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RASSEGNA STAMPA di giovedì 1 giugno 2017 SOMMARIO “Nell’imminenza della solennità di Pentecoste - ha detto ieri Papa Francesco nel corso dell’udienza generale del mercoledì - non possiamo non parlare del rapporto che c’è tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”. La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora; e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva. L’apostolo Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio: sentite bene, ascoltate bene che bell’augurio: « Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo». Riflettiamo un po’ sul contenuto di questa bellissima parola. L’espressione “ Dio della speranza” non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza»: lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti. È la gioia di sperare e non sperare di avere gioia, già oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare. San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “ abbondare nella speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza», cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù. Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore che siamo figli di Dio e suoi eredi. Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui?. «La speranza – fratelli e sorelle – non delude: la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Perciò non delude, perché c’è lo Spirito Santo dentro di noi che ci spinge ad andare avanti, sempre! E per questo la speranza non delude. C’è di più: lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “ paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti». E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore, come lo Spirito Santo fa con ognuno di noi, che stiamo qui in Piazza, consolatore e difensore. Noi dobbiamo fare lo stesso con i più bisognosi, con i più scartati, con quelli che hanno più bisogno, quelli che soffrono di più. Difensori e consolatori! Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’apostolo Paolo – questo sembra

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 1 giugno 2017

SOMMARIO

“Nell’imminenza della solennità di Pentecoste - ha detto ieri Papa Francesco nel corso dell’udienza generale del mercoledì - non possiamo non parlare del rapporto che c’è

tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di

adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”. La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora; e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è

davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva. L’apostolo

Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio: sentite bene, ascoltate bene che bell’augurio: « Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo». Riflettiamo un po’ sul contenuto di questa bellissima parola. L’espressione “ Dio della speranza”

non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza»: lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti. È la gioia di sperare e non sperare di avere gioia, già

oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per

vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare. San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “ abbondare nella

speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza», cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di

sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù. Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore

che siamo figli di Dio e suoi eredi. Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui?. «La speranza – fratelli e sorelle – non

delude: la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Perciò non delude, perché

c’è lo Spirito Santo dentro di noi che ci spinge ad andare avanti, sempre! E per questo la speranza non delude. C’è di più: lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di

sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “ paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo

non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il

beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la

mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè

dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti». E sono soprattutto i

poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore, come lo Spirito Santo fa con ognuno di noi, che stiamo qui in Piazza, consolatore e difensore. Noi dobbiamo fare lo stesso con i

più bisognosi, con i più scartati, con quelli che hanno più bisogno, quelli che soffrono di più. Difensori e consolatori! Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel

cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’apostolo Paolo – questo sembra

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un po’ strano, ma è vero: che anche la creazione “è protesa con ardente attesa” verso la liberazione e “geme e soffre” come le doglie di un parto. «L’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” all’inizio della creazione». Anche questo ci spinge a rispettare il creato: non si può imbrattare un quadro senza offendere l’artista che lo

ha creato. Fratelli e sorelle, la prossima festa di Pentecoste – che è il compleanno della Chiesa - ci trovi concordi in preghiera, con Maria, la Madre di Gesù e nostra. E il dono dello Spirito Santo ci faccia abbondare nella speranza. Vi dirò di più: ci faccia

sprecare speranza con tutti quelli che sono più bisognosi, più scartati e per tutti quelli che hanno necessità” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Pastorale sociale e del lavoro, premio per i laureati Pag XII I frati lasciano, messa d’addio domenica di a.spe. Al Sacro Cuore Pag XII Alla “Battistella” arriva don Francesco di a.spe. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 La saggezza della comunità di Dario Vitali AVVENIRE Pag 18 Il Papa: il buon cristiano? Un seminatore di speranza “Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti. La Pentecoste festa di compleanno della Chiesa” Pag 23 Costruire chiese per abitare l’attualità di Enzo Bianchi LA REPUBBLICA Pag 29 Una chiesa brutta allontana dal sacro di Enzo Bianchi IL FOGLIO Pag II Il gran silenzio misterioso sul successore di Scola (indizi papali) di Matteo Matzuzzi 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Facebook. Un social per grandi di Elena Tebano In Italia oltre la metà degli utenti è over 35 e cala il numero degli iscritti under 18 AVVENIRE Pag 3 Ci sono molti segni positivi per un ritorno delle nascite di Alessandro Rosina Ripresa, nozze, desideri.. Ma si deve investire subito 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Mazzacurati, liquidazione da 7 milioni “per l’impegno e la straordinaria passione” di Alberto Zorzi Gli uomini del Mose: dalle dimissioni all’arresto, fino ad oggi … ed inoltre oggi segnaliamo…

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CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I progetti ambigui dei partiti di Francesco Giavazzi Noi, i conti e l’Europa Pag 1 Una classe politica che non è consapevole di Daniele Manca Il Governatore Visco Pag 16 L’Europa si può rifondare e salvare. Ma occorre una spinta dal basso di George Soros Servono “differenti corsie”, non più velocità. I segnali positivi ci sono Pag 36 Politica in panne, Italia in agonia di Ernesto Galli della Loggia L’idea “populista” di portare le masse nello Stato ha permesso ai partiti di far progredire il Paese. Conclusa quella stagione resta soltanto il vuoto LA REPUBBLICA Pag 30 Perché i figli d'Europa scelgono l'Isis di Ezio Mauro Nati in Occidente, scolarizzati pronti a morire per "il vero Islam". Il nuovo libro di Olivier Roy: il rifiuto delle radici religiose dei genitori considerate un'eredità coloniale, una sottomissione AVVENIRE Pag 1 Fuori dal tempo di Vittorio E. Parsi Il deliberato errore del leader Usa Pag 2 Voto alla tedesca: tre i nodi decisivi di Marco Olivetti La “guerra civile” in tema elettorale si archivia insieme Pag 3 La lenta convalescenza di un Paese in bilico di Leonardo Becchetti Spunti dalla relazione del Governatore di Bankitalia IL GAZZETTINO Pag 1 Se anche il Governatore boccia Bruxelles di Osvaldo De Paolini LA NUOVA Pag 1 Le riforme insieme ai valori di Franco A. Grassini Pag 1 Fuggire verso la speranza di Luca Illetterati

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Pastorale sociale e del lavoro, premio per i laureati La rete di enti, istituzioni e associazioni di categoria coordinata dalla Pastorale sociale e del lavoro del Patriarcato ha indetto la prima edizione del premio Laudato si'. Venezia: i giovani per l'ambiente. L'iniziativa intende premiare tesi di laurea aventi per oggetto temi ambientali legati ad aziende del territorio del Comune di Venezia e vuole essere un particolare riconoscimento verso chi lavora per la protezione della casa comune, in un'ottica di solidarietà universale e sviluppo sostenibile e integrale. L'attenzione è posta così a quei giovani studenti universitari capaci di dare impulso e slancio al territorio, anche attraverso il loro studio e la loro ricerca. Il bando di concorso si rivolge a laureati (laurea magistrale) e post laureati (master o dottorato) che non abbiano compiuto 35 anni alla data del 31 marzo 2017. Saranno ammesse alla selezione tesi di laurea o dottorato di alcuni specifici dipartimenti delle università veneziane e presentate nei più

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recenti anni accademici. La valutazione sarà poi fatta, da un'apposita giuria di esperti in base ad una serie articolata di criteri ed elementi di giudizio: rilevanza, produttività, impatto ambientale, esperienza formativa, sostenibilità economica, sinergie, originalità e innovazione. Sarà premiata la tesi con il punteggio maggiore conseguito e l'autore riceverà una borsa di studio pari a mille euro. Il termine per la presentazione delle domande è fissato per il 30 giugno 2017. Tutti i dettagli sul sito della Pastorale sociale e del lavoro del Patriarcato di Venezia (www.psl.ve.it). Pag XII I frati lasciano, messa d’addio domenica di a.spe. Al Sacro Cuore Si avvicina l'addio al sacro Cuore dei frati minori conventuali. Lasceranno la parrocchia a settembre, ma già questa domenica, in occasione della fine dell'anno pastorale, celebreranno alle 10.30 la messa di congedo dalla comunità. Il patriarca Francesco Moraglia ha incaricato il vicario don Danilo Barlese di presiederla. I religiosi hanno invitato per l'occasione tutti i confratelli che negli anni hanno prestato servizio in via Aleardi. Una sorta di passaggio di testimone ideale con la Diocesi che dalle prossime settimane assumerà la guida di questa che, con i suoi oltre 7 mila abitanti, è una delle parrocchie più numerose e importanti della città. In Curia sono già iniziate le grandi manovre per arrivare a individuare il sacerdote da nominare come parroco, ma viste le dimensioni della comunità non è neanche escluso che possano essere addirittura due i preti incaricati. Dal canto loro, salvo gli spostamenti interni, i frati andranno a sostenere la parrocchia dei Frari a Venezia che a settembre assumerà la cura pastorale anche di San Pantalon e dei Tolentini da dove l'anno scorso se n'è andato don Marco Scarpa, che ha deciso di lasciare la tonaca, e la cui reggenza nella fase di transizione è stata affidata a don Marino Gallina. Pag XII Alla “Battistella” arriva don Francesco di a.spe. Mestre. Come anticipato ieri dal Gazzettino, il patriarca Francesco Moraglia ha incaricato don Francesco Marchesi di andare alla Favorita per affiancare don Daniele Chiminello e prendere in mano i problemi della scuola dell'infanzia Battistella e della parrocchia di Santa Maria del Carmelo. Il sacerdote, 39 anni, ordinato nel 2012, ricopre l'incarico di direttore dell'ufficio per la Pastorale scolastica e di consigliere della Fism provinciale. Nel frattempo, dopo l'infuocata assemblea dell'altro giorno, i genitori dei bambini dell'asilo di via Nigra si stanno consultando per decidere il da farsi. Nella situazione di estrema incertezza che si è creata con le dimissioni di due delle tre maestre e il drastico calo degli iscritti per settembre, nonostante le rassicurazioni, più di qualcuno ha cominciato a guardarsi attorno chiedendo ad altre scuole paritarie se sia possibile trasferirvi i propri figli. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 La saggezza della comunità di Dario Vitali La Lumen gentium afferma la precedenza del popolo di Dio sulla gerarchia, della vita teologale sulle funzioni ministeriali e gli stati di vita, in ragione della precedenza dell’essere sul fare. La rivoluzione copernicana del concilio trova il suo fondamento nel rapporto costitutivo tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, che «differiscono per essenza e non tanto per grado», e che per questo «partecipano ambedue, ciascuno a suo proprio modo, all'unico sacerdozio di Cristo» (Lumen gentium, 10). Si tratta dell’unica differenza essenziale nella Chiesa, che abilita qualcuno - in forza della configurazione sacramentale a Cristo-capo - ad agere in persona Christi in favore della comunità sacerdotale. Tutte le altre differenze sono espressione della grazia battesimale. Non si tratta perciò di negare la gerarchia per innalzare i laici, di cancellare le funzioni per affermare un potere concorrente del popolo di Dio; si tratta piuttosto di tornare ai

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giusti processi ecclesiali, in grado di garantire la crescita della Chiesa come «comunità di fede, speranza e carità» (Lumen gentium 8), e perciò di ogni suo membro nella vita teologale, attraverso la circolarità continua tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, tra la comunità sacerdotale e i suoi pastori. Lumen gentium aveva descritto il sensus fidei come partecipazione del popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione del Santo (cfr. Giovanni 2, 20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua peculiare proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale. Con il senso della fede suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero al quale fedelmente si conforma, accoglie non già una parola di uomini, ma realmente la Parola di Dio; aderisce indefettibilmente “alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi”, vi penetra più a fondo con retto giudizio e più pienamente la applica alla vita» (Lumen gentium 12). L’ecclesiologia conciliare conferisce al sensus fidei il suo giusto posto e rilievo: la rivoluzione copernicana in ecclesiologia permette di recuperare effettivamente la funzione attiva del popolo di Dio non solo nel campo ristretto dello sviluppo dogmatico, ma in tutti i processi della vita ecclesiale, compreso l’ambito dell’architettura e dell’arte sacra. Se si tratta, infatti, di una forma peculiare di esercizio del sacerdozio comune - la partecipazione alla funzione profetica di Cristo da parte della totalità dei battezzati - il suo esercizio avviene nella circolarità continua con il munus docendi dei Pastori della Chiesa. La difficile recezione di una dottrina. Basterebbero queste affermazioni per tentare un collegamento del sensus fidei con il processo - immaginato dal presente convegno - di «fare, abitare, costruire, celebrare, trasformare», in una relazione armonica di «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante». Sarebbe, però, una scorciatoia, o un cortocircuito, dal momento che la teologia post-conciliare, una volta affermata enfaticamente la novità del sensus fidei, ha di fatto trascurato questa dottrina, come pure la dottrina del sacerdozio comune; anzi, l’uso polemico che è stato fatto di questi temi, mettendo in competizione il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale, e opponendo l’autorità dottrinale dei fedeli al Magistero della Chiesa, ha spinto quest’ultimo a inquadrare la teologia del popolo di Dio e, in particolare, il sensus fidei nel fenomeno del dissenso. Se così fosse, come immaginare un contributo al «fare Chiesa» di un soggetto - il popolo di Dio - che rivendica in termini polemici una funzione alternativa alla gerarchia? In realtà, a essere polemica non è stata la universitas fidelium - alla quale difficilmente viene concessa la parola - ma quanti si erano eletti a suoi interpreti qualificati: soprattutto teologi che hanno assunto il sensus fidei come istanza democratica nella Chiesa, opponendo carisma a istituzione, libertà a verità, popolo di Dio a gerarchia, in uno schema ideologico che ha molto compromesso e frenato il processo di rinnovamento ecclesiale avviato dal Vaticano II. A causa di tale deriva il sensus fidei non ha conosciuto la dovuta attenzione nel processo di recezione del concilio, con la conseguenza di disattendere le enormi possibilità di applicazione che il quadro ecclesiologico disegnato da Lumen gentium offriva al suo esercizio. Di fatto, nel Magistero post-conciliare si è preferito glissare sul tema, passando a una più comoda teologia del laicato, costruita sul rapporto di collaborazione con la gerarchia piuttosto che sul primato del popolo di Dio. Il sensus fidei - contestuale con il tema del popolo di Dio - è tornato al centro dell’attenzione con Papa Francesco. Sulla base di questa dottrina, il Papa fonda e giustifica la sua idea che, «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario», per cui «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il suo grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati, in cui il popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni» (Evangelii gaudium 120). Criterio, questo, che sembra calzare in termini esemplari al campo dell’edilizia di culto e dell’arte sacra, appannaggio dei committenti, degli architetti e degli artisti, senza alcuna partecipazione attiva del popolo di Dio al processo. Al di là di una richiesta di aiuto economico per la costruzione della chiesa, null’altro si chiede alla comunità cristiana. D’altronde, cosa potrebbe mai dire o fare il popolo di Dio in un’azione che richiede competenze precise, sia in fase di progettazione che di esecuzione? Come potrebbe incidere su un progetto architettonico, o su un’opera o un ciclo di arte sacra, se manca di strumenti che ne

