Rassegna stampa 4 dicembre 2014 · Rodari Il Papa rimuove il comandante della Guardia svizzera....

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 4 dicembre 2014 SOMMARIO Il racconto come “un viaggio affascinante nell’arte del generare alla fede attraverso la narrazione”: è quanto propone, sulle pagine odierne di Avvenire, padre Jean Pierre Sonnet (gesuita francese, teologo, scrittore e poeta). «E i veri maestri in questo non possono che essere i genitori. Io appartengo a un ordine religioso al quale per secoli le famiglie hanno affidato i figli affinché fossero educati alla fede. Oggi credo sia giunto il tempo di riaffidare i figli ai genitori aiutandoli nel difficile compito di indicare la strada di Dio. I genitori, soprattutto oggi, sono gli unici a poterlo fare. E il racconto resta una strada privilegiata di educazione. La nostra è una cultura in cui ogni generazione deve reinventarsi al ritmo delle nuove tecniche. Non è più il padre che trasmette le conoscenze al figlio: anzi, fa persino la figura dell’incapace. Ma di cosa si ricorderanno un giorno i figli divenuti adulti? Non credo della penultima versione dell’iPhone, ma della voce della mamma. Così come non dimentico mia mamma che cantava canzoncine con delle storie bibliche. Una sulla storia di Zaccheo la ricordo molto bene... e io che giravo intorno al tavolo in cucina...». Perché lo ricorda così bene? «Perché le storie raccontate dai genitori si legano ai ricordi della vita. E quelle storie hanno una loro storia nella nostra vita: rilette a varie età mostrano contenuti sempre diversi. Per questo i genitori devono cominciare da subito a raccontare. Il racconto è un po’ come un’opera di artigianato che si trasmette di padre in figlio: ci lavora il padre e poi ci lavorano i figli e spesso anche i figli dei figli». Tanti genitori oggi non raccontano e non saprebbero nemmeno cosa raccontare. «Da giovane prete, in Francia, mi capitava di passare ore in confessionale e spesso per penitenza invitavo a raccontare una storia biblica ai figli o ai nipoti. Una donna anziana un giorno mi rispose: 'Padre, non sarebbe meglio un rosario?'. Quella donna evidentemente non aveva sperimentato quell’alleanza speciale che c’è fra nonni e nipoti quando si raccontano storie. Anche Papa Francesco ha parlato del suo particolare rapporto con nonna Rosa. Nella dedica che ho fatto nella copia di questo libro che ho inviato a Francesco ho scritto: 'A Papa Francesco che ci ha raccontato di come nonna Rosa gli raccontava'. Ecco, i nonni hanno un dono speciale. E se, come i genitori, hanno paura di raccontare, credo che nostro compito, il compito della Chiesa, sia di incoraggiarli, di confermarli in questa loro funzione essenziale: 'Quando tuo figlio domani ti chiederà perché? Tu gli risponderai: Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto...' (Es 13, 14). Quando Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente (Es 3, 6) gli dice: 'Io sono il Dio di tuo padre. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe', e in Dt 26, 5 Dio insegna a raccontare: 'Mio padre era un arameo errante...'. Insomma, le generazioni sono direttamente implicate nella trasmissione del mistero e della fede». Legandolo alla famiglia, lei scrive che il racconto è ospitale come una casa. «Noi abitiamo le storie come una casa nella quale col tempo cambiamo l’arredamento: nella casa c’è posto per tutti, così come del racconto c’è una versione adatta a ciascuno. Le parabole che raccontava Gesù hanno vari livelli di comprensione e ognuno trova il suo. Il racconto è una dimensione che non esclude e che tutti possono approfondire. Il racconto aggrega. Pensi alle storie che, soprattutto una volta, nelle case si narravano sugli antenati: ti facevano sentire parte di una storia, di una famiglia». Un cristiano non può fare a meno di raccontare? «Il nucleo della nostra fede è narrativo. Gli ebrei raccontano: 'Eravamo schiavi e Dio ci ha liberati...'. Per noi cristiani 'il Signore Gesù alla vigilia della sua morte prese il pane...', oppure: 'Il Signore Gesù ci ha liberati dalla morte...'. Storie del passato, ma strettamente legate alla vita di oggi. Tocca a noi continuare a renderle vive. Il Salmo 78 ci invita: 'Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli...'. E i bambini sono affascinati dal passato, soprattutto se è possibile riviverlo per il presente». Lo dicevamo all’inizio: in tante famiglie non si raccontano nemmeno più le favole... E poi qual è il momento per raccontare? «Io sono

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 4 dicembre 2014

SOMMARIO

Il racconto come “un viaggio affascinante nell’arte del generare alla fede attraverso la narrazione”: è quanto propone, sulle pagine odierne di Avvenire, padre Jean Pierre Sonnet (gesuita francese, teologo, scrittore e poeta). «E i veri maestri in questo non

possono che essere i genitori. Io appartengo a un ordine religioso al quale per secoli le famiglie hanno affidato i figli affinché fossero educati alla fede. Oggi credo sia giunto il tempo di riaffidare i figli ai genitori aiutandoli nel difficile compito di indicare la strada di Dio. I genitori, soprattutto oggi, sono gli unici a poterlo fare. E il racconto

resta una strada privilegiata di educazione. La nostra è una cultura in cui ogni generazione deve reinventarsi al ritmo delle nuove tecniche. Non è più il padre che

trasmette le conoscenze al figlio: anzi, fa persino la figura dell’incapace. Ma di cosa si ricorderanno un giorno i figli divenuti adulti? Non credo della penultima versione

dell’iPhone, ma della voce della mamma. Così come non dimentico mia mamma che cantava canzoncine con delle storie bibliche. Una sulla storia di Zaccheo la ricordo molto bene... e io che giravo intorno al tavolo in cucina...». Perché lo ricorda così

bene? «Perché le storie raccontate dai genitori si legano ai ricordi della vita. E quelle storie hanno una loro storia nella nostra vita: rilette a varie età mostrano contenuti sempre diversi. Per questo i genitori devono cominciare da subito a raccontare. Il

racconto è un po’ come un’opera di artigianato che si trasmette di padre in figlio: ci lavora il padre e poi ci lavorano i figli e spesso anche i figli dei figli». Tanti genitori

oggi non raccontano e non saprebbero nemmeno cosa raccontare. «Da giovane prete, in Francia, mi capitava di passare ore in confessionale e spesso per penitenza invitavo

a raccontare una storia biblica ai figli o ai nipoti. Una donna anziana un giorno mi rispose: 'Padre, non sarebbe meglio un rosario?'. Quella donna evidentemente non

aveva sperimentato quell’alleanza speciale che c’è fra nonni e nipoti quando si raccontano storie. Anche Papa Francesco ha parlato del suo particolare rapporto con

nonna Rosa. Nella dedica che ho fatto nella copia di questo libro che ho inviato a Francesco ho scritto: 'A Papa Francesco che ci ha raccontato di come nonna Rosa gli

raccontava'. Ecco, i nonni hanno un dono speciale. E se, come i genitori, hanno paura di raccontare, credo che nostro compito, il compito della Chiesa, sia di incoraggiarli,

di confermarli in questa loro funzione essenziale: 'Quando tuo figlio domani ti chiederà perché? Tu gli risponderai: Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto...' (Es 13, 14). Quando Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente (Es 3, 6) gli dice: 'Io sono il Dio di tuo padre. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe', e in Dt 26, 5 Dio insegna a raccontare: 'Mio padre era un arameo errante...'. Insomma,

le generazioni sono direttamente implicate nella trasmissione del mistero e della fede». Legandolo alla famiglia, lei scrive che il racconto è ospitale come una casa.

«Noi abitiamo le storie come una casa nella quale col tempo cambiamo l’arredamento: nella casa c’è posto per tutti, così come del racconto c’è una versione adatta a ciascuno. Le parabole che raccontava Gesù hanno vari livelli di comprensione e

ognuno trova il suo. Il racconto è una dimensione che non esclude e che tutti possono approfondire. Il racconto aggrega. Pensi alle storie che, soprattutto una volta, nelle

case si narravano sugli antenati: ti facevano sentire parte di una storia, di una famiglia». Un cristiano non può fare a meno di raccontare? «Il nucleo della nostra fede

è narrativo. Gli ebrei raccontano: 'Eravamo schiavi e Dio ci ha liberati...'. Per noi cristiani 'il Signore Gesù alla vigilia della sua morte prese il pane...', oppure: 'Il

Signore Gesù ci ha liberati dalla morte...'. Storie del passato, ma strettamente legate alla vita di oggi. Tocca a noi continuare a renderle vive. Il Salmo 78 ci invita: 'Ciò che

abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli...'. E i bambini sono affascinati dal passato, soprattutto se è possibile riviverlo per il presente». Lo dicevamo all’inizio: in tante famiglie non si

raccontano nemmeno più le favole... E poi qual è il momento per raccontare? «Io sono

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un prete, non ho figli, ma ho 18 nipoti e seguo tante famiglie. La mia esperienza mi dice che bisogna sfruttare il sacro momento in cui il bambino si corica, non ha più la

tv e i videogiochi. C’è il libricino illustrato e la voce della mamma, del papà, dei nonni. Perché in quel momento non raccontare storie bibliche? Ce n’è una per ogni situazione. Ma si può raccontare anche in vacanza, durante una gita, camminando

insieme. Del resto l’elaborazione del racconto apre a un cammino interiore e la Bibbia è densa di personaggi che raccontano e camminano. Gesù è un grande camminatore e

un grande narratore. Spero davvero che il Sinodo sulla famiglia proponga strade e offra consigli a questo riguardo: questa è la chiesa domestica»” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Santa Barbara, parrocchia in festa. Eventi e mostra su Papa Giovanni Da oggi e domenica 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Uno sguardo da ricambiare di Omar Abboud Nella Moschea Blu di Istanbul Pag 7 Dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Pag 8 I frutti del dialogo All’udienza generale Papa Francesco ripercorre le tappe del pellegrinaggio in Turchia AVVENIRE Pag 22 Sinodo della famiglia 2015, arriva il “questionario bis” di Luciano Moia Baldisseri: nuove domande per approfondire i temi Pag 25 Genitori: raccontate ai figli la storia di Dio di Roberto I. Zanini “E’ un compito pedagogico decisivo quello che padri e madri possono svolgere per avvicinare i loro bambini alla fede”. Parla il gesuita Jean-Pierre Sonnet Pag 27 I dubbi e i pregiudizi di Loach. Sul Papa meglio informarsi prima LA REPUBBLICA Pag 23 L’addio di Bertone al palazzo della Curia. Vivrà nel mega attico di Paolo Rodari Il Papa rimuove il comandante della Guardia svizzera. Francesco vorrebbe una guida “meno rigida” del corpo IL FOGLIO Pag 2 Separare pastorale e dottrina è “sottile eresia”, dice il cardinale Müller di mat.maz. Pag III Intellettuali & luterani di Alessandro Gnocchi La chiesa ha domato il mondo col sangue dei martiri e non con l’inchiostro. Ma dopo il Concilio sono stati sostituiti dai guru. Come riconquistare la verità WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Maradiaga: «La riforma della Curia favorirà la collegialità» di Andrea Tornielli Intervista con il coordinatore del C9, il consiglio che aiuta Francesco nel riorganizzare i dicasteri vaticani: «Ci saranno meno cardinali in Vaticano, allo studio anche una riforma della Segreteria di Stato» 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

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LA STAMPA Le incognite ancora da sciogliere di Francesco Manacorda AVVENIRE Pag 2 Il matrimonio è uno solo (né largo, né doppio) di Giuseppe Dalla Torre Scelte, elucubrazioni e vere diseguaglianze d’Oltralpe Pag 3 Conciliazione famiglia – lavoro, promesse e rischi del Jobs act di Francesco Riccardi Incentivi all’impiego femminile e orari flessibili: i nodi aperti Pag 15 Scelta delle superiori, quasi la metà si “pente” di Paolo Ferrario Se potesse, il 46% cambierebbe scuola IL GAZZETTINO Pag 1 Governo assente, eppure le imprese tornano in patria di Giorgio Brunetti 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Ca’ Foscari punta sul super campus di Daniela Ghio Ieri pomeriggio al Malibran l’inaugurazione, sobria ed essenziale, dell’anno accademico. Il nuovo rettore Bugliesi: “Via Torino, San Giobbe e Santa Marta sono la nostra scommessa” Pag IX Don Pistolato al convegno con Casson. Boraso attacca la Curia: “Inaccettabile” Pag XXXI Turismo, una ricchezza potenziale che lascia attorno a sé solo nebbia (intervento di Franco Miracco) LA NUOVA Pag 24 Polemiche su don Pistolato. E lui rinuncia alla serata Pd di Francesco Furlan Il vicario non sarà più al dibattito con il probabile candidato alle primarie Casson: “Una scelta presa in autonomia”. Manifesto dell’iniziativa spedito al Patriarcato Pag 25 In arrivo altri 205 profughi, potranno fare i volontari di m.ch. Si aggiungono ai 652 transitati nelle strutture della nostra provincia da giugno. Circolare ministeriale introduce la novità: lavori socialmente utili nei Comuni 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Lui, Nietzsche e una bomba nella testa di Ferdinando Camon Pag 1 La banalità di quella violenza di Giuliano Pasini … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le complicità da sradicare nei partiti di Fiorenza Sarzanini Criminalità e affari AVVENIRE Pag 1 La speranza da salvare di Danilo Paolini Burattinai e politica minuscola

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Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Santa Barbara, parrocchia in festa. Eventi e mostra su Papa Giovanni Da oggi e domenica Una mostra dedicata a Papa Giovanni XXIII, spettacoli, un concerto e, ovviamente, le celebrazioni liturgiche di Santa Barbara per la festa dell’omonima parrocchia di via Rio Cimetto, tra la Miranese e la Gazzera. Per oggi pomeriggio, alle 15.30 per bimbi e famiglie della scuola dell’infanzia e, alle 19, per tutti gli abitanti e i corpi d’arma, sono in programma le messe dedicate a Santa Barbara, mentre alle 20 verrà inaugurata la mostra mercato dei lavori artigianali realizzati dalle signore del gruppo parrocchiale. «Fino all’8 dicembre, in patronato, si potrà poi visitare la mostra "Papa Giovanni: un Angelo per il mondo" dedicata a San Giovanni XXIII - spiega don Guido Scattolin, parroco della chiesa di Santa Barbara -. La mostra itinerante fa tappa nella nostra parrocchia documentando la vita di Papa Giovanni e il suo impegno per l’unitarietà della famiglia umana e i diritti umani». La festa di Santa Barbara in parrocchia continuerà anche nel fine settimana: sabato, alle 20.45 in sala "Albino Luciani" con la commedia "No te conosso più" de "Gli amici del teatro" di Roncade", e domenica pomeriggio in patronato con una castagnata e vin brulé e, alle 17, con il concerto del "Trio Liberty and friends", un appuntamento che vedrà sul palco Graziano Pizzati, Silvia Pilla ed Enrico Pizzati (al pianoforte, violoncello e violino), assieme ai loro allievi. I Pizzati, residenti proprio a Santa Barbara, sono una famiglia di musicisti da più generazioni che, in questa occasione, proporranno un programma di brani classici assieme a temi di Ennio Morricone e Nino Rota, oltre a composizioni originali. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Uno sguardo da ricambiare di Omar Abboud Nella Moschea Blu di Istanbul È significativo osservare che dei viaggi internazionali realizzati da Papa Francesco quattro sono stati in territori a maggioranza islamica: nel Regno di Giordania, nello Stato di Palestina, in Albania e ora in Turchia. «Non sono un turista, sono un pellegrino» ha detto il Pontefice parlando della visita alla Moschea Blu dove si è soffermato a pregare per alcuni minuti volgendo il viso verso la sacra città della Mecca. In un momento particolare per tutta la regione del Vicino e Medio oriente, il Papa riafferma la sua vocazione a dialogare con i musulmani. Credo di non sbagliarmi se affermo che da un punto di vista storico Francesco è il Papa che più gesti ha compiuto verso l’islam, gesti che sono giunti in un momento in cui il mondo deve avanzare verso un dialogo più attivo e che si traduca in azioni concrete di mutua cooperazione. Francesco ha detto più volte di non rassegnarsi al fatto che non ci siano cristiani in Oriente, e di certo anche noi musulmani non dobbiamo rassegnarci al fatto che non ci siano cristiani in Oriente, poiché essi sono parte della nostra storia comune e poiché, tra alti e bassi nei rapporti, conviviamo insieme da più di quattordici secoli. Il Corano (5, 82) dice: «Troverai che i più vicini ai credenti sono quelli che dicono “siamo cristiani”» . Il dovere delle autorità islamiche è senza dubbio di garantire la libertà religiosa delle minoranze che desiderano vivere in pace e in armonia: come dice il Corano (2, 256), «nessuna imposizione in religione». Molti Paesi del mondo islamico stanno attraversando situazioni di violenza. Certo, occorre affrontare le conseguenze di tali situazioni, ma occorre anche pensare che

