dell’iceberg rappresentata da poche decine di 'società benefit' (riconosciute nell’ultima legge di bilancio) e dalle 120 startup innovative a vocazione sociale. Numeri non certo consistenti come le 14mila imprese sociali di origine non profit, ma che comunque crescono velocemente e soprattutto poggiano su popolazioni organizzative più ampie, come le oltre 8mila 'imprese coesive' censite da fondazione Symbola. Si tratta di piccole e medie imprese for profit attive nei settori di eccellenza del made in Italy (manifatturiero, agroalimentare) che performano meglio in termini di fatturato, occupazione, internazionalizzazione perché investono non solo in innovazione tecnologica, ma anche sulla coesione sociale e sulla valorizzazione di risorse 'di luogo' (attrattori culturali, competenze diffuse, relazioni con la società civile) rendendole parte integrante della loro catena di produzione del valore. L’ innovazione radicale delle imprese ibride, insomma, consiste nel dilatare e civilizzare il mercato piuttosto che limitarsi ad ampliare il Terzo settore. Ma questo processo ha bisogno di politiche che agiscano ad almeno tre livelli: 1) stimolare gli amministratori pubblici all’uso, anche sperimentale, di forme più aperte di impresa sociale, in particolare guardando a risorse di investimento che premiano anche l’impatto sociale per alimentare un nuovo ciclo di sviluppo locale; 2) dar vita non a politiche di innovazione settoriali, ma a un ecosistema di risorse utile a coinvolgere persone e imprese in progetti legati a beni comuni, nuovi servizi alla persona, nuova manifattura e nuove tecnologie; 3) favorire l’intersezione dei settori e delle competenze nella produzione di beni e servizi dove le imprese sociali fungono da agenzia per promuovere un imprenditorialità diffusa e sostenibile. La conferma del valore autenticamente sociale di molte imprese ibride viene dai giovani. Servono infatti occhi nuovi per leggere l’innovazione che si manifesta. Una recente ricerca sui giovani negli Stati Uniti (i millennials) evidenzia come sia proprio la pluralità di obiettivi il fine dell’impresa a cui guardano. Forse è così anche in Italia dove i dati delle Camere di commercio dicono che le imprese fondate dagli under 35 sono ormai più di 630mila e crescono a ritmi più elevati della media, con un minor tasso di chiusura. Forse lo è anche nella periferia di Milano, dove i fondatori di CasciNet sono, guarda caso, tutti trentenni. Pag 9 Scuola, la crescita inarrestabile dei Licei di Paolo Ferrario Scelti dal 54,6% dei ragazzi. Il 30,3% andrà al Tecnico e il 15,1% al Professionale Milano. Non appassisce il fascino del Liceo che, anzi, aumenta ancora gli iscritti. I primi dati diffusi dal Ministero dell’Istruzione, relativi alle iscrizioni al nuovo anno scolastico

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2017-2018, terminate ieri sera (tranne che per i territori terremotati, dove le famiglie avranno a disposizione una nuova finestra tra il 13 febbraio e il 7 marzo), confermano la preferenza dei ragazzi per i percorsi liceali, scelti dal 54,6% del totale. Il 30,3% ha, invece, deciso di frequentare un Istituto tecnico, mentre il 15,1% un Istituto professionale. In aumento rispetto al 53,1% dell’anno scorso, le iscrizioni ai licei sono state opzionate da uno studente su due, a conferma di un trend che va avanti dal 2014-2015. Lo Scientifico, con i suoi diversi indirizzi (“tradizionale”, Scienze applicate e Sportivo) è scelto dal 25,1% dei ragazzi (era il 24,5% l’anno scorso). In particolare, l’opzione Scienze applicate, sale al 7,8% rispetto al 7,6% del 2016/2017, mentre resta stabile l’indirizzo scientifico “tradizionale”: 15,6% delle scelte, erano il 15,5% nel 2016/2017. Tiene anche l’indirizzo scientifico, sezione Sportiva, scelto dall’1,6% dei ragazzi contro 1,4% di un anno fa. Anche il Classico conferma la crescita delle iscrizioni (6,6% rispetto al 6,1% di un anno fa). Pressoché stabili le preferenze per il Liceo linguistico (che conferma il 9,2%), per il Liceo artistico (4,2% per il 2017/2018, 4,1% l’anno precedente), per il Liceo europeo/ internazionale (che conferma lo 0,7%) e per quello delle Scienze umane (al 7,9% rispetto al precedente 7,6%). Licei musicali e coreutici ancora a quota 0,9%: l’indirizzo Musicale sempre allo 0,8%, Coreutico sempre allo 0,1%. Con circa un terzo delle preferenze (30,3%), gli Istituti Tecnici confermano le posizioni dell’anno scorso (erano al 30,4%), mentre sono in flessione le iscrizioni agli Istituti professionali, che dal 16,5% di un anno fa, scendono al 15,1%. In particolare, il settore dei Servizi scende al 9,6% dal 10,5% del 2016/2017. Dal 3,9% dello scorso anno, oggi sceglie un percorso di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), presso gli Istituti professionali, il 3,5% dei neo iscritti. Stabile il settore Industria e Artigianato, che passa dal 2,1% al 2% attuale. A livello territoriale, il Lazio si conferma la regione con la maggiore percentuale di iscritti ai Licei, con il 66,8%. Seguono Abruzzo (60,8%); Umbria (58,8%); Campania (58,3%); Liguria (58%). Gli studenti che, invece, privilegiano i percorsi Tecnici (38,5%), sono quelli del Veneto, regione dove il Liceo è opzionato dal 45,9% dei ragazzi. Sempre nei Tecnici seguono Friuli Venezia Giulia (37,5%) ed Emilia Romagna (35,8%). Gli Istituti professionali sono ancora primi nelle scelte dei ragazzi della Basilicata (19,3%), seguiti da Campania (17,5%) e Puglia (17,3%). Anche quest’anno, infine, la maggioranza delle famiglie ha iscritto i propri figli in autonomia. Il 69% dei nuclei ha inoltrato la domanda direttamente da casa, registrandosi sulla piattaforma online predisposta dal Miur. Il 31% ha, invece, chiesto assistenza e supporto direttamente alle scuole. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Assunta al nono mese, quando l’impresa crede nel valore delle donne di Sara D’Ascenzo Mestre, la nuova vita di Martina e la scelta di Creative Way Firmare un contratto di lavoro al nono mese. Una contraddizione in termini nell’Italia delle culle vuote e del tasso di natalità a temperature siderali. Uno di quei paradossi alla «Achille e la tartaruga», dove la donna (tartaruga nel mondo del lavoro) se incinta diventa ancora più lenta, incapace di vincere il paradosso di raggiungere l’uomo, il piè veloce Achille. Eppure qualcosa si muove. Ieri, senza clamori, ma anzi con un po’ di pudore, in un ufficio della Mestre che guarda al futuro, all’ex Carbonifera, si è compiuta una piccola rivoluzione silenziosa: Martina Camuffo, 36 anni, ha firmato un contratto di lavoro con il suo pancione da nono mese di gravidanza, assunta da due uomini, Samuele Schiavon e Stefano Serena, titolari di The creative way , un’azienda di web design e web developement in espansione. Samuele e Stefano volevano proprio lei e sono disposti ad aspettarla cinque mesi, il tempo della maternità. Agli occhi disincantati e stanchi delle donne che annaspano nel mondo del lavoro, tra dimissioni in bianco e domande inquisitorie sul proprio personale - quanti anni hai? Hai figli? Ne vuoi? Sei fidanzata? Ti sposerai? E perfino: quanti anni ha il tuo fidanzato? - la storia di Martina appare come un piccolo lumino acceso nella notte con una di quelle lanterne da discount che magari si spegne subito. Pare di vederli i tanti piccoli (ma anche medi e grandi) imprenditori seduti alle loro scrivanie a leggere di Martina. Pare di annusarla la diffidenza, anzi, quasi la certezza che quando tornerà saranno dolori per i datori di lavoro, tra malattie del bambino, babysitter che ti piantano in asso dalla sera alla mattina e nonni acciaccati.

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Eppure la storia di Martina e dei suoi datori di lavoro, come sempre affonda nel personale: la moglie di uno dei due era stata licenziata all’atto di comunicare la sua prima gravidanza, e con la seconda non era andata meglio. Forse servono uomini così al mondo inceppato del lavoro, non solo del Nordest: uomini capaci di ricordare il vissuto e trasformarlo in un’opportunità per una giovane madre che sicuramente diventerà un’opportunità anche per l’azienda. Immaginate con quanta passione, con quanto entusiasmo Martina tornerà al lavoro finito il periodo di maternità, lontana dalla depressione post partum che prende anche perché dopo la maternità si spalanca un baratro nella vita della donna che non sempre è colmato dal sorriso dei propri figli. Gli esempi fulgidi di pancioni al lavoro esistono. Sono più semplici nella politica: quello di Marianna Madia ministro all’ottavo mese di gravidanza, quello di Rachida Dati, ex ministro della Giustizia francese tornata al lavoro a tempo di record, o quello molto discusso di Giorgia Meloni, che tenne banco più del programma della candidata di Fratelli d’Italia. Più difficile trovare pancioni al lavoro nel privato. Le delegate sindacali non hanno dubbi: «Mai sentita una storia del genere, piuttosto il contrario», dice Federica Vedova, delle donne della Cgil. E’ il caso di un avvocato di specchiata carriera nel diritto di famiglia che non ha esitato a lasciare a casa una sua avvocatessa, incinta, «per il suo bene». Il caso di Martina, per funzionare, dovrà fare da moltiplicatore, come lo sono stati in questi anni i piccoli esempi di welfare aziendale a misura (anche) di mamma delle aziende del Nordest dove il ricambio generazionale ha portato alla guida donne che sanno cosa vuol dire essere madri e voler lavorare: è il caso della trevigiana Came group dove la vicepresidente Elisa Menuzzo ha lanciato il nido aziendale. O come la Keyline, dove Mariacristina Gribaudi, sei figli, si alterna col marito alla guida dell’azienda: tre anni l’uno, tre anni l’altro. Per tenere insieme le due aziende di famiglia: quella con un centinaio di dipendenti e quella con sei ragazzi da crescere. LA NUOVA Pag 1 È il sistema del credito da cambiare di Franco A. Grassini Tra le riforme avviate dal governo Renzi quella del sistema bancario è forse una delle migliori e più avanzate. Le popolari oltre una certa dimensione sono state trasformate in società per azioni, togliendo di fatto ai dipendenti la possibilità di curare più i loro interessi particolari che quelli dell’istituto, per non parlare dei cacicchi che, elargendo favori, hanno portato alla rovina le banche da loro governate. Le casse rurali si stanno raggruppando per rafforzare il sistema. Il Monte dei Paschi di Siena ha evitato il disastro. Pur con questi fatti positivi il nostro sistema bancario ha ancora bisogno di profondi mutamenti per aggiornarsi alle nuove tecnologie e alle debolezze di una struttura eccessivamente frammentata. Ha rammentato nei giorni scorsi il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che, misurando l’attivo per addetto, noi siamo a 13,1 milioni, mentre la media europea è 15,3. Andiamo meglio di Spagna e Francia se guardiamo alla popolazione servita per sportello (noi uno per 1.993 abitanti, loro rispettivamente 1.402 e 1.770), ma siamo parecchio dietro alla Germania, che ne ha uno ogni 2.397 abitanti, per non parlare degli Stati Uniti, che dispongono di un sistema finanziario diverso, dove sono 3.900. Ai miglioramenti dell’efficienza occorre, inoltre, aggiungere la necessità di ridurre il peso dei prestiti in sofferenza e, per alcune banche, sono necessari aumenti di capitale. Anche qui lo Stato si è mosso bene, stanziando 20 miliardi per questi scopi. Né si possono trascurare la positività di alcune operazioni in corso: dall’aumento di capitale Unicredit a concentrazioni già concluse o probabili. Ma i passi avanti già compiuti non bastano, se vogliamo che il sistema bancario dia veramente una mano alla piena ripresa. A parte le resistenze ai mutamenti interne al sistema di cui ha parlato Visco, è il modello che va cambiato. Da noi la diffusissima pratica del multi credito, cioè del fatto che le banche pensano di ridurre il rischio dando poco a molti e, quindi, le imprese devono avere molti creditori, è uno dei motivi, forse il principale, di molti fallimenti. In Germania la banca principale influisce sulle scelte aziendali, anche relative a quelle manageriali. Non si spiega altrimenti perché lì la maggioranza delle imprese sia familiare, ma gestita da dirigenti professionisti. Non sarà facile arrivarci e andranno studiati incentivi ad hoc, ma - come sempre - le soluzioni ai gravi problemi non sono facili. Con la prevista introduzione di amministratori veramente indipendenti nei consigli delle banche si possono avere buone speranze.