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rendano se non necessaria, quantomeno utile la richiesta di un parere? Erano, su altro registro, le stesse domande che si poneva Melchor Cano nel XVI secolo, quando, pur riconoscendo la universitas fidelium come voce della Tradizione, e perciò una delle autorità che il teologo poteva interrogare per comprovare la verità cattolica, lo privava di qualsiasi valore chiedendosi che cosa mai i fedeli potessero dire che già i pastores ac doctores non avessero già detto, molto meglio e con più profondità e pertinenza. Stando a questo criterio, che cosa possono chiedere alla gente il vescovo, il liturgista, il teologo, l’architetto, l’artista che loro già non sappiano? Ma in tal modo si finirebbe nella stessa logica degli «attori qualificati», che priverebbero il popolo di Dio di qualsiasi capacità attiva nel processo di costruzione di una chiesa. Sfuggendo a questa logica, Papa Francesco, nel discorso in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, ha spiegato che è stato il riferimento al sensus fidei a «guidarmi quando ho auspicato che il popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno alle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire». Quel discorso - che non è fuori luogo qualificare come storico - ha ripreso e sviluppato l’ecclesiologia conciliare in chiave sinodale, offrendo un quadro assai utile per sussumere il quadro delle relazioni tra «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana». Il punto primo e decisivo è che, analogicamente al processo avviato dal Papa per i due sinodi, bisognerebbe ascoltare ciò che la comunità cristiana ha da dire sulla propria casa, quella che già abita o quella che andrà ad abitare. La scelta decisiva non è quella di inviare un questionario, che il più delle volte sembra destinato ai “cestini” di varia natura, ma di consultare, cioè dare voce e ascoltare la comunità cristiana in quello che ha da dire. Si tratta di andare oltre l’idea del «popolo bue», ignorante per definizione, e conferirgli dignità di soggetto, anche se il suo contributo si riducesse a balbettii: prima di liquidare l’irrilevanza di una parola incerta e debole, bisognerebbe stigmatizzare la responsabilità di quanti avrebbero potuto o dovuto, ma non hanno istruito il popolo di Dio nella grammatica della fede. Si tratta di fare propria la logica sinodale, che elegge l’ascolto non solo come condizione, ma come primo atto dell’intero processo sinodale. Per Francesco, «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Giovanni 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Apocalisse 2, 7)». Nel caso del sensus fidei, è un ascolto fondato sulla convinzione che «voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti sapete. (...) la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce» (1 Giovanni 2, 20.27). Se anche nell’atto di avviare la costruzione di una chiesa il processo inizia dall’ascolto, chi si dovrebbe ascoltare? Che cosa si dovrebbe domandare? In che termini? Va da sé che un’indagine di tipo discrezionale, scegliendo a campione tra i membri della comunità, scadrebbe nelle dinamiche dell’opinione pubblica, contraddicendo grossolanamente il sensus fidei e la sua funzione ecclesiale, data piuttosto dall’azione dello Spirito santo che muove la Chiesa verso il consenso. Né basta dire che bisogna consultare o far parlare tutti, perché il consenso come effetto dell’esercizio del sensus fidei non è la somma delle opinioni di tutti, ma la manifestazione della fede della Chiesa in quanto tale. Questo è evidente nel campo dello sviluppo dogmatico, ma rimane vero in ogni ambito del vissuto ecclesiale: soggetto del sensus fidei non è tanto il singolo, quanto la Chiesa come totalità dei battezzati. Questo particolare profilo ecclesiale del sensus fidei lascia intendere anche i termini in cui si debba intendere l’ascolto del Popolo di Dio da parte di chi, committente, architetto, artista, ha la responsabilità di costruire la «casa» della comunità: «ascoltare è più che sentire», ma è anche più che far parlare, in quanto nella parola - come pure nel silenzio - dell’altro chi interroga è chiamato a cogliere la voce dello Spirito che guida la Chiesa a tutta intera la verità. Non si tratta perciò di fare sondaggi e di verificare le percentuali della maggioranza, ma di porsi in ascolto di una voce - non l’unica, certo - della Tradizione, sapendo che questa «cresce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito santo» (Dei Verbum 8). Ma come ascoltare

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questa peculiare voce della Tradizione, se il soggetto del sensus fidei è la totalità dei battezzati? Come interrogare un soggetto tanto grande da risultare anonimo? Non a caso, la teologia preconciliare parlava di un’infallibilità passiva, attribuendo al Magistero la funzione attiva di verificare il consenso dei fedeli. D’altra parte, così si erano regolati i Papi nel caso dei dogmi mariani, quando avevano consultato i vescovi per sapere della fede loro e dei loro fedeli circa l’Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria in cielo. Ma questa idea si è imposta - come si è visto - con la Riforma gregoriana: nel primo millennio non si parlava di «singularis Antistitum et fidelium conspiratio», intendendo due autorità nella Chiesa - il Magistero e la universitas fidelium - che attestano la stessa verità, ma di «singularis christianorum populorum concordissima fidei conspiratio», dove «i popoli cristiani altro non sono che le diverse Chiese diffuse su tutta la terra, in comunione tra loro proprio per la condivisone della medesima fede apostolica». Le due formule rispondono a modelli ecclesiologici diversi: la Chiesa come communio Ecclesiarum del I millennio e la Chiesa universale del II millennio. Il Vaticano II, senza negare le acquisizioni dell’ecclesiologia giuridica del II millennio, centrata soprattutto nella difesa delle prerogative del Papa, anzi inserendole in un quadro più ampio e organico, ha recuperato l’orizzonte dei Padri, spiegando la compagine ecclesiale come «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (Lumen gentium 23). La forza di questo principio, che nel post-concilio si è tentato di stemperare, risiede nella capacità di tradurre in termini di circolarità feconda la cattolicità della Chiesa. In effetti, il concilio, proprio nel quadro del capitolo sul popolo di Dio, aveva già affermato la «mutua interiorità» di universale e particolare, asserendo la legittima esistenza delle Chiese particolari, le quali «godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13). Qualcuno potrebbe chiedersi perché tanta insistenza sul registro ecclesiologico. Il motivo è semplice e decisivo insieme: dato che «il deposito della Parola di Dio» è stato «affidato alla Chiesa» (Dei Verbum 10), un diverso modello di Chiesa reclama un diverso modello di trasmissione del deposito rivelato. Quando, cioè, si concepisca la Chiesa nella «mutua interiorità» di Chiesa universale e Chiese particolari, anche il dinamismo della Tradizione va ripensato secondo il profilo di tale soggetto, che non è più la Chiesa universale genericamente intesa, ma il «corpo delle Chiese» in comunione tra loro, con il successore di Pietro come principio e fondamento dell’unità di tutti i battezzati, di tutte le Chiese, di tutti i vescovi. Il concilio, disegnando in senso dinamico il progresso - meglio sarebbe dire: il cammino - della Tradizione, ha recuperato anzitutto la funzione del popolo di Dio. Quando Dei Verbum afferma, infatti, che «la perceptio, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia per la contemplazione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Luca, 2, 19.51), sia per la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza, sia per la predicazione di coloro che hanno ricevuto un carisma sicuro di verità» (Dei Verbum 8), prima della predicazione dei vescovi sottolinea la capacità dei credenti di intus-legere il mistero cristiano. Il testo non richiama esplicitamente il sensus fidei, che, tuttavia, è evocato dalla contemplazione di chi, sull’esempio di Maria, medita nel proprio cuore, e soprattutto dall’intelligenza profonda (intima) delle cose spirituali che scaturisce dall’esperienza cristiana. Due le conseguenze più immediate: che non si può comprendere la Tradizione limitandosi all’ascolto dei pastori, in quanto dotati del «carisma sicuro di verità», senza considerare il popolo santo di Dio, voce della Tradizione e quindi soggetto di diritto della sua trasmissione; inoltre, che bisogna ascoltare il popolo di Dio addirittura prima dei pastori. Questo non per ribaltare la piramide, nel tentativo di esautorare o comunque indebolire la funzione del Magistero: la logica del testo risponde piuttosto all’idea di Rivelazione come incontro e dialogo di Dio con l’uomo. Se, infatti, «Dio parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum 2), la risposta a Dio nel dialogo è di questi uomini che «per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina» (Dei Verbum 2), cioè del popolo di Dio, costituito tale in forza della rigenerazione in Cristo, che non risponde anzitutto con illustrazioni dottrinali, ma con la confessione della fede, con la parola e soprattutto con la testimonianza della vita.

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AVVENIRE Pag 18 Il Papa: il buon cristiano? Un seminatore di speranza “Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti. La Pentecoste festa di compleanno della Chiesa” Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nell’imminenza della solennità di Pentecoste non possiamo non parlare del rapporto che c’è tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”. La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora (cfr 6,18-19); e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva. L’apostolo Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio: sentite bene, ascoltate bene che bell’augurio: « Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (15,13). Riflettiamo un po’ sul contenuto di questa bellissima parola. L’espressione “ Dio della speranza” non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza» ( Rm 12,12): lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti. È la gioia di sperare e non sperare di avere gioia, già oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare. San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “ abbondare nella speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza » (Rm 4,18), cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù. Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore che siamo figli di Dio e suoi eredi (cfr Rm 8,16). Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui? (cfr Rm8,32) «La speranza – fratelli e sorelle – non delude: la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» ( Rm5,5). Perciò non delude, perché c’è lo Spirito Santo dentro di noi che ci spinge ad andare avanti, sempre! E per questo la speranza non delude. C’è di più: lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “ paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore, come lo Spirito Santo fa con ognuno di noi, che stiamo qui in Piazza, consolatore e difensore. Noi dobbiamo fare lo stesso con i più bisognosi, con i più scartati, con quelli che hanno più bisogno, quelli che soffrono di più. Difensori e consolatori! Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’apostolo Paolo – questo sembra un po’ strano, ma è vero: che anche la creazione “è protesa con ardente attesa” verso la liberazione e “geme e soffre” come le doglie di un parto (cfr Rm 8,20-22). «L’energia

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capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” (Gen 1,2) all’inizio della creazione» (Benedetto XVI, Omelia, 31 maggio 2009). Anche questo ci spinge a rispettare il creato: non si può imbrattare un quadro senza offendere l’artista che lo ha creato. Fratelli e sorelle, la prossima festa di Pentecoste – che è il compleanno della Chiesa - ci trovi concordi in preghiera, con Maria, la Madre di Gesù e nostra. E il dono dello Spirito Santo ci faccia abbondare nella speranza. Vi dirò di più: ci faccia sprecare speranza con tutti quelli che sono più bisognosi, più scartati e per tutti quelli che hanno necessità. Grazie. Pag 23 Costruire chiese per abitare l’attualità di Enzo Bianchi Inizia oggi a Bose il XV Convegno liturgico internazionale sul tema 'Abitare, celebrare, trasformare. Processi partecipativi fra liturgia e architettura'. Oltre al fondatore di Bose, Enzo Bianchi (del quale proponiamo una sintesi dell’intervento), parteciperanno fra gli altri don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i Beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei, il critico dell’architettura francese Jean-François Pousse, l’architetto Mario Cucinella e Carlo Ratti del Massachusetts institute of technology di Boston. L’idea di fondo dell’iniziativa è di valorizzare la dimensione partecipativa dell’esperienza ecclesiale attraverso l’architettura e di favorire in questo senso il dialogo fra architetti, artisti e committenza. Negli ultimi decenni si è riflettuto poco sul fatto che la Chiesa, popolo in cammino, è una realtà in continua trasformazione. Vi è in primo luogo un mutamento della fede nella comunità cristiana: la fede cambia, non solo nel modo di esprimersi, ma perché assume altri accenti, altre immagini di Dio e di Cristo. Il 'Credo' è sempre lo stesso, eppure nessuno di noi crede nello stesso modo in cui credeva da giovane, o come si credeva prima della rivoluzione antropologica, culturale e teologica degli anni ’60. Si registra anche un mutamento della società, un passaggio dall’assetto della cristianità a una situazione inedita, negli ultimi secoli in cui la Chiesa è tornata a essere una comunione di minoranze, senza più poter 'reggere' la società, ormai secolarizzata. Si potrebbero mettere a fuoco altri mutamenti connessi a quelli appena enunciati. Ma quello che più mi interessa, mi intriga e, per certi versi, mi tormenta, è il mutamento della chiesa edificio, soprattutto nel modo di abitarla da parte dei cristiani. Questo aspetto mi pare una parabola appropriata ed eloquente del mutamento in atto, perciò vale la pena soffermarsi su di esso. Si faccia lo sforzo di riandare con la mente alla topografia della chiesa, praticamente di tutte le chiese cristiane esistenti al momento della grande rivoluzione degli anni ’60. Si partiva dal presbiterio, spazio sentito come doppiamente sacro, davanti all’altare maggiore e delimitato dalla balaustra. Era lo spazio riservato ai presbiteri, ai chierici e ai chierichetti. Era lo spazio in cui si celebrava la liturgia cattolica, spazio vietato ai fedeli, soprattutto alle donne. In esso avveniva ciò che era decisivo, i cui attori erano presbitero e chierichetti. L’altro spazio fondamentale era la navata, riservata ai fedeli laici, uomini da una parte e donne dall’altra. Essi non erano attori della liturgia ma, impegnati in pratiche devozionali, tra cui eccelleva il rosario, 'assistevano alla messa'. Non rispondevano agli inviti del presbitero, compito riservato ai chierichetti. Durante la settimana la navata era quasi vuota e in essa comparivano solo due o tre suore e i parenti del morto per il quale si 'diceva messa'. La domenica, invece, la navata era colma ma passiva, silente, eccetto che per qualche canto popolare, soprattutto di devozione mariana. Veniva poi il terzo spazio, in fondo alla chiesa, alla sua soglia: qui per tutto il tempo della liturgia sostavano alcuni uomini che entravano e uscivano, cristiani della soglia che non osavano assistere a una messa né tanto meno comunicarsi. In alcune chiese c’era anche un atrio al riparo dalla pioggia, dove si sostava a salutarsi, a scambiarsi qualche parola: anche quanti lo frequentavano erano cristiani, ma non osavano entrare in chiesa. Infine c’era la piazza, dove tutti convenivano per l’ora della messa domenica-le: qui si vivevano le contrapposizioni tra coinvolta nella liturgia, celebrante. Sì, oggi la navata dà un segno del popolo di Dio, indica un’assemblea che è resa corpo del Signore e perciò nel suo cammino pellegrinante verso il Regno celebra, invoca, canta, rende grazie. Sulla soglia ci sono molti in ricerca, che osservano e si chiedono se mai possano fare parte di quell’assemblea, se ciò che vi si celebra è per loro significativo ed eloquente. E così soglia e atrio sono oggi abitati più di ieri: in ogni caso,