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molte delle realtà esistenti sono il risultato del cattivo intervento di potenze estranee alle regioni devastate dai conflitti, così come della mancanza di visione di alcuni Paesi della zona. Francesco si è rivolto inoltre ai leader musulmani chiedendo loro più forza nella condanna al terrorismo e ha parlato anche di islamofobia e di cristianofobia. Nella Moschea Blu per pregare ha guardato nella stessa direzione verso la quale un quarto della popolazione mondiale rivolge il viso cinque volte al giorno. Guardare La Mecca vuol dire guardare i musulmani direttamente negli occhi. Sono certo che la maggioranza del popolo dell’islam è capace di ricambiare questo sguardo trasformato in dialogo e fraternità. Dice il Corano (3, 64): «Gente del Libro! Venite a un accordo equo fra noi e voi, decidiamo cioè di non adorare che Dio» e «di non sceglierci tra noi alcun padrone». Pag 7 Dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Nella mattina di martedì 2 dicembre il promotore di giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Gian Piero Milano, ha incontrato il procuratore generale della Repubblica Dominicana, Francisco Domínguez Brito, su richiesta di quest’ultimo, che sta compiendo un viaggio in Europa per contatti in Polonia e in Vaticano. Lo ha reso noto il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, specificando che «l’incontro si colloca nel quadro della cooperazione internazionale a livello di organi inquirenti per il procedimento a carico di monsignor Józef Wesołowski e alle relative indagini in corso, ed è stato utile per ambedue le parti data la complessità dell’inchiesta e la eventualità di una rogatoria internazionale da parte vaticana per acquisire ulteriori elementi». «A proposito della situazione di monsignor Wesołowski - ha aggiunto - posso dire che la magistratura dello Stato della Città del Vaticano, continuando le indagini, ha compiuto un primo interrogatorio dell’imputato, a cui ne seguiranno altri. Essendo scaduti i termini per la custodia preventiva e in considerazione delle sue condizioni di salute, monsignor Wesołowski è stato autorizzato a una certa libertà di movimento, ma con obbligo di permanenza all’interno dello Stato e soggetto a opportune limitazioni nelle comunicazioni con l’esterno». Pag 8 I frutti del dialogo All’udienza generale Papa Francesco ripercorre le tappe del pellegrinaggio in Turchia A tre giorni dal ritorno in Vaticano, nell’udienza generale di mercoledì 3 dicembre in piazza San Pietro, Papa Francesco ha ripercorso le tappe del pellegrinaggio compiuto in Turchia e ha chiesto preghiere ai fedeli perché dal viaggio «possano scaturire frutti di dialogo sia nei nostri rapporti con i fratelli ortodossi, sia in quelli con i musulmani, sia nel cammino verso la pace tra i popoli». Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Ma, non sembra tanto buona la giornata, è un po’ bruttina... Ma voi siete coraggiosi e a brutta giornata buona faccia, e andiamo avanti! Questa udienza si svolge in due posti diversi, come facciamo quando piove: qui in piazza e poi ci sono gli ammalati in Aula Paolo VI. Io li ho già incontrati, li ho salutati, e loro seguono l’udienza tramite il maxischermo, perché sono malati e non possono venire sotto la pioggia. Li salutiamo di qua con un applauso. Oggi voglio condividere con voi alcune cose del mio pellegrinaggio che ho compiuto in Turchia da venerdì scorso a domenica. Come avevo chiesto di prepararlo e accompagnarlo con la preghiera, ora vi invito a rendere grazie al Signore per la sua realizzazione e perché possano scaturire frutti di dialogo sia nei nostri rapporti con i fratelli ortodossi, sia in quelli con i musulmani, sia nel cammino verso la pace tra i popoli. Sento, in primo luogo, di dover rinnovare l’espressione della mia riconoscenza al Presidente della Repubblica turca, al Primo Ministro, al Presidente per gli Affari Religiosi e alle altre Autorità, che mi hanno accolto con rispetto e hanno garantito il buon ordine degli eventi. Questo richiede lavoro, e lo hanno fatto questo volentieri. Ringrazio fraternamente i Vescovi della Chiesa cattolica in Turchia, il Presidente della Conferenza episcopale, tanto bravo, e ringrazio per il loro impegno le comunità cattoliche, come pure ringrazio il Patriarca Ecumenico, Sua Santità Bartolomeo I, per la cordiale accoglienza. Il beato Paolo VI e san Giovanni Paolo II, che si recarono entrambi in Turchia, e san Giovanni XXIII, che fu Delegato Pontificio in quella Nazione, hanno protetto dal cielo il mio pellegrinaggio, avvenuto otto

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anni dopo quello del mio predecessore Benedetto XVI. Quella terra è cara ad ogni cristiano, specialmente per aver dato i natali all’apostolo Paolo, per aver ospitato i primi sette Concili, e per la presenza, vicino ad Efeso, della “casa di Maria”. La tradizione ci dice che lì è vissuta la Madonna, dopo la venuta dello Spirito Santo. Nella prima giornata del viaggio apostolico ho salutato le Autorità del Paese, a larghissima maggioranza musulmano, ma nella cui Costituzione si afferma la laicità dello Stato. E con le Autorità abbiamo parlato della violenza. È proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza. Per questo ho insistito sull’importanza che cristiani e musulmani si impegnino insieme per la solidarietà, per la pace e la giustizia, affermando che ogni Stato deve assicurare ai cittadini e alle comunità religiose una reale libertà di culto. Oggi prima di andare a salutare gli ammalati sono stato con un gruppo di cristiani e islamici che fanno una riunione organizzata dal Dicastero per il Dialogo Interreligioso, sotto la guida del Cardinale Tauran, e anche loro hanno espresso questo desiderio di continuare in questo dialogo fraterno fra cattolici, cristiani e islamici. Nel secondo giorno ho visitato alcuni luoghi-simbolo delle diverse confessioni religiose presenti in Turchia. L’ho fatto sentendo nel cuore l’invocazione al Signore, Dio del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità. Centro della giornata è stata la Celebrazione Eucaristica che ha visto riuniti nella Cattedrale pastori e fedeli dei diversi Riti cattolici presenti in Turchia. Vi hanno assistito anche il Patriarca Ecumenico, il Vicario Patriarcale Armeno Apostolico, il Metropolita Siro-Ortodosso ed esponenti Protestanti. Insieme abbiamo invocato lo Spirito Santo, Colui che fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore. Il Popolo di Dio, nella ricchezza delle sue tradizioni e articolazioni, è chiamato a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, in atteggiamento costante di apertura, di docilità e di obbedienza. Nel nostro cammino di dialogo ecumenico e anche dell’unità nostra, della nostra Chiesa cattolica, Colui che fa tutto è lo Spirito Santo. A noi tocca lasciarlo fare, accoglierlo e seguire le sue ispirazioni. Il terzo e ultimo giorno, festa di sant’Andrea Apostolo, ha offerto il contesto ideale per consolidare i rapporti fraterni tra il Vescovo di Roma, Successore di Pietro, e il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, successore dell’apostolo Andrea, fratello di Simon Pietro, che ha fondato quella Chiesa. Ho rinnovato con Sua Santità Bartolomeo I l’impegno reciproco a proseguire sulla strada verso il ristabilimento della piena comunione tra cattolici e ortodossi. Insieme abbiamo sottoscritto una Dichiarazione congiunta, ulteriore tappa di questo cammino. È stato particolarmente significativo che questo atto sia avvenuto al termine della solenne Liturgia della festa di sant’Andrea, alla quale ho assistito con grande gioia, e che è stata seguita dalla duplice Benedizione impartita dal Patriarca di Costantinopoli e dal Vescovo di Roma. La preghiera infatti è la base per ogni fruttuoso dialogo ecumenico sotto la guida dello Spirito Santo, che come ho detto è Colui che fa l’unità. Ultimo incontro - questo è stato bello e anche doloroso - è stato quello con un gruppo di ragazzi profughi, ospiti dei Salesiani. Era molto importante per me incontrare alcuni profughi dalle zone di guerra del Medio Oriente, sia per esprimere loro la vicinanza mia e della Chiesa, sia per sottolineare il valore dell’accoglienza, in cui anche la Turchia si è molto impegnata. Ringrazio ancora una volta la Turchia per questa accoglienza di tanti profughi e ringrazio di cuore i Salesiani di Istanbul. Questi Salesiani lavorano con i profughi, sono bravi! Ho incontrato anche altri padri e un gesuita tedeschi e altri che lavorano con i profughi ma quell’oratorio salesiano dei profughi è una cosa bella, è un lavoro nascosto. Ringrazio tanto tutte quelle persone che lavorano con i profughi. E preghiamo per tutti i profughi e i rifugiati, e perché siano rimosse le cause di questa dolorosa piaga. Cari fratelli e sorelle, Dio onnipotente e misericordioso continui a proteggere il popolo turco, i suoi governanti e i rappresentanti delle diverse religioni. Possano costruire insieme un futuro di pace, così che la Turchia possa rappresentare un luogo di pacifica coesistenza fra religioni e culture diverse. Preghiamo inoltre perché, per intercessione della Vergine Maria, lo Spirito Santo renda fecondo questo viaggio apostolico e favorisca nella Chiesa il fervore missionario, per annunciare a tutti i popoli, nel rispetto e nel dialogo fraterno, che il Signore Gesù è verità, pace e amore. Solo Lui è il Signore. AVVENIRE Pag 22 Sinodo della famiglia 2015, arriva il “questionario bis” di Luciano Moia Baldisseri: nuove domande per approfondire i temi

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Che senso avrebbe un Sinodo sulla famiglia se le famiglie stesse non fossero protagoniste in prima persona? Una domanda a cui papa Francesco ha deciso di rispondere in modo tanto coerente quanto inatteso. L’ha fatto un anno fa quando, a poco più di un mese dalla convocazione del 'doppio' Sinodo, decise di diffondere un questionario con otto gruppi di domande (quaranta in totale) per conoscere dalla 'base' della realtà familiare problemi, situazioni, difficoltà, opinioni e speranze. L’In-strumentum laboris, il documento base per la discussione dei padri sinodali, venne preparato sulle indicazioni emerse da quelle decine di migliaia di risposte arrivate da ogni parte del mondo. Per la seconda parte della grande assemblea familiare, che approderà poi al Sinodo ordinario dell’ottobre 2015, Francesco – sorprendendo tutti ancora una volta – ha scelto nei giorni scorsi lo stesso schema. Saranno le famiglie stesse a suggerire valutazioni e approfondimenti grazie a un secondo 'questionario' che a breve sarà diffuso a tutte le famiglie dei cinque continenti. Questa volta la piattaforma per le domande sarà rappresentata dalla Relazione finale del Sinodo straordinario, concluso lo scorso 19 ottobre. Ma, proprio per agevolare l’afflusso dei pareri, i tradizionali lineamenta saranno trasformati in una serie di domande. E anche questa è una novità assoluta nella storia delle assemblee sinodali. L’annuncio è stato dato dal segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri, che domenica scorsa ha celebrato ad Assisi la Messa conclusiva del convegno organizzato dall’Ufficio nazionale Cei per la pastorale familiare. Di fronte a quasi 600 delegati in rappresentanza di 102 diocesi, il porporato ha raccontato che è stato il Papa stesso a prendere questa decisione nel corso dell’ultimo Consiglio di segreteria del Sinodo. «Siamo a metà del cammino sinodale. Ora, per avviare la seconda parte – ha spiegato Baldisseri – abbiamo deciso di lanciare i lineamenta sotto forma di domande». E questo 'questionario bis' avrà due caratteristiche. «Innanzi tutto chiederemo alle conferenze episcopali, alle diocesi, alle parrocchie come è avvenuta la ricezione della 'Relazione finale' del Sinodo straordinario. Allo stesso tempo chiederemo l’approfondimento delle questioni affrontate nel dibattito, di tutte, ma soprattutto di quelle che hanno bisogno di essere discusse in modo più accurato». Alle conferenze episcopali quindi, ha proseguito il segretario generale del Sinodo, la facoltà di come lavorare per questo obiettivo, in modo tale da avere «contributi che arrivano direttamente dalla base». Una sorta di dialogo aperto con le famiglie del mondo, prima di prendere decisioni che, in un modo o nell’altro, avranno conseguenze non trascurabili sulla vita delle famiglie, soprattutto di quelle più segnate dalla sofferenza e dalle spaccature. È come se il Papa consegnasse ai nuclei familiari le decisioni emerse nella prima parte del percorso sinodale e ponesse due questioni fondamentali: come avete accolto queste riflessioni? Come possiamo approfondire questi temi? Una scelta di umiltà che mostra tutta l’attenzione del pontefice – aveva fatto notare Baldisseri nella prima parte dell’omelia – nell’accompagnare con atteggiamento di misericordia la vita delle famiglie, chiedendo direttamente a loro un nuovo protagonismo. Nella stessa prospettiva, tracciando le conclusioni del convegno, si era espresso don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia, che aveva sottolineato come in questo momento storico «venga chiesto un vero e proprio cambio di passo a chi si occupa di pastorale familiare. Solo se ci apriamo alla fantasia creativa della Trinità – ha sottolineato – possiamo scrivere pagine sempre nuove nell’ossatura delle comunità cristiane». Pag 25 Genitori: raccontate ai figli la storia di Dio di Roberto I. Zanini “E’ un compito pedagogico decisivo quello che padri e madri possono svolgere per avvicinare i loro bambini alla fede”. Parla il gesuita Jean-Pierre Sonnet Da una parte ci sono gli idoli che costruiamo a nostra immagine, che pretendiamo e nei quali ci riflettiamo egoisticamente come in uno specchio; dall’altra ci sono i figli, che sono un dono, sono altro da noi e proprio per questo ci stupiscono e ci mettono alla prova con le loro azioni, con le loro domande. E dopo aver acquisito questa disposizione ad accogliere e a stupirsi (per nulla scontata), è al momento delle domande che i genitori mostrano davvero la loro capacità di essere padri e madri: sulle loro risposte, infatti, i figli costruiranno il racconto della loro vita. Perché è il racconto che ci insegna a vivere. Perché il racconto di quelle risposte si inserirà nel racconto della vita del figlio

