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Rassegna bibliografica D sindacato in Occidente in prospettiva comparata Aldo Marchetti “La strada per una comparazione internazio- nale è certamente complessa”: queste le pri- me parole dell’ Introduzione al libro curato da Maurizio Antonioli e Luigi Ganapini che raccoglie parte delle relazioni presentate al convegno internazionale organizzato a Mi- lano dalla Associazione Giuseppe Di Vitto- rio nell’aprile del 1994 (I sindacati occidentali dall’Ottocento ad oggi in una prospettiva stori- ca comparata, Pisa, Biblioteca Franco Seran- tini, 1995, pp. 264, lire. 28.000). La compara- zione, in questo caso, è quella della storia dei movimenti sindacali europei e degli Usa lun- go tutto l’arco storico che va dalla fine del- l’Ottocento agli anni sessanta del nostro se- colo e le difficoltà enunciate all’inizio dello studio suonano allo stesso tempo come con- sapevolezza dell’importanza dei problemi posti e come ritrosa ammissione, forse, di un atto di coraggio. Non è affatto consueto, infatti, nella storiografia sul movimento ope- raio, imbattersi in studi comparati sui sinda- cati di diversi paesi ed è augurabile che il con- vegno della Di Vittorio non sia stato solo un’occasione di incontro tra studiosi di diver- si paesi e tradizioni, ma abbia allargato piut- tosto una strada sino ad oggi molto stretta. Per desiderio stesso dei promotori il dibat- tito è stato aperto al contributo di alcuni so- ciologi dell’industria e del lavoro. Anche in questo caso si è trattato di una scelta felice perché rincontro tra le due discipline, così proficuo e così raro, ha consentito di porre problemi di metodo su un tema difficile da trattare in modo unitario e refrattario agli sforzi di riduzione a “variabili esplicative” di carattere generale. Un intervento nel corso del dibattito di Gian Primo Cella ha posto in- fatti il problema di un parametro comune agli studi comparativi che egli individua nella struttura della contrattazione collettiva. In effetti la contrattazione, per la relativa cer- tezza con cui è possibile datare alcune fonda- mentali conquiste sindacali e per la consoli- data tradizione di analisi su cui si appoggia, appare come un denominatore comune da cui gli studi “trasversali” difficilmente posso- no prescindere, e Cella deve aver pensato, du- rante il suo intervento, al lavoro che ha cura- to, alcuni anni or sono, sull’andamento degli scioperi in Europa e negli Stati Uniti (7/ mo- vimento degli scioperi nel Ventesimo secolo, a cura di G. P. Cella, Bologna, Il Mulino, 1979). Eppure proprio scorrendo le pagine di quel volume si scopre quanto problematica sia l’interpretazione unitaria dei conflitti sin- dacali nei diversi paesi e quante incertezze teoriche sollevi ogni ricerca di questo genere. Ciò che emerge da quel lavoro è infatti un in- sieme di “frammenti” di una teoria generale del conflitto che esclude, è vero, una preva- lenza del “modello politico-organizzativo”, ma che mette altresì in guardia di fronte al primato di un “modello economico”. Ciò che si trae è l’invito alla cautela di fronte a spiegazioni unilaterali, di modo che appare del tutto plausibile lasciare ampio spazio a tentativi diversi e che non vantino le preroga- italia contemporanea”, settembre 1996, n. 204

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Rassegna bibliografica

D sindacato in Occidente in prospettiva comparata

Aldo Marchetti

“La strada per una comparazione internazio­nale è certamente complessa” : queste le pri­me parole dell’Introduzione al libro curato da Maurizio Antonioli e Luigi Ganapini che raccoglie parte delle relazioni presentate al convegno internazionale organizzato a Mi­lano dalla Associazione Giuseppe Di Vitto­rio nell’aprile del 1994 (I sindacati occidentali dall’Ottocento ad oggi in una prospettiva stori­ca comparata, Pisa, Biblioteca Franco Seran- tini, 1995, pp. 264, lire. 28.000). La compara­zione, in questo caso, è quella della storia dei movimenti sindacali europei e degli Usa lun­go tutto l’arco storico che va dalla fine del­l’Ottocento agli anni sessanta del nostro se­colo e le difficoltà enunciate all’inizio dello studio suonano allo stesso tempo come con­sapevolezza dell’importanza dei problemi posti e come ritrosa ammissione, forse, di un atto di coraggio. Non è affatto consueto, infatti, nella storiografia sul movimento ope­raio, imbattersi in studi comparati sui sinda­cati di diversi paesi ed è augurabile che il con­vegno della Di Vittorio non sia stato solo un’occasione di incontro tra studiosi di diver­si paesi e tradizioni, ma abbia allargato piut­tosto una strada sino ad oggi molto stretta.

Per desiderio stesso dei promotori il dibat­tito è stato aperto al contributo di alcuni so­ciologi dell’industria e del lavoro. Anche in questo caso si è trattato di una scelta felice perché rincontro tra le due discipline, così proficuo e così raro, ha consentito di porre problemi di metodo su un tema difficile da

trattare in modo unitario e refrattario agli sforzi di riduzione a “variabili esplicative” di carattere generale. Un intervento nel corso del dibattito di Gian Primo Cella ha posto in­fatti il problema di un parametro comune agli studi comparativi che egli individua nella struttura della contrattazione collettiva. In effetti la contrattazione, per la relativa cer­tezza con cui è possibile datare alcune fonda- mentali conquiste sindacali e per la consoli­data tradizione di analisi su cui si appoggia, appare come un denominatore comune da cui gli studi “trasversali” difficilmente posso­no prescindere, e Cella deve aver pensato, du­rante il suo intervento, al lavoro che ha cura­to, alcuni anni or sono, sull’andamento degli scioperi in Europa e negli Stati Uniti (7/ mo­vimento degli scioperi nel Ventesimo secolo, a cura di G. P. Cella, Bologna, Il Mulino, 1979). Eppure proprio scorrendo le pagine di quel volume si scopre quanto problematica sia l’interpretazione unitaria dei conflitti sin­dacali nei diversi paesi e quante incertezze teoriche sollevi ogni ricerca di questo genere. Ciò che emerge da quel lavoro è infatti un in­sieme di “frammenti” di una teoria generale del conflitto che esclude, è vero, una preva­lenza del “modello politico-organizzativo” , ma che mette altresì in guardia di fronte al primato di un “modello economico” . Ciò che si trae è l’invito alla cautela di fronte a spiegazioni unilaterali, di modo che appare del tutto plausibile lasciare ampio spazio a tentativi diversi e che non vantino le preroga-

italia contemporanea”, settembre 1996, n. 204

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tive della completezza e della esaustività. Po­tremmo dire anzi che quando i modelli sono più deboli si prestano più facilmente ad una verifica storica, e che, viceversa, quanto più complessa è la ricerca storica tanto più può aiutare il sociologo a costruire modelli argo­mentati e credibili, procedendo per disincro­stazione e per asportazione del superfluo.