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esprimono bene la situazione di gente cattolici e comunisti, cristiani e atei… Ebbene, oggi la topografia dell’abitare la chiesa si è profondamente trasformata, anche se non si sono trasformati i muri della chiesa. Il presbiterio si è svuotato e quasi ovunque il presbitero celebra da solo, sovente senza chierichetti. A volte il presbiterio è vuoto anche dell’altare, che è stato eretto fuori, all’inizio della navata (con risultati a volte discutibili). Quest’ultima non è più piena come un tempo, ma quanti la abitano non assistono più alla messa ma vi partecipano, in qualità di assemblea più consapevole, che si dice cristiana, ma non partecipa alla vita della comunità, non partecipa ogni domenica alla liturgia, ma vive nel cuore sentimenti cristiani, legge il Vangelo, frequenta talvolta luoghi come le comunità monastiche, prende parte a eventi religiosi… Quanto alla piazza, in essa non vi sono più contrapposizioni, perché l’ateismo è morto di una dolce morte e quanti dicono di non essere credenti in Dio aggiungono però che non possono neppure dire che Dio non esista. Dunque il mutamento è avvenuto e avverrà ancora. Di questo occorrerebbe che liturgisti, architetti e pastori prendessero più coscienza, perché tale processo ha delle implicazioni: liturgiche certamente (quale liturgia in un mondo così delineato?), ma anche architettoniche (quali spazi apprestare e per chi?). In quest’ottica, è utile riflettere su un altro elemento, connesso a quello appena discusso: con quale stile affrontare la necessità della costruzione di nuove chiese o dell’adeguamento di quelle esistenti? Spesso accade che l’architetto consegni un’opera d’arte approvata dai committenti, ma che poi, così com’è, non riesce a essere abitata dal popolo di Dio. La gente non viene aiutata a capire il contemporaneo, ma è facilmente assecondata nelle sue devozioni legittime, che potrebbero però tradursi in immagini coerenti con l’architettura e non invece offensive per l’opera d’arte e per una spiritualità cristiana che è tale se sa cantare anche la bellezza. La comunità cristiana è soggetto integrale e deve poter abitare lo spazio liturgico con la sua sensibilità, che però va sempre aiutata, se la si vuole rendere coerente con ciò che la fede della Chiesa esprime oggi. Questo significa che i destinatari devono essere resi partecipi del progetto, devono accompagnare la costruzione e ascoltare dall’architetto la sua intenzione, ciò che egli intendeva esprimere, come ha obbedito alle urgenze liturgiche cristiane e alla confessione di fede del popolo di Dio. Ma non deve avvenire che, dopo la consegna dell’opera, la gente, e con essa quanti sono deputati al culto, la stravolgano e la rendano 'mostruosa', cioè non coerente con il tutto. Infine, solo un rapido accenno all’adeguamento delle chiese, operazione necessaria a volte, non sempre. Ci sono chiese che sono opere d’arte dei secoli passati e non ammettono adeguamenti alla riforma liturgica attuale, soprattutto quelle post- tridentine. In ogni caso, la trasformazione non deve, neppure in nome della novità della riforma liturgica, stravolgere ciò che è arte ed è essenziale all’edificio chiesa. Al riguardo non si possono indicare regole generali, ma certo si possono avanzare alcune perplessità: che senso hanno, per esempio, quelle cattedre episcopali che si appoggiano all’altare tridentino e spesso oscurano il tabernacolo, così che, quando il vescovo vi si siede, la sua testa copre la porticina del tabernacolo attorniato da angeli? Dare vita a luoghi del passato significa non offenderli, non stravolgerli ma, se possibile, inserire in essi solo elementi nuovi veramente necessari e coerenti con l’insieme della chiesa e con il suo stile. Nessuna mummificazione dell’esistente, nessuna ideologia conservatrice o tradizionalista, ma un’intelligente trasformazione che, nella logica cristiana, deve essere sempre trasfigurazione, significativa ed eloquente per il popolo cristiano. Abitare una chiesa significa non solo occuparne lo spazio, ma prendersi cura dello spazio, dell’edificio, dell’arte che in essa è testimoniata: infatti, l’edificio chiesa e il modo di abitarlo edificano la Chiesa di Cristo. LA REPUBBLICA Pag 29 Una chiesa brutta allontana dal sacro di Enzo Bianchi I secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle testimoniano che quando la fede è pensata, ovvero quando tutti gli ambiti in cui essa si esprime non sono ignorati, trascurati o lasciati al caso, la fede giunge da sé a creare cultura. Sì, una fede vissuta con intelligenza crea cultura, che si esprime tanto nelle forme del pensiero quanto nell' espressione artistica, sia essa figurativa, musicale o architettonica. Ma in quale misura oggi la fede cristiana è capace di generare cultura, creando arte e bellezza in immagini,

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in suoni, ma anche in spazi e luoghi? Se la bellezza e l'arte hanno certamente un fine in se stesse, non si deve dimenticare che nel cristianesimo esse possiedono anche un significato e un valore testimoniale. Se Simone Weil è giunta ad affermare che il canto liturgico può testimoniare quanto la morte di un martire, noi possiamo aggiungere che anche un luogo di culto cristiano è autentica martyria, testimonianza della fede. La storia, anche quella contemporanea, attesta che molto spesso là dove dei cristiani subiscono il martirio, simultaneamente sono rasi al suolo i loro luoghi di culto, affermando così che la vita dei cristiani e i loro luoghi di assemblea formano un tutt'uno. Il rinnovato interesse per il rapporto tra liturgia e architettura al quale da alcuni anni si assiste è certamente legato alla presa di coscienza, dopo decenni di oblio, di come lo spazio liturgico sia un luogo simbolico maggiore per la formazione dell' identità cristiana. La crescente scristianizzazione della società occidentale rappresenta una chance offerta ai cristiani per ripensare luoghi e tempi di iniziazione. Come tutte le iniziazioni, anche quella cristiana è efficace nella misura in cui è un processo globale che si rivolge non solo all' intelletto ma anche al cuore, alla memoria e al corpo. Ora, lo spazio liturgico, soprattutto nell'atto della celebrazione, è il luogo simbolico maggiore di formazione dell'identità cristiana, perché esso fa vedere il lessico e la grammatica della vita cristiana così come ce li ha trasmessi la grande tradizione. Lo spazio liturgico è parola "viva ed efficace" che opera e agisce su chi lo abita, su chi giorno dopo giorno lo frequenta, cooperando alla formazione dell' identità del cristiano, e dunque dell'identità della chiesa. L'edificio-chiesa di fatto edifica la chiesa. Come l'ecclesia mater, anche lo spazio di una chiesa è una vera e propria matrice spirituale nella quale donne e uomini cristiani sono generati alla fede. Tale è il ruolo dello spazio liturgico nella formazione dell'identità del cristiano che, inevitabilmente, anche le brutture di uno spazio liturgico diventeranno prima o poi deformazioni e patologie della vita spirituale di chi lo frequenta. Sappiamo bene come certe chiese siano veri e propri ostacoli alla preghiera e all'esperienza di Dio. Questo dice l'estrema fragilità alla quale lo spazio liturgico cristiano è esposto. Per questo esso, come ogni altra realtà cristiana, ha costantemente bisogno di essere evangelizzato, ovvero verificato, rinnovato e corretto alla luce dello specifico cristiano. La fragilità dello spazio liturgico è stata ben colta da quanti nella storia della chiesa sono stati dei riformatori, capaci di creare nuove forme di vita spirituale. Basti pensare a san Bernardo e all'architettura liturgica che ha creato, espressione visiva del rinnovamento spirituale da lui intrapreso. Probabilmente l'interesse attuale per l'architettura liturgica testimonia la necessità di un ripensamento dello spazio liturgico alla luce dei modelli di vita cristiana, di chiesa e di liturgia indicati dal Vaticano II. La ricerca sul significato antropologico, biblico, teologico e architettonico dello spazio liturgico è anch'essa espressione della comune volontà di riscoprire il valore e il significato originari dello spazio liturgico cristiano, uno spazio che fa la chiesa, attraverso una grammatica dell'abitare e del costruire, del trasformare e del celebrare. È dunque un'esigenza intrinseca al cristianesimo quella di avere un luogo dove l'assemblea santa è convocata in unum per celebrare il mistero della fede. Un luogo che non sia un semplice contenitore e neppure la somma di elementi e spazi funzionali, ma che sia parte sostanziale della celebrazione. Lo spazio liturgico cristiano è infatti anch'esso "liturgia". Questa verità per noi irrinunciabile attesta che l'architettura liturgica non è tale se non è il frutto dell' incontro tra l'ars celebrandi e l'ars aedificandi. Nel contempo, sappiamo bene che la più elementare manifestazione pubblica della chiesa sono quelle chiese che essa edifica al cuore delle città. Ma una chiesa la si edifica in una città affinché essa sia chiesa per quella città, perché la città è sempre destinataria della presenza della chiesa e mai un semplice mezzo e tanto meno uno mero strumento. Non c'è chiesa senza città perché la salvezza di Dio in Cristo è sempre propter nos homines, per noi uomini. Questa è la ragione per cui la chiesa di Dio non è mai stata e non potrà mai essere una realtà apolide. La città, infatti, è sorta per proteggere l'umanità stessa e favorire processi di umanizzazione: contro il pericolo di un nomadismo che desitua l'uomo e non gli permette di custodire la terra, e anche contro l'assolutezza del clan, che dà identità al singolo, ma lo imprigiona nello spazio della parentela e della somiglianza. La città è stata ed è il luogo per eccellenza della costruzione e della manifestazione dell'umano, il luogo più fecondo per l'espressione dell'ethos, proprio perché costruire una città significa fare un'opera architettonica etica, che riguarda cioè il rapporto degli esseri umani tra loro e con lo spazio. In tale ottica, progettare ed edificare una chiesa non significa solo dotare

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la comunità cristiana di un luogo di culto, ma anche trasformare in realtà l'idea che ogni chiesa è metafora della presenza della chiesa di Dio nella polis, in quanto la chiesa si rende pubblica e si rappresenta nelle sue chiese che sono forma alta e altra di linguaggio. Disseminate nel tessuto urbano, le chiese sono l'immagine al tempo stesso della prossimità e dell' alterità di ciò di cui sono segno. Più sono luoghi di bellezza e più testimoniano un ethos che ispira e plasma relazioni belle e legami buoni, così che non solo per i cristiani ma per i credenti di ogni religione costruire i propri luoghi di culto significa partecipare alla costruzione etica di una città. Accanto ai luoghi e agli spazi pubblici e in mezzo alle case, le chiese rivelano lo stile della presenza dei cristiani nella società che è sempre al tempo stesso vicinanza nella differenza e presenza nella diaconia, nella logica della piena comunione e mai della separazione o, peggio ancora, della contrapposizione. La facciata di una chiesa è il volto della chiesa che nella prossimità a tutti dice accoglienza, condivisione e consolazione. Se sono questo, le chiese sono il sacramento della presenza di Dio in mezzo agli esseri umani. Una presenza nella fedeltà a Dio e nella compagnia degli uomini. IL FOGLIO Pag II Il gran silenzio misterioso sul successore di Scola (indizi papali) di Matteo Matzuzzi Complicata. Definiscono così, con un unico aggettivo, dalle parti del Vaticano, la partita per la successione alla cattedra episcopale di Milano, occupata negli ultimi sei anni dal cardinale Angelo Scola, ricevuto dal Papa venerdì scorso senza che l'udienza risultasse nel bollettino ufficiale della Santa Sede. Complicata perché non si tratta di una piccola diocesi di periferia, bensì della più grande (o della seconda più grande, dipende dai parametri che si usano per fare le comparazioni) del pianeta. Anche Benedetto XVI si trovò nella stessa situazione, con terne di nomi che quotidianamente uscivano sui giornali e settori del clero locale che spingevano questo o quel candidato, dal martiniano all'antimartiniano, dal conservatore di rottura alla soluzione soft moderata (stavolta questa casella pare occupata dal vicario generale Mario Delpini). Scola, si sa, ha compiuto 75 anni lo scorso novembre, età in cui per la chiesa si è tenuti a presentare al Papa le dimissioni dal proprio incarico. Sta poi al Pontefice decidere se accettare subito la rinuncia (lo ha fatto con l'arcivescovo di Bruxelles, mons. André Joseph Léonard), quasi subito (vedasi mons. Negri a Ferrara) o se concedere una proroga temporale più o meno lunga. Si passa poi dal biennio in più dato a Caffarra e Romeo al quinquennio disposto per il neo presidente della Cei, l'arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti, fino al generico donec aliter provideatur, finché non si provveda altrimenti, pensato per il cardinale Edoardo Menichelli ad Ancona, pure lui over 75. In curia, poi, continuano a lavorare come se nulla fosse i cardinali Coccopalmerio - presidente del pontificio consiglio per i Testi legislativi, 79 anni compiuti - e Amato, prefetto della congregazione per le Cause dei santi, 79 anni tra una settimana esatta. Insomma, decide il Papa. Il caso Scola è un po' particolare. Dallo scorso novembre si è come in un limbo: nessuna proroga (scritta od orale), nessuna deroga, nessun donec aliter provideatur. Il cardinale, è noto, ha già pronto il buen retiro lacustre. Una canonica a Imberido rimessa in sesto, messe da celebrare nei paesini del lecchese, tempo da dedicare allo studio e alla scrittura. Nessuna smania di rimanere in città, come peraltro più volte ha fatto capire. A Roma, però, tutto tace. Almeno così pare. Poco chiacchiericcio come invece è accaduto per il toto-vicario romano, con le scommesse profane sul dopo Vallini che circolavano da almeno un anno. Qui era più facile intuire i desiderata papali. Le richieste del clero, dopotutto, erano chiare: un prete vicino ai preti, come lo fu Ugo Poletti, dicevano. Poco amministratore, molto callejero. Francesco aveva chiesto ai sacerdoti di dire la loro, li aveva consultati. Ed era quasi naturale che la scelta cadesse su un profilo che poi s'adatta perfettamente a mons. Angelo De Donatis, che non a caso proprio Poletti ha ricordato appena divenuta ufficiale la nomina. De Donatis, il prescelto che Beroglio volle come predicatore degli esercizi quaresimali alla curia vaticana nel 2014. Un altro che è andato ad Ariccia è stato il friulano Ermes Ronchi, fa notare un porporato, quasi a intendere che potrebbe essere il padre servita (come David Maria Turoldo, notare bene, pure lui friulano e pure lui amico di Carlo Maria Martini) uno che potrebbe dire la sua nella corsa alla cattedra ambrosiana. Ammesso che ci sia ancora qualcosa da dire.

