Rassegna stampa 19 gennaio 2017 · Pag I Manzoni consiglia il Papa di Robert Sirico ... I capitoli...

31
RASSEGNA STAMPA di giovedì 19 gennaio 2017 SOMMARIO Scrive Gian Antonio Stella oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera: “«Oltre a ciò l’inverno fu rigidissimo e seguirono grande carestia, mortalità di uomini, pestilenza di animali...», scrive fra Jacopo Filippo Foresti del sisma pauroso del gennaio 1117. E ancora gelo e nevicate si accanirono sugli scampati al grappolo di terremoti del gennaio 1703 in Abruzzo. E poi su quelli del gennaio 1915 nella Marsica. La neve, scrisse il Corriere, «ha come voluto collaborare con il terremoto schiacciando tetti già indeboliti...». Non bastasse, calarono i lupi aggirandosi «con particolare insistenza intorno alle macerie». Solo questi racconti riemersi dal passato danno la dimensione epocale di quanto è successo e sta succedendo sul nostro Appennino. Strade bloccate, sfollati con il morale a pezzi e le lacrime gelate sulle guance, soccorsi nel caos, allarmi in un’area sempre più vasta, sfoghi di rabbia contro i ritardi, animali sgomenti che vagano nel nulla... Non ci sono più i lupi. Ma il senso d’impotenza e di un destino ineluttabile che prendeva alla gola i nostri antenati è rimasto intatto. È vero, bufere di neve così violente sono una fatalità. Lanciata una maledizione a Chione, la dea della neve, però, c’è tutto il resto. E lì tirare in ballo il Fato non ha senso. A Pieve Torina in provincia di Macerata la neve ha tirato giù una tensostruttura provvisoria adibita ad asilo. Non c’erano bambini, per fortuna. Ma prima di montarla per metterci la scuola d’infanzia si erano presi la briga di controllare, ad esempio in un saggio di Vincenzo Romeo di Meteomont, il Servizio nazionale di previsione neve e valanghe, le serie storiche dove si spiega che sull’Appennino centro-meridionale nevica, e tanto, per una media di 25 giorni e mezzo a inverno? Fino alle otto di sera sono state registrate, oltre alle quattro scosse di magnitudo 5 o superiore che hanno risvegliato i peggiori incubi, altre 257 botte più o meno violente superiori a 3. E migliaia di minori. E lì neppure, sull’immediato, è possibile far niente: la natura decide, la natura fa. Ma se non si può prevedere «quando» arriveranno nuovi terremoti, gli studi sul nostro passato e le strumentazioni di oggi sono però in grado di ipotizzare «dove» arriveranno. Il sismologo dell’Ingv Gianluca Valensise, per dire, aveva sottolineato due mesi fa: «A sud-est di Amatrice e fino all’Aquila c’è un bel pezzo di crosta terrestre che non ha rilasciato eventi significativi». Insomma, presto o tardi… Qualcuno, allora, avrà toccato ferro. Così come sono ancora troppi quelli che preferiscono evitare certi temi: «Hiiiii! Non portiamo iella». «Non ne possiamo più della cultura della “sfiga”. Basta. È indegna di noi. Della nostra intelligenza. Della nostra storia», è sbottato recentemente Renzo Piano, chiamato a coordinare il progetto Casa Italia, «La natura non è buona o cattiva: se ne infischia di noi. Inutile chiamarla in causa. I terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ed è stupido fingere che non sia così». Parole sante. Che dovrebbero spingere un popolo serio a farsi carico del problema. Giorno dopo giorno. Per anni. Anche nei giorni di fiacca. Senza farsi distrarre via via dai guai di Virginia Raggi, dal voto referendario, dall’elezione di Trump… Tutte cose serie, per carità. Anche in Giappone seguono i fatti del giorno. Ma non perdono mai di vista il tema vitale: la fragilità davanti al rischio sismico. Esattamente due mesi fa c’è stato un terremoto di magnitudo 7,4. Titoli sui giornali: «Solo feriti leggeri». Grazie a decenni di prevenzione. Cosa sarebbe successo, da noi? Sull’emergenza siamo bravissimi. E anche stavolta, grazie agli sforzi e alla generosità della protezione civile, dei militari, dei volontari, stiamo dimostrando come il Paese sappia reagire. È il passo lungo che ci manca. E ci mancherà finché, ad ogni emergenza, ci assolveremo: «Mai successo prima!» Non è vero. Il grappolo di terremoti di tre secoli fa nella stessa area di oggi, come dimostra uno studio di Emanuela Guidoboni e lo stesso Valensise, cominciò nel settembre 1702 e si esaurì, dopo 23 scosse superiori a 6,5 gradi della scala Mercalli (di cui una dell’undicesimo grado!), solo a novembre del 1703. «In questo loco si sta in un inferno aperto sentendosi duecento e trecento volte tra giorno e notte botte come artiglierie», dice una lettera inviata dall’Aquila a Rieti, «e in

Transcript of Rassegna stampa 19 gennaio 2017 · Pag I Manzoni consiglia il Papa di Robert Sirico ... I capitoli...

RASSEGNA STAMPA di giovedì 19 gennaio 2017

SOMMARIO

Scrive Gian Antonio Stella oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera: “«Oltre a ciò l’inverno fu rigidissimo e seguirono grande carestia, mortalità di uomini, pestilenza di

animali...», scrive fra Jacopo Filippo Foresti del sisma pauroso del gennaio 1117. E ancora gelo e nevicate si accanirono sugli scampati al grappolo di terremoti del

gennaio 1703 in Abruzzo. E poi su quelli del gennaio 1915 nella Marsica. La neve, scrisse il Corriere, «ha come voluto collaborare con il terremoto schiacciando tetti già

indeboliti...». Non bastasse, calarono i lupi aggirandosi «con particolare insistenza intorno alle macerie». Solo questi racconti riemersi dal passato danno la dimensione

epocale di quanto è successo e sta succedendo sul nostro Appennino. Strade bloccate, sfollati con il morale a pezzi e le lacrime gelate sulle guance, soccorsi nel caos,

allarmi in un’area sempre più vasta, sfoghi di rabbia contro i ritardi, animali sgomenti che vagano nel nulla... Non ci sono più i lupi. Ma il senso d’impotenza e di un destino ineluttabile che prendeva alla gola i nostri antenati è rimasto intatto. È vero, bufere

di neve così violente sono una fatalità. Lanciata una maledizione a Chione, la dea della neve, però, c’è tutto il resto. E lì tirare in ballo il Fato non ha senso. A Pieve Torina in provincia di Macerata la neve ha tirato giù una tensostruttura provvisoria

adibita ad asilo. Non c’erano bambini, per fortuna. Ma prima di montarla per metterci la scuola d’infanzia si erano presi la briga di controllare, ad esempio in un saggio di

Vincenzo Romeo di Meteomont, il Servizio nazionale di previsione neve e valanghe, le serie storiche dove si spiega che sull’Appennino centro-meridionale nevica, e tanto,

per una media di 25 giorni e mezzo a inverno? Fino alle otto di sera sono state registrate, oltre alle quattro scosse di magnitudo 5 o superiore che hanno risvegliato i peggiori incubi, altre 257 botte più o meno violente superiori a 3. E migliaia di minori. E lì neppure, sull’immediato, è possibile far niente: la natura decide, la natura fa. Ma

se non si può prevedere «quando» arriveranno nuovi terremoti, gli studi sul nostro passato e le strumentazioni di oggi sono però in grado di ipotizzare «dove»

arriveranno. Il sismologo dell’Ingv Gianluca Valensise, per dire, aveva sottolineato due mesi fa: «A sud-est di Amatrice e fino all’Aquila c’è un bel pezzo di crosta terrestre

che non ha rilasciato eventi significativi». Insomma, presto o tardi… Qualcuno, allora, avrà toccato ferro. Così come sono ancora troppi quelli che preferiscono evitare certi temi: «Hiiiii! Non portiamo iella». «Non ne possiamo più della cultura della “sfiga”.

Basta. È indegna di noi. Della nostra intelligenza. Della nostra storia», è sbottato recentemente Renzo Piano, chiamato a coordinare il progetto Casa Italia, «La natura non è buona o cattiva: se ne infischia di noi. Inutile chiamarla in causa. I terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ed è stupido fingere che non sia così». Parole sante. Che dovrebbero spingere un popolo serio a farsi carico del problema. Giorno

dopo giorno. Per anni. Anche nei giorni di fiacca. Senza farsi distrarre via via dai guai di Virginia Raggi, dal voto referendario, dall’elezione di Trump… Tutte cose serie, per

carità. Anche in Giappone seguono i fatti del giorno. Ma non perdono mai di vista il tema vitale: la fragilità davanti al rischio sismico. Esattamente due mesi fa c’è stato

un terremoto di magnitudo 7,4. Titoli sui giornali: «Solo feriti leggeri». Grazie a decenni di prevenzione. Cosa sarebbe successo, da noi? Sull’emergenza siamo

bravissimi. E anche stavolta, grazie agli sforzi e alla generosità della protezione civile, dei militari, dei volontari, stiamo dimostrando come il Paese sappia reagire. È il passo lungo che ci manca. E ci mancherà finché, ad ogni emergenza, ci assolveremo: «Mai

successo prima!» Non è vero. Il grappolo di terremoti di tre secoli fa nella stessa area di oggi, come dimostra uno studio di Emanuela Guidoboni e lo stesso Valensise,

cominciò nel settembre 1702 e si esaurì, dopo 23 scosse superiori a 6,5 gradi della scala Mercalli (di cui una dell’undicesimo grado!), solo a novembre del 1703. «In

questo loco si sta in un inferno aperto sentendosi duecento e trecento volte tra giorno e notte botte come artiglierie», dice una lettera inviata dall’Aquila a Rieti, «e in

appresso sono de terremoti grossissimi che ci fan arricciare li capelli». Meglio saperlo per sfidare il problema o meglio toccare il cornetto di corallo?” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Cancellata la Marcia della Pace di a.spe. La Diocesi rinuncia al tradizionale appuntamento 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 La preghiera dei pagani All’udienza generale Papa Francesco parla del profeta Giona. E nei saluti ai fedeli il Pontefice ricorda l’inizio della settimana ecumenica IL FOGLIO Pag 2 Sarò fesso, ma il cristianesimo di Silence è una farsa insidiosa di Mattia Ferraresi Il Dio di Scorsese è un’icona postmoderna e ambigua che ragiona seconda una logica mondana Pag I Manzoni consiglia il Papa di Robert Sirico I “Promessi sposi” sono l’opera prediletta di Francesco. I capitoli sulla rivolta del pane spiegano i danni dell’interventismo statale in economia. Appunti per la chiesa 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 27 Una moratoria bipartisan sugli esami di Maturità di Pierluigi Battista Pag 29 La morale, una bella cosa. Condividerla è possibile di Paolo Di Stefano I figli che pensano di poter fare tutto ciò che vogliono. E la sfida di portarli dai desideri ai sogni (e alle regole) AVVENIRE Pag 2 Welfare formato vecchiaia di Edgardo Grillo Il sostegno nascosto garantito da tanti nonni 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Venezia e l’agonia dei libri di Roberto Ferrucci Cultura da tutelare IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Clochard, sono quasi cento a Venezia di Tullio Cardona Sempre più anziani, per metà sono stranieri. Per una ventina il Comune ha avviato un percorso di reinserimento 8 – VENETO / NORDEST AVVENIRE Pag 12 Teatro gender, allarme a scuola di Luciano Moia Spettacolo sull’identità di genere. Al via una raccolta di firme CORRIERE DEL VENETO Pag 6 Spettacolo gender a Vicenza e Mira. Donazzan scrive al ministro Fedeli: “Impedisca alle scuole di andarci” di Ma.Bo.

La polemica dell’assessore all’Istruzione Pag 8 L’ultima accusa della vittima: “Don Andrea ha un figlio” di Nicola Munaro e Alessandro Macciò Intanto c’è imbarazzo sui Colli Euganei per il parroco che ha confessato di avere partecipato alle orge: da alcuni giorni un sacerdote è irreperibile IL GAZZETTINO Pag 9 Don Contin, spunta un figlio. E sparisce l’altro prete hard di Marco Aldighieri e Luca Ingegneri Ancora rivelazioni choc della 49enne che ha denunciato il sacerdote Pag 9 “Fermate lo spettacolo sul bimbo senza sesso” di Luisa Giantin L’assessore veneto Donazzan contro il lavoro teatrale per le scuole di scena a Mira. Chiesto l’intervento del ministro LA NUOVA Pag 28 “Bisogna spalmare gli arrivi, tutti i Comuni devono aderire” di Marta Artico Emergenza profughi, l’incontro in Prefettura con il nuovo prefetto Carlo Boffi che ha rilanciato lo “Sprar” che prevede accoglienza e rimpatrio assistito in base al rapporto di tre migranti ogni mille abitanti 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 3 di Gente Veneta in uscita venerdì 20 gennaio 2017: Pagg 1, 4 – 5 Non di solo shopping vive l’uomo di Giulia Busetto e Giorgio Malavasi Obiettivo: portare la vita normale nel centro commerciale. Don Caputo: «Il vuoto non si riempie così». Viaggio tra le nuove strategie di vendita “assorbi-tutto” Pag 1 Cosa c’entra il Vangelo con Venus Venis di Giorgio Malavasi Pag 1 Arriva Trump. Ma noi non saremo comparse inutili di Giampaolo Rossi Pag 10 Umanamente solidi, spiritualmente significativi: così si formino i nuovi preti. Le indicazioni della Ratio Uscito poche settimane fa il nuovo documento della Congregazione per il clero. Il rettore del Seminario patriarcale don Fabrizio Favaro ne sottolinea i punti chiave Pag 11 Tomassone: «Questo Dio plasmato dalle donne» di Margherita Pasini La pastora valdese di Firenze parla delle matriarche della Genesi e del Dio biblico che tesse una complicità tra donne di diversi popoli. Un centinaio di persone a Venezia per ascoltare la biblista fiorentina, docente alla Facoltà valdese di Roma Pag 12 Concretezza e persona, il marchio di fabbrica dei Salesiani di Marta Gasparon L’opera dei discepoli di don Bosco oggi ha anche il volto di Ilenia Labranca, una dei tanti giovani che studiano e si laureano allo Iusve, l’università realizzata, con successo crescente, alla Gazzera. La giovane: «Le cose migliori? L’attenzione data alle persone e il poter mettere in pratica la teoria». Si festeggiano quest’anno i cent’anni di presenza dei Salesiani a Venezia Pag 15 Il nuovo tetto di Chernobyl? Ha fatto i conti con Mestre di Marco Monaco Sono stati fatti dallo studio di ingegneria Bolina i calcoli di una parte della copertura che, dal 29 novembre scorso, ricopre la centrale nucleare esplosa nel 1986. Da via del Gazzato, dov’è lo studio mestrino, al luogo del disastro più grave della storia del nucleare civile: c’è un pezzo della nostra città nell’intervento di messa in sicurezza

Pag 17 “Marco Polo”: verrà da sottoterra l’energia che non inquina di Giorgio Malavasi Tra il 2018 e il 2019 parte il cantiere per il raddoppio dell’aeroporto. Al posto delle fondazioni centinaia di pali geotermici da cui l’impianto trarrà elettricità ma anche caldo e freddo per climatizzare. La nuova centrale di trigenerazione spegnerà quelle a gasolio. Meno rumore, meno spese per l’energia: a Tessera Save rinnova a sue spese la scuola parrocchiale … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non è colpa del destino di Gian Antonio Stella Pag 30 Perché Grillo è diventato la nuova pancia del Paese di Dario Di Vico AVVENIRE Pag 1 La vita è questa di Piero Chinellato Il ritrovato choc, il dovere di ripartire Pag 2 Le bufale sul web e la libertà di dire bugie di Marco Olivetti Limiti e diritti costituzionali. Ma che ruolo ha la Casaleggio? Pag 3 La riunificazione di Cipro: tra gli ostacoli, ma si procede di Eleonora Ardemagni Piccoli passi verso un’intesa. Turchia e Russia le incognite Pag 3 Profughi, lavoro con i voucher di Sandro Lagomarsini Una proposta “eretica” IL GAZZETTINO Pag 1 Casa Italia torni nell’agenda del governo di Oscar Giannino Pag 21 Scosse e psicosi, serve un’educazione su come comportarsi di Enzo Boschi LA NUOVA Pag 1 L’elezione di Tajani divide Berlusconi e Salvini di Massimiliano Panarari Pag 6 Non servono illusioni ma cultura e pazienza di Vittorio Emiliani