Ritornando al libro di Antonioli e Canapi­ni, va detto che non solo non vuole presentar­si con il crisma della sintesi teorico-generale, ma che rischia forse di sottovalutare il peso degli studi presentati, che non sarebbero “ la­vori definibili come comparativi in senso pro­prio” ma ricerche “affiancate e condotte nei differenti contesti nazionali e articolate se­condo tematiche comuni” (p. 9). In realtà, at­traverso tutti gli interventi scorre un unico fi­lo interpretativo che consiste nell’intreccio tra culture del lavoro, ideologie del movi­mento operaio e forme dell’organizzazione. Benché il convegno, con un respiro molto ampio, si sia articolato attorno ai tre nodi storici del passaggio dal sindacalismo di me­stiere a quello industriale, del sindacalismo nei regimi fascisti, dei sindacati occidentali nel secondo dopoguerra, è questo intreccio che domina i diversi studi, come possibile chiave interpretativa delle trasformazioni che i sindacati attuano o subiscono nel corso della loro storia. E bene aggiungere che la chiave scelta non apre i battenti di una sala illuminata a festa, ma piccole porte che dan­no su altre porte e così via, abbozzando il tra­gitto di una storiografia sindacale per nulla celebrativa e consapevole delle molte con­traddizioni che è destinata ad incontrare lun­go il suo percorso.

L’apertura problematica è ancor più visi­bile nella prima parte del libro, dedicata al periodo di transizione dal sindacalismo di mestiere al sindacalismo industriale. In tutti i casi nazionali che vengono considerati que­sto passaggio avviene in tempi molto lunghi e talvolta sembra non arrivare mai alla com­pleta definizione di un modello culturale e or­

ganizzativo. Per il caso inglese, anzi, Noel Whiteside (Proteggere il mestiere: l ’organiz­zazione sindacale in Gran Bretagna prima del­la grande guerra) parla di un processo estre­mamente lento e travagliato che pare anzi “non si sia mai compiuto [...} perché il perpe­tuarsi dell’organizzazione separata dei lavo­ratori qualificati [...] ha persistito, in alcuni settori tradizionali, per tutto il ventesimo se­colo” (p. 70). Anche nel caso francese la tra­dizione del mestiere sopravvive ben oltre la nascita del primo sindacalismo industriale, sotto forma, come spiega Michel Pigenet, “ di una memoria in grado di legittimare la coesione e la resistenza del gruppo” (La na­scita dei sindacati d ’industria alla vigilia della prima guerra mondiale: le ambiguità francesi). Si tratta pertanto di una tradizione che si ac­compagnerà ancora per molto a forme di so­lidarietà interprofessionale di tipo territoria­le piuttosto che ad un sindacalismo industria­le che resterà ancora a lungo più una “astra­zione” che una realtà. L’intreccio tra solida­rietà sul territorio e compattezza di mestiere è sottolineato anche da Ferdinando Fasce per il caso statunitense: “ Il loro piano — di abbracciare tutte le branche di onorevole fa­tica e ogni condizione umana senza distinzio­ne di mestieri, occupazioni, sesso, credo, co­lore o nazionalità — deve fare i conti con l’ardua dialettica che viene a crearsi tra un modello di struttura prevalentemente territo­riale di distretto [...] e la dimensione di me­stiere” (Le origini del sindacalismo d’industria negli Stati Uniti, p. 96).

Per tutto un periodo della storia sindacale la sovrapposizione e il contrasto tra opzioni ideologiche e politiche e realtà comunitaria di luogo o di mestiere appare come un tratto caratteristico. In questa situazione il ruolo dell’ideologia come leva del mutamento sem­bra essere ovunque di notevole importanza, tanto che in Italia, seguendo il contributo di Maurizio Antonioli, la Fiom, pur nascendo come sindacato industriale, conta tra le sue file soprattutto operai artigianali con un li-

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vello culturale più elevato “che partecipano dell’ idea comune a tutto il socialismo italia­no della fatalità di determinati meccanismi economici e sociali” {Dal sindacato di mestie­re al sindacato d ’industria tra Ottocento e No­vecento in Italia, p. 34). La peculiarità del fe­nomeno viene anzi sottolineata con forza: “paradossalmente per lunghi anni, per tutta l’età giolittiana, la Fiom si resse, organizzati­vamente e finanziariamente, su nuclei di ope­rai dei mestieri tradizionali “ (p. 37). Allo stesso modo sarà la presenza degli operai so­cialisti di origine tedesca a contribuire in mo­do determinante alla costituzione della Ubw (United Brewery Workers), uno dei primi sindacati industriali nordamericani, e saran­no ancora i militanti socialisti ebrei reduci dalla rivoluzione russa del 1905, che si in­contrano con le masse di una forza lavoro femminile, anch’essa in gran parte ebrea, a dar vita, nel settore tessile, a un altro sinda­cato industriale, l’Ilgw (International La­dies’ Garment Workers). I primi saggi sem­brano pertanto rivalutare il peso della cultu­ra, e della ideologia socialista in particolare, come insieme di strumenti utili alla com­prensione diffusa delle trasformazioni che stavano avvenendo nell’industria, ma allo stesso tempo la vivace sopravvivenza delle antiche culture di mestiere sembra gettare un’ombra sul futuro dei sindacati industriali e sulla loro capacità di esercitare un peso po­litico effettivo, almeno sino a quando, dal­l’incontro tra operai specializzati nella fase del loro declino e gli operai comuni delle grandi fabbriche dominate dal taylorismo- fordismo, non nasceranno i moderni sinda­cati di settore. La “coscienza di classe” , frut­to dell’incrocio tra la “coscienza fiera” , fi­glia del mestiere e della autonomia, e la “co­scienza proletaria” , figlia della fatica e della privazione (secondo il modello di Touraine: cfr. Alain Touraine, Michel Wieviorka, François Dubet, Il movimento operaio, Mila­no, Angeli, 1984, ed. orig. Parigi, Fayard, 1984) è ancora di là da venire.