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Francesco sorprende (vicario di Roma a parte) e il silenzio che avvolge il dopo-Scola potrebbe essere anche il segno che la decisione è stata presa ma che si preferisce attendere, lasciando da parte quella fretta che invece sembrava esserci a cavallo della riuscita visita papale nella città di Ambrogio, lo scorso marzo. Magari anche per non sbagliare in un posto così importante - "Alla Madonna ho chiesto scusa per il mio cattivo gusto nello scegliere la gente", ha detto al di ritorno dal viaggio a Fatima, e diversi osservatori hanno ricondotto la frase ai problemi della diocesi di Palermo, dove Francesco ha dovuto bloccare la nomina ad ausiliare del prescelto del vescovo Lorefice, da lui scelto a sorpresa quando quest'ultimo era semplice parroco a Modica. Chissà, il mese giusto potrebbe essere questo - Scola fu nominato il 28 giugno 2011 ed entrò in tempo per iniziare l' anno pastorale a settembre, ma non ci sarebbe da meravigliarsi se la scelta fosse ulteriormente posticipata. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Facebook. Un social per grandi di Elena Tebano In Italia oltre la metà degli utenti è over 35 e cala il numero degli iscritti under 18 Sempre di più gli adulti italiani usano Facebook per gestire una parte dei loro rapporti sociali. Al contrario dei giovanissimi, che invece online cercano altre piattaforme. La maggioranza (il 53%) degli utenti del social network fondato da Mark Zuckerberg - che ormai sono 30 milioni, la metà di tutti gli italiani - ha infatti più di 35 anni. Dal 2016 a oggi invece i minorenni sono diminuiti del 5%, secondo i dati elaborati dall’analista di social media Vincenzo Costa. «È un fenomeno in parte legato all’effetto rete: tu stai dove stanno i tuoi amici. Ma ha anche a che fare con la caratteristica che ha assunto nel tempo Facebook - spiega Giovani Boccia Artieri, sociologo dell’Università di Urbino e autore di Stati di connessione (Franco Angeli) -. In Italia è esploso come fenomeno di massa nel 2011, in coincidenza con il referendum sull’acqua pubblica, ed è diventato sempre più un luogo di discussione politica con le elezioni e la visibilità che ha assunto sul web il Movimento 5 Stelle. Adesso è molto connotato dalla dimensione informativa: per questo ci stanno gli adulti. Lo stesso motivo che invece lo rende meno interessante per il pubblico più giovane». Negli ultimi due anni infatti c’è stato un aumento degli utenti tanto più marcato con il crescere dell’età: del 10% tra i 19-24enni, del 19% tra 25-29enni, del 14% tra i 36 e i 45 anni (la fascia di età più numerosa in termini assoluti con oltre 7 milioni di iscritti) e addirittura del 21% per i 46-55enni e del 29% per gli ultra 55enni. Accanto al lato «pubblico» rimane però anche quello privato. «Il problema degli over 30 è che con gli impegni di lavoro fanno più fatica a mantenere i contatti con una rete sociale “estesa” - dice Giuseppe Riva, professore di Psicologia dei nuovi media all’Università Cattolica di Milano -. Facebook permette di avere un rapporto attivo anche con coloro che non riusciamo a vedere faccia a faccia». È stata proprio la maggiore presenza degli adulti, però, a far «migrare» i minorenni su altre piattaforme: «È un fenomeno iniziato sei o sette anni fa e si lega al fatto che molti tredicenni (l’età in cui si può formalmente entrare su Facebook) hanno avuto il permesso di stare sul social a patto che i genitori fossero loro “amici” - prosegue Riva -. Poi però, soprattutto quando arrivano ai 15-16 anni, iniziano a volere uno spazio proprio, in cui non essere visti (e monitorati) dai genitori». Da qui la scelta di altri social media. Il più amato dagli adolescenti è oggi Instagram: «È più immediato e veloce e - conclude Riva - vive moltissimo di selfie , che sono ormai uno strumento chiave della comunicazione giovanile». In parte è una tendenza inevitabile: «La Rete è uno degli spazi dove si costruisce la propria identità e nell’adolescenza è fisiologico sfuggire al controllo degli adulti: i ragazzi hanno bisogno di spazi generazionali autonomi, dove realizzare i loro compiti evolutivi - dice Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro -. Quello che però paradossalmente finiscono per imparare dagli adulti è la spettacolarizzazione di ogni avvenimento della vita, anche dei meno importanti. È il rischio della presenza social, a ogni età».

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AVVENIRE Pag 3 Ci sono molti segni positivi per un ritorno delle nascite di Alessandro Rosina Ripresa, nozze, desideri.. Ma si deve investire subito Siamo sempre di meno e sempre più vecchi. Questo in estrema sintesi si conferma essere il ritratto della demografia del nostro Paese che emerge dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat. L’immigrazione non risulta più in grado di colmare il sempre più ampio divario tra nascite in riduzione e decessi in aumento. Il motivo principale è l’ormai cronica bassa natalità che porta con sé sia una riduzione della popolazione sia un inasprimento degli squilibri strutturali tra vecchie e nuove generazioni. La grande recessione ha peggiorato un quadro già problematico, confermando quanto le condizioni economiche presenti e l’incertezza sul futuro pesino sull’assunzione di scelte di lungo periodo come la nascita di un figlio. Non è un caso che il nostro Paese sia allo stesso tempo quello con più alto numero di under 30 che dopo gli studi non riescono ad entrare nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet) e quello con fecondità crollata maggiormente prima dei 30 anni. Secondo le previsioni centrali prodotte dall’Istat nel 2011, quindi già in epoca di piena crisi, nel 2016 il numero medio di figli per donna avrebbe dovuto essere pari a 1,44, mentre il dato vero è stato notevolmente più basso, pari a 1,34. Le nascite complessive avrebbero dovuto essere pari a 531 mila, sempre secondo le previsioni, e invece sono state pari a 474 mila. La lunga e pesante crisi ha portato a rinviare ancor più che in passato la realizzazione piena dei propri progetti familiari. Le donne tra i 26 e i 30 anni nel 2008, hanno oggi tra i 35 e i 39 anni. Si tratta della fascia che ha attraversato la crisi nella fase centrale della transizione alla vita adulta, correndo oggi il maggior rischio di rinunce definitive. Uno studio condotto con i colleghi demografi Comolli e Caltabiano – presentato l’anno scorso all’European Population Conference e in corso di pubblicazione – mostra come tale generazione sia quella che ha rinviato maggiormente l’arrivo del primo figlio. L’impatto risulta però differenziato nelle varie categorie sociali. La recessione ha inciso poco o nulla sulle scelte riproduttive delle donne con basso investimento sulle opportunità di lavoro e maggior predisposizione al ruolo di casalinga e madre, residenti soprattutto al Sud e con titolo di studio medio-basso. Per le grande maggioranza, invece, delle donne con istruzione media o alta la condizione occupazionale risulta strettamente interrelata con i progetti familiari. Soprattutto in periodo di crisi chi non ha un impiego ha come principale assillo quello di trovarlo. Chi invece ha un lavoro è particolarmente attenta al rischio di perderlo. Tutto questo ancor più in un contesto di cronica carenza di misure di conciliazione tra lavoro e famiglia. Lo studio però evidenza anche come una parte di queste donne, soprattutto le laureate delle regioni centrosettentrionali, disponga di risorse culturali ed economiche in grado di realizzare i propri obiettivi di vita anche nelle congiunture sfavorevoli. Durante la recessione a trovarsi a rinviare maggiormente la maternità sono state, allora, soprattutto le donne con titolo di studio intermedio, orientate al lavoro e con necessità di conciliazione, ma con meno risorse e strumenti rispetto alle laureate. È su questa ampia categoria su cui si gioca di più la possibilità che il rinvio diventi o meno rinuncia definitiva una volta superata la fase più critica della crisi. Per consentire a esse un recupero in grado di spingere al rialzo la natalità nazionale nei prossimi anni, è necessario agire sul brevissimo periodo investendo, però, nel contempo in modo solido su misure di medio periodo. Serve, infatti, un segnale immediato di maggiore attenzione e sostegno da parte delle politiche pubbliche. Utili in questo senso sono i contributi previsti dall’attuale Governo a favore dei nuovi nati e a supporto ai costi dei servizi per l’infanzia. Si deve però trattare di misure incisive, organiche e con prospettiva di consolidarsi nel tempo. Assieme a queste azioni di immediato riscontro va però messo in atto un solido processo di rafforzamento strutturale delle politiche familiari in grado di ridurre l’incertezza nel futuro da parte di chi decide oggi di avere un figlio. e carenze del nostro Paese sono in particolare evidenti su tre fronti: gli strumenti che consentono ai giovani di non rinviare troppo autonomia e formazione di una propria famiglia; un sistema fiscale meno svantaggioso per le coppie con figli, fondato sull’idea che i bambini sono un investimento sociale più che un costo privato; misure solide per la conciliazione tra lavoro e famiglia. La convinzione e la determinazione con cui agire per recuperare le carenze passate dovrebbe ispirarsi a quello che ha fatto la Germania negli ultimi anni. Tale Paese, come l’Italia, presenta una natalità molto bassa, ma sta da vari anni

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investendo tutto quello che serve per aumentare la copertura, in particolare, degli asili nido. Tanto che la partecipazione tedesca ai servizi per l’infanzia per i bambini sotto i 3 anni è più che raddoppiata dal 2006 ad oggi, raggiungendo di fatto la convergenza con la media dei Paesi sviluppati. Il dato italiano è invece rimasto uno dei più bassi in Europa. Ci sono però almeno tre dati per pensare che siamo ancora in tempo a recuperare se interveniamo con politiche solide. Il primo è che l’aumento delle nascite è un obiettivo desiderato, come indica l’ampio divario tra il numero di figli che le coppie italiane vorrebbero avere – mediamente superiore a due secondo i dati Istat– e il numero che effettivamente si trovano a realizzare, pari a 1,34 figli. Oltre che desiderato, un incremento rilevante è possibile. Lo conferma la crescita osservata nelle regioni centrosettentrionali dal 1995 al 2010. In Emilia Romagna e Lombardia, in particolare, la fecondità in tale periodo è aumentata di circa 0,5 figli. Un aumento di tale entità è comparabile con quello del baby boom osservato nel corso degli anni Cinquanta e arrivato all’apice a metà anni Sessanta. La persistenza della crisi ha poi ripiegato verso il basso le scelte riproduttive in tutto il Paese. Ma se nei prossimi quindici anni la fecondità italiana fosse in grado di risalire di 0,5 figli otterremmo la convergenza con i Paesi Scandinavi. Il terzo dato ci dice che oltre a essere desiderato e possibile, l’obiettivo di incoraggiare le nascite con politiche adeguate potrebbe oggi collocarsi in un contesto particolarmente favorevole. Nel 2015, secondo i più recenti dati Istat, i matrimoni sono per la prima volta tornati ad aumentare dall’inizio della recessione. La ripresa delle nascite, dopo una fase di crisi, parte sempre da una ripresa di effervescenza delle unioni di coppia. È stato così sia alla fine della seconda guerra mondiale e sia nel periodo del baby boom. Che quindi i matrimoni tornino a crescere è una buona premessa per la ripresa della natalità. Insomma, le condizioni ci sono e questo è il momento migliore, escludendo gli anni passati, per investire tutto ciò che serve a mettere in relazione virtuosa vitalità del presente e fiducia nel futuro. È una scommessa che sta nelle mani del Governo, ma che impegna tutto il Paese. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Mazzacurati, liquidazione da 7 milioni “per l’impegno e la straordinaria passione” di Alberto Zorzi Gli uomini del Mose: dalle dimissioni all’arresto, fino ad oggi Venezia. A voler vedere il bicchiere (per lui) mezzo vuoto, potrebbe sempre lamentarsi che gli manca un milione. Sette gliene avrebbero dovuti dare (l’ultimo milione l’hanno bloccato i nuovi commissari), ma a un certo punto l’ingegner Giovanni Mazzacurati ne avrebbe potuti avere perfino 8. Così infatti aveva deliberato il consiglio direttivo del Consorzio Venezia Nuova il 19 dicembre 2013, dando mandato all’allora presidente, l’ex deputato Mauro Fabris, e al direttore generale Hermes Redi di chiudere l’accordo transattivo: «Anche tenendo conto del Tfr - di dice – un importo onnicomprensivo fino a un massimo di 8 milioni di euro». Il giorno dopo, il 20 dicembre, Mazzacurati, Fabris e Redi firmano la transazione da 7 milioni che, rimasta nascosta per mesi, avrebbe poi creato scalpore e indignazione. Quello è l’ultimo capitolo. Ma dalla cinquantina di pagine di documenti depositati ieri in udienza dall’avvocato del Consorzio Paola Bosio – su richiesta delle difese, il cui obiettivo è screditare sia Mazzacurati che gli altri accusatori (tipo Pio Savioli, all’epoca membro del direttivo) –, emerge come si è arrivati a quella somma, tra stop&go, anticipi da milione, pareri legali e il pressing di Mazzacurati e dei suoi avvocati. In mezzo, a rendere ancor più delicata la questione, l’arresto dell’ingegnere, finito ai domiciliari il 12 luglio 2013, appena due settimane dopo le sue dimissioni, con l’accusa di turbativa d’asta per una gara del Porto di Venezia che fu il grimaldello per far esplodere lo scandalo Mose. Tutto parte dal 28 giugno, il giorno in cui Mazzacurati si dimette per motivi di salute. Viene convocato il direttivo e a dare la notizia è Alessandro Mazzi, leader di Grandi Lavori Fincosit, uno dei tre «big» del Consorzio. Mazzi – così dice il verbale – afferma di aver a lungo tentato di convincere Mazzacurati a non farlo. Lamenta dunque «la perdita di un dirigente di altissimo profilo»

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e lo ringrazia «per l’insostituibile azione, sempre sostenuta da una straordinaria passione ed impegno». Subito dopo c’è un consiglio bis – «riunito spontaneamente», recita il verbale – in cui ancora Mazzi ritiene «doveroso» un emolumento a titolo di buonuscita. Il consiglio dà a lui e proprio a Savioli, rappresentante del mondo delle coop, il compito di stabilire la cifra, «dando per approvato e valido quanto da loro definito». I 7 milioni vengono stabiliti in pochi minuti dai due in un «verbalino» di mezza paginetta, in cui non si dice nemmeno come si sia arrivati a calcolare quella cifra. Fa sorridere che lo stesso direttivo preveda anche che al Consorzio spettino anche le eventuali spese legali di Mazzacurati. Il 12 luglio arriva l’arresto. Il 17 nuovo consiglio, in cui Fabris revoca la delibera. In quei giorni Mazzacurati collabora con i pm, poi verrà liberato. Passata la buriana, torna alla carica. La nuova riunione del direttivo è il 3 ottobre e si torna a parlare della buonuscita, visto anche «il sollecito ricevuto da parte del legale dell’ing. Mazzacurati affinché possano essere soddisfatte le sue aspettative di compenso». Romeo Chiarotto, boss di Mantovani, dice che va bene, così come il solito Mazzi. Duccio Astaldi (Condotte) mette in guardia dal potenziale contrasto con una futura costituzione di parte civile del Consorzio nei procedimenti penali. Si rimanda tutto ai pareri legali, ma intanto, per tenere buono Mazzacurati, viene staccato un acconto da un milione. Il 19 dicembre arrivano i pareri di due legali e un consulente del lavoro. L’avvocato Adalberto Perulli, docente universitario di Diritto del lavoro, scrive che Mazzacurati, direttore del Cvn dal 1982 e anche presidente dal 2005, avrebbe tutti i titoli per chiedere il Tfr, in quanto «lavoratore subordinato», come un precario qualsiasi e non l’uomo che portava a casa fino a due milioni di euro l’anno negli ultimi periodi. Titta Madia dice che non c’è contrasto tra emolumento e costituzione di parte civile. Il consulente Francesco Natalizi calcola l’ipotetico Tfr in 3 milioni e 846 mila euro. Si litiga un po’ su chi debba darglieli: se il Consorzio (tesi di Astaldi, che si astiene) o le imprese (tesi di Chiarotto). La giostra parte e Mazzacurati incasserà 5 milioni e 846 mila euro. L’ultimo milione e 154 mila euro viene bloccato dai commissari, ma Mazzacurati non se l’è messa via: ha ottenuto un decreto ingiuntivo, a breve ci sarà l’udienza perché il Cvn ha fatto opposizione. Venezia. Quante ore ci vorranno non lo sa nessuno. Quel che è certo è che quella dell’8 giugno sarà un’udienza interminabile per il processo del Mose: ieri il tribunale ha deciso che quel giorno saranno letti in aula i verbali dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, e grande accusatore, Giovanni Mazzacurati. Le difese avevano chiesto addirittura l’ascolto delle bobine, i giudici l’hanno negato. Sarà l’ultimo capitolo di un’istruttoria durata 25 udienze: in quella successiva, il 29 giugno, i pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini inizieranno la requisitoria. Ieri, nell’ultima udienza con testimoni, erano in scena le difese dell’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, accusato di finanziamento illecito della campagna elettorale del 2010, e dell'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva, che deve rispondere invece di corruzione. I difensori di Orsoni, gli avvocati Francesco Arata e Carlo Tremolada, hanno voluto sottolineare i due grandi scontri tra l’avvocato-sindaco e Mazzacurati: il Comitatone del 2011, quando minacciò di non votare i soldi al Mose se non fossero stati dati i fondi a Venezia, e l’Arsenale, che il Comune voleva per sé e su cui il Cvn, oltre a farne la centrale delle manutenzioni delle dighe, aveva anche un progetto immobiliare di un hotel. «Aveva ragione Orsoni, ma mantenni una quota di aree in concessione al Consorzio - ha spiegato in aula l’allora ministro Corrado Passera - Sicuramente tra i due ci fu una forte contrapposizione». Del Comitatone ha parlato invece l’ex dirigente di Ca’ Farsetti Luigi Bassetto: «La riunione divenne un enorme spot per il Mose e Orsoni ebbe una durissima presa di posizione». Tra i testi di Piva, c’era Manuela Romei Pasetti, ex presidente della Corte d’appello di Venezia, che ha raccontato che nel 2008 avevano lavorato a stretto contatto sul cantiere della Cittadella della giustizia di piazzale Roma. Poi, un giorno, la doccia gelata. «Mi disse che l’avrebbero trasferita perché si era opposta alla tecnica di costruzione delle cerniere», ha spiegato. Il progetto originario prevedeva che le cerniere, l’elemento cardine del sistema che tiene agganciate le paratoie ai cassoni, fossero realizzate fuse. Piva era d’accordo, poi il Cvn si impuntò per farle saldate, in modo da affidarle alla Fip del gruppo Mantovani. La difesa punta su questa «cacciata» per dimostrare che lei non era a libro paga di Mazzacurati. «Chiesi al sottosegretario Gianni Letta se era possibile stoppare il trasferimento - ha detto Pasetti - ma mi disse che non c’era niente da fare». Tra l’altro un funzionario del Magistrato alle Acque, Antonio Cassarino, ha ricordato di