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Cancellata la Marcia della Pace di a.spe. La Diocesi rinuncia al tradizionale appuntamento Salta la marcia-veglia per la pace. Quest'anno la diocesi rinuncia all'appuntamento che tradizionalmente si teneva l'ultimo sabato del mese di gennaio. In quella data, su iniziativa della Pastorale sociale e del lavoro, numerosi fedeli di tutte le parrocchie erano soliti radunarsi con il patriarca per pregare in favore della pace, in cammino da una chiesa all'altra e ogni anno in zone diverse della città. Poi il vescovo teneva una riflessione anche a partire dal messaggio diffuso dal Papa in occasione della giornata mondiale che si celebra a Capodanno. L'anno scorso l'evento si era già ridimensionato con solo un momento di veglia tenutosi a Sant'Antonio di Marghera e, adesso, viene cancellato anche quello, cancellando pure i laboratori per la pace che nel pomeriggio si

rivolgevano agli studenti delle scuole superiori e che in qualche edizione avevano raggiunto un buon numero di partecipanti. A quanto pare in diocesi si sta ragionando di recuperare qualcosa più avanti, magari verso marzo o aprile. C'è da capire, poi, se in occasione della festa del primo maggio si terrà o meno la Veglia per il lavoro, anche quella in passato sempre molto frequentata, ma che già l'anno scorso non si è svolta. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 La preghiera dei pagani All’udienza generale Papa Francesco parla del profeta Giona. E nei saluti ai fedeli il Pontefice ricorda l’inizio della settimana ecumenica «Quando le cose diventano buie, occorre più preghiera! E ci sarà più speranza». È la lezione tratta dalla rilettura della vicenda del profeta Giona offerta da Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 18 gennaio, nell’aula Paolo VI. Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Nella Sacra Scrittura, tra i profeti di Israele, spicca una figura un po’ anomala, un profeta che tenta di sottrarsi alla chiamata del Signore rifiutando di mettersi al servizio del piano divino di salvezza. Si tratta del profeta Giona, di cui si narra la storia in un piccolo libretto di soli quattro capitoli, una sorta di parabola portatrice di un grande insegnamento, quello della misericordia di Dio che perdona. Giona è un profeta “in uscita” ed anche un profeta in fuga! È un profeta in uscita che Dio invia “in periferia”, a Ninive, per convertire gli abitanti di quella grande città. Ma Ninive, per un israelita come Giona, rappresentava una realtà minacciosa, il nemico che metteva in pericolo la stessa Gerusalemme, e dunque da distruggere, non certo da salvare. Perciò, quando Dio manda Giona a predicare in quella città, il profeta, che conosce la bontà del Signore e il suo desiderio di perdonare, cerca di sottrarsi al suo compito e fugge. Durante la sua fuga, il profeta entra in contatto con dei pagani, i marinai della nave su cui si era imbarcato per allontanarsi da Dio e dalla sua missione. E fugge lontano, perché Ninive era nella zona dell’Iraq e lui fugge in Spagna, fugge sul serio. Ed è proprio il comportamento di questi uomini pagani, come poi sarà quello degli abitanti di Ninive, che ci permette oggi di riflettere un poco sulla speranza che, davanti al pericolo e alla morte, si esprime in preghiera. Infatti, durante la traversata in mare, scoppia una tremenda tempesta, e Giona scende nella stiva della nave e si abbandona al sonno. I marinai invece, vedendosi perduti, «invocarono ciascuno il proprio dio»: erano pagani (Gn 1, 5). Il capitano della nave sveglia Giona dicendogli: «Che cosa fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo» (Gn 1, 6). La reazione di questi “pagani” è la giusta reazione davanti alla morte, davanti al pericolo; perché è allora che l’uomo fa completa esperienza della propria fragilità e del proprio bisogno di salvezza. L’istintivo orrore del morire svela la necessità di sperare nel Dio della vita. «Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo»: sono le parole della speranza che diventa preghiera, quella supplica colma di angoscia che sale alle labbra dell’uomo davanti a un imminente pericolo di morte. Troppo facilmente noi disdegniamo il rivolgerci a Dio nel bisogno come se fosse solo una preghiera interessata, e perciò imperfetta. Ma Dio conosce la nostra debolezza, sa che ci ricordiamo di Lui per chiedere aiuto, e con il sorriso indulgente di un padre, Dio risponde benevolmente. Quando Giona, riconoscendo le proprie responsabilità, si fa gettare in mare per salvare i suoi compagni di viaggio, la tempesta si placa. La morte incombente ha portato quegli uomini pagani alla preghiera, ha fatto sì che il profeta, nonostante tutto, vivesse la propria vocazione al servizio degli altri accettando di sacrificarsi per loro, e ora conduce i sopravvissuti al riconoscimento del vero Signore e alla lode. I marinai, che avevano pregato in preda alla paura rivolgendosi ai loro dèi, ora, con sincero timore del Signore, riconoscono il vero Dio e offrono sacrifici e sciolgono voti. La speranza, che li aveva indotti a pregare per non morire, si rivela ancora più potente e opera una realtà che va anche al di là di quanto essi speravano: non solo non periscono nella tempesta, ma si aprono al riconoscimento del vero e unico Signore del cielo e della

terra. Successivamente, anche gli abitanti di Ninive, davanti alla prospettiva di essere distrutti, pregheranno, spinti dalla speranza nel perdono di Dio. Faranno penitenza, invocheranno il Signore e si convertiranno a Lui, a cominciare dal re, che, come il capitano della nave, dà voce alla speranza dicendo: «Chi sa che Dio non cambi, [...] e noi non abbiamo a perire!» (Gn 3, 9). Anche per loro, come per l’equipaggio nella tempesta, aver affrontato la morte ed esserne usciti salvi li ha portati alla verità. Così, sotto la misericordia divina, e ancor più alla luce del mistero pasquale, la morte può diventare, come è stato per san Francesco d’Assisi, “nostra sorella morte” e rappresentare, per ogni uomo e per ciascuno di noi, la sorprendente occasione di conoscere la speranza e di incontrare il Signore. Che il Signore ci faccia capire questo legame fra preghiera e speranza. La preghiera ti porta avanti nella speranza e quando le cose diventano buie, occorre più preghiera! E ci sarà più speranza. Grazie. «Comunione, riconciliazione e unità sono possibili»: lo ha ribadito il Pontefice salutando come di consueto i gruppi di fedeli al termine dell’udienza generale del 18 gennaio, giorno in cui ha inizio la settimana dedicata alla preghiera per l’unità dei cristiani. Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i giovani venuti dalla Francia e i pellegrini della Nuova Caledonia. Oggi inizia la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. La nostra speranza di unità si esprime attraverso la nostra preghiera, è una speranza che non delude. Vi invito a pregare per questa intenzione. Dio vi benedica. Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente quelli provenienti da Nuova Zelanda, Filippine, Canada e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica! Rivolgo un saluto ai pellegrini di lingua tedesca. All’inizio della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, in particolare do un cordiale benvenuto alla delegazione dell’Itinerario Europeo Ecumenico, guidata dalla Signora Preside Annette Kurschus. Cari fratelli e sorelle, la vostra tappa a Roma è un importante segno ecumenico, che esprime la comunione raggiunta tra noi attraverso il cammino di dialogo nei decenni scorsi. Il Vangelo di Cristo è al centro della nostra vita e unisce persone che parlano lingue diverse, abitano in Paesi diversi e vivono la fede in comunità diverse. Ricordo con commozione la preghiera ecumenica a Lund, in Svezia, il 31 ottobre scorso. Nello spirito di quella commemorazione comune della Riforma, noi guardiamo più a ciò che ci unisce che a ciò che ci divide, e continuiamo il cammino insieme per approfondire la nostra comunione e darle una forma sempre più visibile. In Europa questa comune fede in Cristo è come un filo verde di speranza: apparteniamo gli uni agli altri. Comunione, riconciliazione e unità sono possibili. Come cristiani, abbiamo la responsabilità di questo messaggio e dobbiamo testimoniarlo con la nostra vita. Dio benedica questa volontà di unione e custodisca tutte le persone che camminano sulla strada dell’unità. Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en particular a los grupos provenientes de España y Latinoamérica. En la oración, nuestra esperanza no se ve defraudada. En esta Semana de oración que hoy iniciamos pidamos insistentemente al Padre por la unidad de todos los cristianos. Que Dios los bendiga. Con sentimenti di grata stima vi saluto, carissimi pellegrini di lingua portoghese, in particolare voi, giovani del gruppo «The Brazilian Tropical Violins», ricordando a tutti che oggi inizia l’Ottavario di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, un motivo in più di appello alla nostra comunione di preghiere e di speranze. Il movimento ecumenico va fruttificando, con la grazia di Dio. Il Padre celeste continui a riversare le sue benedizioni sulle orme di tutti i suoi figli. Sorelle e fratelli carissimi, servite la causa dell’unità e della pace! Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Medio Oriente! Cari fratelli e sorelle, la preghiera è la chiave che apre il cuore misericordioso di Dio. È la più grande forza della Chiesa, che non dobbiamo mai lasciare. Siate “perseveranti e concordi nella preghiera” come la Madonna e gli Apostoli! Il Signore vi benedica! Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Fratelli e sorelle, oggi inizia la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, il cui motto è per noi una sfida: L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione. Preghiamo il Signore affinché tutte le Comunità cristiane, conoscendo meglio la propria storia, teologia e diritto si aprano sempre di più alla riconciliazione. Ci pervada lo Spirito di benevolenza e comprensione, come anche la voglia di collaborare. A Voi qui presenti e a coloro che si uniscono

attraverso la preghiera, imparto di cuore la Benedizione. Saluto i pellegrini croati! Con particolare gioia sono lieto di accogliere i bambini e i giovani della Bosnia ed Erzegovina, insieme con le famiglie ospitanti della Sicilia. Cari ragazzi, trascorrendo il tempo insieme come fratelli e sorelle nelle famiglie che vi ospitano, avete l’opportunità di crescere in un clima di speranza. Solo così, voi giovani cattolici, ortodossi e musulmani, potrete salvare la speranza per vivere in un mondo più fraterno, giusto e pacifico, più sincero e più a misura d’uomo. Rimanete sempre saldi nella fede e pregate per la pace e l’unità del vostro Paese e del mondo intero. Ringrazio di cuore le famiglie ospitanti per l’esempio di amore e di solidarietà cristiana: gli orfani vanno sempre difesi, protetti e accolti con amore. Vi assicuro la mia spirituale vicinanza e imparto a tutti voi la Benedizione Apostolica. Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto il pellegrinaggio delle Suore Agostiniane Serve di Gesù e di Maria, i Religiosi Agostiniani e l’Associazione Notai Cattolici, accompagnata dall’Arcivescovo di Assisi, Mons. Domenico Sorrentino. A tutti formulo l’auspicio che la visita alla Città Eterna stimoli ciascuno ad approfondire la Parola di Dio per poter riconoscere in Gesù il Salvatore. Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Oggi inizia la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno ci fa riflettere sull’amore di Cristo che spinge alla riconciliazione. Cari giovani, pregate affinché tutti i cristiani tornino ad essere un’unica famiglia; cari ammalati, offrite le vostre sofferenze per la causa dell’unità della Chiesa; e voi, cari sposi novelli, fate esperienza dell’amore gratuito come è quello di Dio per l’umanità. IL FOGLIO Pag 2 Sarò fesso, ma il cristianesimo di Silence è una farsa insidiosa di Mattia Ferraresi Il Dio di Scorsese è un’icona postmoderna e ambigua che ragiona seconda una logica mondana Al termine di un affascinante percorso fatto di punti di domanda e ferite aperte, Maurizio Crippa condanna senza scampo l'errore di chi giudica Silence un film contro il vero cristianesimo. "E' una lettura da fessi", certifica. E io, che sono talmente fesso da non riuscire nemmeno ad afferrare l'opposizione fra dottrina e abbraccio che sta alla base della sua recensione, sono tentato di perseverare diabolicamente nella fesseria. Silence è un film monumentale che ci insegna tante cose - Maurizio le spiega da par suo, inutile ricapitolare - e fuor di trama ci insegna qualcosa sulla stoffa umana del suo regista, Martin Scorsese, uno che nella vita si è fatto le domande decisive e ha covato per decenni l'opera che è il frutto maturo, adulto, di tutto questo corpo riflessivo che è inevitabilmente sacro, religioso, questuante e proteso verso le cose ultime. L'esasperazione del dramma umano è il tesoro di questo film. Il problema è che viene tragicamente sperperato quando la tensione viene in qualche modo risolta. Come testimonianza intorno al senso religioso, per usare la nota formula di don Giussani, Silence è un capolavoro. Come rappresentazione del cristianesimo una farsa, ma molto insidiosa. Qual è l'insidia? Il silenzio, innanzitutto. Il Dio di Silence tace. Non è una voce criptica e intermittente, non è la latens deitas adorata da Tommaso, né il Dio enigmatico del popolo d'Israele, che contemporaneamente si vela e si svela in un costante dialogo che ha le sue pause, ma non si interrompe mai. Qui non dice nulla. I segni della sua presenza non si vedono, nemmeno le semplici comunità dei kakure kirishitan, pur nella loro commovente devozione, sembrano animate dall'impossibile speranza che il cristianesimo ha introdotto nelle loro vite, non s'intuisce il riflesso in questo mondo di una luce che viene dall'altro mondo. Forse la rappresentazione è storicamente fasulla, ma è quella che Scorsese ci offre, uno spaccato di vita devozionale denso di elementi superstiziosi in cui il "paraiso" è un luogo dove "nessuno ha fame, nessuno si ammala, non ci sono tasse e non si lavora". E' la fede dei semplici, certo, ma è dall'inizio del cristianesimo che i semplici sono ammessi in forma privilegiata alla sapienza, mentre quelli che si credono sapienti sono confusi. Quando Dio si decide infine a parlare lo fa attraverso il fumi-e che l'inquisitore vuole che padre Sebastião Rodrigues infine calpesti, atto d'abiura che nelle parole degli aguzzini è "soltanto una formalità" e per il maestro di un tempo, padre Cristóvão Ferreira, è "il più doloroso atto d'amore mai compiuto nella storia". Il Cristo dell'icona dà ragione agli uni e all'altro: "Vieni avanti ora. Va tutto bene.

Calpestami. Capisco il tuo dolore. Sono venuto al mondo per condividere il dolore degli uomini. Ho portato la croce per il tuo dolore. Calpestami". I cristiani che già avevano fatto apostasia e stavano subendo l'atroce tortura della fossa soltanto a causa dell'orgogliosa ostinazione di Rodrigues vengono liberati all'istante, il dolore cessa. Ferreira lo aveva detto chiaro: "Se Cristo fosse qui avrebbe fatto apostasia per loro". Avrebbe anche trasformato i sassi in pane nel deserto? Sarebbe sceso dalla croce per convincere i soldati romani che era davvero il figlio di Dio? Chi è il presuntuoso, l'ostinato, quello che soffre e genera sofferenza negli altri per non tradire il Bene supremo, oppure quello che con il suo gesto che lenisce afferma "tutto è nelle mie mani"? Il paradosso di Borges Sia chiaro: la vicenda che Scorsese presenta con scorticante potenza di immagini è un groviglio tragico di dilemmi morali che nessuno può permettersi di ridurre o irridere. Ma il regista, seguendo il romanzo di Endo, non racconta soltanto la storia della debolezza umana, offre una teoria del martirio. Naturalmente non la enuncia, ma la implica e la mostra. Rodrigues non dice "ti calpesto perché sono debole, un peccatore sopraffatto da circostanze insopportabili" ma dice "ti nego perché tu mi hai detto che è ok". Nell'unico, fatale momento che interrompe il silenzio, Dio dice a Rodrigues che l'interruzione del dolore degli uomini è più importante della testimonianza resa a Lui, che tanto ha già vinto il male e la morte. Non c'è più bisogno che qualcuno si metta su quella via dolorosa. L'abbraccio della condizione umana viene prima di tutto. Seguendo questa logica fino in fondo bisognerebbe infine accettare il paradosso di Borges e abbracciare Giuda come vero messia, lui che per permettere la storia della salvezza ha pagato con la dannazione eterna, mentre chi è onnipotente se la cava con un patimento di tre giorni. Non sarà proprio un caso che Kichijiro, il personaggio che sempre tradisce e sempre ritorna al confessionale di Rodrigues, sia accostato all'Iscariota (didascalica la scena in cui le guardie dell'inquisitore gli scagliano le monete d'argento ai piedi) ma che Scorsese dica che è "un po' Gesù" e lo ritenga il personaggio più affascinante, perché è quello che rimane sempre al fianco del prete. In questo silenzio divino, l'abbraccio e la compassione vincono sull'ostinazione dogmatica, sulla stolida battaglia di principio. La questione che mi fa grattare il mio capo di fesso di fronte a un Gesù che pronuncia parole a un tempo lenitive e tentatrici è che per secoli e secoli aveva detto il contrario. La chiesa è fondata sui martiri, tanto che per molto tempo la figura del santo è coincisa con quella del martire, e i primi martirologi nemmeno menzionavano come questi uomini e donne avessero vissuto, concentrandosi esclusivamente sulla loro morte, cioè sul dies natalis. Martire significa testimone - precisazione ginnasiale - ma testimone di cosa? Santa Felicita, imprigionata e in preda al dolore per il parto imminente, risponde così al suo carceriere che, vedendola soffrire, la schernisce domandandole cosa farà una volta che la getteranno in pasto alle fiere: "Adesso sono io che soffro ciò che soffro; ma allora ci sarà un altro in me, che soffrirà per me, perché anche io sto per soffrire per lui". E' la comunione con la passione di Cristo il contenuto della testimonianza dei martiri, i quali mostrano con la loro sofferenza ciò che san Paolo insegna ai Galati: "Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me". E' qualcosa di più, e certamente di diverso, di un umano eroismo. Quella dei martiri è una saga fatta di vita, non di morte, e le testimonianze scritte e iconografiche rappresentano i martiri come uomini invasi innanzitutto da una irriducibile letizia, che poi è la stessa laetitia dell'amore cristiano cui fa riferimento Francesco. Una morte lieta? E' una figura del paradosso cristiano. Marco Aurelio, imperatore stoico, non è impressionato tanto dalla resistenza dei cristiani alla persecuzione - ha visto molte testimonianze della resilienza umana - ma dal fatto che, a differenza degli altri, loro la desiderano, la abbracciano, la loro prontezza alla morte viene "da un proprio giudizio individuale", e questo è inaudito anche fra gli stoici, che pure sopportano impassibili le circostanze avverse. Sant'Ignazio di Antiochia arriva a pregare che le belve non si facciano confondere, non esitino: "Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò", scrive nella lettera ai Romani, invocando con zelo il martirio: "Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo". Ignazio sa bene che questo sconfinato amore può apparire folle e assurdo, e infatti specifica: "Perdonatemi, so quello che mi conviene". Ci sono innumerevoli testimonianze in questo senso, e