I temi dell’ideologia tornano al centro del­l’attenzione negli interventi dedicati al sinda­calismo dei regimi dittatoriali sia che si pre­senti sotto le specie di quella miscela compo­sta da tecnocrazia, produttivismo e antilibe­ralismo “che sarebbero poi confluiti nel gran­de alveo del corporatismo fàscista” di cui parla Alberto De Bernardi {Il sindacalismo fascista: un problema storiografico aperto, p. 121), sia che si tratti deH’antimodernismo e comunitarismo aziendale del Daf nazionalso­cialista descritto da Inge MarBolek {Il Deut­sche Arbeitfront-Daf), o dei principi di unità nazionale e di cooperazione, pilastri del sin­dacalismo falangista, come spiegano Carme Molinero e Pere Ysàs {Il sindacalismo fran­chista: caratteristiche e funzioni). L’ideologia acquista anzi un’importanza tanto più gran­de in quanto il ruolo che le viene attribuito è di tenere uniti e concordi i soggetti stessi del conflitto industriale. Le ambiguità e i li­miti intrinseci di questa esperienza sono i te­mi principali delle relazioni e risultano parti­colarmente convincenti le storie parallele se­condo le quali, in Italia, l’esperienza del pri­mo sindacalismo fascista, che prova a essere conflittuale almeno per tutti gli anni venti, si concluderà con la sconfitta dei suoi leader (Rossoni e Begnotti), mentre in Spagna Ge­rardo Salvador, dirigente della Delegazione sindacale nazionale, dopo i tentativi di con­servare uno spazio di autonomia per il sin­dacato falangista, verrà espulso dal partito, processato e confinato alle Baleari. Sia nel caso italiano che in quello tedesco si sostiene che i dirigenti sindacali furono, se non altro, costretti a ricorrere al conflitto, per non per­dere del tutto i rapporti con la base associa­tiva. Ma in questi casi la mancanza di riferi­menti alle vertenze sindacali nel periodo cor­porativo, alle modalità del conflitto e della negoziazione, rende davvero difficile una adeguata comprensione del fenomeno. Se nel caso italiano si può ricorrere ad un libro uscito alcuni anni or sono (A. De Bernardi, Operai e nazione, Milano, Angeli, 1993) e

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per la Germania si può ottenere qualche ul­teriore informazione da un altro piccolo ma denso volume (Sergio Bologna, Nazismo e classe operaia 1933-1993, Milano, Cox 18- Calusca City Lights, 1994), per la breve esperienza di Vichy e per quella, ben più lun­ga, della Spagna di Franco le informazioni sulle forme del conflitto sarebbero state mol­to utili al lettore non specialista.

I tre saggi conclusivi del libro, che trattano del sindacato nel secondo dopoguerra rispet­tivamente in Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti, presentano infine esperienze radical­mente diverse, in cui ideologie, culture del la­voro e forme organizzative cambiano nuova­mente il loro ruolo con effetti tali da rendere ancor più difficile una valutazione compara­tiva. L’aspetto della storia del sindacalismo italiano che Ganapini mette soprattutto in ri­lievo (ma le sue osservazioni valgono princi­palmente per la Cgil) è quello della difficile ri­cerca di una cultura autonoma dalle vecchie ideologie operaie e adatta a interpretare i mu­tamenti profondi del mondo industriale e le continue oscillazione tra la fedeltà ai dogmi del passato e le spinte incessanti al rinnova­mento. Il tema, come è noto, è di rilevante importanza e l’indagine mette in tutta evi­denza le difficoltà, le contraddizioni, i succes­si parziali e i passi indietro che hanno segnato questo tragitto. I richiami alla ideologia tut­tavia sembrano conservare nel tempo una lo­ro valenza positiva, poiché, anche quando il sindacato italiano assumerà le forme orga­nizzative dei Consigli di fabbrica, continuerà a conservare gli elementi essenziali di una strategia generale che avevano profonde ra­dici nella sua storia: “ il successo che essi [i Consigli di fabbrica] conseguirono nell’im­mediato non sarebbe stato concepibile se non avesse anche potuto valersi di una pro­spettiva strategica di ampio respiro: quella degli interventi sul terreno sociale, al di fuori dell’immediata prospettiva della fabbrica [...] che trovavano nelle proposte dirette a soddi­sfare bisogni emergenti della società degli an­

ni sessanta il loro immediato antecedente” (L. Ganapini, I sindacati italiani dalla rico­struzione alla vigilia dell’autunno caldo, p. 202). Il problema tuttavia invita a un prose­guimento della riflessione. Che la strategia delle riforme perseguita nei primi anni settan­ta abbia costituito un aspetto importante del­l’influenza culturale e politica esercitata dal movimento operaio sulla società di allora non vi può essere dubbio, ma se si pensa ai ri­sultati conseguiti dai Consigli di fabbrica, dai Consigli di zona, nella loro breve esperienza, e alle ricorrenti mobilitazioni nazionali per le riforme, la valutazione deve forse rendersi più complessa.

