Rassegna stampa 29 settembre 2015€¦ · voi giovani, che siete molto concreti, vorrei proporre...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 29 settembre 2015 SOMMARIO «La misericordia non è “buonismo”, né mero sentimentalismo. Qui c’è la verifica dell’autenticità del nostro essere discepoli di Gesù, della nostra credibilità in quanto cristiani nel mondo di oggi». È quanto scrive Papa Francesco nel messaggio per la trentunesima Giornata mondiale della gioventù che si celebrerà a Cracovia (testo completo qui in Rassegna). “La misericordia di Dio - scrive tra l’altro - è molto concreta e tutti siamo chiamati a farne esperienza in prima persona. Quando avevo diciassette anni, un giorno in cui dovevo uscire con i miei amici, ho deciso di passare prima in chiesa. Lì ho trovato un sacerdote che mi ha ispirato una particolare fiducia e ho sentito il desiderio di aprire il mio cuore nella Confessione. Quell’incontro mi ha cambiato la vita! Ho scoperto che quando apriamo il cuore con umiltà e trasparenza, possiamo contemplare in modo molto concreto la misericordia di Dio. Ho avuto la certezza che nella persona di quel sacerdote Dio mi stava già aspettando, prima che io facessi il primo passo per andare in chiesa. Noi lo cerchiamo, ma Lui ci anticipa sempre, ci cerca da sempre, e ci trova per primo. Forse qualcuno di voi ha un peso nel suo cuore e pensa: Ho fatto questo, ho fatto quello... Non temete! Lui vi aspetta! Lui è padre: ci aspetta sempre! Com’è bello incontrare nel sacramento della Riconciliazione l’abbraccio misericordioso del Padre, scoprire il confessionale come il luogo della Misericordia, lasciarci toccare da questo amore misericordioso del Signore che ci perdona sempre! E tu, caro giovane, cara giovane, hai mai sentito posare su di te questo sguardo d’amore infinito, che al di là di tutti i tuoi peccati, limiti, fallimenti, continua a fidarsi di te e guardare la tua esistenza con speranza? Sei consapevole del valore che hai al cospetto di un Dio che per amore ti ha dato tutto? Come ci insegna san Paolo, «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Ma capiamo davvero la forza di queste parole? (…) Vorrei suggerirvi come concretamente possiamo essere strumenti di questa stessa misericordia verso il nostro prossimo. Mi viene in mente l’esempio del beato Piergiorgio Frassati. Lui diceva: «Gesù mi fa visita ogni mattina nella Comunione, io la restituisco nel misero modo che posso, visitando i poveri». Piergiorgio era un giovane che aveva capito che cosa vuol dire avere un cuore misericordioso, sensibile ai più bisognosi. A loro dava molto più che cose materiali; dava sé stesso, spendeva tempo, parole, capacità di ascolto. Serviva i poveri con grande discrezione, non mettendosi mai in mostra. Viveva realmente il Vangelo che dice: «Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto». Pensate che un giorno prima della sua morte, gravemente ammalato, dava disposizioni su come aiutare i suoi amici disagiati. Ai suoi funerali, i famigliari e gli amici rimasero sbalorditi per la presenza di tanti poveri a loro sconosciuti, che erano stati seguiti e aiutati dal giovane Piergiorgio. (…)A voi giovani, che siete molto concreti, vorrei proporre per i primi sette mesi del 2016 di scegliere un’opera di misericordia corporale e una spirituale da mettere in pratica ogni mese. Fatevi ispirare dalla preghiera di santa Faustina, umile apostola della Divina Misericordia nei nostri tempi: «Aiutami, o Signore, a far sì che [...] i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base di apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto [...] il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori ed ai gemiti del mio prossimo [...] la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono [...] le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni [...] i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza [...] il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo» (Diario, 163). Il messaggio

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RASSEGNA STAMPA di martedì 29 settembre 2015

SOMMARIO

«La misericordia non è “buonismo”, né mero sentimentalismo. Qui c’è la verifica dell’autenticità del nostro essere discepoli di Gesù, della nostra credibilità in quanto cristiani nel mondo di oggi». È quanto scrive Papa Francesco nel messaggio per la trentunesima Giornata mondiale della gioventù che si celebrerà a Cracovia (testo completo qui in Rassegna). “La misericordia di Dio - scrive tra l’altro - è molto

concreta e tutti siamo chiamati a farne esperienza in prima persona. Quando avevo diciassette anni, un giorno in cui dovevo uscire con i miei amici, ho deciso di passare prima in chiesa. Lì ho trovato un sacerdote che mi ha ispirato una particolare fiducia e ho sentito il desiderio di aprire il mio cuore nella Confessione. Quell’incontro mi ha cambiato la vita! Ho scoperto che quando apriamo il cuore con umiltà e trasparenza, possiamo contemplare in modo molto concreto la misericordia di Dio. Ho avuto la

certezza che nella persona di quel sacerdote Dio mi stava già aspettando, prima che io facessi il primo passo per andare in chiesa. Noi lo cerchiamo, ma Lui ci anticipa

sempre, ci cerca da sempre, e ci trova per primo. Forse qualcuno di voi ha un peso nel suo cuore e pensa: Ho fatto questo, ho fatto quello... Non temete! Lui vi aspetta!

Lui è padre: ci aspetta sempre! Com’è bello incontrare nel sacramento della Riconciliazione l’abbraccio misericordioso del Padre, scoprire il confessionale come il luogo della Misericordia, lasciarci toccare da questo amore misericordioso del Signore che ci perdona sempre! E tu, caro giovane, cara giovane, hai mai sentito posare su di te questo sguardo d’amore infinito, che al di là di tutti i tuoi peccati, limiti, fallimenti, continua a fidarsi di te e guardare la tua esistenza con speranza? Sei consapevole del valore che hai al cospetto di un Dio che per amore ti ha dato tutto? Come ci insegna san Paolo, «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Ma capiamo davvero la forza di queste parole? (…) Vorrei suggerirvi come concretamente possiamo essere strumenti di

questa stessa misericordia verso il nostro prossimo. Mi viene in mente l’esempio del beato Piergiorgio Frassati. Lui diceva: «Gesù mi fa visita ogni mattina nella Comunione, io la restituisco nel misero modo che posso, visitando i poveri». Piergiorgio era un giovane che aveva capito che cosa vuol dire avere un cuore

misericordioso, sensibile ai più bisognosi. A loro dava molto più che cose materiali; dava sé stesso, spendeva tempo, parole, capacità di ascolto. Serviva i poveri con

grande discrezione, non mettendosi mai in mostra. Viveva realmente il Vangelo che dice: «Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto». Pensate che un giorno prima della sua

morte, gravemente ammalato, dava disposizioni su come aiutare i suoi amici disagiati. Ai suoi funerali, i famigliari e gli amici rimasero sbalorditi per la presenza di tanti

poveri a loro sconosciuti, che erano stati seguiti e aiutati dal giovane Piergiorgio. (…)A voi giovani, che siete molto concreti, vorrei proporre per i primi sette mesi del 2016 di scegliere un’opera di misericordia corporale e una spirituale da mettere in pratica ogni mese. Fatevi ispirare dalla preghiera di santa Faustina, umile apostola della

Divina Misericordia nei nostri tempi: «Aiutami, o Signore, a far sì che [...] i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base di

apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto [...] il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle

necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori ed ai gemiti del mio prossimo [...] la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai

sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono [...] le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni [...] i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo,

vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza [...] il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo» (Diario, 163). Il messaggio

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della Divina Misericordia costituisce dunque un programma di vita molto concreto ed esigente perché implica delle opere. E una delle opere di misericordia più evidenti, ma forse tra le più difficili da mettere in pratica, è quella di perdonare chi ci ha

offeso, chi ci ha fatto del male, coloro che consideriamo come nemici. «Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici». Incontro tanti giovani che dicono di essere stanchi di questo mondo così diviso, in cui si scontrano sostenitori di fazioni diverse, ci sono tante guerre e c’è addirittura chi usa la propria

religione come giustificazione per la violenza. Dobbiamo supplicare il Signore di donarci la grazia di essere misericordiosi con chi ci fa del male. Come Gesù che sulla croce pregava per coloro che lo avevano crocifisso: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». L’unica via per vincere il male è la misericordia. La giustizia

è necessaria, eccome, ma da sola non basta. Giustizia e misericordia devono camminare insieme. Quanto vorrei che ci unissimo tutti in una preghiera corale, dal profondo dei nostri cuori, implorando che il Signore abbia misericordia di noi e del

mondo intero! (…) Carissimi giovani, Gesù misericordioso, ritratto nell’effigie venerata dal popolo di Dio nel santuario di Cracovia a Lui dedicato, vi aspetta. Lui si fida di voi e conta su di voi! Ha tante cose importanti da dire a ciascuno e a ciascuna di voi... Non abbiate paura di fissare i suoi occhi colmi di amore infinito nei vostri confronti e lasciatevi raggiungere dal suo sguardo misericordioso, pronto a perdonare ogni vostro peccato, uno sguardo capace di cambiare la vostra vita e di guarire le ferite delle vostre anime, uno sguardo che sazia la sete profonda che dimora nei vostri giovani cuori: sete di amore, di pace, di gioia, e di felicità vera. Venite a Lui e non abbiate

paura! Venite per dirgli dal profondo dei vostri cuori: “Gesù confido in Te!”. Lasciatevi toccare dalla sua misericordia senza limiti per diventare a vostra volta apostoli della misericordia mediante le opere, le parole e la preghiera, nel nostro mondo ferito dall’egoismo, dall’odio, e da tanta disperazione. Portate la fiamma dell’amore misericordioso di Cristo - di cui ha parlato san Giovanni Paolo II - negli

ambienti della vostra vita quotidiana e sino ai confini della terra” (a.p.)

2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXI Don Antonio saluta alla soglia degli 80 anni di R.Cop. Porto Santa Margherita 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Vicina al popolo di g.m.v. Pag 4 Il mistero della luna di Dionigi Tettamanzi Giovanni Battista Montini, nella storia del Novecento Pag 6 Fabbrica di speranza Nella veglia di preghiera al Benjamin Franklin Parkway il Papa ripropone la centralità della famiglia Pag 7 Sapore di casa Alla messa conclusiva dell’incontro mondiale il Pontefice invita a valorizzare i piccoli gesti quotidiani Pag 9 Argine contro le moderne tirannie Il discorso sulla libertà religiosa davanti all’Independence Hall Pag 10 Nuova prossimità

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Ai vescovi ospiti a Philadelphia il Papa chiede di sviluppare l’alleanza tra Chiesa e famiglia Pag 11 Reclusione non è espulsione Durante la visita al carcere l’appello per il reinserimento sociale dei detenuti Pag 12 Sette opere Nel messaggio per la trentunesima giornata mondiale della gioventù il Papa dà appuntamento a Cracovia. E invita a gesti concreti di misericordia corporale e spirituale AVVENIRE Pag 1 Rivoluzionaria riconciliazione di Mimmo Muolo Il messaggio di Francesco LA STAMPA Scomunicato stampa di Massimo Gramellini IL FOGLIO Pag 1 Il pugno del Papa: “Anche la libertà di coscienza è un diritto umano” di Matteo Matzuzzi Dopo il viaggio in America. Meno battaglie, più umiltà e mitezza 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA NUOVA Pag 1 Volkswagen e l’industria dell’Europa di Francesco Morosini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Trenta milioni di turisti, boom di alloggi privati di Enrico Tantucci e Alberto Vitucci Presentato l’annuario 2014 del turismo: straniero l’86% dei visitatori, americani in testa. Grande offerta culturale, ma numeri bassi. L’invasione non si ferma, addio alla bassa stagione Pag 21 I Gesuiti: “Mortificati, ci scusiamo” di Nadia De Lazzari Accesso vietato alla chiesa per un matrimonio. Direttore sconfessato. Il sindaco: “Verifiche sulle autorizzazioni” Pag 27 Grande festa oggi a Mestre nel segno di San Michele di Mitia Chiarin e Laura Fiorillo La città celebra oggi il patrono. I “quattro angeli” di Aricò tornano da oggi sull’altare IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Turismo, l’assalto dell’Oriente: in 5 anni raddoppiati i cinesi di Michele Fullin Da 118mila nel 2010 a 206mila. Boom anche dei coreani. Posocco (San Rocco): “Ma si continua a concentrare tutto sull’area di San Marco” Pag X San Michele, evento tra festa e polemiche di Melody Fusaro “Identità sbiadita”, Brugnaro atteso dalla contestazione. Tornano in Duomo gli Angeli in vetro freschi di restauro 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Il Nordest: italiano chi nasce qui, anche se i genitori sono stranieri di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin

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Otto persone su dieci sono convinte che i figli degli immigrati debbano avere la cittadinanza subito. Il sociologo Allievi: “la gente conosce la vita ed è diversa dal Palazzo” Pag 25 Accesso alla cittadinanza, tempi maturi per nuove regole di Enzo Pace CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Lo scatto che serve al Pd di Umberto Curi Verso il congresso … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il tocco magico che l’Onu non può avere di Angelo Panebianco Le risorse scarse e le illusioni Pagg 2 – 3 Italiano freddato in strada a Dacca. L’Isis: “E’ soltanto la prima goccia” di Sara Gandolfi, Andrea Pasqualetto e Fiorenza Sarzanini Insegnava a coltivare la terra nei Paesi in via di sviluppo. Colpito perché cristiano. E sale la preoccupazione per il Giubileo a Roma LA REPUBBLICA Pag 1 Gli euroscettici del Mediterraneo di Ilvo Diamanti Pag 16 L’allarme del premier su temi etici e unioni civili: “I cattolici non capiscono” di Goffredo De Marchis LA STAMPA Perché serve una vera opposizione di Giovanni Orsina AVVENIRE Pag 3 Secessionisti alla catalana: la volontà non basta di Marco Olivetti Costituzione e democrazia in spagna (e non solo) IL GAZZETTINO Pag 1 Usa e Russia, un passo indietro per la pace di Mauro Del Pero LA NUOVA Pag 1 Soffia forte il vento catalano di Renzo Guolo Pag 6 Lo sviluppo sostenibile in 17 mosse di Alfredo De Girolamo

Torna al sommario 2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXI Don Antonio saluta alla soglia degli 80 anni di R.Cop. Porto Santa Margherita Caorle - Va in pensione il parroco della "Croce Gloriosa" di Porto Santa Margherita e Brian. Alla soglia degli ottant'anni (lì compirà il 29 dicembre) e dopo 53 di sacerdozio, don Antonio Gusso si ritirerà domenica 4 ottobre, salutando i parrocchiani che stanno organizzando per lui una grande festa. Don Antonio arrivò a Santa Margherita nel 2000, dopo una lunga esperienza in altre comunità. È stato il principale promotore della nuova chiesa di Porto Santa Margherita, consacrata nel giugno del 2009 e dedicata a Papa Giovanni XXIII, e dell'annesso complesso. A lui si devono anche i lavori di restauro della

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vecchia chiesa di via dei Greci e la realizzazione del patio esterno. Anche nelle altre parrocchie dove aveva prestato servizio aveva curato il restauro di cappelle, l'edificazione, laddove possibile, di nuove chiese e la sistemazione di oratori e campi sportivi. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Vicina al popolo di g.m.v. La sfida per la Chiesa? È quella di sempre: continuare ad accompagnare il popolo nella crescita, nelle gioie e nelle difficoltà. Così Papa Francesco ha risposto durante la conferenza stampa sul volo di ritorno che ha concluso il suo terzo viaggio americano, a Cuba e negli Stati Uniti. Vicina al popolo, dunque, è la Chiesa che il Pontefice ha incontrato a Washington, New York e Philadelphia. Una comunità cattolica che ha accolto Bergoglio con accenti diversi - «molto espressiva» ha definito la metropoli newyorkese - ma in ogni caso con affetto e calore evidenti, smentendo previsioni e analisi forse interessate, comunque senza fondamento nella realtà. Della Chiesa statunitense il Papa ha detto di aver visto la vitalità, radicata nella preghiera, e a Philadelphia ha indicato la necessità di valorizzare ancor più il contributo dei laici, in particolare delle donne. E anche ai giornalisti ha voluto ripetere l’aperto elogio che aveva riservato alle religiose a New York, perché - ha detto - le suore negli Stati Uniti hanno fatto meraviglie e di conseguenza la gente le ama. Altrettanto trasparente è stato il sostegno ai vescovi veri pastori, e tanto accorate quanto ferme sono state le parole del Pontefice per la vergogna degli abusi su minori commessi da membri del clero. Nell’ultima tappa del viaggio, a Philadelphia, il Papa è tornato sul nodo cruciale della libertà religiosa: che ha collegato con la necessità sempre più urgente - contro ogni intolleranza - di un fronte comune tra donne e uomini di diverse fedi «per la pace e il rispetto dei diritti di tutti» e con il nodo epocale delle migrazioni. Temi su cui è tornato parlando poi con i giornalisti. Con nettezza Bergoglio ha detto a proposito della libertà religiosa che l’obiezione di coscienza fa parte dei diritti umani. Ragionando poi sulla crisi migratoria - definita davanti al Congresso statunitense la più grave dalla fine della seconda guerra mondiale - che i muri innalzati sono destinati a crollare: presto o tardi, ma crolleranno e lasceranno solo odio, ha concluso con amarezza. La conclusione del viaggio papale è coincisa a Philadelphia con quella dell’incontro mondiale delle famiglie, alla vigilia ormai del sinodo che sarà dedicato a questo tema cruciale. E mentre qua e là si levano con insistenza voci di profeti di sventura, non di rado enfatizzate sui media, il Pontefice ha mostrato uno sguardo ben diverso: la famiglia - ha detto infatti - non è per i cattolici principalmente una fonte di preoccupazione, ma «il luogo fondamentale dell’alleanza della Chiesa con la creazione di Dio». Anche se questo non significa chiudere gli occhi di fronte alle trasformazioni della società. Per descrivere questa nuova situazione Papa Francesco ha fatto ricorso a un’immagine efficacissima. In un mondo infatti dove i negozi di quartiere a misura umana spariscono e vengono imposti supermercati spersonalizzanti che inducono solo a consumare, il consumismo riguarda anche le relazioni umane e dunque la famiglia. Ed è questa la realtà di cui anche la Chiesa deve tenere conto, senza nostalgie inutili o contrapposizioni sterili, ma testimoniando che la tenacia per formare e portare avanti una famiglia «trasforma il mondo e la storia». Pag 4 Il mistero della luna di Dionigi Tettamanzi Giovanni Battista Montini, nella storia del Novecento Presentiamo stralci della relazione su Giovanni Battista Montini nella storia del Novecento, appena pubblicata dal notiziario dell’Istituto Paolo VI. La relazione è stata tenuta dal cardinale Dionigi Tettamanzi il 22 novembre scorso al convegno del Rotary Internazionale Distretto 2050, presso il centro studi Paolo VI di Concesio.

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Chiesa quid dicis de te ipsa? È questo il grande interrogativo che si è posto e al quale ha dato risposta il concilio Vaticano II. Per la verità è lo stesso interrogativo-risposta d’ogni nostro giorno. Si fanno qui doverosi alcuni dati che rimandano all’arcivescovo Montini nel periodo di preparazione e d’inizio delle sessioni del Concilio. Egli si è impegnato a orientarne i lavori incentrandoli nell’ecclesiologia come punto architettonico globale e unitario delle molteplici discussioni che si sono aperte e sono susseguite in rapporto ai più diversi elementi dottrinali e ai più vari problemi pratici della Chiesa nel mondo attuale. Divenuto Pontefice Montini ha continuato a seguire questa stessa linea, come dimostrano in particolare la sua prima enciclica Ecclesiam Suam e poi la presentazione che del mistero della Chiesa egli ha fatto in modo sistematico nelle «catechesi del mercoledì» dedicate ai documenti del Concilio e in particolare alla Costituzione specificamente interessata all’interrogativo-risposta. Personalmente mi sento sempre attratto delle parole iniziali di questo documento: «Essendo Cristo la luce delle genti, questo Santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera con la luce di Lui splendente sul volto della Chiesa, illuminare tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura (cfr Marco, 16, 15). E siccome la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti concili intende con maggior chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la sua natura e la sua missione universale» (Lumen gentium, 1). Mi pare importante rilevare l’aggettivazione che alla Chiesa viene data nel titolo iniziale dell’enciclica Ecclesiam Suam. Il Suam si riferisce a Cristo, affermando così l’essenziale “relatività” della Chiesa nei riguardi del suo Signore. In questo si ritrova e si fa evidente il rapporto inscindibile tra Cristo e la Chiesa, tra la Chiesa e Cristo, quale si esprime nei diversi elementi che compongono il volto unitario della Chiesa: questa è la sposa di Cristo, è il corpo del Signore, è il sacramento di Gesù salvatore. In tutto questo è visibilissima la traccia di sant’Ambrogio circa l’identità della Chiesa in quanto mysterium lunae, come appare dalla sua famosa opera sui giorni della creazione, l’Exameron: «Questa è la vera luna, che dalla luce perenne di suo fratello (il sole) deriva il lume dell’immortalità e della grazia. La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal Sole di giustizia (...) Veramente beata sei tu, o luna, che hai meritato una significazione tanto ammirevole! Perciò io mi avventuro a dirti beata, ma non per i suoi noviluni, bensì perché sei singolo della Chiesa; in quelli sei serva, in questo sei l’oggetto di amore» (IV, 32). La prospettiva cristocentrica della Chiesa spinge Montini-Paolo VI a illustrare i vari lineamenti che disegnano il volto luminoso della Chiesa sottolineando sempre come tipico l’aspetto misterico, che è fonte e alimento di quella spiritualità che si compendia nell’amore alla Chiesa: un amore che è di Cristo e che da Cristo viene partecipato al cristiano, ai membri della Chiesa, sia singoli sia insieme. Non è esagerato dire che i testi montiniani sulla Chiesa sono un costante e crescente appello ad amare la Chiesa, ad amarla in tutti i suoi aspetti, anche nei suoi difetti. Un esempio, tra i tantissimi, è l’omelia ai fedeli della parrocchia di San Luigi Grignion de Montfort il 7 marzo 1971: «Della Chiesa, di solito, noi vediamo l’aspetto umano (...). La Chiesa è Cristo presente, vivente nella storia. Più che curarci dei suoi difetti visibili, dobbiamo cercare di penetrare nella sua realtà, di vederla trasfigurata, di vedere la sua luce che è splendente come il sole e candida come la neve. Amate la Chiesa, anche per i suoi difetti, che sono i bisogni che la Chiesa ha. Ma soprattutto amatela perché davvero nasconde Cristo e dà Cristo (...). Ed è per questo che io sono, come Santa Caterina, folle d’amore per la Chiesa». Dalla cristologia all’ecclesiologia e poi dall’una e dall’altra all’antropologia. Su quest’ultima sostiamo ora nel nostro percorso sulla spiritualità di Montini-Paolo VI: un percorso che può essere espresso in modo semplice con il termine di «cuore»: un termine che ricorre innumerevoli volte nel magistero di Paolo VI e che è da lui inteso in senso biblico e teologico e dunque come «cuore nuovo», cuore che è dono e frutto dello Spirito di Cristo. Riserviamo una specifica attenzione all’uomo: all’uomo come soggetto del suo vissuto nel mondo, presente e attivo nella società umana, nelle più diverse realtà terrene e temporali, oggi diremmo in specie nelle periferie geografico-spaziali ed esistenziali. Un ambito, questo, nel quale deve esprimersi un autentico cordoglio, che deve sfociare in una partecipazione responsabile nel segno della verità e della giustizia, della solidarietà e della fraternità. È in questo modo che si entra nel vastissimo e impegnativo campo della dottrina sociale della Chiesa nell’intento di tutti includere e di