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Pag 6 Spread, malattia da curare in fretta di Roberta Carlini La campagna elettorale francese è appena iniziata, e subito è salita la febbre da spread. Ma i giorni di mercati aperti sono tantissimi prima che aprano le urne delle presidenziali francesi, il 23 aprile. Per quella data, si saprà anche la sorte della legislatura italiana, ossia se andremo anche noi a elezioni entro l'anno. Mentre sono certe quelle tedesche, con Angela Merkel per la prima volta in difficoltà che assiste alla rimonta del suo rivale socialdemocratico. Tutto fa prevedere che saranno oltre le giornate nelle quali le vicende dello spread - ossia, le scommesse dei mercati sulla maggiore o minore affidabilità di un Paese nel ripagare il suo debito pubblico - ci ricorderanno “in modo sgarbato”, per dirla con il ministro Padoan, i nostri guai. Il primo guaio è quello su cui si è soffermato ieri Padoan: il debito pubblico che non si muove dalle sue vette altissime. Per l’Italia, la quota è il 133% del Pil. Colpa dei governi passati, che non hanno fatto niente per intaccarlo, ricordano i rigoristi che guardano al numeratore del rapporto, il debito. Ma colpa anche del denominatore del rapporto, il prodotto interno che non cresce, notano i critici della austerità imposta dalle regole europee, che falliscono nel tentativo di raggiungere contemporaneamente gli obiettivi fissati a Maastricht esattamente 25 anni fa: se si fa la lotta al deficit in tempi di recessione, questa si aggrava e necessariamente sale il rapporto tra debito e Pil. Era necessaria flessibilità e intelligenza nell’interpretare queste regole, soprattutto sotto i colpi della crisi: ma una flessibilità solidarmente gestita, non elargita a discrezione, a governi che non l’hanno saputa usare per spingere davvero la crescita, come quello italiano, e hanno privilegiato misure mirate a portare più voti che investimenti produttivi. L’altroieri il Financial Times notava che l’economia dell’eurozona sta andando meglio del previsto e ha una performance migliore di quella degli Stati Uniti: ma “con l’importante eccezione dell’Italia”, che arranca sotto l'1% di crescita. Il secondo guaio è meno evidente, anche perché i diretti interessati non lo vogliono vedere, e riguarda l’arrembante partito dei no-euro, ormai collocato prevalentemente nell’area della destra nazionalista. L’andamento degli spread di queste ore mostra il primo effetto della crisi della moneta unica: l’aumento del costo con cui si ripaga il debito. Lo slogan delle frontiere chiuse potrà piacere a molti, ma se già è difficile dire come costruire un muro lungo il Mediterraneo, ancora più complicata è la progettazione di un sistema di Stati nazione perfettamente autosufficienti, anche nel finanziamento del proprio debito. In altre parole: i ministri delle finanze di ipotetici governi Le Pen o Salvini-Grillo dovrebbero spiegare come ripagheranno i debiti pubblici, che immediatamente salirebbero prima ancora della fine dell’euro, per la sola previsione di tale eventualità (oltre che spiegare dove esportare le merci nazionali, visto che non tarderebbero misure di ritorsione dai partner commerciali). Forse sarebbe bene, nella lunga campagna elettorale europea che si prepara, uscire dagli slogan e dagli anatemi e spiegare concretamente come gestire una Frexit o una Italexit: in Grecia ci aveva provato Varoufakis, ma non ha convinto il suo stesso partito, benché abbastanza radicale. Ma c’è un terzo guaio che lo sgarbato spread impersona, ed è nell’uso che se ne fa in chiave politica. Nel caso italiano, oggi può tornare utile, come fu nel 2011, al partito che vuole rinviare le elezioni, che potrebbe avere la tentazione di usare per l’ennesima volta lo spettro della crisi finanziaria per evitare le urne. Anche in questo caso, si finirebbe per evocare i mostri senza mai scendere sul terreno per affrontarli. Lo spread non è un mostro né un morbo misterioso, ma solo un termometro delle malattie che hanno i singoli Paesi e che ha l’Europa intera - compresa la Germania, con il suo surplus commerciale che è fonte di instabilità per tutto il sistema. Invece di fuggire o di rompere il termometro, sarebbe meglio cominciare in fretta a curarle. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 23 Tumori, più malati ma ora si guarisce di Simone Bianchi Crescono i numeri delle diagnosi e anche le possibilità di farcela. Morandi (8Ospedale dell’Angelo): “Grazie a tecnologia e nuovi farmaci”

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Aumentano i malati di tumore in cura nel reparto di Oncologia all’Ospedale dell’Angelo, ma anche l’aspettativa di vita. Nel 2016 sono stati 1.047 i nuovi pazienti contro i 970 dell’anno precedente, dato in crescita poiché la struttura mestrina nel suo ruolo di hub ha attratto persone da tutta la provincia. I trattamenti iniziati nel 2016 sono stati 1.010 (920 nel 2015) con un totale di casi trattati pari a 1.540, poiché ai primi vanno aggiunti i 530 dell’anno precedente a testimonianza dell’aumento della sopravvivenza. Due anni fa erano stati invece 430 per un totale di 1.350. Le tipologie. Sono in crescita tutte le voci nel corso degli ultimi tre anni. Tra le donne i tumori al seno trattati lo scorso anno sono stati 360 (279 nel 2014 e 320 nel 2015), e quelli all’intestino 68 (50 nel 2014), mentre al polmone si è passati da 46 a 52 casi nel triennio. Per gli uomini questa ultima voce è incrementata da 86 a 92 casi e da 55 a 92 quelli all’intestino, mentre il tumore alla prostata è passato da 26 a 35 casi. Aspettativa di vita. L’immunoterapia sta permettendo ai medici ospedalieri di intervenire in maniera più mirata sul singolo caso, potendo impostare una cura su misura per ciascun paziente. I risultati, dati alla mano, sono infatti già evidenti. Per alcune forme di melanoma, il malato è passato dal 2010 a oggi da un’aspettativa di vita di soli 9 mesi a una di 32, valore che potrebbe migliorare ancora nei prossimi tre anni. «Si è passati da una situazione nella quale medici e pazienti erano senza speranza, alcune decine di anni fa, alla possibilità di allungare la vita al malato», sottolinea il primario di Oncologia dell’ospedale dell’Angelo, Paolo Morandi, «L’aspetto più importante è quello di andare a capire la biologia della malattia in ciascun paziente, provando a cambiarne la storia. Tutto ciò è reso possibile da tecnologie all’avanguardia e nuovi farmaci». Prevenzione e cure. Fino a qualche anno fa il percorso prevedeva la diagnosi del tumore, il tentativo di cura e la palliazione. Oggi c’è la possibilità di fare prevenzione con gli screening, proseguire con una diagnosi più accurata, la personalizzazione della cura e il prolungamento della vita con riabilitazione e palliazione se necessario. «L’oncologia è frutto di un lavoro intenso di équipe», aggiunge Morandi, «Non vengono quasi più usate terapie impattanti e con pesanti effetti collaterali perché ora costruiamo una carta di identità del paziente, del suo sistema immunitario e della malattia». Negli ultimi tempi la sopravvivenza a dieci anni per chi ha avuto un tumore al seno è raddoppiata, passando dal 40 all’80 per cento. Nel caso del colon dal 55 al 68 per cento sui cinque anni, e della prostata dal 68 al 94 per cento nel medesimo arco temporale. Una leggera disparità c’è per il tumore al polmone, con due punti percentuali in più (dal 12 al 14) per le donne, mentre per gli uomini è passata dal 14 al 19 per cento. «Gli ultimi cinque anni sono stati fondamentali sotto questi aspetti», assicura il primario di Oncologia dell’Angelo, «In questo quadro un reparto come il nostro si attrezza per rispondere a molti malati, e per assisterli a lungo aumentando tra l’altro anche l’età media della popolazione. E per farlo con interventi personalizzati e specifici su ogni singolo caso. Questo mettendo a loro disposizione l’ampio spettro di specialità che combattono il tumore, dalla chirurgia alla radioterapia, dalle unità dedicate al singolo tipo di tumore come la Breast unit alle terapie farmacologiche e palliative. Ma attenti alle bufale, non esiste un “dottor Google” e neppure la scorciatoia culturale». Accoglienza, ascolto e accompagnamento sono le tre caratteristiche fondamentali della riorganizzazione fatta dalla Usl 3 Serenissima al reparto di Oncologia dell’ospedale di Mestre. Con un intervento visibile già dall’esterno dello stesso reparto, sono stati distinti gli accessi tra i pazienti di Oncologia e quelli invece destinati alla Medicina fisica e riabilitativa. Varcato l’ingresso, l’ampia sala di attesa è stata arredata e dotata di nuovi totem eliminacode e di nuovi monitor che permettono una migliore gestione delle attese. Colori, arredi e dipinti alle pareti hanno trasformato quello che era uno spazio anonimo in un luogo che vuol essere più accogliente. Alle pareti sono stati infatti aggiunti i numerosi dipinti colorati realizzati dai ragazzi disabili del centro diurno di Sant’Alvise. Ma ancor più importante, appena entrati in reparto, i pazienti hanno a disposizione ora uno spazio in totale privacy e in cui dialogare con il personale. Altrettanto importante è stata anche l’introduzione della cartella clinica elettronica, che permette al reparto di Oncologia di seguire passo dopo passo il percorso delle persone assistite dal personale ospedaliero.