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(della nostra vita). Perché... Perché il racconto è la forma pedagogica con la quale Dio ci indica la strada della fede; con la quale Gesù ci mostra la realtà del Regno. «Perché i figli (ciò che siamo stati capaci di accogliere come dono) sono il racconto della nostra vita; e il figlio, come fu per Abramo, per Isacco, per Elisabetta e per Maria, è colui attraverso il quale Dio visita la nostra storia». Padre Jean Pierre Sonnet è un gesuita francese, teologo, scrittore e poeta. Insegna Esegesi dell’Antico testamento alla Gregoriana. il suo ultimo libro Generare è narrare (Vita e pensiero, pp. 166, euro 16) – che viene presentato dall’autore e da Silvano Petrosino giovedì 11 dicembre alle ore 16 alla Libreria della Cattolica in Largo Gemelli 1 a Milano – è un viaggio affascinante nell’arte del generare alla fede attraverso la narrazione. «E i veri maestri in questo non possono che essere i genitori. Io appartengo a un ordine religioso al quale per secoli le famiglie hanno affidato i figli affinché fossero educati alla fede. Oggi credo sia giunto il tempo di riaffidare i figli ai genitori aiutandoli nel difficile compito di indicare la strada di Dio. I genitori, soprattutto oggi, sono gli unici a poterlo fare. E il racconto resta una strada privilegiata di educazione». Nonostante l’attuale crisi del rapporto fra le generazioni? «La nostra è una cultura in cui ogni generazione deve reinventarsi al ritmo delle nuove tecniche. Non è più il padre che trasmette le conoscenze al figlio: anzi, fa persino la figura dell’incapace. Ma di cosa si ricorderanno un giorno i figli divenuti adulti? Non credo della penultima versione dell’iPhone, ma della voce della mamma. Così come non dimentico mia mamma che cantava canzoncine con delle storie bibliche. Una sulla storia di Zaccheo la ricordo molto bene... e io che giravo intorno al tavolo in cucina...». Perché lo ricorda così bene? «Perché le storie raccontate dai genitori si legano ai ricordi della vita. E quelle storie hanno una loro storia nella nostra vita: rilette a varie età mostrano contenuti sempre diversi. Per questo i genitori devono cominciare da subito a raccontare. Il racconto è un po’ come un’opera di artigianato che si trasmette di padre in figlio: ci lavora il padre e poi ci lavorano i figli e spesso anche i figli dei figli». Tanti genitori oggi non raccontano e non saprebbero nemmeno cosa raccontare. «Da giovane prete, in Francia, mi capitava di passare ore in confessionale e spesso per penitenza invitavo a raccontare una storia biblica ai figli o ai nipoti. Una donna anziana un giorno mi rispose: 'Padre, non sarebbe meglio un rosario?'. Quella donna evidentemente non aveva sperimentato quell’alleanza speciale che c’è fra nonni e nipoti quando si raccontano storie. Anche Papa Francesco ha parlato del suo particolare rapporto con nonna Rosa. Nella dedica che ho fatto nella copia di questo libro che ho inviato a Francesco ho scritto: 'A Papa Francesco che ci ha raccontato di come nonna Rosa gli raccontava'. Ecco, i nonni hanno un dono speciale. E se, come i genitori, hanno paura di raccontare, credo che nostro compito, il compito della Chiesa, sia di incoraggiarli, di confermarli in questa loro funzione essenziale: 'Quando tuo figlio domani ti chiederà perché? Tu gli risponderai: Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto...' (Es 13, 14). Quando Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente (Es 3, 6) gli dice: 'Io sono il Dio di tuo padre. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe', e in Dt 26, 5 Dio insegna a raccontare: 'Mio padre era un arameo errante...'. Insomma, le generazioni sono direttamente implicate nella trasmissione del mistero e della fede». Legandolo alla famiglia, lei scrive che il racconto è ospitale come una casa. «Noi abitiamo le storie come una casa nella quale col tempo cambiamo l’arredamento: nella casa c’è posto per tutti, così come del racconto c’è una versione adatta a ciascuno. Le parabole che raccontava Gesù hanno vari livelli di comprensione e ognuno trova il suo. Il racconto è una dimensione che non esclude e che tutti possono approfondire. Il racconto aggrega. Pensi alle storie che, soprattutto una volta, nelle case si narravano sugli antenati: ti facevano sentire parte di una storia, di una famiglia». Un cristiano non può fare a meno di raccontare? «Il nucleo della nostra fede è narrativo. Gli ebrei raccontano: 'Eravamo schiavi e Dio ci ha liberati...'. Per noi cristiani 'il Signore Gesù alla vigilia della sua morte prese il pane...', oppure: 'Il Signore Gesù ci ha liberati dalla morte...'. Storie del passato, ma strettamente legate alla vita di oggi. Tocca a noi continuare a renderle vive. Il Salmo 78 ci invita: 'Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli...'. E i bambini sono affascinati dal passato, soprattutto se è possibile riviverlo per il presente».

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Lo dicevamo all’inizio: in tante famiglie non si raccontano nemmeno più le favole... E poi qual è il momento per raccontare? «Io sono un prete, non ho figli, ma ho 18 nipoti e seguo tante famiglie. La mia esperienza mi dice che bisogna sfruttare il sacro momento in cui il bambino si corica, non ha più la tv e i videogiochi. C’è il libricino illustrato e la voce della mamma, del papà, dei nonni. Perché in quel momento non raccontare storie bibliche? Ce n’è una per ogni situazione. Ma si può raccontare anche in vacanza, durante una gita, camminando insieme. Del resto l’elaborazione del racconto apre a un cammino interiore e la Bibbia è densa di personaggi che raccontano e camminano. Gesù è un grande camminatore e un grande narratore. Spero davvero che il Sinodo sulla famiglia proponga strade e offra consigli a questo riguardo: questa è la chiesa domestica». Pag 27 I dubbi e i pregiudizi di Loach. Sul Papa meglio informarsi prima Per uno che premette di «non conoscere abbastanza» la storia del Papa, è alquanto imprudente invitare a farsi «domande per capire che ruolo ha avuto con la dittatura in Argentina». Queste domande se le sono poste in molti poche ore dopo l’elezione di Francesco. E le risposte sono cominciate ad arrivare grazie alle inchieste giornalistiche, come quella di “Avvenire” che ha fatto il giro del mondo, venendo poi ripresa e confermata nelle sue conclusioni dai maggiori media internazionali. Il «ruolo che Bergoglio ha avuto con la dittatura in Argentina », ormai è storia, ed è stato quello di un sacerdote che ha rischiato la propria vita per proteggere e salvare quella di molti altri (un centinaio i casi accertati). Meno di un mese fa Estela Carlotto, la presidente della Nonne di Piazza di Maggio, dopo aver verificato di persona i contenuti delle rivelazioni giornalistiche, si è scusata con il Papa per avere dubitato di lui. E la settimana scorsa il principale accusatore di Bergoglio, il giornalista argentino Horacio Verbitsky, ha ritirato dal sito internet del suo quotidiano il dossier pubblicato anni prima contro il futuro Papa. Più che tutto questo, però, c’è una domanda che fa apparire Loach davvero distratto. A proposito del Papa aggiunge: «È ottimo che parli dei poveri, ma sfida il sistema che produce la povertà?». Grandi banche, poteri economici deviati, produttori e trafficanti di armi, speculatori finanziari. Non c’è giorno che papa Francesco non ne parli. Basterebbe ascoltarlo. LA REPUBBLICA Pag 23 L’addio di Bertone al palazzo della Curia. Vivrà nel mega attico di Paolo Rodari Il Papa rimuove il comandante della Guardia svizzera. Francesco vorrebbe una guida “meno rigida” del corpo Città del Vaticano. Compiuti l'altro ieri gli 80 anni, l'ex segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone lascia fisicamente il palazzo apostolico, sede delle principali attività del governo della curia romana. Il suo appartamento, infatti, è stato liberato in favore del suo successore, il cardinale Pietro Parolin, nominato più di un anno fa, che potrà così decidere se occuparlo oppure se rimanere ad abitare nel convitto di Santa Marta, accanto a Francesco. Dunque, dopo due anni e mezzo dall'elezione di Bergoglio, il numero due del Vaticano nell'èra di Joseph Ratzinger libera le stanze che già anni addietro - era il 2006 - il suo predecessore nella stessa segreteria di stato Angelo Sodano aveva occupato diverso tempo oltre le dimissioni. Col compimento dei 75 anni, ai sensi di un recente rescritto papale, gli incarichi di vescovi e cardinali decadono e, per questo motivo, non è escluso che anche a Bertone venga chiesto di lasciare l'ultimo "incarico" rimastogli, il ruolo di camerlengo di Santa Romana Chiesa, una posizione importante in caso di sede vacante: spetta al camerlengo presiedere la sede fino all'elezione del nuovo Pontefice. Bertone si trasferisce nell'attico di Palazzo San Carlo, appartamento occupato fino alla morte dal comandante della Gendarmeria Camillo Cibin. L'attico è balzato agli onori delle cronache lo scorso aprile, quando era stata rilanciata la notizia dei lavori in corso per la sua ristrutturazione, pagati da Bertone di tasca propria, e che hanno portato al raddoppio della metratura e cioè, secondo quanto ha detto lo stesso cardinale, a circa 350 metri quadri. Un lusso, per alcuni. Normale routine, invece, per la maggior parte delle voci d'oltretevere che ricordano come difficilmente in Vaticano

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si trovano appartamenti di basse metrature. Quella di Bertone, insomma, non è un'eccezione né un privilegio. Del resto, alle accuse mossegli, Bertone replicò tempo fa con una lettera inviata ai settimanali diocesani di Vercelli e Genova, dove fu arcivescovo, sostenendo che l'appartamento è spazioso «come normalmente accade nelle residenze vaticane» e che, dopo di lui, qualcun altro ne avrebbero usufruito. Il rescritto con il quale il Papa chiede a cardinali e vescovi di lasciare a 75 anni sottende l'idea che ogni incarico è un servizio. Così anche quelle poche righe pubblicate ieri su "Nostre informazioni" - la rubrica dell' Osservatore Romano che parla delle nomine vaticane - dedicate all'uscita di scena del comandante della Guardia Svizzera Pontificia, il colonnello Daniel Rudof Anrig, sottendono questa logica: «Il Santo Padre ha disposto che termini il suo ufficio il 31 gennaio 2015, alla conclusione della proroga concessa dopo la fine del suo mandato». Riconfermato da Francesco poco dopo l'elezione al soglio di Pietro, Anrig dovrà ora lasciare. Intorno alle dimissioni le ipotesi che circolano sono molteplici. Anche se la più verosimile sembra essere quella di un Papa che desidera una guida della Guardia meno rigida. È noto quanto egli apprezzi il lavoro delle guardie (fra queste, tra l'altro, molte si dedicano nelle ore di riposo a opere di volontariato anche assistendo a Roma i poveri e portando loro del cibo), ma nello stesso tempo ritiene che una gestione meno rigida del corpo sia più giusta e più confacente al suo stile. Ogni incarico vaticano è per il Papa un servizio. Farsi da parte, dunque, non è abdicare quanto entrare nella scia del pensiero del mistico ispiratore di Ignazio di Loyola (e di Bergoglio), Pierre Favre, che parlava di «continuare ad evangelizzare altrove». Egli era un evangelizzatore ininterrotto, che dove andava metteva radici, ma poi ripartiva lasciando ad altri la possibilità di cogliere i suoi frutti. Morì in viaggio. IL FOGLIO Pag 2 Separare pastorale e dottrina è “sottile eresia”, dice il cardinale Müller di mat.maz. Roma. Sappiano, i padri sinodali che tra poco meno d'un anno si ritroveranno a Roma per la grande assemblea ordinaria sulla famiglia cui seguiranno le decisioni papali, che il confine tra ciò che è conforme all'insegnamento di Cristo e l'eresia è sottile. E' stato chiaro, il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, aprendo la sessione plenaria della commissione teologica internazionale di cui è presidente. E' inconcepibile, ha detto, separare la dottrina dalla pastorale, dicendo che la prima nessuno la discute mentre sulla seconda si può agire allo scopo di svecchiarla e adeguarla alle esigenze mutate della società contemporanea. "Ogni divisione tra la teoria e la prassi della fede sarebbe il riflesso di una sottile eresia cristologica di fondo", ha avvertito Müller, aggiungendo che ciò "sarebbe frutto di una divisione nel mistero del Verbo eterno del Padre che si è fatto carne. Sarebbe l'omissione della dinamica incarnazionista di ogni sana teologia e di tutta la missione evangelizzatrice della chiesa". Non è sfuggito, ai presenti, che il più autorevole sostenitore della liceità di operare quella divisione sia il cardinale Walter Kasper, autore della relazione concistoriale sulla famiglia dello scorso febbraio e lodato pubblicamente dal Papa perché capace di fare quella "teologia in ginocchio" senza la quale si rischia di "dire tante cose senza capire niente" (parole pronunciate da Francesco solo due giorni fa nella consueta omelia all'alba di Santa Marta). Per il capo dell'ex Sant'Uffizio, la tesi del connazionale Kasper, presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, non regge e non può sottostare a un dibattito che potrebbe, un domani, portare a mutare l'approccio della chiesa cattolica riguardo la morale sessuale. Non sono ammesse, a giudizio di Müller, interpretazioni di sorta circa il pensiero di Gesù così come scritto nei Vangeli perché "Cristo può essere detto il teologo per eccellenza e ci ha detto 'io sono la via, la verità e la vita'", ed è in lui che "sta la via per comprendere sempre meglio la verità che si è offerta a noi e si è fatta nostra vita". La teologia, ha osservato ancora il porporato (già vescovo di Ratisbona prima di essere chiamato a Roma da Benedetto XVI nel 2012), "non è mai una pura speculazione o una teoria distaccata dalla vita dei credenti", perché "nell'autentica teologia non c'è mai stato un distacco o una contrapposizione tra l'intelligenza della fede e la pastorale o la prassi vissuta dalla fede". Si potrebbe addirittura dire, ha aggiunto, che "tutto il nostro pensiero teologico, tutte le nostre investigazioni scientifiche hanno sempre una profonda