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nessuno escludere in chiave di umanità. Mi si fa spontaneo e immediato riprendere il linguaggio di Papa Francesco sulla cultura dello scarto, che priva l’uomo della sua dignità personale. Possiamo allora riprendere e riproporre qualche telegrafico accenno circa l’azione e la spiritualità di Montini-Paolo VI, a cominciare dal dato fondamentale che l’amore a Cristo e alla Chiesa non è possibile se non intimamente congiunto con l’amore all’uomo, alla sua dignità, alle sue responsabilità, alla condivisione dei numerosi e complessi problemi della vita propria e altrui: nel mondo appunto, in un mondo sempre più globalizzato e travagliato. E se in precedenza ho voluto fare un cenno alla Costituzione in un certo senso centrale del Concilio, la Lumen gentium, ora nell’ambito del cuore sociale il cenno riguarda un altro testo conciliare: la Gaudium et spes, il documento che definisce l’uomo e ne delinea il compito da svolgere nel mondo. Rileggiamo un testo prezioso al riguardo: «È l’uomo, dunque, ma l’uomo singolo e integrale, nell’unità di corpo e anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione. Pertanto il santo Sinodo, proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità, la cooperazione sincera della Chiesa, al fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione. La Chiesa non è mossa da alcuna ambizione terrena; essa mira a questo solo: a continuare sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (Gaudium et spes, 3). Di qui gli interventi di straordinaria incisività di Paolo VI circa il rapporto d’amore e di comunione, di servizio e di aiuto della Chiesa nei confronti del mondo: certo così com’è nell’epoca e nel clima della modernità, ma sempre in vista di un grande e responsabile rispetto della «vocazione e missione» propria dell’uomo nel mondo. Quest’amore vero all’uomo e al mondo è quanto mai presente e in modo profondamente intelligente e appassionato nel “cuore” di Montini-Paolo VI, che giustamente possiamo qualificare come “cuore sociale”. Si dovrebbe aprire qui una carrellata di interventi che testimoniano la presenza singolarmente vasta e determinante del pontificato di Montini nella storia non solo ecclesiale, ma anche civile, politica, culturale del secolo da poco passato. Si tratta di una presenza che trova ampia e significativa documentazione in molteplici direzioni: nella pazienza e tenacia di Paolo VI nel condurre a termine il Concilio e, soprattutto, nell’accompagnare con saggezza e coraggio i fermenti e gli sviluppi del post-concilio; nei viaggi, fino a quel momento impensabili, così impegnativi; nella spiccata coscienza ecumenica; nella lettura - mai banale e liquidatoria - della contestazione giovanile; nell’infaticabile e grandioso magistero per la pace - che comportò spesso anche un’indefessa azione diplomatica personale del Papa - nell’atteggiamento fermo sui valori, soprattutto quelli legati alla difesa e alla promozione della vita umana; nella continua disponibilità al dialogo e alla trattativa, di fronte alle crisi che a più riprese investivano in quegli anni il corpo ecclesiale; nella sensibilità sociale, a livello planetario; nella compartecipazione affettuosa ai drammi e alle sofferenze dei poveri. Se è lecito fare una veloce incursione su altri aspetti del “magistero sociale” di Paolo VI, vorrei ricordare la concezione della politica come forma alta di carità, come servizio alla comunità. Montini ci invita poi a non rassegnarci a essere «naufraghi condannati al naufragio», ma a tornare a ideali grandi e superiori, riconoscendo che la radice dei gravi squilibri mondiali è morale e spirituale e che è urgente instaurare «dialoghi di civiltà». È necessario ricordare qui vari documenti di magistero sociale, in particolare l’enciclica Populorum progressio, del 1967, con i suoi spunti di attualità nel contesto della depressione economica mondiale in cui ci troviamo, quando afferma che lo sviluppo, per essere autentico, non può ridursi alla crescita economica, ma deve essere integrale, ossia volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. È lo stesso principio riproposto e rilanciato da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate del 2009. Questi e altri aspetti del pontificato di Paolo VI - come le linee portanti della sua precedente esperienza episcopale e, ancora prima, del suo ministero in Segreteria di Stato e con i giovani universitari - altro non sono che coerenti derivazioni di quella centralità e profondità del «cuore», del cuore che abbiamo chiamato «sociale». È questa tutta una storia che domanda di essere conosciuta, non dimenticata, perché capace di offrire spunti nuovi per l’azione sociale, politica, culturale nel contesto del nostro tempo. E ciò nell’interesse di tutti: credenti e non credenti, perché - come scrive il Concilio - la Chiesa «cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme

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al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio» (Gaudium et spes, 40). È importante a questo punto rilevare il fatto che l’amore e il servizio all’uomo, nella concretezza faticosa e talvolta drammatica del cammino quotidiano, non sono - nel pensiero e nel vissuto - a margine della spiritualità, ma ne costituiscono un’espressione necessaria e originale. Possiamo così comprendere perché la vera garanzia offerta da Paolo VI al mondo non sia quella dei risultati terreni più o meno positivi, ma più in profondità sia quella di una coerenza personale interiore, più precisamente di una coerenza tra quanto egli andava chiedendo alla Chiesa e ai cattolici e quanto esigeva da se stesso per corrispondere - lui per primo - al disegno di Dio circa il rapporto tra l’uomo moderno e il suo Creatore e Padre. Nel contesto della spiritualità si può cogliere l’importanza e l’urgenza di un altro aspetto dell’evangelizzazione che può sembrare sorprendente: sì, anche o proprio nelle difficoltà e negli insuccessi il Signore dona al credente forza e coraggio, assicurandogli persino una particolare gioia: quella gioia alla quale Papa Montini ha dedicato l’esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975). È una gioia che può e deve essere ridestata e stimolata, soprattutto nelle non poche situazioni pastorali e sociali in cui la speranza sembra destinata inevitabilmente ad affievolirsi o a spegnersi. Lo stesso Paolo VI era ben consapevole del peso schiacciante di queste delicate situazioni. In un colloquio con l’amico Jean Guitton, ricordando di essere stato battezzato il 30 settembre 1897, giorno della morte di santa Teresa del Bambino Gesù, si rifaceva a un episodio della Storia di un’anima in cui la santa, avendo ascoltato, durante un pellegrinaggio a Roma, alcuni sacerdoti predicare in maniera molto mediocre, si era proposta di compensare le deficienze degli altri con un ulteriore impegno, ponendosi non alla periferia, ma al centro dell'amore: In corde Ecclesiae ego amor ero et ita ero omnia («Nel cuore della Chiesa io sarò l'amore e così sarò tutto»). In tal senso il cuore di Montini-Paolo VI ci si presenta, anche e non ultimo, come un cuore coraggioso e gioioso. C’è qui un “segreto” che Montini svela facendo luce sul vero cuore che è in questione in tutte quante le più varie vicende umane sia personali che sociali: è il cuore stesso di Cristo. In pienezza di fede l’arcivescovo così proclama: «Un cuore vivo, sanguinante e vivificante, palpita nell’umanità. È quel cuore che davvero ha amato il mondo (...); è il cuore umano di Cristo che pulsa di amore divino» (Angelus, 4 giugno 1972). E così ci ritroviamo di nuovo al centro della fede: «Cristo è tutto per noi». Non c’è scossa più forte, non c’è desiderio più vibrante e infuocato, non c’è responsabilità più obbligante per la Chiesa, che ama e serve l’uomo e il mondo, della certezza che la fede ci dona. Mi viene spontaneo concludere riascoltando con venerazione alcune preziosissime parole del suo Pensiero alla morte: «E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo. Amen. Il Signore viene. Amen». Pag 6 Fabbrica di speranza Nella veglia di preghiera al Benjamin Franklin Parkway il Papa ripropone la centralità della famiglia L’incontro di festa e di preghiera con le famiglie riunite a Philadelphia per l’ottavo incontro mondiale si è svolto nella serata di sabato 26 settembre, al Benjamin Franklin Parkway. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze, il Pontefice ha pronunciato a braccio il discorso che pubblichiamo in una traduzione dallo spagnolo. Cari fratelli e sorelle, care famiglie! Grazie a coloro che hanno dato testimonianza. Grazie a coloro che ci hanno rallegrato con l’arte, con la bellezza, che è la via per arrivare a Dio. La bellezza ci porta a Dio. E una testimonianza vera, ci porta a Dio perché Dio è anche la verità. È la bellezza ed è la verità. E una testimonianza data come servizio è buona, ci rende buoni, perché Dio è bontà. Ci porta a Dio. Tutto ciò che è buono, vero e bello ci porta a Dio. Perché Dio è buono, Dio è bello, Dio è verità. Grazie a tutti. A quelli che ci hanno dato un messaggio qui e alla vostra presenza, che pure è una testimonianza. Una vera testimonianza che vale la pena la vita in famiglia. Che una società cresce forte, cresce buona, cresce bella e cresce vera se si edifica sulla base

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della famiglia. Una volta, un bambino mi ha chiesto - voi sapete che i bambini chiedono cose difficili - mi ha chiesto: “Padre, che cosa faceva Dio prima di creare il mondo?”. Vi assicuro che ho fatto fatica a rispondere. E gli ho detto quello che dico adesso a voi: prima di creare il mondo Dio amava, perché Dio è amore; ma era tale l’amore che aveva in sé stesso, l’amore tra il Padre e il Figlio, nello Spirito Santo, era così grande, così traboccante - questo non so se è molto teologico, ma potete capirlo - era così grande che non poteva essere egoista; doveva uscire da sé stesso per avere qualcuno da amare fuori di sé. E allora Dio ha creato il mondo. Allora Dio ha creato questa meraviglia in cui viviamo; e che, dato che siamo un po’ stupidi, stiamo distruggendo. Ma la cosa più bella che ha fatto Dio - dice la Bibbia - è la famiglia. Ha creato l’uomo e la donna. E ha affidato loro tutto. Ha consegnato loro il mondo: “Crescete, moltiplicatevi, coltivate la terra, fatela produrre, fatela crescere”. Tutto l’amore che ha realizzato in questa creazione meravigliosa l’ha affidato a una famiglia. Torniamo un po’ indietro. Tutto l’amore che Dio ha in sé, tutta la bellezza che Dio ha in sé, tutta la verità che Dio ha in sé, la consegna alla famiglia. E una famiglia è veramente famiglia quando è capace di aprire le braccia e accogliere tutto questo amore. Certamente il paradiso terrestre non sta più qui, la vita ha i suoi problemi, gli uomini, per l’astuzia del demonio, hanno imparato a dividersi. E tutto quell’amore che Dio ci ha dato, quasi si perde. E in poco tempo, al primo crimine, al primo fratricidio. Un fratello uccide l’altro fratello: la guerra. L’amore, la bellezza e la verità di Dio, e la distruzione della guerra. E tra queste due posizioni camminiamo noi oggi. Sta a noi scegliere, sta a noi decidere la strada da seguire. Ma torniamo indietro. Quando l’uomo e sua moglie hanno sbagliato e si sono allontanati da Dio, Dio non li ha lasciati soli. Tanto era l’amore. Tanto era l’amore che ha incominciato a camminare con l’umanità, ha incominciato a camminare con il suo popolo, finché giunse il momento maturo e diede il segno più grande del suo amore: il suo Figlio. E suo Figlio dove lo ha mandato? In un palazzo? In una città? A fare un’impresa? L’ha mandato in una famiglia. Dio è entrato nel mondo in una famiglia. E ha potuto farlo perché quella famiglia era una famiglia che aveva il cuore aperto all’amore, aveva le porta aperte. Pensiamo a Maria ragazza. Non poteva crederci: “Come può accadere questo?”. E quando le spiegarono, obbedì. Pensiamo a Giuseppe, pieno di aspettative di formare una famiglia, e si trova con questa sorpresa che non capisce. Accetta, obbedisce. E nell’obbedienza d’amore di questa donna, Maria, e di quest’uomo, Giuseppe, si forma una famiglia in cui viene Dio. Dio bussa sempre alle porte dei cuori. Gli piace farlo. Gli viene da dentro. Ma sapete quello che gli piace di più? Bussare alle porte delle famiglie. E trovare le famiglie unite, trovare le famiglie che si vogliono bene, trovare le famiglie che fanno crescere i figli e li educano, e che li portano avanti, e che creano una società di bontà, di verità e di bellezza. Siamo alla festa delle famiglie. La famiglia ha la carta di cittadinanza divina. È chiaro? La carta di cittadinanza che ha la famiglia l’ha data Dio perché nel suo seno crescessero sempre più la verità, l’amore e la bellezza. Certo, qualcuno di voi mi può dire: “Padre, Lei parla così perché non è sposato. In famiglia ci sono difficoltà. Nelle famiglie discutiamo. Nelle famiglie a volte volano i piatti. Nelle famiglie i figli fanno venire il mal di testa. Non parliamo delle suocere...”. Nelle famiglie sempre, sempre c’è la croce. Sempre. Perché l’amore di Dio, il Figlio di Dio ci ha aperto anche questa via. Ma nelle famiglie, dopo la croce, c’è anche la risurrezione, perché il Figlio di Dio ci ha aperto questa via. Per questo la famiglia è - scusate il termine - una fabbrica di speranza, di speranza di vita e di risurrezione, perché è Dio che ha aperto questa via. E i figli, i figli danno da fare. Noi come figli abbiamo dato da fare. A volte, a casa, vedo alcuni dei miei collaboratori che vengono a lavorare con le occhiaie. Hanno un bimbo di un mese, due mesi. E gli domando: “Non hai dormito?” - “No, ha pianto tutta notte”. In famiglia ci sono le difficoltà. Ma queste difficoltà si superano con l’amore. L’odio non supera nessuna difficoltà. La divisione dei cuori non supera nessuna difficoltà. Solo l’amore è capace di superare la difficoltà. L’amore è festa, l’amore è gioia, l’amore è andare avanti. E non voglio continuare a parlare perché si fa troppo tardi, ma vorrei sottolineare due piccoli punti sulla famiglia, sui quali vorrei che si avesse una cura speciale; non solo vorrei, dobbiamo avere una cura speciale: i bambini e i nonni. I bambini e i giovani sono il futuro, sono la forza, quelli che portano avanti. Sono quelli in cui riponiamo la speranza. I nonni sono la memoria della famiglia. Sono quelli che ci hanno dato la fede, ci hanno trasmesso la fede. Avere cura dei nonni e avere cura dei bambini è la prova di amore, non so se più grande, ma direi più

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promettente della famiglia, perché promette il futuro. Un popolo che non sa prendersi cura dei bambini e un popolo che non sa prendersi cura dei nonni è un popolo senza futuro, perché non ha la forza e non ha la memoria per andare avanti. Dunque, la famiglia è bella, ma costa, dà problemi. Nella famiglia a volte ci sono ostilità. Il marito litiga con la moglie, o si guardano male, o i figli con il padre... Vi do un consiglio: non finite mai la giornata senza fare pace in famiglia. In una famiglia non si può finire la giornata in guerra. Dio vi benedica. Dio vi dia le forze, Dio vi dia il coraggio per andare avanti. Prendiamoci cura della famiglia. Difendiamo la famiglia perché lì si gioca il nostro futuro. Grazie! Dio vi benedica e pregate per me. Per favore. Di seguito il testo italiano del discorso preparato dal Papa per la veglia di preghiera. Cari fratelli e sorelle, Care famiglie! Voglio ringraziare prima di tutto le famiglie che hanno avuto il coraggio di condividere con noi la loro vita. Grazie per la vostra testimonianza! È sempre un regalo poter ascoltare le famiglie condividere le loro esperienze di vita; tocca il cuore. Sentiamo che ci parlano di cose veramente personali e uniche, ma che in una certa misura ci riguardano tutti. Ascoltando le loro esperienze possiamo sentirci coinvolti, interpretati come coniugi, come genitori, come figli, fratelli, nonni. Mentre le ascoltavo pensavo a quanto è importante condividere la vita delle nostre case e aiutarci a crescere in questo compito bello e impegnativo di “essere famiglia”. Essere con voi mi fa pensare ad uno dei misteri più belli del cristianesimo. Dio non ha voluto venire al mondo se non mediante una famiglia. Dio non ha voluto avvicinarsi all’umanità se non per mezzo di una casa. Dio non ha voluto per sé un altro nome che “Emmanuel” (cfr. Mt 1, 23), è il Dio con noi. E questo è stato fin dall’inizio il suo sogno, la sua ricerca, la sua lotta instancabile per dirci: “Io sono il Dio con voi, il Dio per voi”. È il Dio che fin dal principio della creazione disse: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18) e noi possiamo proseguire dicendo: non è bene che la donna sia sola, non è bene che il bambino, l’anziano, il giovane, siano soli; non è bene. Per questo, l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne (cfr. Gen 2, 24). I due saranno una sola dimora, una famiglia. E così da tempi immemorabili, nel profondo del cuore, ascoltiamo quelle parole che toccano fortemente la nostra interiorità: non è bene che tu sia solo. La famiglia è il grande dono, il gran regalo di questo “Dio con noi” che non ha voluto abbandonarci alla solitudine di vivere senza nessuno, senza sfide, senza dimora. Dio non sogna solamente, ma cerca di fare tutto “con noi”. Il sogno di Dio continua a realizzarsi nei sogni di molte coppie che hanno il coraggio di fare della loro vita una famiglia. Per questo la famiglia è il simbolo vivo del progetto d’amore che un giorno il Padre ha sognato. Voler formare una famiglia è avere il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo, che nessuno si senta superfluo o senza un posto. Noi cristiani ammiriamo la bellezza e ogni momento familiare come il luogo dove, in modo graduale, impariamo il significato e il valore delle relazioni umane. Impariamo che amare qualcuno non è soltanto un sentimento potente, è una decisione, un giudizio, una promessa (cfr. E. Fromm, L’arte di amare). Impariamo a spenderci per qualcuno e che ne vale la pena. Gesù non è stato uno “scapolone”, tutto il contrario. Egli ha sposato la Chiesa, l’ha fatta suo popolo. Si è speso per quelli che ama dando tutto sé stesso perché la sua sposa, la Chiesa, potesse sempre sperimentare che Lui è il Dio con noi, con il suo popolo, con la sua famiglia. Non possiamo comprendere Cristo senza la sua Chiesa, come non possiamo comprendere la Chiesa senza il suo sposo, Cristo Gesù, che si è donato per amore e ci ha mostrato che vale la pena farlo. Spendersi per amore, non è di per sé una cosa facile. Come è stato per il Maestro, ci sono momenti in cui questo “spendersi” passa attraverso situazioni di croce. Momenti in cui sembra che tutto diventi difficile. Penso a tanti genitori, tante famiglia a cui manca il lavoro, o hanno un lavoro senza diritti che diventa un vero calvario. Quanto sacrificio per procurarsi il pane quotidiano. Ovviamente, questi genitori, quando tornano a casa non possono dare il meglio di sé ai loro figli per la stanchezza che si portano addosso. Penso a tante famiglie che non hanno un tetto sotto cui ripararsi, o vivono in situazioni di affollamento; che non possiedono il minimo per poter stabilire legami di intimità, di sicurezza, di protezione di fronte a tanti tipi di avversità. Penso a tante famiglie che non possono accedere ai

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servizi sanitari di base. Che davanti a problemi di salute, specialmente dei bambini o degli anziani, dipendono da un sistema che non li tratta con serietà trascurando il dolore e sottoponendo queste famiglie a grandi sacrifici per poter rispondere ai propri problemi sanitari. Non possiamo pensare a una società sana che non dia spazio concreto alla vita familiare. Non possiamo pensare al futuro di una società che non trovi una legislazione capace di difendere e assicurare le condizioni minime e necessarie perché le famiglie, specialmente quelle che stanno incominciando, possano svilupparsi. Quanti problemi si risolveranno se le nostre società proteggeranno il nucleo familiare e assicureranno che esso, in particolare quello dei giovani sposi, abbia la possibilità di un lavoro dignitoso, un’abitazione sicura, un servizio sanitario che accompagni la crescita della famiglia in tutte le fasi della vita. Il sogno di Dio continua irrevocabile, continua intatto e ci invita a lavorare, ad impegnarci in favore di una società pro familia. Una società dove “il pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo” continui ad essere offerto in ogni casa alimentando la speranza dei suoi figli. Aiutiamoci affinché questo “spendersi per amore” continui ad essere possibile. Aiutiamoci gli uni gli altri, nei momenti di difficoltà, ad alleviare il peso. Facciamo in modo di essere gli uni sostegno degli altri, le famiglie sostegno di altre famiglie. Non esistono famiglie perfette e questo non ci deve scoraggiare. Al contrario, l’amore si impara, l’amore si vive, l’amore cresce “lavorandolo” secondo le circostanze della vita che ogni famiglia concreta attraversa. L’amore nasce e si sviluppa sempre tra luci e ombre. L’amore è possibile in uomini e donne concreti che cercano di non fare dei conflitti l’ultima parola, ma un’opportunità. Opportunità per chiedere aiuto, opportunità per chiedersi in che cosa dobbiamo migliorare, opportunità per scoprire il Dio-con-noi che mai ci abbandona. Questo è un grande lascito che possiamo dare ai nostri figli, un ottimo insegnamento: noi sbagliamo, sì; abbiamo problemi, sì; però sappiamo che queste cose non sono la realtà definitiva. Sappiamo che gli errori, i problemi, i conflitti sono un’opportunità per avvicinarsi agli altri, a Dio. Questa sera siamo radunati per pregare, per farlo in famiglia, per fare delle nostre famiglie il volto sorridente della Chiesa. Per incontrarci con il Dio che non ha voluto altra forma per venire al mondo che non fosse per mezzo di una famiglia. Per incontrarci con il Dio con noi, il Dio che sta sempre in mezzo a noi. Pag 7 Sapore di casa Alla messa conclusiva dell’incontro mondiale il Pontefice invita a valorizzare i piccoli gesti quotidiani Momento conclusivo dell’ottavo incontro mondiale delle famiglie è stata la messa celebrata da Francesco nel pomeriggio di domenica 27 settembre, al Benjamin Franklin Parkway di Philadelphia. Di seguito la traduzione italiana dell’omelia pronunciata dal Papa in spagnolo. Oggi la Parola di Dio ci sorprende con un linguaggio allegorico forte, che ci fa pensare. Immagini potenti, che interrogano le nostre riflessioni. Un linguaggio allegorico che ci interpella, ma che anima il nostro entusiasmo. Nella prima Lettura, Giosuè dice a Mosè che due membri del popolo stanno profetizzando, e annunciano la parola di Dio senza alcun mandato. Nel Vangelo, Giovanni dice a Gesù che i discepoli hanno impedito a uno di scacciare gli spiriti maligni nel nome di Gesù. E qui viene la sorpresa: Mosè e Gesù rimproverano questi collaboratori per essere così chiusi di mente. Fossero tutti profeti della parola di Dio! Fosse capace ciascuno di fare miracoli nel nome del Signore! Gesù, invece, trova ostilità nella gente che non aveva accettato ciò che faceva e diceva. Per loro, l’apertura di Gesù alla fede onesta e sincera di molte persone che non facevano parte del popolo eletto da Dio sembrava intollerabile. I discepoli, da parte loro, agivano in buona fede; ma la tentazione di essere scandalizzati dalla libertà di Dio, il Quale fa piovere sui giusti come sugli ingiusti (cfr. Mt 5, 45), oltrepassando la burocrazia, l’ufficialità e i circoli ristretti, minaccia l’autenticità della fede e, perciò, dev’essere respinta con forza. Quando ci rendiamo conto di questo, possiamo capire perché le parole di Gesù sullo scandalo sono così dure. Per Gesù, lo scandalo intollerabile è tutto ciò che distrugge e corrompe la nostra fiducia nel modo di agire dello Spirito. Dio nostro Padre non si lascia vincere in generosità e semina. Semina la sua presenza nel nostro mondo, poiché «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che

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ha amato noi» per primo (1 Gv 4, 10). Amore che ci dà la certezza profonda: siamo cercati da Lui, siamo aspettati da Lui. È questa fiducia che porta il discepolo a stimolare, accompagnare e far crescere tutte le buone iniziative che esistono attorno a lui. Dio vuole che tutti i suoi figli prendano parte alla festa del Vangelo. Non ostacolate ciò che è buono - dice Gesù -, al contrario, aiutatelo a crescere. Mettere in dubbio l’opera dello Spirito, dare l’impressione che essa non ha nulla a che fare con quelli che non sono “del nostro gruppo”, che non sono “come noi”, è una tentazione pericolosa. Non solo blocca la conversione alla fede, ma costituisce una perversione della fede. La fede apre la “finestra” alla presenza operante dello Spirito e ci dimostra che, come la felicità, la santità è sempre legata ai piccoli gesti. «Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome - dice Gesù, piccolo gesto - non perderà la sua ricompensa» (Mc 9, 41). Sono gesti minimi, che uno impara a casa; gesti di famiglia che si perdono nell’anonimato della quotidianità, ma che rendono ogni giorno diverso dall’altro. Sono gesti di madre, di nonna, di padre, di nonno, di figlio, di fratello. Sono gesti di tenerezza, di affetto, di compassione. Gesti come il piatto caldo di chi aspetta a cenare, come la prima colazione presto di chi sa accompagnare nell’alzarsi all’alba. Sono gesti familiari. È la benedizione prima di dormire e l’abbraccio al ritorno da una lunga giornata di lavoro. L’amore si esprime in piccole cose, nell’attenzione ai dettagli di ogni giorno che fanno sì che la vita abbia sempre sapore di casa. La fede cresce quando è vissuta e plasmata dall’amore. Perciò le nostre famiglie, le nostre case sono autentiche Chiese domestiche: sono il luogo adatto in cui la fede diventa vita e la vita cresce nella fede. Gesù ci invita a non ostacolare questi piccoli gesti miracolosi, anzi, vuole che li provochiamo, che li facciamo crescere, che accompagniamo la vita così come ci si presenta, aiutando a suscitare tutti i piccoli gesti di amore, segni della sua presenza viva e operante nel nostro mondo. Questo atteggiamento a cui siamo invitati ci porta a domandarci, oggi, qui, al termine di questa festa: come stiamo lavorando per vivere questa logica nelle nostre famiglie e nelle nostre società? Che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli (cfr. Laudato si’, 160)? Non possiamo rispondere noi da soli a queste domande. È lo Spirito che ci chiama e ci sfida a rispondere ad esse con la grande famiglia umana. La nostra casa comune non può più tollerare divisioni sterili. «La sfida urgente di proteggere la nostra casa [...] comprende lo sforzo di unire l’intera famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare» (ibid., 13). Che i nostri figli trovino in noi dei punti di riferimento per la comunione, non per la divisione. Che i nostri figli trovino in noi persone capaci di associarsi ad altri per far fiorire tutto il bene che il Padre ha seminato. In modo diretto, ma con affetto, Gesù ci dice: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11, 13). Quanta saggezza c’è in queste parole! In effetti, quanto a bontà e purezza di cuore, noi esseri umani non abbiamo molto di cui vantarci! Ma Gesù sa che, per quanto riguarda i bambini, siamo capaci di una generosità senza limiti. Per questo ci incoraggia: se abbiamo fede, il Padre ci darà il suo Spirito. Noi cristiani, discepoli del Signore, chiediamo alle famiglie del mondo che ci aiutino. Siamo tanti oggi a partecipare a questa celebrazione, e questo è già in sé stesso qualcosa di profetico, una specie di miracolo nel mondo di oggi, che è stanco di inventare nuove divisioni, nuove rotture, nuovi disastri. Magari fossimo tutti profeti! Magari ciascuno di noi si aprisse ai miracoli dell’amore per il bene della propria famiglia e di tutte le famiglie del mondo - e sto parlando di miracoli d’amore -, e per poter così superare lo scandalo di un amore meschino e sfiduciato, chiuso in sé stesso, senza pazienza con gli altri! Vi lascio come domanda, perché ciascuno risponda - perché ho detto la parola “impaziente” -: a casa mia, si grida o si parla con amore e tenerezza? È un buon modo di misurare il nostro amore. Come sarebbe bello se dappertutto, anche al di là dei nostri confini, potessimo incoraggiare e apprezzare questa profezia e questo miracolo! Rinnoviamo la nostra fede nella parola del Signore che invita le nostre famiglie a questa apertura; che invita tutti a partecipare alla profezia dell’alleanza tra un uomo e una donna, che genera vita e rivela Dio. Che ci aiuti a partecipare alla profezia della pace, della tenerezza e dell’affetto familiare. Che ci aiuti a partecipare al gesto profetico di prenderci cura con tenerezza, con pazienza e con amore dei nostri bambini e dei nostri nonni. Ogni persona che desideri formare in questo mondo una famiglia che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si proponga di vincere il male - una famiglia che mostri che lo Spirito è vivo e