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Fare prevenzione in termini di tumori è possibile. E se non si riesce a debellare del tutto il problema, quantomeno grazie a uno stile di vita corretto e agli screening certe situazioni possono essere evitate. Ecco perché l’Usl 3 continua a predicare alla cittadinanza grande attenzione, e la invita a sottoporsi ai controlli. Tre degli screening principali ci sono quelli per i tumori al seno, al colon-retto e all’utero, tra quelli oltretutto più frequenti, e che vedono in campo il Dipartimento prevenzione. Sono 200 mila i veneziani già chiamati a sottoporsi agli screening gratuiti nelle sedi distrettuali di Venezia e Mestre, una serie di controlli coperti dal sistema sanitario nazionale che permettono di intervenire prima che sia troppo tardi. Numeri che interessano nel biennio di controlli 84 mila veneziani nella fascia di età 50-69 anni per il tumore al colon-retto, 57 mila tra i 50 e 74 anni nel biennio per quello al seno e infine 60 mila tra i 25 e 64 anni per quello al collo dell’utero, spalmati in questo caso su tre anni. Non tutti però accettano e si fanno avanti. Ma il motivo di un controllo in queste fasce di età è dettato dal fatto che dopo i 50 anni sale esponenzialmente il numero di casi scoperti, con il 45% dei malati che ha più di 70 anni. «I motivi principali che tengono molte persone ancora lontane da queste visite si annidano nella paura di scoprire la malattia, in pigrizia o scaramanzia», afferma Luca Sbrogiò, direttore del Dipartimento di prevenzione. «Ma qui è la medicina che chiama la gente a prevenire le malattia, ridurre i costi sociali e prima di tutto il rischio di interventi chirurgici molto invasivi». Lo stile di vita è poi importante. Fumo, diete sbagliate, obesità, inattività fisica e alcol concorrono al problema. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 11 “Mose, nessuna data esatta per la conclusione dei lavori” di Roberta Brunetti Preoccupato il provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti: “Stiamo creando un crono programma, ma sono tante le incognite” «Dare una data esatta per la fine dei lavori del Mose oggi è di fatto impossibile». Il provveditore alle Opere pubbliche del Veneto, Roberto Linetti, ribatte alle preoccupazioni che riemergono per lo slittamento dei lavori della grande opera, per la mancanza di finanziamenti, per il contenzioso tra le ditte e il Consorzio Venezia Nuova gestito dai commissari. Temi caldi a cui il neo provveditore - è arrivato a Venezia solo a novembre - vuole rispondere con la trasparenza: «Ci siamo accordati con il Consorzio Venezia Nuova per fare delle riunioni settimanali, da cui uscire con comunicazioni ufficiali per tenere aggiornati tutti». Prima questione: la fine dei lavori annunciata per il 2018. «Mancherebbe un anno e mezzo - spiega Linetti - poi inizierebbero i due anni di avviamento. Tra giugno e settembre del 2018, in effetti, si chiudono tutti gli appalti. Ma se tutto sarà funzionale, per ora non lo sappiamo. Stiamo preparando un cronoprogramma con il Consorzio anche per questo, ma certezze al momento non ci sono». Il provveditore comunque non si dice preoccupato né dai contenziosi, né dai finanziamenti. «Il contenzioso fa parte di un appalto pubblico, è normale argomenta -. Qui ovviamente tutto si ingigantisce, visto che ci sono cinquanta cantieri in corso. Che ci siano discussioni tra collaudatori, tecnici, imprese, è fisiologico...». Quanto ai finanziamenti i «lavori in corso sono tutti finanziati. Il problema finanziario non sembrerebbe quello più importante - continua Linetti -. La fase più delicata è quella delle verifiche tecniche che poi influiranno anche su tempi e costi». L'ultimo caso noto è quello dello studio di uno dei consulenti del Mose, il professor Gian Mario Paolucci, sulla corrosione delle cerniere e sulla natura dell'acciaio utilizzato. Linetti ha già detto che, in sede di manutenzione, si provvederà a sostituire l'acciaio dove necessario, valutando eventuali responsabilità. Intanto, proprio in questi giorni, sono iniziati i lavori per la posa delle paratoie alla bocca di porto di Malamocco. Oggi, tempo permettendo, arriverà la «cavallotta», lo strumento già utilizzato per movimentare le paratoie alla bocca di porto del Lido. In questo caso, però, le dimensioni sono più importanti: 29 metri la larghezza di ogni barriera, contro i 18 del Lido, mentre la profondità passa da 6 a 14 metri. Per questo la «cavalotta» è stata adattata e ci vorranno dei giorni perché sia operativa sul

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posto. Lunedì 13 febbraio saranno rimossi i coperchi dalle cerniere femmine e per sabato 18 dovrebbe essere affondata la prime delle 19 paratoie di questa bocca di porto. Poi si procederà a un ritmo di una paratoia ogni sette, dieci giorni. Questione di qualche mese e anche questa bocca di porto dovrebbe essere completata. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX “Il Comune sposti Ca’ Letizia” di Alvise Sperandio Venturini apre alla proposta, San Vincenzo e Caritas: “Disposti al dialogo” Il comitato di via Querini rilancia: «Troviamoci per discutere dell'eventuale spostamento di Ca' Letizia». Ma l'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini si smarca: «Il Comune ha già detto di volerla spostare, si rivolgano al Patriarcato e alla San Vincenzo che invece si oppongono». Si riaccende così la discussione sul futuro della mensa dei poveri ospitata al piano terra del centro pastorale Papa Luciani. «Rinnoviamo la richiesta di convocare un tavolo congiunto di lavoro, che però si scontra con i tempi della politica e della burocrazia». Lo scrive in una nota la portavoce di un gruppo di residenti, Fiorella Dalle Ore, che spiega: «Dopo la riapertura successiva alla sospensione per qualche giorno del servizio a causa dei disordini che si erano verificati, degrado e incuria la fanno ancora da padroni. Sono tornati i bivacchi sotto i portici, gli ubriachi rissosi, i senza tetto che dormono sugli scalini dei palazzi. Siamo arrivati a chiedere al sindaco l'emissione di un'ordinanza anti-bivacco per proteggere il decoro urbano della strada». Pronta la replica dell'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini che passa la palla alla Diocesi: «Il Comune ha già manifestato la volontà che si arrivi alla rivisitazione delle modalità organizzative di tutto il sistema delle mense dei poveri in città, compreso il trasferimento di Ca' Letizia, e conferma la disponibilità a sostenere questo percorso con beni e risorse a sua disposizione. Questo non significa ghettizzare la povertà, ma dare risposte intelligenti a fenomeni complessi che sono profondamente cambiati negli ultimi 30 anni. Abbiamo preso atto che chi gestisce questi spazi non è d'accordo, quindi prima di tutto i residenti dovrebbero rivolgere la loro richiesta al Patriarcato e alla San Vincenzo». I quali, da parte loro, riferiscono rispettivamente con il vicario episcopale Dino Pistolato e il presidente Stefano Bozzi che «come sempre siamo a disposizione per partecipare a qualsiasi confronto». Bozzi, dopo aver sospeso il servizio per un fine settimana a causa di alcune tensioni provocate da una manciata di balordi costantemente in preda all'alcol, alla riapertura ha svolto una sessantina di colloqui personali con gli utenti che hanno tutti sottoscritto il nuovo regolamento di accesso alla mensa. «Questi incontri sono una bellissima esperienza di conoscenza reciproca di queste persone che vengono responsabilizzate sul rispetto delle regole», racconta. Monsignor Pistolato riferisce che non ci sono stati sviluppi nel dialogo tra Comune e Diocesi dopo che prima di Natale il patriarca Francesco Moraglia aveva stoppato il sindaco Luigi Brugnaro sull'intenzione di spostare Ca' Letizia in periferia. Il primo cittadino ha offerto al sacerdote un terreno dell'Immobiliare veneziana vicino all'ospedale, ma questi ha rifiutato ritenendo che sarebbe troppo lontano da raggiungere sia per i poveri che per i volontari. La trattativa, per ora, si è fermata lì, ma adesso potrebbe ripartire su pressione del comitato di via Querini. Pag IX “Repressione? No, serve più mediazione” di Raffaele Rosa Confronto fra l’assessore alla Coesione sociale e il sociologo Bettin al Laurentianum su degrado e povertà Più repressione per estirpare i fenomeni legati allo spaccio, strategie diverse per aiutare le nuove vittime della povertà. Ieri sera al Laurentianum nell'incontro promosso da Gente Veneta e Fondazione del Duomo di Mestre il presidente della Municipalità di Marghera e sociologo Gianfranco Bettin e l'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini hanno discusso di degrado, sicurezza, povertà, di possibili strade da intraprendere. Il titolo provocatorio degli organizzatori sul metodo o sui metodi da utilizzare in questi casi, il bastone o la carota, ha trovato diverse interpretazioni. «Bisogna fare dei distinguo tra i diversi fenomeni che sono presenti in città e gli strumenti che si possono utilizzare e che abbiamo a disposizione ha spiegato Venturini L'inclusione sociale, cioè il reinserimento di quelli che possiamo chiamare ultimi è un