all'orecchio moderno suonano agghiaccianti e scandalose. Sono parole da fessi. Ma non è il cristianesimo il più grande scandalo che abbia attraversato la storia? Non è il rovesciamento delle concezioni mondane d' ogni tempo? La fesseria suprema? Il "giudizio individuale" di questi testimoni che Marco Aurelio non riusciva proprio ad afferrare implicava che esistesse un bene più grande anche della vita materiale, propria e altrui, e a questo giudizio non erano certo arrivati con le lezioni di teologia, era l esperienza della vita cristiana a suggerirlo. Testimoniarlo era un atto di suprema convenienza, per quanto il Scorsese non riesce a tenere questo livello, e infatti ci racconta magistralmente l'umano e il disumano, ma sul sovrumano pasticcia, e infine arretra. Come? Rappresentando un Cristo postmoderno e ambiguo che ragiona secondo una logica mondana, che non crede davvero che il sacrificio compiuto nel suo nome possa dare frutto, e suggerisce ai suoi tribolati discepoli un'abiura per ragioni umanitarie. Ragioni sacrosante per la misura umana, che non concepisce come una persona possa mandare a morte altre persone per il rifiuto di calpestare una stupida tavoletta. Ancora: la questione non è certo l'apostasia di due preti gesuiti, che è un fatto di umana debolezza, di peccato, quanto il fatto che sia Dio stesso a giustificarla, sigillandola come giusta e perfino virtuosa. Questo abbassamento del tiro, uno scarto in cui la misericordia degrada in compassione e la grazia in abbraccio, ha un prezzo già evidente nella vicenda del film. Padre Rodrigues, che pure rimane cristiano nel nascondimento dopo l'abiura, conduce una vita agiata e triste, senza dolore ma anche senza letizia. Nelle note di scena, Scorsese scrive queste indicazioni nel taglio in cui un gruppo di bambini canzona il prete apostata: "Non riesce a sentirli. Sorride. Il sorriso è triste. Ma tutta la tensione se n'è andata dal suo volto. Il dolore è svanito". Endo è ancora più esplicito nel rimarcare la distanza fra l'ardente missionario che sfida l'inquisitore sull'universalità della Verità cristiana e il serafico "prete caduto" che conserva la fede in un Dio privato, intimo, avulso dalla storia: "Sono caduto, ma Signore, tu solo sai che non ho rinunciato alla mia fede. [...] Il mio Signore però è diverso dal Dio che si predica nelle chiese". La tentazione è ammettere che il Dio del prete caduto non solo è diverso, ma è anche migliore di quello delle chiese - dei teologi, dei sapienti, dei preti pedofili, dei cardinali con i dubia - perché è più umano. E qui casca il fesso. Don Giussani raccontava un episodio emblematico. Diversi suoi studenti del liceo Berchet erano andati a vedere Il piccolo diavolo e il buon Dio di Jean-Paul Sartre, in scena al Piccolo Teatro, e in classe alcuni "ripetevano con aria sardonica certe battute riferite a Dio". "Io facevo notare loro, molto tranquillamente, che quello che stavano deridendo era il dio di Sartre, vale a dire un dio per me inattendibile, che non coincideva per nulla con quello in cui io credevo". Non saprei dire con la stessa sicurezza esibita da Maurizio se Silence è un film contro il vero cristianesimo, ma mi pare un' opera sul dio di Scorsese, che è molto interessante ma per me inattendibile. Pag I Manzoni consiglia il Papa di Robert Sirico I “Promessi sposi” sono l’opera prediletta di Francesco. I capitoli sulla rivolta del pane spiegano i danni dell’interventismo statale in economia. Appunti per la chiesa Analizzare la letteratura per supportare qualsiasi programma politico, economico e sociale non è una pratica rara. Tuttavia, bisogna farlo con grande attenzione. Vedere l'alta cultura attraverso un prisma critico e ideologico riduttivo, spesso rischia di sminuire il contributo che la letteratura dà alla cultura. Come se la totalità del lavoro di un artista fosse visualizzata dalla parte sbagliata di un telescopio. In questa epoca postmoderna piena di decostruzione, diventa fin troppo facile inventare un argomento per cui anche gli elementi più banali della nostra cultura meritano di essere considerati. Accade attraverso le mani di chi ne trae un buon tornaconto. Ho seguito con interesse un'intervista di Papa Francesco in cui fa riferimento ad alcuni autori di letteratura che piacciono anche a me (Romano Guardini, Robert Hugh Benson, Gerard Manley Hopkins, sant'Agostino, Henri de Lubac, ecc.) e cita uno dei miei eroi, Alessandro Manzoni. Manzoni aveva una personalità affascinante. Cresciuto in gran parte dalle sue balie, certamente "ne ha combinate di tutti i colori" come si suol dire, finché si è finalmente sistemato. E' tornato a praticare la sua fede e, evidentemente, ha fatto convertire sia la moglie che la madre. Manzoni potrebbe aver ereditato la sua sensibilità liberale dal nonno materno Cesare Beccaria, che si dice abbia anticipato in qualche modo le teorie

economiche di Adam Smith. Ora, diamo uno sguardo alla tradizione del liberalismo cattolico italiano, a cui di rado si fa riferimento e che viene sottovalutato. Manzoni era anche un amico di un altro liberale italiano del XIX secolo, il grande sacerdote, teologo e filosofo Antonio Rosmini, autore di tante opere come La costituzione secondo la giustizia sociale, a cui ho dato il mio contributo alla prima edizione inglese. Come si è visto, Papa Francesco è un fan di Manzoni. Dopo la Divina Commedia di Dante, I promessi sposi è probabilmente la più grande opera della letteratura italiana. Papa Francesco parla di quanto questo romanzo significhi per lui durante una lunga intervista del 2013 con Antonio Spadaro: "Ho letto il libro I promessi sposi tre volte e ce l'ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand' ero bambino, mi ha insegnato a memoria l'inizio di questo libro: 'Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...". I promessi sposi è, come il suo titolo suggerisce, un'epica storia d'amore che ripercorre le peripezie del fidanzamento tra Lorenzo Tramaglino e Lucia Mondella attraverso la magnifica campagna del territorio lacustre italiano e di Milano. Anche se scritta nei primi anni del XIX secolo, l'azione del romanzo si svolge nel bel mezzo del XVII secolo e descrive eventi e personaggi storici. Non è un problema svelare la trama. Sarete sollevati di sapere che il ragazzo ritrova la ragazza e alla fine si sposano. Tuttavia, è ciò che succede durante le loro avventure che rende I promessi sposi un romanzo coinvolgente e istruttivo. L'antagonista del romanzo, Don Rodrigo, è uno spagnolo che esercita il controllo sulla regione della Lombardia, cosa che accadeva nel XVII secolo. Quando Manzoni pubblicò il romanzo nel 1827, la Lombardia era già sotto la dominazione dell'Impero austriaco, quindi alcuni ipotizzano che Manzoni, nella sua opera, stesse tracciando un paragone con l'occupazione imperiale. I promessi sposi mette in scena dettagliatamente le realtà storiche della Guerra dei Trent' anni e della pestilenza dell' Italia settentrionale. Manzoni descrive l'impatto negativo del controllo dei prezzi in tutta la Lombardia in particolare, ma anche dappertutto in Italia, con una comprensione straordinaria della scienza economica. Una ragionevole interpretazione dell' economia è, purtroppo, rara per molte delle nostre élite colte la cui ignoranza in campo economico frequentemente nutre antagonismi di classe. Non è mia intenzione offrire un pieno apprezzamento dei meriti letterari di I promessi sposi, che è già stato fatto molto bene in tanti altri scritti nella Paris Review, Italica e da Edgar Allen Poe nel The Southern Literary Messenger, per citarne alcuni. Io desidero semplicemente fornire una breve panoramica dei capitoli XI e XII, dove si nota una visione economica profonda di Manzoni nella sua descrizione della povertà provocata dalle attività umane. Nel capitolo XI accompagniamo Renzo mentre entra a Milano e scopre una carenza di pane lungo il suo cammino da Monza (citazioni tratte da Biblioteca dei classici italiani): "Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch'era farina. 'Grand'abbondanza', disse tra sé, 'ci dev'essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna'. Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d'un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a' suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. 'Vediamo un po' che affare è questo', disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. 'E' pane davvero!' - disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia - 'Così lo seminano in questo paese? In quest'anno? E non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo?'". Da qui, Manzoni - nei pensieri di Renzo - anticipa la visione che Karl Marx e Friedrich Engels avrebbero enucleato più avanti nel secolo XIX. Renzo si accorge "che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento". Manzoni osserva che Renzo "non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell' opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl' incettatori e da' fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l'alimento che essi, secondo quell'opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo". Nel capitolo

successivo, tuttavia, Renzo riesce a comprendere che il pane e la farina che ha trovato per caso sono semplicemente eccedenza rispetto a periodi precedenti. Ma nel 1628, il raccolto è stato un fallimento, cosa che Manzoni attribuisce alle intemperie, alla guerra e alle conseguenze impreviste della tassazione sui contadini "i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità". Ciò che è stato coltivato, Manzoni afferma, è stato raccolto a casaccio, cosa che ha contribuito alla conseguente scarsità: "Con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro". L'uso di Manzoni della parola "salutevole" per descrivere la conseguenza dell' aumento dei prezzi evidenzia la sua comprensione del modo in cui la legge della domanda e dell'offerta si riflette sui prezzi. Quando è permesso ai prezzi di aumentare, i segnali vengono inviati a chiunque in ricerca di un guadagno (sia a livello locale che in zone più lontane) per trovare una soluzione alla crisi. Manzoni capiva che le divisioni di classe erano distruttive e illusorie. Dimenticando i princìpi della domanda e dell'offerta, il popolo potrà trovare altre ragioni per l'aumento dei prezzi, compresi gli spauracchi: "Gl'incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. E poi, economicamente parlando, Manzoni colpisce in pieno l'obiettivo raccontando i tentativi fatti dallo stato per mitigare le carenze che le sue stesse politiche hanno contribuito a creare. Tra le "soluzioni" dello stato raccontate da Manzoni troviamo la fissazione dei prezzi, sanzioni applicate ai commercianti che non rispettano i prezzi prestabiliti, e altri regolamenti. Secondo Manzoni, tale è la miopia dello stato che ignora la soluzione più ovvia: attirare le importazioni da aree che riconoscono le eccedenze. Il peggioramento della situazione, a sua volta, aumenta le suppliche dalla popolazione affinché lo stato intervenga ancora di più. Manzoni traccia una chiara analogia con dei politici che si comportano "come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo". Mi viene in mente cosa diceva Milton Friedman: "C'è un modo infallibile per prevedere le conseguenze di un programma sociale statale che si propone di raggiungere fini meritevoli. Scoprire ciò che le persone ben intenzionate e con interessi pubblici si aspettavano di realizzare sostenendo l'attuazione del programma. Poi invertire le loro aspettative. Si avrà una previsione accurata dei risultati effettivi". Manzoni è un'imponente figura per il contributo che ha dato alla letteratura italiana. Il mio obiettivo nel portare l'opera di Manzoni su questioni economiche è quello di individuare una tradizione sensata nel pensiero cattolico sull'economia e richiamare l'attenzione di Papa Francesco su questa tradizione in fonti che egli stesso ritiene già credibili. Tutto ciò non è tanto diverso dal pensiero del predecessore di Papa Francesco, Pio XI, il quale ha scritto nella sua enciclica del 1931 Quadragesimo anno: "Sebbene l'economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggino sui princìpi propri, sarebbe errore affermare che l'ordine economico e l'ordine morale siano così disparati ed estranei l'uno all'altro, che il primo in nessun modo dipenda dal secondo. Certo, le leggi, che si dicono economiche, tratte dalla natura stessa delle cose e dall'indole dell'anima e del corpo umano, stabiliscono quali limiti nel campo economico il potere dell' uomo non possa e quali possa raggiungere, e con quali mezzi; e la stessa ragione, dalla natura delle cose e da quella individuale e sociale dell'uomo, chiaramente deduce quale sia il fine da Dio Creatore proposto a tutto l'ordine economico... (Quadragesimo anno, n. 42). Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della

funzione suppletiva dell' attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello stato stesso. (Quadragesimo anno, n. 81)". Certo, Papa Francesco non è molto interessato a questioni economiche. Infatti, ha ammesso a un gruppo di giornalisti a settembre del 2015 che aveva "una grande allergia all'economia". Di conseguenza, probabilmente ha colto i collegamenti fatti da Manzoni nella sua opera classica. Un'altra scrittrice tra le mie preferite, che credo pure il Papa apprezzerebbe, ha fatto un' osservazione convincente in un contesto diverso, ma appartenente a questo argomento. Si tratta di Flannery O' Connor, che nel suo saggio The Church and the Fiction Writer ha scritto: "E' comune supporre che chiunque sia in grado di leggere l' elenco telefonico possa leggere un racconto o un romanzo, ed è più che comune trovare tra noi cattolici la convinzione che, dal momento che possediamo la verità nella Chiesa, possiamo usare prontamente questa verità come strumento per giudicare questioni di qualunque disciplina in qualsiasi momento a prescindere dalla natura della propria disciplina". Ci sono certe realtà economiche che, in nessun modo, riguardano una priorità o un'idolatria dei soldi rispetto all'uomo, l'avidità o altri errori morali commessi liberamente. Ma quando queste realtà sono ignorate creano davvero "un'economia che uccide", per dirla con una frase già sentita. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 27 Una moratoria bipartisan sugli esami di Maturità di Pierluigi Battista Proposta per una moratoria bipartisan: per una decina d’anni, il tempo di due legislature possibilmente complete, lasciare la Maturità così com’è. Bella o brutta che sia, ma sempre quella. Qualcosa che trasmetta un minimo di stabilità, che non sia al rimorchio della follia di questi decenni dove gli esami di Maturità sono cambiati a ritmo vorticoso, una riformicchia dietro l’altra senza una pausa. Con gli studenti che non sanno quello che accadrà tra un anno. Con le famiglie continuamente destabilizzate. Le aspettative frustrate. Modifica un criterio, piazza una tesina, togli la tesina, includi il voto di condotta come media per l’ammissione, escludi, includi di nuovo, cambia le materie, ripristina quelle di prima. Basta: moratoria. Il tasso di serietà degli esami di Maturità è crollato con tutti questi cambiamenti che non rispondono mai a un criterio, a un progetto duraturo, a un’idea di come debba essere la scuola. Un esercizio ossessivo di micro-cambiamenti senza senso che serve solo a soddisfare il narcisismo inconcludente della classe politica. Sulla Maturità sono stati scritti romanzi, girati film, create canzoni come quella di Antonello Venditti. Ma oggi quel rito è diventato l’angoscioso tentativo di studenti, insegnanti e famiglie di capirci qualcosa, di star dietro alle acrobazie insensate che cambiano quello che c’era l’anno prima che a sua volta era l’antitesi dell’anno prima e così via: senza costrutto, senza significato. E allora i partiti si mettano d’accordo almeno su questo: non cambino niente per un congruo periodo di tempo, poi possono ricominciare con la smania di modificare commi e codicilli per compensare la loro ansia di inutilità. Fissino le modalità di una moratoria. Dimostrino un barlume di serietà, da destra, da sinistra, ovunque. Altrimenti zero in condotta (che non fa neanche media). Pag 29 La morale, una bella cosa. Condividerla è possibile di Paolo Di Stefano I figli che pensano di poter fare tutto ciò che vogliono. E la sfida di portarli dai desideri ai sogni (e alle regole) Una questione di regole? Certo, ma cosa intendiamo quando parliamo di regole? Bella domanda. Regole quotidiane di comportamento, doveri, obbedienza? Marina Valcarenghi, la psicoterapeuta che ha lavorato a lungo sui rapporti tra genitori e figli, non ha dubbi: «Le regole da recuperare sono quelle della morale: per tenere a freno la violenza non solo fisica dei figli, sempre più dilagante, non serve imporre o vietare. L’unica difesa è trasmettere una struttura morale». Già ma come si ottiene questa struttura morale? «Si forma nei figli insegnando loro, molto presto, il rispetto della vita e