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operante -, troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga. Dio conceda a tutti noi di essere profeti della gioia del Vangelo, del Vangelo della famiglia, dell’amore della famiglia, essere profeti come discepoli del Signore, e ci conceda la grazia di essere degni di questa purezza di cuore che non si scandalizza del Vangelo. Così sia. Pag 9 Argine contro le moderne tirannie Il discorso sulla libertà religiosa davanti all’Independence Hall Nel pomeriggio di sabato 26, nell’Independence National Historical Park il Pontefice ha pronunciato un discorso dedicato al tema della libertà religiosa. Ne pubblichiamo di seguito una traduzione dallo spagnolo. Cari amici, buonasera! Uno dei momenti salienti della mia visita è qui, davanti all’Independence Mall, luogo di nascita degli Stati Uniti d’America. È in questo luogo che le libertà che definiscono questo Paese sono state proclamate per la prima volta. La Dichiarazione d’Indipendenza ha affermato che tutti gli uomini e tutte le donne sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, e che i governi esistono per proteggere e difendere tali diritti. Queste vibranti parole continuano a risuonare e ad ispirarci oggi, come hanno fatto con persone di tutto il mondo al fine di combattere per la libertà di vivere conformemente alla loro dignità. La storia mostra anche che questa verità, come del resto ogni verità, va costantemente riaffermata, fatta propria e difesa. La storia di questa nazione è anche quella di uno sforzo costante, fino ai nostri giorni, per dare corpo a questi alti principi nella vita sociale e politica. Ricordiamo le grandi lotte che hanno portato all’abolizione della schiavitù, all’estensione del diritto di voto, alla crescita del movimento dei lavoratori, ed allo sforzo progressivo per eliminare ogni forma di razzismo e di pregiudizio diretti contro le ondate successive di nuovi americani. Questo dimostra che, quando un Paese è determinato a rimanere fedele ai suoi principi fondatori, basati sul rispetto della dignità umana, diventa più forte e si rinnova. Quando un Paese conserva memoria delle proprie radici, cresce, si rinnova e accoglie nel proprio seno nuovi popoli e nuova gente che vengono in esso. Tutti traiamo beneficio dal fare memoria del nostro passato. Un popolo che ricorda non ripete gli errori del passato; al contrario, guarda fiducioso le sfide del presente e del futuro. La memoria salva l’anima di un popolo da tutto ciò o da tutti coloro che potrebbero tentare di dominarla o di utilizzarla per i loro interessi. Quando l’esercizio effettivo dei rispettivi diritti è garantito agli individui e alle comunità, essi non sono solamente liberi di realizzare le proprie potenzialità, ma, con queste capacità, con il loro lavoro contribuiscono anche al benessere e all’arricchimento di tutta la società. In questo luogo, che è un simbolo del modello degli Stati Uniti d’America, vorrei riflettere con voi sul diritto alla libertà religiosa. È un diritto fondamentale che plasma il modo in cui noi interagiamo socialmente e personalmente con i nostri vicini, le cui visioni religiose sono diverse dalla nostra. L’ideale del dialogo interreligioso, in cui tutti gli uomini e le donne di diverse tradizioni religiose possono dialogare senza litigare. Questo lo consente la libertà religiosa. La libertà religiosa implica certamente il diritto di adorare Dio, individualmente e comunitariamente, come la propria coscienza lo detta. Ma la libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, come pure la sfera degli individui e delle famiglie. Perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione. Le nostre diverse tradizioni religiose servono la società anzitutto mediante il messaggio che proclamano. Esse invitano gli individui e le comunità ad adorare Dio, fonte di ogni vita, della libertà e della bontà. Ci richiamano la dimensione trascendente dell’esistenza umana e la nostra irriducibile libertà di fronte ad ogni pretesa di qualsiasi potere assoluto. Dobbiamo accostarci alla storia - ci fa bene accostarci alla storia -, specialmente a quella del secolo scorso, per vedere le atrocità perpetrate dai sistemi che pretendevano di costruire questo o quel ‘‘paradiso terrestre’’ dominando i popoli, asservendoli a principi apparentemente indiscutibili e negando loro qualsiasi tipo di diritto. Le nostre ricche tradizioni religiose cercano di offrire significato e direzione, «posseggono una forza motivante che apre sempre nuovi orizzonti, stimola il pensiero, allarga la mente e la sensibilità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 256). Esse chiamano alla conversione, alla

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riconciliazione, all’impegno per il futuro della società, al sacrificio di sé nel servizio al bene comune, e alla compassione per coloro che sono nel bisogno. Al cuore della loro missione spirituale, si trova la proclamazione della verità e della dignità della persona umana come pure dei diritti umani. Le nostre tradizioni religiose ci ricordano che, come esseri umani, noi siamo chiamati a riconoscere l’Altro che rivela la nostra identità relazionale di fronte ad ogni tentativo di instaurare una «uniformità che l’egoismo del forte, il conformismo del debole, o l’ideologia dell’utopista potrebbero cercare di imporci» (M. de Certeau). In un mondo dove le diverse forme di tirannia moderna cercano di sopprimere la libertà religiosa, o - come ho detto prima - cercano di ridurla a una subcultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica, o ancora cercano di utilizzare la religione come pretesto per l’odio e la brutalità, è doveroso che i seguaci delle diverse tradizioni religiose uniscano le loro voce per invocare la pace, la tolleranza e il rispetto della dignità e dei diritti degli altri. Viviamo in un’epoca soggetta «alla globalizzazione del paradigma tecnocratico» (Enc. Laudato si’, 106), che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. Le religioni hanno quindi il diritto e il dovere di far comprendere che è possibile costruire una società in cui «un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 255) è un «prezioso alleato nell’impegno per la difesa della dignità umana [...] una via di pace per il nostro mondo ferito» (ibid., 257) dalle guerre. I Quaccheri che hanno fondato Filadelfia sono stati ispirati da un profondo senso evangelico della dignità di ogni persona e dall’ideale di una comunità unita dall’amore fraterno. Tale convinzione li ha condotti a fondare una colonia che sarebbe stata un paradiso di libertà religiosa e di tolleranza. Questo significato di impegno fraterno per la dignità di tutti, specialmente dei deboli e dei vulnerabili, è diventato parte essenziale dello spirito nordamericano. Durante la sua visita negli Stati Uniti nel 1987, san Giovanni Paolo II vi ha reso un tributo commovente, ricordando a tutti gli americani che «la prova decisiva della vostra grandezza è il modo con cui voi rispettate ogni persona umana, specialmente quelle più deboli e indifese» (Discorso nella cerimonia di congedo all’aeroporto di Detroit, 19 settembre 1987, 3). Colgo ora l’occasione per ringraziare tutti coloro che, qualunque sia la loro religione, hanno cercato di servire Dio, il Dio della pace, costruendo città animate dall’amore fraterno, prendendosi cura del prossimo bisognoso, difendendo la dignità del dono divino, del dono della vita in ogni sua fase, difendendo la causa dei poveri e dei migranti. Troppo spesso quanti hanno bisogno del nostro aiuto, da tutte le parti, non sono ascoltati. Voi siete la loro voce, e molti tra voi - uomini e donne religiosi - avete permesso che il loro grido sia ascoltato. Con questa testimonianza, che spesso incontra forte resistenza, voi ricordate alla democrazia nordamericana gli ideali per i quali essa è stata fondata, e che la società si indebolisce ogni volta e dovunque l’ingiustizia prevale. Poco fa, ho parlato della tendenza alla globalizzazione. La globalizzazione non è cattiva. Anzi, la tendenza a globalizzarci è buona, ci unisce. Ciò che può essere negativo è il modo di realizzarla. Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo. Se una globalizzazione cerca di unire tutti, ma rispettando ogni persona, la sua ricchezza, la sua peculiarità, rispettando ogni popolo, con la sua ricchezza, la sua peculiarità, questa globalizzazione è buona e ci fa crescere tutti, e conduce alla pace. Mi piace a questo proposito usare un po’ la geometria. Se la globalizzazione è una sfera, dove ogni punto è uguale, equidistante dal centro, annulla, non è buona. Se la globalizzazione unisce come un poliedro, in cui tutti sono uniti, ma ognuno conserva la propria identità, è buona e fa crescere un popolo, e dà dignità a tutti gli uomini e concede loro diritti. In mezzo a noi oggi ci sono membri della grande popolazione ispanica degli Stati Uniti, come pure rappresentanti di recenti immigrati negli Stati Uniti. Grazie per aver aperto le porte. Molti di voi - vi saluto con grande affetto - sono immigrati in questo Paese pagando personalmente un alto prezzo, ma con la speranza di costruire una nuova vita. Non scoraggiatevi per le difficoltà che dovete affrontare, quali che siano. Vi chiedo di non dimenticare che, come quelli che vi hanno preceduto, voi apportate molti talenti a questa nazione. Per favore, non vergognatevi delle vostre tradizioni! Non dimenticate le lezioni apprese, specialmente dai vostri anziani, che sono il contributo col quale potete arricchire la vita di questo Paese americano. Lo ripeto, non vergognatevi di ciò che fa parte di voi, il sangue della vostra vita. Voi siete anche

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chiamati ad essere cittadini responsabili e a contribuire - come hanno fatto con tanta forza quelli che sono venuti prima - a contribuire in maniera fruttuosa alla vita delle comunità in cui vivete. Penso in particolare alla fervida fede di molti di voi, al senso profondo della vita familiare e a tutti gli altri valori che avete ereditato. Portando i vostri contributi, non troverete soltanto il vostro posto qui, ma aiuterete a rinnovare la società dall’interno. Non perdere la memoria di ciò che è accaduto qui più di due secoli fa. Non perdere la memoria di quella Dichiarazione che ha proclamato che tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali, che sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili, e che i governi esistono per tutelare e difendere questi diritti. Cari amici, vi ringrazio della vostra calorosa accoglienza e per esservi radunati oggi con me. Conserviamo la libertà. Abbiamo cura della libertà. La libertà di coscienza, la libertà religiosa, la libertà di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni popolo, che è quella che dà luogo ai diritti. Possano questa nazione e ciascuno di voi essere rinnovati nella gratitudine per le tante benedizioni e libertà di cui godete. E possiate difendere questi diritti, specialmente la vostra libertà religiosa, perché essa vi è stata data da Dio stesso. Che Egli vi benedica tutti. E per favore, vi chiedo di pregare un pochino per me. Grazie! Pag 10 Nuova prossimità Ai vescovi ospiti a Philadelphia il Papa chiede di sviluppare l’alleanza tra Chiesa e famiglia I vescovi ospiti a Philadelphia per l’incontro mondiale delle famiglie si sono riuniti domenica mattina, 27 settembre, nella cappella del seminario San Carlo Borromeo per incontrare Francesco, che ha rivolto loro in spagnolo il discorso di cui pubblichiamo la traduzione italiana. Fratelli Vescovi buongiorno! Porto impressi nel mio cuore le storie, la sofferenza e il dolore dei minori che sono stati abusati sessualmente da sacerdoti. Continua a opprimermi la vergogna per il fatto che persone che erano incaricate della tenera cura di questi piccoli li hanno violati e hanno causato loro gravi danni. Lo deploro profondamente. Dio piange. I crimini e i peccati di abuso sessuale di minori non possono essere tenuti ulteriormente nascosti. Mi impegno all’attenta vigilanza della Chiesa per proteggere i minori e prometto che tutti i responsabili renderanno conto. Le vittime di abuso sono diventate autentici araldi di speranza e ministri di misericordia; umilmente dobbiamo a ciascuno di loro e alle loro famiglie la nostra gratitudine per il loro immenso valore nel far brillare la luce di Cristo sopra il male dell’abuso sessuale dei minori. E questo lo dico perché ho appena incontrato un gruppo di persone abusate quando erano bambini, che sono aiutate e accompagnate con particolare affetto qui a Filadelfia dall’arcivescovo, mons. Chaput, e ci è sembrato che fosse bene comunicarvi questo. Sono contento di avere l’opportunità di condividere questi momenti di riflessione pastorale con voi, nella gioiosa circostanza dell’Incontro Mondiale delle Famiglie. La famiglia, infatti, per la Chiesa, non è prima di tutto un motivo di preoccupazione, ma la felice conferma della benedizione di Dio al capolavoro della creazione. Ogni giorno, in tutti gli angoli del pianeta, la Chiesa ha motivo di rallegrarsi con il Signore per il dono di quel popolo numeroso di famiglie che, anche nelle prove più dure, onorano le promesse e custodiscono la fede! Ecco, direi che il primo slancio pastorale che questo impegnativo passaggio d’epoca ci chiede è proprio un passo deciso nella linea di questo riconoscimento. La stima e la gratitudine devono prevalere sul lamento, nonostante tutti gli ostacoli che abbiamo di fronte. La famiglia è il luogo fondamentale dell’alleanza della Chiesa con la creazione, con questa creazione di Dio, che Dio ha benedetto l’ultimo giorno con una famiglia. Senza la famiglia, anche la Chiesa non esisterebbe: non potrebbe essere quello che deve essere, ossia segno e strumento dell’unità del genere umano (cfr. Lumen gentium, 1). Naturalmente, la nostra comprensione, plasmata sull’integrazione della forma ecclesiale della fede e dell’esperienza coniugale della grazia, benedetta dal sacramento, non deve farci dimenticare la profonda trasformazione del quadro epocale, che incide sulla cultura sociale - e ormai purtroppo anche giuridica - dei legami familiari e che ci coinvolge tutti, credenti e non credenti. Il cristiano non è “immune” dai cambiamenti del suo tempo, e questo mondo concreto, con le sue molteplici problematiche e possibilità, è il luogo in cui

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dobbiamo vivere, credere e annunciare. Tempo fa, vivevamo in un contesto sociale in cui le affinità dell’istituzione civile e del sacramento cristiano erano corpose e condivise: erano tra loro connesse e si sostenevano a vicenda. Ora non è più così. Per descrivere la situazione attuale sceglierei due immagini tipiche delle nostre società: da una parte, le note botteghe, piccoli negozi dei nostri quartieri, e dall’altra i grandi supermercati o centri commerciali. Qualche tempo fa si potevano trovare in un medesimo negozio tutte le cose necessarie per la vita personale e familiare - certo esposte poveramente, con pochi prodotti e quindi con poca possibilità di scelta. Ma c’era un legame personale tra il negoziante e i clienti del vicinato. Si vendeva a credito, cioè c’era fiducia, c’era conoscenza, c’era vicinanza. Uno si fidava dell’altro. Trovava il coraggio di fidarsi. In molti luoghi lo si conosce come “la bottega del quartiere”. In questi ultimi decenni si sono sviluppati e ampliati negozi di altro tipo: i centri commerciali. Il mondo pare che sia diventato un grande supermercato, dove la cultura ha acquisito una dinamica concorrenziale. Non si vende più a credito, non ci si può fidare degli altri. Non c’è legame personale, relazione di vicinanza. La cultura attuale sembra stimolare le persone a entrare nella dinamica di non legarsi a niente e a nessuno. A non dare fiducia e non fidarsi. Perché la cosa più importante oggi sembrerebbe essere andare dietro all’ultima tendenza all’ultima attività. E questo anche a livello religioso. Ciò che è importante oggi sembra determinarlo il consumo. Consumare relazioni, consumare amicizie, consumare religioni, consumare, consumare... Non importa il costo né le conseguenze. Un consumo che non genera legami, un consumo che va al di là delle relazioni umane. I legami sono un mero “tramite” nella soddisfazione delle “mie necessità”. Il prossimo con il suo volto, con la sua storia, con i suoi affetti cessa di essere importante. E questo comportamento genera una cultura che scarta tutto ciò che “non serve” più o “non soddisfa” i gusti del consumatore. Abbiamo fatto della nostra società una vetrina multiculturale amplissima legata solamente ai gusti di alcuni “consumatori”, e, d’altro canto, sono tanti, tantissimi gli altri, quelli che «mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mt 15, 27). Questo produce una grande ferita, una ferita culturale molto grande. Oserei dire che una delle principali povertà o radici di tante situazioni contemporanee consiste nella solitudine radicale a cui si trovano costrette tante persone. Inseguendo un “mi piace”, inseguendo l’aumento del numero dei “followers” in una qualsiasi rete sociale, così le persone seguono - così seguiamo - la proposta offerta da questa società contemporanea. Una solitudine timorosa dell’impegno in una ricerca sfrenata di sentirsi riconosciuti. Dobbiamo condannare i nostri giovani per essere cresciuti in questa società? Dobbiamo scomunicarli perché vivono in questo mondo? Essi devono sentirsi dire dai loro pastori frasi come: “una volta era meglio”; “il mondo è un disastro e, se continua così, non sappiamo dove andremo a finire”? Questo mi suona come un tango argentino! No, non credo, non credo che sia questa la strada. Noi pastori, sulle orme del Pastore, siamo invitati a cercare, accompagnare, sollevare, curare le ferite del nostro tempo. Guardare la realtà con gli occhi di chi sa di essere chiamato al movimento, alla conversione pastorale. Il mondo oggi ci chiede con insistenza questa conversione pastorale. «È vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugi, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (Evangelii gaudium, 23). Il Vangelo non è un prodotto da consumare, non rientra in questa cultura del consumismo. Sbaglieremmo se interpretassimo che questa “cultura” del mondo attuale è solo disaffezione per il matrimonio e la famiglia in termini di puro e semplice egoismo. I giovani di questo tempo sono forse diventati irrimediabilmente tutti pavidi, deboli, inconsistenti? Non cadiamo nella trappola. Molti giovani, nel quadro di questa cultura dissuasiva, hanno interiorizzato una specie di inconscia soggezione, hanno paura, una paura inconsapevole, e non seguono gli slanci più belli e più alti, e anche più necessari. Ci sono tanti che rimandano il matrimonio in attesa delle condizioni di benessere ideali. Intanto la vita si consuma, senza sapore. Perché la sapienza dei veri sapori della vita matura con il tempo, come frutto del generoso investimento della passione, dell’intelligenza, dell’entusiasmo. Nel Congresso, alcuni giorni fa, dicevo che stiamo vivendo una cultura che spinge e convince i giovani a non formare una famiglia, alcuni per la mancanza di mezzi materiali per farlo, e altri perché hanno tanti mezzi che stanno molto comodi così, però questa è la tentazione, non formare una famiglia. Come pastori, noi vescovi siamo chiamati a raccogliere le forze e a rilanciare l’entusiasmo per la

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nascita di famiglie più pienamente rispondenti alla benedizione di Dio, secondo la loro vocazione! Dobbiamo investire le nostre energie non tanto nello spiegare e rispiegare i difetti dell’attuale condizione odierna e i pregi del cristianesimo, quanto piuttosto nell’invitare con franchezza i giovani ad essere audaci nella scelta del matrimonio e della famiglia. A Buenos Aires, quante donne si lamentavano: “Ho mio figlio che ha 30, 32, 34 anni e non si sposa, non so che fare”. “Signora, non gli stiri più le camicie!”. Bisogna entusiasmare i giovani perché corrano questo rischio, ma è un rischio di fecondità e di vita. Anche qui ci vuole una santa parresia dei vescovi. “Perché non ti sposi?” - “Sì, ho la fidanzata, però non sappiamo... sì, no,... mettiamo insieme i soldi per la festa, per questo...”. La santa parresia di accompagnarli e farli maturare fino all’impegno del matrimonio. Un cristianesimo che “si fa” poco nella realtà e “si spiega” infinitamente nella formazione, sta in una sproporzione pericolosa. Direi in un vero e proprio circolo vizioso. Il pastore deve mostrare che il Vangelo della famiglia è davvero “buona notizia” in un mondo dove l’attenzione verso sé stessi sembra regnare sovrana! Non si tratta di fantasia romantica: la tenacia nel formare una famiglia e nel portarla avanti trasforma il mondo e la storia. Sono le famiglie che trasformano il mondo e la storia. Il pastore annuncia serenamente e appassionatamente la Parola di Dio, incoraggia i credenti a puntare in alto. Egli renderà capaci i suoi fratelli e le sue sorelle dell’ascolto e della pratica della promessa di Dio, che allarga anche l’esperienza della maternità e della paternità nell’orizzonte di una nuova “familiarità” con Dio (cfr. Mc 3, 31-35). Il pastore vigila sul sogno, sulla vita, sulla crescita delle sue pecore. Questo “vigila” non nasce dal fare discorsi, ma dalla cura pastorale. È capace di vigilare solo chi sa stare “in mezzo”, chi non ha paura delle domande, chi non ha paura del contatto, dell’accompagnamento. Il pastore vigila prima di tutto con la preghiera, sostenendo la fede del suo popolo, trasmettendo fiducia nel Signore, nella sua presenza. Il pastore rimane sempre vigilante aiutando ad alzare lo sguardo quando compaiono lo scoraggiamento, la frustrazione o le cadute. Sarebbe bene chiederci se nel nostro ministero pastorale sappiamo “perdere” tempo con le famiglie. Sappiamo stare con loro, condividere le loro difficoltà e le loro gioie? Naturalmente il tratto fondamentale dello stile di vita del Vescovo è in primo luogo vivere lo spirito di questa gioiosa familiarità con Dio, e in secondo luogo diffonderne l’emozionante fecondità evangelica, è in primo luogo: pregare e annunciare il Vangelo (cfr. At 6, 4). E sempre mi ha attirato l’attenzione e mi ha colpito quando all’inizio, ai primi tempi della Chiesa, gli ellenisti si lamentarono perché le loro vedove e i loro orfani non erano ben assistiti. Chiaro, gli apostoli non ce la facevano, e quindi li trascuravano; si riunirono e si “inventarono” i diaconi, cioè lo Spirito Santo li ispirò di costituire i diaconi; e quando Pietro annuncia la decisione spiega: sceglieremo sette uomini così e così perché si occupino di questa esigenza. E a noi spettano due cose: la preghiera e la predicazione. Qual è il primo lavoro del vescovo? Pregare. Il secondo lavoro che va insieme a quello: predicare. Ci aiuta questa definizione dogmatica. Se mi sbaglio, il cardinal Müller ci aiuta perché definisce qual è il ruolo del vescovo. Il vescovo è costituito per pascere, è pastore, ma pascere anzitutto con la preghiera e con l’annuncio, poi viene tutto il resto. Se rimane tempo. Noi stessi, dunque, accettando umilmente l’apprendistato cristiano delle virtù familiari del popolo di Dio, assomiglieremo sempre di più a padri e madri (come Paolo, cfr. 1 Ts 2, 7.11), evitando di trasformarci in persone che hanno semplicemente imparato a vivere senza famiglia. Allontanarci dalla famiglia ci sta portando ad essere persone che imparano a vivere senza famiglia: brutto, molto brutto. Il nostro ideale, in effetti, non è quello di essere senza affetti. Il buon Pastore rinuncia ad affetti familiari propri per destinare tutte le sue forze, e la grazia della sua speciale chiamata, alla benedizione evangelica degli affetti dell’uomo e della donna che danno vita al disegno della creazione di Dio, incominciando da quelli perduti, abbandonati, feriti, devastati, avviliti e privati delle loro dignità. Questa consegna totale all’agape di Dio non è certo una vocazione estranea alla tenerezza e al voler bene! Ci basterà guardare a Gesù, per capire questo (cfr. Mt 19,12). La missione del buon Pastore nello stile di Dio - solo Dio può autorizzarlo, non la propria presunzione - imita in tutto e per tutto lo stile affettivo del Figlio nei confronti del Padre, che si riflette nella tenerezza della sua consegna: in favore, e per amore, degli uomini e delle donne della famiglia umana. Nell’ottica della fede, questo è un argomento prezioso. Il nostro ministero ha bisogno di sviluppare l’alleanza della Chiesa e della famiglia. Lo sottolineo: sviluppare l’alleanza della Chiesa e della famiglia. Altrimenti marcisce, e la famiglia