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percorso che può venire messo in pratica con chi vuole seguirlo e vuole darsi una possibilità. Per chi fa parte di quel tessuto sociale che io definisco feccia, cioè gli spacciatori incalliti, non possiamo attuare percorsi ma solo un certo tipo di repressione punitiva che va dall'aumento dei controlli antidroga a un impiego di un maggior numero di agenti della Polizia locale che assumeremo con il nuovo concorso. Qui serve la durezza che però poi manca dallo Stato, cioè dalle leggi che non garantiscono di estirpare il fenomeno annullando l'origine». «Per dare risposte su questo tema serve una strategia che non segua le suggestioni e i sondaggi ma qualcosa che duri nel tempo ed abbia una logica che non può più essere quella legata al bastone o alla carota ha detto Bettin. Serve più mediazione, più conoscenza e maggior investimento, per quanto possibile. Le panchine che avevo spostato con l'accordo dei cittadini in via Dante quando facevo l'assessore facevano parte di una strategia che, purtroppo, è stata interrotta dalla fine della Giunta ma che aveva un suo percorso concordato anche con i residenti. È purtroppo vero che se la tecnologia e nuovi strumentazioni possono sostituire la teoria del bastone e della carota è indubbio che servirebbero nuove leggi per aiutare i Comuni in questo percorso di riqualificazione sociale». Sul tema degrado e povertà è finita anche la questione mense in centro città. Giusto spostarle o no? «Non è un problema che riguarda il Comune ha aggiunto Venturini Sono strutture che da anni vengono gestite da enti legati al mondo ecclesiale con il quale serve dialogare. Come assessorato penso che dovremmo concentrarci più sui nuovi poveri, sui giovani adolescenti e capire che cosa dovremo fare dei migranti». CORRIERE DEL VENETO Pag 11 “Faremo funzionare il Mose. Le bonifiche? Spettano a noi” di Alberto Zorzi Intervista al nuovo provveditore Linetti Venezia. «C’è stato lo scandalo Mose, certo, e ci hanno guadagnato in tanti. Ma valeva la pena chiudere il Magistrato alle Acque, che aveva 500 anni?». Roberto Linetti, ingegnere, 62 anni e un fisico asciutto segnato dalla passione per la corsa («ho già cominciato anche qui, vado spesso verso Sant’Elena. Venice Marathon? Un po’ troppo lunga»), dallo scorso 4 novembre è provveditore alle opere pubbliche del Triveneto. Data evocativa per la firma del contratto, visto che era il cinquantesimo anniversario dell’«Acqua Granda» del 1966. Secondo il governo le funzioni dell’ex Magistrato dovrebbero andare alla Città metropolitana di Venezia. «Tutti ci conoscono come Magistrato alle Acque e spesso continuano a chiamarci così. Con il sindaco siamo d’accordo che prima si finiscono le grandi opere in corso, in primis il Mose, poi le passeremo. Ci sono mutui per centinaia di milioni con la Banca europea degli investimenti: un conto è che il garante sia lo Stato, un conto un ente locale». Ingegnere, ovviamente il Mose tiene banco in questi giorni per i problemi tecnici, veri o presunti. «Il Mose impegna per oltre metà questo ufficio. E’ un’opera complessa, ma noi cercheremo assolutamente di finirla e soprattutto di farla funzionare. Se ci sono delle cose da sistemare e da cambiare, lo faremo, anche se le attività non previste fanno alzare i costi». Appunto: chi paga? «Se i lavori sono stati eseguiti male o ci sono progetti sbagliati, chiederemo i danni. Lo Stato ha il dovere di farlo. La cosa che ci rincuora è che oggi con i commissari siamo più tranquilli: le scelte tecniche sono più facili da prendere, perché l’interesse è realizzare l’opera, non fare utili». Prima della questione delle cerniere «corrose», era emerso il problema dei sedimenti. Prima ancora la scogliera, la porta della conca di navigazione, un cassone. «I sedimenti non saranno più un problema, quando sarà pronta la barca-”aspirapolvere” per rimuovere la sabbia. Su tutto il resto si sta lavorando per risolvere i problemi e capire le responsabilità. In qualsiasi appalto, in caso di danni, si aprono i contenziosi». A proposito di conca: i piloti dicono che è piccola e che le grandi navi non passano. «E’ in corso uno studio presso l’Università di Anversa che ci dirà quali navi possono passare in sicurezza». Quando sarà finita l’opera?

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«La data ufficiale di consegna dell’opera è sempre quella: il 30 giugno 2018. Poi per almeno sei mesi ci saranno i collaudi del sistema». Uno dei problemi aperti è quello della manutenzione. «Il contratto prevede tre anni di “avviamento”, che spettano al Consorzio Venezia Nuova e qui sarà centrale il ruolo della manutenzione. Dobbiamo partire già in anticipo con qualche appalto e fare il conto complessivo per capire quanto costerà: ora non lo sappiamo. Nel 2021 ci dovrà essere quella che io chiamo la “conduzione”: spetterà al governo decidere se la dovranno fare i privati o un soggetto pubblico». Il sindaco ha candidato il Comune. Anche il Porto vuole essere della partita. «Nulla osta se si deciderà per il soggetto pubblico». I soldi ci sono tutti? «Il governo ci ha dato anche gli ultimi 221 milioni. Se non ci sono problemi o lavori imprevisti, siamo a posto». Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha firmato un accordo sui marginamenti. Arrivano 72 milioni, ma si parla di un commissario. «Ho scritto al mio ministero (le Infrastrutture, ndr ) spiegando che non sapevamo nulla dell’accordo e ricordando che le opere precedenti le avevamo fatte noi. Non si capisce per quale motivo non dovremmo continuare a farlo, visto che abbiamo le competenze e tutti i progetti già fatti, che sono al massimo da rivedere». Piazza San Marco. Si riuscirà a metterla all’asciutto? «Stiamo aspettando dalla Procuratoria il progetto per impermeabilizzare il nartece della Basilica: noi lo approveremo e nel giro di un mese spero di darlo al Consorzio per fare la gara. Quello è un piccolo lavoro. Per l’opera complessiva ho chiesto al Consorzio di rivedere il progetto già fatto da loro per ridurre i costi». Molti veneziani che vanno in barca si lamentano delle briccole, rotte e pericolose. Ma ci sono polemiche sull’ipotesi di farle in plastica. «Noi, il Comune e l’Autorità portuale stiamo facendo un accordo per dividerci le aree e i compiti, in modo anche da superare il problema finanziario. Credo che la questione principale sia quella della funzionalità e della sicurezza: al massimo potremmo tenere in legno quelle del centro storico». Pag 12 Bissuola, via i cubi ma al parco arriva la biblioteca per ragazzi di Alice D’Este Periferie sociali, confronto tra Venturini e Bettin Mestre. C’è la repressione ma anche la necessità di incontro con situazioni di disagio altrimenti irraggiungibili. Che debba coesistere per pianificare il futuro di una città, nessuno ha dubbi, il problema è sul come. Il giorno dopo il «viaggio» della Commissione parlamentare sulle periferie a Mestre, il dibattito sulle situazioni difficili della città e la lotta al degrado ieri si è spostato al Laurentianum di piazza Ferretto con Simone Venturini, assessore alla coesione sociale del Comune di Venezia e Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera, ex assessore alle politiche sociali. «L’assessorato si chiama coesione sociale perché il welfare parla a tutti i cittadini e quindi ad un quadro coeso – dice Venturini – è innegabile però che in città ci sia della feccia per la quale serve un approccio punitivo che deve dare lo Stato ma anche il Comune con quel poco che riesce a fare altrimenti non si estirpa il problema». All’attivo, in questo senso la nuova amministrazione ha diversi sequestri per spaccio, il nuovo concorso dei vigili, i cani antidroga. «Intensificando le attività di repressione con più sequestri – dice Venturini - mi auguro che si diffonda la voce e chi è dedito allo spaccio non venga». «La repressione è necessaria in alcuni casi ed è naturale che vada perseguita – dice Bettin – ma non possiamo dimenticare l’approccio diretto con alcune forme di marginalità altrimenti irraggiungibili. Un esempio? Alcune persone legate alle dipendenze pesanti, a disagi psichici, a difficoltà personali non sarebbero mai state raggiunte negli anni senza l’immenso lavoro degli operatori. Abbiamo aperto la strada anche alle Usl nel caso ad esempio dei centri diurni. Dobbiamo ricordarci che accanto a queste persone se non ci siamo noi non c’è nessuno. Questo approccio ha perso centralità in questa amministrazione». Si viaggia a due velocità. Lo stesso vale per i cubi, quelli abbattuti in parco della Bissuola. «La scelta deriva dal fatto che in quegli spazi c’era un ricettacolo di brutta gente tutto il giorno e anche la notte – spiega

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Venturini – chi ci abita accanto non ne poteva più. Penso che servirà a mandarli via, di sicuro per chi abita nella zona sarà un toccasana». «Non ha senso l’abbattimento di per sé - dice Bettin – ma la mia non è un’opposizione ideologica. Ho spostato anche io in passato alcune panchine per gli stessi motivi. Diciamo che le riflessioni dovrebbero essere più ampie e con un progetto di futuro». Il progetto c’è, dice Venturini: si dovrebbe finalmente riaprire il teatro del parco (chiuso ormai da anni) e la biblioteca del centro civico diventerà per adolescenti. «Abbiamo pensato di attrezzarla con un’attenzione particolare ai giovani – dice Venturini – porteremo libri adatti per avvicinare i ragazzi che in questi ultimi anni sono stati un po’ dimenticati dalle politiche». E sul tema delle periferie geografiche e sociali è intervenuto ieri anche il deputato del Pd Michele Mognato, che aveva invitato la commissione a Mestre. «La via maestra per combattere il degrado - dice - passa per la via maestra della centralità delle politiche sociali e della prevenzione a partire dalle giovani generazioni. Adesso la commissione riferisca alla Camera e proponga interventi di carattere normativo per rimuovere e prevenire le situazioni di degrado». LA NUOVA Pag 25 I cubi dividono Bettin e Venturini di s.b. Dibattito al Laurentianum. L’assessore: “Creavano solo disagio”. Il sociologo: “Serve altro” “Bastone o carota”, repressione o inclusione sociale per la sicurezza urbana. È stato il tema dibattuto ieri al Laurentianum di piazza Ferretto. Protagonisti l’assessore alla Coesione sociale Simone Venturini e il suo predecessore Gianfranco Bettin. Due punti di vista differenti ma che convergono sull’importanza di tutelare gli abitanti di Mestre da droga e violenza. «Il welfare non è solo un fenomeno di degrado e povertà, ma un ambito che riguarda tutti», ha detto Venturini. «Se non passa il messaggio che in questa città alcune cose non sono tollerate, non se ne verrà fuori e non si potrà fare inclusione sociale. Il pusher incallito o chi fa della rapina il motivo di esistere vanno colpiti. L’assistente sociale non basta. Da qui la scelta dei cani antidroga e il potenziamento della Polizia municipale. L’operazione dei cubi al parco Albanese? Creavano solo disagio, abbatterli ha avuto un senso, e ora guarderemo ad altre iniziative. Le mense dei poveri non le vedo invece un elemento di degrado». Gianfranco Bettin, sociologo e presidente della Municipalità di Marghera ha ribattuto: «Le azioni di repressione si sono fatte anche prima e con tre cani in meno, vedi lo smantellamento della mafia cinese in via Piave, ma ora c’è un deficit di bastone e manca la strategia sul come usarlo. Per svariati anni si è riflettuto su disagio e crimine. Oltre a mettere i briganti dove meritano si deve capire perché si formano. Quindi servono altre azioni, e ad esempio avrei agito in altro modo sui cubi al parco Albanese. Si può ragionare su tutto, come spostare una panchina, quello che pesa è appunto la strategia complessiva che non viene seguita. Serve una politica ampia che non si fa ipnotizzare da un cubo ma punta alla riqualificazione sociale. Il punto debole è aver ridotto gli interventi di mediazione sociale». Pag 25 “Un tavolo sui problemi di Ca’ Letizia” di m.ch. Appello del comitato di via Querini Anche lunedì sera ci sono stati problemi di convivenza in via Querini vicino a Ca’ Letizia. Clochard ubriachi sotto i portici tra urla, passaggi della polizia e atteggiamenti prepotenti verso chi entra nei portoni. Il comitato dei residenti torna a sollecitare un confronto con il Comune e la mensa di Ca’ Letizia che era arrivata a chiudere per un weekend, per dare un segnale verso quanti si comportano male. In strada come dentro la struttura della mensa della San Vincenzo. «Torniamo a chiedere un tavolo congiunto di lavoro sull’eventuale spostamento della mensa di Ca’ Letizia, che si scontra con i tempi della politica e della burocrazia, restando nel limbo dei buoni intendimenti. Nel frattempo in via Querini degrado ed incuria la fanno da padroni. Sono tornati i bivacchi sotto i portici, gli ubriachi rissosi, i senza tetto che dormono sugli scalini dei palazzi», segnala il comitato. «I residenti, esasperati dall’insostenibile situazione, sono arrivati a chiedere al sindaco l’emissione di un’ordinanza anti-bivacco, per proteggere il decoro urbano della via». Il comitato ora ribadisce che non intende mollare e chiede venga fissato con