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essersi dimesso da segretario della commissione di collaudo delle cerniere proprio perché non era possibile controllarne i lavori. «Le facevano in una decina di fabbrichette», ha detto, quasi che ci fosse una sorta di «subappalto occulto» (vietato) di Fip. Gli altri testi servivano invece all’avvocato Emanuele Fragasso per dimostrare che il supporto del Cvn al Magistrato, che secondo i pm era subalternità, era una prassi che c’era prima e perdura, anche se meglio regolata con i commissari. L’ex capo dell’ufficio di Salvaguardia del Mav, Giampietro Mayerle, si è difeso con orgoglio dall’«assalto» del pm Ancilotto, che ha adombrato favori dietro al collaudo del Passante ricevuto dalla Regione (per il quale incassò la bellezza di 1,4 milioni) e l’assunzione della figlia a Thetis, società legata al Cvn: «Nessuno mi ha mai chiesto favori, non gliel’avrei mai permesso». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I progetti ambigui dei partiti di Francesco Giavazzi Noi, i conti e l’Europa Nelle ultime settimane la Borsa di Milano è stata la più debole in Europa. Il motivo è semplice: con l’accordo sulla legge elettorale e il conseguente possibile avvicinarsi delle elezioni è aumentata la percezione dell’incertezza politica e questa preoccupa gli investitori. Alcuni riducono l’esposizione all’Italia vendendo azioni e titoli di Stato, ad esempio i Btp, molti vendono a termine, cioè a scadenza, scommettendo su un’ulteriore caduta dei prezzi di Borsa durante l’estate. C’è qualcosa che i partiti possono fare per evitarci di trascorrere i prossimi mesi nell’ansia di ciò che accadrà ai nostri risparmi? Che il risultato delle elezioni sia incerto è un fatto. Le leggi elettorali possono attenuare l’instabilità, ma sull’incertezza relativa ai risultati delle elezioni non si può far nulla perché, per fortuna, viviamo in una democrazia. C’è però una seconda causa di incertezza. È legata a ciò che farà chi vincerà le elezioni. Qui invece qualcosa, anzi molto, i partiti possono fare e se lo facessero contribuirebbero a ridurre l’incertezza. Alcuni, Lega e Movimento 5 Stelle, sono ambigui su uno dei temi fondamentali della prossima campagna elettorale: il nostro rapporto con l’Europa. Talvolta dicono che se vincessero promuoverebbero un referendum consultivo sull’euro, altre volte (immagino preoccupati di perderlo anche dopo aver vinto le elezioni) sono più vaghi. Berlusconi cerca di evitare il problema proponendo la doppia circolazione, euro e lire insieme, sull’esempio delle Am-lire che circolavano in Italia dopo la Seconda guerra mondiale. Omette però di spiegare che quella moneta era stampata dagli americani, quindi non aumentava il nostro debito pubblico, come invece farebbero delle Am-lire dei giorni nostri. Su queste posizioni non so che cosa si possa fare per ridurre l’incertezza: temo nulla perché ho l’impressione che neppure chi le propone abbia chiaro il percorso che vuole seguire. Altri non mettono in discussione l’euro. Su questo punto il Partito democratico è chiaro. Potrebbe però fare di più per ridurre l’incertezza. Ad esempio, il primo provvedimento che attende il nuovo governo sarà la legge di Stabilità, cioè come trovare 20 miliardi, quanti saranno necessari per correggere i conti e cominciare a far scendere il debito. Che farebbe il Pd se vincesse? Dove pensa di trovarli? Aumentando le tasse o riducendo le spese, e in questo caso quali spese? Lo so che è un tema che potrebbe far perdere voti, ma anche la caduta della Borsa dovuta all’incertezza fa perdere voti. Un modello c’è ed è il metodo Macron. Durante la campagna elettorale il nuovo presidente francese aveva tre punti fermi: l’euro non si discute, i conti pubblici francesi saranno corretti, le regole dell’eurozona devono essere cambiate. Su quest’ultimo punto in Francia e Germania già si discute e sarebbe bene che i partiti italiani a questa discussione partecipassero. (Per una sintesi delle proposte in campo si veda un libretto che ho curato con Agnès Bénassy-Quéré e altri economisti europei, «Europe’s Political Spring» uscito ieri sul sito vox-eu). Insomma, nonostante le elezioni incombenti è possibile ridurre l’incertezza connaturata al voto. Indicare pochi ma chiari punti fermi farebbe bene ai mercati, ai nostri risparmi e potrebbe anche far guadagnare qualche vo to.

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Pag 1 Una classe politica che non è consapevole di Daniele Manca Il Governatore Visco Mancata consapevolezza. Due parole emergono dalle ultime «Considerazioni finali» del primo mandato di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Una mancata consapevolezza da parte della politica di almeno due elementi. Il primo: la profondità della crisi e il fatto che, per quanto siano state messe in atto azioni di riforma (come quella delle pensioni) o il mix di interventi espansivi e nuove regole sul lavoro ( Jobs act ) e quindi il Paese si sia rimesso sulla strada del risanamento, il percorso è solo agli inizi. Il secondo: il maggiore ostacolo allo sviluppo è rappresentato dal debito pubblico oltre che dai crediti deteriorati che appesantiscono i bilanci delle banche. Parlare di atto d’accusa da parte di Visco alla politica è eccessivo, i toni sono quelli pacati di un’Autorità poco abituata a farsi sentire urlando ma che preferisce invece usare la forza delle argomentazioni. In Via Nazionale sono di casa le parole di Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa: niente è possibile senza gli uomini; niente è duraturo senza le istituzioni. L’atteggiamento è quello che Visco sottolinea nei confronti dell’Europa: «A volte critichiamo regole europee di cui non siamo completamente soddisfatti o scelte di autorità europee che non condividiamo, ma non per mettere in discussione il cammino dell’Europa». È per questo che la puntigliosità con la quale Visco ieri mattina ricordava le cifre della crisi erano la premessa alla richiesta di uno «sforzo eccezionale» per rilanciare il Paese. «Le conseguenze della doppia recessione sono state più gravi di quelle della crisi degli anni Trenta. Dal 2007 al 2013 il Pil è diminuito del 9%; la produzione industriale di quasi un quarto; gli investimenti del 30%; i consumi dell’8%. Ancora oggi nel nostro Paese il prodotto è inferiore di oltre il 7% al livello di inizio 2008». Nel resto dell’area euro è superiore al 5. Come non essere preoccupati se di queste cifre la politica sembra non averne contezza? Quella mancanza di coscienza che ci ha portati ad accettare regole sul bail-in (salvataggi bancari) senza battersi per un necessario periodo transitorio. Che ha snobbato le proposte per un bad bank (un’istituzione pubblica che potesse assorbire i crediti deteriorati, ingombrante posso che frena banche ed economia). Ma che oggi non può significare la sottovalutazione del tema del debito che ci rende così vulnerabili e fragili. Le azioni da intraprendere Visco, anche qui, le elenca puntualmente. Vanno da una revisione della composizione delle spese e delle entrate per favorire gli investimenti alla riconsiderazione dei trasferimenti e delle agevolazioni ed esenzioni fiscali. Fino alla proposta choc (secondo il Governatore possibile) di un avanzo primario del 4% annuo che significano correzioni e manovre da decine di miliardi per ridurre il debito. La politica ora dovrebbe esprimersi. Ma non sul passato, quanto sulle cose da fare, sul futuro. Anche in disaccordo con Visco. Ma dicendolo. Discutendone. Il solo farlo, dimostrare consapevolezza, rendere meno ingombranti i dubbi che rendono così poco comprensibile la direzione intrapresa dall’Italia a imprese, cittadini e partner internazionali. La politica e i partiti ci riusciranno? Pag 16 L’Europa si può rifondare e salvare. Ma occorre una spinta dal basso di George Soros Servono “differenti corsie”, non più velocità. I segnali positivi ci sono Oggi l’Unione Europea ha bisogno sia di salvarsi che di reinventarsi radicalmente. La precedenza spetta alla salvezza, perché l’Europa in questo momento versa in grave pericolo esistenziale. Ma non meno essenziale è il compito di rilanciare il sostegno di cui godeva il progetto europeo in passato. Il pericolo esistenziale che minaccia l’Unione europea è in parte esterno. L’Unione è circondata da potenze ostili a tutto ciò che essa rappresenta: la Russia di Vladimir Putin, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, l’Egitto di Abdel Fattah el-Sisi, e quell’America che Donald Trump si propone di creare con tutte le sue forze. Le tendenze autoritarie di questi capi di Stato sono in linea con i partiti anti-liberali che oggi sono al potere in Polonia e Ungheria, oppure in crescita in altri paesi membri. Ma la minaccia viene anche dal suo interno. L’Unione europea è governata da trattati che, in seguito alla crisi finanziaria del 2008, si sono rivelati in larga misura superati. L’eurozona in particolare si sta rivelando l’esatto opposto delle intenzioni originarie. E a seguito della crisi finanziaria del 2008, la zona euro si è trasformata in

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una organizzazione in cui gli stati creditori hanno dettato i termini ai paesi debitori che non riuscivano a rispettare i propri impegni. Nell’imporre l’austerità, i creditori hanno reso praticamente impossibile ai debitori di ripianare le loro passività. Per questo occorre reinventare radicalmente l’Unione europea. L’approccio dall’alto verso il basso, che Jean Monnet utilizzò negli anni Cinquanta per lanciare l’integrazione europea, portò avanti questo processo per molto tempo, per poi gonfiarsi. Ora l’Europa ha bisogno di uno sforzo collaborativo capace di abbinare il sistema «dall’alto verso il basso» delle sue istituzioni alle iniziative «dal basso verso l’alto», necessarie per ridare entusiasmo agli elettori. Prendiamo ad esempio la Brexit, che farà certamente danni incalcolabili da entrambe le parti. Occorre innanzitutto riconoscere, in seno all’Unione, che la Brexit è il primo passo verso la disintegrazione dell’Europa, e pertanto una proposta che vede tutti perdenti. Al contrario, rendere di nu0vo interessante il progetto europeo potrebbe infondere nei cittadini, specie ai giovani, la speranza di un futuro migliore. Il mancato chiarimento del rapporto tra l’euro e l’Unione europea riflette un difetto di ben altra portata: l’idea che i vari stati membri possano muoversi a diverse velocità, ma sempre verso un’unica destinazione finale. Tuttavia, un numero crescente di elettori si oppone all’idea di «un’unione sempre più stretta» e la respinge con forza. Sarebbe meglio abbandonare questo progetto e sostituire un’Europa «a più velocità» con un’Europa «a più corsie», che consenta agli stati membri di effettuare una più ampia gamma di scelte democratiche. Una mossa, questa, che avrebbe un effetto positivo di vasta portata. Sono fermamente convinto dell’importanza di questo impeto collettivo. Già si avvertivano i primi segnali di un cambiamento positivo con la secca sconfitta del nazionalista Geert Wilders nelle elezioni politiche in Olanda. E con Macron mi sento molto più fiducioso. Il rilancio a favore dell’Europa potrebbe rivelarsi forte abbastanza da scongiurare la minaccia peggiore: la crisi bancaria e migratoria che vive oggi l’Italia. Trovo motivi di incoraggiamento soprattutto nei movimenti spontanei. Penso a «Pulse of Europe» che ha preso avvio a Francoforte a novembre; al movimento «Best for Britain»; come pure alla resistenza al partito Fidesz-Unione civica del primo ministro Viktor Orbán in Ungheria. La resistenza in Ungheria deve sembrare altrettanto scioccante per Orbán quanto sorprendente per me. Orbán ha tentato di impostare la sua linea politica come un conflitto personale ingaggiato con me. Ha voluto erigersi a difensore della sovranità ungherese, tacciandomi di speculatore monetario che sfrutta i suoi soldi per esercitare controllo sull’Ungheria, allo scopo di trarne vantaggi. La verità invece è che ho l’orgoglio di dichiararmi fondatore della Central European University, che dopo 26 anni è nella classifica dei 50 migliori istituti al mondo nell’ambito delle scienze sociali. Con il mio sostegno finanziario, la Ceu ha difeso la sua libertà di insegnamento non solo dalle interferenze del governo ungherese, ma anche dal suo fondatore! Da questa esperienza ho tratto due lezioni: primo, non basta affidarsi alla legalità per difendere le società aperte, occorre anche combattere per quello in cui si crede. Secondo, ho imparato che la democrazia non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere conquistata e difesa dai popoli. Ammiro il modo coraggioso con cui gli ungheresi hanno opposto resistenza alle menzogne e alla corruzione del regime di Orbán. Per concludere, anche se il cammino da percorrere si presenta irto di difficoltà, vedo con fiducia aprirsi una prospettiva non solo di sopravvivenza, ma anche di rinnovamento dell’Unione europea. Pag 36 Politica in panne, Italia in agonia di Ernesto Galli della Loggia L’idea “populista” di portare le masse nello Stato ha permesso ai partiti di far progredire il Paese. Conclusa quella stagione resta soltanto il vuoto Sono nato italiano ma mi viene da chiedermi, a volte, se morirò tale. Un paradosso insensato? Non tanto, dal momento che nella mia generazione, quella che ha visto la luce durante o a ridosso della guerra, sospetto proprio di non essere il solo che più o meno consapevolmente si pone una domanda come questa. Se mi guardo intorno, infatti, e se capisco ciò che vedo, se intendo bene i discorsi che ascolto, mi sembra che siano molti gli italiani che sentono ogni giorno crescere dentro di sé una sensazione sempre maggiore di spaesamento e alla fine quasi di estraneità. Che vedono ogni giorno scomparire luoghi e figure fino a ieri familiari, svanire principi e istituti, e insieme le più varie appartenenze ideali perdere senso, illanguidirsi e spegnersi. Nel mondo che cambia a un ritmo vertiginoso l’Italia appare avviarsi a un lento tramonto. La sua decadenza