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umana si farà irrimediabilmente distante, per nostra colpa, dalla Lieta Notizia donata da Dio, e andrà al supermercato di moda a comprare il prodotto che in quel momento le piace di più. Se saremo capaci di questo rigore degli affetti di Dio, usando infinita pazienza, e senza risentimento, verso i solchi storti in cui dobbiamo seminarli - perché davvero dobbiamo tante volte seminare in solchi storti - anche una donna samaritana con cinque “non-mariti” si scoprirà capace di testimonianza. E per un giovane ricco che sente tristemente di doverci pensare ancora con calma, ci sarà un maturo pubblicano che si precipiterà giù dall’albero e si farà in quattro per i poveri ai quali - fino a quel momento - non aveva mai pensato. Fratelli, Dio ci conceda il dono di questa nuova prossimità tra la famiglia e la Chiesa. Ne ha bisogno la famiglia, ne ha bisogno la Chiesa, ne abbiamo bisogno noi pastori. La famiglia è il nostro alleato, la nostra finestra sul mondo; la famiglia è l’evidenza di una benedizione irrevocabile di Dio destinata a tutti i figli di questa storia difficile e bellissima della creazione che Dio ci ha chiesto di servire! Tante grazie! Pag 11 Reclusione non è espulsione Durante la visita al carcere l’appello per il reinserimento sociale dei detenuti Dopo l’incontro con i vescovi, il Pontefice ha raggiunto in elicottero il carcere Curran-Fromhold, dove nella mattinata di domenica 27 ha incontrato i detenuti. Pubblichiamo la traduzione italiana del discorso pronunciato in spagnolo. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Parlerò in spagnolo perché non so parlare inglese, ma lui [indica l’interprete] parla molto bene l’inglese e mi tradurrà. Grazie per l’accoglienza e per la possibilità di stare qui con voi a condividere questo momento. Un momento difficile, carico di tensioni. Un momento che so che è doloroso non solo per voi, ma per le vostre famiglie e per tutta la società. Perché una società, una famiglia che non sa soffrire i dolori dei suoi figli, che non li prende sul serio, che li tratta come cose “naturali” e li considera normali e prevedibili, è una società “condannata” a rimanere prigioniera di sé stessa, prigioniera di tutto ciò che la fa soffrire. Sono venuto qui come pastore, ma soprattutto come fratello, a condividere la vostra situazione e a farla anche mia; sono venuto perché possiamo pregare insieme e presentare al nostro Dio quello che ci fa male e anche quello che ci incoraggia, e ricevere da Lui la forza della Risurrezione. Ricordo il Vangelo in cui Gesù lava i piedi ai suoi discepoli nell’Ultima Cena. Un atteggiamento che i discepoli fecero fatica a capire, compreso san Pietro, che reagisce e gli dice: «Tu non mi laverai mai i piedi!» (Gv 13, 8). In quel tempo era abitudine quando uno arrivava in una casa lavargli i piedi. Ogni persona era sempre ricevuta così. Perché non c’erano strade asfaltate, erano strade polverose, con la ghiaia che si infilava nei sandali. Tutti percorrevano i sentieri che lasciavano impregnati di polvere, danneggiavano con qualche pietra o provocavano qualche ferita. Lì vediamo Gesù che lava i piedi, i nostri piedi, quelli dei suoi discepoli di ieri e di oggi. Tutti sappiamo che vivere è camminare, vivere è andare per diverse strade, diversi sentieri che lasciano il loro segno nella nostra vita. E per la fede sappiamo che Gesù ci cerca, vuole guarire le nostre ferite, curare i nostri piedi dalle piaghe di un cammino carico di solitudine, pulirci dalla polvere che si è attaccata per le strade che ciascuno ha percorso. Gesù non ci chiede dove siamo andati, non ci interroga su che cosa stavamo facendo. Al contrario, ci dice: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13, 8). Se non ti lavo i piedi, non potrò darti la vita che il Padre ha sempre sognato, la vita per cui ti ha creato. Egli viene incontro a noi per calzarci di nuovo con la dignità dei figli di Dio. Vuole aiutarci a ricomporre il nostro andare, riprendere il nostro cammino, recuperare la nostra speranza, restituirci alla fede e alla fiducia. Vuole che torniamo alle strade, alla vita, sentendo che abbiamo una missione; che questo tempo di reclusione non è mai stato e mai sarà sinonimo di espulsione. Vivere comporta “sporcarsi i piedi” per le strade polverose della vita e della storia. E tutti abbiamo bisogno di essere purificati, di essere lavati. Tutti, io per primo. Tutti siamo cercati da questo Maestro che ci vuole aiutare a riprendere il cammino. Il Signore ci cerca tutti per darci la sua mano. È penoso riscontrare a volte il generarsi di sistemi penitenziari che non cercano di curare le piaghe, guarire le ferite, generare nuove opportunità. È doloroso riscontrare come a volte si crede che solo alcuni hanno bisogno di essere lavati, purificati, non considerando

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che la loro stanchezza, il loro dolore, le loro ferite sono anche la stanchezza, il dolore e le ferite di tutta una società. Il Signore ce lo mostra chiaramente per mezzo di un gesto: lavare i piedi e andare a tavola. Una tavola alla quale Egli vuole che nessuno rimanga fuori. Una tavola che è stata apparecchiata per tutti e alla quale tutti siamo invitati. Questo momento nella vostra vita può avere un unico scopo: tendere la mano per riprendere il cammino, tendere la mano perché aiuti al reinserimento sociale. Un reinserimento di cui tutti facciamo parte, che tutti siamo chiamati a stimolare, accompagnare e realizzare. Un reinserimento cercato e desiderato da tutti: reclusi, famiglie, funzionari, politiche sociali ed educative. Un reinserimento che benefica ed eleva il livello morale di tutta la comunità e la società. E desidero incoraggiarvi ad avere questo atteggiamento tra di voi, con tutte le persone che in qualche modo fanno parte di questo Istituto. Siate artefici di opportunità, siate artefici di cammino, siate artefici di nuove vie. Tutti abbiamo qualcosa da cui essere puliti e purificati. Tutti. Che questa consapevolezza ci risvegli alla solidarietà tra tutti, a sostenerci e a cercare il meglio per gli altri. Guardiamo a Gesù che ci lava i piedi: Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6) che viene a farci uscire dall’inganno di credere che nulla possa cambiare! Gesù che ci aiuta a camminare per sentieri di vita e di pienezza. Che la forza del suo amore e della sua Risurrezione sia sempre via di vita nuova. E così come stiamo, ognuno al suo posto, seduti, in silenzio chiediamo al Signore che ci benedica. Il Signore vi benedica e vi protegga. Faccia brillare il suo volto su di voi e vi conceda la sua grazia. Vi mostri il suo volto e vi conceda la pace. Grazie! Al termine dell’incontro, riferendosi alla sedia di legno realizzata e donatagli dai detenuti, il Papa ha pronunciato le seguenti parole. La cattedra che avete fatto è molto bella, molto bella. Tante grazie per il vostro lavoro! Pag 12 Sette opere Nel messaggio per la trentunesima giornata mondiale della gioventù il Papa dà appuntamento a Cracovia. E invita a gesti concreti di misericordia corporale e spirituale «La misericordia non è “buonismo”, né mero sentimentalismo. Qui c’è la verifica dell’autenticità del nostro essere discepoli di Gesù, della nostra credibilità in quanto cristiani nel mondo di oggi». È quanto scrive Papa Francesco nel messaggio per la trentunesima Giornata mondiale della gioventù che si celebrerà a Cracovia. È l’ultimo dei tre messaggi papali dedicati alle beatitudini evangeliche, che stanno scandendo l’itinerario di preparazione al raduno internazionale giovanile del 2016. «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7) Carissimi giovani, siamo giunti all’ultima tappa del nostro pellegrinaggio a Cracovia, dove il prossimo anno, nel mese di luglio, celebreremo insieme la XXXI Giornata Mondiale della Gioventù. Nel nostro lungo e impegnativo cammino siamo guidati dalle parole di Gesù tratte dal «discorso della montagna». Abbiamo iniziato questo percorso nel 2014, meditando insieme sulla prima Beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli” (Mt 5, 3). Per il 2015 il tema è stato «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Nell’anno che ci sta davanti vogliamo lasciarci ispirare dalle parole: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7). 1. Il Giubileo della Misericordia Con questo tema la GMG di Cracovia 2016 si inserisce nell’Anno Santo della Misericordia, diventando un vero e proprio Giubileo dei Giovani a livello mondiale. Non è la prima volta che un raduno internazionale dei giovani coincide con un Anno giubilare. Infatti, fu durante l’Anno Santo della Redenzione (1983/1984) che san Giovanni Paolo II convocò per la prima volta i giovani di tutto il mondo per la Domenica delle Palme. Fu poi durante il Grande Giubileo del 2000 che più di due milioni di giovani di circa 165 paesi si riunirono a Roma per la XV Giornata Mondiale della Gioventù. Come avvenne in questi due casi precedenti, sono sicuro che il Giubileo dei Giovani a Cracovia sarà uno dei momenti forti di questo Anno Santo! Forse alcuni di voi si domandano: che cos’è questo Anno giubilare celebrato nella Chiesa? Il testo biblico di Levitico 25 ci aiuta a capire che

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cosa significava un “giubileo” per il popolo d’Israele: ogni cinquant’anni gli ebrei sentivano risuonare la tromba (jobel) che li convocava (jobil) a celebrare un anno santo, come tempo di riconciliazione (jobal) per tutti. In questo periodo si doveva recuperare una buona relazione con Dio, con il prossimo e con il creato, basata sulla gratuità. Perciò, tra le altre cose, si promuoveva il condono dei debiti, un particolare aiuto per chi era caduto in miseria, il miglioramento delle relazioni tra le persone e la liberazione degli schiavi. Gesù Cristo è venuto ad annunciare e realizzare il tempo perenne della grazia del Signore, portando ai poveri il lieto annuncio, la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi e la libertà agli oppressi (cfr. Lc 4, 18-19). In Lui, specialmente nel suo Mistero Pasquale, il senso più profondo del giubileo trova pieno compimento. Quando in nome di Cristo la Chiesa convoca un giubileo, siamo tutti invitati a vivere uno straordinario tempo di grazia. La Chiesa stessa è chiamata ad offrire in abbondanza segni della presenza e della vicinanza di Dio, a risvegliare nei cuori la capacità di guardare all’essenziale. In particolare, questo Anno Santo della Misericordia «è il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere strumento della misericordia del Padre» (Omelia nei Primi Vespri della Domenica della Divina Misericordia, 11 aprile 2015). 2. Misericordiosi come il Padre Il motto di questo Giubileo straordinario è: «Misericordiosi come il Padre» (cfr. Misericordiae Vultus, 13), e con esso si intona il tema della prossima GMG. Cerchiamo perciò di comprendere meglio che cosa significa la misericordia divina. L’Antico Testamento per parlare di misericordia usa vari termini, i più significativi dei quali sono hesed e rahamim. Il primo, applicato a Dio, esprime la sua instancabile fedeltà all’Alleanza con il suo popolo, che Egli ama e perdona in eterno. Il secondo, rahamim, può essere tradotto come “viscere”, richiamando in particolare il grembo materno e facendoci comprendere l’amore di Dio per il suo popolo come quello di una madre per il suo figlio. Così ce lo presenta il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49, 15). Un amore di questo tipo implica fare spazio all’altro dentro di sé, sentire, patire e gioire con il prossimo. Nel concetto biblico di misericordia è inclusa anche la concretezza di un amore che è fedele, gratuito e sa perdonare. In questo brano di Osea abbiamo un bellissimo esempio dell’amore di Dio, paragonato a quello di un padre nei confronti di suo figlio: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; [...] A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11, 1-4). Nonostante l’atteggiamento sbagliato del figlio, che meriterebbe una punizione, l’amore del padre è fedele e perdona sempre un figlio pentito. Come vediamo, nella misericordia è sempre incluso il perdono; essa «non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. [...] Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono» (Misericordiae Vultus, 6). Il Nuovo Testamento ci parla della divina misericordia (eleos) come sintesi dell’opera che Gesù è venuto a compiere nel mondo nel nome del Padre (cfr. Mt 9, 13). La misericordia del nostro Signore si manifesta soprattutto quando Egli si piega sulla miseria umana e dimostra la sua compassione verso chi ha bisogno di comprensione, guarigione e perdono. Tutto in Gesù parla di misericordia. Anzi, Egli stesso è la misericordia. Nel capitolo 15 del Vangelo di Luca possiamo trovare le tre parabole della misericordia: quella della pecora smarrita, quella della moneta perduta e quella conosciuta come la parabola “del figlio prodigo”. In queste tre parabole ci colpisce la gioia di Dio, la gioia che Egli prova quando ritrova un peccatore e lo perdona. Sì, la gioia di Dio è perdonare! Qui c’è la sintesi di tutto il Vangelo. «Ognuno di noi è quella pecora smarrita, quella moneta perduta; ognuno di noi è quel figlio che ha sciupato la propria libertà seguendo idoli falsi, miraggi di felicità, e ha perso tutto. Ma Dio non ci dimentica, il Padre non ci abbandona mai. È un padre paziente, ci aspetta sempre! Rispetta la nostra libertà, ma rimane sempre fedele. E quando ritorniamo a Lui, ci

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accoglie come figli, nella sua casa, perché non smette mai, neppure per un momento, di aspettarci, con amore. E il suo cuore è in festa per ogni figlio che ritorna. È in festa perché è gioia. Dio ha questa gioia, quando uno di noi peccatore va da Lui e chiede il suo perdono» (Angelus, 15 settembre 2013). La misericordia di Dio è molto concreta e tutti siamo chiamati a farne esperienza in prima persona. Quando avevo diciassette anni, un giorno in cui dovevo uscire con i miei amici, ho deciso di passare prima in chiesa. Lì ho trovato un sacerdote che mi ha ispirato una particolare fiducia e ho sentito il desiderio di aprire il mio cuore nella Confessione. Quell’incontro mi ha cambiato la vita! Ho scoperto che quando apriamo il cuore con umiltà e trasparenza, possiamo contemplare in modo molto concreto la misericordia di Dio. Ho avuto la certezza che nella persona di quel sacerdote Dio mi stava già aspettando, prima che io facessi il primo passo per andare in chiesa. Noi lo cerchiamo, ma Lui ci anticipa sempre, ci cerca da sempre, e ci trova per primo. Forse qualcuno di voi ha un peso nel suo cuore e pensa: Ho fatto questo, ho fatto quello... Non temete! Lui vi aspetta! Lui è padre: ci aspetta sempre! Com’è bello incontrare nel sacramento della Riconciliazione l’abbraccio misericordioso del Padre, scoprire il confessionale come il luogo della Misericordia, lasciarci toccare da questo amore misericordioso del Signore che ci perdona sempre! E tu, caro giovane, cara giovane, hai mai sentito posare su di te questo sguardo d’amore infinito, che al di là di tutti i tuoi peccati, limiti, fallimenti, continua a fidarsi di te e guardare la tua esistenza con speranza? Sei consapevole del valore che hai al cospetto di un Dio che per amore ti ha dato tutto? Come ci insegna san Paolo, «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8). Ma capiamo davvero la forza di queste parole? So quanto è cara a tutti voi la croce delle GMG — dono di san Giovanni Paolo II — che fin dal 1984 accompagna tutti i vostri Incontri mondiali. Quanti cambiamenti, quante conversioni vere e proprie sono scaturite nella vita di tanti giovani dall’incontro con questa croce spoglia! Forse vi siete posti la domanda: da dove viene questa forza straordinaria della croce? Ecco dunque la risposta: la croce è il segno più eloquente della misericordia di Dio! Essa ci attesta che la misura dell’amore di Dio nei confronti dell’umanità è amare senza misura! Nella croce possiamo toccare la misericordia di Dio e lasciarci toccare dalla sua stessa misericordia! Qui vorrei ricordare l’episodio dei due malfattori crocifissi accanto a Gesù: uno di essi è presuntuoso, non si riconosce peccatore, deride il Signore. L’altro invece riconosce di aver sbagliato, si rivolge al Signore e gli dice: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gesù lo guarda con misericordia infinita e gli risponde: «Oggi con me sarai nel paradiso» (cfr. Lc 23, 32.39-43). Con quale dei due ci identifichiamo? Con colui che è presuntuoso e non riconosce i propri sbagli? Oppure con l’altro, che si riconosce bisognoso della misericordia divina e la implora con tutto il cuore? Nel Signore, che ha dato la sua vita per noi sulla croce, troveremo sempre l’amore incondizionato che riconosce la nostra vita come un bene e ci dà sempre la possibilità di ricominciare. 3. La straordinaria gioia di essere strumenti della misericordia di Dio La Parola di Dio ci insegna che «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20, 35). Proprio per questo motivo la quinta Beatitudine dichiara felici i misericordiosi. Sappiamo che il Signore ci ha amati per primo. Ma saremo veramente beati, felici, soltanto se entreremo nella logica divina del dono, dell’amore gratuito, se scopriremo che Dio ci ha amati infinitamente per renderci capaci di amare come Lui, senza misura. Come dice san Giovanni: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. [...] In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4, 7-11). Dopo avervi spiegato in modo molto riassuntivo come il Signore esercita la sua misericordia nei nostri confronti, vorrei suggerirvi come concretamente possiamo essere strumenti di questa stessa misericordia verso il nostro prossimo. Mi viene in mente l’esempio del beato Piergiorgio Frassati. Lui diceva: «Gesù mi fa visita ogni mattina nella Comunione, io la restituisco nel misero modo che posso, visitando i poveri». Piergiorgio era un giovane che aveva capito che cosa vuol dire avere un cuore misericordioso, sensibile ai più bisognosi. A loro dava molto più che cose materiali; dava sé stesso, spendeva tempo, parole, capacità di ascolto. Serviva i poveri con grande discrezione,

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non mettendosi mai in mostra. Viveva realmente il Vangelo che dice: «Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto» (Mt 6, 3-4). Pensate che un giorno prima della sua morte, gravemente ammalato, dava disposizioni su come aiutare i suoi amici disagiati. Ai suoi funerali, i famigliari e gli amici rimasero sbalorditi per la presenza di tanti poveri a loro sconosciuti, che erano stati seguiti e aiutati dal giovane Piergiorgio. A me piace sempre associare le Beatitudini evangeliche al capitolo 25 di Matteo, quando Gesù ci presenta le opere di misericordia e dice che in base ad esse saremo giudicati. Vi invito perciò a riscoprire le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. Come vedete, la misericordia non è “buonismo”, né mero sentimentalismo. Qui c’è la verifica dell’autenticità del nostro essere discepoli di Gesù, della nostra credibilità in quanto cristiani nel mondo di oggi. A voi giovani, che siete molto concreti, vorrei proporre per i primi sette mesi del 2016 di scegliere un’opera di misericordia corporale e una spirituale da mettere in pratica ogni mese. Fatevi ispirare dalla preghiera di santa Faustina, umile apostola della Divina Misericordia nei nostri tempi: «Aiutami, o Signore, a far sì che [...] i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base di apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto [...] il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori ed ai gemiti del mio prossimo [...] la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono [...] le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni [...] i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza [...] il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo» (Diario, 163). Il messaggio della Divina Misericordia costituisce dunque un programma di vita molto concreto ed esigente perché implica delle opere. E una delle opere di misericordia più evidenti, ma forse tra le più difficili da mettere in pratica, è quella di perdonare chi ci ha offeso, chi ci ha fatto del male, coloro che consideriamo come nemici. «Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici» (Misericordiae Vultus, 9). Incontro tanti giovani che dicono di essere stanchi di questo mondo così diviso, in cui si scontrano sostenitori di fazioni diverse, ci sono tante guerre e c’è addirittura chi usa la propria religione come giustificazione per la violenza. Dobbiamo supplicare il Signore di donarci la grazia di essere misericordiosi con chi ci fa del male. Come Gesù che sulla croce pregava per coloro che lo avevano crocifisso: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). L’unica via per vincere il male è la misericordia. La giustizia è necessaria, eccome, ma da sola non basta. Giustizia e misericordia devono camminare insieme. Quanto vorrei che ci unissimo tutti in una preghiera corale, dal profondo dei nostri cuori, implorando che il Signore abbia misericordia di noi e del mondo intero! 4. Cracovia ci aspetta! Mancano pochi mesi al nostro incontro in Polonia. Cracovia, la città di san Giovanni Paolo II e di santa Faustina Kowalska, ci aspetta con le braccia e il cuore aperti. Credo che la Divina Provvidenza ci abbia guidato a celebrare il Giubileo dei Giovani proprio lì, dove hanno vissuto questi due grandi apostoli della misericordia dei nostri tempi. Giovanni Paolo II ha intuito che questo era il tempo della misericordia. All’inizio del suo pontificato ha scritto l’Enciclica Dives in misericordia. Nell’Anno Santo del 2000 ha canonizzato suor Faustina, istituendo anche la Festa della Divina Misericordia, nella seconda domenica di

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Pasqua. E nel 2002 ha inaugurato personalmente a Cracovia il Santuario di Gesù Misericordioso, affidando il mondo alla Divina Misericordia e auspicando che questo messaggio giungesse a tutti gli abitanti della terra e ne riempisse i cuori di speranza: «Bisogna accendere questa scintilla della grazia di Dio. Bisogna trasmettere al mondo questo fuoco della misericordia. Nella misericordia di Dio il mondo troverà la pace, e l’uomo la felicità!» (Omelia per la Dedicazione del Santuario della Divina Misericordia a Cracovia, 17 agosto 2002). Carissimi giovani, Gesù misericordioso, ritratto nell’effigie venerata dal popolo di Dio nel santuario di Cracovia a Lui dedicato, vi aspetta. Lui si fida di voi e conta su di voi! Ha tante cose importanti da dire a ciascuno e a ciascuna di voi... Non abbiate paura di fissare i suoi occhi colmi di amore infinito nei vostri confronti e lasciatevi raggiungere dal suo sguardo misericordioso, pronto a perdonare ogni vostro peccato, uno sguardo capace di cambiare la vostra vita e di guarire le ferite delle vostre anime, uno sguardo che sazia la sete profonda che dimora nei vostri giovani cuori: sete di amore, di pace, di gioia, e di felicità vera. Venite a Lui e non abbiate paura! Venite per dirgli dal profondo dei vostri cuori: “Gesù confido in Te!”. Lasciatevi toccare dalla sua misericordia senza limiti per diventare a vostra volta apostoli della misericordia mediante le opere, le parole e la preghiera, nel nostro mondo ferito dall’egoismo, dall’odio, e da tanta disperazione. Portate la fiamma dell’amore misericordioso di Cristo — di cui ha parlato san Giovanni Paolo II — negli ambienti della vostra vita quotidiana e sino ai confini della terra. In questa missione, io vi accompagno con i miei auguri e le mie preghiere, vi affido tutti a Maria Vergine, Madre della Misericordia, in quest’ultimo tratto del cammino di preparazione spirituale alla prossima GMG di Cracovia, e vi benedico tutti di cuore. Dal Vaticano, 15 agosto 2015 Solennità dell’Assunzione della B. V. Maria AVVENIRE Pag 1 Rivoluzionaria riconciliazione di Mimmo Muolo Il messaggio di Francesco Sono stati facili profeti quelli che, prima ancora della partenza, avevano presentato il viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti, concluso ieri, con l’appellativo di «storico». Ora che Francesco è tornato a Roma, dopo dieci giorni intensissimi di incontri con i potenti come con gli umili, di discorsi epocali, di gesti semplicemente commoventi e di partecipatissime celebrazioni liturgiche, quell’aggettivo va però compreso ed esplorato nelle dimensioni profonde del suo significato. A partire dalla chiave di lettura che più di ogni altra costituisce il filo unificante di una visita pensata, costruita e realizzata sotto il segno della riconciliazione. In questo decimo viaggio internazionale, infatti, Francesco ha dimostrato con i fatti in quanti modi si possa declinare quella parola in un mondo «assetato di pace». Ed è tanto più rimarchevole se si considera che il suo itinerario ha avuto come porta d’ingresso quella che per molto tempo è stata nell’immaginario collettivo soprattutto giovanile l’isola della rivoluzione per antonomasia; e come destinazione finale (sempre per restare a quello stesso immaginario) il Paese dell’imperialismo capitalista per definizione. Come dire, il diavolo e l’acqua santa (invertibili, in base ai punti di vista). Quanto di più antitetico si potesse immaginare fino a qualche anno fa. Il Papa latino-americano è riuscito nell’impresa di costruire ponti laddove fino all’altro ieri sussistevano muri di odio e incomunicabilità. Dunque riconciliazione tra gli Stati, i governi e i popoli, in primo luogo. Con la bella notizia – giunta proprio mentre il viaggio era in corso – della pace tra le Farc, formazioni guerrigliere della Colombia, e il governo di Bogotà (anche in questo caso con una cruciale opera di mediazione riconducibile anche al Papa e alla Chiesa nelle sue diverse articolazioni), a rafforzare la sensazione di un operato capace di 'reinventare' la stessa diplomazia, mettendola a servizio dell’incontro tra gli uomini, più che della difesa dei propri interessi. Ma questa visita resterà nella storia anche perché Francesco è stato capace di estendere l’appello alla riconciliazione oltre l’ambito delle relazioni internazionali. A Cuba ha predicato la riconciliazione tra le esigenze dei governanti e quelle dei governati («non si servono le ideologie, ma le persone»). A Washington ha coniugato la libertà – marchio di fabbrica del gigante statunitense – con la giustizia, soprattutto sociale. E non è un caso che subito dopo aver parlato al Congresso (primo