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urgenza un confronto. «Vogliamo poter discutere tutti insieme sul futuro delle nostre vite e sulla nostra sicurezza», dicono i residenti, «dobbiamo essere ascoltati in quanto portatori di visioni e soluzioni che potrebbero essere di grande utilità per i decisori pubblici e privati che vogliano disinnescare situazioni di conflitto a volte pericolose». E ribadiscono: «Quando le Istituzioni pubbliche e private falliscono si assiste quotidianamente a un lavoro continuo da parte dei cittadini che chiedono aiuto, collaborazione, assistenza, proposte che coinvolgano seriamente le questioni del proprio quartiere, che non può essere dimenticato». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Il Nordest che appare rassegnato di Giancarlo Corò La presentazione del Rapporto 2017 della Fondazione Nord Est restituisce l’immagine di un’area affaticata da una crisi che non è stata solo economica, ma che appare sempre più sociale, morale e politica. Un’area che se pure continua a mostrare una certa vivacità industriale, non riesce tuttavia a staccarsi dal passo lento dell’economia italiana. Lontano, dunque, non solo dai tassi di crescita delle economie emergenti, ma anche dai centri pulsanti dello sviluppo europeo. Del resto, il plotone di testa delle imprese top performer appare sempre più isolato e distante da ciò che un tempo appariva come un capitalismo popolare – l’ampia platea di piccole imprese familiari, nate sulla spinta di una straordinaria etica del lavoro e dalla volontà di affermazione sociale attraverso la carriera dell’imprenditore – che oggi arranca su tassi di crescita prossimi allo zero. Segnando in questo modo una discontinuità rispetto al modello di coesione economica e sociale che aveva contraddistinto la fase eroica dello sviluppo veneto. Un Nordest, inoltre, sempre meno attrattivo per i giovani, il cui trasferimento all’estero ha contribuito, assieme alla bassa natalità e alla riduzione dell’immigrazione (i residenti con cittadinanza straniera risultano in calo da due anni!), a portare il segno negativo nella variazione assoluta della popolazione. Un Nordest, perciò, che appare quasi rassegnato alla bassa crescita, senza per altro grandi idee per provare a uscire dalla palude. C’è infatti da chiedersi cosa rimanga di quel manifesto per il nuovo manifatturiero che due anni fa proprio la Fondazione Nord Est aveva provato a lanciare come orizzonte di una nuova stagione sviluppo. L’idea proposta nel Rapporto di guardare al settore agro-alimentare, in particolare al comparto viti-vinicolo, come modello di riferimento per l’evoluzione dell’economia regionale appare, francamente, poco convincente. Non perché questo settore sia privo di potenziali di crescita e di innovazione. Ma affinché questi potenziali possano davvero esprimersi, portando benefici all’intera economia, serve una modernizzazione nei modelli di business che è ancora lontana dalle pratiche e dagli interessi correnti. Com’è possibile, infatti, far crescere la produzione di un settore vincolato a un fattore fisso, la terra, maledettamente scarso nel Nordest, senza una nuova e più coraggiosa organizzazione internazionale delle catene del valore? Finché l’ideologia dominante è quella del kilometro zero, è difficile immaginare che l’agro-alimentare possa davvero svolgere un ruolo di traino dell’economia. All’interno di un quadro poco entusiasmante, la presentazione del Rapporto ha tuttavia messo in luce due aspetti interessanti. Il primo è il riconoscimento del ruolo centrale del sistema educativo e, in particolare, dell’università nel promuovere lo sviluppo. L’intervento molto applaudito del rettore di Udine, Alberto De Toni, ha senza dubbio segnato un punto a favore per un’istituzione chiave nei processi di innovazione. Un’istituzione che tuttavia deve essa stessa cambiare e imprenditorializzarsi, favorendo la contaminazione con l’economia e la comunità di cui è parte essenziale. Il secondo aspetto riguarda il rapporto sempre più stretto con Milano, unica vera città metropolitana di rango europeo cui il Nordest può cercare di agganciarsi. Ma, paradossalmente, proprio questa prospettiva – certificata da un splendido intervento conclusivo del presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca – sembra mettere in discussione la chiave di lettura usata nell’ultimo Rapporto: «ricomporre crescita e territorio». Difficile che questo avvenga rinunciando a organizzare uno spazio metropolitano regionale, eleggendo fuori

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dal Nordest il territorio di riferimento per la crescita. Come scrive Ilvo Diamanti nel suo incisivo capitolo all’interno del Rapporto, il Nordest sembra dunque essere tornato «a Nord di Roma e a Est di Milano e Torino. In altri termini: una periferia». Siamo perciò alla fine di un ciclo. Il nuovo, purtroppo, ancora non si intravvede. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 2 È finita la guerra? di Davide Frattini Putin, l’Isis e le trattative per la pace: capire (oggi) il conflitto. Siria, 13mila scomparsi in carcere L’11 dicembre del 2011 Ehud Barak prediceva: «I giorni di Bashar Assad sono contati». Da allora il ministro della Difesa israeliano è andato in pensione e si è lasciato crescere la barba, il dittatore siriano è ancora al potere e porta sempre gli stessi baffetti. Sono passati sei anni dalle prime manifestazioni pacifiche per chiedere le riforme, i morti sono quasi 500 mila (le Nazioni Unite hanno smesso di contarli), il presidente potrebbe rimanere in carica fino al 2021. È la proposta dei russi e degli iraniani, i potenti sponsor che gli hanno permesso di sopravvivere alle rivolte: «La Costituzione va rispettata» dicono, anche se il voto del giugno 2014 è stato considerato una farsa. Come tutte le elezioni nei quarantasei anni di dominio sulla Siria, da quando il padre Hafez si prese il potere con un colpo di Stato militare. «La mia famiglia non possiede il Paese», commenta Bashar a un gruppo di giornalisti belgi. I russi finiranno impantanati? - Assicura di essere pronto a farsi da parte, se i siriani dovessero scegliere un altro leader. Per ora dovranno aspettare almeno quattro anni. Nell’autunno del 1979 l’Unione Sovietica interviene in Afghanistan per sostenere il governo comunista al potere. Vladimir Putin ha imitato in Siria le mosse di Yuri Andropov, suo ex capo al Kgb, e cerca di evitarne gli errori. Il ritiro dell’Armata Rossa, stremata dopo dieci anni a combattere sulle montagne attorno a Kabul, è un ricordo troppo amaro per i russi. Così per pattugliare le strade di Aleppo tolte agli insorti e per assaltare i villaggi nelle campagne lo zar del Cremlino ha chiesto un favore a un alleato: Ramzan Kadyrov ha annunciato ai 2,3 milioni di seguaci su Instagram che i suoi ragazzi ceceni sono stati dispiegati nel Nord della Siria «per proteggere la pace e l’ordine». Sono gli spietati battaglioni delle forze speciali che il presidente-tiranno comanda come un esercito personale. Da musulmani sunniti dovrebbero essere accolti meglio dalla popolazione locale che considera invasori stranieri i miliziani sciiti addestrati dall’Iran. Putin può consolidare le basi militari in Siria che Assad gli ha garantito in cambio della protezione, senza dover impegnare i soldati russi sul terreno. E allontanare il fantasma dell’Afghanistan . Lo Stato Islamico è in ritirata? - Il Califfato conserva ancora quella che considera la sua capitale in Siria, ma Raqqa sta diventando una roccaforte senza regno. Le milizie dello Stato Islamico sono ormai circondate nell’ultima città sotto il loro controllo a nord-ovest del Paese: prima della guerra Al Bab era uno dei centri più importanti nella provincia di Aleppo, adesso è l’obiettivo fondamentale per tagliare le vie di rifornimento dell’Isis verso la Turchia che dista una ventina di chilometri. I primi a raggiungere la periferia di Al Bab sono stati i ribelli siriani appoggiati dai jet e dall’artiglieria turca, ieri le truppe di Assad hanno bloccato l’unica via di accesso (o fuga) rimasta. L’assedio diventa anche un test per la possibile (ma improbabile) cooperazione tra alcuni gruppi di insorti e il regime con il traguardo comune di cacciare i fondamentalisti islamici. Che stanno perdendo i territori dove spadroneggiano dalla primavera del 2014 e - secondo un rapporto delle Nazioni Unite - anche le fonti per finanziare le offensive del terrore. Il Califfato - scrivono gli analisti - opera con un «budget di crisi». Lo stop alle ostilità è possibile? - I negoziati pianificati dalle Nazioni Unite sono stati ancora una volta rinviati. I mediatori avrebbero dovuto incontrarsi oggi a Ginevra, gli sforzi per arrivare alla fine del conflitto dovranno aspettare almeno 12 giorni. L’Onu subisce la concorrenza diplomatica di Russia-Iran-Turchia che hanno organizzato il vertice ad Astana di fine gennaio e stanno ancora discutendo nella capitale del