Ma come si sarebbe trovato un operaio co­munista italiano che all’improvviso, negli an­ni cinquanta, si fosse trasferito in una grande azienda inglese? Sicuramente del tutto spae­sato. Il saggio di Nina Fishman sul sindacali­smo del dopoguerra nel Regno Unito costi­tuisce senza dubbio un motivo di interesse per la lettura del libro: “I militanti comunisti dibattevano di politica con regolarità con i loro colleghi laburisti (e conservatori) nelle sezioni sindacali e nei comitati distrettuali, ma non sui luoghi di lavoro e nelle riunioni di fabbrica” . La tesi dell’autrice è quindi che la guerra fredda abbia influenzato molto poco i modelli di militanza dei sindacati in­glesi e che sia la destra sia la sinistra di fabbri­ca fossero troppo interessate ad accumulare potere di contrattazione e a strappare piccole conquiste quotidiane per cercare motivi di di­visione nelle sfere dell’ideologia o della poli­tica: “la politica è qualche cosa che fanno lo­ro e che quindi ha un interesse puramente ac­cademico per noi” (Il fronte unito in cui non penetrò la guerra fredda, p. 221). Difficile pensare ad un maggiore distacco tra ideolo­gie operaie e cultura sindacale e a un contra­sto più netto tra la situazione italiana e quella inglese, ma nonostante ciò si potrebbero ri­volgere alcune domande alla relatrice (autri­ce tra l’altro del recente volume The British Communist Party and thè Trade Unions,

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1933-1945, Aldershot, Scolar Press, 1995, re­censito in “Italia contemporanea” , 1995, pp. 515-520). Il clima politico che si trova nelle fabbriche è altrettanto asettico all’interno delle organizzazioni sindacali di categoria e ai vertici del Trades Union Congress? Non vi è nessuna differenza, in un paese dove le tradizioni culturali e ideologiche si discosta­no notevolmente a seconda dei mestieri e dei settori, tra minatori e ferrovieri, tra me­talmeccanici e portuali?

Il cerchio del libro si chiude con le nette considerazioni di Federico Romero ( / sinda­cati statunitensi dal boom postbellico ai pro­blemi della deindustrializzazione) sul declino del sindacalismo statunitense, incapace di rinnovarsi nel periodo di più intensa ristrut­

turazione, e sui timidi tentativi di una sua ri­nascita in alcune nuove fabbriche degli anni ottanta, e la domanda che ne deriva in modo spontaneo riguarda il destino del sindacali­smo industriale nei paesi di vecchia indu­strializzazione. Ecco allora un ultimo enig­ma che il libro pone al lettore: non sono for­se alcuni sindacati a maggior radicamento ideologico-culturale e con una più forte dire­zione centralizzata di settore e intersettoriale (quello tedesco e quello italiano) a dimostra­re più flessibilità e più tenuta sul difficilissi­mo terreno degli attuali sconvolgimenti tec­nico-organizzativi? Un altro convegno della “Di Vittorio” e un altro libro? Perché no?

Aldo Marchetti

Giovanni Gentile filosofo e organizzatore di cultura

Katia Colombo

Parafrasando Eugenio Garin, si potrebbe sottotitolare Cronache di storia italiana la biografia di Gentile scritta da Gabriele Turi 0Giovanni Gentile. Una biografìa, Firenze, Giunti, 1995, pp. 543, lire 48.000), come confermano gli “indizi” suggeriti dall’autore che, oltre a evocare Ernesto Ragionieri, rin­via al proprio L ’intellettuale Giovanni Genti­le (“Belfagor” , 1994, n. 3), dove il termine intellettuale indica l’identificazione di uomo e filosofo (secondo l’autorappresentazione dello stesso Gentile), l’uomo di cultura atti­vo nella società, l’“educatore” , per cui una biografia intellettuale diventa ricostruzione, rappresentazione di una condizione sociale, politica e culturale collettiva, appunto cro­naca di storia italiana. Diventa quindi as­sunzione di un metodo storiografico che, prese le distanze da riduttivi schematismi — presenti (revisionismo) o passati (una let­

tura ideologico-politica centrata sulle cate­gorie antifascismo e fascismo che, secondo Turi, ha finito per appiattire il discorso su Gentile in un’analisi comparativa con Cro­ce) —, si è tradotto in un’indagine che non separasse il pensatore dal politico. Ma qui Turi ha dovuto arrendersi alla “necessaria, e utile, divisione dei compiti e degli speciali- smi” (L ’intellettuale Giovanni Gentile, cit., p. 131) e lasciare ai filosofi il discorso teoretico sul nesso tra attualismo e fascismo, pur non rinunciando a pronunciarsi sulle più recenti interpretazioni (“ lo storico generale non può accontentarsi di una valutazione che prescinda dall’analisi della loro funzione”) presentate al convegno promosso nel 1991 dalla Fondazione Gramsci (gli atti in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di Michele Ciliberto, Roma, Editori Riuniti, 1993).

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L’ esito più conseguente delle considera­zioni metodologiche di Turi sarebbe stato la scrittura a due mani — lo storico generale e lo storico della filosofia — della biografia di Gentile, anche per approfondirne gli aspetti più controversi che sono poi quelli sui quali si esercitano oggi le più semplicisti- che letture. Un esempio citato dall’autore: nella mostra storico-documentaria su “ Filo­sofi Università Regime “ (1985), Gentile ap­pariva solo come protettore di intellettuali antifascisti o perché si era avvalso della loro collaborazione per Y Enciclopedia italiana, o perché aveva intercesso in loro favore presso Mussolini. La peculiarità deH’idealismo gen- tiliano obbliga infatti a interrogarsi sui pre­supposti teoretici dei comportamenti pratici del filosofo per quell’identità di razionale e reale, di teoria e prassi, di pensiero e azione, secondo le “varianti” in cui si esprime il vi- chiano verum et factum convertuntur, che co­stituisce il nucleo centrale del pensiero di Gentile.

Avvalendosi tuttavia di una distinzione tra “orientamento civile” ed elaborazione ideo­logica, e di una accezione estensiva di “testo” (“ se per testi non si intendono solo quelli teorici” , L ’intellettuale Giovanni Gentile, p. 134), tanto più “opportuna” per gli apporti documentari ancora indisponibili quando Di Lalla scrisse nel 1975 una biografia di Gentile, che per impostazione può conside­rarsi l’antecedente del lavoro qui recensito (Manlio Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni), Turi non rinuncia alla scrittura della biografia “intellettuale” .