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ogni giorno si precisa e ci afferra. (...) Oggi appare quasi incredibile che mezzo secolo fa, dopo una rincorsa strepitosa iniziata subito dopo il disastro della guerra fascista, l’Italia sia arrivata a essere tra le prime sei o sette economie del mondo, tra le società più avanzate del pianeta. Come è stato possibile? La risposta che a me come storico viene da dare suona, con i tempi che corrono, quanto mai impopolare, ma non per ciò meno vera. È stato possibile, in ultima analisi, grazie alla politica. Grazie alle scelte politiche compiute nel corso di cento anni da gruppi dirigenti della più varia formazione, ma tutti partecipi dell’idea che, finalmente riunita in un solo Stato, la penisola avesse qualcosa di peculiarmente suo da dire (e da fare) nel consesso delle nazioni. Forse sono stati tutti vittime di un’illusione. Ma è pure vero che senza essere dominati da un’idea, senza una fiducia cieca che sfiora l’autoinganno, è forse impossibile intraprendere alcunché di grande. Un Paese povero di un’antica miseria, privo di materie prime, abitato da una massa di analfabeti, fu così chiamato a procurarsi quasi dal nulla scuole e università moderne, una grande industria, energia, porti, telegrafi e strade ferrate, una flotta mercantile, magari anche un esercito degno di questo nome. Su questa strada cominciarono a mettersi per primi quegli stessi che avevano fatto l’Unità. Cavour e gli altri, i liberali che poi tanto liberali non erano (forse perché in un Paese povero è quasi impossibile esserlo davvero). Le prime infrastrutture, il protezionismo, le prime forme d’intervento dello Stato nell’economia, furono opera loro. Subito dopo arrivò il nuovo secolo, esplose il nostro straordinario Novecento. Straordinario non solo per i risultati conseguiti, ma perché alla nuova dimensione di massa della politica giungemmo - e ci restammo per tutto il tempo, si può dire fino a ieri - con culture politiche affatto originali, le quali per le loro caratteristiche non sembrano avere avuto molto in comune, al di là delle denominazioni ufficiali, con quelle analoghe di nessun altro Paese. Non solo, ma socialismo, popolarismo cattolico, nazionalfascismo, comunismo gramsciano, democrazia gobettian-azionista presentano tutti almeno altri aspetti singolari. Il fatto, per esempio, che queste culture politiche, che pure sono state il cuore della vita pubblica italiana, abbiano però tutte preso le mosse - di più: abbiano tratto addirittura la loro ragion d’essere - da una critica aspra nei confronti del Risorgimento, dunque del modo stesso in cui era nato lo Stato che esse si candidavano, o erano effettivamente chiamate, a governare. In tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento, indistintamente, l’atteggiamento polemico verso il passato risorgimentale ha avuto la medesima motivazione: la mancata presenza in quelle vicende delle «masse popolari» (per colpa, naturalmente, del cieco classismo dei liberali…). Da qui il comune obiettivo di fondo, che tutte quelle culture hanno perseguito quando è venuto il loro turno: «Portare le masse nello Stato». Tutte quante si sono prefisse il medesimo scopo: dopo l’Italia dei notabili, dopo l’Italia dei «signori», fare finalmente un’Italia del popolo. Di un popolo diversamente inteso a seconda di chi avesse provveduto alla bisogna, come si capisce: ma comunque del popolo. È così che il populismo si è trovato a rappresentare il letto in cui ha preso a scorrere il fiume del Novecento politico (ma non solo) italiano. Di cui quasi istintivamente abbiamo pensato e continuiamo a pensare tutti abbastanza male. Ma, se è permesso dirlo, oggi forse meno di un tempo. Perché alla fine quel populismo (che ha ben poco a che vedere con quello che oggi chiamiamo con questo nome) altro non era che un afflato morale generico ma non spregevole, un desiderio di rompere antiche barriere e albagie di classe, una volontà, sia pure a volte confusa, di migliorare le condizioni di vita dei più e di promuovere l’ascesa di nuovi strati sociali, di soddisfarne le esigenze, anche le più elementari, a lungo neglette, di portare le parti più sfavorite del nostro Paese al medesimo livello delle altre. (...) Al cuore del populismo c’è la suggestione che emana dall’idea di popolo, concepito come qualcosa di generale e indifferenziato che di per sé quindi consentirebbe di superare ogni divisione, ogni conflitto, gettando in tal modo le premesse di una sorta di originaria armonia sociale. Proprio per questo il populismo ha grande difficoltà a non accogliere la voce e le richieste di ogni gruppo sociale di qualche consistenza e che sappia presentare tali richieste in modo adeguato. Una disponibilità destinata a sposarsi bene con almeno due caratteri della società italiana: la sua idiosincrasia di fondo per le contrapposizioni nette, per il gioco a somma zero in cui si vince o si perde senza appello, e dall’altro lato la sua struttura sostanzialmente corporativa, basata sulla vastità e molteplicità dei gruppi e degli interessi variamente organizzati. Ad accrescere la forza di tali tendenze si aggiunga il vincolo che nella Prima Repubblica era rappresentato dalla presenza di un partito

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d’opposizione come il Partito comunista, un cui eventuale successo il giorno delle elezioni avrebbe aperto una crisi internazionale insostenibile per il Paese. Proprio al fine di non far vincere il Pci, per le forze di governo era ogni volta necessario riportare la meglio alle elezioni: e a questo fine, dunque, era conveniente non rigettare preliminarmente alcuna pretesa, legittimare ogni rivendicazione, soddisfare nei limiti del possibile (e dell’impossibile) ogni richiesta. Da noi, insomma, dopo il 1945 le cose erano venute complicandosi perché l’orientamento populista comune a tutte le culture politiche del Paese si era di fatto configurato, nella realtà, come una competizione tra populismi contrapposti. Con l’ovvio effetto di un insostenibile sovraccarico di richieste nei confronti del sistema politico. In tal modo solidarismo populistico, soddisfazione degli interessi corporativi, politiche stataliste di antica e nuova data in nome del Welfare, avevano costruito intorno alla democrazia italiana, mischiandosi ai particolarissimi vincoli del sistema politico, una vera e propria gabbia d’acciaio. Le cui sbarre, divenendo via via più numerose e più salde - ciò che era naturale con la stessa crescita «democratica» del Paese - procuravano una continua crescita dei costi del sistema. Ai quali da un certo momento in poi fu possibile far fronte solo ricorrendo al debito. Naturalmente a un debito anch’esso in continua crescita. Molte cose dunque avrebbero dovuto essere cambiate negli anni Ottanta: quando i tempi non erano ancora così duri, quando le risorse non erano ancora scemate e gli attori politici ancora avevano la capacità di organizzare pensieri di una certa lucidità e profondità. Ma mancò ciò che nei momenti cruciali è decisivo, in politica come altrove: il coraggio unito alla fantasia. La sola cosa di cui alla fine fu capace la classe dirigente italiana, infatti, fu di andare a chiedere il soccorso di un padrone straniero per essere aiutata a tenere sotto controllo ciò che stava per sfuggirle di mano. Essa si precipitò a trovare rifugio sotto il mantello dell’Europa con una corsa che sembrò quasi divenire un «si salvi chi può» allorché il crollo dell’impero sovietico prima, e più tardi le inchieste di Mani pulite, mandarono all’aria l’intera struttura ideale e organizzativa del sistema dei partiti, cioè del vero potere dell’Italia repubblicana. Da allora quell’antico potere - che era stato però il potere fondativo della repubblica e la sua guida - non si è più ricostituito, e nessun altro ne ha preso il posto. Sicché da vent’anni il Paese è privo di una guida effettiva, cioè di un gruppo, di un partito, una personalità, che nutra una qualche visione generale, abbia confidenza con qualche idea vera, possieda una minima capacità di direzione di cose, di istituzioni e uomini. Anche per questo è difficile non disperare. LA REPUBBLICA Pag 30 Perché i figli d'Europa scelgono l'Isis di Ezio Mauro Nati in Occidente, scolarizzati pronti a morire per "il vero Islam". Il nuovo libro di Olivier

Roy: il rifiuto delle radici religiose dei genitori considerate un'eredità coloniale, una sottomissione

Quando appassiscono i fiori che noi lasciamo sul luogo degli attentati (perché la compassione è per noi occidentali molto più facile della condivisione) resta una domanda nell'Arena di Manchester, sulla Promenade di Nizza, sul legno del Bataclan, nell'ufficio di "Charlie Hebdo": com'è avvenuta sotto i nostri occhi l'ultima metamorfosi della modernità, quella che trasforma musulmani di seconda generazione da giovani europei cresciuti nelle nostre scuole e nel nostro stesso spazio di libertà e di democrazia, in testimoni di una cultura assassina che retrocede la religione in ideologia del terrore? Tutto si compie sotto la linea d'ombra del pensiero moderno, rifiutandone le coordinate, respingendo il calcolo cartesiano dei costi e dei benefici. Anche il terrorismo che ha attaccato l'Europa negli anni Settanta, essendo una deformazione estrema del politico, stava dentro quel codice: e infatti per ogni azione valutava la proporzione tra l'attacco e la difesa, e in questa misura di precauzione criminale prevedeva ogni volta la via di fuga, l'uscita di sicurezza. Oggi il terrorismo jihadista viola il paradigma prima pensando l'impensabile con l'assalto alle Torri Gemelle, poi trasformando l'attentatore in arma e il suicidio in martirio, chiudendo nello stesso orizzonte sacrificale la vittima e il carnefice, ed escludendo così la razionalità fin qui frequentata in Occidente. Non ci si può difendere dalla vita che a nostra insaputa ha già scelto di diventare morte, e non solo di portarla, annientando gli altri con l'annientamento di sé. C'è tuttavia un contesto - se non razionale, pseudoculturale - che tiene insieme la mitologia ideologica del Califfato, la

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minaccia globale dell'Isis, il jihadismo indigeno europeo e il singolo terrorista che progetta l'attentato sapendo che sarà il suo atto finale. Lo ricrea Olivier Roy nel suo ultimo libro, Generazione Isis, indagando sul profilo di cento soggetti coinvolti in progetti terroristici in Francia e Belgio, o convinti a lasciare il Paese per raggiungere la jihad globale, e analizzando lo schedario dei 4118 stranieri reclutati dall'Isis nel biennio 2013-2014. Molto spesso i terroristi arrivano all' azione dopo un passaggio nella jihad, ma non sempre e non tutti, così come non tutti i jihadisti vengono selezionati dall'Isis come idonei all'attacco. Ma il punto in comune di entrambe le "scuole" è la scelta della morte volontaria, la vera novità rispetto alle forme di terrorismo che avevamo conosciuto nel nostro mondo: partendo da Khaled Kelkal, ucciso a 24 anni dai gendarmi dopo una serie di attentati in Francia nel '95, per arrivare agli ultimi attentati, tutti gli assaltatori si fanno esplodere come bombe umane o si lasciano uccidere dalla polizia senza preoccuparsi di cercare un riparo o di fuggire. È l'incarnazione della profezia identitaria di Osama Bin Laden: «Noi amiamo la morte, voi la vita». Però è anche uno scarto rispetto alla predicazione musulmana - e in particolare alla tradizione salafita - che esalta il martire di guerra ma considera la scelta di spezzare la propria vita come un'espropriazione illegittima della suprema potestà divina. Questa deviazione nasce da un rifiuto delle radici religiose dei genitori e del loro deposito culturale, considerato dai giovani radicali islamisti come un lascito di sottomissione, un'eredità coloniale, una passività rituale: e insieme da un'esasperazione dell'odio generazionale iconoclasta che chiede la distruzione non solo dei corpi e dei simboli, ma della memoria e della tradizione comunemente accettata, in una rottura senza ritorno. Senza ritorno e senza alternativa, perché la strategia funebre jihadista azzera la politica e la uccide invece di chiederle soluzione, annulla qualunque geostrategia che non sia quella leggendaria e irreale del Califfato, spegne sul nascere qualsiasi diplomazia perché la scelta definitiva della morte cancella ogni negoziazione. Proprio questa trasposizione in un universo irreale, fuori dalla storia e dalla geografia per inseguire soltanto il tempo del Profeta nell'annichilimento finale della vicenda umana, autorizza e giustifica - ingigantendola - la scelta individuale di morte. Solo il nichilismo come orizzonte cieco e insieme glorioso spiega infatti la morte come obiettivo. Religione e frustrazione non bastano, dice Roy, il fondamentalismo nemmeno, e neppure le colpe dell'Occidente, dal colonialismo al razzismo, tanto che gli autori degli attentati in Europa non sono geograficamente e propriamente le "vittime", così come la mappa del terrorismo non coincide con quella dei quartieri più poveri e dimenticati. Questa mappa rivela invece una buona scolarizzazione (la maggior parte dei giovani terroristi ha finito le superiori), una discreta integrazione iniziale, una pratica religiosa modesta e discontinua, fino alla "rinascita" al nuovo Islam. La percentuale di "convertiti" è infatti molto alta tra i reclutati dell'Isis in Francia, Germania e Stati Uniti, una seconda generazione islamica che sceglie di diventare islamista dopo che i genitori hanno cercato un inserimento sociale europeo, mentre in Belgio si affaccia già la terza generazione. Da vent'anni, secondo questo studio, il profilo collettivo segue gli stessi passaggi individuali. Genitori musulmani che trovano lavoro nei nostri Paesi, figli nati in Occidente, scuole europee, poi molto spesso un ingresso nella microcriminalità, la radicalizzazione in carcere (dove si impara un salafismo basico di rivolta) o nel piccolo gruppo ristretto di amici d'infanzia, o addirittura familiare, se è vero che nella cellula degli attentati al Bataclan e a Bruxelles ci sono ben cinque coppie di fratelli: cioè metà degli attori, quasi una conferma della curva dei figli rispetto al percorso dei padri. La mimetica generazionale nasconde la radicalità e insieme la universalizza. Gli jihadisti d'Occidente sono dentro il contemporaneo della cultura giovanile, prima della conversione bevono alcol, vanno in discoteca, fumano, conoscono la tecnologia della comunicazione, usano i cappellini e le felpe, amano il rap, frequentano i videogiochi, i manga e il cinema americano, passano per le palestre del kung-fu, del taekwondo e del thai-boxe. Tanto che dopo gli attentati, la morte o gli arresti si registra sempre uno straniamento nel mondo che li circonda, stupore, incredulità, sorpresa. In questo non c'è solo la rottura familiare, la convinzione dei born again di aver scoperto la vera fede e di avere realizzato così un'inversione di conoscenza religiosa rispetto ai genitori. C'è soprattutto la chiusura estrema e definitiva in una sorta di piccolo universo parallelo, una microsocietà - come la chiama Roy - fatta di fratelli, amici d'armi e di carcere, mogli che sono prima di tutto compagne d'ideologia, pronte a diventare subito "vedove nere", presto madri di orfani di martiri. Per Roy il terrorismo