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dimensione pastorale. Sia la dogmatica, la morale o le altre discipline teologiche hanno sempre una propria dimensione pastorale". Infondata è quindi la teoria che la "sacra doctrina" sia "una pagina morta". Il dissenso di Müller rispetto alle tesi kasperiane non è cosa nuova. Già poche settimane dopo l'indizione del Sinodo, nell'autunno del 2013, il prefetto aveva pubblicato sull'Osservatore Romano un lungo intervento (originariamente apparso sul Tagespost già nel giugno precedente) in cui sottolineava l'impossibilità di mutare la pastorale su uno dei punti più controversi e divisivi, quello relativo alla riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti: "Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia". Una presa di posizione netta, al punto che da più parti si parlava di Müller come del novello Alfredo Ottaviani, il prefetto del Sant'Uffizio nominato da Pio XII nel 1953 che fece da capofila alle resistenze curiali verso le aperture conciliari di Giovanni XXIII prima e Paolo VI poi. Tanto che - in concomitanza con il diffondersi di voci circa un suo possibile allontanamento da Roma per assumere la guida di una diocesi tedesca (Berlino o Magonza, ad esempio) - fu rilevato come, in occasione della grande messa a conclusione del Sinodo e per la beatificazione di Paolo VI, il porporato tedesco si fosse tenuto a debita distanza dal Papa, evitando perfino di salutarlo al termine della celebrazione. Ricostruzione che Müller, qualche giorno dopo, avrebbe seccamente smentito nel corso di un incontro pubblico sulla famiglia: "E' una falsità, avevo parlato a tu per tu con lui il giorno prima. Noi curiali, che stiamo a Roma e abbiamo udienze di tabella, in queste circostanze lasciamo il posto a quanti vengono da fuori e hanno quindi meno possibilità di parlare con il Pontefice". Pag III Intellettuali & luterani di Alessandro Gnocchi La chiesa ha domato il mondo col sangue dei martiri e non con l’inchiostro. Ma dopo il Concilio sono stati sostituiti dai guru. Come riconquistare la verità Ogni tanto si fa strada qualcosa di timidamente cattolico nelle cronache ecclesiali di questo inizio di millennio, ma non è un bel segno se diventa una notizia. Il parlare cattolico in casa cattolica è divenuto come il classico caso di scuola del bambino che morde il cane con cui vengono stupiti i praticanti giornalisti al primo giorno di redazione. Ma, per quanto arrivi anche in pagina, il bambino che morde il cane nella nuova chiesa di Francesco è pur sempre una cosina da nulla, un ricamino a punto croce su una tunica lacera e rattoppata, destinato a divenire invisibile solo qualche giorno dopo. E' normale che vada così perché, a voler leggere i segni dei tempi nell'ermeneutica del "chi sono io per giudicare?", il cane che morde il bambino, la non-notizia, sta nell'ossequioso inchinarsi al mondo. Cosicché sorprendono poco o nulla le scuse con le quali la curia di Milano ha sconfessato un sacerdote preoccupato dall'incalzare della cultura gender e inchiodato all'altare laico di Repubblica, o il licenziamento del professore di religione anti aborto. Tanto che non vengono neppure citati in un'intera paginata di intervista sul Corriere della Sera alla vigilia del discorso di Sant' Ambrogio. Riescono a scandalizzare gli atei devoti al luminoso mistero della legge di ragione, qualche cattolico fuori moda e pochi altri ancora. Ma, in questo prostrarsi della chiesa al cospetto della dittatura mondana la notizia ci sarebbe, e pure enorme. Pare impossibile che così pochi riescano a scorgere il relitto di una fede e di una cultura capaci di reggere la scena per due millenni rovesciato malamente sul fondale della storia. Eppure, la chiesa portatrice di una verità universale e libera da vocazioni minoritarie sulla cui esistenza si interroga Giuliano Ferrara è lì, impantanata nei bassifondi del mondo come la carcassa della Concordia dopo l'inchino davanti all'isola del Giglio. La chiesa postmoderna è statutariamente minoritaria perché ha scelto di esserlo nel momento in cui ha abbracciato il secolo invece che combatterlo per la sua redenzione. Con il Concilio Vaticano II, ha di fatto adottato per decreto i principi e l'agenda di un pensiero avverso portando a completa maturazione l'"umanesimo integrale" sognato tre decenni prima da Jacques Maritain. Nel disegno del filosofo francese approdato al patto con la modernità dopo una fase antimoderna che lo aveva visto militare nell'Action Française di Charles Maurras c'era un cristianesimo minoritario, piccola parte di lievito destinata a far crescere la pasta mondana. Un disegno in evidente discontinuità con la vocazione maggioritaria e universale di cui la chiesa cattolica era sempre stata portatrice che suscitò qualificate

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resistenze. Il gesuita padre Antonio Messineo, nell'articolo "La filosofia della storia di Maritain" pubblicato nel 1956 sulla Civiltà cattolica, diceva: "Il continuo appello al concetto evolutivo della storia fa sorgere spontaneamente la domanda, se la teoria del Maritain non abbia qualche punto in contatto con lo storicismo contemporaneo. (...) Sul piano della storia non opererebbe il Cristianesimo in quanto religione rivelata e trascendente, non il Vangelo nella sua purità originaria di parola divina trasmessa all'uomo, non l'ordine della grazia e delle realtà superiori in esso contenute, ma un cristianesimo e un Vangelo vuotati del loro contenuto soprannaturale e naturalizzati, temporalizzati. (...). Questi sarebbero, come li chiama Maritain, riflessi evangelici sul temporale. Sul significato di questa frase non può correre dubbio. Con essa si vuol dire che il Vangelo, nella sua essenza di lievito divino e soprannaturale, non fermenta direttamente la società e non entra tra i componenti della civiltà, di nessuna civiltà. Sul piano umano, in sua vece, agisce un surrogato che si ottiene mediante la perdita del suo carattere originario, mediante la trasformazione dei suoi princìpi in princìpi umani, temporali e limitati, di contenuto profano". Il sogno maritainiano, che solidificava gli intenti di desistenza fermentati da lungo tempo nel corpo ecclesiale, era destinato ad avere la meglio. E ciò fece del filosofo francese il modello dell'intellettuale cattolico, tanto che Papa Paolo VI, suo debitore nel sentimento di apertura alla modernità, lo scelse come destinatario del messaggio agli uomini di cultura e agli artisti sortito dal Vaticano II. In tal modo, Maritain divenne la soluzione all'inedito problema che il corpo ecclesiale si trovava ad affrontare, il rapporto con gli intellettuali. Ai suoi inizi, la chiesa ha domato il mondo con il sangue dei martiri e non con l'inchiostro degli scrittori e dei pensatori. Poi ha avuto santi, papi, monaci, sacerdoti, teologi, filosofi, scienziati e, al tempo degli splendori della corte, scultori, poeti, pittori, musicisti: tutti illuminati da un chiarore che dovevano celebrare nei riflessi del loro genio o della loro santità, magari di tutte due insieme, a maggior gloria di Dio e per la salvezza del mondo. La razza dell'intellettuale ha altra origine. E' nata con la modernità e, anche se poi si accasa volentieri nelle stanze del potere, in origine è fatta per le battaglie minoritarie. La sua formazione viene fatta risalire al XVIII secolo, con l'accendersi nel mondo dei Lumi che avrebbero definitivamente travolto il cristianesimo e la sua rilevanza sociale. Ma il primo esemplare nasce due secoli prima dentro la chiesa con il monaco agostiniano Martino Lutero. Le sue "95 tesi" affisse nel 1517 a Wittenberg costituiscono un vero e proprio "manifesto", atto intellettuale per eccellenza, il primo nella storia. Da quel momento, la chiesa e la cultura cattolica hanno avuto in sospetto la figura del professionista delle idee e hanno potuto reggere l'urto fino a quando la presa sulla società non è stata minata nelle fondamenta. Meno di un secolo fa, Georges Bernanos riteneva "l'intellettuale moderno come l'ultimo degli imbecilli fino a quando non abbia fornito prova del contrario". Ma la sua irrisione, per quanto fondata, era uno degli ultimi sussulti di un mondo destinato a soccombere. Sulla tolda di una nave che continuava a viaggiare, era difficile percepire la gravità della tragedia incombente, tanto che toccò a un ateo affascinato dalla forza civilizzatrice intrinseca alla chiesa cattolica come Maurras interrogarsi sull'"Avvenire dell' intelligenza". Era il 1927 e, apparentemente, poco lasciava presagire cosa sarebbe avvenuto nella chiesa e nel mondo nel giro di un secolo. Ma l'ateo francese che incappò nei fulmini di Pio XI aveva capito che uno stesso declino avrebbe accomunato cattolici e laici se non si fossero salvati gli intellettuali dall'essenza radicale che portavano nei geni fin dal loro nascere. "Noi parliamo dell'Intelligenza" diceva "come se ne parla a San Pietroburgo: del mestiere, della professione, del partito dell'Intelligenza". E concludeva la sua analisi sostenendo che: "Davanti a questo orizzonte sinistro, l'Intelligenza nazionale deve allearsi a coloro che tentano di fare qualche cosa di bello prima di naufragare. In nome della ragione e della natura, conformemente alle vecchie leggi dell' universo, per la salvezza dell'ordine, per la durata e i progressi di una civiltà minacciata, tutte le speranze sono riposte sulla nave di una Contro-Rivoluzione". Ma il processo di decadenza era ormai stato innescato con spietatezza irreversibile, come avrebbe mostrato quarant' anni più tardi il cattolico Marcel de Corte in un saggio titolato inequivocabilmente "L'intelligenza in pericolo di morte". Il filosofo belga sosteneva che quando le élite del vecchio mondo tradiscono la loro consegna sostituendola "con un'altra meno austera, più brillante, più lusinghiera, la prima concezione vacilla. Basta qualche incrinatura nei punti nevralgici perché l'edificio crolli, anima e corpo. Quando l'alto clero si diverte a rinnegare Dio e a esaltare l'uomo

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nelle logge, quando l'aristocrazia va a scuola dai retori e dagli imbrattacarte, siano pure di talento, si può dire brutalmente che siamo alla fine". Giunta sul limitare del vecchio mondo, la chiesa ha preferito gettarsi nelle braccia del nuovo e si è dovuta inventare improvvisamente una figura di intellettuale che potesse dialogare con i novelli compagni di strada parlando la loro stessa lingua: Maritain era il prototipo perfetto. Ma, al di là dell'innegabile valore personale del filosofo francese, l'operazione ha dato vita a una sorta di ossimoro, un ruolo nato direttamente dall' istituzione invece che dalla libera necessità di maneggiare idee anche criticando l'istituzione stessa: invenzione di un clero senza più intelligenza, in debito di fede e quindi divenuto clericale. Accasato direttamente nelle stanze del potere senza essere passato nella palestra dell' antagonismo, l'intellettuale cattolico ha finito per copiare maldestramente i modelli mondani assumendone le idee, i comportamenti e persino i tic. Gli eredi di una tradizione che ha prodotto Dante e Manzoni, Giotto e Michelangelo, il canto gregoriano e il Palestrina si sono ridotti a scoprire la cattolicità del cinema neorealista, delle pagine di Pasolini o delle canzoni di De André. Con l'unico mandato di assumere il Concilio Vaticano II come esclusivo criterio di interpretazione della realtà religiosa e profana: l'intera storia della chiesa e del mondo e la cronaca spicciola lette come anticipazione o come compimento del Concilio, con effetti comici se non fossero drammatici. In tal modo, si è andata formando un' intellighenzia clericale che, in parallelo alla corrispondenza di amorosi sensi con il mondo, tende all'emarginazione degli intellettuali cattolici non omologati. Sorti per germinazione spontanea senza debiti genetici nei confronti del modello laico e votati a un ruolo minoritario sono proprio costoro a essere riconosciuti come corpi estranei da un organismo la cui struttura di potere è in perenne cortocircuito. Votata da sempre a combattere con l'eresia, in epoca moderna e postmoderna la chiesa si è improvvisamente trovata al cospetto delle idee. Ma, non essendosi dotata di intellettuali capaci di vagliare il buono e gettare il cattivo, ha finito per assumere dal mondo le eresie valorizzandole come idee e per respingere al proprio interno le idee disprezzandole come eresie. Per questo motivo l'intervento critico dell'intellettuale cattolico non omologato può essere parzialmente tollerato derubricandolo a semplice atto d'amore senza riconoscergli lo statuto di atto dell' intelligenza. Il moto dell'intelletto è un gesto alieno nella chiesa del cuore e del sentimento, per questo i tempi della misericordia sono tanto spietati con il dissenso argomentato. Eppure, se una riconquista è possibile, può passare solo attraverso l'antagonismo di quegli intellettuali che vedono la radice dell'insignificanza della chiesa postmoderna nell'adesione all'assunto fondamentale della modernità: la rinuncia al corretto rapporto con il vero e la realtà. In piena temperie illuminista, Joseph Joubert de scriveva efficacemente l'esito di tale operazione nei suoi "Pensées": "Le menti falsate non hanno il senso del vero, ma ne posseggono le definizioni. Guardano in se stesse invece che guardare davanti ai loro occhi. Nelle deliberazioni consultano le idee che si fanno delle cose e non le cose stesse". Ma questa è un'evidenza che la chiesa di oggi non ha neanche la forza di sussurrare poiché si è inchinata al suo opposto. "Al limite di una tale perversione dell'intelligenza" scrive De Corte nel suo saggio "ci si trova davanti a una religione senza Dio, una religione in cui Cristo è riportato all'uomo, una religione dell'uomo. Ma poiché una religione dell'uomo è inevitabilmente una religione che erige l'uomo signore dell’universo e poiché l'azione più efficace è quella che sottrae l'uomo alla sua natura e ne opera un rimpasto radicale, i valori dell'azione cedono il passo ai valori della trasformazione demiurgica dell' uomo e del mondo, ai valori di creazione di un mondo nuovo e di autocreazione dell'uomo a opera dell' uomo. In altre parole: il solo cristianesimo che oggi sia 'valevole' è il cristianesimo rivoluzionario in cui il potere dell'uomo sul mondo, su se stesso, sugli altri si manifesta pienamente. Tale l'abisso in cui ruzzola il clero che subordina la contemplazione all'azione e l'azione alla volontà di potenza. In questo abisso di iniquità non v'è il più piccolo posto per l'intelligenza". Tale oscurità può essere illuminata dai lampi di quegli intellettuali che sappiano maneggiare le idee senza manipolarle, trattandole per quel che valgono, in ossequio alla verità e non al potere, compreso quello clericale. Per fare "ritorno al reale", come auspicava Gustave Thibon, è necessario affidarsi a menti così paradossali che, in questi tempi invertiti, si possono concedere l'eccentricità di cercare il vero nella casa della verità e di buttare l'errore nella sentina della falsità. "Di tanto in tanto" scrive G.K. Chesterton celebrando "L'uomo comune" "nella storia dell'umanità, ma soprattutto in epoche inquiete come la

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nostra, compare una certa classe di cose. Nel vecchio mondo si chiamavano eresie. Nel mondo moderno si chiamano mode. Talvolta sono utili per un certo periodo, altre volte sono invece totalmente nocive. In ogni caso si tratta sempre di una concentrazione impropria su una verità o mezza verità. E' quindi giusto insistere sulla conoscenza di Dio, ma è eretico insistervi, come fece Calvino a spese del suo Amore; è quindi giusto desiderare una vita semplice, ma è eretico desiderarla a spese della bontà d'animo e delle buone maniere. L'eretico, come il fanatico, non è un uomo che ama troppo la verità, nessun uomo può amarla troppo. L'eretico è un uomo che ama la sua verità più della verità stessa". Una verità semplice che la chiesa non è più in grado di dire al mondo poiché si è privata di coloro che avrebbero potuto farlo con efficacia. Agli intellettuali, magari un po' fastidiosi quando fanno onestamente il loro mestiere, ha preferito i paggetti che le reggessero lo strascico alle nozze con il mondo. Con la paradossale conseguenza di aver creato tanti cortigiani che, in tempi di populismo tanguero, rischiano di non avere più neanche la corte. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Maradiaga: «La riforma della Curia favorirà la collegialità» di Andrea Tornielli Intervista con il coordinatore del C9, il consiglio che aiuta Francesco nel riorganizzare i dicasteri vaticani: «Ci saranno meno cardinali in Vaticano, allo studio anche una riforma della Segreteria di Stato» Da quando è diventato coordinatore del consiglio di cardinali che aiuta il Papa nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale, l'arcivescovo di Tegucigalpa Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga è di frequente a Roma. Salesiano, 72 anni alla fine di dicembre, cardinale dal 2001, è presidente di Caritas internationalis. Ci riceve nella residenza di Santa Marta, ormai alla vigilia della riunione del C9. C'è chi critica il vostro lavoro e dice che di questo lavoro di riforma della Curia non si vedono i risultati. Si fa o non si fa? «Prima di tutto vorrei dire che la riforma va avanti. Il primo passo è stata la creazione della Segreteria per l'Economia, e questa già cammina a grandi passi. Era al primo punto dell'agenda: abbiamo fatto tre riunioni del consiglio solo su questo argomento e a febbraio è nata già la Segreteria. Nella riunione dello scorso luglio abbiamo lavorato ancora su questo. Non si vedono tanto gli effetti esternamente, ma internamente ci sono grandi cambiamenti in atto: adesso ogni dicastero deve presentare un budget che sarà pubblico». Come procede il lavoro sui media vaticani? «Ci sono i problemi economici per le comunicazioni sociali, per i media vaticani: non è facile sostenerne le spese senza entrate pubblicitarie. Come è noto, c'è una commissione speciale nominata dal Papa che si sta occupando di studiare la situazione. Non è facile, c'è tanto personale, tante lingue diverse, la necessità di grandi investimenti per le trasmissioni in onda corta. Ma aspettiamo il lavoro della commissione». E la riorganizzazione dei dicasteri? È certa la nascita di due nuovi poli che accorperanno le competenze di diversi pontifici consigli? «I due poli dedicati ai laici e alla carità sono sicuri, il Papa li ha già presentati ai capi dicastero della Curia romana. Certamente ci sono alcune osservazioni che sono state avanzate, la consultazione è stata fatta proprio per questo. Ci sono dettagli da mettere a punto. Ma nell'impostazione generale credo si possano definire progetti già avviati». I due poli sui laici e sulla carità - che dovrebbero accorpare laici, famiglia, migranti, pastorale per gli operatori sanitari, Cor Unum e Giustizia e Pace - saranno congregazioni? «Sì, l'intenzione è quella. Saranno due congregazioni. Ma non saranno la somma aritmetica di quello che c'è già. Perché, prima di tutto, come congregazioni avranno uno status giuridico diverso da quello dei pontifici consigli. E poi non è necessario che a capo di ogni dicastero ci sia un cardinale oppure un vescovo: potrebbe essere per esempio una coppia di sposi ad occuparsi di famiglia, e per i migranti potrebbe essere una suora che ha competenze specifiche in materia, come ad esempio una religiosa delle scalabriniane». Quale obiettivo c'è nella riforma della Curia?