Se una contestazione di tutte quelle opera­zioni biografiche disinvoltamente centrate sulla dissoluzione della categoria fascismo doveva compiersi nel concreto del lavoro sto­riografico, la biografia di Gentile rappresen­ta certamente il terreno d’elezione. Ma la ri- costruzione della storia dell’intellettuale Gentile, per la sua esemplarità, interessa so­prattutto rispetto al più ampio problema del rapporto tra intellettuali e potere, tema

classico della storiografia a partire dagli anni settanta, sul quale si sono orientate da tem­po le ricerche di Turi. Critico verso quelle te­si che, malgrado il declino del paradigma crociano dell’antitesi tra cultura e fascismo, sostengono una sostanziale automia degli in­tellettuali dal regime, nei suoi studi Turi ha dimostrato come il fascismo fosse riuscito a raccogliere un consenso significativo fra gli intellettuali, aggregandoli attorno non a un’ideologia di partito, ma ai miti nazionali­stici, ai valori di Stato e nazione con i quali si identificava. Il periodo giolittiano — come gli studi di Emilio Gentile sulle radici ideolo­giche del fascismo hanno messo in luce — e, soprattutto, la grande guerra diventano così i momenti critici in cui, con l’elaborazione e la diffusione di una cultura antiliberale, si pongono le premesse di un rapporto organi­co, e non esteriore, tra intellettuali e fasci­smo (nella duplice accezione di movimento e regime).

L’analisi del rapporto di Gentile col fasci­smo — non esteriore, strumentale, ovvero non finalizzato alla realizzazione di quella ri­forma della scuola dibattuta fin dagli inizi del secolo — viene così condotta sul piano della percezione che della crisi di fine secolo pote­va avere il giovane Gentile, con la mediazio­ne politico-culturale dell’ambiente pisano, evidenziando la continuità tra il liberalismo conservatore acquisito negli anni della for­mazione e l’adesione al Pnf.

E non poteva che intitolarsi “Dall’antico nel moderno” il capitolo che descrive gli anni della formazione: l’“antico” definisce il tra­dizionalismo schematico dell’insegnamento liceale, l’assenza di respiro culturale di una scuola (il liceo classico Ximenes) e di una cit­tà (Trapani, dove l’unica risposta alla “bra­ma di sapere” erano le “deserte e tristi” bi­blioteche comunali che raccoglievano “i fon­di dei soppressi ordini religiosi”) e, soprattut­to, il provincialismo culturale di una Sicilia “sequestrata” , isolata politicamente e cultu­ralmente dal resto del paese. Il “moderno”

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è rappresentato dalla Scuola Normale supe­riore di Pisa, che Gentile frequenta dal 1893 al 1897, e da quella sorta di conversione leo­pardiana al vero, al bello, al bene i cui artefici sono Alessandro D ’Ancona, Amedeo Crivel- lucci — docente di storia moderna dal quale Gentile apprende la metodologia del lavoro storiografico —, Donato Jaja, l’ultimo fedele erede della lezione di Bertrando Spaventa. Il primo contatto con il “moderno” , con una cultura di respiro europeo, si compie con D’Ancona che, in una prospettiva estetica desanctisiana, antiretorica e antidilettantisti­ca, aveva superato la critica erudita di stam­po settecentesco (l’erudizione diventava mez­zo per un’analisi filologica centrata sul testo anche se attenta al contesto storico), coniu­gando ricerca scientifica e idealità politica nella convinzione dell’identità di storia lette­raria e storia civile. L’unione di cultura e im­pegno civile era peraltro un tratto caratteri­stico di tutto l’insegnamento normalistico.

Il desanctisismo della produzione critico­letteraria, che vede Gentile impegnato in una ricerca già autonoma dalla lezione di D’Ancona, sarà il deus ex machina dell’incon­tro con Benedetto Croce, di un sodalizio in­tellettuale che si eserciterà inizialmente nel comune impegno ad approfondire il marxi­smo. Le letture di Croce e di Gentile sono, su questo tema, diversissime. Come è noto, la tesi centrale dell’interpretazione crociana consiste nella negazione del carattere di filo­sofia della storia o di nuovo metodo storio­grafico al materialismo storico, riduttiva- mente inteso come canone empirico — un promemoria rivolto agli storici affinché pre­stino attenzione alle motivazioni economiche dell’agire umano — cui, tuttavia, va ascritto il merito di avere contribuito al superamento dell’appiattimento positivistico e dell’erudi­zione antiquaria e filologico-letteraria. L’ese­gesi gentiliana (soprattutto centrata sulla ter­za tesi su Feuerbach), sebbene critica, è ben più profonda e articolata: avendo riconosciu­to al materialismo storico il carattere di filo­

sofia della storia — divergendo così da Croce — lo considera un fraintendimento dell’hege- lismo e autocontraddittorio perché prassi e materia sono principi inconciliabili. Anche negli anni della maturità Gentile si dichiarerà debitore del pensiero marxiano per il concet­to di prassi, intesa come unica possibile rela­zione tra soggetto e oggetto che impedisce di considerare l’oggettività come autonoma e il soggetto come individuo.

Ulteriore “esito” degli anni pisani è l’ac­quisizione del risorgimentalismo, non solo in termini di conoscenza della storia e della filosofia del periodo risorgimentale (la tesi di laurea è su Rosmini e Gioberti), ma di vera e propria categoria filosofica — nell’accezio­ne di Augusto Del Noce — che si esprime in una eticità e politicità di marca mazziniana (la vita come missione, dovere, exemplum, l’indissolubilità del binomio pensiero-azione) che trova una giustificazione, un fondamento teoretico, nella concezione gentiliana della fi­losofia: la filosofia non è teoria e contempla­zione del mondo, ma azione e creazione del mondo; azione che non è immediato agire, ma coscienza dell’azione, fare etico.

Dalla puntuale ricostruzione di Turi emer­ge insomma come l’ambiente pisano avesse esercitato una funzione decisiva, anzi esclusi­va, considerando l’arretratezza e asfissia cul­turale dell’“isola del sole” , nell’orientare, con gli interessi di ricerca di Gentile, le sue con­vinzioni etico-politiche: il laicismo, la supre­mazia dello Stato sulla Chiesa, l’incompiu­tezza del processo risorgimentale, i meriti della Destra storica, l’ostilità per i rossi e i ne­ri (i clericali).