del vivere insieme, il rispetto di alcuni valori fondamentali come la verità, la giustizia, l’onestà. Il figlio spesso si chiede: perché non posso fare quel che voglio? È la struttura morale, elaborata dalla nostra coscienza collettiva ma trasmessa individualmente per via soprattutto familiare, a favorire l’inibizione. Se manca questa morale, tutto diventa permesso, anche dare sfogo alle pulsioni violente». La fatica di dire «no» - «Molto presto». Quanti sono i genitori che lamentano di non essere più (sottolineato più) in grado di far valere delle norme di comportamento ai propri figli adolescenti. Emanuela, madre milanese di due figlie (15 e 11 anni), non fa fatica ad ammetterlo: «La difficoltà è dire di no: in una società in cui tutto è semplice e immediato, bisogna spiegare, giustificare quasi, ogni divieto. Non basta un “no”, e a volte si finisce per dire sì per sfinimento». Specialmente i padri. Non c’è dubbio che i padri rimangono l’anello debole. Giuseppe, che insegna a Milano e ha due figlie di 17 e 21 anni, spiega il problema di trovare un «equilibrio tra il concedere e il non concedere», compresa «la preoccupazione di risparmiare loro i sacrifici e anche le sofferenze che abbiamo vissuto noi cinquantenni crescendo con genitori molto autoritari». E aggiunge: «È una forma di generosità che se diventa eccessiva rischia di soffocare i figli senza farli crescere, perché poi basta un voto negativo o una sgridata a farli precipitare. Quel che mi dispiace è che avendo il mondo a portata di mano, non conoscono l’incanto, la sorpresa, al punto che non hanno sogni ma solo desideri». E confessa che il «carabiniere», in casa, è sua moglie, che pure lavora. Ammirevole consapevolezza. Controllo senza autorità - Stephana, biologa, ha una figlia di 11 anni e la prima parola problematica che pronuncia è «controllo»: «Sono spesso assente per lavoro e mia figlia viene seguita per lo più dai nonni, a cui posso essere solo grata». Controllo ma necessariamente senza autorità, dice, né materna né paterna. Claudia è maestra d’asilo, divorziata, con un figlio quattordicenne: «I bambini di oggi, sin da molto piccoli, si confrontano tanto con i loro coetanei e al genitore viene richiesto di adattarsi. Sono molto pochi i genitori che fanno resistenza ai modelli esterni, ma non è facile. Quando poi sono grandi, diventa ancora più difficile motivare le limitazioni, dissuaderli dal contesto, perché il ragazzo ha acquistato una forza maggiore di fronte alla quale il genitore si sente sempre più debole». Forse si parla sin troppo della fragilità degli adolescenti, ma non abbastanza di quella dei genitori: «Se i figli non ubbidiscono - osserva Valcarenghi - è perché riconoscono la debolezza dell’autorità genitoriale. Ma la buona educazione non è l’obbedienza o il dovere, è il rispetto del prossimo e di se stessi. Pochi genitori si occupano di questo, ci si limita a dire: non accettano le regole. Educare un figlio a essere una persona perbene costa molto, è un piacere complicato, che richiede delle spiegazioni morali». Già, ma oggi la parola «morale» fa pensare subito ai buoni sentimenti del tempo che fu: «I genitori non capiscono che la violenza è un istinto, mentre la morale è una conquista culturale a cui bisogna applicarsi subito con dolcezza e con decisione. Il vero guaio è che spesso neanche i genitori la conoscono: e come fai a insegnare un concetto che non conosci? Le regole? Sono spesso gli adulti a non rispettarle». La famiglia affettiva - E poi c’è il narcisismo di cui parlava Antonio Polito nel suo articolo e in cui rientra anche l’incapacità dei genitori a reggere la disapprovazione dei figli. Evitare in tutti i modi lo scontro aperto è un imperativo. «Siamo passati da una famiglia normativa a una famiglia affettiva, - riflette Matteo Lancini, psicoterapeuta presidente della Fondazione milanese Minotauro - per cui il bambino è diventato un soggetto prezioso, un protagonista la cui pubertà mentale viene anticipata: non più un soggetto da civilizzare o da punire ma da comprendere. La vicinanza è l’elemento costitutivo della famiglia odierna, ma è una vicinanza virtuale non fisica per le madri, mentre il padre, più debole, è molto più affettivo e “marsupiale”, non genera più sofferenze e distanze. Il bambino è al centro della scena, è un piccolo re cui tutto viene concesso e che genera grandi attese: deve socializzare, esprimere liberamente i propri talenti, impone i suoi amici, al punto che i genitori frequentano i genitori dei suoi compagni, eccetera. Quando poi diventa adolescente, gli si dice: “adesso basta, è stato uno scherzo” e arrivano i no, i divieti, i limiti. Troppo tardi, con un tredicenne, cercare di rimediare alle esagerazioni proponendogli nuovi modelli educativi». È lì che salta fuori il conflitto: «A quel punto il richiamo alle regole viene percepito come una ferita narcisistica da cui a volte nascono reazioni contro di sé o contro gli altri, oppure la tentazione di ritirarsi dalla società (sono i casi di hikikomori ). È come se le aspettative ideali proprie o maturate in famiglia

crollassero di colpo, e di fronte a questa nuova situazione di blocco l’adolescente talvolta prova a rimuovere l’ostacolo in modo violento per rimettersi in linea con le sue attese ideali: il fatto è che in adolescenza devi fare i conti non più con gli ideali ma con quel che sei davvero, e qui nasce il dolore mentale e la frustrazione a cui non sei abituato». Senza dimenticare che i genitori hanno ormai dei concorrenti formidabili: «L’impatto del marketing fa maturare l’idea che il successo è ciò che produci, e internet, gli smartphone, i social hanno aumentato il potere orientativo dei coetanei e del mondo esterno. La relazione familiare è ancora forte ma non esclusiva. D’altra parte internet l’abbiamo inventata noi... Ma per mettere in gioco questi problemi, io sostengo che si debba ripartire dai corsi pre-parto». AVVENIRE Pag 2 Welfare formato vecchiaia di Edgardo Grillo Il sostegno nascosto garantito da tanti nonni Vi è un esercito silenzioso e operoso, molte volte claudicante, che nell’economia delle nostre famiglie ha un ruolo vitale, spesso più decisivo e costruttivo di quello delle migliaia di badanti e collaboratrici che si occupano delle mansioni domestiche. Sono gli oltre tre milioni di nonni che si prendono cura dei loro nipoti, sostituendosi a genitori occupatissimi e senza tempo. Il loro lavoro, il più delle volte oscuro e poco apprezzato lo svolgono, oltre che senza retribuzione, con la passione e la dedizione che gli deriva dal legame di sangue e dalla consuetudine di vita con bambini che li riportano nel gioioso passato, ormai perso, di genitori. In tal senso i nonni danno tantissimo, perché il loro dedicarsi ai nipoti si avvale di consumata esperienza, di un amore che vien da lontano e va più lontano, di un’attenzione impregnata dalla saggezza del loro lungo vissuto, dall’istinto di protezione che si rinnova e si fortifica nel passaggio generazionale. Tuttavia i nonni ricevono anche molto, in termini di affettività, di occupazione del tempo libero, di finalità esistenziali. Perché, come diceva il grande geriatra Francesco Antonini «il vecchio deve sempre poter aspettare qualcuno o qualcosa, senza questa speranza, muore». Ma oltre a questo slancio sentimentale e all’aspetto concreto come l’aiuto tangibile e fattivo offerto ai figli nella gestione della vita quotidiana dei nipoti (va peraltro ricordato che lo stretto legame tra nonni e nipoti non è pedagogicamente ottimale), vi è un altro risvolto di grande rilievo che rende essenziale e imprescindibile il ruolo dei nonni. In un periodo di enormi fatiche per tante famiglie a far quadrare i conti, l’apporto economico di moltissimi anziani è decisivo per figli e nipoti in difficoltà. Si calcola in un milione e mezzo il numero di nonni che offre aiuto economico abituale a figli e nipoti e in cinque milioni coloro che lo fanno saltuariamente. Un welfare parallelo che prospera senza alcun aiuto pubblico, e il modo più efficace e altruistico per scongiurare in parte quella realtà di cui scriveva Camus: «Non essere più ascoltati, questa è la cosa terribile quando si diventa vecchi». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Venezia e l’agonia dei libri di Roberto Ferrucci Cultura da tutelare L’immagine è desolante, arrivi poco prima di Campo San Giovanni e Paolo e là dove l’occhio coglieva puntuale i colori delle copertine e dei titoli della Librairie Française, ora c’è solo del grigio, a oscurare la vetrina. Niente più colori dei libri, niente più storie, niente più quella sensazione, guardando la vetrina, di essere a Parigi, e poi entrare e comprarne qualcuno, per affinare il tuo francese, o anche solo provare a capirne qualcosa. È l’ennesima libreria a chiudere a Venezia, fra l’indifferenza generale, soprattutto delle istituzioni cittadine. Questa strage culturale non riguarda soltanto Venezia, ma Venezia è la città dove è nato il libro e un minimo di riguardo in più non guasterebbe. Sono tanti i motivi che costringono i librai a chiudere, ma c’è una questione di fondo, al contempo assurda e sciocca: considerare la libreria come un puro

esercizio commerciale. Il libraio è da sempre un vero e proprio operatore culturale che offre ai cittadini del territorio ciò che le istituzioni non offrono più da anni e anni: promozione (e produzione) culturale. La sua è una funzione educativa. Per le istituzioni cultura è sinonimo di museo, di patrimonio artistico, qualcosa insomma di facilmente monetizzabile. Per quale motivo le librerie non possono usufruire, almeno a Venezia, delle stesse tutele di musei e chiese? Forse perché continuiamo ad avere un «ministero dei beni culturali», che con questo nome si occupa soprattutto del patrimonio artistico e storico, e non invece – come altrove – un «ministero della cultura», che dovrebbe dedicarsi anche della produzione culturale e della sua diffusione. Il paradosso è che, mentre le vere librerie chiudono, i media italiani e internazionali, stanno esaltando un magazzino che, non lontano da dove stava la bellissima libreria francese, ha montagne di libri buttati alla rinfusa, trattati come si trattano le cose smesse che butti in soffitta, ma siccome si affaccia su un canale, e dentro c’è una gondola piena di libri, e il «libraio» sembra un pirata, viene definita la più bella libreria del mondo. Alt. Il mestiere di libraio è una cosa seria, così come le librerie. La «libreria» in questione ha il nome suggestivo di «Acqua alta», e non può nemmeno considerarsi un bouquiniste (quelli che vendono i libri usati sulle rive della Senna, per esempio), che hanno l’amore per i libri e con passione li mettono in ordine, li proteggono. Ecco, la mitizzazione di «Acqua alta», conferma una visione sempre più frequente della cultura come folclore, oltre che a ribadire l’immagine cartolina di Venezia. Intanto, la città si spopola e al posto delle vere librerie aprono ristoranti. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Clochard, sono quasi cento a Venezia di Tullio Cardona Sempre più anziani, per metà sono stranieri. Per una ventina il Comune ha avviato un percorso di reinserimento Quasi un centinaio in centro storico, altrettanti in terraferma. Questa è la situazione dei senza fissa dimora, i cosiddetti clochard. «La loro presenza è molto fluida - afferma Simone Venturini, assessore alle Politiche sociali - alcuni sono in transito e si fermano per breve tempo, altri risultano più stanziali. Secondo i dati in nostro possesso, gli stabili risiedono maggiormente a Venezia, mentre in terraferma sono difficilmente quantificabili perché assistiamo a contesti di semplice transito. Per metà sono stranieri, per l'altra metà italiani, ma ciò che preoccupa è l'età, perché la media dei loro anni sta avanzando e quasi nessuno è più giovanotto. «Il settore sociale del Comune si occupa di rifornirli di generi di prima necessità, come vestiario, bevande e coperte. Inoltre li aiutiamo ad accedere ai servizi minimi, ovvero sanitari, d'anagrafe e di rimpatrio, indicando loro dove trovare da dormire e pasti caldi. Per venti di questi abbiamo anche avviato un percorso di reinserimento e di lavoro. In queste giornate fredde abbiamo messo a disposizione 45 posti letto, in pronta accoglienza emergenziale. Dal primo di dicembre, nel centro storico, abbiamo contattato 84 persone, fra le quali 5 donne». La situazione dei clochard ha interessato in questi giorni l'opinione pubblica grazie alle vicende di due di essi: Pasquale Aita e Lorenzo Storti. Il primo, tedesco di 42 anni che frequenta la zona di Piazzale Roma, ha ricevuto dalla Questura l'imposizione di far ritorno in Germania, contestata da alcuni consiglieri regionali e da quanti hanno imparato a volergli bene. Il secondo si posizionava da anni nel portico della Banca D'Italia, a Rialto, ed è tornato ad Ancona accompagnato dalla sorella, che lo ha riconosciuto dopo 15 anni, grazie alle immagini di un programma televisivo. Della sua storia si sta interessando il programma tv La vita in diretta. «Non siamo stati informati del foglio di via ad Aita - conclude Venturini - la Questura non ha preso contatti con il settore sociale del Comune. Per quanto riguarda Storti era ben conosciuto e seguito, ma aveva sempre rifiutato qualsivoglia proposta di assistenza. Confermo, però, che aveva una sorella ad Ancona, ma questa non ci ha interpellati, perciò non abbiamo notizie ufficiali in merito al ricongiungimento». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST

AVVENIRE Pag 12 Teatro gender, allarme a scuola di Luciano Moia Spettacolo sull’identità di genere. Al via una raccolta di firme Non sappiamo se Alex sia un bambino affetto da disturbi dell’identità di genere oppure se la sua patologia riguardi la differenziazione sessuale. Nel primo caso siamo nell’ambito delle sofferenze psicologiche, nel secondo dell’endrocrinologia pediatrica. Situazioni preoccupanti che, va però detto, sono per fortuna rarissime. Meno di tre casi su cento per i disturbi identità di genere. Un neonato su cinquemila per i disordini dello sviluppo sessuale. Parliamo comunque di problemi molti seri che – senza l’intervento di un’equipe di specialisti – possono incidere in modo profondo sullo sviluppo psicofisico dei bambini come Alex. Disagi, conflittualità e sofferenze vanno comunque messe in conto. Una recente ricerca dell’Università di Firenze su adolescenti colpiti da Dig (disturbi dell’identità di genere) ha spiegato che l’83% ha avuto pensieri di suicidio, il 54% lo ha tentato, il 46% è dedito alla prostituzione, il 21% ha tentato l’automutilazione. Ci siamo dilungati un po’ con questi dati scientifici ma era indispensabile per inquadrare il problema in modo non ideologico e non emozionale. Perché questa è la premessa minima che – opportunamente adatta ai vari livelli di comprensione – andrebbe fatta nelle scuole prima di portare bambini e ragazzi ad assistere a 'Fa’afafine - Mi chiamo Alex e sono un dinosauro'. Spettacolo teatrale in cui un bambino vive problemi identitari che lo portano a credersi un giorno femmina e l’altro maschio. E che, proprio per la confusione che ha in testa, non sa se incontrare il suo amico Eliott vestito da principessa o da giocatore di calcio. Un esempio simpatico per insegnare ai bambini la tolleranza e prevenire episodi di bullismo? No, solo lo sfruttamento di una sofferenza psicologica in nome di quell’utopia che si chiama autodeterminazione dell’orientamento sessuale e che neppure la finzione teatrale riesce a strappare alla sua dimensione patologica. Alex non è un «bambino speciale », un gender creative child come vorrebbe raccontare il regista e autore dello spettacolo, Giuliano Scarpinato. Nella realtà i bambini come lui sono soltanto piccoli alle prese con un disagio profondo che molto spesso, nei casi almeno di indifferenziazione sessuale, non ha altri sbocchi se non la sala operatoria. Prima di cantare le gioie del terzo sesso o del 'genere fluido' sarebbe il caso di consultare qualche specialista di pediatria o qualche psicologo coraggioso – che non tema di essere censurato dal suo ordine professionale per discriminazione di genere – e verificare se l’eventualità sia davvero così auspicabile e così lieve. Parliamo di 'Fa’afafine - Mi chiamo Alex e sono un dinosauro' perché da lunedì prossimo la rappresentazione – che già da un paio d’anni suscita polemiche e interventi risentiti da parte dei genitori – riprende il suo tour in giro per l’Italia, 23 appuntamenti da Udine a Lucca. E, presentandosi come spettacolo per le scuole, saranno migliaia i ragazzi dagli 8 ai 16 anni che lo vedranno. Per bloccare l’iniziativa è partita una petizione (www.citizengo. org) che ha raccolto in pochi giorni 18mila firme. Ieri anche l’assessore alla scuola della Regione Veneto, Elena Donazzan, ha chiesto l’intervento del ministro Fedeli. Obiettivo quello di responsabilizzare i genitori e invitare gli insegnanti a non accostarsi a un tema così difficile e così complesso senza una preparazione accurata. Non è in discussione il valore artistico dello spettacolo, ma un problema serio come quello dell’identità sessuale non dev’essere banalizzato e neppure 'offerto' ai ragazzi come occasione per superare gli stereotipi di genere. Almeno non prima di aver stabilito quali sono gli stereotipi sulla base di un’antropologia rispettosa della complementarietà maschile-femminile. CORRIERE DEL VENETO Pag 6 Spettacolo gender a Vicenza e Mira. Donazzan scrive al ministro Fedeli: “Impedisca alle scuole di andarci” di Ma.Bo. La polemica dell’assessore all’Istruzione Venezia «Oggi per Alex è un giorno importante: ha deciso di dire ad Elliot che gli vuole bene, ma non come agli altri, in un modo speciale. Cosa indossare per incontrarlo? Il vestito da principessa o le scarpette da calcio? Occhiali da aviatore o collana a fiori? Alex ha sempre le idee chiare su ciò che vuole essere: i giorni pari è maschio e i dispari è femmina, dice. Ma oggi è diverso: è innamorato, per la prima volta, e sente che tutto questo non basta più. Oggi vorrebbe essere tutto insieme, come l’unicorno, l’ornitorinco,