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«È quello di razionalizzare e di semplificare. In questo momento ci sono circa trenta dicasteri diversi, tra segretariati, consigli e congregazioni. Come fa un governante a riunire tutti i suoi ministri con una certa regolarità? In passato lo si faceva una volta o due volte all'anno. Come può andare avanti così un'istituzione? C'è la necessità di riunioni e di consultazioni più frequenti. Così si può dire che la semplificazione favorirà la collegialità. E questo è importante». Sarà riformata anche la Segreteria di Stato? «Sì, è allo studio una riforma anche di quella. Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, deve presentare alla prossima riunione un progetto su questo». Si può dire qualcosa in proposito? «No, è ancora prematuro, bisogna aspettare. Credo che uno dei punti sarà una diversa distribuzione delle competenze interne. Ma aspettiamo...». Ci sarà anche una riforma delle strutture giudiziarie? «Ancora non si è discusso di questo. Personalmente penso che potrebbe avere buone prospettive l'idea di unificare gli organismi che riguardano la giustizia. Se abbiamo tempo, ne discuteremo nella prossima riunione. Per me sarebbe una buona idea quella di avere un unico ministero di Giustizia della Chiesa, che comprenda la Segnatura apostolica, la Rota, il dicastero per l'interpretazione dei testi legislativi e anche la Penitenzieria apostolica. Con un unico capo dicastero». Con la riforma della Curia diminuirà il numero dei cardinali in servizio negli uffici della Santa Sede? «Certo, c'è questa intenzione. La Curia non può più essere considerata la corte papale, né un super-governo centralizzato della Chiesa. Ma una struttura agile di servizio al ministero del Papa». Che cosa pensa delle critiche al Papa che arrivano da certi ambienti, negli Stati Uniti ma non solo? «Credo che il vero problema non sia rappresentato dal dibattito su certi punti di dottrina morale o sulla disciplina dei sacramenti, com'è sembrato emergere dalle polemiche sui media durante il recente Sinodo. Penso invece che il vero punto di scontro sia rappresentato dal magistero sociale del Papa, che presenta la dottrina sociale della Chiesa, tutta la dottrina sociale. Ci sono poteri ai quali non piace che vengano dette certe cose sui poveri, sulle conseguenze della globalizzazione, sull'idolatria del denaro, sul mercato divinizzato che diventa una vera schiavitù». Come giudica il dibattito sul recente Sinodo straordinario sulla famiglia? «Forse l'approccio dei media non si è concentrato a sufficienza sui temi centrali. Anche la Relatio post disceptationem ha attratto solo per quei due o tre punti relativi alle persone omosessuali e alla comunione per i divorziati risposati. Invece in quel testo c'era un approccio pastorale ricchissimo, che il Papa ha deciso di far diventare la base di discussione per il prossimo Sinodo ordinarie. In quel testo ci sono tante cose positive, belle. Tanta gente purtroppo non l'ha neanche letto: ci sono 62 paragrafi, se non mi sbaglio, ma si è guardato solo a due o tre punti. In quelle pagine c'è tanta ricchezza pastorale, ci sono tanti suggerimenti, c'è un approccio complessivo ai problemi delle famiglie. Dobbiamo riflettere su questo: non solo sui sacramenti ai divorziati risposati o sulle persone omosessuali». Fra tre mesi si compirà il secondo anno del pontificato di Francesco. Come viene percepito nelle Chiese l'approccio di Papa Bergoglio? «Prima di tutto, il popolo di Dio è incantato di fronte al Papa: non era solo una luna di miele delle prime settimane o dei primi mesi. La dimostrazione sta nella gente che viene così numerosa alle udienze generali. Secondo: tantissima gente in tutto il mondo prega per il Papa. È una cosa straordinaria! Dovunque io vada, mi raccomandano: "Dica al Santo Padre che stiamo pregando per lui". Terzo: i gesti del Papa stanno recuperando tanti cattolici che si erano allontanati dalla Chiesa. Le confessioni sono in aumento, la gente viene a confessarsi e lo dice che viene perché colpita dalla testimonianza del Papa: ho sentito questo in Spagna, Germania, Italia, Francia e anche in Norvegia». Crescono però anche le resistenze, soprattutto interne... «Certo che ci sono queste resistenze. Anche se viviamo in un mondo dell'ideologia del pensiero unico, non è detto che tutti debbano pensare allo stesso modo. Ma dobbiamo sempre ricordarci, se abbiamo la fede, che lui è Pietro».

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Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA STAMPA Le incognite ancora da sciogliere di Francesco Manacorda Il Paese con un tasso di disoccupazione del 13,2% da ieri ha una nuova legge sul lavoro. Certo, è una legge delega i cui contenuti di dettaglio sono in buona parte ancora da scrivere. E certo, per farla passare in ultima lettura al Senato si è deciso di imporre il voto di fiducia, mentre fuori da Palazzo Madama andavano in scena ancora una volta gli scontri di piazza di una stagione inquieta. Ma è un dato di fatto che da ieri il dibattito politico può superare la diatriba infinita sull’Art. 18 – un totem sia per chi lo ha difeso fino all’ultimo, sia per chi ha visto nella sua caduta la condizione necessaria e sufficiente per un cambio di passo – e concentrarsi non solo sul tema del contratto di lavoro a tutele crescenti che sarà la forma prevalente da applicare ai nuovi assunti, ma anche sul modo per aggredire quel tasso di disoccupazione che segna l’Italia in generale e le sue generazioni più giovani in particolare. Pensare che con il testo approvato ieri il lavoro sia concluso è sbagliato. Sono i decreti delegati, che il governo vorrebbe varare già a metà mese per poter avere le nuove regole in funzione dall’inizio del prossimo anno, quelli che daranno il segno vero delle novità. E con i decreti delegati andranno risolti vari interrogativi che la riforma ancora si porta dietro. Ad esempio bisognerà vedere come il governo graduerà le «tutele crescenti» del nuovo contratto e come identificherà i casi in cui non ci può essere il licenziamento con indennizzo economico, ma scatta comunque il diritto al lavoratore ad essere reintegrato: dovrà definire quindi quali siano i «licenziamenti nulli e discriminatori» e quali le «fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati». È innegabile, poi, che il nuovo sistema si porti dietro alcune incognite. Il Jobs Act è destinato a creare un nuovo «dualismo» rispetto a quello attuale, che vede chi è dentro il mondo del lavoro e in aziende sopra i 15 dipendenti tutelato dall’Art. 18 e chi è fuori privo di tutele. D’ora in poi, invece, come ha sottolineato Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, nelle aziende si vedranno fianco a fianco «vecchi» lavoratori tutelati dall’articolo 18 e «nuovi» senza quella protezione. Il possibile effetto sarà quello di inceppare la mobilità della prima categoria di dipendenti, che prima di cambiare posto di lavoro e vedersi applicare le nuove regole ci penseranno mille volte. E poi c’è un «dualismo» meno evidente, ma che rischia di perpetuare disparità antiche. I contratti del pubblico impiego saranno anch’essi a tutele crescenti o si manterrà per questa categoria di lavoratori il classico contratto a tempo indeterminato? Se così fosse ecco una differenza difficilmente accettabile. E sempre nei decreti delegati bisognerà affrontare contraddizioni che oggi balzano agli occhi: è pensabile mantenere la possibilità di prorogare i contratti a termine per cinque volte in tre anni con il contratto a tutele crescenti? O invece tutti i datori di lavoro preferiranno affidarsi alla prima soluzione, creando di fatto una lunga anticamera per i lavoratori ancor prima di entrare nel mondo dei contratti a tempo indeterminato? E in ogni caso è sempre a quel 13,2% di disoccupazione che bisogna tornare. Con il lavoro che è la prima emergenza per l’Italia, aumentare la flessibilità in uscita dei lavoratori è un passo che serve, ma che da solo non basta. Pietro Ichino, tra i padri di questa riforma, ha sottolineato anche martedì in Senato la necessità di coniugare alla flessibilità anche la sicurezza per chi si muove nel mercato del lavoro, con assicurazione contro la disoccupazione e servizi efficaci per chi cerca nuova occupazione. Proprio su questo secondo pilastro della sicurezza – con risorse adeguate e un sistema di agenzie per l’impiego decisamente più funzionante di quello attuale – si gioca una parte tutt’altro che secondaria della partita. AVVENIRE Pag 2 Il matrimonio è uno solo (né largo, né doppio) di Giuseppe Dalla Torre Scelte, elucubrazioni e vere diseguaglianze d’Oltralpe Due matrimoni e un funerale: questa la critica del ministro dell’Interno francese, Bernard Cazeneuve, alla proposta di Nicolas Sarkozy di rivedere la legge Taubira, che prevede l’ammissione al matrimonio di persone dello stesso sesso. Secondo l’ex

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presidente della Repubblica, che parlava all’associazione Sens commun (Senso comune) del movimento contrario alle nozze gay Manif pour tous, si dovrebbe riscrivere la contestata legge, prevedendo l’istituzione di due tipi di matrimonio: uno per gli eterosessuali, l’altro per gli omosessuali. Rimane non chiaro in che cosa si differenzierebbero l’uno dall’altro. E ancora: non è dato sapere se, nel caso di matrimonio tra omosessuali, debba o meno essere ammessa l’adozione, altra tematica scottante. L’affermazione di Cazeneuve vuole denunciare il funerale «dell’aspirazione all’eguaglianza», che a suo avviso si celebrerebbe se passasse la proposta. Il ministro d’Oltralpe sembra ignorare che quello di eguaglianza è, giuridicamente parlando, un principio relativo: non significa trattare tutti allo stesso modo, ma trattare allo stesso modo situazioni eguali. Ed è davvero contro il “senso comune” ritenere eguali il matrimonio e la convivenza tra persone dello stesso sesso. D’altra parte l’idea stessa di pensare due tipi di matrimonio, come propone Sarkozy, è giuridicamente infondata oltre che stravagante, per cui parafrasando la battuta del ministro due matrimoni darebbero luogo a un funerale: quello dell’istituto matrimoniale. Invero la ragione profonda del matrimonio, o se vogliamo la sua struttura naturale, è data dal rapporto tra un uomo e una donna, aperto alla procreazione. Gli Stati possono modificare aspetti non essenziali del matrimonio (è avvenuto ad esempio, in passato, con l’abrogazione dell’antico istituto della dote); in alcuni casi anzi è necessario, tenendo conto dei mutamenti della società. Ma gli Stati non possono stravolgerne l’indisponibile struttura giuridica. Detto altrimenti: il legislatore civile può modificare la legge, non il diritto. Quest’ultimo non gli appartiene. Dunque il matrimonio è il matrimonio, e come tale deve trovare disciplina nella legge civile; le convivenze diverse, anche quelle tra persone dello stesso sesso, possono essere oggetto di una peculiare previsione normativa nella misura in cui abbiano un carattere solidaristico e, anche per questo, assumano una rilevanza sociale. Ma guai a equiparare le seconde al primo: qui davvero ci sarebbe violazione del principio di eguaglianza. Pag 3 Conciliazione famiglia – lavoro, promesse e rischi del Jobs act di Francesco Riccardi Incentivi all’impiego femminile e orari flessibili: i nodi aperti È la parte del Jobs act più indefinita, nonostante tratti una questione fondamentale come la «tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro». Oscurata dalla battaglia sui licenziamenti, se ne è dibattuto veramente poco, mentre la conciliazione famiglia-lavoro rappresenta una delle leve principali per cercare di ottenere tre risultati contemporaneamente: migliorare il mercato del lavoro e la partecipazione femminile; rafforzare i bilanci delle famiglie e, non ultimo, invertire la tendenza negativa delle nascite nel nostro Paese. Per comprendere come la situazione sia particolarmente critica bastano poche cifre. Il tasso di occupazione delle donne in Italia è pari al 46,8% (contro il 64,6% degli uomini), tocca un minimo del 27% nel Mezzogiorno e decresce all’aumento del numero dei figli. Il 30% delle donne interrompe la sua carriera lavorativa per motivi familiari e solo quattro madri su dieci riprendono l’attività una volta stabilizzata la situazione familiare. Nel contempo, l’Italia con il 37%, ha la più alta percentuale di famiglie monoreddito d’Europa. Sul piano demografico, nel 2013 si è toccato il minimo storico di 514mila nascite, con un tasso di fecondità per donna dell’1,39, distante dal 2 che assicura la stabilità della popolazione e ben lontano dai tre figli che rappresentano il desiderio teorico delle giovani coppie. La legge delega – che ha ottenuto ieri il via libera definitivo al Senato con voto di fiducia – intende perciò agire su tre fronti principali: la tutela della maternità, la conciliazione dei tempi di cura e di lavoro; l’integrazione dei servizi per le cure parentali. «Il nostro obiettivo è anzitutto rendere un diritto universale il sostegno alla maternità – spiega il sottosegretario al Lavoro Teresa Bellanova –. Abbiamo avviato dunque una ricognizione per capire a quali segmenti occorra ampliare la copertura e per quali figure di lavoratrici parasubordinate vada previsto il diritto alla prestazione di maternità anche in assenza del versamento dei contributi da parte del datore di lavoro». Questo perché oggi molte donne non possono usufruire neppure delle (modeste) provvidenze già esistenti perché il committente non ha versato la relativa quota di contributi. La delega prevede anche di «incentivare gli accordi collettivi per facilitare la flessibilità dell’orario e il telelavoro». E, oltre poi a