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Papa in assoluto), abbia incontrato i senza tetto, sottolineando, nella capitale della nazione più ricca della Terra, il diritto di ogni uomo ad avere una casa. In tutti questi momenti, compreso il colloquio con Obama alla Casa Bianca, ha di fatto promosso anche e soprattutto una riconciliazione tra la politica e i cittadini. E nel Palazzo di Vetro dell’Onu, ha quindi completato il discorso sottolineando quanto sia necessaria oggi la riconciliazione nella grande famiglia dei popoli della Terra e tra questi e l’ambiente naturale, contro «l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi». Infine con i suoi gesti di paterna tenerezza (gli ultimi in ordine di tempo, ma non i meno importanti, l’incontro con i detenuti, il nuovo mea culpa per i preti pedofili e la richiesta all’autista di fermare l’auto per andare ad abbracciare un bimbo disabile, proprio ai piedi dell’aereo che doveva riportarlo a Roma) Francesco – continuando e approfondendo percorsi di dialogo già sperimentati dai suoi predecessori – si è fatto promotore anche di una riconciliazione tra la Chiesa e la società, come attestano le grandi folle che hanno seguito le diverse tappe del viaggio, persino negli Usa, nazione tradizionalmente prudente nell’esternare il proprio gradimento verso i Papi. Ed è proprio in questa popolarità crescente, non certo fine a se stessa, che viene a definirsi un ulteriore motivo per avvalorare l’aggettivo attribuito al viaggio fin dal suo annuncio. Storico anche perché ha confermato la cifra di un Pontificato capace di parlare a tutti, anche quando si tratta di temi 'scomodi' per una certa parte dell’opinione pubblica (la condanna della pena di morte, ad esempio, o la difesa della la famiglia e della vita umana in ogni suo fase e condizione). Papa Bergoglio sa bene che nelle società multietniche del Terzo Millennio nulla si può dare per scontato, tanto meno l’annuncio della Buona Novella. Per questo la regola aurea e troppo dimenticata «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te» risuona sulle sue labbra con una freschezza e una novità dirompenti per il mondo. Perché, alla fine di una visita cominciata nell’isola della rivoluzione, ciò che resterà di questo viaggio è aver additato al mondo l’unica autentica rivoluzione in grado di cambiare la storia: quella della riconciliazione. LA STAMPA Scomunicato stampa di Massimo Gramellini Se l'uomo più popolare del mondo delegittima in pubblico uno degli uomini meno popolari d'Italia significa che sono saltate tutte le regole del gioco e forse anche della misericordia. Dai tempi di Wojtyla ci siamo abituati all'idea che il Papa tenga conferenze-stampa come un allenatore di calcio. Ma gli allenatori non parlano mai dei singoli, mentre Bergoglio ha preso apertamente le distanze dal suo dirimpettaio d'Oltretevere, il sindaco Marino. Sull'aereo che lo riportava a Roma, stimolato da una domanda forse non casuale, il Papa ha tenuto a precisare di non avere invitato il sindaco in America e di essersi addirittura informato con gli organizzatori, finendo poi con l'attribuire la sua presenza al fatto che «Marino si professa cattolico». (Si noti la sfumatura gesuitica: non che «è cattolico», ma che «si professa» tale). Peccato che i fatti, come spesso capita nel mondo della comunicazione, siano un po' diversi. Marino non ha mai detto di essere stato invitato dal Papa. Anzi, fin dall'inizio dell' estate, tutti sapevano che l'invito gli era stato recapitato dal sindaco di Filadelfia, il quale si è accollato le spese del viaggio. Ma a un certo punto, complice la passione eccessivamente sbandierata da Marino per questo Pontefice, la realtà ha assunto la forma di una panzana molto più intrigante e il sindaco è stato trasformato in un «Papa boy» al seguito. Bergoglio è sceso ancora una volta dalla cattedra, stavolta per smentire una non notizia partorita dal retrobottega della politica. Ma così facendo ci è entrato anche lui. E un Papa nel retrobottega non è mai un bel vedere. IL FOGLIO Pag 1 Il pugno del Papa: “Anche la libertà di coscienza è un diritto umano” di Matteo Matzuzzi Dopo il viaggio in America. Meno battaglie, più umiltà e mitezza New York, dal nostro inviato. Uno degli obiettivi del viaggio di Francesco negli Stati Uniti è stato raggiunto: non farsi catalogare nelle rigide categorie che dominano la politica americana, la destra che sperava di sentire qualche parola in più contro l'aborto e l'ala

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liberal che non ha troppo gradito la visita alle Piccole sorelle dei poveri, a Washington, da anni in lotta contro l'Amministrazione Obama, rea d'aver imposto anche alle istituzioni religiose di offrire ai dipendenti l'accesso gratuito ai contraccettivi e ai servizi abortivi. Sul punto, Francesco è tornato anche ieri, con parole chiare, durante il viaggio di ritorno a Roma: "L'obiezione di coscienza è un diritto umano, e se a una persona viene negata l'obiezione di coscienza, le si nega un diritto. In ogni struttura giudiziaria - ha aggiunto - deve entrare l'obiezione di coscienza". Il Papa non ha citato Kim Davis, l'inserviente del Kentucky incriminata per non aver voluto apporre la propria firma sui certificati di matrimonio per coppie omosessuali, ma il riferimento risulta evidente quando ha sottolineato che "se un funzionario di governo è una persona umana, essa ha un diritto". Una posizione che conferma il senso della denuncia di Francesco rispetto alle "diverse forme di tirannia moderna" che "cercano di sopprimere la libertà religiosa o cercano di ridurla a una sotto -cultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica", passo centrale dell' intervento sulla libertà religiosa all'Indipendence Mall di Philadelphia. Il terreno più sdrucciolevole per Francesco era il Congresso, dove il rischio di farsi ingabbiare nelle trame della dialettica politica era alto. Ciò non è accaduto, anche perché il Papa ha scelto di rivolgersi direttamente al popolo "della terra dei liberi", leggendo un discorso che - tra le citazioni dei simboli Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton - è stato definito "mild" (conciliante, mite) dagli stessi osservatori americani che seguivano il Pontefice parlare in Campidoglio. Nessun guanto di sfida gettato ai piedi dei rappresentanti e dei senatori, ma neppure l'occultamento sotto il tappeto delle questioni decisive che da anni vedono impegnata la chiesa americana. Francesco ha riconosciuto l'esistenza dei problemi causati dall'imperare della secolarizzazione - "è spesso ostile il campo nel quale seminate", aveva detto ai vescovi riuniti nella cattedrale di San Matteo a Washington - dando atto delle risposte individuate e attuate dall' episcopato locale in un trentennio di battaglia per la conquista e la difesa di uno spazio pubblico ove esprimersi. Ma ha chiesto, allo stesso tempo, di fare un passo ulteriore, di aggiornare i propri piani d'azione. Non a caso, salutando i vescovi della Pennsylvania, il Pontefice ha domandato se sia il caso di condannare i nostri giovani per essere cresciuti in questa società: Bisogna che ascoltino dai loro pastori frasi come Una volta era meglio'; il mondo è un disastro e, se continua così, non sappiamo dove andremo a finire'? No, non credo che sia questa la strada. La strada, invece, è quella indicata nel discorso davanti ai presuli locali, ai quali ha chiesto di convertirsi all'umiltà e alla mitezza, ammonendoli sul rischio di fare della croce un vessillo di lotte mondane. Non si può chiudersi nel recinto delle paure a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze. Il metodo indicato è nuovo, ed è quello del dialogo, lasciando perdere la predicazione di complesse dottrine e tenendo sempre a mente che il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del pastore. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA NUOVA Pag 1 Volkswagen e l’industria dell’Europa di Francesco Morosini Il Volkswagen-gate è made in Germany; ma riguarda tutto il mondo dell’auto europea. Infatti, i suoi effetti minacciano di riverberarsi, oltreché sulla reputazione di Volkswagen (e in economia un danno reputazionale è sia finanziario che commerciale), pure sulla credibilità di das auto come idea/simbolo del modo tedesco di fare industria; e di qui a tutta l’industria del settore. Ovvio che ciò preoccupi molti in Europa: dipende dal fatto che di recente la geoeconomia manifatturiera si è molto denazionalizzata, intrecciandosi a tal punto in filiere produttive comuni (per stare al “caso auto”, ad esempio, l’export tedesco finale d’auto incorpora beni intermedi prodotti in Francia e Italia) che ogni evento che vi capiti – positivo o negativo come il Volkswagen-gate – ha ricadute ovunque. Conseguentemente, esso minaccia scossoni pericolosi, in particolare, per quanto ci riguarda, sul Nord della Penisola, dove la componentistica auto, parte vitale di un’unica piattaforma continentale tecno-produttiva integrata di quest’ultima, opera in

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un’area geoeconomica che dal Piemonte, passando per il Bresciano, raggiunge al Nordest. Che fare, dunque? Per il passato, a scandalo aperto, poco; tuttavia, la vicenda insegna per il futuro. Certo, è incredibile come la casa di Wolfsburg abbia perpetrato la truffa del diesel; si tratta di un’incredibile leggerezza, specie perché essa è stata rivolta contro gli Usa; ovvero proprio dove il mentire al mercato è sanzionato perché percepito come eversivo del “modello Wall Street”. Qui, però, il disastro è fatto; il punto, allora, sarà quello di valutarne i danni. Non solo; è anche necessario che i governi si pongano chiaro in mente di evitare un “caso acciaieria di Taranto” su scala europea. In altri termini, la presenza della manifattura, di cui l’auto è componente strategica, va garantita nel Vecchio continente. Il motivo è semplice: la soft economy (solo servizi) senza l’hard economy (la fabbrica) è solo una scatola vuota. Cosa che deve interessare molto l’Italia, che dopo la Germania ha la più rilevante industria manifatturiera del Vecchio continente; e che, quindi, qui si gioca molto del suo futuro. Inoltre, bisognerebbe evitare che, sull’onda dello sdegno per il diesel-gate, l’Europa uccidesse la propria industria dell’auto con regolazioni incompatibili con la sua permanenza economica nel Vecchio continente; così regalandola agli Usa (indifferenti al diesel) o all’Asia. L’ipotesi è estrema; ma non vanno commessi errori poi difficili da rimediare. Guai dimenticare, al riguardo, che anche le normative ambientali sono accordi tra politica e lobby d’interesse (materiali e ideali); in altri termini, sono fatte per distribuire risorse: nulla di male, se il gioco è chiaro ed esplicito. Insomma, la battaglia ambientale è parte della competizione industriale: tra paesi produttori, loro aziende e portatori d’altri interessi; ma pure, all’interno della piattaforma auto, tra industria base e componentistica: in fondo, i dispositivi antinquinamento avvantaggiano quest’ultima. L’importante è che la politica sappia gli effetti sul mercato di ciò che fa. Purtroppo non è sempre così. Difatti, le norme sui motori diesel e sulle loro emissioni sono figlie della volontà politica europea di spingere l’industria automobilistica a rincorrere il mito del “motore senza benzina”, non a caso assente o marginale presso gli altri grandi player del settore: gli Usa e il Giappone. In altri termini, il “caso Volkswagen”, al di là della truffa (e delle conseguenze che molti in Europa e in Italia pagheranno), va catalogato più tra i fallimenti del pubblico che tra quelli del mercato. Almeno, però, la vicenda può aggiungere qualche riflessione relativamente al dibattito sull’euro. Più precisamente, a ridiscutere l’idea che il Belpaese soffrisse economicamente per l’eccessiva competitività tedesca consentita dall’euro. Ma ora capiamo che se si ferma Berlino ci fermiamo pure noi. Infatti, se è vero che c’è più lavoro italiano (e opera d’ingegno) in un’auto tedesca che in una 500 Fiat fatta in Polonia (non Eurozona), allora nulla assicura che svalutare incrementerebbe le nostre esportazioni; di certo non quelle “contenute” nell’export tedesco. Così il pasticcio di Volkswagen ci fa capire che l’Eurozona, pur piena di difetti, regge su un’industria molto più integrata di quanto si creda. Una piccola lezione, che però consola poco rispetto ai guai che il “caso diesel” minaccia di portarci. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Trenta milioni di turisti, boom di alloggi privati di Enrico Tantucci e Alberto Vitucci Presentato l’annuario 2014 del turismo: straniero l’86% dei visitatori, americani in testa. Grande offerta culturale, ma numeri bassi. L’invasione non si ferma, addio alla bassa stagione Venezia. Il turismo a Venezia continua a crescere, senza che il Comune abbia al momento “ricette” pronte per regolamentarlo. Anche nel 2014 gli arrivi sono aumentati dello 0,7 per cento (con circa 4 milioni e 300 mila persone calate in laguna) e le presenze del 2,1 per cento (quasi 10 milioni), a cui vanno aggiunti i circa 20 milioni di turisti «mordi e fuggi». Lo confermano anche i dati dell’Annuario del turismo 2014, presentato ieri a Ca’ Farsetti - siamo al quarto anno dell’iniziativa - dall’assessore al Turismo Paola Mar. Uno “spaccato” comunque interessante di dati che riguardano il settore, anche se mancano - perché sfuggono a classificazioni precise - proprio i

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“giornalieri”, il vero problema rispetto alla gestione dei flussi. Il problema è serio, ma per ora, siamo, come sempre, all’enunciazione dei principi generali. «I numeri dell’Annuario - ha detto l’assessore Mar - ci fanno capire come sia sempre più necessario un turismo sostenibile, che punti alla destagionalizzazione e alla distribuzione dei flussi non solo a Venezia, ma su tutto il territorio della Città metropolitana, valorizzando anche l’offerta culturale, per alzare la qualità del turismo». Come fare? «Ci stiamo ancora pensando - ha detto ieri - fermo restando che ci sono problemi normativi per l’eventuale ulteriore tassazione del turismo e per misure di controllo dei flussi. Stiamo valutando e incontrando tutti i soggetti portatori di idee in proposito, in attesa di decidere come intervenire». Boom degli affitti turistici. Intanto a organizzarsi per “sfruttare” a proprio vantaggio l’onda turistica sono anche i veneziani residui e proprietari di alloggi. Proprio i dati dell’Annuario ci dicono ad esempio che il 70 per cento dell’ospitalità extralberghiera è ormai in appartamenti privati, che da soli coprono quasi il 35 per cento della domanda. I famosi bed & breakfast si fermano ormai al 12 per cento circa di quota di mercato e gli affittacamere sono solo qualche punto più in su, in linea con campeggi, ostelli e case religiose di ospitalità. I posti-letto offerti sono quasi 18 mila. Sempre più posti-letto. In una città che si spopola di residenti, anche i posti-letto negli alberghi sono comunque in crescita costante. Sono ormai oltre 29 mila su tutto il territorio comunale, ma mentre in terraferma sono in diminuzione e al Lido sostanzialmente stabili, a Venezia sono aumentati del 2,3 per cento nel 2014, superando quota 17.200. Con quelli extralberghieri, anch’essi in crescita del 2 per cento nell’ultimo anno, siamo ormai a un’offerta di poco meno di 30 mila posti-letto per turisti in centro storico. Boom dei biglietti turistici. Anche la crescita dei ticket legati al trasporto confermano la lievitazione dei giornalieri. Nel 2014 infatti l’Actv ha venduto quasi il 5 per cento di biglietti turistici in più (oltre 7 milioni e 200 mila), con un boom di quelli da 24 ore con transfer dall’aeroporto che sono raddoppiati. Ma aumentati di oltre il 50 per cento anche quelli da 48 ore, sempre con transfer da e per l’aeroporto. Un aumento legato anche all’abolizione dall’agosto dello scorso anno dei biglietti da 12 e da 36 ore. Ma anche i pass della Ztl per i bus turistici hanno segnato nel 2014 un deciso aumento con una crescita di quasi il 10 per cento dei rilasci mensili. Crescono anche di circa il 2 per cento le vendite mensili del Terminal di Fusina. In controtendenza solo Alilaguna - i cui mezzi acquei fanno la spola tra aeroporto e centro storico per i turisti - che nell’ultimo anno ha visto una diminuzione delle vendite di quasi il 6 per cento. I turisti più assidui. Circa l’86 per cento dei turisti che arrivano e soggiornano a Venezia nel 2014 è stato composto da stranieri, contro il 14 per cento di italiani. I più assidui restano largamente gli americani (13,5 per cento di arrivi e 12 per cento di presenze), seguiti dai francesi che però sono più «stanziali» (la quota è infatti del 7,5 per cento di arrivi e del 9,7 per cento di presenze), così come gli inglesi (7,1 per cento arrivi e 8,3 per cento presenze) e tedeschi (5,4 per cento arrivi, 6,6 per cento presenze). I primi degli asiatici sono i cinesi (4,8 e 3,4 per cento), seguiti dai giapponesi (4,2 e 2,9 per cento). I francesi si fermano mediamente per circa tre giorni, con la migliore permanenza media tra tutti i turisti. Tra i turisti «emergenti» ci sono i coreani del sud, in forte crescita. Venezia. Un’offerta culturale abbondantissima, ma per un pubblico di turisti ancora sottodimensionato. I numeri riferiti alla Cultura nell’Annuario del turismo 2014 raccontano, ancora una volta, questa verità. L’ultimo anno è stato buono per il sistema della Fondazione Musei Civici, con una crescita del 3,6 per cento dei suoi visitatori, per un totale di circa 2 milioni e 100 mila presenze. Ma il dato non è uniforme. Regge bene Palazzo Ducale - che da solo fa quasi i due terzi di tutte le presenze museali dei Civici - cresciuto di poco meno del 3 per cento, e anche il Correr, con oltre il 9 per cento di visitatori in più, grazie anche al biglietto abbinato. Ma, ad esempio, Ca’ Rezzonico ha perso nell’ultimo anno quasi il 5 per cento di visitatori e il Museo del Vetro - pur chiuso quindici giorni prima di fine anno per i lavori di restyling - ha comunque perso nel 2014 circa il 15 per cento dei suoi visitatori. E anche Ca’ Pesaro - nonostante il riallestimento delle collezioni - avrebbe perso circa un uno per cento nel 2014, considerando il mese di chiusura per lavori dell’anno precedente. Lo stesso Museo di Storia Naturale, dopo la forte crescita dal 2012 per il riallestimento, nell’ultimo anno ha perso il 3 per cento delle presenze. Per il rinnovato Museo del Costume di Palazzo Mocenigo - vista la chiusura per lavori per tutto il 2013 - il confronto va fatto con l’anno precedente, e la crescita sarebbe

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sensibile, vicina il 15 per cento. Il 2014 è andato male per i Musei statali veneziani, che hanno perso oltre il 5 per cento dei loro visitatori, con le Gallerie dell’Accademia che ne hanno persi addirittura oltre il 16 per cento. Buone performances solo da Palazzo Grimani e dal Museo d’Arte Orientale. In lieve crescita (+1,5 per cento) il Museo del Tesoro di San Marco, ma nuovo flop per il circuito delle chiese a pagamento di Chorus, che ha perso un altro 10 per cento di visitatori nel 2013, scendendo sotto quota 200 mila. Un peccato, perché il circuito delle chiese dovrebbe servire a “spalmare” le presenze turistiche sull’intera città. In crescita costante, invece, il pubblico di Biennale e Collezione Guggenheim: due certezze. Venezia. Un assalto senza fine. E anche la «bassa stagione» non esiste più. Venezia, fine settembre, cronache di un giorno qualunque. La Mostra è finita, la Regata e il Campiello archiviati. Ma gli arrivi continuano, a valanga. Vaporetti stracarichi, una marea umana che percorre la Strada Nuova e le Mercerie. Taxi e gondole dappertutto, una flotta incontrollata di Gran Turismo che «assedia» la Riva Schiavoni. Il sindaco Brugnaro è al suo posto da soli cento giorni. Forse ha bisogno di tempo. Ma non si vede nemmeno un accenno all’inversione di tendenza che i veneziani esasperati – e non solo loro – chiedono per sopravvivere. La ricchezza del turismo si sta trasformando in un boomerang. Le masse dei visitatori giornalieri stanno trasformando in modo irreversibile una città che non ha difese. «Molti clienti mi dicono che questa non è la Venezia che loro cercavano, che qui non verranno più», allarga le braccia sconsolato un ristoratore «storico». Come per gli artigiani e le botteghe storiche, anche chi vive con il turismo comincia a malsopportare un assalto che tutto travolge. I taxi corrono ovunque, il moto ondoso non interessa più a nessuno, i vaporetti sono stracarichi di turisti. Nessuno parla più di diversificare i flussi, né di ridurre il numero delle persone che arrivano a Venezia incoraggiati dalle offerte speciali delle Ferrovie. Card, incentivi e disincentivi, Ztl, tariffe diversificate e obbligo di prenotazione. Tutto nei cassetti, compresa la pianificazione. La realtà, che supera la fantasia, è un corteo infinito di gente che arriva la mattina e se ne va dopo poche ore. Non porta ricchezza ma disagi, aumenta i costi per i residenti. Risultato è che si moltiplicano sedie e tavolini, plateatici anche sotto le chiese e sulle barche, bar, gelaterie e negozi di oggetti made in China, spariscono i locali storici e gli artigiani. Si moltiplicano affittacamere, appartamenti a uso turistico e Bed and breakfast, se ne vanno i residenti. Chiudono negozi e artigiani storici, abbigliamento e ferramenta. L’invasione lascia segni evidenti sul terreno. Rifiuti ed escrementi in calle, cartacce e bottigliette. Trenta milioni di persone che non trovano informazioni e servizi. A questi si aggiunge un turismo «nostrano» che sta prendendo piede tra il disgusto dei residenti. Gruppi organizzati di scapoli e sposi, con magliette, per il «giro delle osterie». Gente spesso ubriaca che percorre in gruppi urlanti le strade del centro. «Erano sabato pomeriggio sotto casa mia», denuncia una signora di Cannaregio, «nessuno è intervenuto». Se i controlli per i venditori abusivi sono stati intensificati, non c’è traccia di azioni pianificate e continue sugli abusi di altro tipo. Occupazione di suolo pubblico, rumore. Per i residenti solo svantaggi da un turismo che sta superando ogni record e alla città non porta quasi nulla. Senza contare i danni da traffico e da «consumo di suolo», percorso ogni giorno da una quantità di turisti che è più del doppio dei residenti. Delle pietre e delle rive, distrutte in pochi anni dalle onde di superficie di vaporetti, taxi e motoscafi e dalla spinta subacquea delle grandi navi che continuano a passare davanti a San Marco. Italia Nostra e il Fai denunciano, i comitati di cittadini si arrabbiano. Ma non succede nulla. Forse perché i veneziani sono rimasti pochi. La neosindaca di Barcellona Ada Colau appena eletta ha promesso: «Barcelona non diventerà come Venezia, dobbiamo fermare i turisti e il degrado». Possiamo cominciare anche noi. Pag 21 I Gesuiti: “Mortificati, ci scusiamo” di Nadia De Lazzari Accesso vietato alla chiesa per un matrimonio. Direttore sconfessato. Il sindaco: “Verifiche sulle autorizzazioni” Venezia. Interviene anche il sindaco Luigi Brugnaro sulla vicenda dei fedeli e dei visitatori cacciati da Andrea Dioguardi, direttore del complesso dei Gesuiti (pensionato universitario e chiesa), per preparare un matrimonio vip. Il primo cittadino dichiara: «Porte sempre aperte e sempre libere nelle chiese come dice il Patriarcato. Dobbiamo

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essere a servizio delle persone che vogliono pregare. Nessuno può permettersi di allontanare i fedeli dalle chiese nemmeno per un matrimonio». Gli addobbi floreali hanno occupato il suolo pubblico, le decorazioni erano nelle Fondamenta Nuove e sul pozzo del campo dei Gesuiti. Il sindaco aggiunge: «Andremo a fondo se hanno richiesto l’autorizzazione di occupazione di suolo pubblico, pur temporanea». Nella chiesa dei Gesuiti – si trova alle Fondamenta Nuove – la cerimonia per gli sposi libanesi residenti a Parigi è stata celebrata con rito greco cattolico. Il sindaco va oltre: «Dobbiamo fare in modo che la libertà religiosa non sia invadenza bensì tolleranza nella consapevolezza di una città da sempre cosmopolita e multireligiosa». Nel frattempo gli “Amici dell’Arte” di Vicenza allontanati dalla chiesa si sono mobilitati. La guida, il professor Giuliano Menato, dice: «Abbiamo cercato di entrare ma il direttore ci ha buttato fuori con strafottenza minacciando di chiamare i carabinieri. Informeremo papa Francesco». Da Venezia a Roma. Il padre gesuita Eugenio Costa della Curia generalizia, a lungo direttore del Centro teologico di Torino, consegna queste parole: «Sono mortificato e mi scuso. Nella chiesa veneziana dei Gesuiti c’è una responsabilità in più, un valore aggiunto. Il Papa appartiene a questo ordine. I suoi segni, anche di questo viaggio, sono di un uomo normale e la normalità è un pregio come l’accoglienza è un servizio». Pag 27 Grande festa oggi a Mestre nel segno di San Michele di Mitia Chiarin e Laura Fiorillo La città celebra oggi il patrono. I “quattro angeli” di Aricò tornano da oggi sull’altare Mestre oggi festeggia il suo patrono, San Michele, il santo che simboleggia più di altri la vittoria del bene sul male, e che è l’emblema della speranza di una vita migliore per tutta la collettività. La giornata oggi si preannuncia intensa: alle 10.30 in piazza Ferretto l’alzabandiera con un picchetto d’armi della polizia di Stato che festeggia proprio San Michele come suo patrono. Due poliziotti solleveranno la bandiera nazionale sulle note dell’inno di Mameli. E per l’occasione arriverà anche il sindaco Luigi Brugnaro. Alle 11 in Questura a Santa Chiara, il questore Angelo Sanna parteciperà con agenti e funzionari di polizia alla messa officiata dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, accompagnato anche dal cappellano della polizia, don Giuseppe Costantini. Alle 15, tra via Poerio e piazza Ferretto la polizia porta cinque stand per mostrare come lavora: ci saranno gli agenti della Questura, della polizia stradale, della polizia postale, quella di frontiera, il Reparto volo, gli artificieri e la polizia scientifica, fondamentale in tante indagini. In strada, tra la gente, oltre ai poliziotti ci saranno i loro mezzi: motociclette, la volante di servizio, anche una Fiat 500 storica. E poi il bus scuola del Reparto Mobile di Padova. Alle 18.30 il Duomo di San Lorenzo ospiterà invece la grande messa solenne per la festa del Patrono. A presiederla, come tradizione vuole, ci sarà il patriarca Moraglia e con lui ci saranno tutti i sacerdoti della città e le autorità cittadine, in primis il prefetto mentre c’è incertezza sulla presenza del sindaco. È questo un momento atteso: il Patriarca veneziano tradizionalmente lancia un messaggio alla città di terraferma che da anni insegue il rilancio e che vive le tante difficoltà di una grande città: la crisi economica, la difficoltà per molti di trovare un lavoro; la convivenza con i migranti e i cittadini che arrivano da paesi lontani. Domani, la festa prosegue in Duomo alle 21.15 con il tradizionale concerto di San Michele, offerto dal teatro La Fenice. La giornata di festa odierna per il Patrono si arricchisce con le iniziative della manifestazione “Le città in festa”, e di “Dritti sui diritti”. Dalle 10 alle 12 in piazzetta Pellicani è previsto lo spettacolo “La signorina Linsalata” mentre alle 17 al centro Candiani si discute di baby gang. Annullata, invece, per problemi logistici la mostra sulla biblioteca ambulante “Il mondo che vorrei” alla Casa del volontariato in via Brenta vecchia 41 a Mestre. L’appuntamento in Duomo è fissato per le 18.30. A quell’ora in chiesa farà il suo ingresso, accompagnato dai sacerdoti della città, il patriarca Francesco Moraglia che presiede la solenne celebrazione eucaristica per la festa di San Michele. Domani, invece, alle 21.15 il Duomo attende l’orchestra e il Coro femminile del teatro La Fenice che propone il concerto sotto la direzione del maestro Claudio Scimone: in programma lo “Stabat Mater” di Pergolesi e il “Gloria RV589” di Vivaldi. L’ingresso, gratuito, avviene su invito.