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Kazakistan come regolamentare il cessate il fuoco. Che non tiene: continuano i raid russi e del regime, continuano le azioni dei ribelli. La matematica dell’orrore: contare le ciabatte, dividere per due (come i piedi che le portavano e adesso penzolano), calcolare i morti del giorno. «Salivamo sugli sgabelli per provare a vedere dalle celle quanti prigionieri fossero stati impiccati, a terra restavano sempre tra le trenta e le ottanta pantofole». La vecchia strada statale risale fra le rocce chiazzate dallo scuro delle grotte, da queste parti millesettecento anni fa pregavano gli eremiti cristiani. In cima a una collina di pietre c’è un altro buco nero, quello che inghiotte gli oppositori al regime siriano. Nelle prigione di Sednaya sono stati buttati gli islamisti e i laici che avevano provato a fronteggiare il dominio di Hafez Assad, adesso ci finisce chi si ribella al figlio Bashar. La procedura è stata ricostruita da Amnesty International, che denuncia i crimini contro l’umanità commessi dal regime. Fin dalle prime manifestazioni pacifiche nel marzo del 2011 il clan al potere sceglie di reprimere le proteste con la violenza. Gli arrestati - anche solo per aver partecipato a un corteo - vengono torturati e portati davanti a un tribunale militare che legge la confessione estorta. Il processo dura due o tre minuti, l’agonia nelle celle sotterranee va avanti fino a quando gli aguzzini bussano alla porta una notte: i carcerati vengono radunati nel cortile e impiccati. I sopravvissuti contano le ciabatte e i giorni che restano da vivere all’inferno. Gli investigatori dell’organizzazione internazionale per i diritti umani hanno raccolto le testimonianze di 84 tra funzionari, giudici, ex detenuti. Sostengono che in cinque anni solo a Sednaya - «un autentico mattatoio» - sarebbero state ammazzate così almeno 13 mila persone. «Li lasciano penzolare per un quarto d’ora, qualcuno non muore subito, forse i più giovani che sono leggeri», racconta un ex prigioniero. I cadaveri sono caricati sul camion e seppelliti in fosse comuni segrete. Ai parenti non viene comunicato il destino subito. Il presidente Bashar Assad ha assicurato nel novembre dell’anno scorso a un gruppo di giornalisti internazionali «i detenuti sono trattati nel rispetto della legge siriana e i familiari possono avere notizie attraverso il sistema giudiziario». Adesso Amnesty International proclama di poter dimostrare che le «sparizione forzate e le esecuzioni sommarie sono decise ai più alti livelli del regime»: «Sappiamo dove, quando e quanto spesso queste impiccagioni siano perpetrate e chi nel governo siriano le ha autorizzate», commenta Nicolette Waldman, una delle autrici del rapporto. Pag 10 Il paradosso di un governo sostenuto dalle minoranze di Massimo Franco Giorno dopo giorno, il governo di Paolo Gentiloni rischia di apparire politicamente apolide. I vertici del Pd non smettono di affermare che la legislatura «è morta il 4 dicembre del 2016», data della disfatta referendaria. Questo lascia intendere che quanto è avvenuto dopo non ha importanza: andrebbe considerato solo come la coda effimera di un percorso da chiudere con le elezioni a giugno. Eppure è un esecutivo nel quale il Pd esprime premier e maggioranza assoluta dei ministri; e che ha di fronte impegni internazionali per almeno sei mesi. Così, da settimane si assiste a una sorta di inversione un po’ lunare delle parti. Si ascoltano i vertici di Senato e Camera, pezzi di opposizione, come Forza Italia, e della maggioranza, a cominciare dalla minoranza dem, che difendono Gentiloni e il suo esecutivo. E sottolineano quello che definiscono l’«avventurismo» di una spinta per il voto anticipato, elencando la lunga lista dei problemi da risolvere: questioni che travalicano la riforma del sistema elettorale, già in sé non facile, da concordare in Parlamento. Sul fronte renziano, invece, si intima di approvare una legge subito per andare a votare. È chiaro che nella difesa di Gentiloni c’è una buona dose di strumentalità anti- Renzi. Ma la reazione è scomposta. Gli attacchi del vertice del Pd a un alleato come il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, non sembrano la mossa più lungimirante. Dire che non può esistere «un’alleanza strutturale» con una forza che «si chiama centrodestra» significa mostrare un Pd votato all’isolamento, e soprattutto picconare il governo. La convocazione del congresso del Pd è una porzione dello scontro, perché farlo equivale di fatto a arrivare al 2018. Renzi lascia filtrare la voce che in quel caso regolerebbe i conti interni senza più concessioni. Eppure, la minaccia suona stonata. Sono avvertimenti che arrivano mentre la linea di resistenza di Renzi arretra. E mentre Gentiloni, sempre più distaccato, cerca di svolgere il lavoro di

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premier. A guardare bene, le beghe del Pd dovrebbero essere aspetti secondari. Il problema è che rischiano di incidere sulla vita della coalizione. Le prese di posizione della cerchia renziana hanno una costante: tendono a delegittimare l’esecutivo, a inchiodarlo alla precarietà. Si accreditano familiarità e amicizia col premier, e sono reali. Ma in modo riservato si lasciano filtrare avvertimenti sulla manovra correttiva che l’Italia potrebbe fare su pressione dell’Europa: come se un Pd immerso nella campagna elettorale fosse restio a avallare provvedimenti impopolari. È indicativo che l’ex governatore dem della Campania, Antonio Bassolino, solleciti Renzi a essere «il principale sostegno del governo Gentiloni». Vedere il Pd a braccetto di M5S e Lega nel chiedere il voto a giugno suscita una punta di sconcerto. Pag 15 Perché il Marocco “cancella” la pena di morte per l’apostasia di Roberto Tottoli La recente decisione del Consiglio superiore degli ulema del Marocco di cancellare la pena di morte per il reato di apostasia dall’islam è una buona notizia. Segue, tra l’altro, una decisione opposta di qualche anno fa dello stesso organismo, che aveva sollevato molte perplessità e critiche. La questione della pena per chi abbandona volontariamente l’islam è tutt’altro che chiara ed esplicita nel Corano e nella tradizione islamica. Il testo sacro parla, da un lato, di nessuna costrizione nelle fede religiosa, ma dall’altro anche di una punizione che attende l’apostata anche se nell’Aldilà, non in questo mondo. La vita del Profeta e dei primi califfi è segnata da condanne a morte in nome dell’unità soprattutto politica della comunità. Le successive scuole giuridiche hanno poi elaborato visioni diverse. In genere, fino all’età moderna, la pena di morte è stata sovente considerata una pena sancita per chi deliberatamente abbandona l’islam o per chi compie atti contro i suoi principi generali. Ma la possibilità di un pentimento o ripensamento in extremis ha depotenziato tale eventualità per tutto il Medioevo. Oggi i Paesi musulmani adottano leggi diverse, tra chi include la pena di morte, oscurando le possibilità di ritrattare, e chi invece sancisce la libertà di coscienza, come la Tunisia dal 2014. In mezzo vi sono codici e leggi assai diverse, con tanto di pene accessorie non meno vessatorie e che riguardano scioglimento di vincoli matrimoniali, custodia dei figli, ecc. La fatwa marocchina argomenta la sua decisione considerando la punizione di morte come il prodotto di scelte politiche del Profeta Maometto, quando essere apostata voleva dire tradire la piccola comunità di credenti del nascente islam. Più del motivo tradizionale, sempre utilizzato in questi casi, tale decisione evidenzia come la questione dell’apostasia sia un tema centrale per il rapporto tra islam, musulmani e la realtà contemporanea. Angosce e timori sulla coesione della comunità devono fare i conti con una realtà ben più fluida che in passato, con comunità musulmane in Occidente esposte in varie direzioni, attrattive, in certi casi, di occidentali che si convertono, ma inevitabilmente soggette ad erosione. In tale situazione è difficile spiegare perché certi musulmani non possano essere liberi di scegliere la propria religione. Forse, la prima decisione del Consiglio superiore degli Ulema era dovuta ai timori per la nascita delle prime associazioni di ex musulmani in Marocco. Questa, forse, nasce invece da una condivisibile logica opposta, ovvero che ogni tradizione ha radici storiche che è sempre più difficile imporre ad oltranza in una realtà completamente diversa . LA REPUBBLICA Pag 1 I nuovi potenti e l’informazione di Mario Calabresi Il potere attacca l’informazione quando è in difficoltà, quando la vive come un intralcio alla sua azione o alla sua narrazione. Succede da sempre, ma oggi i nuovi potenti, che amano comunicare direttamente con i cittadini senza fastidiose mediazioni e senza il rischio di fastidiose domande, sono più radicali e cercano di risolvere il problema all’origine: delegittimare i giornalisti. I nuovi potenti amano raffigurarsi come outsider, si chiamino Trump o Grillo, come freschi e genuini rappresentanti del popolo a cui giornalisti e giudici cercano invece di mettere i bastoni tra le ruote. Nel caso italiano la polemica contro i magistrati ancora non c’è ma è solo questione di tempo. Il Movimento non governa ancora il Paese ma ha già conquistato la sua capitale e ha capito che nella strada verso Palazzo Chigi l’informazione può essere un ostacolo. Questi nuovi potenti,