Il riconoscimento del debito culturale ver­so l’istituzione pisana fu ben presente allo stesso Gentile che mantenne, a vario titolo, un costante legame con la Normale fino alle dimissioni dall’incarico di direttore dopo il 25 luglio 1943 (sul tema si veda Paolo Simon- celli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano, Angeli, 1994 e Tina Tornasi, Nella Sistoli Paoli, La Scuola

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Normale dì Pisa dal 1813 al 1945. Cronache di un’istituzione, Pisa, Ets, 1990). Ma il “tribu­to” più significativo sta nell’avere assunto la Normale a istituzione scolare esemplare, a modello pedagogico alternativo alla scuola tradizionale con il suo enciclopedismo, le esposizioni di seconda mano, l’imparaticcio, la retorica.

La riforma scolastica del 1923 consacrava questo modello e coronava anni di studi pe­dagogici, avviati su consiglio di Jaja — che li considerava propedeutici alla ricerca filo­sofica, e “ opportuni” : gli sarebbe stato più facile collocare il proprio allievo alla Norma­le per l’insegnamento di pedagogia, in vista di un incarico di filosofia, strategicamente ne­cessario alla “lotta” per l’affermazione dell’i­dealismo — ma congeniali alla “mentalità ri­sorgimentale” di Gentile. Questione morale e non tecnica, la riforma della scuola risponde­va all’obiettivo di “ fare gli italiani” per lo Stato nuovo. Ed è intorno a questi temi di fondo del sistema formativo e della concezio­ne del potere e dello Stato che si compie l’in­contro tra Gentile e il fascismo. “Nella scuo­la — afferma Gentile — lo Stato realizza se stesso” , ossia la propria sostanza etica, la na­zione. E la tesi della coincidenza di Stato e nazione, per cui lo Stato è in interiore homine; il problema ereditato dal Risorgimento della partecipazione delle masse alla vita politica è così risolto in termini di identificazione Sta­to-popolo nell’esplicita contestazione della teoria contrattualistica, la cui accettazione renderebbe i cittadini titolari di diritti di li­bertà antecedenti la costituzione dello Stato, cioè “naturali” . Lo Stato totalitario (endiadi coniata da Gentile per significare che nulla è prima e oltre lo Stato, inteso come soggetto universale, essere-tutto, Dio immanente), fa­scista, diventa così liberale perché titolare della libertà che partecipa ai cittadini. E l’esi­to di quel misticismo dell’attualismo di cui Croce accusava l’amico fin dal 1913, un dis­senso teoretico che doveva diventare necessa­riamente politico e pubblica rottura con Y An­

timanifesto (1925, si tratta, come noto, della risposta al gentiliano Manifesto degl’intellet­tuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazio­ni, redatta da Croce su iniziativa di Amendo­la e sottoscritta, fra gli altri, da Chiovenda, De Lollis, De Ruggiero, Einaudi, Fortunato, Jemolo, Ruffini, Salvatorelli).

Ostile alla concezione laica della scuola e dello Stato, se la laicità era intesa negativa- mente e quindi come agnosticismo, la rifor­ma introduceva “l’insegnamento della dottri­na cristiana secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica a fondamento e corona­mento della istruzione elementare in ogni suo grado” , e il giuramento di fedeltà allo Stato che diverrà, dopo la costituzionalizza- zione del Gran consiglio del fascismo che identificava Stato e Pnf, giuramento di fedel­tà al regime.

Rimosso il “malefico germe dell’elezioni- smo” , diveniva di nomina regia il Consiglio superiore della Pubblica istruzione, che si ri­duceva a organo consultivo; i rettori erano designati dal re e i presidi di facoltà dal mini­stro.

Veniva ridotto il numero delle scuole, se­condo il “principio” “scuole poche ma buo­ne” ; l’introduzione di un ventaglio di esami di ammissione, idoneità, abilitazione, licenza contribuiva a caratterizzare in senso selettivo l’intera struttura scolastica dove predomina­va l’istruzione classica, la sola che potesse dirsi formativa. Gli studi secondari essendo, secondo Gentile, riservati “a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretende destinare, al culto dei più alti ideali umani” , rendevano il sistema scolastico funzionale al reclutamento della classe dirigente all’interno della borghesia. A suggello della struttura classista del siste­ma formativo, veniva impedito l’accesso al­l’università attraverso la sezione fisico-mate- metica degli istituti tecnici, frequentati da chi proveniva dai ceti meno abbienti.

Si introduceva l’esame di Stato che, equi­parando scuola pubblica e privata, doveva

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creare una concorrenza utile a elevare il livel­lo dell’insegnamento, soprattutto pubblico.

“Precursore” , come si autodefinisce nella lettera aperta a Mussolini con cui dichiara i motivi della sua iscrizione al Pnf, o “teorico del fascismo ante literam" come lo considera Codignola, Gentile è, secondo Turi, “parte integrante della classe dirigente fascista pur senza avere una carica di partito o di gover­no” , dopo le dimissioni daH’incarico di mini­stro della Pubblica istruzione a seguito della crisi Matteotti (non per dissenso, ma per “fa­cilitare un’opera di conciliazione naziona­le” ). La presidenza della Commissione dei Quindici e, soprattutto, dei Diciotto testimo­niano il fondamento di quell’appartenenza. Se anche, come ha documentato Aquarone, Mussolini rimase deluso dai risultati del lavo­ro della Commissione dei Diciotto Soloni, formalmente istituita con l’incarico di formu­lare proposte per una riforma costituzionale, l’opera giuridica di Alfredo Rocco traduceva in realtà legislativa l’ideologia totalitaria di Gentile. La costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo (1928), trasformando una struttura organizzativa del Pnf in organo dello Stato, identificava partito e governo, partito e Stato-nazione.