o i dinosauri». Lo spettacolo teatrale di cui avete appena letto un brano della sinossi s’intitola «Fa’afafine - Mi chiamo Alex e sono un dinosauro», l’ha scritto e lo dirige Giuliano Scarpinato ed è interpretato da Michele Degirolamo. Andrà in scena il 7 marzo al Teatro Astra di Vicenza e il giorno successivo a Villa dei Leoni di Mira, Venezia. Pluripremiata e patrocinata da Amnesty International, la piece ruota attorno al delicato argomento del «gender», che aspri dibattiti ha scatenato in passato, anche in Veneto (dalla sala negata a Padova alla filosofa Michela Marzano alla mozione approvata dal consiglio regionale). Anche «Fa’afafine» - il nome con cui gli abitanti delle Isole Samoa chiamano «il terzo sesso» - non fa eccezione. L’assessore all’Istruzione Elena Donazzan, che già nel settembre del 2015 scrisse a tutti presidi del Veneto chiedendo loro di «non creare confusione o fraintendimento facendo propaganda ideologica con la teoria Gender», ieri ha ripreso carta e penna rivolgendosi direttamente al ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli per chiederle di impedire alle scuole di assistere allo spettacolo di Scarpinato. «Migliaia di bambini e adolescenti saranno condotti dalle scuole a uno spettacolo che ha l’intento dichiarato di mettere in crisi la loro identità sessuale, la loro stabilità psicoaffettiva - scrive Donazzan, che riferisce di aver ricevuto numerose segnalazioni da genitori e nonni – Uno spettacolo che veicola e legittima l’ideologia gender, quella per cui nascere biologicamente maschi e femmine non avrebbe niente a che vedere con la nostra “vera” sessualità, che invece può essere scelta, cambiata, modellata e riformulata a piacimento senza alcun punto di riferimento oggettivo; quella per cui l’uomo e la donna non sono naturalmente complementari; quella per cui qualsiasi unione affettiva ha lo stesso valore sociale e antropologico del matrimonio; quella per cui non esistono mamma e papà, ma genitore 1, 2, 3, 4...». Si vedrà quel che risponderà il ministro Fedeli, peraltro da sempre impegnata nelle politiche di genere, anche a scuola, nel frattempo a Donazzan rispondono gli assessori di Mira Orietta Vanin (Istruzione) e Nicola Crivellaro (Cultura): «Come ribadito più volte dagli studiosi, la teoria gender non esiste. Temi così importanti vanno trattati con estrema serietà e rispetto, senza fare terrorismo psicologico: in tutte le classi che assisteranno allo spettacolo le insegnanti miresi hanno svolto un percorso di preparazione e sensibilizzazione, scegliendo dopo attenta valutazione un prodotto artistico di altissima qualità, vincitore di numerosi premi». Pag 8 L’ultima accusa della vittima: “Don Andrea ha un figlio” di Nicola Munaro e Alessandro Macciò Intanto c’è imbarazzo sui Colli Euganei per il parroco che ha confessato di avere partecipato alle orge: da alcuni giorni un sacerdote è irreperibile Padova. Un figlio. Quello che don Andrea aveva già, quello che don Andrea voleva ancora dalla sua amante prediletta. È l’ennesima rivelazione, il colpo di scena che non t’aspetti, quello che arriva leggendo le pagine della denuncia con cui, il 6 dicembre scorso, una parrocchiana di 49 anni, madre e divorziata, ha vuotato il sacco davanti ai carabinieri della stazione di Padova principale. Il suo racconto, fatto di sesso al limite, botte e pressioni psicologiche, si è trasformato nell’inchiesta che il 21 dicembre ha portato i carabinieri e il pm Roberto Piccione nella canonica di San Lazzaro, parrocchia periferica di Padova, dove don Andrea Contin – indagato per violenza privata e favoreggiamento della prostituzione – era parroco da dieci anni. Da quando era arrivato a sostituire don Paolo Spoladore, sacerdote spretato dal Vaticano per un figlio che il tribunale gli aveva fatto riconoscere a forza. Adesso però l’eco di quelle vicende sembra essere tornato sotto il campanile di San Lazzaro. Nella denuncia portata ai carabinieri, la 49enne (che non era l’unica donna del sacerdote, ma è stata la sola a denunciarne le orge con altri maschi e altri preti: uno ha anche confessato), ha spiegato che don Andrea si vantava di avere già un figlio di circa 4 anni. Un bambino che vivrebbe lontano dalla parrocchia e sul quale non ci sono atti d’indagine da parte dei carabinieri e della procura. Ma è il passo successivo ad attirare ancora di più l’attenzione. La (presunta) vittima avrebbe fatto scrivere in denuncia che più di una volta don Andrea le aveva proposto di diventare madre di un suo secondo, figlio. Offerta che la donna non ha mai accettato, ma che ha voluto rendere nota a chi indaga sulla base delle otto pagine diventate perno dell’inchiesta. E sono sempre quei fogli, ora nelle mani dei carabinieri del maresciallo Alberto di Cunzolo, a raccontare di altre gesta erotiche del sacerdote,

adesso ospite in una casa protetta a Trento, da dove ha chiesto di essere lasciato solo e dimenticato. Sono soprattutto i viaggi e i fine settimana che don Andrea si regalava, spesso in compagnia della stessa parrocchiana, a finire sotto la lente d’ingrandimento della procura. Weekend in Croazia, a Novi Grad e Lovran, distante da tutti e dai suoi dover ministeriali. E poi le camere prenotate, sempre in incognito, in un agriturismo non distante dal casello dell’autostrada di Grisignano (Vicenza), meta nota per gli scambi di coppia e per il sesso di gruppo. Lì don Andrea e la quarantanovenne erano clienti quasi fissi. Giochi erotici e scambi che spesso finivano nel perverso. Il picco, si legge nella denuncia, sarebbe stata la richiesta di don Andrea che, alla sua amante, aveva proposto un viaggio in una stalla di Pavia dove lei, sotto i suoi occhi, avrebbe avuto un rapporto sessuale con un cavallo. Intanto lo scandalo si estende dal capoluogo ai Colli Euganei, cioè alla zona da cui proviene l’altro prete che venerdì scorso ha ammesso di avere partecipato alle orge di don Andrea (senza per questo finire sotto inchiesta, dato che non avrebbe commesso alcun reato). Dalle parrocchie dell’area di Rovolon, paese collinare di cinquemila anime noto per aver ospitato gli arresti domiciliari dell’ex governatore Giancarlo Galan, da qualche giorno è sparito uno dei sacerdoti che anche ieri risultava irrintracciabile. Don Claudio Zuin, parroco della vicina Bastia di Rovolon, invece è rimasto al suo posto: «Questa vicenda provoca un senso di smarrimento e di rammarico - dice -. Se sapessi chi è il sacerdote in questione, gli chiederei com’è avvenuto, perché l’ha fatto e cosa l’ha spinto a cadere in questo intrigo. Ciò che so lo leggo dai giornali, sto facendo fatica a orientarmi». Oltre all’imbarazzo e allo spaesamento, tra i preti dei Colli Euganei prevale il nervosismo e l’insofferenza per una situazione che si sta facendo insostenibile e che rischia di tramutarsi in una caccia alle streghe: «Questo è un dramma che coinvolge e spiazza tutti, non capisco perché abbiate cercato proprio me», risponde per esempio don Andrea Segato, parroco di Bresseo. Don Roberto Garavello, parroco di Lozzo Atestino, butta giù la cornetta senza tanti complimenti. Don Franco Marin (parrocchia di Torreglia) si chiama fuori: «Io ho sessant’anni, quindi non c’entro. Nella zona dei Colli i parroci sono pochi, ma non so proprio chi possa essere quello che ha confessato in procura. Sentori di incontri a luci rosse? Non ne ho mai avuti, anche perché mi dicono tutti che sono un po’ ingenuo. Questa storia è una ferita che si allarga giorno dopo giorno: è meglio dire le cose come stanno al più presto e scusarsi, ricordandosi che il popolo di Dio è più propenso a perdonare i peccatori che a compatire i furbi». «È bene che queste vicende vengano a galla ed è giusto fare chiarezza, anche per preservare l’integrità morale degli altri sacerdoti – osserva don Sandro Panizzolo, parroco di San Giuseppe a Monselice -. Se non si sa chi è il prete che partecipava a questi incontri, si rischia di creare un clima di diffidenza tra i fedeli di tutte le parrocchie. La fragilità ci può essere, ma tenere i piedi in due staffe e vivere nell’ambiguità è moralmente sbagliato: finché si resta bisogna rimanere limpidi, altrimenti si esce. Se il sacerdote in questione mi chiedesse un consiglio, glielo darei volentieri. Ma dubito molto che si faccia vivo». IL GAZZETTINO Pag 9 Don Contin, spunta un figlio. E sparisce l’altro prete hard di Marco Aldighieri e Luca Ingegneri Ancora rivelazioni choc della 49enne che ha denunciato il sacerdote Ha un nome il secondo sacerdote coinvolto nelle orge di San Lazzaro. È infatti don Roberto Cavazzana, 41 anni, parroco di Rovolon, il prete che ha avuto rapporti sessuali con l'ex amante del collega don Andrea Contin. Venerdì scorso il parroco del piccolo paese collinare è stato interrogato per 6 ore in Procura come persona informata sui fatti. Davanti al pm Roberto Piccione non ha potuto fare altro che ammettere la sua partecipazione ai festini a luci rosse. È lui il sacerdote di cui la 49enne impiegata di San Lazzaro fa nome e cognome nella denuncia. Ma è soprattutto l'uomo immortalato nei filmini hard sequestrati in canonica. Don Andrea si metteva dietro alla telecamera e lo riprendeva quando don Roberto si scatenava con la 49enne. Da 3 giorni don Cavazzana è però introvabile: ha celebrato messa domenica mattina poi ha fatto perdere le proprie tracce. In canonica a Carbonara non c'è nessuno da lunedì. Nessuno l'ha più visto, neppure don Claudio, altro parroco del paese. Al telefono non risponde anche se si dice sia comunque in zona. Si è rifugiato forse dai genitori, che, a Torreglia, gestiscono un

noto ristorante con albergo. «No, mio figlio non è qui. Lo trova in parrocchia» risponde l'anziana madre che forse non sa ancora nulla. Don Roberto non è un prete qualsiasi. Qualche anno fa era salito alla ribalta delle cronache come padre spirituale della showgirl Belen Rodriguez. Avrebbe dovuto celebrarne le nozze col ballerino Stefano, ma si era tirato indietro all'ultimo momento per l'eccessiva pressione mediatica. Intanto l'amante 49enne di don Andrea Contin, l'ex parroco di San Lazzaro a Padova che è indagato per favoreggiamento della prostituzione e violenza privata, ha fatto una rivelazione choc ai carabinieri. L'ha messa nera su bianco sulle 5 pagine di denuncia presentate lo scorso sei dicembre: «Don Contin ha un figlio di 4 anni avuto con un'altra donna, e un altro lo voleva da me». Gli inquirenti, nei prossimi giorni, sentiranno l'altra donna: il suo racconto potrebbe essere utile alle indagini. Ma chi indaga sta continuando a lavorare e i carabinieri stanno passando al setaccio lo stato patrimoniale di don Contin. Il prete è stato visto più volte, in compagnia di un'altra parrocchiana 51enne, al volante di una Jaguar F Type coupè bordeaux da 70 mila euro. Un bolide troppo costoso per un semplice parroco. Al volante dell'auto di lusso bazzicava al Cavallino, sul litorale veneziano. Nei locali della zona amava spacciarsi per un medico legale di Padova. E poi ci sono le stanze affittate in un agriturismo di Grisignano (Vi), dove il don andava con la sua ex amante per gli scambi di coppia. Senza dimenticare le vacanze estive all'estero che ha trascorso a Novigrad in Istria e a Lovran. Soldi, tanti, troppi per un sacerdote. Infine in quelle 5 pagine di denuncia della parrocchiana c'è un'altra rivelazione choc: la donna ha raccontato ai carabinieri che un giorno don Contin la avrebbe invitata per una gita a Pavia in una stalla, dove poi avrebbe dovuto accoppiarsi con un animale. L'ex amante ha avuto la forza di dirgli di no. Pag 9 “Fermate lo spettacolo sul bimbo senza sesso” di Luisa Giantin L’assessore veneto Donazzan contro il lavoro teatrale per le scuole di scena a Mira. Chiesto l’intervento del ministro «Quello spettacolo va bloccato, mina la stabilità dei bambini». L'assessore regionale Elena Donazzan boccia senza appello un testo teatrale in programma nei prossimi mesi a Vicenza e a Mira, in provincia di Venezia, dove è in programma l'8 marzo a Villa dei Leoni. Fa'afafine. Ciao, mi chiamo Alex e non sono un dinosauro racconta la storia di un bambino che non vuole essere maschio né femmina. E si riapre così la polemica gender. L'assessore veneta all'Istruzione ha scritto al ministro Valeria Fedeli chiedendole di bloccare la visione dello spettacolo da parte delle scuole. «I bambini e gli adolescenti sostiene l'esponente della giunta Zaia - saranno condotti dai docenti a uno spettacolo che ha l'intento dichiarato di mettere in crisi la loro identità sessuale, la loro stabilità psicoaffettiva». Immediata e ferma la replica dell'assessore alle Politiche educative del Comune di Mira, Orietta Vanin: «La teoria gender non esiste dichiara - I temi affrontati nell'opera sono importanti e vanno trattati con estrema serietà e rispetto, senza fare terrorismo psicologico». Lo spettacolo, il cui testo e la regia sono di Giuliano Scarpinato, è incentrato sulla figura di Alex, bimbo che vorrebbe essere Fa'afafine, che nella lingua di Samoa definisce coloro che sin da piccoli non amano identificarsi in un sesso o nell'altro. Alex nel racconto vuole dire a Elliot che gli vuole bene, ma in un modo unico. Cosa indossare per incontrarlo? Il vestito da principessa o le scarpette da calcio? Lo spettacolo è risultato vincitore del premio Scenario Infanzia 2014 e rientra a Mira nella rassegna Teatro Scuola da anni fiore all'occhiello della programmazione al teatro di Villa dei Leoni. «L'adesione delle scuole allo spettacolo sul bambino transgender va bloccata al ministero ha spiegato la Donazzan. - Sulla base della maledetta ideologia gender: quella per cui nascere biologicamente maschi e femmine non avrebbe niente a che vedere con la nostra vera sessualità, che invece può essere scelta e cambiata a piacimento». A Mira l'assessora del Movimento 5 Stelle Vanin difende lo spettacolo. «In tutte le classi che presenzieranno allo spettacolo le insegnanti miresi hanno svolto un percorso di preparazione e sensibilizzazione ha spiegato - valutando attentamente quali fossero le migliori proposte teatrali da offrire agli alunni all'interno dell'ampia e diversificata programmazione per l'infanzia». LA NUOVA Pag 28 “Bisogna spalmare gli arrivi, tutti i Comuni devono aderire” di Marta Artico

Emergenza profughi, l’incontro in Prefettura con il nuovo prefetto Carlo Boffi che ha rilanciato lo “Sprar” che prevede accoglienza e rimpatrio assistito in base al rapporto di tre migranti ogni mille abitanti Venezia. Sprar, ossia Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, nuovo bando di accoglienza e rimpatrio assistito. Sono questi i temi affrontati ieri durante la cosiddetta “cabina di regia” che si è svolta in prefettura: Carlo Boffi, il nuovo prefetto di Venezia, ha incontrato i sindaci (una quindicina i presenti) dei comuni della città metropolitana per affrontare l’emergenza migranti. Un incontro interlocutorio, durante il quale il prefetto ha ascoltato i primi cittadini e cercato di sensibilizzarli ad aderire quanto più possibile allo Sprar: modalità secondo la quale l’ente locale accede al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo per realizzare progetti di accoglienza integrata, solo che in questo caso gestisce il bando in proprio ed evita sorprese dell’ultimo minuto, perché chi abbraccia lo Sprar ha già raggiunto il tetto di accoglienza. Inoltre, il coefficiente massimo applicato per comune è del 3 per mille, quindi un territorio come Cona di circa 4 mila abitanti, potrebbe accogliere massimo 12 migranti. Un modo per “spalmare” i richiedenti nei 44 comuni. «Lo scopo della riunione era instaurare un dibattito profondo e articolato con i sindaci, affrontare le linee generali e le ricadute sul territorio. Abbiamo esaminato i numeri e sono stati snocciolati tutti i dati dello Sprar, ossia l’accordo Anci-Ministero per l’equa redistribuzione dei richiedenti asilo. I sindaci hanno dimostrato massima apertura mentale nel capire la drammaticità della situazione». Le armi in mano alla Prefettura per distribuire i migranti sono due: lo Sprar e la modifica del bando. «Il concetto», esordisce, «è che la chiusura è un boomerang: se non mi prendo nessuno nel territorio e il comune vicino a me accoglie i migranti, i richiedenti gravitano nel mio territorio senza un ristoro. A volte è meglio affrontare la situazione nell’interesse di tutti». Al centro del dibattito il caso dell’hub di Conetta: «Il sindaco ha un numero elevatissimo di migranti, che cerchiamo di alleggerire con prudenza, erano 1.450 al 30 dicembre, ora sono 1.240». Oggi la prefettura riuscirà a spostarne altri 23. «Chiaro che ciò non significa risolvere la situazione, ma è un alleggerimento sostanzioso che mettiamo in atto senza creare ulteriori problemi in altre località». I sindaci hanno posto domande sui vantaggi della rete Sprar. «In questo caso, il comune accoglie i richiedenti in proporzione al territorio, un comune come Cona ne avrebbe 12, ma la partita la gestirebbe l’amministrazione». Che presenta il progetto, il sistema organizzativo e incasserebbe direttamente il versamento dello Stato. Il comune copre la sua quota e basta. «Questo sistema», spiega il prefetto, «funziona se tutti vengono inseriti nella rete Sprar». Ma se i comuni dicono no, il palco crolla. E si passa ai bandi per l’individuazione di centri di accoglienza straordinaria, dove entra in gioco chi partecipa al bando, e con il rischio di avere numeri maggiori. Vedi Conetta. Se c’è poca accettazione dei bandi, la struttura che ha disponibilità è costretta a prenderne di più. «L’anomalia di Cona non deriva dalla scelta di qualcuno, ma dall’impossibilità di una idonea collocazione negli altri comuni». Se Cona avesse accettato lo Sprar, non sarebbe stata aperta la base. «Spero che ci sia una maggiore disponibilità e apertura, anche perché alcune amministrazioni comprendono che una posizione di chiusura non porta vantaggi ma danni». Lo Sprar significa vantaggi economici, l’utilizzo dei migranti in attività utili, compensazione economica dei disagi legati all’accoglienza e in prospettiva i famosi 500 euro a migrante. La Prefettura ha fatto partire una lettera alle cooperative che si occupano di accoglienza migranti, nella quale chiede suggerimenti che possano facilitare il nuovo bando che dovrebbe essere predisposto a stretto giro, forse già la settimana prossima. Ad esempio la modifica di requisiti di partecipazione, l’esperienza richiesta, i numeri (abbassare la quota minima). E poi c’è il rimpatrio, ossia l’accompagnamento assistito, sul quale il ministro punta. Di Cie, ex centri di espulsione che dovrebbero diventare centri di rimpatrio, si è discusso poco, perché l’incontro con il ministro è saltato. «Il mio auspicio è che anche i sindaci non presenti partecipino in futuro agli incontri, anche se sono contrari, perché le soluzioni sono migliori se condivise». Boffi ci tiene anche a rettificare un messaggio, quello dei guadagni delle cooperative che sfrutterebbero l’accoglienza. «Se davvero fosse così, ci sarebbe una forte partecipazione alle gare. Cosa che non avviene, perché l’offerta è minore rispetto ai numeri di cui diamo la disponibilità. Questo messaggio è ingeneroso verso i lavoratori delle cooperative venete, va contro l’impegno di tanti. Poi ok, qualche cosa non va, ma