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stabilire la possibilità di cedere giorni di permesso e ferie a colleghi che ne abbiano necessità per curare familiari malati o disabili, con il Jobs act si intende «promuovere l’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali, forniti dalle aziende e dagli enti bilaterali, nel sistema pubblicoprivato dei servizi alla persona e una maggiore flessibilità dei congedi obbligatori e parentali». Infine, il punto più importante e per alcuni versi controverso: «l’introduzione di un credito di imposta, inteso a incentivare il lavoro femminile per le donne lavoratrici, anche autonome, che abbiano figli minori o figli disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo, nonché l’armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico». In una prima versione della legge delega si parlava addirittura di «cancellazione» del beneficio per il coniuge a carico, poi il termine è stato ammorbidito senza però specificare meglio. Il sottosegretario Bellanova assicura che «l’intenzione del governo non è cancellare la detrazione» e che il credito d’imposta «sarà aggiuntivo», anche se ammette che sul punto «c’è ancora da confrontarsi e lavorare, nulla è definito. Lo sarà entro i sei mesi previsti dalla legge delega». La questione, però, non è di poco conto. Non solo perché la detrazione per il coniuge a carico si stima riguardi oltre 5 milioni di persone, ai quali lo Stato riconosce 3,5 miliardi l’anno, ma per le sue implicazioni anche culturali. C’è infatti una scuola di pensiero che indica nelle provvidenze (peraltro scarse) oggi previste per la famiglia uno dei disincentivi all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. La tesi è che le detrazioni, assieme al sistema degli assegni familiari, rendano poco conveniente la ricerca di un lavoro esterno alla famiglia in particolare per quelle donne il cui marito ha redditi modesti (così da massimizzare i benefici che sono calanti al crescere del reddito). In realtà, però, la detrazione per il coniuge a carico è pari al massimo a 800 euro l’anno e, secondo dati dei Caf, ammonta in media a 60 euro al mese. Certo, in alcuni casi intervengono poi gli assegni familiari (riservati ai dipendenti a basso reddito), ma è difficile pensare che una donna rinunci a uno stipendio – ad esempio anche solo di un part-time da 500 euro al mese – per non perderne 60 di detrazione. La questione piuttosto è un’altra: la spesa per la cura familiare a cui vanno incontro le madri che decidono di tornare al lavoro. Per coloro che non possono fare affidamento sui (benemeriti) nonni, infatti, tra asilo nido e baby sitter i costi aggiuntivi possono facilmente oscillare tra i 500 e i 1.000 euro al mese. Rendendo così «più conveniente» restare a casa, che non accettare un’occupazione se questa non assicura una remunerazione medio-alta o particolari prospettive di carriera da cogliere. Sul piano prettamente economico, dunque, i disincentivi al lavoro femminile non sono le (scarse) provvidenze a favore delle famiglie, ma il basso livello dei salari combinato all’alto costo dei servizi per la cura dell’infanzia. Oltre alle condizioni di lavoro (orari, turni, ecc.) spesso troppo rigide. Ora, se il piano del governo è trasformare la detrazione in un credito d’imposta 'trasportabile', cioè che la lavoratrice per un certo tempo conserva o 'consegna' al datore di lavoro come incentivo all’assunzione, l’innovazione potrebbe essere positiva. Anche se per l’esiguità della cifra – meno di 800 euro l’anno per ogni donna – rischierebbe di essere ininfluente. Se invece si pensasse di convogliare, in tutto o in parte, la spesa di 3,5 miliardi di euro per la detrazione del coniuge a carico sullo strumento del credito d’imposta – togliendolo dunque a chi oggi ne beneficia – si tratterebbe di una forzatura pesante. Figlia di una concezione sbagliata della parità, che di fatto nega alle donne una reale libertà di scelta tra il lavorare dentro o fuori casa, se produrre beni oppure occuparsi a tempo pieno dei figli. Come se la cura familiare fosse un’attività meramente privata, un lusso che va a detrimento della società, anziché garantirne l’arricchimento, com’è nella realtà grazie all’educazione dei figli e alla presa in carico degli anziani. E perciò da scoraggiare anziché riconoscere con provvidenze pubbliche. Promuovere il lavoro femminile è importante per molti motivi: garantire maggiori opportunità alle donne, rendere più 'solide' le famiglie di fronte ai rischi di impoverimento, favorire pure le nascite, come dimostra la correlazione positiva tra occupazione femminile e figli. Ma, per dirlo con una sorta di slogan, la filosofia degli interventi dev’essere quella di 'permettere alle lavoratrici di diventare madri, non di obbligare le madri a diventare lavoratrici'. È questione di favorire un equilibrio tra famiglia e lavoro, tra cura e professione, promuovendo finalmente una cultura della conciliazione che sappia valorizzare le donne anche per la loro specifica vocazione alla maternità. Si può provare a discutere di questo

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e non solo di articolo 18? Oltre che dell’occupazione, ne va del futuro delle nostre famiglie. Pag 15 Scelta delle superiori, quasi la metà si “pente” di Paolo Ferrario Se potesse, il 46% cambierebbe scuola Sono generalmente soddisfatti dell’esperienza scolastica, anche se quasi la metà, se potesse tornare indietro, cambierebbe indirizzo di studio. Riserva molto spunti di riflessione, il Rapporto sui diplomati italiani diffuso ieri da Almadiploma, che ha coinvolto circa 40mila studenti di oltre 300 istituti scolastici, aderenti al consorzio. Al centro dell’indagine c’è il fattore “orientamento”, decisivo per una soddisfacente ed efficace scelta del percorso di formazione, anche in vista dell’inserimento nel mondo del lavoro. Una scelta che, però, a 14 anni non è sempre azzeccata. Lo dimostra il 46% dei ragazzi intervistati dai ricercatori di Almadiploma, che hanno dichiarato che, se ne avessero la possibilità, cambierebbero l’indirizzo di studio e, molti, anche la stessa scuola. Secondo gli autori dell’indagine, questo “rigetto” potrebbe essere evitato, organizzando gli ordinamenti scolastici con un biennio delle superiori uguale per tutti gli indirizzi, posticipando così la scelta vera e propria intorno ai 16 anni. Per Andrea Cammelli, fondatore e direttore del Consorzio interuniversitario AlmaLaurea, di cui Almadiploma è emanazione, sono due i «nodi cruciali» da affrontare: «La necessità, da un lato, di una diffusa e condivisa cultura della valutazione interna alla scuola e, dall’altro, l’opportunità di offrire agli studenti un orientamento più mirato alle proprie esigenze individuali». Circa le ragioni di chi, potendo, cambierebbe scuola, il 41% lo farebbe principalmente per studiare materie diverse, il 22% per compiere studi che preparino meglio al mondo del lavoro, il 15% per compiere studi più adatti in vista dei successivi impegni universitari. Qualunque sia la motivazione per cui cambierebbero, quasi il 70% di essi si dichiara comunque soddisfatto del corso di studi appena concluso. In generale, l’82% dei diplomati intervistati, ha dichiarato la propria soddisfazione circa la scuola frequentata. Ad essere promossi sono soprattutto i professori (il 78% dei diplomati è soddisfatto della loro competenza, il 72% della chiarezza espositiva e della disponibilità al dialogo e il 63% è soddisfatto della loro capacità di valutazione), mentre decisamente bocciate sono le infrastrutture e i diversi aspetti dell’organizzazione scolastica. L’adeguatezza dei laboratori, delle aule e degli impianti e attrezzature sportive è ritenuta infatti soddisfacente rispettivamente dal 53%, dal 51% e dal 49% degli studenti. Circa le prospettive post-diploma, il 54% degli intervistati intende iscriversi all’università, il 21% pensa di cercare un lavoro, il 7% ritiene di riuscire a conciliare entrambe le attività. Il 15% dei diplomati è invece ancora incerto sul proprio futuro e una quota particolarmente elevata (23%) di indecisi, si trova tra i diplomati tecnici, seguiti dai professionali (19%). Chi, invece, sceglie di proseguire gli studi all’università (per il 65% si tratta di liceali), è spinto soprattutto da tre motivazioni: poter svolgere - grazie alla laurea – l’attività professionale di proprio interesse, approfondire i propri interessi culturali e avere in futuro un lavoro ben retribuito. La stragrande maggioranza (il 90%) dei diplomati intenzionati ad iscriversi all’università, infatti, ritiene decisamente importante almeno una di queste tre ragioni. La stabilità del posto di lavoro, è infine una condizione desiderata dai giovani diplomati. Gli intervistati da Almadiploma attribuiscono particolare importanza (alta percentuale di “decisamente rilevante”) a quattro aspetti: la stabilità/sicurezza del posto di lavoro, l’acquisizione di professionalità, la possibilità di guadagno e la carriera. IL GAZZETTINO Pag 1 Governo assente, eppure le imprese tornano in patria di Giorgio Brunetti Le imprese ritornano in patria, ma non il lavoro. Questo sembra in sintesi quello che sta avvenendo nei nostri territori. Sull’esempio di Stati Uniti e Gran Bretagna, anche da noi è in atto un re-shoring (marcia indietro). Non certo trainato, come in quei paesi, da una prestabilita politica industriale, ma dalla valutazione delle singole imprese, tra costi e benefici derivanti dalla delocalizzazione in atto verso i paesi dell’Est Europa e l’Asia. Da alcuni studi apparsi in questi giorni risulta che il paese dal quale rimpatriano più produzioni è la Cina, seguita dai paesi dell’Est Europa e Russia, mentre il settore che è

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maggiormente interessato al fenomeno è la moda, ma non mancano altri settori, sebbene in misura più contenuta, come la meccanica e l’elettrotecnica. Per la moda, in particolare, le motivazioni sono l’ascesa del costo del lavoro in Cina, che rientra nella nuova politica intrapresa dal governo di Pechino volta a sviluppare i consumi interni, e la forte richiesta di made in Italy per i marchi italiani da parte dei clienti asiatici, non importa poi che i marchi siano di proprietà di gruppi francesi come Louis Vuitton. Basta osservare quante fabbriche, anche nel nostro Veneto, siano oramai in mano a questi gruppi: da Vuitton e Dior nella Riviera del Brenta, per le calzature, alla americana Marchon, per l’occhialeria, nel bellunese. Sempre per questi gruppi e per le grandi griffe che essi gestiscono, un altro fattore spinge al rimpatrio di produzioni dall’estero, da paesi che praticano il lavoro minorile, che non salvaguardano la natura, gli animali, poco attenti, in sintesi, a temi etici ed ecologici. I danni di immagine sono sempre possibili e altamente pericolosi. E’ di qualche settimana fa il servizio di Report sulle modalità di spennamento delle oche che ha creato non pochi problemi alla Moncler. Sono soprattutto i grandi marchi all’origine di questo re-shoring, mentre le medie imprese dello stesso settore moda sono meno coinvolte nel fenomeno e continuano ad avvalersi di fabbriche delocalizzate soprattutto verso l’Est Europa ed il Nord Africa. In altri settori le motivazioni dei rimpatri sono connesse più che altro alla risoluzione di particolari complicazioni logistiche e a scelte volte a razionalizzare e a flessibilizzare il processo produttivo. Leggi riduzione costi, poiché ciò che interessa alla fin fine all’impresa è il costo complessivo del prodotto, compresi i trasporti, le perdite di prodotto, i ritardi e così via. Il re-shoring in atto nel nostro Paese ha comunque un impatto modesto sul lavoro, sull’occupazione. Indubbiamente questi rimpatri esprimono la richiesta di professionalità di alto livello, riscoprendo manualità che sembravano orami tramontate, richiedendo altresì nuove competenze derivanti dalla capacità di interfacciarsi con web e le nuove tecnologie. L’ossessiva riduzione dei costi che la crisi ha determinato in tutto il sistema produttivo e non solo, spinge però le imprese ad investire poco in capitale umano, e a preferire, in genere, di avvalersi di competenze disponibili nel mercato del lavoro al minor costo possibile e con un rapporto di lavoro prevalentemente flessibile. In Italia tutto è lasciato alle decisioni delle imprese in base alla loro convenienza, non c’è traccia di una politica di re-shoring se non per gli interventi in corso per ridurre il cuneo fiscale, ma quelli valgono per tutte le imprese. Mancano incentivi a rimpatriare. Un aiuto potrebbe venire dalla UE e, in particolare, dall’attesa certificazione di origine delle produzioni. Il Parlamento europeo ha già votato la normativa Made in, si attende ora il passaggio in Commissione per il suo varo definitivo. Una via quindi che dovrebbe favorire il re-shoring. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Ca’ Foscari punta sul super campus di Daniela Ghio Ieri pomeriggio al Malibran l’inaugurazione, sobria ed essenziale, dell’anno accademico. Il nuovo rettore Bugliesi: “Via Torino, San Giobbe e Santa Marta sono la nostra scommessa” La nuova Ca’ Foscari scommette sui tre poli del super campus: San Giobbe, Santa Marta e via Torino. Ma anche sull’internazionalità, sulla digitalizzazione e su un legame sempre più forte e convinto con la città di Venezia. In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Ca’ Foscari al teatro Malibran, il rettore Michele Bugliesi, al suo debutto con una cerimonia sobria ed essenziale, ha annunciato quelle che saranno le linee guida dell’ateneo per i prossimi anni, partendo proprio dalla scelta del tema dell’anno accademico “Ca’ Foscari per Venezia”. Uno slogan che contiene una precisa indicazione programmatica sul rapporto che l’ateneo vuole instaurare con la città. «In tema di edilizia – ha spiegato Bugliesi - a San Giobbe a giugno completeremo il primo lotto e trasferiremo le attività che ora hanno sede a Ca’ Bottacin, cioè l’area giuridica e amplieremo la biblioteca. Costruiremo poi il ponte di raccordo con la Ferrovia, un'opera importante. A Santa Marta ci saranno 600 posti letto, in via Torino da gennaio

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avvieremo la progettazione dell’edificio Epsilon e daremo quindi avvio alla costruzione della residenza per studenti». Un occhio particolare sarà rivolto alla ricerca dove la volontà del rettore è quella di valorizzare i ricercatori e promuovere attività centrate su un'idea originale, di impatto. Per quanto riguarda invece la formazione, è stato annunciato che in primavera partirà un progetto pilota per rivoluzionare i metodi di insegnamento delle abilità informatiche, cioè le competenze digitali. «Cominceremo con gli studenti dell'area umanistica – ha detto il rettore - per i quali nel 2015 verrà progettato un corso incentrato su innovazione digitale, tecniche automatiche per analisi dei testi. Attiveremo una laurea magistrale in Innovazione e digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e sul fronte dell’internazionalità la Scuola estiva dal prossimo anno verrà trasformata in Scuola Internazionale. Verrà inoltre intensificata la collaborazione con gli atenei del territorio a partire da Iuav e con Univeneto per condividere servizi e spingeremo sulla formazione internazionale in lingua inglese». Almeno 600 le persone presenti alla cerimonia, e tra queste il commissario prefettizio Vittorio Zappalorto il prefetto Domenico Cuttaia, il questore Angelo Sanna, il presidente della Biennale Paolo Baratta. Ospite d’onore lo storico Mario Isnenghi, docente emerito di Ca’ Foscari, che ha tenuto un intervento dedicato agli anni della Grande Guerra. Dal palco sono intervenuti anche i rappresentanti degli studenti in Senato Accademico, inviando segnali di apertura e disponibilità al dialogo con il nuovo rettore: «Auspichiamo la compartecipazione a più livelli nei processi decisionali, abbiamo molte idee da proporre, sogniamo una Ca’ Foscari all’insegna del riconoscimento dello scambio culturale che ci porta a essere cittadini del mondo». Musica di Elettrofoscari ma anche presentazioni di ricerche e premiazioni per l’inaugurazione dell’anno accademico di Ca’ Foscari. «Questa cerimonia vuole essere una festa della comunità cafoscarina e della città – ha spiegato il rettore Michele Bugliesi - ma anche occasione per guardare e analizzare il lavoro svolto». Sono stati premiati i giovani ricercatori Elena Meschi, Claudio Giachetti e Francesca Caterina Izzo. Il presidente Tomat ha consegnato il Premio Alumnus dell’anno Paolo Privitera. Conferiti anche Premi al merito ai tre migliori studenti di ciascun corso di laurea iscritti al primo anno, mentre i Premi alla didattica 2014 sono andati ai docenti Cinzia Di Novi, Francesca Rohr e Maurizio Selva, sulla base delle valutazioni degli studenti, e il Premio all'Innovazione e alla Trasversalità della didattica. Pag IX Don Pistolato al convegno con Casson. Boraso attacca la Curia: “Inaccettabile” Il braccio destro del patriarca, don Dino Pistolato, compare tra i relatori di un dibattito del Pd con il senatore Felice Casson e scoppia la polemica politica. A sollevarla è Renato Boraso, che già da mesi si è candidato a sindaco con la lista civica «Impegno per Venezia, Mestre e Isole». «Delle due l'una - dice Boraso - O la Curia sostiene un partito, il che sarebbe in contrasto anche con le recenti indicazioni fornite dal Papa, o la persona e il ruolo dello stesso sacerdote sono stati strumentalizzati. Bisogna chiarire qual è la verità. Ho chiesto un incontro urgente a mons. Francesco Moraglia perché ciò che è accaduto è inaccettabile». Don Pistolato, vicario episcopale e di fatto numero due a fianco della Chiesa veneziana, sarebbe dovuto intervenire domani pomeriggio, al Municipio di Favaro alle 17.30, al dibattito promosso dal circolo Pd di Campalto su temi molto spinosi come «Sicurezza, qualità urbana, legalità e integrazione». Con lui, il possibile candidato a sindaco Felice Casson, il segretario regionale Silp Cgil Fabio Malaspina e le esponenti locali del partito Maria Teresa Menotto e Paola Vincenzi. Se non che, quando sono cominciati a girare gli inviti e i volantini, Boraso è andato su tutte le furie coinvolgendo nella protesta anche il rappresentante del comitato per la Costituente Popolare e Civica del Veneto e di Venezia, Ettore Bonalberti. Il quale, dal canto suo, ha rinfocolato la polemica scrivendo una lettera ai propri simpatizzanti in cui parla di «prese di posizione contraddittorie da parte curiale» e «decisione inopportuna di don Dino Pistolato e suscitatrice di divisioni ancora più ampie in un laicato cattolico sempre più allo sbando». Il sacerdote respinge le accuse al mittente ma fa retromarcia, annunciando che al dibattito non ci andrà e sarà sostituito dal presidente della San Vincenzo mestrina Stefano Bozzi: «Non ero stato informato sui relatori presenti. Già in