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che hanno costruito le loro fortune sulla critica radicale di ogni establishment e sulla promessa di trasparenza, dovrebbero essere abituati alla dialettica, dovrebbero accettare il confronto, invece appaiono, se possibile, più segreti e opachi dei loro predecessori. Guardate Trump, un uomo che manipola la comunicazione e squalifica chiunque metta in evidenza incongruenze e bestialità, siano essi i giudici o i giornali, arrivando ad accusarli di una sorta di complicità col terrorismo per cercare di silenziarli. Lo ha fatto fin dall’inizio della sua presidenza, indicando l’informazione come la vera opposizione, non per riconoscerne la funzione di cane da guardia del potere bensì per additarla come nemico. Lo stesso nemico che due settimane fa Alessandro Di Battista ha indicato agli ambulanti che manifestavano di fronte a Montecitorio, ottenendone come risultato grida in cui si prometteva di ammazzare quei servi maledetti che sono i giornalisti. Guardate Grillo: mai una conferenza stampa, mai un confronto, mai risposte limpide e chiare alle domande. Solo post sul blog, su Twitter e su Facebook in cui dispensa insulti e contumelie verso tutti coloro che disturbano il nuovo manovratore. Nessuno ha accesso alla Casaleggio, nessuno può chiedere conto di come si formino i processi decisionali (dalla nascita della giunta Raggi alla decisione, poi abortita, di lasciare Farage in Europa) e nessuno ottiene risposte se si permette di chiedere. Ieri sera Luigi Di Maio ha accusato giornali e giornalisti di aver orchestrato una campagna diffamatoria contro Virginia Raggi, di cui non si raccontano invece i successi. Si tratta dello stesso vicepresidente della Camera che per settimane la scorsa estate ha negato e tenuto nascosta la notizia dell’inchiesta sull’ex assessora Muraro. Nel merito delle accuse, ma soprattutto nel merito delle omissioni, entra con grande precisione Carlo Bonini all’interno del giornale, ma c’è qualcosa che continua a non tornare: perché il Movimento non fa chiarezza una volta per tutte sulle opacità e sugli inquietanti interrogativi di un gruppo di potere che ha circondato la sindaca di Roma accompagnandone l’ascesa e le prime mosse? Perché non indica nei dettagli idee e programmi? Ma soprattutto perché i grillini non imparano ad accettare che la conquista del potere porta ad un necessario cambio di status: da controllori a controllati o perlomeno controllabili? Non si può pensare di avere una delega in bianco soltanto perché si arriva da fuori, soltanto perché si è giovani e nuovi. Non basta. Il giornalismo italiano non gode di ottima salute e il nostro sistema di informazione paga un deficit di credibilità e fiducia. Lo sappiamo e ci sforziamo ogni giorno di migliorare per colmarlo. Quando Grillo rappresenta elegantemente questo giornale come un rotolo di carta igienica indica la fine che ci augura. Ci preferirebbe addomesticati, come si è sempre illusa di fare la politica, ridotti a cantori, intenti a raccontare le magnifiche sorti di una città come Roma che dovrebbe rinascere e invece è abbandonata a se stessa. Anche se forse converrebbe metterci dove tira il vento e non di traverso, continueremo a formulare domande ad alta voce, a pretendere risposte e a fare denunce. Lo abbiamo fatto con la Dc e i socialisti, con Berlusconi come con tutte le sigle dell’ex Pci fino all’odierno Pd, di cui abbiamo raccontato scandali e reclamato più volte dimissioni e passi indietro. E non ci battiamo per conto di qualcuno, ma solo per i nostri lettori e per i cittadini, che meritano di vivere con gli occhi aperti. Perché ogni volta che un potente, anche se nuovo di zecca, attacca ferocemente chi lo critica, allora bisogna preoccuparsi e non abbassare la testa. LA STAMPA Proporzionale, un ritorno con molti rischi di Giovanni Sabbatucci I leader dei maggiori partiti italiani - da Renzi a Berlusconi, da Grillo a Salvini - non perdono occasione per esibire la loro fiducia in una vittoria nelle prossime elezioni, non importa quanto vicine. Lo fanno perché rispettano le regole di qualsiasi competizione (dichiararsi perdenti in partenza è il modo migliore per perdere davvero), o perché, più o meno consapevolmente, restano legati alle posture e alle retoriche tipiche della seconda repubblica: quando vincere la partita delle urne significava, quasi automaticamente, disporre di una maggioranza in Parlamento, formare un governo e tenerlo possibilmente in vita fino alle elezioni successive. Ma il gioco ora è cambiato. Una volta deciso, come sembra inevitabile, il ritorno a un meccanismo elettorale a base proporzionale, una volta scartato il ballottaggio - unico metodo sicuro per far uscire dalle urne una scelta chiara - l’attuale configurazione tripolare del sistema politico non potrà che riportare in auge la

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pratica combinatoria delle coalizioni post-voto. Non in via eccezionale, ma in quanto assetto permanente del sistema stesso. In altri termini, potrà accadere che un partito molto forte, com’era il Pci nella prima Repubblica, e come è oggi il Movimento Cinque Stelle, resti escluso in permanenza dall’area di governo, per scelta propria o perché così vogliono le altre forze coalizzate. E che al contrario partiti dal seguito molto ridotto si collochino stabilmente in quell’area grazie alla loro disponibilità a coalizzarsi con l’uno o l’altro dei gruppi più forti. A decidere chi vince e chi perde davvero, chi sta al governo e chi all’opposizione non saranno dunque i numeri elettorali: sarà piuttosto la posizione occupata nell’arco delle forze politiche, sarà la capacità di inserirsi nelle pieghe del sistema, spostando quantità marginali e strategiche di consensi. Di sicuro, molto dipenderà dal livello delle soglie di sbarramento stabilite dalla futura legge elettorale. Ma è probabile che proprio il bisogno di contrarre alleanze scoraggi i partiti maggiori dal proporre soglie troppo alte. Per trovare precedenti in materia di coalizioni obbligate, basta guardare, anche in questo caso, alla storia della prima repubblica. Partiti piccoli o piccolissimi, come i cosidetti «laici minori» (il Pli, il Psdi e soprattutto il Pri), grazie anche al prestigio di leader come Malagodi, Saragat e La Malfa, occuparono posizioni di governo, salvo brevi parentesi, per quasi mezzo secolo. Il Psi fu partner insostituibile della formula di centro-sinistra. E Bettino Craxi fu per un decennio il primo attore della scena politica italiana, potendo contare sul 10 per cento dei voti o poco più. Anche fuori d’Italia, gli esempi non mancano: in Germania i liberali (e più tardi i Verdi) hanno svolto a lungo il ruolo di ago della bilancia fra Cdu-Csu e Spd, sempre occupando ruoli-chiave nei governi; in Spagna, gruppi autonomisti locali sono risultati spesso decisivi per la formazione delle maggioranze e si sono giovati di questa posizione per i loro scopi specifici. Attenzione, però: nei casi appena menzionati, le coalizioni rientravano nella fisiologia del sistema, in quanto riunivano forze tra loro compatibili: anche la cooptazione del Pci nelle maggioranze di solidarietà nazionale, fra il ’76 e il ’79, poggiava sul comune richiamo alla Costituzione e all’antifascismo. Nel caso italiano di oggi, le cose sono assai più complicate. I partner piccoli ci sarebbero (i centristi dell’Ncd e di Area popolare). Ma sono i grandi a non sapere o potere esprimere ipotesi plausibili di alleanze che non urtino contro insuperabili divisioni programmatiche e culturali. Lo stesso Berlusconi, apparentemente il più disponibile, non sa scegliere fra la piccola-grande coalizione col Pd (che con ogni probabilità non basterebbe a fare maggioranza) e l’unità di un centro-destra comunque minoritario, assieme a Lega e Fratelli d’Italia. Il rischio allora è che, dopo aver riesumato un metodo elettorale criticabile, ma almeno collaudato, ci si trovi nella condizione di non saperlo più utilizzare.

AVVENIRE Pag 1 Il mercato della vita di Giuseppe Anzani Sulla pelle dei poveri e dei deboli Oggi è la giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. Singolare e tragica incombenza di lotta che gli abitanti della terra sono forzati a combattere non contro una minaccia esterna, o lo stento, o la cieca tragedia d’una natura matrigna, ma contro se stessi, contro una crudeltà annidata nelle proprie stesse viscere, contro il mistero di un male che non ha più volto umano. Esistono, dentro la categoria dell’umano, profili disumani? Lo stesso antico linguaggio della predazione, negando al nemico, al barbaro, allo straniero, all’espulso il volto dell’appartenenza e dell’inclusione, è il primo sintomo di una disumanità feroce. Tenuta sin per normale, in antico e ancora a ridosso della modernità, se pensiamo allo schiavismo storico. E fatta poi cosciente a fatica della sua turpitudine, se dopo infinite tragedie gli uomini hanno consegnato nell’ultimo secolo a pagine solenni di Trattati e di Carte l’orrore e il ripudio dell’orrore, cacciandolo fuorilegge. Tante, troppe forse per poter dire che sian state efficaci, dentro quel secolo così insanguinato, a partire dalla Convenzione di Ginevra sulla schiavitù, di 90 anni fa, fino alla Convenzione del Consiglio d’Europa firmata a Varsavia nel 2005, passando per una biblioteca intera di atti internazionali. Fra questi, uno ci sembra esplicito e vigoroso: il Protocollo Onu del 2003 noto come la “Carta di Palermo”. La tratta di esseri umani vi è definita come forma di schiavismo di cui sono vittime le persone reclutate e trasferite con l’uso della forza, della coercizione, del rapimento, della frode, dell’inganno, dell’abuso, «a fini di sfruttamento». Eccola, la parola disumana, lo sfruttamento;

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traguardo di tornaconto e di ferocia predatoria. Ci sono due solchi profondi di sfruttamento: il sesso e il lavoro forzato. Quando nelle nostre città gli uomini scendono in auto lungo i viali, dove si vendono ormai le bambine, si fanno complici postumi di uno stupro dell’anima già avvenuto, e ribattono i ceppi d’una schiavitù senza nome. Quando i bambini, i minori «non accompagnati», o anche gli adulti sono utilizzati come braccia da fatica con paghe da fame, chi lucra sulla loro disperazione è né più né meno che un moderno negriero. C’è un profilo comune che allaccia i solchi dello sfruttamento, ed è la degradazione d’un essere umano a un corpo, a una macchina utile, a una sorta di materiale. Fino a farci sentire un brivido quando ci si conferma che parti del corpo di vittime possono essere prelevate (e rapinate!) come “pezzi di ricambio” di organi. Ciò svela infine la radice unica dello sfruttamento molteplice che presiede a ogni tratta di esseri umani: la negazione del volto, il tradimento della verità basilare che ogni essere umano è «uno di noi». Una radice che affiora, a volte, anche in quello che sembra diventato in taluni Paesi il “mercato della vita”, se gli embrioni sono intesi come materiale biologico e il grembo di madre un contenitore affittabile. Gli ultimi studi dicono che gli schiavi nel mondo, vittime di tratta, sono oltre 21 milioni. E che in Italia lo sfruttamento sessuale colpisce dalle 50 alle 70mila donne, mentre circa 150mila sono gli uomini sfruttati col lavoro da schiavi, in gran parte giovani migranti. Sono questi gli esseri umani che attendono protezione, con l’urgenza almeno pari a quella di castigare i trafficanti. Oggi l’intreccio fra tratta e migrazione è sotto gli occhi di tutti, e non gioverà schierarsi a parole contro la tratta se i fuggiaschi e i naufraghi delle guerre e degli stenti, prede elettive dei mercanti di carne, troveranno muri ostili, rifiuto, esclusione, abbandono. Salvarli occorre, salvarli. L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Al di sopra della politica di Lucetta Scaraffia I cattolici di fronte ai temi cruciali del nostro tempo La posizione tenuta da Papa Francesco, fin dai primi mesi del pontificato, nei confronti di grandi temi come l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’eutanasia, è stata ferma e coerente con la morale cattolica, ma attenta a non legarla a scelte partitiche. In questo modo ha cercato di strappare i cattolici dall’abbraccio interessato delle destre. Senza deflettere dai principi della morale cattolica, ha voluto infatti sfuggire alla politicizzazione che queste questioni hanno assunto nella vita di molti paesi democratici, per non trovarsi prigioniero di quello che stava diventando, a tutti gli effetti, un appiattimento della Chiesa su posizioni strettamente politiche. È stata un’operazione non facile, che gli è costata molte critiche, ma della quale ora si raccolgono i frutti. La posizione della Chiesa sui due temi cruciali del nostro tempo, i migranti e la vita, è chiara e autonoma dalla politica, tanto che può muoversi liberamente senza timore di venire immediatamente schiacciata dal peso di un’apparente coincidenza. Si tratta di un difficile equilibrio, che va riaggiustato di volta in volta: più facile rinchiudersi in posizioni precostituite e in apparenza chiare. Un atteggiamento in parte nuovo, che non si può confondere con il relativismo, perché basato sulla consapevolezza profonda che ogni volta bisogna scegliere, e che per farlo è fondamentale muoversi a un livello più alto di quello della polemica politica. Del resto la Chiesa sa da tempo cosa significhi prendere le distanze da coloro che solo esteriormente sono compagni di battaglia: Napoleone, che aveva reso molto più severa la legislazione contro l’aborto, non l’aveva certo fatto perché mosso da motivi morali, ma per garantire soldati al suo esercito, frutto della coscrizione obbligatoria. E allo stesso modo si erano comportati i governi europei dopo la prima guerra mondiale, che aveva determinato una ecatombe di giovani maschi. In entrambe le situazioni la Chiesa ha saputo prendere le distanze dalle contingenze politiche, grazie proprio all’altezza morale con cui affrontava il problema. Ma soprattutto grazie al fatto che la misericordia, il perdono, fanno parte della tradizione cattolica tanto quanto la condanna del peccato. Proprio questo particolare punto di vista permette alla Chiesa di uscire da schematiche equazioni, nelle quali talvolta si è trovata imprigionata. Quando infatti è stata dimenticata questa specifica condizione, che è proprio quella che differenzia la posizione cattolica da qualsiasi parte politica, la Chiesa o singoli gruppi di cattolici hanno rischiato di essere usati, manipolati, travisati. Pagando a caro prezzo l’immersione nel gioco politico, nel quale alla fine non hanno mai tratto niente sul lungo