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non deriva dalla radicalizzazione dell' Islam ma dall'islamizzazione della radicalità. Questo non assolve l'Islam, se proprio qui - e nel fondamentalismo cresciuto a dismisura negli ultimi quarant'anni - la ribellione trova un orizzonte culturale di riferimento, anzi di cattura, certo di giustificazione. Lo scopo della jihad non è soltanto la vittoria sul campo, ma ideologicamente la costruzione ex novo di un musulmano militante e globale pronto a lasciare ogni cosa per inseguire lo spazio mitologico del "vero Islam" puro, oltre i legami tribali, nazionali, di famiglia, le tradizioni religiose, la società con le sue regole. I giovani radicalizzati hanno una cultura religiosa approssimativa, ma l'Islam offre al loro immaginario estremizzato una razionalizzazione teologico-mitologica che per Roy «assume forme incantatorie», rende metafisico ogni conflitto, iscrive l'azione individuale - fino all'annientamento - in una fascinazione dell'Apocalisse. Perché se la fine del mondo è vicina, allora l'assassinio nel nome di Dio e la morte di sé non fanno altro che avvicinare il Paradiso, anticipando la battaglia finale a Dabiq, quando comparirà il Dajjal mentitore e regnerà 40 giorni per essere respinto da Gesù, prima che il mondo scompaia. Nell'attesa, Roy invita nel suo libro l'Europa a riflettere sulla devitalizzazione del religioso nel nostro mondo, sulla sua riduzione a cultura fredda, singolarizzata, a segno strano e scandaloso in mezzo alla secolarizzazione, un segno che proprio per questo diventa rifugio, arma e strumento di rottura per chi cerca una ribellione identitaria. La "deculturazione" dell'elemento religioso apre la strada alla sua ricostruzione in forma fondamentalista, conclude il saggio. Potremmo aggiungere che in realtà c'è un'ultima questione, e riguarda addirittura la democrazia, cioè qualcosa che contiene la laicità e la religione insieme, e dovrebbe garantire la libertà nei diritti e nei doveri dell'individuo fatto cittadino: perché questa cornice non affascina e non tutela i ribelli della seconda generazione, non prevede e non include lo spazio antagonista della loro radicalità prima che fuoriesca in un' ideologia religiosa assassina? È una questione che riguarda noi e non solo loro: perché il miraggio abbacinato del martirio assassino, in ogni caso, non può prevalere sulla promessa di felicità imperfetta della democrazia. AVVENIRE Pag 1 Fuori dal tempo di Vittorio E. Parsi Il deliberato errore del leader Usa Una bomba a scoppio ritardato, che non solo isola gli Stati Uniti dai loro più stretti alleati, ma finisce per costituire un assist formidabile per le altre grandi potenze (la Cina innanzitutto) che a diverso titolo contestano la leadership americana, oltre che fornire argomenti ai tanti critici della posizione americana nel sistema internazionale. Si tratta anche, inutile cercare di minimizzare, di uno sgarbo al Papa, le cui preoccupazioni per il futuro della «casa comune», la nostra Terra, il presidente Usa aveva assicurato avrebbe tenuto in grande considerazione. Lo sgarbo non è tanto legato alla differenza delle posizioni tra Francesco e Donald Trump sul tema dell’ecologia (e su tanti altri, a iniziare dai migranti e dal lavoro per finire alla guerra): su simili temi le opinioni sono notoriamente tante e diverse, anche se è ovvio che le posizioni del pontefice appaiano, da un punto di vista umanistico prima ancora che cristiano, ben più solide di quelle del capo della Casa Bianca. Lo sgarbo sta invece proprio nelle parole, non richieste e neppure sollecitate dal Vaticano, che Donald Trump volle pronunciare al termine dell’udienza: «Sono stato molto colpito dalle riflessioni del Santo Padre, ne terrò conto nelle mie valutazioni». Parole dettate dall’emozione di un incontro, nella migliore delle ipotesi; parole pronunciate a mero beneficio dei media e della pubblica opinione, nella peggiore. Quasi un tentativo di piegare a fini strumentali di sostegno della propria traballante immagine persino il carisma di Francesco. Ne esce rafforzata la percezione sgradevole di un uomo, Donald Trump, che non prova sincero rispetto per niente e per nessuno e che usa le parole non come araldi di ciò che sente e crede intimamente, ma come mera cortina fumogena per camuffare le proprie recondite intenzioni. È qualcosa che non si era mai visto neppure negli anni recenti in cui la democrazia americana si stava trasformando sempre più in un gigantesco talk show, mentre il potere, quello vero, sembra acquattarsi nel terreno dell’economia finanziarizzata. Con la decisione assunta dal presidente Trump di ritirare l’adesione americana al protocollo di Parigi – frutto di una lunghissima, pluriennale serrata trattativa per cercare di arrivare all’adozione di una piattaforma comune, forse, in grado di preservare la vita sul pianeta

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– gli Stati Uniti scelgono di smettere di essere i battistrada della società internazionale, di continuare a essere ciò che nel corso della seconda metà del Novecento sono stati, per ritirarsi nel più gretto e antistorico particolarismo. In questo, la natura anacronistica di Trump si rivela in tutta la sua pericolosa evidenza. Questo presidente assomiglia in maniera tremenda a quei politici americani descritti da Tocqueville nella sua 'Democrazia in America'. Personaggi bizzarri e pittoreschi, espressione di una democrazia ancora agli albori, la cui natura spaventosamente naif e incolta non destava eccessiva preoccupazione, per il ruolo internazionale assolutamente marginale dell’America degli anni Venti dell’Ottocento. Come risulta chiaro le cose oggi sono ben diverse e le conseguenze negative a livello planetario per la decisione americana si manifesteranno fin dalle prossime settimane. Anche in chiave di politica interna, tuttavia, la scelta di Trump è foriera di conseguenza molto pesanti. Il presidente ha scelto un’America e l’ha messa contro l’altra, su una materia, quella della salvaguardia del pianeta, che è divisiva quant’altre mai, radicalmente polarizzante. Ha scelto l’America rurale e conservatrice, anziana e meno acculturata, che ha saputo raccogliere sotto la sua bandiera: quella che gli ha fornito il supporto della maggior parte delle contee in cui si è votato. È un paradosso, se ci si pensa solo per un attimo, che la leadership di un Paese con una così grande percentuale di popolazione sotto i quarant’anni (significativamente maggiore di qualunque Paese europeo) si dimostri incapace di proteggere il futuro dei suoi figli. Sembra che Trump stia facendo davvero di tutto per inverare l’investitura- profezia fatta da Barack Obama a poche settimane dal termine del suo secondo mandato, che aveva definito Angela Merkel la nuova leader dell’Occidente. Su una serie di temi che connotano il significato politico concettuale di Occidente, la Germania ha ormai saldamente la leadership e inizia persino ad accorgersene e a trovare il coraggio, se non ancora il gusto, di esercitarla. Anche per questo Trump ne fa un bersaglio polemico. Certo è che, continuando di questo passo, l’Occidente sarà qualcosa di molto diverso da quanto abbiamo conosciuto nel dopoguerra, in quello scorcio di Novecento definito 'il secolo americano' e che oggi, vede l’America chiamarsi fuori dal tempo, prima ancora che dallo spazio. Pag 2 Voto alla tedesca: tre i nodi decisivi di Marco Olivetti La “guerra civile” in tema elettorale si archivia insieme La convergenza delle principali forze politiche verso un sistema elettorale ispirato a quello tedesco appare in sé positiva per almeno una ragione: anche la migliore legge elettorale funziona male se non condivisa, anche una legge elettorale non perfetta può funzionare ragionevolmente bene se frutto di un patto fra i principali attori del sistema politico. Quanto al suo contenuto, è ormai evidente che l’eventuale importazione del sistema elettorale germanico non consente di per sé di lanciare l’Italia all’inseguimento del più efficace sistema politico d’Europa (solo 8 Cancellieri in 68 anni e governi quasi sempre di legislatura, con Governo forte, Parlamento forte e sistema giudiziario autorevole): e ciò non solo in quanto riprodurre le regole non vuol dire necessariamente riprodurre anche la cultura che si è strutturata attorno a quelle regole, ma anche in quanto troppi tasselli del regime parlamentare tedesco sono assenti in Italia: dal bicameralismo differenziato (da noi accantonato il 4 dicembre) alla sfiducia costruttiva, fino alle norme sulla democrazia interna ai partiti. Ciononostante, si può ipotizzare che nel medio/lungo periodo, un sistema di questo tipo potrebbe stabilizzare il sistema dei partiti e far emergere una cultura delle coalizioni responsabili, formate con un impegno prima delle elezioni, confermate dopo il voto e capaci di reggere per tutta la legislatura. Nel breve periodo, tuttavia, un sistema proporzionale non produrrà, verosimilmente, una maggioranza alla chiusura delle urne e renderà necessaria una qualche “grande coalizione” alla quale la cultura politica italiana sembra essere oggi allergica. In ogni caso, poi, nel costruire in concreto un sistema elettorale di tipo tedesco, sono al momento aperte alcune questioni di rilievo non marginale. La prima consiste in un possibile equivoco: quello di scambiare il sistema tedesco per un sistema misto. La confusione può nascere dal fatto che in Germania i deputati sono eletti per metà in collegi uninominali maggioritari a turno unico e per metà mediante liste regionali. Tuttavia, se il sistema ha natura mista quanto al modo di eleggere i deputati, decisivo per la ripartizione dei seggi tra le forze politiche è il voto espresso per le liste regionali

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(cosiddetto secondo voto) e che il risultato elettorale complessivo è il riparto proporzionale dei seggi fra i partiti che superano il 5% dei voti su scala nazionale. Dunque se un accordo politico sta emergendo, è auspicabile che non si coltivino equivoci: un sistema come il Rosatellum – per nulla disprezzabile – è ispirato a una logica diversa da quella del sistema germanico e assomiglia piuttosto al sistema giapponese o a quello in vigore nella Russia di Eltsin. Allo stesso modo si dovrebbe escludere un premio di maggioranza, istituzione tipicamente italiana: non perché sia in sé censurabile, ma perché, appunto, non si ragionerebbe più di un sistema di tipo tedesco. Una seconda questione riguarda il collegamento fra le due parti del sistema tedesco: gli elettori germanici dispongono di due voti – uno per il collegio, l’altro per la lista regionale – ma i candidati nei collegi sono collegati a quelli di lista. In Italia, ai tempi del Mattarellum, furono inventate le “liste civetta”, per aggirare il collegamento, e ridurre l’effetto proporzionale: è evidente che ciò snaturerebbe il sistema tedesco, con la conseguenza che da noi è forse necessario prevedere un voto unico. Inoltre: per rendere proporzionale il sistema tedesco è necessario aumentare il numero dei deputati in tutti i casi in cui un partito ottenga in una Regione più mandati diretti di quanti gliene spetterebbero rispetto a un mero calcolo proporzionale. Ciò è possibile in Germania in quanto lì il numero dei deputati non è stabilito con una cifra fissa in Costituzione. Da noi invece tale cifra c’è e occorrerà accantonare alcuni “mandati in compensazione” o accettare che in alcuni casi la riproporzionalizzazione del risultato complessivo sia imperfetta. D’altro canto ci si può chiedere se sarà sufficiente a soddisfare la forte domanda per un recupero del rapporto elettore-eletto il fatto che solo metà degli eletti – quelli scelti nei collegi – metterebbe la faccia davanti all’elettore, mentre gli altri candidati verrebbero scelti in liste bloccate di partito. E infine, la questione più delicata: il sistema tedesco, anche se proporzionale, non è puro ma corretto, in quanto volto a ridurre la frammentazione politica. Cruciale è il ruolo della clausola di sbarramento del 5%, che tuttavia incontra la legittima resistenza delle liste minori: le pressioni per ridurla al 4 o al 3 saranno dunque fortissime, così come vi sarà il tentativo di permettere minipateracchi fra più partitini per aggirarla. Tuttavia sta qui un punto centrale del sistema germanico: abbandonarlo vorrebbe dire tornare senz’altro alla proporzionale pressoché integrale della Prima Repubblica italiana e precludere i possibili effetti benefici di questo sistema nel medio periodo. Restano dunque molte questioni da risolvere e non è sensato attendersi da questo sistema elettorale soluzioni taumaturgiche ai problemi aperti della nostra vita politica. Ma già uscire dalla guerra civile permanente in materia elettorale, che dura dagli anni Ottanta del secolo scorso, sarebbe un risultato non da poco. Pag 3 La lenta convalescenza di un Paese in bilico di Leonardo Becchetti Spunti dalla relazione del Governatore di Bankitalia La fotografia che emerge dalla relazione annuale del governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco è quella di un Paese in convalescenza che sta lentamente rimarginando le ferite della più grave crisi economica dal Dopoguerra. Prova ne è il fatto che ai ritmi attuali torneremo ai livelli del 2007 solo nella metà del prossimo decennio. E questo genera problemi non solo alla quantità del lavoro creato, con uno spread di qualità/dignità che cresce, visto l’aumento del divario tra qualità degli impieghi offerti e aspirazioni dei lavoratori. Le sottolineature di alcuni dei principali ostacoli alla ripresa dell’economia e dell’occupazione sono convincenti. Ben tre volte Visco parla della debolezza degli investimenti pubblici ricordando invece l’efficacia degli incentivi «intelligenti» come il superammortamento che ha fatto ripartire la domanda di beni capitali superando la grave crisi degli investimenti, e gli incentivi per la ristrutturazione edilizia che hanno generato abbastanza valore economico e nuove entrate fiscali da assicurare un saldo non negativo anche per i conti pubblici. Mettendo assieme i tre elementi possiamo generalizzare sostenendo che una riqualificazione della spesa pubblica verso iniziative ad alto moltiplicatore è importante per la ripresa garantendo al contempo la tenuta dei conti pubblici, come sottolineato dallo stesso Mario Draghi, presidente della Bce, nel suo discorso dell’agosto 2014 al simposio della Fed Usa a Jackson Hole. Assolutamente centrata l’enfasi su quello che appare come uno dei maggiori fardelli del Paese, il ritardo della giustizia civile. Secondo i dati di Doing