non ci sono situazioni di sfruttamento». In merito a un arrivo di 50 migranti da Catania, il prefetto ha confermato di aver rappresentato le problematiche del territorio e di aver bloccato gli invii. Venezia. «Oggi non è emersa nessuna idea sull’alleggerimento di Cona». È chiaro il sindaco al centro delle cronache di queste settimane, Alberto Panfilio. «Ricette e soluzioni non ne sono state date, oggi solo 4 comuni su 44 aderiscono allo Sprar». Il tentativo di cercare nuove accoglienze per questa via, secondo Panfilio è destinato, fa capire, a non decollare. «Nei comuni che non accolgono non è l’amministrazione a non accogliere, ma il fattore mancante è chi offre l’accoglienza: ai bandi dei prefetti rispondono solo i privati». A mancare è il terzo settore. Conclude: «Oggi, dunque, nulla di fatto». Sindaci non ce n’erano moltissimi. Tra loro Andrea Follini di Marcon, il vicesindaco di San Donà Luigi Trevisiol, l’assessore di Noventa di Piave Antonio Ormellese, il sindaco grillino Alvise Maniero e ancora Andrea Martellato sindaco di Fiesso in rappresentanza dell’Anci, Cavallino, Fossò, il comune di Venezia con l’assessore Simone Venturini. «Come Anci», spiega Martellato «siamo d’accordo con le linee rappresentate dal prefetto: insistiamo però sia con il prefetto, che ho trovato disponibilissimo, ma anche a livello nazionale (anche se non abbiamo avuto soddisfazione totale), che ci sia una suddivisione di ospitalità sui vari comuni. Puntiamo sul fatto che le strutture non vadano oltre le 20 persone: anche se all’interno dei vari comuni ci possono essere numeri più alti, settanta persone, ad esempio, queste non devono essere tutte ospitate in un’unica sede, bensì suddivise. Abbiamo chiesto che non siano usati hotel ma altri tipi di strutture, un’attenzione specifica relativa ai comuni turistici come Jesolo Cavallino e l’area costiera». Non solo: «Chiediamo anche che i bandi di gara emessi dalla Prefettura siano discussi con i singoli sindaci». Precisa: «Aderendo allo Sprar i comuni e i sindaci sceglierebbero in proprio le zone meno impattanti e integrerebbero direttamente le persone. Lo Sprar, però, ha efficacia se vi aderiscono in molti». «Venezia la sua parte la fa», ha commentato Venturini, il quale ha ricordato le centinaia di minori non accompagnati che transitano per Venezia e per i quali il comune spende circa 2 milioni di euro. «Nessuna grossa novità», ha aggiunto Maniero».Più di qualcuno ha ribadito la totale assenza di strutture dove ospitare migranti, con o senza Sprar. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non è colpa del destino di Gian Antonio Stella «Oltre a ciò l’inverno fu rigidissimo e seguirono grande carestia, mortalità di uomini, pestilenza di animali...», scrive fra Jacopo Filippo Foresti del sisma pauroso del gennaio 1117. E ancora gelo e nevicate si accanirono sugli scampati al grappolo di terremoti del gennaio 1703 in Abruzzo. E poi su quelli del gennaio 1915 nella Marsica. La neve, scrisse il Corriere, «ha come voluto collaborare con il terremoto schiacciando tetti già indeboliti...». Non bastasse, calarono i lupi aggirandosi «con particolare insistenza intorno alle macerie». Solo questi racconti riemersi dal passato danno la dimensione epocale di quanto è successo e sta succedendo sul nostro Appennino. Strade bloccate, sfollati con il morale a pezzi e le lacrime gelate sulle guance, soccorsi nel caos, allarmi in un’area sempre più vasta, sfoghi di rabbia contro i ritardi, animali sgomenti che vagano nel nulla... Non ci sono più i lupi. Ma il senso d’impotenza e di un destino ineluttabile che prendeva alla gola i nostri antenati è rimasto intatto. È vero, bufere di neve così violente sono una fatalità. Lanciata una maledizione a Chione, la dea della neve, però, c’è tutto il resto. E lì tirare in ballo il Fato non ha senso. A Pieve Torina in provincia di Macerata la neve ha tirato giù una tensostruttura provvisoria adibita ad asilo. Non c’erano bambini, per fortuna. Ma prima di montarla per metterci la scuola d’infanzia si erano presi la briga di controllare, ad esempio in un saggio di Vincenzo Romeo di Meteomont, il Servizio nazionale di previsione neve e valanghe, le serie storiche dove si spiega che sull’Appennino centro-meridionale nevica, e tanto, per una media di 25 giorni e mezzo a

inverno? Fino alle otto di sera sono state registrate, oltre alle quattro scosse di magnitudo 5 o superiore che hanno risvegliato i peggiori incubi, altre 257 botte più o meno violente superiori a 3. E migliaia di minori. E lì neppure, sull’immediato, è possibile far niente: la natura decide, la natura fa. Ma se non si può prevedere «quando» arriveranno nuovi terremoti, gli studi sul nostro passato e le strumentazioni di oggi sono però in grado di ipotizzare «dove» arriveranno. Il sismologo dell’Ingv Gianluca Valensise, per dire, aveva sottolineato due mesi fa: «A sud-est di Amatrice e fino all’Aquila c’è un bel pezzo di crosta terrestre che non ha rilasciato eventi significativi». Insomma, presto o tardi… Qualcuno, allora, avrà toccato ferro. Così come sono ancora troppi quelli che preferiscono evitare certi temi: «Hiiiii! Non portiamo iella». «Non ne possiamo più della cultura della “sfiga”. Basta. È indegna di noi. Della nostra intelligenza. Della nostra storia», è sbottato recentemente Renzo Piano, chiamato a coordinare il progetto Casa Italia, «La natura non è buona o cattiva: se ne infischia di noi. Inutile chiamarla in causa. I terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ed è stupido fingere che non sia così». Parole sante. Che dovrebbero spingere un popolo serio a farsi carico del problema. Giorno dopo giorno. Per anni. Anche nei giorni di fiacca. Senza farsi distrarre via via dai guai di Virginia Raggi, dal voto referendario, dall’elezione di Trump… Tutte cose serie, per carità. Anche in Giappone seguono i fatti del giorno. Ma non perdono mai di vista il tema vitale: la fragilità davanti al rischio sismico. Esattamente due mesi fa c’è stato un terremoto di magnitudo 7,4. Titoli sui giornali: «Solo feriti leggeri». Grazie a decenni di prevenzione. Cosa sarebbe successo, da noi? Sull’emergenza siamo bravissimi. E anche stavolta, grazie agli sforzi e alla generosità della protezione civile, dei militari, dei volontari, stiamo dimostrando come il Paese sappia reagire. È il passo lungo che ci manca. E ci mancherà finché, ad ogni emergenza, ci assolveremo: «Mai successo prima!» Non è vero. Il grappolo di terremoti di tre secoli fa nella stessa area di oggi, come dimostra uno studio di Emanuela Guidoboni e lo stesso Valensise, cominciò nel settembre 1702 e si esaurì, dopo 23 scosse superiori a 6,5 gradi della scala Mercalli (di cui una dell’undicesimo grado!), solo a novembre del 1703. «In questo loco si sta in un inferno aperto sentendosi duecento e trecento volte tra giorno e notte botte come artiglierie», dice una lettera inviata dall’Aquila a Rieti, «e in appresso sono de terremoti grossissimi che ci fan arricciare li capelli». Meglio saperlo per sfidare il problema o meglio toccare il cornetto di corallo? Pag 30 Perché Grillo è diventato la nuova pancia del Paese di Dario Di Vico La stabilizzazione dei consensi del Movimento 5 Stelle sta giustamente attirando l’attenzione di quanti non solo studiano i flussi elettorali ma cercano anche di decifrare le relazioni tra il mutamento della stratificazione sociale e il consenso politico. E i numeri elaborati dalla Ipsos di Nando Pagnoncelli mese dopo mese su un campione di seimila persone sono significativi. Prendiamo i lavoratori autonomi: alla fine del 2016 i grillini raggiungevano addirittura il 39,3% dei favori distanziando di 20 punti secchi il Pd e lasciando le briciole al vecchio forzaleghismo. La Lega di Matteo Salvini si ferma al 17,7% e il partito di Silvio Berlusconi è ancora più distanziato (10%). È chiaro che in questo momento Beppe Grillo calamita su di sé molti consensi popolari e persino tra gli operai lascia 20 punti dietro il Pd. Anche nella costituency degli insegnanti e degli impiegati, tradizionalmente orientata verso il centrosinistra, i Cinque Stelle superano il partito del segretario Renzi: 34,1% contro 30,1%. L’unico segmento nel quale il Pd riesce a superare i grillini è quello rappresentato dalle «professioni elevate»: 31,6% contro 28,2%. Che sta succedendo dunq ue? A questa domanda in molti cominciano a rispondere che si è spostato l’orientamento della «pancia del Paese» ovvero che Grillo ha trovato la chiave per parlare all’Italia profonda lucrando innanzitutto sulle amnesie e le divisioni del centrodestra che, durante la Seconda Repubblica, aveva assicurato una buona rappresentanza politica ad artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e aveva addirittura portato al governo le loro istanze di riduzione delle tasse e di lotta alla burocrazia. Dal canto suo storicamente la sinistra si è sempre approcciata agli strati intermedi con una forma di snobismo, tanto che gli intellettuali avevano a un certo punto inventato l’espressione «ceti medi riflessivi» proprio per contrapporla ai ceti medi mercantili, e solo per una breve fase Matteo Renzi è riuscito a ridurre le distanze. Ma nel frattempo la Grande Crisi ha lavorato come la famosa talpa e ha scavato un solco tra le

rappresentanze tradizionali e l’intero ceto medio. Non bisogna dimenticare che se la base manifatturiera del Paese si è contratta grosso modo del 25% il costo lo hanno pagato soprattutto le Pmi, una spina dorsale che sotto i colpi si è curvata. Basta vedere i centri storici delle città di provincia per constatare quante attività hanno chiuso i battenti e anche nei distretti artigianali non è andata molto meglio. Se ci sono almeno un centinaio di prodotti - dalle mollette per i panni agli ombrelli - che oggi vengono fabbricati quasi esclusivamente dai cinesi basta ricordare che qualcuno prima li produceva e oggi non riesce più. Si chiede loro giustamente di innovare ma non è facile e tutto sommato in pochi riescono a farlo elevando la qualità del prodotto e le modalità della vendita. Ma, cosa ancora più grave, la selezione darwiniana non sembra finire mai, c’è ancora un grosso pezzo della piccola manifattura italiana e del commercio al dettaglio che si sente in bilico. Teme di scivolare ancora più in basso e si sente escluso, dimenticato. Se cerchiamo di interpretare e delimitare questi strati sociali con le categorie di una volta («alla Sylos Labini» chiosa Pagnoncelli) non ne veniamo fuori, perdiamo di vista che il centro della società italiana sta diventando un magma di risentimento e rancore che tiene assieme cose assai diverse tra loro. Una volta la Classe operaia, i Commercianti e gli Insegnanti erano tre mondi differenti, oggi almeno nei contesti territoriali finiscono per assomigliarsi, vivono almeno in parte analoghi sentimenti di frustrazione. Hanno perso l’orgoglio del proprio lavoro manuale o intellettuale che fosse e questa sottrazione li rende più uguali tra loro e distanti dalle elite metropolitane. La grande novità però è che la Pancia del Paese, le partite Iva, traslocando dal forzaleghismo ai Cinque Stelle non hanno semplicemente cambiato preferenze politiche ma hanno subito una sorta di trasformazione antropologica. Ai tempi di Umberto Bossi i lavoratori autonomi avevano un loro programma politico orientato al fare, ai valori della competizione e alla riduzione dell’intervento statale, erano la traduzione in dialetto degli animal spirits. Oggi invece quelle istanze e quei valori vengono progressivamente meno. Passano a Grillo perché lo vedono come l’ultima spiaggia, l’onestà contrapposta all’affarismo, ma in questo trasloco abbandonano anche qualsiasi idea ottimistica dell’economia e della politica. Siamo solo all’inizio, le identità sociali sono più mobili che in passato, quindi niente è consolidato è tutto va monitorato. Attenzione però nei prossimi mesi a non discutere solo di sistemi elettorali, c’è anche un’Italia profonda da curare . AVVENIRE Pag 1 La vita è questa di Piero Chinellato Il ritrovato choc, il dovere di ripartire Non basta ripeterti che gli epicentri sono sempre stati finora a decine di chilometri da te; che casa tua non ha subito danni, anche se dopo il 30 ottobre il tuo Comune è stato inserito nel 'cratere'; che c’è un mare di persone le cui difficoltà non sono riconducibili a stati d’animo, ma si concretizzano in case devastate, attività in ginocchio, vite e rapporti lacerati... Quando avverti quel rombo sordo subito seguito dalla terra che vibra minacciosa, il cuore ti balza in gola e annaspi. Ti sembra che il terremoto si accanisca proprio contro di te, anche se razionalmente devi riconoscere che finora esteriormente nulla ha cambiato della tua vita. Fuori niente, ma dentro c’è un tremito mai provato prima e che, anche dopo ore, non accenna a placarsi. Anche la tastiera attraverso la quale cerchi di trasmettere le tue emozioni sembra farsi estranea ai polpastrelli dominati da un’agitazione ribelle a ogni volontà. È impossibile sottrarsi al pensiero della minaccia incombente. E se, come ieri, mentre stavi spalando la neve scesa generosamente anche sui pendii appenninici delle Marche, tornano le scosse dopo settimane in cui finalmente sembrava che il terremoto si stesse acquietando, eccoti di nuovo a terra. Anzi, un po’ più in basso, perché non puoi più confidare in un 'assestamento' che via via perda forza. Dopo il 24 agosto, c’è stato il 26 ottobre e poi il 30, e adesso siamo daccapo con quest’altra, raggelante raffica. Ti costringi a contrastare il tremore imponendoti di pensare a chi ha sentito scuotere la terra letteralmente sotto i propri piedi e non da 70 chilometri come te. Però non basta. Non si può più vivere aspettando che passi, perché può non passare, o almeno può non essere questione di mesi come finora ti eri illuso. Devi allenare l’animo a sopportare una condizione di emergenza protratta, a considerarla come la tua nuova ordinarietà, anche se tutto l’essere si ribella. L’uomo non è fatto per

vivere così, sale l’urlo dentro di te; eppure il terremoto ti ricorda che la dolcezza dei luoghi, come quelli coinvolti in questi mesi dai sismi, e anche la placidità del benessere non sono garantiti. Quando ci sono, devi riconoscerli come doni di cui essere grato; quando vengono meno, domata la ribellione che divampa dentro di te, devi attrezzarti per ripartire, perché la vita è questa. Il primo passo, ti dici, è disboscare il tumulto dei sentimenti guadagnando la serenità alla tua portata. È un’impresa il cui risultato non è scontato e che costa grande fatica, ma ti rendi conto che non ti puoi sottrarre, pena precipitare in un’angoscia paralizzante. Poi devi sollevare lo sguardo oltre la tua situazione personale, guardando agli altri, aprendosi a loro. Il calore dell’amicizia aiuta a stemperare e a ridimensionare le preoccupazioni. Anche l’attenzione da parte delle istituzioni, finora manifestata in misura indiscutibile, continuerà a essere importante. I mesi che abbiamo alle spalle hanno dimostrato che funzionano i piani sviluppati e attuati dialogando con le comunità e con le persone, mentre le iniziative calate dall’alto falliscono spesso il bersaglio. Questa attenzione dev’essere mantenuta e se possibile ancora innalzata da parte delle autorità a tutti i livelli. Le molte migliaia di persone allontanate dalla propria casa e anche dai propri paesi, di cui 10mila ancora assistite dalla Protezione civile (i due terzi nelle sole Marche), costituiscono un’emergenza che avrà bisogno di anni per essere riassorbita, e questo potrà avvenire solo a condizione che l’impegno non si attenui. Il nostro Paese ha contratto un debito d’onore con le popolazioni colpite; queste nuove, ennesime scosse, debbono ancor più cementare la solidarietà. Ci sono borghi come Caldarola in cui, oltre al centro storico tutto 'zona rossa', è inagibile anche il cimitero. La speranza nei tanti anziani sfollati va alimentata pure garantendo loro che l’impegno proseguirà finché potranno tornare a pregare sulle tombe dei propri cari. Solo allora l’emergenza sarà davvero finita. Pag 2 Le bufale sul web e la libertà di dire bugie di Marco Olivetti Limiti e diritti costituzionali. Ma che ruolo ha la Casaleggio? Il dibattito sulle menzogne virali diffuse sul web, in particolare tramite i social media – ovvero sulla post-verità o, per usare la più rustica terminologia italiana, sulle 'bufale' – è destinato a continuare e a non accomodarsi a breve su soluzioni facili. Vale allora la pena di formulare alcune domande, piuttosto che indicare risposte già pronte. Non senza precisare che del fenomeno delle 'bufale' è possibile dare una nozione più ampia e una più ristretta. In senso lato si possono ritenere 'bufale' le interpretazioni fantasiose formulate da qualcuno in relazione a un dato fenomeno, generando allarmismo: un buon esempio sono gli allarmi per gli attentati alla democrazia lanciati durante la scorsa campagna referendaria da non pochi oppositori della riforma Renzi-Boschi. In senso stretto, si intendono per bufale delle vere e proprie menzogne in punto di fatto, vale a dire l’attribuzione a Tizio di una data affermazione da costui mai fatta o l’invenzione di sana pianta di un fatto notoriamente mai avvenuto. Si tratta di due fenomeni discorsivi diversi, ma è bene limitare il ragionamento che segue al secondo caso: insomma alla menzogna fattuale, escludendo dal nostro ragionamento l’opinione gridata e male argomentata. Esempi di bufale diffuse nella campagna elettorale statunitense sono state le affermazioni: che Hillary Clinton aveva venduto segretamente armi allo Stato islamico; che un agente del Fbi era morto durante indagini sulla candidata democratica; che il Papa aveva benedetto la candidatura di Trump e che Barack Obama stava per abolire l’esecuzione dell’inno nazionale negli eventi sportivi (quest’ultima 'notizia' è stata condivisa da ben 250mila utenti di Facebook). In Italia, subito dopo il discorso di Paolo Gentiloni alle Camere un post non firmato diffuso su Facebook gli attribuiva una richiesta agli italiani di sacrifici, di cui non vi era traccia alcuna nelle parole del neo-premier. Delimitato così il fenomeno, una prima domanda può essere la seguente: la libertà di manifestare il proprio pensiero, riconosciuta dall’art. 21 della Costituzione italiana, o la corrispondente libertà di espressione prevista dai documenti internazionali sui diritti umani, include il diritto di mentire? In passato, i padri del costituzionalismo italiano del secondo dopoguerra (ad esempio, Carlo Esposito) rispondevano di no, giustificando così il reato di falsa testimonianza e le norme dell’ordinamento che sanzionano la menzogna. Tuttavia occorrerebbe distinguere la menzogna soggettiva dall’errore oggettivo e comunque in alcuni casi esiste anche un diritto di mentire (ad esempio, quello di chi scrive un romanzo). Insomma, il diritto di mentire è connesso alla libertà di espressione,