La presidenza dell’Istituto nazionale fasci­sta di cultura e dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, la direzione dell’Enciclopedia italiana sono le tappe dell’“imperialismo intel­lettuale” di Gentile, che si esercita anche nel controllo del mondo editoriale, per il quale an­zi, in un rapporto inviato a Mussolini — sco­

perto da Turi — viene definito “nuovo San­t’Ufficio” : era “molto difficile — si legge nel rapporto — fare uscire un libro di cultura po­litica e filosofica in Italia senza il [suo] visto” .

Pur essendo un intellettuale organico al re­gime, non mancarono i dissensi: i ritocchi di Belluzzo alla sua riforma, potenziando l’i­struzione tecnico-professionale, erano una minaccia per le finalità formative del sistema scolastico; la stipulazione dei Patti lateranen- si ricostituiva un’autorità — la Chiesa — esterna allo Stato, minandone il carattere to­talitario; le leggi razziali erano una conces­sione al naturalismo, nella variante materiali­stico positivista. “Gentile si dimostra perso­nalmente solidale con molti intellettuali ebrei tedeschi rifugiati in Italia. Fra questi Paul Oskar Kristeller” . I tentativi di trattenere in Italia lo studioso tedesco non avranno esito positivo, così come avviene per molti ebrei italiani allontanati dai posti d’insegnamento o di lavoro, che si erano rivolti a Gentile per ottenere protezione.

Questi dissensi non modificano l’atteggia­mento di Gentile nemmeno nei confronti del fascismo repubblicano. Per le caratteristi­che dell’attualismo (da una parte, una sintesi concettuale che svalorizzava i fatti — essen­do essi “ il particolare” , inferiore e opposto all’universale, idea o teoria —, dall’altra un obbligo di coerenza, che è etico e teoretico) la fedeltà al regime, mistificato, lo accompa­gnerà fino alla morte “annunciata” e, insie­me, “inattesa” (p. 512).

Katia Colombo

L’enciclica ‘inedita’ di Pio XI sul razzismo

Guido Valabrega

Intorno alle iniziative di papa Pio XI nei con­fronti del razzismo nazista e fascista da sem­pre si è discusso. Per tale motivo, partendo

da quanto egli disse in varie circostanze, mol­ti hanno tentato di appurare e definire quan­to e cosa aveva in animo di fare per il decen-

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naie della Conciliazione in quelli che doveva­no essere gli ultimi momenti della sua vita. Anni fa, per esempio, Giorgio Candeloro co­sì sinteticamente riassumeva nel nono volu­me della Storia dell’Italia Moderna (Milano, Feltrinelli, 1981, p. 455) gli estremi proponi­menti di papa Ratti specie in riferimento alla campagna antiebraica di Mussolini: “ aveva intenzione di pronunziare in occasione del decennale della Conciliazione un discorso molto critico verso la politica fascista degli ultimi tempi. Ma, colpito da due attacchi car­diaci, morì il 10 febbraio 1939” .

Adesso gli interrogativi su quel nodo stori­co e in particolare le ipotesi, non soltanto sul­l’allocuzione, ma sulFenciclica che il pontefi­ce avrebbe voluto emanare per definire la po­sizione della Chiesa cattolica sull’unità del genere umano e l’uguaglianza tra gli uomini, contro la concezione hitleriana della razza e contro l’antisemitismo, sono riesaminati a fondo e avviati a soluzione dall’indagine di due studiosi: il monaco benedettino belga Georges Passelecq e Bernard Suchecky, di origine ebraica, dottore in storia alla Scuola parigina di alti studi in scienze sociali e bi­bliotecario a Strasburgo (L ’encyclique cacheé de Pio XI, Prefazione di Émile Poulat, Parigi, Editions La Découverte, 1995, pp. 320, sip). Mossisi in momenti diversi, essi hanno unito il loro impegno nell’estate del 1987 per ritro­vare i documenti, confrontare le testimonian­ze e verificare i dati, di fatto giungendo a in­quadrare in modo esauriente il problema e soprattutto offrendo la possibilità di leggere e valutare direttamente la cosiddetta versione abbreviata del progetto di enciclica Humani generis mitas.

Sotto il profilo metodologico, la novità principale che ha spinto a una ripresa degli studi su questo tema e che ha permesso di conseguire i risultati descritti nel volume, è stata la comparsa sulla rivista statunitense “National Catholic Reporter” , dal dicembre 1972 al gennaio 1973, di alcuni articoli che per la prima volta aprivano un vero e proprio

dossier sulFenciclica inedita di Pio XI contro l’antisemitismo. Partendo dalla lettura di tali interventi, indagando sulle fonti alle quali si rifacevano, ritrovando testimoni e personag­gi particolarmente informati, prima Passe­lecq e poi Suchecky (colpito a sua volta dalla diffusione nel 1975 sulla pubblicazione tede­sca “ Freiburger R undbrief’ d’un articolo su Edith Stein ed il progetto d’una enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo) sono riusciti a dare un panorama adeguato sull’in­tera vicenda: su coloro che sin qui più pun­tualmente hanno studiato la questione (anzi­tutto recuperando le tesi di dottorato di Ed­ward Stanton alla Saint Paul University di Ottawa, e di Johannes Schwarte all’Universi­tà Guglielmo di Münster in Westfalia), sulla genesi dell’idea di enciclica in Pio XI, sugli esperti che furono incaricati di stendere il progetto e sugli esiti ai quali pervennero, in­fine sulle difficoltà e i fatali ritardi nella loro consegna al pontefice già gravemente malato.