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Chissà in quanti ricordano i quattro angeli di vetro con la tromba, scultura in vetro del maestro Gianni Aricò, che per qualche anno soltanto ha impreziosito l'altare maggiore del duomo di San Lorenzo. Poco importa, perché da oggi gli angeli torneranno al suo posto, grazie all'associazione “Amici delle Arti” di Mestre e Terraferma che ha voluto finanziarne il recupero. Il gruppo plastico dei “Quattro angeli che suonano la tromba della Resurrezione” è un'opera in vetro commissionata nel 1981 da monsignor Valentino Vecchi all'amico Gianni Aricò. Una sinuosa composizione di quattro angeli stilizzati intenti a suonare lunghe trombe dorate, che doveva essere collocata nella zona absidale della chiesa, a sinistra dell'altare maggiore. A pochi anni dalla sua installazione, purtroppo, l'opera subì un grave danneggiamento a causa all'eccessivo calore prodotto dalla lampada per la retroilluminazione. A quel punto il gruppo fu trasferito nel magazzino e lì rimase dimenticato per circa trent'anni, finché l'associazione “Amici delle Arti” conservandone intatta la memoria, decise di finanziarne il restauro e di chiedere al maestro Aricò di supervisionare i lavori. Il recupero (a cura di Roberto Bon) è ufficialmente terminato ieri sera con l'allestimento sull'altare. Giusto in tempo per la messa in onore di San Michele che verrà celebrata questa sera alle 18.30 dal patriarca Francesco Moraglia. Al termine della funzione, seguirà un momento dedicato ai festeggiamenti per il recupero della scultura. Saranno presenti il patriarca, l'artista, il restauratore e i membri dell'associazione che hanno reso possibile questo restauro. L'associazione “Amici delle Arti” è composta da oltre un centinaio di membri attivi e promuove la cultura dell'arte nel territorio. Si è occupata spesso del recupero di manufatti in città, ma questa volta, in occasione del ventennale della sua fondazione, ha voluto farsi carico di un dono speciale per la comunità. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Turismo, l’assalto dell’Oriente: in 5 anni raddoppiati i cinesi di Michele Fullin Da 118mila nel 2010 a 206mila. Boom anche dei coreani. Posocco (San Rocco): “Ma si continua a concentrare tutto sull’area di San Marco” La Cina non ha doppiato il Giappone solo nella classifica del prodotto interno lordo, dove risulta la seconda economia del mondo dietro gli Stati Uniti. Nel 2014 la Cina ha doppiato il Giappone anche in termini di arrivi turistici a Venezia, per cui ogni volta che si vedranno in giro comitive dagli occhi a mandorla e non si sarà in grado di riconoscerne la lingua, sarà altamente probabile che si tratti di cinesi o di sudcoreani, la cui capacità turistica è letteralmente esplosa negli ultimi anni. Entrambe le popolazioni hanno quasi raddoppiato il numero dei turisti in arrivo a Venezia tra il 2010 e il 2014(da 118 a 206mila), ma a questo fenomeno non è finora corrisposta una forte capacità di spesa. Colpa della permanenza media, assestata per entrambi questi popoli ad una sola notte. Venezia, come del resto Firenze, Roma o Napoli, si confermano mete giornaliere per i tour orientali, che contemplano un assaggio dell’intera Europa. Questi e molti altri dati sono disponibili sull’Annuario del turismo 2014, pubblicato ieri dall’amministrazione comunale e tenuto a battesimo dall’assessore Paola Mar di fronte ad una platea di operatori del settore. Il volume, di 102 pagine, analizza per la prima volta anche i dati a livello di città metropolitana e scende nel dettaglio fino alle visite nelle singole chiese o nei singoli musei anche mese per mese. «Con diversi anni di serie storiche - ha detto Mar - possiamo cominciare anche ad analizzare questi dati ai fini della gestione. A cominciare dai dati sul turismo balneare, che ci permettono di stimare il flusso giornaliero degli escursionisti nei mesi estivi. In questo Accanto ai Paesi più consolidati, si affermano nuove realtà, come i Paesi asiatici, ma anche Brasile, Russia e Medio Oriente». Sulle strategie da adottare per arginare la marea dei 20-25 milioni di persone che arrivano ogni anno è però ancora buio. «Mi sono confrontata con tutti i portatori di idee - ha detto l’assessore - al fine di elaborare una strategia che ci permetta di essere preparati per l’anno prossimo. Purtroppo esistono problematicità normative, sia italiane che europee che rendono difficoltosa ogni forma di contenimento». Nel 2014 il territorio comunale ha registrato un +0,7% negli arrivi (per un totale di 4.280.632) e un +2,1% nelle presenze (9.983.416), con un soggiorno medio che sale leggermente: dai 2,30 giorni del 2013 ai 2,33 del 2014. Più nel dettaglio emerge, tra l'altro, l'aumento del turismo nella città storica (+2,6% arrivi, +0,4% presenze), il calo del Lido (-1,6% e -

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2,9%) e l'andamento differenziato di Mestre (-2,2% arrivi, +7% presenze). A fare la parte del leone, per le presenze nella più vasta area metropolitana, è il settore balneare (69% del totale, con trend invariato, ma +2% negli arrivi). Il volume è una miniera di dati soprattutto a proposito della capacità di attrazione delle iniziative culturali, che a Venezia sono moltissime. Sappiamo così che il teatro Goldoni ha registrato 59mila 387 spettatori nel 2014, mentre il Toniolo ne ha avuti 68mila 919. La Fenice ne ha totalizzati 136mila. Nel 2014 la Biennale Architettura è stata la sesta esposizione più visitata in Italia, con 1.341 visitatori al giorno. Tra i musei la parte del leone la fa come sempre Palazzo Ducale con 1 milione 343mila123 visitatori, seguiti da Peggy Guggenheim collection con 383mila, museo di San Marco (363mila), Accademia (272mila) e Correr (269mila). La basilica dei Frari ne ha fatti 242mila. Un appunto critico non da poco è arrivato dal "Guardian Grando" della Scuola Grande di San Rocco Franco Posocco dopo la disamina della serie di dati sciorinata dall’assessore e dai suoi collaboratori. «Sulla distribuzione del turismo all’interno della città - ha detto - c’è molto da dire, soprattutto sulla volontà di decongestionare piazza San marco. Da una parte c’è sempre stato questo proclama, dall’altro le politiche dell’amministrazione comunale e della Fondazione Musei hanno sempre puntato a concentrare il turismo proprio a San Marco. È un aspetto perverso, che deve essere fatto notare». È un discorso che si fa almeno dagli anni Novanta, con l’assalto delle prime comitive dall’Est che venivano a Venezia in giornata e vedevano solo piazza San Marco. Da allora le cose non sono cambiate nella sostanza: come l’acqua si insinua in ogni fessura, gli escursionisti di giornata invadono ogni calle, ma poi sono diretti sempre e comunque in piazza, provocando lunghissime code per visitare la Basilica, salire sul campanile o entrare a palazzo Ducale o al Correr. Su questo tema è quanto mai opportuno avviare una discussione, visto che la città è dotata di decine di attrazioni decentrate e in attesa di essere scoperte dalla massa. Forse a cominciare dal coordinamento delle attività di queste ultime. «In altre importanti città d’arte - ha continuato Posocco - i musei sono pochi, molto grandi e coordinati fra loro. I nostri a Venezia sono tutti piccoli, con le attività non coordinate e molti sono in sofferenza». Tra i Musei civici hanno registrato flessioni Ca’ Rezzonico (-4.7% tra il 2013 e il 2014), Casa Goldoni (-9.4%); poi San Rocco (-3.7%), la scuola Dalmata (-17.3%), la Scuola dei Carmini (-11%). Pag X San Michele, evento tra festa e polemiche di Melody Fusaro “Identità sbiadita”, Brugnaro atteso dalla contestazione. Tornano in Duomo gli Angeli in vetro freschi di restauro La festa di San Michele è giunta al momento solenne e all'appuntamento più tradizionale. Le celebrazioni per il patrono di Mestre iniziano questa mattina, alle 10.30, con l'alzabandiera in piazza Ferretto, cui partecipano autorità civili e militari, e l’intervento del discorso del sindaco Luigi Brugnaro. E riprendono nel tardo pomeriggio, alle 18.30 al Duomo, con la Messa di San Michele. Presiede il patriarca Francesco Moraglia, che concelebra assieme ai sacerdoti della città. E proseguono anche le iniziative del nuovo programma "diffuso" di "Le città in festa. Da San Michele a San Martino" che prevede, nella giornata di oggi, quattro appuntamenti della manifestazione "Dritti sui Diritti" e un incontro alla biblioteca civica Vez, alle 18, per la rassegna "Segni... conoscere per comprendere". Ma c'è chi vede, in questa nuova veste del classico Settembre mestrino, un modo per far sbiadire l'identità cittadina. A sottolinearlo, anche il consigliere comunale del M5S, Davide Scano, dal suo profilo Facebook: «Si diluiscono le iniziative con le periferie ma questa festa sarebbe di identità mestrina e non riguarda Favaro, Campalto o Chirignago». Critico anche sulla qualità delle proposte e sulla scelta di non riconfermare il mercatino di Confesercenti: «Abbiamo inaugurato via Rosa con i negozianti e poi ci ritroviamo la domenica, oltre ad aver perso la Piazza dei Sapori, ad avere in centro il solito mercato ambulante già presente nei canonici mercoledì e venerdì. Non ho niente contro questo mercato, che meriterebbe una nuova sistemazione, ma la passeggiata domenicale tra i soliti vestiti e mutande a 3 euro è una miseria che ci portiamo dietro da anni. Queste non sono proposte di qualità e non è un progetto adatto per una città da 200 mila abitanti». Scano promette di

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consegnare al sindaco, in occasione dell'alzabandiera, le sue osservazioni e quelle dei numerosi mestrini che hanno commentato il suo post. La festa continua domani, mercoledì, con il tradizionale concerto di San Michele, organizzato dalla parrocchia e dalla Fondazione del Duomo con gli Amici della Musica di Mestre e affidato all'orchestra e al coro femminile del Teatro la Fenice di Venezia diretto da Claudio Scimone (alle 21.15, ingresso gratuito su invito). E San Michele, il Santo che evoca la vittoria del bene sul male, è anche il patrono della Polizia di Stato, con numerosi eventi in programma tra Venezia e Mestre. Alle 11 in Questura, alla presenza del questore Angelo Sanna, degli agenti e dei funzionari della Polizia di Stato della provincia, si terrà una messa officiata dal Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, cui sarà presente anche il cappellano della polizia veneziana don Giuseppe Costantini. Poco prima, per l’alzabandiera delle 10.30 in piazza Ferretto, sarà presente un picchetto in armi composto da alcuni agenti della Polizia di Stato, mentre a partire dalle ore 15 ci sarà l’incontro con la cittadinanza: cinque stand collocati tra via Poerio e piazza Ferretto consentiranno a cittadini e passanti di incontrare gli agenti della Questura, della Stradale, della Polizia Postale, Polizia di Frontiera, Reparto Volo, Artificieri e Polizia Scientifica. In mostra anche alcuni dei mezzi utilizzati dai poliziotti, quali motociclette, la Volante, un’auto di servizio del passato, ovvero la “Fiat 1500”, e il pullman Scuola Mobile proveniente dal Reparto Mobile di Padova, ovvero un bus concepito per la didattica e i temi più sentiti dai giovani quali la sicurezza stradale e quella informatica. Al termine della messa di San Michele, un altro momento speciale per i mestrini. Sarà infatti restituita al Duomo di Mestre, e inaugurata dal patriarca Francesco Moraglia, l'opera scultorea in vetro de "I quattro angeli che suonano la tromba della resurrezione". L'opera, realizzata nel 1981 dal maestro Gianni Aricò proprio per il Duomo, torna a splendere grazie all'associazione "Amici delle arti di Mestre e terraferma", che ha scelto di finanziare l'intero intervento di restauro, affidato alle mani esperte di Roberto Bon. Dopo essere stato acquistato da monsignor Vecchi, nel 1981 il gruppo plastico venne collocato nella zona absidale della chiesa, di fianco all'altare maggiore. Ma pochi anni dopo, a causa di uno spostamento e di un'inopportuna illuminazione, l'opera si danneggiò e fu rimossa e poi dimenticata in un magazzino. Ora torna al suo posto e con un'adeguata illuminazione, grazie agli "Amici delle arti" che altre volte hanno provveduto al recupero di opere d'arte presenti sul territorio. E l'inaugurazione di oggi (prevista intorno alle 19) è ancora più speciale perché coincide con il ventennale dell'associazione. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Il Nordest: italiano chi nasce qui, anche se i genitori sono stranieri di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Otto persone su dieci sono convinte che i figli degli immigrati debbano avere la cittadinanza subito. Il sociologo Allievi: “la gente conosce la vita ed è diversa dal Palazzo” Chi è italiano? Basta essere nati in Italia oppure è necessario che siano italiani i genitori? Secondo le persone intervistate da Demos per Il Gazzettino, è la prima ipotesi quella più accreditata: 8 nordestini su 10, infatti, si dichiarano favorevoli a concedere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati nati in Italia. Al contrario, è il 18% ad opporsi a questa idea. Veneto, Friuli-Venezia Giulia e la provincia di Trento sono tra le regioni italiane che hanno accolto il maggior numero di immigrati nel corso del tempo. La diffusione sul territorio e l’integrazione, come segnalato dai passati rapporti Cnel, avevano funzionato qui meglio che altrove. Tuttavia, l’ultimo studio disponibile (IX Rapporto Indici di integrazione degli immigrati in Italia, 2013) sembra mostrare dei segnali di crisi per il modello di integrazione nordestino. Emerge, infatti, una diminuzione della capacità integrativa passata (il Veneto è sceso dal 4° al 13° posto negli ultimi due

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rapporti; il Trentino-Alto Adige dal 6° al 9°; il Friuli-Venezia Giulia dal 1° al 4°). La crisi economica, dunque, sembra aver contagiato anche la capacità di integrazione sociale dei migranti, che d’altra parte in questo territorio passava largamente per l’inserimento lavorativo. La società nordestina, però, ha mostrato di saper, voler e poter fare propri questi nuovi cittadini. Tanto che, a dispetto di una legislazione ferma al 1992, quindi precedente all’ondata migratoria che ha caratterizzato i decenni successivi, l’80% degli intervistati ritiene corretto considerare italiani i figli di immigrati nati in Italia, indipendentemente dall’origine dei genitori. La percentuale è maggiore rispetto anche a quanto registrato nel complesso della Penisola, dove l’adesione a questo orientamento, per quanto elevata, si ferma al 75%. Analizzando i diversi settori sociali degli intervistati, il dato che colpisce è l’ampiezza dell’adesione e la sua trasversalità: il consenso, infatti, non scende mai sotto la soglia del 60%. Se guardiamo al fattore generazionale, possiamo osservare che i più aperti sembrano essere i giovani under-25 (86%) e gli anziani con oltre 65 anni (84%). Le perplessità maggiori sono rintracciabili tra coloro che hanno tra i 25 e i 44 anni (75-76%), mentre sostanzialmente in linea con la media dell’area appaiono le classi d’età più mature (45-64 anni, 79-80%). Dal punto di vista territoriale, poi, il fattore che più colpisce è proprio la condivisione dell’orientamento. I rispondenti di Friuli-Venezia Giulia (80%), Veneto (80%) e nella provincia autonoma di Trento (79%) sembrano convergere largamente e in misura del tutto similare sull’idea di attribuire la nazionalità italiana ai figli di immigrati nati in questo Paese. Anche nell’analisi dell’istruzione, il dato interessante è la trasversalità. Tra quanti sono in possesso di una licenza elementare, l’appoggio all’idea di concedere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia raccoglie il 77%. È il fattore politico quello che disegna i maggiori distinguo in tema di cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia. Il consenso più ampio è rintracciabile tra gli elettori del Pd (90%). Intorno alla media dell’area, invece, è l’appoggio che proviene dai sostenitori della Lega (77%) e da quanti sono incerti o reticenti (82%). Il sostegno sembra contrarsi in modo più sensibile tra quanti voterebbero per i partiti minori (72%) e il Mov. 5 Stelle (74%, a conferma della natura trasversale del consenso che lo investe), anche se il valore più basso è rintracciabile tra gli elettori di Forza Italia (61%). «Il Nordest è essenzialmente e profondamente accogliente. E nulla può fare la politica della sfiducia nei confronti di altre culture. Quello che conta e su cui hanno evidentemente basato i propri giudizi gli intervistati, è la quotidianità del vivere, costruita sempre più su una società multietnica dal mondo della scuola a quello del lavoro». Questo è il risultato più evidente colto da Stefano Allievi, sociologo e docente all’Università di Padova. «Perché – sottolinea il Professore - il popolo, a differenza di chi vive e lavora a ‘palazzo’ per l’intera giornata, sperimenta la diversità, convive e dialoga, studia e lavora insieme agli stranieri». Un processo di accoglienza naturale. «E’ così. I percorsi di integrazione hanno funzionato a partire dai banchi di scuola, senza alcuno sforzo. Ed è semplice da spiegare: la percezione della diversità tra i piccoli si basa fondamentalmente sul colore di un maglione. Poi si scopre la provenienza, il colore della pelle, il credo religioso. Ma è, appunto, una conoscenza che non inizia dal pregiudizio. E’ un avvicinamento puro alle persone. Avere compagni stranieri in classe non è una rarità. E questo accade sia nelle scuole pubbliche di periferia che in quelle del centro fino ad arrivare a quelle più prestigiose, le internazionali». Se molti compagni di banco sono stranieri, anche al lavoro i colleghi non parlano sempre la nostra lingua. «A Nordest più che nel resto d’Italia. Una nuova società consolidata che a gran voce chiede ovviamente la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia. Anche nel mondo del lavoro il pregiudizio non esiste. E non mi riferisco all’impiego pubblico, ma bensì alle piccole attività produttive, a quelle artigiane dove non è poi così difficile avere come collega o un titolare straniero. Questa è una realtà sempre più diffusa e i dati lo confermano. Gli imprenditori con storie di immigrazione ci sono e contribuiscono concretamente al nostro Pil». La convivenza nasce a prescindere dai percorsi della politica. «Infatti, nasce e basta. I cognomi negli registri di classe lo dicono come sta cambiando il nostro presente e il nostro futuro. Tenendo ben presente che a volte il cognome

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straniero di un bimbo a scuola non racconta una storia di ‘nuova- recente’ immigrazione, perché magari la famiglia è in Italia da un paio di generazioni. É più semplicemente figlio di un matrimonio misto. E non si tratta di una situazione tanto rara, perché ricordiamoci che un quinto delle coppie nel nostro Paese è mista. Anche questi sono processi che narrano bene l’evoluzione dei nuclei familiari e, di conseguenza, della società. Una società che ripeto, di fatto, è più avanti della politica». Adolescenti e ventenni sono i più favorevoli alla cittadinanza per i figli di stranieri nati in Italia. Insieme agli ultrasessantacinquenni. «Le nuove generazioni sono abituate al dialogo internazionale. Per loro, giustamente, la diversità è una risorsa, non un impoverimento. Sugli ultrasessantacinquenni, invece, il giudizio favorevole credo giunga dall’esperienza di un passato fatto di divieti e, magari, emarginazioni e discriminazioni subite che hanno lasciato un segno. Forse si tratta di paure che si vogliono allontanare ed esorcizzare anche attraverso l’accoglienza degli immigrati». Il sondaggio lascia, dunque, un messaggio di accoglienza trasversale alle generazioni, all’appartenenza politica e al livello d’istruzione. «Un appello più che significativo per tutti gli amministratori del Paese. Se è vero che l’80 per cento degli intervistati si dice d’accordo con la cittadinanza ai figli di immigrati allora sarebbe opportuno riflettere ed agire presto e con intelligenza». Pag 25 Accesso alla cittadinanza, tempi maturi per nuove regole di Enzo Pace Nella scuola elementare di Brescia, le due prime saranno formate da bambini di origine straniera. Gli insegnanti hanno chiesto di non essere lasciati soli nel lavoro quotidiano in classe, divenuta un piccolo villaggio globale. Il sovraintendente ha, a sua volta, proposto per l’anno prossimo, giacché quest’anno è ormai andata così, una distribuzione dei bambini stranieri in diverse scuole per evitare che si concentrino in una sola. Qualche politico ha suggerito una ricetta non del tutto nuova: il tetto alla loro presenza nelle classi, aggiungendo che così si possono evitare i ghetti. La vicenda ci insegna più cose. Anche quest’anno in Italia il numero degli alunni, figli e figlie di famiglie di migranti, è cresciuto, anche se di poco, superando le ottocentomila unità. Essi rappresentano il 9% della popolazione scolastica. Di questi, uno su due è nato in Italia. In prospettiva le classi di Brescia diventeranno la regola e, fra non molto, ci abitueremo a convivere eguali nella diversità. Una trasformazione sociale e culturale di questa portata non è facile da metabolizzare. Ci vuole tempo; tuttavia il tempo è ormai scaduto per affrontare con lungimiranza la questione della cittadinanza ai figli e alle figlie delle famiglie d’immigrati. È certamente scaduto per chi deve prendere una decisione politica in materia. L’opinione pubblica appare, invece, molto più decisa e convinta. Lo dimostra ampiamente il sondaggio di questa settimana. Otto abitanti del Triveneto su dieci sono favorevoli alla concessione della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia. I favorevoli li troviamo non solo fra i loro coetanei (15-24 anni), ma anche fra le persone anziane. Si tratta di due punti di vista diversi, per anagrafe, ma convergenti in realismo e saggezza. Se sono giovane, non considero il mio compagno di banco uno straniero, se con lui condivido stili di vita, interessi e divertimento. Allo stesso modo, chi ha più esperienza nella vita, sa che considerare straniero chi si sente italiano per nascita, è una finzione ormai insostenibile. Le ideologie politiche non sembrano decisive in tal caso. Infatti, anche fra i simpatizzanti della Lega Nord i favorevoli sono nettamente in maggioranza, superando, di poco, quanti sono vicini al Movimento Cinque Stelle e, di molto, i potenziali elettori di Forza Italia. I tempi sono, dunque, maturi perché si riformino le regole di accesso alla cittadinanza, rendendone automatica l’acquisizione alla nascita e di più semplice accesso per tutti quei minori, che nati all’estero, sono arrivati in Italia e hanno già compreso che il loro futuro sarà italiano. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Lo scatto che serve al Pd di Umberto Curi Verso il congresso Ci sono voluti ben cinque mesi per arrivare ad un primo risultato, peraltro ancora lontano dal potersi considerare risolutivo. Cinque lunghi mesi trascorsi in surplace, come