anche se non rientra nel suo nucleo essenziale. Per il costituzionalismo contemporaneo si può forse affermare che la repressione della menzogna è giustificata solo se persegue un fine legittimo e se lo fa in modo idoneo a conseguire tale fine, con misure necessarie e ragionevoli. Ma se si ritiene di dover intervenire contro la menzogna, in che modo si può farlo? Anzitutto si dovrebbe intervenire solo con misure repressive e non con misure preventive (la censura), rispettando così una secolare tradizione sulle restrizioni alla libertà di pensiero. Ma fra le misure repressive dovrebbe essere incluso l’oscuramento del messaggio menzognero ed eventualmente la chiusura del sito che ha diffuso la 'bufala'. Forse, ancor prima, occorrerebbe intervenire per escludere le menzogne anonime e per rendere identificabili i loro autori. Sanzioni specifiche – ulteriori, cioè, rispetto a quelle oggi previste per i reati di ingiuria e diffamazione – dovrebbero essere previste solo per i soggetti che istituzionalmente si dedicano alla diffusione di notizie false, in particolare quelle volte a incentivare il linciaggio mediatico di determinati soggetti. Una terza domanda riguarda la disponibilità su questo tema di informazioni sufficienti e accurate. Quante sono le bufale diffuse sul web e chi le produce? Quante di esse interagiscono con la formazione dell’opinione pubblica in materia politica? Come cambia questo fenomeno a ridosso delle campagne elettorali o referendarie? Quanti sono i soggetti che vengono coinvolti dalle bufale più rilevanti? Come si vede qui si tratta, più che di reprimere, di disporre di dati accurati, in un campo che, fra l’altro, è in continuo movimento. Ma va detto con chiarezza che la suprema rilevanza della libertà di espressione, come «pietra angolare dello Stato democratico» (per dirla con la Corte costituzionale italiana) non impedisce affatto discipline procedimentali, obblighi di trasparenza (ad esempio, divieti di messaggi menzogneri anonimi) e neppure limiti, alla condizione che questi ultimi siano ragionevoli e selettivi e non impediscano il libero dibattito fra tutte le opinioni. Infine, una domanda provocatoria, riferita a un attore decisivo nella politica italiana di questi giorni. Il Movimento 5 Stelle è considerato da molti un produttore e distributore di 'bufale' in campo politico. È difficile dire se ciò sia vero e comunque è improbabile che delle bufale tale forza politica abbia il monopolio. Una domanda è tuttavia legittima: quali attività svolge nella formazione dell’opinione pubblica attraverso la rete (in particolare nei social media) la 'Casaleggio e Associati'? Data l’interazione di questa impresa privata con un movimento politico per nulla marginale nell’Italia di oggi, non hanno i cittadini italiani il diritto di conoscere quale ruolo 'politico' svolge questo soggetto? Pare infatti che questa misteriosa entità sia in grado di incidere sulla politica italiana in forme comparabili a quelle proprie, in passato, solo ad altre due entità pre-politiche: la loggia P2 nel declinare della Prima Repubblica e Mediaset durante buona parte della cosiddetta Seconda Repubblica. Ora che si sta evidentemente ponendo in ogni Paese la questione del ruolo delle reti sociali nei processi decisionali politici, non sarebbe utile cercare di conoscere meglio questo soggetto così misterioso, senza escludere il ricorso a una Commissione di inchiesta? Magari le dicerie su questa impresa non sono altro, a loro volta, che 'bufale'. Ma varrebbe la pena di provare a capirlo. Pag 3 La riunificazione di Cipro: tra gli ostacoli, ma si procede di Eleonora Ardemagni Piccoli passi verso un’intesa. Turchia e Russia le incognite Un passo verso la pace, ma la strada è piena di incognite: su tutte, la Turchia di Erdogan. A Ginevra, il negoziato dell’Onu per la riunificazione federale di Cipro ha vissuto un passaggio importante. La delegazione grecocipriota, guidata dal presidente della Repubblica di Cipro (RoC) Nicos Anastasiades e quella turco-cipriota, capeggiata da Mustafa Akinçi, leader della Repubblica turca di Cipro nord ( TRNC), riconosciuta dalla sola Turchia, si sono scambiate per la prima volta le mappe territoriali: l’obiettivo è definire gli equilibri del possibile Stato bizonale e bicomunitario. Le parti si rivedranno presto. L’assetto attuale risale al 1974. A seguito del fallito golpe, sostenuto dalla Grecia, contro il presidente cipriota Makarios che si opponeva all’enosis (l’unificazione dell’isola con la madre-patria greca), la Turchia arrivò a occupare militarmente il 37% del Paese. Cipro, isola di 1 milione e centomila abitanti (80% greco-ciprioti, 20% turco-ciprioti), nel cuore del Mediterraneo orientale, fu teatro di violenti scontri interetnici che provocarono un numero ancora imprecisato di morti e 200 mila sfollati interni. Le due

comunità, che nel 1960 avevano fondato una repubblica condivisa durata solo tre anni, si redistribuirono territorialmente in maniera omogenea (greco-ciprioti a sud e turco-ciprioti a nord). Lungo la linea che separa nord e sud, la missione Unficyp dell’Onu (già attivata dopo i precedenti scontri del 1964) sorveglia un cessate il fuoco mai formalizzato: da un lato, ciprioti di etnia e lingua greca, di religione cristianoortodossa, dall’altro ciprioti di lingua ed etnia turca, di religione musulmana. Nonostante l’apertura dei checkpoints nel 2003, Cipro rimane un 'conflitto congelato' ma ancora irrisolto, nel lembo più orientale d’Europa. Finora, lo sforzo negoziale di Anastasiades e Akinçi, da sempre favorevoli alla riunificazione, è stato notevole: le parti rimangono però distanti su questioni legate a territorio, proprietà (le terre dei privati e il ritorno degli sfollati) e governance (la presidenza a rotazione nel futuro Stato). La determinazione dei due leader potrebbe quindi non bastare. S ul piano interno, qualunque accordo dovrà essere sottoposto a due referendum contemporanei e paralleli. Stavolta, sono i ciprioti a condurre direttamente la trattativa, con l’Onu nei panni del facilitatore: nel 2004, il Piano dell’allora Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan venne bocciato dal 76% dei votanti greco-ciprioti, che avevano già in tasca l’ingresso nell’Unione Europea. Tecnicamente, l’intera isola di Cipro è infatti diventata territorio dell’Ue (poiché il nord è zona occupata e quindi non riconosciuta), ma nella TRNC non si applicano le leggi comunitarie. Nel lungo periodo, l’unificazione dovrebbe portare vantaggi economici all’intera isola (per esempio, investimenti e turismo), ma nell’immediato i 'costi della pace' sono invece un freno, soprattutto se non dovessero arrivare cospicui finanziamenti esterni: Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale attendono una soluzione politica prima di impegnarsi. Con il sì alla riunificazione federale, l’Unione Europea ha promesso 3.1 miliardi di euro a Nicosia. Da un punto di vista economico, l’economia della RoC stenta infatti a riprendersi dopo la crisi finanziaria del 2013 (piano di salvataggio con applicazione del bail-in), mentre Cipro nord, sotto embargo internazionale, dipende dalla Turchia, che le impone discussi protocolli di modernizzazione. Il reddito pro capite nella TRNC è inferiore del 40% alla media di quello di Cipro sud: molti tra i greco-ciprioti temono che il nuovo Stato federale diventi per loro un fardello economico e sociale. C’è poi il fattore energetico. Finora, la scoperta di giacimenti di gas al largo dell’isola non si è trasformata nel 'vettore di pace' tanto auspicato, ma sta generando riallineamenti geopolitici e nuove rivalità fra le due comunità. Cipro, Grecia, Israele ed Egitto hanno moltiplicato vertici multilaterali e iniziative di cooperazione regionale in vista dello sfruttamento delle risorse energetiche: appuntamenti da cui la Turchia rimane, al momento, esclusa. L’ ostacolo principale della trattativa riguarda però l’abolizione del 'sistema delle garanzie', ovvero l’architettura di sicurezza (negoziata nel 1959 e in vigore dal 1960, quando Nicosia ottenne l’indipendenza dai britannici) che attribuisce a Grecia, Turchia e Gran Bretagna il ruolo di potenze garanti. In caso di riunificazione federale, i greco-ciprioti e Atene ne chiedono l’abolizione: ritiro di tutti i soldati presenti sull’isola, compresi i 30mila militari turchi. Una posizione non condivisa dai turco-ciprioti, favorevoli alla permanenza dei soldati di Ankara e spalleggiati dal leader turco Erdogan (ma fermamente contrari all’ipotesi di annessione alla Turchia). Questo è il vero punto di frizione, capace di rimettere in discussione le convergenze già raggiunte fra Anastasiades e Akinçi, prolungando lo stallo. Dopo le dichiarazioni del ministro degli esteri greco Nikos Kotzias sulla necessità che Ankara ritiri in tempi brevi le sue truppe dopo la riunificazione, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha pubblicamente ribadito che il ritiro totale dei suoi soldati è 'fuori questione'. D’altronde, sono molti i fattori che disincentivano, al momento, la cooperazione della Turchia su Cipro: innanzitutto il congelamento, di fatto, del processo di adesione all’Ue. Erdogan necessita poi dei voti parlamentari dei nazionalisti dell’MHP per far approvare la sua riforma presidenziale; un 'cedimento' su Cipro minerebbe quella retorica nazionalista con la quale sta provando a ricompattare un Paese esposto ormai su troppi fronti. E ora che Ankara è militarmente presente in Siria, è assai improbabile che il presidente turco accetti una soluzione che limiti la sua influenza militare sull’isola: il porto di Famagosta, a Cipro nord, dista solo 170 km dalla costa siriana, sotto il controllo del regime di Damasco e dei russi. Cipro, di cultura europea ma geograficamente nell’orbita delle dinamiche mediorientali, è tornata strategica. Anche dalle due basi militari permanenti della Gran Bretagna (Akrotiri e Dhekelia, nel sud), così come dalla base sovrana di Paphos, gli aerei britannici e francesi partono per

bombardare il sedicente Stato Islamico tra Siria e Iraq. Dal 2015, la Russia ha siglato un accordo con la Repubblica di Cipro per l’accesso ai porti delle sue navi militari. Per l’Unione Europea, presente ai negoziati con lo status di osservatore, risolvere la questione cipriota significherebbe rimuovere il primo impedimento a una reale cooperazione con la Nato, fin qui bloccata da Ankara e sgradita a Mosca. Dato che la riunificazione farebbe di Cipro un probabile hub per il transito del gas mediterraneo verso l’Europa (riducendo la dipendenza energetica dell’Ue dalla Russia), Mosca preferirebbe, per ragioni geopolitiche ed energetiche, che la Linea Verde controllata dai caschi blu continuasse a dividere Nicosia e a separare i ciprioti. Pag 3 Profughi, lavoro con i voucher di Sandro Lagomarsini Una proposta “eretica” La vicenda è poco nota, ma il collegamento con l’attualità salta agli occhi. Era il 1879 e Robert Louis Stevenson, non ancora il romanziere che conosciamo, fece un viaggio negli Stati Uniti. Nato da una infatuazione sentimentale, il viaggio si trasformò in uno studio sull’emigrazione e diede origine a due scritti: L’emigrato dilettante e Attraverso le pianure. Viaggiando su nave in terza classe, Stevenson aveva cominciato a capire che l’emigrazione non era quell’epica avventura che politici e opinione pubblica europea volevano credere. Sul treno verso la California poi, lo scrittore si accorse di essere in mezzo a due onde umane: una che andava in cerca di fortuna, l’altra che riportava i naufraghi di quell’avventura. E dai reduci affacciati ai treni che correvano in senso contrario usciva, come da un «coro lamentoso», un invito pressante: «Tornate indietro!». Anche oggi si levano voci che invitano la gioventù a riflettere su rischi e pericoli prima di mettersi in viaggio. Lo ha fatto, ultimamente, anche la cantante del Mali Rokia Traorè. Ci ho riflettuto, ne ho parlato con i miei allievi profughi africani e ho concluso che solo questa gioventù sarà capace di gestire in modo più accettabile un flusso finora disordinato. Possono farlo, questi giovani, se non li trasformeremo in vinti che, vivendo in condizioni estreme come quelle del centro di Cona, perdono coraggio e dignità. Per prima cosa – a mio parere – si dovrà mettere nuovamente in programma la vecchia 'cooperazione', che aveva dato nei primi anni 80 del secolo scorso dei buoni risultati. In questa prospettiva, il periodo nel quale i migranti attendono di essere convocati dalle Commissioni, può essere bene utilizzato. Lo dimostrano, al di là della 'faccia feroce' dei Cie e del terrorismo mediatico in cui si sono specializzate alcune reti televisive, le esperienze positive di accoglienza. Il Centro della Croce Rossa Italiana col quale collaboro è attrezzato per una trentina di persone. Se il numero non si appesantisce per le emergenze, le cose funzionano. Questi giovani imparano alla svelta la nostra lingua. Se qualcuno è poco scolarizzato, nasce un gruppo che lo sostiene nel recupero: basta una piccola lavagna e qualche gessetto. I profughi cristiani frequentano le chiese e partecipano alla vita delle parrocchie. Tutti indistintamente offrono e danno collaborazioni di lavoro volontario alle istituzioni culturali ed educative locali. Qualcuno è inserito in società sportive di centri vicini. Ma la nostra è zona montana e per alcuni lavori occorre una copertura assicurativa. Vale per la gestione dei boschi, il recupero dei castagneti, la riattivazione dei pascoli comuni, la pulizia dei sentieri. Non si riuscirà forse a tenere attivi questi giovani nei mestieri esercitati in precedenza. Avremo però evitato un delitto che il futuro ci rimprovererà duramente: lasciare a lungo inattiva una gioventù capace e generosa e che non ha bisogno di diktat per rimboccarsi le maniche, ma delle occasioni e delle condizioni per farlo davvero utilmente per sé e per le comunità di inserimento. E allora faccio una proposta 'eretica': usiamo per il lavoro dei migranti – magari con le opportune correzioni – i vituperati 'voucher'. Il dialogo con le nostre realtà locali e le esperienze positive di lavoro potranno attrezzare questi giovani a essere poi nel loro Paese di origine, se lo vorranno, referenti attendibili per realizzare progetti di cooperazione. IL GAZZETTINO Pag 1 Casa Italia torni nell’agenda del governo di Oscar Giannino Quattro nuove scosse oltre il quinto grado della scala Richter, dopo decine di migliaia nell'interminabile sciame sismico che tra 24 agosto e 27 ottobre scorso ha già provocato