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Business in Italia ci vogliono 1.100 giorni per il recupero del credito tra due imprese contro i 700 della Polonia, i 500 della Spagna e i 400 della Francia. E 2.700 giorni in media per chiudere una causa civile contro gli 870 della Francia e i 460 della Polonia (dati Bartolomeo-Bianco e Cepej, 2016). Si tratta di un ostacolo molto grave che riduce i frutti attesi dell’attività imprenditoriale e accentua il problema delle sofferenze bancarie. Molto convincente la parte sull’Europa, quando definisce «un’illusione» l’idea che l’uscita dall’euro risolva i nostri problemi, e quando sottolinea che questa resta la casa da abitare e da migliorare, anche se talvolta si può non essere d’accordo con le decisioni comunitarie (un riferimento al divieto di usare il fondo di garanzia dei depositanti nelle crisi bancarie). Il governatore va al nocciolo del problema quando parla del vuoto di fiducia come problema fondamentale in Europa. Vuoto di fiducia che ha portato alla «ricerca esasperata di garanzie reciproche» generando vincoli di azione e un’«Unione più forte nel proibire che nel fare». Sui temi macro Visco ha anche ottimisticamente considerato che, con una crescita dell’1%, un’inflazione del 2% e un avanzo primario del 4%, l’Italia può riuscire a ridurre il rapporto debito/Pil dal 132,8% al 100% in dieci anni. Peccato che l’inflazione sia fuori linea rispetto allo scenario ipotizzato (è all’1,4% a maggio, con un calo mese su mese dello 0,2% registrato proprio ieri). Il percorso di rientro, insomma, non sarà facile. Una parte consistente della relazione non poteva non vertere sul fronte bancario. Rispetto allo scorso anno la difesa dell’operato di Banca d’Italia (svolta dinnanzi ad alcuni suoi predecessori) è parsa più accentuata nei toni. Sullo sfondo, però, vi era il convitato di pietra delle due banche venete per le quali i fondi privati non sembrano bastare ai fini del salvataggio. Quando Visco ha parlato di una crescita dell’1% dei prestiti alle imprese è mancata quella scomposizione del dato tra prestiti alle mediograndi (in ripresa) e prestiti alle piccole e piccolissime (ancora in calo), spesso sottolineata dai dati flash Confartigianato. Torniamo qui ad un punto chiave del problema Paese. Una quota molto importante di piccole e piccolissime imprese che restano indietro per motivi di produttività interna, ma anche per inefficienze del sistema e per la difficoltà di accedere alle fonti di finanza esterna. La soluzione non possono essere le grandi banche quotate che violerebbero i loro obiettivi di creazione di massimo valore per gli azionisti. Né tale soluzione va trovata solo sul fronte bancario visto l’eccesso di ricorso al credito tra le fonti esterne per le nostre imprese. In questo ambito siamo ancora in cerca di soluzioni perché i rimedi a cui si è sinora pensato (come i nuovi intermediari di microfinanza e i Piani Individuali di Risparmio) non paiono avere ampiezza di movimento tale da poter risolvere il problema. La speranza è che veicoli innovativi per il capitale di rischio e un modo diverso di fare banca (le banche di credito cooperative consolidate e rafforzate e una banca e finanza etiche volte non alla massimizzazione del profitto) possano giocare un ruolo importante nonostante limiti e vincoli della regolamentazione europea. Lo sviluppo di strumenti e metodologie per misurare con occhiali nuovi il valore creato (dal Bes alla valutazione del rendimento sociale degli investimenti) giocheranno dal punto di vista culturale e operativo un ruolo decisivo. IL GAZZETTINO Pag 1 Se anche il Governatore boccia Bruxelles di Osvaldo De Paolini Mario Draghi in prima fila nella sala delle assemblee della Banca d'Italia, ad ascoltare le Considerazioni Finali lette da Ignazio Visco, è stata una sorpresa. Alcuni ieri vi hanno letto un endorsement per un secondo mandato al governatore, la cui scadenza è prevista in autunno proprio a cavallo delle probabili elezioni. Per quanto verosimile, sarebbe però una lettura superficiale o quantomeno parziale. In quella presenza c'era molto di più, oltre alla cortesia e l'apprezzamento per l'istituzione e la persona di Visco: c'era il chiaro desiderio di mostrare un sostegno concreto all'Italia in un momento particolarmente delicato. Non capita tutti i giorni di veder coincidere il varo della legge di Stabilità con l'avvio di una nuova legislatura o, peggio, quale atto finale di un governo. I rischi di instabilità che accompagnano queste insolite circostanze sono elevati e le conseguenze imprevedibili. Perciò, se è comprensibile l'ansia del presidente Sergio Mattarella affinché la manovra 2018 sia delineata per tempo con precisione a maggior ragione si può comprendere la preoccupazione di Draghi. La preoccupazione per un'Italia che all'appuntamento con l'Europa non deve presentarsi con una contabilità ancora

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aperta, le sue debolezze bancarie irrisolte e una situazione politica tutta da decifrare proprio quando la Banca centrale europea si appresta ad allentare la politica monetaria accomodante fin qui attuata attraverso il Qe. Uno scenario che va evitato, perché rischierebbe di diventare una ghiotta occasione per la grande speculazione internazionale, da tempo sulla riva del fiume in attesa di un passo falso proprio dell'Italia che, a causa di un debito pubblico che non recede, è da molti considerata il nuovo anello debole di un'Europa che tenta di ricompattarsi dopo lo strappo che ha innescato la Brexit. Sarebbe una iattura non solo per l'Italia, che vedrebbe schizzare nuovamente lo spread alle stelle con conseguenze sulla sua capacità di rifinanziamento del debito, ma probabilmente per l'Europa tutta, al punto da mettere in dubbio la sua tenuta di là delle volontà politiche. Di qui l'estrema attenzione di Draghi all'ampia disamina di Visco, che se in certi passaggi è sembrata sfumare nell'ottimismo, letta più compiutamente rivela quanto precaria sia ancora la situazione economica in cui versa il Paese. Debito pubblico, sofferenze bancarie e lavoro per chi non ce l'ha sono le tre questioni irrisolte che segnano il ritmo nelle 26 pagine delle Considerazioni Finali. Alle quali il governatore Visco - questa la seconda sorpresa - ha voluto aggiungerne quattro scritte di suo pugno per spiegare «in modo meno formale» quanto in questi anni di crisi l'azione della Banca d'Italia sia stata corretta, contrariamente alle «critiche anche aspre ricevute, spesso sostenute da imprecisioni anche gravi». Ma più che le giustificazioni a supporto del suo operato, colpisce il linguaggio insolitamente duro usato nei confronti dell'Unione europea alle prese con le crisi finanziarie: «Più forte nel proibire che nel fare». Giudizio totalmente condivisibile, sebbene l'Europa «deve restare un'ancora salda». Ma quanto quel giudizio sia appropriato lo si è visto nel caso della finanza pubblica, dove in assenza di un bilancio comune è stato difficile garantire sostegno alla ripresa economica. E lo si è visto soprattutto nella gestione delle crisi bancarie e nella tutela della stabilità finanziaria, «dove la frammentazione dei poteri tra un numero elevato di autorità finisce talvolta col rendere difficile l'individuazione delle misure da prendere, rallenta azioni che, per essere efficaci, richiederebbero invece estrema rapidità». Ben detto governatore Visco. Era tempo che queste considerazioni giravano negli ambienti finanziari, eppure ancora oggi ci troviamo alle prese con la vicenda delle due banche venete che senza un rapido intervento risolutivo, con i loro 40 miliardi di depositi e i 30 miliardi di finanziamenti alle imprese locali rischiano di scatenare una tempesta perfetta nel nostro sistema bancario. Con tutto ciò che questo può significare in termini di conseguenze per l'Europa. Eppure è ormai chiaro che la soluzione non può essere quella pretesa da Bruxelles, che in una forma moderna di Comma 22 chiede che i privati brucino (letteralmente) 1 miliardo di tasca propria per consentire al Tesoro di intervenire con l'aiuto di Stato. Dunque, la sola via che resta è il passo indietro di Bruxelles, dove la cosiddetta DG Com (più precisamente la divisione Directorate-General for Competition) ha chiaramente sbagliato a fare i conti pretendendo dalla Popolare di Vicenza e da Veneto Banca grandezze di bilancio che nemmeno Intesa Sanpaolo, uno degli istituti più sani d'Europa, è in grado di produrre. È a questo che si riferiva Visco? Lo auspichiamo. È comunque nel messaggio finale rivolto ai partiti politici che la disamina di Visco si salda nuovamente con gli energici inviti del Presidente della Repubblica a far sì che la blindatura della manovra sia ineludibile. Sembra dire Visco: le elezioni di per sé non sono né positive né negative, l'importante è che la ricerca del consenso avvenga su programmi chiari e saldamente fondati sulla realtà, indipendentemente da chi sarà il nuovo inquilino di Palazzo Chigi. LA NUOVA Pag 1 Le riforme insieme ai valori di Franco A. Grassini Non c'è ombra di dubbio che tra gli economisti che hanno responsabilità istituzionali Ignazio Visco, Governatore della Banca d'Italia, sia il più autorevole. Per questo è di grande interesse cercare di comprendere quali siano le sue tesi sulla nostra situazione economica come le ha esposte nella Relazione annuale presentata ieri a Roma. In sintesi Visco, ha preso atto che da noi la ripresa dopo le crisi economiche del 2007 e del 2011 è molto più debole di quanto realizzato negli altri Paesi europei. Dal 2007 al 2013 il reddito nazionale italiano è diminuito del 9%, la produzione industriale di quasi un quarto, gli investimenti del 30% ed i consumi dell'8%. Ancora oggi, dopo un triennio di modesta

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espansione, il PIL italiano è inferiore di oltre il 7% rispetto al massimo del 2007. La rimanente area euro oggi è sopra del 5%. Se vogliamo tornare a crescere, Visco identifica due principali problemi che devono essere affrontati. Il primo è quello del debito pubblico che solo lo scorso anno si è sostanzialmente stabilizzato ad oltre il 130% del reddito nazionale mentre era eguale allo stesso prima della crisi. Di notevole interesse è che il Governatore sottolinei che l'aumento dell'incidenza del debito pubblico sul PIL, sia essenzialmente da attribuire alla circostanza che il reddito nazionale non si è sviluppato. Ha, per altro, raggiunto livelli pericolosi per i mercati finanziari e non ha provocato preoccupanti incrementi dei tassi d'interesse solo per la politica monetaria espansiva portata avanti dalla Banca Centrale Europea. In altri termini potrebbe apparire come un gatto che si mangia la coda se Visco non avesse dedicato molta attenzione alle questioni del sistema bancario che rappresentano il secondo dei problemi che, a parere del Governatore, meritano priorità. Qui i crediti deteriorati hanno certamente un peso non trascurabile anche se Visco ha messo in evidenza che il loro importo al netto delle perdite già registrate sia meno preoccupante delle somme di frequente riportate sulla stampa. Il Governatore ha, tuttavia, rammentato di essersi espresso in favore della costituzione di una società per la gestione degli attivi bancari deteriorati con supporto pubblico e come iniziative del genere siano state impedite dagli orientamenti della Commissione Europea in materia di aiuti di Stato, che- per altro- sembra in procinto di riaprire il discorso. Il vero problema perché le banche italiane, oltre a tornare profittevoli, ricomincino a svolgere un ruolo propulsivo nella crescita delle imprese, è che devono modernizzarsi per tener conto dei mutamenti tecnologici, riducendo i costi, riorganizzandosi e adottando forme efficaci di governo societario. In altri termini le riforme sono certamente necessarie, ma da sole insufficienti se le persone non sono all'altezza dei loro compiti. Non a caso Visco ha iniziato la sua relazione ricordando Carlo Azeglio Ciampi ed i suoi valori: "senso del dovere, rispetto dell'alterità, consapevolezza delle responsabilità". Ove tali valori si diffondessero potremmo contare su una ripresa dello sviluppo italiano. Il Governatore ha ricordato che gli economisti sono divisi sulle conseguenze, in termini di posti di lavoro e aumento delle diseguaglianze, ma che comunque "La politica economica deve tener conto dei rischi e delle opportunità che discendono da queste tendenze di lungo periodo, perseguendo l'obiettivo, non più derogabile, di allineare l'economia italiana alle dinamiche mondiali". Non è facile farlo in un Paese diviso e troppo spesso con lo sguardo breve, ma se ci rinunciamo pregiudichiamo il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Pag 1 Fuggire verso la speranza di Luca Illetterati «Nei tempi bui - diceva il grande scrittore americano David Foster Wallace - quello che definisce una buona opera d'arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l'oscurità dei tempi». La letteratura è infatti uno dei modi più potenti che ancora abbiamo a disposizione per capire che cosa significhi abitare il mondo come umani, muoversi su questa terra da esseri umani. La letteratura, diceva sempre Foster Wallace con il linguaggio diretto che si usa nelle conversazioni, "si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano". Da poche settimane è in libreria un romanzo che fa esattamente quello che Foster Wallace chiedeva e che per questo sarebbe bello fosse letto da tanta gente. Il romanzo si intitola "Exit West" (Einaudi), l'ha scritto Moshin Hamid, scrittore pakistano, che ha studiato e si è stabilito negli Stati Uniti, autore, fra l'altro di un altro libro importante uscito qualche anno fa, "Il fondamentalista riluttante".Perché sarebbe davvero importante che questo libro lo leggessero in molti? Innanzitutto perché è un libro bellissimo. Ma soprattutto perché, raccontando la storia di Nadia e Saed, due ragazzi che si trovano a fuggire dal luogo nel quale si svolgevano le loro vite, nel quale erano radicate le loro famiglie, raccontando di questa strana e normalissima storia d'amore, di questo viaggio che attraversa il mondo, questo libro parla di noi: di questa epoca incerta, di ciò che ci passa sotto gli occhi ogni giorno, di cui ogni giorno i quotidiani si occupano e che tuttavia, in questa scontatezza, non conosciamo. Nadia e Saed sono dei migranti, sono persone che si sono lasciati alle spalle un'esistenza sempre in bilico, per affrontare un pericolo diverso, il pericolo della fuga, retti dalla speranza di poter dare un senso alle loro vite.

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Leggendo Exit West è come se avessimo la possibilità di vedere il mondo con occhi che a un tempo non sono i nostri, perché noi non viviamo quella condizione, e nei quali tuttavia non possiamo non riconoscerci, perché sono occhi umani. Come se questo libro ci rendesse consapevoli di ciò di cui sempre dovremmo essere consapevoli e che tuttavia perdiamo continuamente di vista: che dietro ogni volto c'è una vita, una storia, e dietro a quella vita e a quella storia, infinite vite e infinite storie, le quali, nel loro intreccio, nella memoria che producono, sono l'essenza stessa dell'umano. Per Nadia, ad esempio, una doccia calda, a un certo punto, non è solo una doccia. Approfittare di quel calore rimanendo sotto l'acqua più del dovuto "non era un lusso superfluo, ma riguardava qualcosa di essenziale, la sua umanità, il vivere da esseri umani, il ricordare a sé stessi ciò che si era". Per Saed, la preghiera, questo gesto che prima era solo dovere, era diventata "un gesto d'amore per ciò che aveva perso e avrebbe perso e non poteva più amare in nessun altro modo". È dei giorni scorsi la notizia che il Veneto non ospiterà nessuno dei Centri di rimpatrio previsti dal piano del Ministro Minniti. Un piano già di per sé estremamente discutibile, soprattutto per le restrizioni in termini di diritti per i migranti che esso implica. Il Veneto non solo non ospiterà alcun Centro, ma nemmeno, ha detto il governatore Zaia, metterà a disposizione un sito per accogliere altre cento persone come richiesto dal Ministero. Il problema, dice Zaia, si risolve diversamente: si risolve bloccando i barconi, bloccando le partenze, impedendo a Nadia e Saed di scappare, di provarci, di inseguire un briciolo, magari l'ultimo rimasto, di speranza. Sarebbe bello che il libro di Moshin Hamid lo leggessero davvero in molti. Anche perché chi lo leggerà non riuscirà più a guardare con lo stesso stato d'animo e magari con lo stesso distacco la faccia di Matteo Salvini che gira con la sua telecamerina nel centro migranti di Mineo scandalizzato dalla presenza di così tanti "20-30enni che bighellonano tra telefonini, scarpe, stereo, biciclette la cui provenienza nessuno conosce". E che hanno persino la sfrontatezza di giocare a calcio per strada. Ovviamente alle spalle degli italiani. Torna al sommario