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periodo. Ma c’è sempre chi prova, da un lato come dall’altro, a tirare la Chiesa dalla propria parte. Ed è solo alzando il punto di vista con il quale si interpreta il mondo che ci circonda, ritornando allo spirito evangelico senza paura di sembrare ingenui, che si può trovare la posizione giusta e libera con la quale guardare al presente. Papa Francesco lo sta facendo, con la fatica che implica questo districarsi da mille lacci e da mille condizionamenti, interni ed esterni. I fedeli dovrebbero aiutarlo, facendo uno sforzo in più per capire cosa accade, senza farsi condizionare dalle voci che sembrano sapere qual è la via giusta solo perché sembra la più facile. IL GAZZETTINO Pag 1 Unione Europea, un’altra fuga può disintegrarla di Giulio Sapelli Il cuore dell'Europa fatica a funzionare le sistole e le diastole non hanno lo stesso ritmo. Il ciclone elettorale europeo inizia a intaccare la circolazione stessa di quel cuore. Una circolazione finora alimentata da due terre storicamente ben distintela terra francese e la terra germanica. Due Paesi che si erano uniti con vincoli antemurali durante la guerra civile europea contro l'Urss e nel contempo con il Piano Marshall e via via con un seguitare di accordi funzionali che, da commerciali e industriali e poi agricoli, si sono fatti, dopo Maastricht, dei trattati sempre più impegnativi. Sono divenuti monetari prima di essere politicamente solidi, senza riuscire a sostituire lo Stato nazione con lo Stato continentale europeo. Le illusioni della salvifica moneta unica si stanno ora dissipando proprio per ragioni politiche. La crisi finanziaria della metà del primo decennio del duemila e poi la crisi da deflazione per eccesso di surplus commerciale tedesco e olandese nella secondo decennio stanno trasformando l'Europa in un deserto dei tartari, danneggiando anche la Germania che non alimenta la sua economia ma solo la finanza internazionale, non investendo in infrastrutture e in nuova occupazione. La leadership politica in questo modo fatica a manifestarsi in positivo ossia unificando anziché dividendo. E la prima divisione, la prima lacerazione, è stata quella greca. Oggi quella divisione si ripresenta aggravata dalla drastica cura imposta: una devastante austerità che ha piegato la società e l'economia greca. La Germania non nasconde il fatto di dominare l'Europa la proposta della Merkel a Malta di una Europa a più velocità non è forse una prova muscolare di dominio in funzione elettorale?e la prova provata di ciò potrebbe essere lo spingere fuori dall'Europa la Grecia. Sarebbe l'inizio della disgregazione europea. Ma sarebbe un bel bottino elettorale per la Cancelliera minacciata non solo dalle destre nazionaliste ma anche da una socialdemocrazia miracolosamente risuscitata dal nuovo sfidante, il signor Schulz. Ma vi è dell'altro: la minaccia della destra estrema francese che avanza nei sondaggi con la Le Pen e il tentativo di liquidazione via giudiziaria del suo solido avversario Francois Fillon. La minaccia è reale. Se il Front National vincesse, la disgregazione europea sarebbe di fatto compiuta, perché se il cuore economico dell'Europa è la Germania, da sempre quello politico è la Francia e un altro voto negativo referendario contro l'Europa, come già accadde in terra francese, sarebbe la vera fine dell'Europa. Ma basterebbe la Grexit a certificare la fine. Si metterebbe in moto una slavina che, a differenza di quello che pensa il moderatismo tedesco paladino dell'austerità, non sarebbe più controllabile e provocherebbe la crisi definitiva dell'euro che non favorirebbe che l'alta finanza speculatrice a discapito di tutti: eurofili ed eurofobi. La più danneggiata sarebbe l'Italia, in una situazione di paralisi politica per la dilaniante incertezza che sovrasta la macchina dei partiti e la decadenza del suo establishment che fatica a ritrovare se stesso. Il tutto in una situazione internazionale che vede gli Usa non più disposti a farsi carico di controbilanciare la dominazione tedesca dell'Europa. L'America di Trump è destinata a guardare alla Russia con sempre più realistico orientamento geostrategico. È un cambiamento improvviso che dovrebbe essere affrontato con forti istituzioni e solide prospettive di negoziazione in Europa e nel Nord Africa. Per questo l'Italia deve agire per ricomporre e non per dividere: deve ritrovare l'orgoglio di una nazione che ha dato così tanto all'Europa e che può essere ancora decisiva, proprio nell'anniversario dei Patti di Roma. LA NUOVA Pag 8 Donald e Beppe, i “gemelli” di Claudio Giua

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I giornali sono «confezionatori seriali di menzogne» che arrivano a «coprire consapevolmente le notizie sugli attacchi dei terroristi»: la frase ha un doppio copyright in quanto cuce tra loro le accuse di beppegrillo.it al Corriere della Sera e il passaggio più discusso del discorso di Donald Trump al Central Command, sorta di assemblea generale dei capi delle forze armate americane. Da posizioni per fortuna non coincidenti - il primo è un ex comico che per ora resta un leader politico d’opposizione, il secondo un ex conduttore televisivo, oltre che costruttore edile e finanziere, eletto presidente della prima potenza globale - condividono la guerra senza quartiere al sistema dell’informazione, del quale vorrebbero la sottomissione. La strana coppia usa anche la stessa tecnica mediatica: quella dell’elenco. Per convincere l’opinione pubblica della malafede dei media, Grillo mette in fila sul suo blog «i 43 successi di Virginia Raggi e del MoVimento 5 Stelle per Roma» dei quali può testimoniare la totale insussistenza chiunque, come chi scrive, nella capitale viva, lavori, passeggi, produca rifiuti, usi la metropolitana e gli autobus, guidi l’auto e frequenti gli uffici comunali. Trump consegna invece una lista di 78 eventi “sottovalutati” che coinvolgono killer musulmani, compresi episodi interni gravissimi come i massacri di San Bernardino e Orlando, che hanno monopolizzato l’informazione Usa per settimane. Poi, spacciando l’ennesima fake news, dice ai generali: «Tutti avete visto quanto è successo a Parigi e Nizza, quanto in tutta Europa sta succedendo. (I nostri media) sono giunti al punto di non darne nemmeno notizia. In molti casi la stampa con molta, molta disonestà non vuole segnalare (le attività dei terroristi islamici). Ha le sue ragioni, e si capisce quali». Com’è sua abitudine, il sito FiveThirtyEight è andato a vedere i numeri: tra il 1968 e il 2009 sono stati registrati 40.129 episodi di terrorismo fuori dal territorio americano, con una media di poco meno di mille l’anno, e il New York Times ne ha dato notizia nella stragrande maggioranza dei casi; nell’aprile scorso il Los Angeles Times ha tenuto traccia di 180 attacchi che hanno avuto 858 vittime: «Ovviamente - chiosa il Washington Post - non tutti hanno trovato spazio nel telegiornali della sera». Grillo e Trump hanno un comune obiettivo: mettere a tacere la stampa indipendente. C’erano riusciti il MinCulPop fascista, affidato alle cure di Alessandro Pavolini che intimava «...nelle cronache delle partite di calcio e negli articoli sul campionato non attaccare gli arbitri», il Ministero della Propaganda nazista, diretto da Joseph Goebbels, secondo il quale «qualunque persona che abbia ancora un briciolo di onore dovrà fare attenzione prima di scegliere la professione di giornalista», e il partito comunista dell’Urss, che nel Codice Penale fece prevedere, nel caso di «invenzioni di cui è manifesta la falsità, che denigrano il regime statale e sociale sovietico» divulgate «a mezzo di stampa o in altra forma», pene che vanno «dalla privazione della libertà fino a tre anni ai lavori correzionali fino a un anno»: di fatto, la morte nei gulag siberiani. I tempi sono tali da non consentire facilmente a nessuno, nel mondo occidentale, di replicare qualcosa del genere. I mezzi per ottenere che la stampa sia meno ostile agli autocrati possono tuttavia essere, oggi, altrettanto efficaci delle veline e degli editti. Si va dalle pressioni sulle proprietà dei media, come denunciano i redattori del Wall Street Journal controllato da Rupert Murdoch, molto vicino a Trump, alle intimidazioni come quella del Movimento 5 Stelle al Corriere della Sera. Il popolo grillino condivide, applaude e rincara, come bene condensa in un post uno dei più assidui frequentatori del blog, Alberto O. di Bergamo: «La stampa italiana, l’informazione tutta, ha zero credibilità. Non preoccupatevene più di tanto. I leccachiappe del regime stanno sparando le loro ultime cartucce. A salve». Di Alberto O. e di altri come lui bisogna avere paura. Torna al sommario