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accade nelle gare di ciclismo su pista, quando nessuno dei concorrenti vuole fare la prima mossa, e aspetta immobile sulla bici in equilibrio che a muoversi siano gli altri. Così è accaduto nel Pd veneto dopo la disfatta elettorale delle amministrative della scorsa primavera, quando si riuscì nella non facile impresa di battere ogni record: la più bassa percentuale della storia, il più netto divario negativo rispetto alla formazione vincitrice, la perdita più rilevante di voti espressi in paragone col precedente turno delle europee. Già il rimandare di tante settimane la necessaria e doverosa resa dei conti, con l’aggravante di differire ulteriormente la soluzione definitiva - affidata ad un Congresso regionale straordinario in programma nel prossimo febbraio – già questo traccheggiare è di per sé un sintomo tutt’altro che incoraggiante. Come se il lasciar trascorrere quasi un anno fra le elezioni e il dibattito congressuale debba servire a stemperare le polemiche, a trovare compromessi, o anche più semplicemente a far discutere in un clima meno arroventato. Già questo primo, e tardivo, appuntamento, svoltosi sabato scorso all’abbazia di Praglia, lascia intravedere quale sarà la linea che finirà per prevalere. Quella tracciata dai tre segretari che si sono avvicendati negli ultimi anni («abbiamo perso, però almeno abbiamo dato prova di voler vincere», secondo la versione del segretario uscente De Menech), o peggio ancora quella delineata dal ministro Boschi, il cui intervento ha confermato una volta di più – senza che se ne sentisse davvero il bisogno – il fatto che i dirigenti nazionali del Partito continuano a dimostrare di non capire nulla del Veneto. A meno che non si ritenga che la via giusta per ribaltare un rapporto di forze abissalmente sfavorevole possa consistere nel raccontare la favola di una «valigia piena di sogni», con la quale attraversare «una terra ricca di opportunità», quale sarebbe la nostra regione, come ha detto testualmente la Boschi. Di ben altro – lo si va ripetendo inutilmente da anni su queste colonne – avrebbe bisogno un partito come il Pd veneto per tentare di uscire da una subalternità storica, anche solo per invertire una tendenza che ha assunto caratteri perfino inquietanti. Non di sedute di autocoscienza-collettiva all’insegna del «siamo tutti colpevoli», o dei pannicelli caldi proposti da un simpatico, quanto sprovveduto, ministro in gita. Ma di un confronto interno autentico, senza diplomazie, senza giochetti, senza mediazioni al ribasso. Di una presenza sul territorio non confinata alle poche settimane della campagna elettorale, ma coestensiva alla vita delle comunità. Di una internità ai processi di trasformazione in corso nella regione, e di una capacità di dialogare costruttivamente con i soggetti di questi processi. Di una sensibilità in senso lato «culturale» a cogliere i tanti, e spesso contraddittori, messaggi provenienti da una società dinamica e mutevole, quale è quella veneta, senza andare sempre penosamente a rimorchio delle iniziative assunte a livello centrale, senza scimmiottare il renzismo nelle sue espressioni deteriori, trascurando insieme quel tanto di buono e di nuovo che pure vi è nella leadership renziana. Riuscirà in questa impresa un partito ormai ridotto ai minimi termini, capace fra l’altro di perdere due comuni fondamentali, quali Padova e Venezia, nel giro di pochi mesi? Ad essere schietti, i segnali che vengono, anche dall’assise recente, non sono rassicuranti. A meno che non valga il verso del poeta: «là dove c’è il pericolo, lì cresce anche ciò che salva». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il tocco magico che l’Onu non può avere di Angelo Panebianco Le risorse scarse e le illusioni La settantesima sessione plenaria dell’Assemblea generale dell’Onu si è aperta in una fase delicata della vita del pianeta. Si spara in molti luoghi e, in altri, rumori minacciosi preannunciano tempeste. Nel Mar della Cina la volontà egemonica dell’Impero celeste mette a rischio la pace mondiale entrando in collisione con gli interessi vitali di tanti Paesi, ivi compresi alcuni alleati degli Stati Uniti come Giappone o Filippine. In Europa la guerra, ancorché di bassa intensità, è tornata nelle regioni orientali dell’Ucraina e la Russia non chiede ma pretende che ci si dimentichi dell’annessione della Crimea rivendicando il suo ruolo nella lotta allo Stato Islamico in Medio Oriente. L’abulia strategica degli occidentali (degli americani in primo luogo ma anche degli europei alle

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prese con la difficoltà di governare gli ingenti flussi migratori) lascia vuoti che altri, dai russi agli iraniani ai turchi - con i loro interessi non coincidenti con quelli occidentali - vanno riempiendo a modo loro. L’incontro che si è svolto ieri tra Obama e Putin forse porterà a una svolta (e forse no), innescherà, nelle prossime settimane, il salto di qualità che tutti attendono all’azione di contrasto allo Stato islamico (condizione indispensabile perché si possa un giorno costruire un ordine accettabile in Siria). Ma è un fatto che è Putin a guidare il gioco e i suoi interessi non sono necessariamente coincidenti con quegli degli Stati Uniti o con quelli dell’Europa. Mentre i rumori di guerra si diffondono e a New York si danno convegno potenze coinvolte in giochi «misti» (parziale coincidenza di interessi su alcuni temi unita a una dura competizione su molti altri), l’Onu non rinuncia all’ideologia onusiana e, in suo omaggio, si impegnerà anche in questa occasione a votare a favore della distribuzione a tutti dell’elisir della felicità. Tra gli impegni che verranno solennemente presi ci saranno cose come bloccare i cambiamenti climatici in atto, assicurare a tutti la sicurezza alimentare, il disarmo, eccetera. Chi non è d’accordo? Non si tratta solo di ipocrisia. È anche un omaggio al mito fondante dell’Onu. L’Onu fu voluta da Franklin Delano Roosevelt per rilanciare l’utopia che durante la Prima guerra mondiale aveva spinto il presidente Woodrow Wilson a concepire la Società delle Nazioni. Quell’utopia era uno dei lasciti del pensiero liberale del secolo diciannovesimo: l’idea era che imbrigliandoli entro organizzazioni guidate da un nuovo diritto internazionale, gli Stati avrebbero cessato di farsi la guerra, direttamente o per procura, come avevano fatto per secoli. Si sarebbero assoggettati al diritto dirimendo le loro controversie pacificamente, allo stesso modo in cui i cittadini degli Stati liberali dirimono le loro. La conquistata armonia degli interessi avrebbe consentito agli Stati di cooperare lealmente per risolvere i problemi del mondo. Non è andata così. Il compito ambizioso che era stato attribuito all’Onu si rivelò irrealizzabile non appena esplose la competizione fra Usa e Urss. Dopo la Guerra fredda, molte illusioni sul ruolo dell’Onu rinacquero ma si scontrarono quasi subito, e di nuovo, con l’impossibilità di sostituire la «armonia» alla competizione e al conflitto fra gli Stati. Così come si era dovuta adattare alla distribuzione bipolare del potere durante la Guerra fredda, l’Onu si è poi piegata (anche se con molte tensioni) all’unipolarismo americano successivo. Allo stesso modo, oggi va adattandosi al multipolarismo emergente. Ciò non rende inutile l’Onu, essa continua a servire come vetrina e tribuna, un consesso in cui ciò che accade racconta a tutti noi quali siano il clima imperante e lo stato dei contenziosi in atto. Non si tratta di pretendere che l’Onu rinunci ai suoi miti fondanti, alla sua ideologia ufficiale e a quel tanto di ipocrisia che vi è inevitabilmente appiccicato. Si tratta solo, per chi ne ha voglia, di guardare alle cose con realismo. Non è vero che i problemi mondiali si risolverebbero tutti facilmente se solo ci fosse la «buona volontà». Chi ragiona così non vede che in un mondo di scarsità non c’è verso di sfuggire alla competizione. Ed è proprio l’idea di scarsità, e delle conseguenze della scarsità, che manca, e non solo nell’ideologia ufficiale dell’Onu. Si pensi alla lodevole richiesta di papa Francesco di dare terra, casa, lavoro a tutti gli uomini. Anche nel suo caso c’è la sottovalutazione del vincolo della scarsità. Come nel proposito onusiano di assicurare a tutti la sicurezza alimentare, c’è in Francesco l’idea che le risorse siano tutte a disposizione e che la scarsità, anziché un vincolo obiettivo, sia piuttosto l’effetto di una congiura delle classi dominanti ai danni dei poveri del pianeta. Tanto in Francesco quanto nella visione ufficiale onusiana si sentono echi dell’ideologia ottocentesca del progresso (sia in variante liberale che socialista), l’idea secondo cui l’umanità sarebbe ormai entrata nell’era dell’abbondanza illimitata. Non è così. Non ci sono risorse illimitate che possano cadere dal cielo rinnovando il miracolo della manna. La scarsità non è venuta meno. La povertà, ad esempio, non può essere eliminata con la bacchetta magica. Gli unici strumenti che l’hanno ridotta e che promettono di ridurla ulteriormente in futuro, sfortunatamente, sono proprio quelli che al Papa non piacciono e che, per giunta, non possono essere evocati esplicitamente in sede Onu, data la diversa costituzione economico-sociale di numerosi membri dell’Assemblea: il mercato e il capitalismo di mercato. In un mondo di scarsità ove, per giunta, non sono affatto superate le sovranità territoriali, la competizione fra gli Stati, in barba alla mission dell’Onu, resta endemica e ineliminabile. Si possono anche mandare soldati per infoltire i caschi blu come ha fatto Renzi in omaggio a quell’ideologia onusiana che qui in Italia conta tanti adepti. A patto però di non dimenticare che

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esistono poi interessi (nostri e dell’Europa), in competizione con gli interessi di altri, e che l’Onu, di sicuro, non può tutelare. Pagg 2 – 3 Italiano freddato in strada a Dacca. L’Isis: “E’ soltanto la prima goccia” di Sara Gandolfi, Andrea Pasqualetto e Fiorenza Sarzanini Insegnava a coltivare la terra nei Paesi in via di sviluppo. Colpito perché cristiano. E sale la preoccupazione per il Giubileo a Roma Ucciso, perché «occidentale». Il cooperante italiano Cesare Tavella, 51 anni, ha trovato la morte così, ieri (19 ora locale) a Dacca, capitale del Bangladesh. E’ stato freddato nel quartiere diplomatico di Gulshan da tre uomini armati che lo hanno affiancato in moto e crivellato di colpi. L’Isis ha subito «firmato» l’assassinio e poco dopo il capo della Farnesina, Paolo Gentiloni, ha confermato l’omicidio: «Stiamo lavorando per verificare l’attendibilità della rivendicazione», ha detto il ministro degli Esteri. Il motivo dell’agguato, secondo Rita Katz, direttore del sito di intelligence Site, su cui è apparsa la rivendicazione, sarebbe banale e feroce insieme. Tavella era «occidentale»: «In un’operazione speciale dei soldati del Califfato in Bangladesh, una pattuglia di sicurezza ha preso di mira lo spregevole crociato Cesare Tavella dopo averlo seguito in una strada di Dacca, dove gli è stato sparato a morte con armi silenziate, sia lode a Dio - è scritto nella rivendicazione -. Ai membri della coalizione crociata diciamo: non sarete sicuri nelle terre dei musulmani. È solo la prima goccia di pioggia». Proprio ieri, il Foreign Office britannico aveva messo in guardia i propri connazionali da possibili attacchi di matrice terroristica, riferendo di «informazioni affidabili». Un’allerta ben nota ai diplomatici sul posto, che, ad esempio, avevano consigliato alla squadra australiana di cricket, attesa domenica per un tour nel Paese, di rinviare la partenza. Tavella, secondo le prime ricostruzioni, stava facendo jogging quando è stato raggiunto da almeno tre colpi d’arma da fuoco, che lo hanno raggiunto all’addome, alla mano destra e al gomito sinistro. Soccorso da alcuni passanti, è arrivato già senza vita allo United Hospital di Dacca. Non lo ha salvato dalla furia omicida il suo curriculum di cooperante di lungo corso, o forse è stato ucciso proprio per questo. Lavorava nel campo degli aiuti allo sviluppo rurale e della sicurezza alimentare dal 1993, e attualmente era project manager di una Ong olandese «interreligiosa», Icco Cooperation. Un attacco premeditato, secondo il portavoce della polizia locale, Muntasirul Islam, che però non ha voluto per ora collegare l’aggressione ad alcun gruppo estremista autoctono. In Bangladesh, Stato a maggioranza musulmana ma istituzionalmente laico, c’è una forte presenza di islamisti radicali. Tra febbraio e agosto quattro blogger, sono stati uccisi per mano di integralisti islamici, attacchi attribuiti dalla polizia al gruppo Ansarullah Bangla Team, che nel 2013 aveva diffuso una lista con i nomi di 84 blogger da «punire con la morte» (9 già assassinati). Gli osservatori sul posto da tempo denunciano lo strapotere economico dell’Islam radicale. Secondo Abul Barkat, professore di economia all’Università di Dacca, il partito Jamaat-e-Islami, fuorilegge dal 2013, ha creato «uno stato dentro lo stato» e «un’economia dentro l’economia», in tutti i settori del Paese, dalle grandi istituzioni finanziarie alle agenzie di micro-credito, dalle madrasse ai mass media. Un impero da 278 milioni di dollari l’anno. Una grande passione per gli animali e per la terra. Poi la scelta di partire e di dedicarsi a progetti umanitari con una Ong olandese, la Icco cooperation, attiva anche in Bangladesh, l’ultimo luogo per il quale è partito come project manager di un team di cinque persone che si dedicavano alla sicurezza alimentare e allo sviluppo delle aree rurali. Cinquantuno anni, una moglie separata, una figlia quindicenne, il veterinario Cesare Tavella aveva deciso di cambiare vita qualche anno fa. A Casola Valsenio, sulle dolci colline tosco romagnole di confine della provincia di Ravenna, c’era invece arrivato nel Duemila con l’idea di vivere di in una sorta di grande fattoria. Lui che veniva dalla metropoli, da Milano, con il suo sogno «bucolico» da realizzare fra gli agrumeti appenninici, in questo paesino dove l’ultima notizia di un qualche rilievo risale al 2011, due fulmini che colpirono il campanile del paese. Per dire della scelta esistenziale. Ristrutturò la casa, iniziò a dedicarsi alla terra. Poi qualcosa si ruppe, la moglie se ne tornò nel suo Piemonte con la figlia e lui decise di lasciare Casola e il podere. O meglio, di cederlo in gestione a una società agricola, la Menichetti Luciano e Marco, che rilanciò

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la produzione, puntando sulla «coltivazione di pomacee, frutta e nocciolo», scrivono loro stessi. Si tanto in tanto tornava. «L’ultima volta l’ho visto a giugno alle Poste - ricorda una compaesana -. Mi ha detto solo “torno via”». Cesare era partito per il Bangladesh dopo Ferragosto, lasciando a Casola qualche conoscente. Nella vicina Bagnacavallo è rimasto il padre, Corrado, che al telefono riesce a dire solo poche parole: «É stato ucciso e questa per noi è una grande tragedia. Mi scusi ma abbiamo bisogno di rimanere soli con il nostro immenso dolore». L’ultima tappa del suo lungo viaggio da cooperante è stato il Bangladesh, Dacca. «Il mio tempo qui è troppo breve per non provare e godere quanto possibile in modo sano e positivo», ha scritto da lì sul sito Couchsurfing. «Vorrei sapere io stesso, la mia missione nella vita. Non è così facile». Insegnava a coltivare la terra e ad allevare animali nei paesi in via di sviluppo. «Ho vissuto in Albania, Armenia, Bangladesh, Cambogia, Camerun, Francia, Indonesia, Italia, Kenia, Mongolia, Corea del Nord, Romania, Federazione Russa, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Yemen», elencava lui stesso, aggiungendo fra le sue passioni «parlare e scoprire idee e persone». Roma. È la rivendicazione che spaventa. Perché mai fino ad ora un italiano era diventato obiettivo dei terroristi dell’Isis. Numerosi connazionali erano rimasti vittime di attentati, primo fra tutti quello al museo del Bardo di Tunisi nel marzo scorso. Ma non c’era stata alcuna azione mirata, come invece era accaduto per altri occidentali. E dunque l’uccisione di Cesare Tavella, il cooperante cinquantenne di Ravenna freddato a Dacca, in Bangladesh, con alcuni colpi di pistola da tre persone che lo hanno seguito e poi preso alle spalle, fa temere il salto di qualità. E inevitabilmente fa salire il livello di allerta, alla vigilia di un appuntamento chiave per il nostro Paese come quello del Giubileo. L’analisi delle prime ore effettuata dall’intelligence è improntata alla cautela, senza però nascondere come la scelta dei terroristi di attribuirsi l’assassinio rappresenti comunque un segnale inquietante. Anche tenendo conto che solo qualche giorno fa le autorità locali avevano lanciato l’allarme per gli occidentali. Un messaggio tanto preciso da convincere la nazionale australiana di cricket a rinunciare a una trasferta programmata da tempo. E prima i servizi segreti di Londra, poi quelli di Madrid avevano diramato un’allerta destinata agli europei residenti a Dacca chiedendo di essere «prudenti soprattutto nella frequentazione di luoghi pubblici». La dinamica dell’agguato è ancora poco chiara. I testimoni riferiscono di aver sentito tre spari mentre nella rivendicazione si parla esplicitamente di un silenziatore. Ma a preoccupare gli analisti è soprattutto la definizione di «crociato» attribuito a Tavella. Perché viene messa in relazione con l’attività che il cooperante doveva svolgere in Bangladesh e soprattutto con la Ong per la quale aveva deciso di lavorare. Si tratta infatti della «Icco Cooperation», organizzazione non governativa olandese che crea opportunità per gli imprenditori del proprio Paese che vogliono avviare progetti negli Stati in via di sviluppo. E nella homepage del proprio sito internet si definisce «organizzazione interreligiosa di cooperazione». Ecco perché con il trascorrere delle ore prende corpo l’ipotesi che l’uomo sia stato scelto come bersaglio in quanto collaboratore di un organismo «cristiano» e come tale in cima alla lista degli obiettivi da colpire stilata dai leader del Califfato. Ed ecco perché tutto questo spaventa in vista del Giubileo. Accade spesso che di fronte ad azioni fondamentaliste compiute all’estero, gli 007 abbiano difficoltà - in particolar modo nelle prime ore - ad ottenere una ricostruzione precisa di quanto accaduto, dunque a poter effettuare riscontri oggettivi. Ieri la polizia locale ha subito parlato di rapina e soltanto dopo la notizia della rivendicazione ha corretto il tiro spiegando di non poter escludere altre piste. In attesa di poter ottenere informazioni precise sulle fasi cruciali dell’agguato, ci si concentra quindi sul testo diramato attraverso alcuni account Twitter già utilizzati dall’Isis e ritenuti attendibili. E si cerca di individuare gli avvertimenti che vengono lanciati con quelle frasi. In un clima di massima tensione come quelle degli ultimi mesi, anche il solo fatto di attribuirsi l’assassinio rappresenta infatti un segnale da non sottovalutare proprio perché l’Italia è certamente nell’elenco degli Stati nemici, nonostante il presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia più volte ribadito nelle ultime ore la contrarietà agli attacchi in Siria e confermato che il nostro Paese non parteciperà ai raid. E perché il Giubileo ci metterà al centro della scena internazionale con un evento che può diventare vetrina privilegiata per i terroristi islamici. «Roma non sarà militarizzata», ribadiscono i responsabili degli apparati di sicurezza e lo stesso ministro dell’Interno Angelino Alfano. Lo spiegamento di forze sarà comunque imponente, i controlli serrati, molte aree saranno chiuse alla

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circolazione dei veicoli e accessibili soltanto dopo aver superato i controlli di metal detector e antiesplosivi. Tutto questo nella consapevolezza che uno dei pericoli è quello dell’azione solitaria, il gesto estemporaneo capace di mettere in scacco l’intero dispositivo. LA REPUBBLICA Pag 1 Gli euroscettici del Mediterraneo di Ilvo Diamanti Il risultato delle elezioni in Catalogna conferma l'ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell'indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna. Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre "una rivoluzione geopolitica su scala europea", come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue. Tuttavia, il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell'Ues: l'Unione Euro-Scettica. Trasmesso da una catena di attori politici, impolitici e anti-politici. Uniti da un comune bersaglio. L'Europa dell'euro. Dunque, l'Europa, tout court . Visto che l'Unione è stata prevalentemente costruita, appunto, sul terreno economico e monetario. Mentre i soggetti politici di maggiore successo, negli ultimi anni, sono quelli che hanno esercitato una critica aperta all'Euro-zona. E, spesso, alla stessa Unione Europea, in quanto tale. In Italia: la Lega di Salvini. Esplicitamente contraria all'Euro, ma anche alla Ue. Appunto. Inoltre: il M5s. Anch'esso esplicitamente ostile all'Euro-zona. Tanto che, nei mesi scorsi, Alessandro Di Battista, deputato del M5s, fra i più autorevoli, ha proposto un "cartello tra i Paesi del Sud Europa" per "uscire dall'euro" e "sconfiggere la Troika che ha distrutto l'Ue". Un aperto invito, dunque, a costruire la Ues. Rivolto, anzitutto, alla Grecia, governata da Alexis Tsipras e dal suo partito, Syriza. Che, come ha confermato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze, aveva pianificato un programma per trasformare l'euro in dracma. E per liberarsi del controllo della Troika. Prima, ovviamente, della recente crisi. Che ha condotto la Grecia a scontrarsi con la Germania della Merkel. E con il "governo" della Ue. Anche se ora, ovviamente, questo progetto è divenuto impraticabile. Dopo il prestito- ponte erogato dalla Ue, per fare fronte all'enorme debito che opprime la Grecia. Mentre Tsipras ha estromesso dal governo Varoufakis e gli altri esponenti del partito, reticenti e indisponibili ad accogliere le pesanti condizioni poste dalla Ue. Nonostante tutto, pochi giorni fa, Tsipras ha ri-vinto le elezioni. Si è confermato alla guida del governo e del Paese. E la Grecia è rimasta nella Ue e nell'euro. Non certo per passione, ma per necessità. E per costrizione. Ma l'Ues ha messo radici anche in Francia. A sua volta, Paese mediterraneo. Soggetto protagonista della scena europea, insieme alla Germania. Ebbene, com'è noto, in Francia, negli ultimi anni, si è assistito all'ascesa di Marine Le Pen, che ha spinto il Front National ben oltre il 25%. Al di là delle zone di forza tradizionali, nelle regioni "mediterranee". Per affermarsi, Marine Le Pen ha moderato i toni - più che i contenuti - del messaggio politico tradizionale. E ha preso le distanze dal padre, Jean-Marie. Fondatore e "padrone" del Fn. Fino alla rottura. Sancita dall'espulsione del padre, avvenuta a fine agosto, per decisione del comitato esecutivo del partito. Il Fn di Marine e Bleu Marine, la coalizione costruita intorno al partito, hanno, tuttavia, mantenuto i due orientamenti tradizionali forse più importanti. La xeno-fobia. Letteralmente: paura dello straniero. E l'opposizione all'Europa dell'euro. Così, i confini mediterranei della Ue oggi sono occupati dalla Ues. Che tende ad allargarsi rapidamente altrove. Nei Paesi della Nuova Europa. A Est: in Polonia, Ungheria. E a Nord. In Belgio, Olanda, Danimarca, Scandinavia. Per non parlare della Gran Bretagna. Dove l'euroscetticismo è radicato da tempo. La Germania, il centro dell'Europa dell'euro, intanto, si è indebolita. Messa a dura prova, da ultimo, dallo scandalo che ha coinvolto e travolto la Volkswagen. Un grande gruppo automobilistico. Ma, soprattutto, un marchio dell'identità (non solo) economica tedesca nel mondo. Intanto, la xeno-fobia si è propagata ovunque. Alimentata dall'esodo dei profughi degli ultimi mesi. Dall'Africa e dal

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Medio Oriente, attraverso l'Italia, la Grecia, i Balcani. Così, 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa sorgono nuovi muri. Non solo simbolici. Marcano il difficile cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno. Politico. Culturale. Perché l'Europa "immaginata", fra gli altri, da Adenauer, De Gasperi, Churchill, Schuman, l'Europa di Jean Monnet e Altiero Spinelli: è rimasta, appunto, "un'immagine". Un orizzonte. Lontano. D'altra parte, (come dimostra l'Osservatorio europeo curato da Demos-Oss. di Pavia- Fond. Unipolis, gennaio 2015), l'Europa dell'euro non suscita passione. Tanto meno entusiasmo. La maggioranza dei cittadini - in Italia e negli altri Paesi europei - la accetta, per prudenza. Teme che, al di fuori, potrebbe andare peggio. Così, il progetto europeo non cammina. Perché ha gambe molli e non ha un destino. Mentre il sentimento scettico si fa strada. In Spagna. In Italia. In Francia. In Europa. A Destra (e al Centro), ma anche a Sinistra. E alla Ue si sovrappone la Ues. L'Unione Euro-Scettica. Più che un soggetto e un progetto organizzato: una sindrome. Densa e grigia. Diffusa nell'area mediterranea. Oggi si sta propagando rapidamente altrove. Conviene prenderla sul serio, prima che sia troppo tardi. Prima che contagi anche noi. Pag 16 L’allarme del premier su temi etici e unioni civili: “I cattolici non capiscono” di Goffredo De Marchis Roma. Prudenza non vuol dire insabbiamento. Prudenza significa accettare di buon grado il probabile rinvio della legge sulle unioni civili al 2016. Matteo Renzi non intende fare dietrofront sui diritti per le coppie omosessuali, ma non trascura alcuni segnali che gli vengono dal mondo cattolico. E qui non si parla delle gerarchie vaticane, della Cei o dei conservatori alla Ruini che preparano i loro documenti alla vigilia del Sinodo sulla famiglia che si inaugura il 4 ottobre, giorno di San Francesco. Semmai dei parrocchiani di San Giovanni Gualberto, la chiesa della famiglia Renzi a Pontassieve, un edificio moderno a pianta tonda in fondo al paese dopo la ferrovia. Sul sagrato, la domenica mattina, il premier si ferma spesso a parlare con gli amici: chiacchiere in libertà sulla Fiorentina, sugli impegni sportivi dei figli e sulle gare a cui ormai partecipa solo la moglie Agnese. Ma negli ultimi tempi Renzi ha notato il crescere delle domande e delle perplessità sulle mosse del governo intorno ai diritti dei gay e ai loro riflessi sulla famiglia tradizionale. Raccontano che la stessa scena si sia ripetuta, a qualche decina di chilometri di distanza, nella chiesa di Arezzo frequentata dal ministro Maria Elena Boschi, che nel governo ha la posizione più avanzata, favorevole al matrimonio gay, equiparato in tutto e per tutto all' unione eterosessuale. Sono piccole spie accese, che il premier-segretario vuole capire meglio, attento come al solito al consenso dell'opinione pubblica, a far passare il messaggio. Renzi è convinto che si sia prodotto un «cortocircuito» con la riforma della scuola, usata da alcuni gruppi di ultrà cattolici per denunciare l'introduzione nelle aule italiane della teoria gender, la formula che consente ai bambini di sentirsi maschi o femmine secondo il loro orientamento e di essere rispettati in questa scelta. Non c'è niente di tutto questo, nel provvedimento della buona scuola: c'è il rispetto della parità uomo-donna e la condanna del bullismo contro ogni forma discriminatoria, compresa quella omofoba. Ma il "cortocircuito" con le unioni civili ha comunque funzionato, pervadendo l'intera materia dei diritti, agli occhi dei cattolici, di un sospetto di fondo. Ecco perché allontanare nel tempo le due leggi, la riforma scolastica e il via libera definitivo alle coppie gay, può non essere un danno, ma un' opportunità. Il disegno di legge firmato da Monica Cirinnà è fermo in commissione al Senato. Il Partito democratico vorrebbe incardinarlo, ovvero metterlo in calendario, prima dell' arrivo della legge di stabilità, che sulla carta è fissato per il 15 ottobre. Luigi Zanda ha condotto una battaglia per chiudere prima la partita della legge costituzionale in modo da portare in aula le unioni civili entro metà ottobre. Battaglia persa e adesso rimangono appena due giorni rispetto al 13 ottobre, data limite per la riforma di Palazzo Madama. Zanda dice sicuro: «Ce la faremo». Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle riforme e protagonista di uno sciopero della fame perché la norma non finisse nell'oblio, ha qualche certezza in meno: «Può slittare al 2016, ma non sarà un problema perché ormai il traguardo è vicino. E Matteo non si rimangerà la promessa». Il piccolo drappello di parlamentari Pd cresciuti nell'associazionismo cattolico è felice per la "pausa di riflessione". Spera che porti a qualche nuova modifica. «I tempi più lunghi ci aiuteranno a fare meglio», dice Ernesto Preziosi, ex vicepresidente dell' Azione cattolica, deputato dem. Questo gruppo