300 vittime e distrutto decine di centri abitati tra Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria. Neve, freddo, nuovo crolli dove si era da mesi cominciato ad abbattere per poi ricostruire e a ispezionare per risanare gli edifici non compromessi, caduta delle linee elettriche, decine di frazioni isolate. E nuovi centri colpiti, nel teramano e in provincia di Ascoli Piceno, città anch'essa ricaduta in un'emergenza più grave di quella autunnale. Oltre a rimettere ventre a terra la macchina dei soccorsi alle popolazioni e ai Comuni già rodata, che cosa possono fare le istituzioni? Almeno tre cose, per fermarsi alle emergenze vere e oggettive. Ed evitando se possibile da parte della politica polemiche vane, di cui l'Italia ribolle ma che di fronte a terremoti persistenti non servono veramente a nulla. Identifichiamole sinteticamente, allora, le cose che il governo Gentiloni si trova a dover mettere in agenda: risorse, processi da accelerare, piano strategico. Sulle risorse, per essere chiaro, non c'è e non può esistere un problema europeo. E sarebbe bene chiarirlo in termini immediati. La richiesta della Commissione Europea di riduzione del deficit programmatico previsto dal governo Renzi per il 2017 nella legge di bilancio approvata sul tamburo dopo la sconfitta referendaria non ha nulla a che fare con le spese necessarie ad affrontare il maglio sismico. Le regole europee sono chiare in materia. Si tratta di spese eccezionali a fronte di calamità imprevedibili. Non hanno nulla a che fare con il deficit strutturale corretto per il ciclo economico, che il governo Renzi ottenne da Bruxelles di accrescere di uno 0,6% di PIl nel 2016, e che si è proposto di innalzare ulteriormente, rispetto al rientro previsto precedentemente, ancora di uno 0,4% nel 2017. La Commissione ha chiesto di ridurre quello 0,4% aggiuntivo chiesto da Padoan a uno 0,2%, abbassando di poco più di 3 miliardi il deficit 2017 previsto in legge di bilancio. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con le spese per il terremoto. Piuttosto, la continuità dello sciame sismico e l'intensità delle scosse, che azzerano lavori e interventi già avanzati, pongono il problema di considerare in maniera più estensiva che cosa le regole europee definiscano come spese per l'emergenza distinte da quelle per il rilancio delle aree colpite. Come abbiamo più volte scritto nei mesi scorsi, la messa in sicurezza delle aree esposte a rischio sismico italiano, colpite ogni 10-15 anni da fenomeni di questa durezza, va considerata a tutti gli effetti una priorità nazionale che non ha a che fare solo con le spese per soccorsi e tetti provvisori alle popolazioni colpite. E' a tutti gli effetti una grande riforma strutturale, da far rientrare nel modello di calcolo comunitario degli interventi dai quali attendersi benefici di minori spese e maggior sicurezza e produttività futura, a fronte dei quali concordare e legittimare anche discostamenti dagli obiettivi di deficit strutturale. Esattamente com'è avvenuto per il Jobs ACT o la riforma della PA. La seconda sfida per le istituzioni è accelerare gli interventi d'emergenza abitativa le cui procedure, anche per questioni di legalità, si è inevitabilmente scontrata con il più che scontato forte peggioramento delle condizioni climatiche. E' un fatto che interventi realizzati da privati per realizzare le soluzioni abitative temporanee secondo standard europei hanno richiesto e richiedono tempi molto più rapidi delle grande gare pubbliche bandite da Consip. C'è qualcosa da rivedere, e bisogna farlo subito. Ma la vera sfida è la terza. Quella che Renzi ha chiamato Casa Italia. Non fermarsi più all'emergenza e poi all'avvio della ricostruzione dei centri colpiti, ma costruire una grande macchina pubblico-privata che abbia come obiettivo in alcuni anni la messa in sicurezza progressiva, a cominciare dalla aree italiane esposte a maggior rischio sismico e idro-geologico, della parte troppo rilevante del paese esposta a grandi pericoli dell'obsolescente patrimonio edilizio e urbano. Un primo passo è stato il sisma-bonus che dal 50% delle spese sostenute potrà arrivare fino all'85% se l'edificio viene migliorato di 2 classi di rischio, entro un tetto di spesa fissato a 96.000 euro l'anno stabilizzato fino al 2021, recuperabile in 5 anni anziché in 10, esteso dalle abitazioni private anche alle imprese. E accessibile non solo a chi risiede o opera in area sismica 1 e 2, ma anche in quella di categoria 3. E' questo il problema da portare in sede europea. Per la Commissione, misure come queste dovrebbero essere sotto la linea del deficit consentito, non sopra. Gli unici fondi straordinari ammessi dovrebbero essere quelli per le spese dell'emergenza-sfollati, non della ricostruzione e messa in sicurezza. In 70 anni 4419 località colpite con 5700 vittime, con grandi terremoti ogni decennio che di volta in volta hanno visto ricostruzioni avviate con criteri diversi e contrastanti, dal fallimento del Belice all'enorme falò di risorse clientelar-assistenziali in Irpinia, dimostrano che l'Italia deve cambiare marcia. E questo sforzo, che richiede molti miliardi negli anni, va considerato e riconosciuto in Europea come strategico. A un simile

programma il governo Renzi dichiarava di destinare risorse pubbliche per 7 miliardi in 7 anni più altri 2,7 recuperati da spese non effettuate negli anni alle nostre spalle. Ma occorre aggiungervi molti miliardi di risorse private. Da incentivare non solo fiscalmente via bonus per gli interventi, ma anche per estendere il più possibile strumenti assicurativi sugli immobili, traendo lezione da altri paesi nel mondo a rischio sismico, che in materia hanno seguito in realtà modelli diversi, più o meno coattivi o volontari e con diversa disciplina di oneri compartecipativi anche per lo Stato. Quanti ai soggetti, un piano simile funzionerà solo se diventa una priorità nazionale di lungo periodo, non sollo pubblica ma estesa come una grande alleanza pubblico-privata. Il confronto con l'Europa va portato proprio sul modello a lungo termine di Casa-Italia. Di cui a fine ottobre è stata avviata la cabina di regia, che amplia e assorbe gli uffici presso palazzo Chigi per il dissesto idrogeologico e l'edilizia scolastica, e che è stata affidata al rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone. Dovrà mobilitare tutte le eccellenze italiane in campo urbanistico, architettonico, della conservazione e ristrutturazione del patrimonio del paese. Dar vita a un motore progettuale policentrico, insieme centrale ma soprattutto incardinato a rete nei territori. Nel quadro di una entità organizzativa snella, pienamente trasparente, e non caratterizzata dal principio della deroga alle norme del nuovo codice degli appalti. Le deroghe hanno sempre portato dritto alle indagini delle procure, come sappiamo. Casa Italia è entrata anch'essa in una zona d'ombra, dopo il referendum e il passaggio di testimone tra Renzi e Gentiloni. Ora deve tornare al centro dell'agenda nazionale. E' la più grande sfida dalla ricostruzione italiana del Dopoguerra. E' la grande occasione per mettere a frutto tutto ciò che Giappone e California fanno tecnicamente da decenni, ma nel nostro caso in coerenza all'evoluzione e alla tutela del patrimonio storico di un paese irriducibile agli altri, com'è l'Italia. Ed è il banco di prova di una diversa volontà e capacità di riformare l'Italia. Questa volta non più su questa o quella branca di legislazione. Ma sulle condizioni fondamentali stesse che tutelano il diritto alla vita e alla sicurezza non solo degli italiani, ma di chiunque dall'estero venga a visitare, a vivere e operare nel nostro paese. Pag 21 Scosse e psicosi, serve un’educazione su come comportarsi di Enzo Boschi Alla stessa velocità delle onde sismiche, a ogni scossa, sembra diffondersi la psicosi dei crolli, anche dove non c'è nessuna probabilità che possano verificarsi, come a Roma. È doverosa una premessa: alcuni comportamenti possono sembrare giustificati. Nel nostro Paese ci sono stati troppi terremoti, con troppi morti. La verità è che non ci fidiamo più degli edifici in cui abitiamo, perché ne abbiamo visti troppi frantumarsi; alla prima fluttuazione la mente corre alle macerie di Amatrice, alla devastazione de L'Aquila. Immagini forti, che possono trarre in inganno, facendo passare per buona l'equazione terremoto-palazzi sbriciolati o danneggiati. Ma non è così. La prudenza non è mai troppa, ovvio, ma è bene sapere che un terremoto che si verifica a cento chilometri di distanza non può provocare danni sostanziali. Anche se si verificano scosse ripetute. E si verificheranno: il terremoto di ieri si può inserire nello stesso sciame che ha sconvolto le Marche e il Reatino il 24 agosto, proseguendo poi il 30 ottobre e ancora nelle settimane successive con migliaia di scosse. Ieri si è attivata un'altra zona, ma fa parte di un unico movimento, che andrà avanti ancora per molto tempo. In Irpinia le scosse sono durate due anni. Meglio abituarsi allora all'idea che i palazzi ogni tanto possano oscillare, ballare si potrebbe dire, ma questo non significa che ci sia un reale pericolo di crolli per colpa del terremoto. Anche la storia ce lo insegna. L'unico sisma che ha davvero danneggiato Roma e anche in quel caso non in maniera particolarmente violenta è stato quello di Avezzano nel 1915. Ma attenzione: si trattava di una scossa di magnitudo 7. In termini di energia, era un migliaio di volte più forte rispetto alle scosse di ieri con epicentro a Montereale. Altra cosa è la percezione del sisma. I latini dicevano che tutte le strade portano a Roma e si potrebbe dire che anche tutte le direzioni sismiche in qualche modo incrocino la Capitale. Le onde che nascono sull'Appennino centrale - una delle zone sismiche più attive d'Europa - attraversano le rocce della crosta terrestre ed è come se avessero una corsia privilegiata verso Roma. Ma sono onde che nella Capitale arrivano già depotenziate della loro capacità distruggere. Ma oscillazione, anche forte, non è sinonimo di crolli. È vero quindi che un terremoto che si verifica a un centinaio di chilometri da Roma, possa far ondeggiare i palazzi della Capitale. Ma la forza distruttiva

del sisma è già stata attenuata dalla distanza. Roma, è sempre bene ricordarlo, non è una zona sismica in senso stretto. Lo dimostrano anche gli splendidi monumenti con 2mila anni di storia, tutti ancora in piedi. Gli unici terremoti vicini alla Città eterna sono quelli dei Colli Albani e sono di piccolissima entità. È giusto quindi evacuare le scuole, chiudere le metropolitane anche molto lontano dall'epicentro? A mio parere sarebbe più utile non farsi guidare dal panico ingiustificato. Non sono i terremoti che possono provocare le tragedie in città come Roma. Per le scuole, così come per molti edifici pubblici, sarebbe necessaria una verifica puntigliosa. E bisognerebbe garantire condizioni di sicurezza standard in tanti istituti fatiscenti, dove spesso i calcinacci cadono senza nessuna scossa. Per la metropolitana vale lo stesso discorso. Se le strutture sono solide, non c'è motivo di preoccuparsi. Per sgonfiare questa bolla di paure insensate, ai cittadini, non solo alle istituzioni, servirebbero alcune regole di buon senso. Innanzitutto possiamo o meglio, dobbiamo - informarci sulla qualità dell'edificio in cui abitiamo e lavoriamo. Poi dovremmo tutti essere consapevoli che anche se una scossa si avverte con chiarezza e gli edifici si muovono, non significa che stanno per crollare, quando l'epicentro è molto lontano. Servirebbe insomma un'educazione diffusa su come comportarsi in caso di scosse. Per chi abita in città e per chi la governa. LA NUOVA Pag 1 L’elezione di Tajani divide Berlusconi e Salvini di Massimiliano Panarari Chissà se il centrodestra italiano ha trovato il suo nuovo leader. Di sicuro, il Parlamento europeo ha eletto il suo nuovo presidente, Antonio Tajani, dopo una competizione tutta italiana che lo ha visto contrapposto al candidato dei “Socialisti e democratici” Gianni Pittella – uno “scontro fratricida” dal punto di vista del nostro posizionamento come sistema-Paese, e due “corse solitarie” da parte di politici che, con indiscutibile talento, hanno saputo costruirsi delle carriere tutte europee. Oggi si ritrovano così svariati italiani di valore in alcuni posti chiave delle istituzioni europee (alla Bce, alla Commissione e, appunto, alla presidenza del Parlamento di Strasburgo); una situazione che – e lo evidenziano nuovamente proprio in questi giorni la lettera della Commissione e le ingerenze tedesche su Fiat Chrysler – non si traduce, per diverse ragioni, in un incremento di peso specifico della nostra nazione nelle eurodinamiche. Altrettanto sicuro, però (e non paradossale), è il fatto che la vittoria di Tajani – il quale, in questi decenni, ha operato alacremente per darsi un profilo di uomo politico sempre maggiormente europeista e svincolato quanto più possibile dal partito da cui proviene – presenti una serie di riflessi assai significativi sulla politica nazionale, in primis, ovviamente, del centrodestra. Come mostra, non a caso, la scelta dell’italiano Matteo Salvini di votare per un proprio candidato alternativo, il rumeno Laurentiu Rebega, già eletto coi socialisti e poi passato al gruppo “Europa delle nazioni e delle libertà”. I riverberi sulla politica di casa nostra dell’elezione di Tajani fanno presagire pertanto un allargamento del solco che divide Forza Italia dalla Lega Nord, e un’ulteriore divaricazione delle strade, già in atto da tempo, tra il centrodestra classicamente berlusconiano e la destra neopopulista. La nomina come presidente di colui che, sebbene “rinato” a Strasburgo a nuova vita politica è stato “anticamente” il portavoce di Silvio Berlusconi, riporta quest’ultimo (speranzoso anche rispetto alla decisione della Corte europea dei diritti umani sul suo ricorso) tra le braccia del Ppe, e, dunque, ricaccia nell’ombra la versione “euroscettica” di Forza Italia. Tajani ha vinto con i voti di una larghissima coalizione di centrodestra europea che ha tenuto fuori i populisti, ed è facile immaginare un “effetto sgocciolamento” su Roma; cosa che, dal punto di vista del sistema politico italiano e dell’offerta elettorale, per il nostro Paese sempre orfano di una destra liberale con numeri non da prefisso telefonico, rappresenterebbe peraltro un elemento di chiarezza. La competizione altissima e gli scontri furibondi tra le anime del centrodestra, del resto, sono in corso da tempo; e si vedono con chiarezza nei territori del Nordest: in Veneto, che sarà interessato in primavera da una tornata importante di elezioni amministrative (a partire dal Comune commissariato di Padova, dove la giunta Bitonci era andata decisamente fuori pista), e in Friuli Venezia Giulia, dove si voterà nel 2018 per le regionali con il salviniano capogruppo alla Camera Massimiliano Fedriga che sta scaldando da qualche tempo i motori per la corsa. Perché si arrivi a una rottura a pieno titolo, però, molto dipenderà naturalmente dalla legge elettorale nazionale, che

rimane per il momento appesa alla fatidica decisione della Corte costituzionale sull’Italicum prevista per il 24 gennaio. Se un sistema di tipo maggioritario obbliga, o quanto meno consiglia “caldamente”, le coalizioni prima del voto, uno di tipo proporzionale garantisce il “liberi tutti”, e accentua la competizione tra forze collocate su segmenti vicini o similari del mercato politico-elettorale. E la bora e le acque agitate nel mare del centrodestra italiano fanno presagire che in diversi (a partire da Berlusconi) puntino sul proporzionale, giustappunto. Pag 6 Non servono illusioni ma cultura e pazienza di Vittorio Emiliani Di nuovo scosse gravi di terremoto fra Amatrice e stavolta il cratere dell’Aquila, tutte zone altamente sismiche dove questi fenomeni distruttivi si sono ripetuti più volte nei secoli, nei millenni. In un Paese dove la sola Sardegna e la cerchia delle Alpi non sono soggette a terremoti, dove tutta la catena appenninica è invece ad elevato rischio sismico, da sud a nord, assieme al Friuli nel Nordest. Bisognerebbe insegnarlo nelle scuole, divulgarlo in modo corretto nella Tv e nella radio pubblica, creare cioè una “cultura” specifica. Dalla quale far partire finalmente anche l’opera di prevenzione evitando così di essere colti di sorpresa in una sorta di emergenza continua. Nel secolo scorso i terremoti più forti, spesso con decine, centinaia o migliaia di morti sono stati oltre quaranta. In Umbria-Marche se ne è contato uno ogni dieci anni. Quante volte è stata distrutta L’Aquila? E quante volte Amatrice? Ora ci si stupisce della drammatica sequenza di scosse dal 24 agosto a oggi, ma in Friuli (quasi mille morti) il sisma durò due anni e le scosse del ’77 furono le più devastanti. In Friuli la ricostruzione è stata efficace, nella piena collaborazione fra Stato e Regione, fra Soprintendenze e Proveditorati, Uffici tecnici comunali. Una ricostruzione antisismica che ha significato di per sé anche prevenzione per gli anni, per i decenni successivi. Non così ad Amatrice e in parte a Norcia. Perché? Evidentemente perché la ricostruzione posterremoto è stata meno rigorosa, meno severa, ed ha riguardato gli edifici, non le infrastrutture anche essenziali: come si spiega altrimenti che non fosse “a prova di terremoto” il cosiddetto “ponte dei 5 occhi”, il solo che collega Amatrice con la Salaria? Bisogna tuttavia sottolineare che in Friuli la ricostruzione è stata efficace ma è pure durata anni. Alla gente colpita va detto e ripetuto che non si può umanamente fare in fretta se si vuol fare bene, anche per il futuro in zone che saranno nei secoli soggette ad altri assestamenti geologici, in un Paese ancora “giovane” da quel punto di vista. Sorprende che in questo Appennino non si sia pensato subito ai pastori e agli allevatori, a quanti sono legati alla terra. Nei centri urbani non si può rimanere, per qualche anno bisogna rassegnarsi ad abitare o negli alberghi della riviera adriatica oppure (meglio) nei villaggi di prefabbricati pesanti, ben climatizzati. Che però non si inventano in poche settimane. Ma agli allevatori - che potevano essere facilmente individuati attraverso le loro organizzazioni - si potevano però approntare in fretta stalle e silos resistenti al gelo. Strano che non lo si sia fatto per tempo. Questi montanari dell’Appennino non vogliono strapparsi dalle radici loro e dei loro genitori e nonni, vogliono concorrere a ricostruire un tessuto economico agricolo e agro-turistico, artigianale, industriale. Senza illudersi sui tempi. I quali sono, di necessità, medi o medio-lunghi. Dai 3-4 anni in su. Purtroppo la linea assunta dal governo Renzi non appare né avanzata né realistica. Promettere, al fianco di un archistar come Renzo Piano, di mettere in sicurezza tutto, in modo indifferenziato, vuol dire non intervenire in modo prioritario dove c’è più necessità, più urgenza, agire con prospettive che vanno al di là di una generazione. Al contrario è indispensabile pianificare interventi, con le tecniche più avanzate e nel rispetto delle architetture e degli assetti urbanistici del passato, concentrandoli nelle aree a più alto rischio sismico, il Trapanese e la zona di Messina in Sicilia, tutta la punta calabrese dello stivale, l’Appennino irpino, abruzzese, laziale, umbro-marchigiano e l’isola rosso acceso del Friuli. Qui e subito deve concentrarsi lo sforzo per la messa in sicurezza, con fondi e tempi certi. Inutile alimentare illusioni. O fare promesse mirabolanti di risanamenti e di difese generali. Torna al sommario