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altre occasioni sono intervenuto a dibattiti di questo tipo, per cui per me non sussisteva il problema, ma in queste condizioni ritengo opportuno non partecipare». Secca la replica dal Pd, per bocca di Gabriele Scaramuzza: «Se la Chiesa dovesse evitare di fare iniziative con le persone additate come candidato sindaco, di persone libere ce ne sarebbero poche. Don Dino ha fatto con me un mese e mezzo fa un'iniziativa sulla sicurezza senza che questo ci fossero stati chissà quali scandali. Ci pare che questo sia un tema che tiene dentro una complessità di aspetti tra cui l'integrazione e che non debba riguardare solo politici e forze di polizia». Pag XXXI Turismo, una ricchezza potenziale che lascia attorno a sé solo nebbia (intervento di Franco Miracco) La domanda è: il turismo è una fonte di ricchezza che, simile alle piene del Nilo, arreca benefici diffusi e "universali" in grado di apportare vantaggi economici e sociali su vasta scala? Ovvio, il turismo è una ricchezza, ma la domanda, se non sottintende una provocazione soltanto insensata, conduce a più di una risposta, non escluse quelle inaspettate. E si tratta di interrogativi e di punti di vista che non interessano affatto solo Venezia. Tanto è vero che lo storico e sociologo Ernesto Galli della Loggia, nel considerare alcune "connessioni" laceranti del fenomeno turistico, ha detto: «Molti centri urbani italiani sono ormai diventati delle semplici location a uso di orde sempre più fitte... che vi si aggirano spesso senza meta, senza nulla vedere o sapere, solo per il maggior guadagno di commercianti, baristi, ambulanti, menestrelli, autobus mostruosi...». La citazione si ferma qui perché il resto, oimè, è la quotidianità per i veneziani d'acqua e di terra: dalla vigilanza municipale molto invisibile alle autorità locali indifferenti, dagli intoccabili santuari della criminalità a non pochi spazi urbani abbandonati al degrado e a varie forme di prepotenza se non di violenza, che abbassano di molto la qualità della vita. Così, al negativo, cioè stando nel peggio, Venezia non è speciale in nulla rispetto ad altre città. E questo essere "somigliante" ad altri a seguito di mediocrità assai scadenti deve farci riflettere, soprattutto nel momento in cui si registra di nuovo il disinteresse nazionale nel rinnovare i finanziamenti della storica Legge Speciale. Un disinteresse questo che non è solo un male derivato dai tempi bui vissuti dalle finanze pubbliche. C'è dell'altro, e che fornisce, per esempio, un alibi molto spendibile in sede parlamentare e governativa visto che il nostro Paese è obbligato a completare e a mantenere quell'opera (la difesa dalle acque alte). Ma nel farlo, come non tener conto di costi che sottrarranno ogni aggiuntiva risorsa finanziaria pubblica per Venezia? Inoltre, nel corso di molti anni si sono accumulati ostacoli, a volte addirittura ideologici, contrapposizioni durissime tutte interne al corpo politico cittadino, e poi la devastante vicenda giudiziaria del Mose. E prima ancora il lungo racconto di ambiguità e incertezze politiche e culturali incartatesi a livello locale attorno a quali fossero gli autentici percorsi della salvaguardia ambientale, quale il più sostenibile e corretto intervento di difesa dalle acque alte, quali i limiti entro cui esercitare il risanamento socioeconomico dei centri urbani lagunari. Dunque, un insieme di fattori che hanno complicato gravemente le vicende veneziane degli ultimi decenni. Una differenza - l'essere città speciale - che si sarebbe esaltata al meglio nel misurarsi sui beni ambientali, paesaggistici e culturali, sullo sviluppo economico di un'area urbana policentrica, originalmente labirintica nel suo essere molteplice, a iniziare - perché no - proprio dalla impressionante molteplicità di flussi turistici la cui gestione resta invece a tutt'oggi un'impresa impossibile. Pertanto, se da una parte assistiamo all'eclissi della cultura politica che ha dato origine alle "nostre" leggi speciali, dall'altra non possiamo non interrogarci sui vantaggi (per chi e dove) derivanti dalla ricchezza turismo. Se si sta ai numeri diffusi di recente da Confcommercio, la situazione a Venezia e dintorni è "triste è desolante". In particolare, Venezia è la maglia nera in campo regionale: disoccupazione in aumento e mentre calano i consumi cresce la mortalità fra le imprese, sia nel manifatturiero che nel commercio, non esclusa la ristorazione. Infine, basta scorrere l'elenco delle provincie analizzate dal Sole 24 Ore. In quanto a vivibilità stiamo precipitando anno dopo anno ed è così anche nell'offerta di qualità in ciò che attiene al tempo libero e quindi al turismo. In breve, Ravenna è stella lontanissima da Venezia anni luce in fatto di qualità della vita, di offerta turistica e di tutto il resto. Eppure qui da noi transitano ogni anno più di 30 milioni di turisti: numeri colossali che tradotti in

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ricchezza, in milioni o miliardi di euro diventano nebbia che lascia attorno a sé ben poco, anzi nulla. C'e di che interrogarsi per davvero, se non altro in vista di un futuro che per Venezia resta incertissimo. LA NUOVA Pag 24 Polemiche su don Pistolato. E lui rinuncia alla serata Pd di Francesco Furlan Il vicario non sarà più al dibattito con il probabile candidato alle primarie Casson: “Una scelta presa in autonomia”. Manifesto dell’iniziativa spedito al Patriarcato È arrivato l’invito, lui ci ha pensato, e poi ha confermato, come aveva già fatto in passato per altri incontri organizzati da promotori molti diversi tra loro: «Ok, ci sarò». E il Pd ha stampato i volantini citandolo tra i relatori: don Dino Pistolato, vicario episcopale del Patriarcato di Venezia. L’appuntamento con l’incontro su sicurezza, qualità urbana e integrazione, organizzato dai circoli del Pd di Favaro e Dese, Campalto e Tessera è per domani alle 17.30 nel municipio di Favaro, con la partecipazione, tra gli altri, anche del senatore Felice Casson, probabile candidato e possibile vincitore delle primarie del centrosinistra. Tra le sedie dei relatori ce n’è una che però resterà vuota, ed è proprio che era stata preparata per don Pistolato. La sua presenza a un incontro marchiato Pd, in vista delle elezioni primarie, ha scatenato infatti una ridda di polemiche, soprattutto tra i rappresentanti degli altri gruppi politici, di centro e di centro-destra, che hanno interpretato la presenza dell’ex responsabile della Caritas come una sorta di endorsement a favore di Casson. Qualcuno si è limitato a disapprovare scuotendo la testa, ma qualcun altro - che con Don Pistolato ha avuto modo di confrontarsi in passato - ha preso in mano il telefonino, e ha manifestato al vicario più di qualche perplessità. E infine c’è stato anche qualcuno che ha pensato fosse corretto informare la segreteria del Patriarcato facendo pervenire il volantino dell’iniziativa. Ieri don Dino ha deciso di non partecipare all’incontro di Favaro. Nel motivare il suo passo indietro, don Pistolato ha spiegato di non aver ricevuto alcuna indicazione dal patriarcato ma di avere in autonomia preferito rinunciare all’incontro - nel corso del quale avrebbe dovuto portare la sua testimonianza sulla città - per evitare di diventare, suo malgrado, bersaglio di inutili polemiche politiche tra partiti. Una decisione, ha spiegato, maturata proprio dopo aver raccolto al telefono le perplessità manifestate da alcune persone, rappresentanti politici di centrodestra, e tra questi sicuramente quella dell’ex consigliere comunale e candidato a sindaco Roberto Boraso, che proprio non è riuscito a digerire la presenza di una rappresentante della chiesa a un incontro «da campagna elettorale», come lo ha definito lui stesso. Ieri pomeriggio don Pistolato ha comunicato la sua decisione ai rappresentanti del Pd di Favaro. «Motivi personali», si è limitato a dire, facendo sapere che al suo posto ci sarà invece Stefano Bozzi dell’associazione San Vincenzo di Mestre. Pag 25 In arrivo altri 205 profughi, potranno fare i volontari di m.ch. Si aggiungono ai 652 transitati nelle strutture della nostra provincia da giugno. Circolare ministeriale introduce la novità: lavori socialmente utili nei Comuni Il prefetto di Venezia Domenico Cuttaia ha preannunciato ieri l'arrivo in Veneto di altri 913 migranti, nel corso della riunione del Tavolo di coordinamento regionale per i flussi migratori non programmati. Sono 205 i migranti in arrivo a Venezia, che si aggiungono ai 652 già arrivati nei mesi scorsi. Lo stesso numero è previsto a Treviso mentre 210 arrivano a Padova, 130 a Verona, 123 a Vicenza e 17 a Belluno. Questa la ripartizione comunicata ieri al Tavolo in Prefettura dove è stato fatto anche il punto sulle presenze di migranti ospitati già nelle strutture temporanee (dati aggiornati a ieri). Sono 260 i migranti presenti nelle strutture veneziane; 224 a Treviso, 343 a Verona, 376 a Vicenza, 168 a Belluno e 218 nella provincia di Padova. Rovigo, infine, ne ospita 164. Ai sindaci è stata anticipata una circolare del prefetto con la quale sarà resa nota la possibilità di stipulare protocolli d'intesa tra prefetture ed enti locali per lo svolgimento da parte dei migranti di attività di utilità sociale, rese gratuitamente e su base volontaria. Insomma la novità che si aggiunge alla notizia dell’arrivo di quasi mille nuovi migranti nel territorio veneto è quello della possibilità di impiegare queste persone, che potrebbero anche richiedere asilo in Italia per motivi umanitari (ma questo si vedrà più avanti) siano

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utilizzati dagli enti locali in progetti di lavori socialmente utili, gratuiti e volontari. La possibilità però deve partire dai sindaci a cui il prefetto Cuttaia ricorderà le linee guida per lo svolgimento di volontariato da parte dei migranti, previsto da una circolare della fine di novembre del Ministero dell’Interno-Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Gli enti locali, anche in consorzio, possono sottoscrivere protocolli d’intesa per utilizzare come volontari i migranti, evitando così la condizione di passività nelle strutture di accoglienza. Le attività possono interessare solo i richiedenti asili e coloro che sono in attesa di definire il ricorso in caso abbiano impugnato il parere negativo della commissione territoriale che valuta le richieste. Le attività di volontariato devono essere su brase volontaria e gratuita, finalizzate ad uno scopo sociale e non lucrativa e i partecipanti devono aderire ad una associazione o organizzazione di volontariato. Va prevista, poi, una adeguata copertura assicurativa non a carico però del Ministero dell’Interno e va assicurata una formazione adeguata. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Lui, Nietzsche e una bomba nella testa di Ferdinando Camon Ma che ci fanno le parole di Nietzsche nel cranio di un ricchetto del Nordest, dell’età di 62 anni, sposato con una filippina di 56 e padre di un ragazzo di 24? Quest’uomo ha prima sgozzato il figlio che stava dormendo, poi ha atteso che rientrasse in casa la moglie che stava nel cortile a stendere i panni ad asciugare, e l’ha massacrata colpendola cinque volte alla testa con una mazza. Infine è salito su in mansarda, ha agganciato la corda a una trave, e s’è impiccato. Una famigliola benestante e apparentemente felice distrutta in un amen con bieca ferocia. Nessuno dei tre aveva problemi economici. Anzi, dice la gente, «i sé pien de schei», beati loro. Nessuno aveva una doppia vita, che si sapesse (per quanto, la doppia vita non si sa mai). E il figlio aveva un lavoro, che di questi tempi è una fortuna, e per di più un lavoro su misura, che è la fortuna più grande: studente universitario di enologia, lavorava da enologo. A spiegare la strage non c’è niente di niente: non una lettera, non un biglietto, non una frase, non una parola. Il quadro della famigliola mostrava una serenità paradisiaca. In quel paradiso, ieri, spuntava una traccia inquietante, che forse non significa niente, ma poiché siamo immersi nel buio anche un piccolo lumino attira i nostri occhi: l’uomo leggeva Nietzsche. Che ci sta a fare Nietzsche, il filosofo più conturbante del pensiero occidentale, e più controverso, che viene letto anche come “Anticristo”, nemico del Cristianesimo, dell’amore per i poveri, i deboli e i perdenti, nemico del «Tu devi» e teorico dell’«Io voglio»? Che ci sta a fare nella vita quieta, senza scosse, di un agiato padroncino, che governa la sua famiglia come un’azienda? Nietzsche è una bomba a mano senza sicura. Se uno la maneggia con imperizia, esplode e combina devastazioni. Nella vita dei ragazzi di liceo c’è un prima e un dopo l’incontro con Nietzsche. Nietzsche gli scarica nel cervello messaggi traumatici ed oscuri, li consegna con un linguaggio ispirato e definitivo, e quei messaggi fermenteranno nella mente di chi li riceve fino alla fine dei suoi giorni. Lo studente diventando uomo dimenticherà un po’ alla volta le teorie del Capitale, i gradi dello Spirito, la Ragion Pura e la Ragion Pratica, il Fenomeno e il Noumeno, ma ogni tanto gli balzeranno davanti i messaggi Dio è morto, Tu Devi non esiste più, Io Voglio decide tutto, le miserie e i miserabili «sono i vermi nel pane della Vita», lo Spirito Cristiano è lo Spirito del Cammello, che prima di partire per il deserto vuol caricare su di sé i pesi più pesanti. Allo Spirito cristiano del Cammello deve seguire lo Spirito del Leone, che fa quel che vuole. È questo il momento, predicava Nietzsche. No, il momento è questo, correggeva Hitler, che al primo incontro con Mussolini gli portava in dono le opere di Nietzsche rilegate in pelle. È una questione controversa, ma Hitler voleva imporre sul mondo la propria volontà di potenza, e la pescava (forse sbagliando ma forse no) nel sistema di Nietzsche. Era convinto di ricreare la figura del Superuomo nicciano con la figura delle SS, che possono anche fare cose atroci ma hanno dentro di sé una legge morale che le assolve. Forse Hitler non capiva niente di Nietzsche (è possibile), ma così lo capiva e così tentava di realizzarlo. Magari solo per