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di pressione non chiede l'insabbiamento della legge e dei diritti, ma ha già ottenuto il "successo" della coppia gay definita «formazione sociale specifica». Come dire: ben distinta dal matrimonio. «È possibile precisare ancora la differenza con le nozze - spiega Preziosi -. E rimandare a un'altra legge la parte che riguarda l'adozione del figlio di uno dei partner della coppia, la stepchild adoption». Modifiche che i cattolici Pd chiedono subito perché Renzi è stato chiaro: la Camera dovrà approvare la legge uscita dal Senato così com'è, per evitare di aprire nuovi fronti nella navetta parlamentare. A questo lavora un comitato interno del Pd formato da 5 deputati e 5 senatori che studia gli emendamenti da portare a Palazzo Madama. Ne fanno parte anche i cattolici Emma Fattorini, la senatrice che ha voluto il compromesso della "formazione sociale specifica" e Alfredo Bazoli, deputato. «Con questa legge dobbiamo cercare il meglio e farla accettare da tutti», chiarisce la presidente della commissione Cultura della Camera Flavia Nardelli. E se il Sinodo farà delle aperture, allora i tempi più lunghi diventeranno una "benedizione" per il Pd e per Renzi. LA STAMPA Perché serve una vera opposizione di Giovanni Orsina Siamo in Italia, quindi è pur sempre possibile che o nei prossimi giorni in un voto segreto, o nei prossimi mesi in un altro passaggio parlamentare, la riforma costituzionale si areni. È anche assai improbabile, però: tutti i segnali convergono nell’indicare che, dopo quella del sistema elettorale, Renzi incasserà anche la modifica della Costituzione. E se così è, allora la nostra vita pubblica si appresta a entrare in una nuova fase: superato il passaggio della ricostruzione - non completa e non perfetta, ma per il momento, con ogni probabilità, la migliore possibile - dell’assetto istituzionale, bisognerà vedere in quale modo il quadro politico si adatterà alle nuove condizioni. Prima di azzardare qualche ipotesi sugli sviluppi futuri, vale la pena gettare un rapido sguardo a quel che è appena successo - se non altro perché vi troviamo le radici di alcuni dei problemi che forse verranno. Questo sguardo possiamo condensarlo in una domanda: ma come ha fatto Renzi? Com’è riuscito a trovare una maggioranza per la riforma elettorale, e soprattutto come ha potuto indurre il Senato al più innaturale degli atti - il suicidio? La risposta breve è: c’è riuscito perché ha messo al lavoro tutto il suo notevolissimo talento politico. Un ragionamento un po’ più elaborato aggiunge poi che il suo talento è consistito nel saper cogliere l’attimo - nel capire che cose fino ad allora impossibili erano infine divenute fattibili. Più precisamente ancora, Renzi ha intuito che i suoi avversari, dentro e fuori il Partito democratico, erano a tal punto decotti che non sarebbero riusciti a fermarlo: il sistema politico, che per anni era stato troppo fragile per funzionare bene, ma abbastanza forte da sapersi almeno difendere, si era indebolito a tal punto da non poter più resistere a chi intendesse riformarlo contro la sua stessa volontà. Con la nuova legge elettorale e la modifica della Costituzione facciamo un ampio passo in avanti verso un traguardo del quale discutiamo per lo meno dai tardi Anni Settanta, e ancor di più dall’inizio dei Novanta: il rafforzamento del potere esecutivo, necessario a restituire alla politica italiana quel baricentro che fino a vent’anni fa fornivano, in maniera disfunzionale ma non inefficace, i partiti del cosiddetto arco costituzionale. L’ultimo erede di quelle forze politiche che sia sopravvissuto, inoltre, il Partito democratico, è il candidato naturale alla guida di questo esecutivo rafforzato. Benissimo. Che cosa manca, perché il nostro sia infine un Paese «normale»? Un’inezia: l’opposizione. Per tutto quello che s’è detto finora, gli avversari di Renzi non possono che essere deboli - altrimenti lui non sarebbe mai riuscito a fare le riforme. Ma non solo. Anche in questo caso l’Italia, com’è spesso accaduto nella sua storia, cerca di raggiungere la «normalità» politica nella peggiore delle congiunture internazionali. Ossia in un momento nel quale gli altri Paesi dell’Europa occidentale, i modelli della «normalità», sono essi stessi diventati «anormali» sotto i colpi delle tante crisi - economica, della democrazia, dell’Europa, degli equilibri mondiali. È in circostanze non facili, dunque, che la palla passa ora nel campo della Lega di Salvini, del Movimento 5 stelle coi suoi incerti equilibri, e naturalmente di Silvio Berlusconi, col quale bisogna continuare a fare i conti. Ed è in queste circostanze che dobbiamo chiederci: riuscirà qualcuno di costoro a mettere in piedi un’opposizione credibile - abbastanza distante dal Partito democratico da esser percepita come un’alternativa, ma capace comunque di

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restare entro il perimetro del possibile? O prevarranno gli istinti «apocalittici» oggi così di moda - istinti che, pur essendo tutt’altro che ingiustificati, assumono forme nichiliste e non costruttive: l’aggressione populista ai professionisti della politica; la rincorsa a frustrazioni e paure; l’invenzione brillante di panacee universali tanto miracolose quanto implausibili; l’antieuropeismo sovranista? Per quasi cinquant’anni dopo il 1945 abbiamo avuto un governo debole e bloccato al centro. Magari poteva andare peggio, ma di certo non ha funzionato bene. Poi, per i vent’anni successivi, abbiamo avuto un governo debole e l’alternanza bipolare - e anche in questo caso ha funzionato male. Il rischio è che l’Italia entri adesso in una fase nella quale il governo sarà sì forte, finalmente, ma tornerà a essere bloccato al centro da opposizioni incapaci di presentarsi come alternative plausibili. A giudicare oggi dai movimenti e dalle iniziative degli oppositori di Renzi, in realtà, sarei tentato di dire che questo rischio è quasi una certezza. Però mi sono sbagliato nel prevedere che Renzi non sarebbe riuscito a riformare il sistema elettorale e la costituzione - e sono contento di essermi sbagliato. Spero di sbagliarmi anche nel temere che oggi non vi sia nessuno in grado di mettere insieme un’opposizione degna di questo nome. AVVENIRE Pag 3 Secessionisti alla catalana: la volontà non basta di Marco Olivetti Costituzione e democrazia in spagna (e non solo) La prima domanda suscitata dall’aspirazione indipendentista che sta dietro le elezioni 'plebiscitarie' tenutesi domenica in Catalogna è piuttosto brutale: perché? Che senso ha la secessione da uno Stato democratico-pluralista come la Spagna, all’interno dell’Unione Europea (di cui la Catalogna vorrebbe continuare a essere parte), in cui la statualità ha perso quelle caratteristiche di esclusività disegnate dalla teoria costituzionale dell’Ottocento? A questa domanda radicale, gli indipendentisti catalani non hanno sinora dato alcuna risposta convincente, visto che essi escludono sia la risposta economica ('saremmo più ricchi'), sia quella etnicoidentitaria ('siamo diversi'). Le forze indipendentiste – Convergencia, di orientamento moderato, guidata dal presidente catalano Artur Mas, Esquerra Republicana di estrema sinistra e i neocomunisti del Cup – rispondono con una pura affermazione di volontà: volui quia volui. Ma il travagliato cammino della Catalogna verso il distacco da Madrid negli ultimi tre anni pone anche un’altra domanda: cosa dice il diritto costituzionale sulla secessione da uno Stato democraticopluralista? La risposta è piuttosto semplice: la vigente Costituzione spagnola non solo non prevede alcun procedimento attraverso cui una delle 17 Comunità autonome possa secedere dal Regno, ma afferma che esiste un unico popolo, quello spagnolo, e nessuna parte di esso può unilateralmente separarsi dal tutto. Perciò – lo ha ribadito in più occasioni il Tribunale costituzionale – non è ammissibile un referendum secessionista in cui un ' 'popolo catalano' (inesistente, dal punto di vista giuridico) possa decidere di separarsi dal resto della nazione. Del resto proprio questo dato giuridico è alla base delle singolari elezioni svoltesi ieri: si trattava infatti di elezioni anticipate, convocate da Mas non per ottenere una maggioranza parlamentare, ma in funzione 'plebiscitaria': si trattava, cioè di one-issue elections, in cui agli elettori era chiesto solo di scegliere fra partiti favorevoli e contrari alla secessione. La stessa risposta si può trovare nel diritto costituzionale degli Stati federali e regionali degli ultimi due secoli: fra essi, solo alcuni Stati comunisti (Urss e Jugoslavia) prevedevano come evento possibile la secessione, nella consapevolezza, peraltro, che essa sarebbe stata resa impossibile dal 'ruolo guida' riconosciuto al partito comunista, come partito unico. Ma le Costituzioni degli Stati liberali e democratici non hanno mai previsto questa possibilità: nel caso degli Stati Uniti il tema fu risolto con la spada durante la guerra di secessione del 1861-65 e, sulla base di essa, dalla sentenza della Corte suprema Texas v. White (1870): in senso chiaramente negativo. Negli ultimi decenni non sono mancati tentativi di affrontare il problema in un’ottica di radicalismo democratico, secondo la quale gli Stati non sono corpi politici o entità metafisiche, ma il prodotto del consenso dei loro cittadini. Così nel 1981 la Corte suprema del Canada, pronunciandosi a proposito del Québec, dopo aver escluso l’esistenza di un diritto costituzionale di secedere unilateralmente, ha affermato che le convenzioni che reggono una democrazia pluralista suggeriscono di negoziare una secessione, qualora essa sia chiesta da «una maggioranza chiara». Applicando questo

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precedente al caso spagnolo, ci si potrebbe chiedere che cosa voglia dire «una maggioranza chiara». Sembra che al riguardo non basti una maggioranza semplice del Parlamento regionale, neanche se prodotta da elezioni 'plebiscitarie' come quelle di ieri. La maggioranza dovrebbe quantomeno essere tale nel corpo elettorale: e ieri i partiti indipendentisti hanno ottenuto solo il 47% dei voti, che si è trasformato in 51% dei seggi grazie all’effetto maggioritario che ogni sistema elettorale produce a vantaggio delle liste più votate. Dunque anche questo test assai elementare non è stato superato dagli indipendentisti catalani. Ma forse «una maggioranza chiara» dovrebbe essere qualcosa di più. È ormai acquisito nel diritto costituzionale contemporaneo che le decisioni costituzionali sono legittime solo quando sorrette da maggioranze speciali. Nel caso di un eventuale referendum catalano forse la soglia ragionevole potrebbe essere collocata al 51% non dei votanti, ma del corpo elettorale. Dopotutto si tratta di una decisione storica e chi rivendica il « derecho a decidir » sull’indipendenza (un diritto peraltro assai dubbio) deve provare di avere dalla sua parte qualcosa di più di una maggioranza in una elezione o in un referendum ordinario. IL GAZZETTINO Pag 1 Usa e Russia, un passo indietro per la pace di Mauro Del Pero Ci sono tre variabili fondamentali in quella crisi siriana oggi al centro delle interazioni tra le principali potenze del sistema internazionale. E c'è una pluralità di attori che queste variabili cercano di comprendere, indirizzare e se possibile sfruttare per ottenere dei vantaggi in Medio Oriente o contropartite su altri, nodali dossier. Le tre variabili interne sono il regime di Assad, l'Isis e la frammentata e debole coalizione schiacciata tra i due. Chiare, rispetto a ciò, sono le vie politicamente praticabili (e accettabili) per la comunità internazionale: la dipartita di Assad e la sconfitta, o il contenimento massimo, dello Stato islamico. Il resto è subordinato a questi due risultati e in ultimo sacrificabile sull'altare del loro ottenimento. Per raggiungere quest'esito, tutti i soggetti interessati saranno chiamati a concessioni non marginali, in una partita che non potrà avere vincitori e sconfitti indiscussi, al di là delle dichiarazioni di circostanza, delle inevitabili polemiche politiche e delle zuffe retoriche quali quelle cui stiamo assistendo in questi giorni. La Russia dovrà accettare che Assad si faccia da parte. È questa, infatti, una condizione non negoziabile per gli Stati Uniti, come Obama ha fatto chiaro, anche per la valenza altamente simbolica che la deposizione del tiranno siriano ha ormai assunto negli Usa. Perderà, Mosca, il suo ultimo e più fedele alleato in Medio Oriente. Ma avrà voce importante nel processo di transizione post-Assad, nel quale molti uomini di quest'ultimo avranno un ruolo centrale. E sarà probabilmente compensata in altri teatri e su altre questioni, a partire da quelle sanzioni che non avranno sortito gli effetti auspicati dagli Usa e la Ue, ma che di certo hanno contribuito ad acuire le difficoltà dell'economia russa (si tende a dimenticarlo, ma le previsioni per il 2015 sono di una diminuzione del Pil russo del 3/4%, di una contrazione dei consumi del 5% e di una bilancia dei pagamenti in pesante, ulteriore sofferenza a causa della contrazione degli investimenti e della contestuale fuga di capitali). Obama e gli Stati Uniti dovranno accontentarsi di una Siria dove l'"assadismo" presumibilmente sopravvivrà ad Assad, abbandonando i sogni di democratizzazione del Medio Oriente, come peraltro avvenuto da tempo, al di là della retorica di circostanza e di un interventismo ormai residuale, tenuto in vita solo dal carnevale delle primarie repubblicane. E accetteranno, come di fatto stanno già facendo, il congelamento temporaneo della situazione in Ucraina. A chi parla di ennesima sconfitta di Obama va però ricordato come la Russia non esca affatto rafforzata da questa vicenda e che il Medio Oriente, per quanto importante, non ha più per Washington la centralità strategica di un tempo. Se gran parte dell'Europa è rimasta alla finestra, l'attivismo della Francia si spiega, paradossalmente, proprio con la sua debolezza. Parigi cerca di usare il residuo strumento di potenza di cui dispone - un hard power militare che ancora la distingue nell'Europa continentale - per provare a bilanciare una Ue sempre più germano-centrica e avere voce in capitolo nelle future decisioni sulla Siria. Facendolo, cerca di costruire un'asse con gli Usa, offrendo a Washington una sponda tanto militare, i bombardamenti contro l'Isis, quanto politica: l'inflessibilità sulla necessità che Assad abbandoni il potere. L'Iran, infine, utilizza questa crisi per consolidare il ritrovato ruolo di principale potenza regionale, contribuendo a quella

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mediazione al ribasso che pare offrire l'unico orizzonte possibile e la sola via d'uscita praticabile. Sullo sfondo, minaccioso, si staglia il monito di recenti vicende, in particolare di quella libica, rievocata in più occasioni dal governo italiano. Che, con tutte le differenze del caso, ricorda come il confine tra la calibrata riflessione geopolitica e la stregoneria degli apprendisti sia a volte molto più labile di quanto non si creda. E che sul campo, le più attente e sofisticate strategie a volte provochino gli effetti più inattesi e pericolosi. LA NUOVA Pag 1 Soffia forte il vento catalano di Renzo Guolo Quale effetto può avere il voto catalano sulla stabilità dell’Unione Europea? Enorme se, davvero, il fronte indipendentista spingesse sull’acceleratore della secessione. Senza Catalogna, la regione iberica più ricca e dinamica, la Spagna sarebbe consegnata alla marginalità economica e sociale. Inoltre, il revival indipendentista farebbe immediati proseliti nella regione basca, storicamente sensibile al tema e caratterizzata, in passato, da una violenza armata che ha lasciato il segno. Il vento catalano costringerà, dunque, il potere centrale a un logorante braccio di ferro, fatto di concessioni e moniti, mirato a tenere all’interno del paese gli indipendentisti dei due fronti. Il voto amministrativo catalano, come surrogato del referendum negato dal potere centrale, che a Costituzione vigente risulta precluso, rilancia così un’aspirazione che pareva essersi attenuata nel tempo, grazie a una maggiore autonomia del governo di Barcellona. Ma la “questione fiscale”, sempre più rilevante,qui come altrove, si guardi al Veneto o alla Baviera, ha fatto saltare il banco. I catalani, oltre che per motivi identitari e culturali, sono sempre più insofferenti nei confronti di Madrid: anche perché contribuiscono in materia di trasferimenti finanziari in misura molto maggiore di quanto ricevano dall’amministrazione centrale. Se diventasse indipendente la Catalogna si collocherebbe automaticamente fuori dalla Ue, nella quale possono entrare solo stati riconosciuti. Difficile che la Spagna, così come gli altri paesi che hanno questioni aperte con i loro indipendentisti, si pensi alla Gran Bretagna, non si metta di traverso. Anche perché l’esempio rischia di diventare contagioso. In ogni caso, il processo di adesione di una eventuale Catalogna indipendente all’Unione Europea sarebbe assai lungo e i costi da sostenere per costruire e finanziare un nuovo Stato assai elevati anche per i sostenitori dei vantaggi fiscali della secessione. È prevedibile, invece, che il voto rilanci con forza l’indipendentismo scozzese. Tanto più in vista del referendum voluto da Cameron sulla permanenza o meno di Londra nell’Unione. Più complicata invece la virata di movimenti come la Lega, che pure in passato ha agitato il fantasma della Padania. Salvini è impegnato a conquistare una leadership nazionale, dando per scontata la dissoluzione della destra berlusconiana, avvinghiata, in quel che ne rimane, alle esigenze e gli interessi del suo padre-padrone, immerso in un lungo e crepuscolare autunno che ha come solo effetto quello di paralizzare la costruzione di uno schieramento competitivo con il Pd o il M5S. Non è casuale che, nel tempo, i contenuti padanisti si siano notevolmente affievoliti nella propaganda del Carroccio, per lasciare più spazio a istanze tipiche di movimenti, come il Front National di Marine Le Pen, che gioca un ruolo nazionale nel sistema politico francese. Del resto, la discesa a sud e il proposito di costruire una “Lega Italia” su posizioni antieuropee e ostili agli stranieri, vanifica l’eventuale prospettiva catalana del leghismo. Una netta inversione a U metterebbe in discussione tutta la strategia “lepenista” salviniana. Troppo avanti è ormai quel progetto perché possa essere abbandonato repentinamente in nome della fascinazione per il canto di antiche sirene. Anche perché l’opinione pubblica del Nord ha ben compreso la lezione disciplinare imposta dalla Germania sul caso greco: si parlava a Atene, perché altri, compresa Roma, intendesse. Mostrare l’esempio a reprobi e recalcitranti era un aspetto non secondario nel duro atteggiamento di Berlino. E la lezione, qualsiasi sia il terreno in cui avvenga, è stata compresa. Dunque, difficile che, al di là delle suggestioni di vecchi militanti e l’impazienza di elettori e ceti che reclamano una diversa redistribuzione delle risorse accumulate al centro, la Lega possa tornare a invocare vecchie parole d’ordine. Chiunque sia il candidato alla guida del governo, tanto più fosse Zaia, destinato, semmai, nelle intenzioni, a rassicurare e non a terremotare quella parte

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di destra legata all’unità nazionale, non può pensare di vincere le elezioni con parole d’ordine secessioniste. Tanto più con la nuova legge elettorale. Pag 6 Lo sviluppo sostenibile in 17 mosse di Alfredo De Girolamo e Nazioni Unite hanno preso un impegno serio ed autorevole di fronte al mondo, alla presenza dei principali capi di Stato, incluso il Papa, che a questo tema aveva dedicato pochi mesi prima la sua famosa enciclica Laudato Si’. Impegno, che sarà ripreso da Matteo Renzi oggi, nel suo atteso intervento alla 70ma Assemblea dell’Onu. Lo hanno fatto con i 17 Sustainable Development Goals, gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile, che rappresentano l’orizzonte di azione strategica di tutti i Paesi del mondo da qui al 2030. Un nuovo impegno, che fa seguito a quello assunto nel 2000 - allora gli obiettivi erano otto, in parte raggiunti - ma frutto, questa volta, di una concertazione durata due anni, che ha coinvolto due milioni di persone in 40 Paesi. Il documento, merita per i suoi contenuti, di essere divulgato in tutti i modi e in ogni area del mondo. Gli obiettivi, infatti, sono stati concepiti per definire azioni universali da applicare sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Tre obiettivi sono particolarmente importanti, e ad essi viene attribuito il maggior peso di efficacia del programma globale: consumo e produzione sostenibile (Sdg 12), energia sostenibile (Sdg 7) e lotta al cambiamento climatico (Sdg 13). In questi tre obiettivi c’è la sostanza del “modello di sviluppo”, di politica ambientale ma anche industriale ed economica che il Piano definisce, individuando anche un nuovo e più avanzato ruolo del mondo privato accanto agli attori pubblici. Si indica chiaramente l’obiettivo di un uso efficiente e conservativo delle risorse (materie prime ed energia) nei processi di produzione e consumo, sia sul lato della prevenzione (riduzione dei rifiuti ed efficienza energetica) che su quello della rinnovabilità (riciclaggio dei materiali e fonti rinnovabili), in una logica tesa a contrastare i cambiamenti climatici aumentando la resilienza e l’adattabilità. In questi tre obiettivi c’è uno sforzo e un ruolo grandissimo ed importante per le imprese e l’industria chiamata a fare la sua parte, come prevede in specifico l’obiettivo 9, aumentando la ricerca, facendo investimenti e applicando innovazione e nuove tecnologie sostenibili. Uno scenario di profondo cambiamento non basato unicamente sulle decisioni e le politiche pubbliche, ma su un nuovo ruolo attivo e responsabile delle imprese. Una sfida, quindi, anche per le imprese italiane e, soprattutto, per le aziende di servizio pubblico che operano nei settori dell’energia, del riciclaggio e gestione dei rifiuti, del servizio idrico e della mobilità. Oltre a questi obiettivi strategici, il programma indica anche altre azioni: l’accesso all’acqua e ai servizi igienici e di depurazione (obiettivo 6) e la trasformazione e riqualificazione delle aree urbane (obiettivo 11). Si tratta di due indicazioni destinate ad avere un impatto importante non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche in quelli sviluppati. L’accesso universale all’acqua, la tutela della sua qualità ma soprattutto l’obiettivo di ridurre della metà lo scarico di reflui domestici non depurati e la defecazione all’aperto, rappresentano importanti priorità sia nei paesi poveri che in parte di quelli sviluppati e consentono anche forme di trasferimento di conoscenze e tecnologie sostenibili. Si parla di come «rendere le città sicure, vivibile, resilienti e sostenibili», consapevoli che degli 8,5 miliardi di abitanti della Terra più di metà vivono nelle aree urbane e che queste spesso sono degradate anche nei paesi ricchi. Inoltre, di come rendere le abitazioni decenti, di social housing, trasporti sostenibili ed universali, gestione dei rifiuti e dell’acqua efficiente, protezione dai rischi come le alluvioni. Un’agenda davvero applicabile a Roma come a Nairobi. Altri obiettivi sono quelli tipici dell’agenda “sociale”: la lotta alla povertà, la sicurezza alimentare, il diritto alla salute e alle cure e la lotta alla mortalità, l’accesso gratuito ai servizi educativi, la parità di genere, la giustizia e la lotta al crimine. Insomma abbiamo di fronte quindici anni di profonde trasformazioni per vivere in un mondo migliore. Gli obiettivi dell’Onu ci indicano la strada, i singoli Paesi devono fare la loro parte - anche l’Italia, a partire dal prossimo Green Act, voluto dal governo - e devono assumersi le proprie responsabilità anche i singoli cittadini e le imprese. Torna al sommario

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