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questo fraintendimento, non si può dire, come dice il mio amico Gianni Vattimo (il più grande dei filosofi italiani viventi, l’unico che abbia creato un sistema), che «la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale nulla cambia». Senza Marx non cambiava nulla? E senza Nietzsche? Può darsi che la lettura di Nietzsche non sia la causa che ha scatenato il disordine nel cervello del padroncino di Refrontolo. Io ne sono convinto. Ma certo non ha contribuito a metterci un po’ d’ordine. Pag 1 La banalità di quella violenza di Giuliano Pasini Quello che mi ha colpito, è la banalità della violenza della tragedia di Refrontolo. E la sua totale mancanza di senso che fa sentire tutti vulnerabili. Non ci sono spiegazioni, quel che ho potuto fare è collocarla fuori dal mondo reale. Mi sono rifugiato nel romanzo, insomma. In Roberto Serra, Mixielutzi e Sernagiotto, per la mia tranquillità e per quella dei lettori. Ho fatto un salto di tempo, collocando la tragedia subito dopo la fine di “Io sono lo straniero”, e prima del prossimo romanzo (maggio 2015). Ho chiesto a Roberto Serra di andare in quella villetta e uscirne subito. E di prepararsi per un lungo viaggio. La villetta traccia il confine tra il buio che c’è all’interno e la luce che splende all’esterno, nonostante il muro di nuvole grigie nel cielo. E traccia anche il confine tra la morte e la vita. Dentro, tre cadaveri, attorno a cui sciamano uomini in tuta bianca. Fuori, tre uomini, due a testa bassa e uno, il più alto, che saluta i giornalisti assiepati oltre un piccolo cancello di ferro battuto con macchine fotografiche e cineprese e si accende una sigaretta con un vistoso accendino d’oro. Mani ferme, dita lunghe, da pianista. Respira il fumo e lo fa uscire dalle narici. «Indagini iniziate e finite. Ce ne fossero di casi così. Hai più culo che anima, Serra.» Gli altri due si guardano, con un’identica espressione di vuoto. A parlare è quello vestito di nero, con folte basette che lasciano scoperto solo il mento. «Con il dovuto rispetto, signor questore» dice senza inflessioni «non capisco quale culo abbia il commissario Serra. E, sempre con il dovuto rispetto, casi così non vorrei vederne mai. Un padre che ammazza la moglie e il figlio…». Il questore fa un paio di anelli di fumo verso il cielo. Butta a terra la sigaretta quando è ancora a metà e la calpesta col tacco. «Tanto la scientifica ha fatto» sussurra. Poi appoggia una mano sulla spalla dell’uomo con le basette. «Udite udite, Mixielutzi ha un cuore. E dire che tutti in questura pensano che tu sia di pietra.» Si rivolge all’altro, restato in silenzio fino a quel momento. «E Serra è fortunato perché questo è il suo ultimo caso qui nel trevigiano e non deve neanche sporcarsi le mani. Omicidio-suicidio, soluzione limpida.» Roberto Serra si morde un labbro. Detesta dover chiedere notizie sulla sua situazione al questore. Ma con una figlia di pochi mesi che sta a Bologna, non può vivere a bagnomaria, in attesa. «È stata accettata la mia domanda di trasferimento?» Il sorriso del questore Sernagiotto si fa più ampio. «Oh, no, Serra. È stata accettata la mia. Sei sospeso senza stipendio. Per sei mesi, in attesa di accertamenti sulla tua insubordinazione.» Roberto sente le tempie pulsare forte. Troppo forte. «Insubordinazione?» sibila. «Intendi quella per cui ho continuato a indagare contro la tua volontà e ho salvato la vita a una donna rapita? E a due bambini? Se avessi fatto quello che dicevi tu, sarebbero morti. Ammazzati. Come gli altri.» «Non è affar tuo quello che faccio o non faccio, Serra. Tu pensa a come difenderti dalle accuse.» Indica dietro di sé. «Ora andate, che per quelli là dentro non potete fare più niente.» Roberto vede rosso davanti agli occhi. «Come fai a parlare così di un ragazzo ammazzato a ventiquattro anni, e… di una donna senza colpa…» Sernagiotto allarga le braccia. « Tutti col cuore tenero, oggi… Le vittime sono solo sacchi di stracci, non lo diceva il tuo maestro, il grande Bernini? Se non ti dispiace, vado a fare due chiacchiere con i miei amici della stampa, raccontando quanto sono sconvolto. E quanto è stato facile risolvere il caso.» Mixielutzi legge negli occhi di Roberto la rabbia di chi non ha più niente da perdere. Ne intuisce lo slancio, ma troppo tardi. Lo schiaffo centra il viso del questore, netto, preciso, a favore di telecamera. Un mormorio stupito serpeggia nel gruppo di giornalisti. «Raccontagli anche questo» conclude Roberto. E volta le spalle al questore, alla villetta dove sono stati scoperti i cadaveri e con ogni probabilità alla sua carriera di poliziotto. «Come fa essere così stronzo?» Roberto fissa le bollicine salire nel bicchiere. Lui e Mixielutzi sono seduti ai tavolini del Forno, antica osteria all’incrocio di due vie di Refrontolo. Piol, l’oste, indossa un grande grembiule di cuoio e ogni tanto getta legna nel

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camino che occupa il centro della stanza senza riuscire a scacciare il freddo. Il silenzio e l’immobilità sono l’unica risposta di Mixielutzi. Che, finito il prosecco, si rivolge proprio all’oste. «Mi porterebbe un bicchiere di quel passito così famoso che si fa da queste parti? Lo vuole anche lei?» Roberto scuote la testa. «Io vorrei solo sapere perché.» «Perché è così stronzo il questore? Credo sia una combinazione tra qualità congenite ed ambizione.» «No, Mixielutzi. Io vorrei solo capire perché un padre di famiglia si alza una domenica mattina e ammazza suo figlio e sua moglie.» Piol arriva e deposita i bicchieri. «Erano brave persone, sa?» dice lasciando il bicchiere di Refrontolo. «Riservate, lavoratrici, senza problemi…» Gli occhi azzurri passano dall’uno all’altro dei due commensali. Vorrebbe sapere di più, si vede. Ma non c’è nulla di più da sapere. Quando si allontana, non ci sono state domande, e tanto meno risposte. «È sempre così, ci ha fatto caso?» chiede Roberto. «Chi ammazza è una brava persona. Senza problemi.» E ripensa a Case Rosse, all’assassino degli Zanarini, altra famiglia scomparsa per mano di una persona che la gente collocherebbe senza esitazioni nella categoria dei normali. E alle giovani straniere rapite e uccise a Treviso nell’indagine che ha tarpato le ali alla sua carriera. «Non sono in grado di risponderle, commissario. Non so il perché. Non ho moglie, né figli, non posso nemmeno immaginare come si arriva a…» e beve un generoso sorso di passito, senza completare la frase. Roberto fissa la strada oltre il bancone e la porta di legno. Una delle tante curve di quelle colline coperte di vigneti ora spogli in cui si è rifugiato da anni, e da cui vorrebbe fuggire per andare a Bologna, città estranea ma resa indispensabile dalla presenza di Alice e della piccola Silvia. La nascita della bambina non ha sanato i suoi problemi con Alice. La distanza sta rendendo tutto più difficile. Persino al sospensione sembra una benedizione. Se sono sospeso, posso stare vicino a loro, non ho una questura in cui andare a lavorare. Il pensiero scivola alla piccola Silvia. A quel corpo minuto che sembra assorbire ogni stilla del suo amore e restituirgliela moltiplicata. Roberto non credeva esistesse un genere di amore così profondo. Un brivido lo scuote da capo a piedi. Non riesce a capire come si possa solo immaginare di farle del male. Eppure, poco lontano da dove sono seduti ora, un padre ha ammazzato la moglie, e un figlio nel sonno. E ora noi, qui, ci chiediamo perché. Che perché vuoi che ci sia? «Il male è banale» dice, fissando Mixielutzi. «Fa paura per questo. Come quando cade un fulmine, pensi che ha colpito a caso, e non è successo a te, ma poteva succedere.» Resta in silenzio qualche istante. «Ma non bisogna arrendersi a questa banalità. Bisogna continuare a pensare a cosa si poteva fare per evitare che succedesse.» «Si vive male pensando ai se e ai ma…» «Ma è l’unico modo di vivere.» «Parliamo d’altro, commissario Serra, e lasciamo che il vino faccia il suo lavoro. Su una cosa Sernagiotto ha ragione: non possiamo fare nulla per quella povera famiglia. Se credessi in dio, pregherei per loro.» «In qualche modo, lo stiamo già facendo, non pensa?» Giuliano Pasini è scrittore e giallista. Autore tra l’altro di «Io sono lo straniero», il suo

commissario Serra vive letterariamente tra le colline del prosecco. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le complicità da sradicare nei partiti di Fiorenza Sarzanini Criminalità e affari Due giorni prima della «retata» di Roma il procuratore Giuseppe Pignatone aveva lanciato un preciso monito. Intervenendo alla conferenza del Partito democratico aveva detto: «Il rischio più alto che corriamo è quello del contatto fra il mondo criminale e quello politico, con un aumento esponenziale della pericolosità dell’uno e dell’altro». In realtà, leggendo gli atti giudiziari dell’inchiesta sull’associazione per delinquere di stampo mafioso che farebbe capo all’ex estremista dei Nar Massimo Carminati, quel rischio sembra essersi già concretizzato. Lo sa bene l’alto magistrato e lo sanno soprattutto gli amministratori pubblici che si sono messi al servizio di chi lucrava su ogni appalto, su ogni emergenza, persino sulle calamità naturali come la neve. Le indagini

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svolte a Roma sulle cosche locali non erano mai arrivate a scoprire un sistema di complicità tanto ben strutturato e soprattutto così invasivo. Neanche la ‘ndrangheta e la camorra, che pure hanno coltivato interessi economici perfettamente radicati sul territorio, avevano raggiunto un risultato tanto eclatante. E proprio questo dovrebbe far riflettere su quanto alto sia ormai il livello di permeabilità della politica. Ci sono uomini delle istituzioni sistemati nei posti strategici che hanno accumulato «tangenti» da centinaia di migliaia di euro individuando come interlocutori privilegiati gli imprenditori disponibili a pagare il prezzo più alto. Assessori e consiglieri che impunemente hanno continuato ad amministrare la cosa pubblica, semmai spostandosi da un ufficio all’altro, da un incarico all’altro. Lo hanno fatto spesso utilizzando per i propri interessi funzionari altrettanto corrotti, disponibili a truccare le carte pur di compiacerli e di soddisfare ogni richiesta in un intreccio illecito difficile da sciogliere. La soglia di tolleranza dei cittadini, che sgomenti assistono al «sacco» delle città, sembra essere stata raggiunta. Adesso tocca ai leader di partito rassicurarli, cambiare gli uomini e i metodi, intervenire in maniera drastica. Sono moltissimi gli esponenti della destra e della sinistra che in queste ore chiedono alla magistratura di andare fino in fondo. Bene, è giusto che i pubblici ministeri svolgano verifiche e accertamenti senza subire alcun condizionamento. Ma il compito principale spetta alla politica, che deve guardare al proprio interno per rompere i vincoli illeciti e fare finalmente pulizia senza sconti o indulgenze. Per essere credibile, prima che sia davvero troppo tardi. AVVENIRE Pag 1 La speranza da salvare di Danilo Paolini Burattinai e politica minuscola Che Roma fosse tornata «violenta » e «a mano armata», come recitavano i titoli di due pellicole 'poliziottesche' della metà degli anni 70, si sapeva già: rapine, gambizzazioni, regolamenti di conti, esecuzioni. Che non fosse criminalità comune, ma qualcosa di molto più pericoloso e ramificato, qualcuno lo aveva capito e anche scritto, colleghi coraggiosi che hanno ricevuto in cambio minacce di morte e pesantissimi 'avvertimenti'. Ma che la Capitale d’Italia fosse la sede di un 'Mondo di mezzo' (così è stata denominata l’inchiesta della procura guidata da Giuseppe Pignatone) che di fatto avrebbe manovrato sistematicamente il mondo 'di sopra', cioè quello dove si prendono le decisioni politiche, è un elemento in grado di sconvolgere anche gli osservatori più disincantati ed esperti. Già, perché i romani più anziani e anche quelli di mezza età ricordano altri tempi in cui la politica non ha dato, diciamo così, il meglio di sé. Con le giunte 'rosse', con le giunte 'bianche', con quelle 'rosa'. Il famoso convegno sui mali della città, organizzato dall’allora cardinale vicario Ugo Poletti con l’indimenticabile direttore della Caritas diocesana don Luigi Di Liegro, è datato 1974. Quindici anni dopo, lo stesso Poletti parlò della «ripugnanza» che potevano avere i cattolici nel votare quella Democrazia cristiana alle elezioni comunali che si sarebbero tenute di lì a poco. Erano anni nei quali, a Roma e altrove, troppa Dc aveva smarrito lo smalto originario del grande partito popolare e si preoccupava per lo più della gestione del potere e delle poltrone. Poi, venne un generoso e faticoso tentativo di positivo ricominciamento. Quindi l’ultima, rovinosa china. Tangentopoli spazzò via tutti i partiti tradizionali che avevano governato nell’era della democrazia bloccata, tranne il discendente del Partito comunista più grande e forte dell’Occidente che di quel 'blocco' era la ragione principale. Cominciava l’epoca dell’alternanza possibile e della democrazia compiuta. E cominciava proprio dai Comuni, con la rivoluzionaria legge sull’elezione diretta dei sindaci. Da quel momento, era il 1993, chi amministrava male poteva essere rispedito a casa dai suoi concittadini, con l’espressione libera e democratica del voto. È il sale della democrazia, il migliore antidoto alla corruzione nel e del Palazzo. A meno che non si scopra che nel 2014 (ma già da anni...) il palazzo, in realtà, ha la 'p' minuscola e si è ridotto a fare da teatrino per burattinai che sono fuori, nei bar malfamati delle periferie come nei salotti buoni dell’Eur e di Roma Nord o nei ristoranti del centro storico e del litorale. Burattinai cinici come il Mangiafuoco di Collodi, convinti che ogni uomo abbia un prezzo. Quello che davvero conta è comprarne il maggior numero possibile, a sinistra e a destra, in modo da vincere sempre, chiunque vinca. Altro che 'Il Gattopardo'. Il parallelo più ovvio e perciò meno originale, ma inevitabile, è con 'Romanzo criminale' (e magari con il successivo

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'Suburra'), il best seller del giudice-scrittore Giancarlo De Cataldo che ha poi ispirato un film e una serie tv di successo. Al netto degli elementi di fantasia, si tratta della trasposizione narrativa dell’infausta storia della banda della Magliana, di cui i protagonisti di oggi sono in qualche modo gli eredi, se non altro perché capitanati da Massimo Carminati, uno che della banda ha fatto parte. Il titolo giusto per quanto sta saltando fuori dalle indagini sarebbe, tuttavia, 'Morte di una speranza di democrazia'. Ma questo, purtroppo o per fortuna, non è un romanzo. La magistratura sta facendo ciò che deve. Sta alle parti oneste della società, delle istituzioni, dei partiti - che pure esistono - non lasciar morire la speranza. Torna al sommario