Come si vede da quanto abbiamo sinteti­camente riassunto, ci si trova dinnanzi a un’indagine in diverse direzioni che per i frut­ti concreti che riesce a cogliere merita di esse­re considerata con molta attenzione: ci per­mettiamo, quindi, di sottolinearne qualche aspetto. Un primo punto di grande interesse è l’individuazione degli autori della bozza provvisoria del documento che avrebbe do­vuto diventare l’enciclica vera e propria, con alcune importanti informazioni sulla lo­ro biografia. Gli estensori del progetto di en­ciclica furono tre padri gesuiti che intensa­mente vi lavorarono nell’estate del 1938: lo statunitense John LaFarge, profondamente impegnato contro la discriminazione razzia­le, che nel 1937 aveva pubblicato il libro In- terracial Justice, presto divenuto un punto di riferimento per l’azione antisegregazioni­sta; il francese Gustave Desbusquois, fonda­tore e direttore dell’Azione popolare, un nu­cleo di attivismo cattolico centrato sui pro­blemi sociali e in contatto con sindacati e or­ganizzazioni padronali, movimenti coopera­

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tivi, gruppi giovanili; il tedesco Gustav Gun- dlach, studioso di problemi economici, viva­cemente presente tra le forze cattoliche nelle vicende della repubblica di Weimar, critico verso i cedimenti negli ambienti cristiani alle pressioni naziste in specie in occasione delle disponibilità dimostrate dall’episcopato au­striaco nella fase dell’Anschluss: per un suo intervento polemico diffuso dalla radio del Vaticano, fu denunciato a Berlino e avvertito che sarebbe stato arrestato se avesse rimesso piede in Germania (cfr. p. 103). Ai tre si ag­giunse anche un altro gesuita tedesco, Hein­rich Bacht, con l’incarico della traduzione del testo in latino.

Un secondo aspetto che merita di essere rapidamente rievocato perché ha sollevato numerosi interrogativi è quello che concerne gli intralci che non permisero a Pio XI di por­tare a conclusione il suo disegno. Questo tan­to più che, come con finezza dimostrano i due autori, con rincalzare degli avvenimenti il pontefice “aveva preso coscienza della neces­sità urgente di colmare il deficit” (p. 201) in cui si trovava la dottrina cattolica sui temi del razzismo e dell’antisemitismo. Essa, in­fatti, era ancora legata alla tradizionale di­stinzione tra un antisemitismo razziale giudi­cato inaccettabile e un antisemitismo statua­le, di controllo politico su una minoranza, ammesso e comprensibile. In concreto la re­sponsabilità degli indugi e dei temporeggia­menti ricadrebbe sul superiore generale dei Gesuiti, Wladimir Ledochowski, che ricevet­te da padre LaFarge nel settembre 1938 tre versioni del progetto di enciclica in francese, inglese e tedesco (p. 45) da trasmettere al pa­pa. Ledochowski, di origine polacca, osses­sionato dalla minaccia del comunismo sovie­tico, convinto che il nazionalsocialismo non sarebbe stato a lungo al potere in Germania (cfr. pp. 93, 138), scelse di procrastinare e di rinviare: in particolare sottoponendo i mate­riali alla lettura d’un esperto, il padre gesuita Enrico Rosa. Questi però, gravemente infer­mo, morirà il 26 novembre 1938. La tattica

del ritardare, in conclusione, avrà successo perché Pio XI non avrà la forza e il tempo per prendere in esame i documenti finalmente consegnatigli.

Per quanto riguarda poi il cosiddetto “mi­sterioso segreto del discorso di Pio XI” per il decennale della Conciliazione, Passelecq e Suchecky mettono in evidenza la loro capaci­tà di utilizzare e riconsiderare quanto già è noto e di interpretare e sottolineare ciò che eventualmente è sfuggito ad altri commenta­tori. Così, per un verso, recuperano i dati più significativi degli ultimi discorsi pronunziati dal papa: per esempio, riportano il testo della allocuzione improvvisata il 6 settembre 1938 ai partecipanti d’un pellegrinaggio di cattoli­ci belgi e che fu annotato da uno di questi e poi pubblicato sul giornale “Le Libre Belgi- que” del 14 settembre 1938. È il famoso di­scorso, che pare costituire una sorta di punto conclusivo e allo stesso tempo d’apertura del pensiero papale sulla questione dell’antisemi­tismo: sia pure non esprimendosi esplicita­mente sulle nuove leggi discriminatorie e non escludendo il diritto a difendersi contro le minacce a giusti interessi, vi si ribadiva l’i­nammissibilità del razzismo con slancio com­movente. Cosi concludeva il pontefice: “No, non è possibile ai cristiani di partecipare al­l’antisemitismo. Riconosciamo a chiunque il diritto a difendersi, di usare i mezzi per pro­teggersi contro tutto ciò che minacci i suoi in­teressi legittimi. Ma l’antisemitismo è inam­missibile. Noi siamo spiritualmente dei semi­ti” (p. 181).

Delineato quale fu, allo stato dei fatti, il ri­sultato dell’evoluzione del pensiero pontifi­cio sul punto più controverso del problema razziale, Passelecq e Suchecky, per un altro verso, cercano di appurare quale forma tutto ciò avrebbe assunto nel discorso che Pio XI andava vergando prima di morire. A questo fine ricorrono a quanto scrisse papa Giovan­ni XXIII nel febbraio 1959 in una lettera ai vescovi italiani che contiene lunghi estratti degli appunti che Pio XI stava redigendo

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(pp. 194-196). Significativamente le ultime parole che si riescono a leggere rievocano la temperie in cui si trovavano allora il mondo e la Chiesa: “State in guardia, carissimi Fra­telli in Cristo, e non dimenticate che sovente vi sono degli osservatori e dei delatori (dite pure spioni e direte la verità) che per zelo o per esserne stati incaricati vi ascoltano per denunciarvi senza aver compreso nulla di nulla” .

Ricordando di passata come, secondo gli autori, talune parti della Humani generis imi­tas, quantunque non relativi al razzismo e al- rantisemitismo, si ritroverebbero nella prima enciclica di Pio XII, successore di Pio XI, e che la questione dei “silenzi” di Eugenio Pa­celli aprirebbe un’altra discussione (p. 208), pensiamo giusto, in conclusione, ricordare il testo provvisorio dell’enciclica “ nascosta” che viene qui riportato.

Il documento, di cui si può finalmente prendere nozione, è di ampie proporzioni (quasi 100 pagine del volume) e di impianto ambizioso. Articolato in 179 paragrafi, esso è suddiviso in una prima parte sui disordini di cui soffre la società contemporanea che di­remmo concentrata sulla critica alle teorie e alle pratiche avviate dalla rivoluzione france­se e, in specie, contro le concezioni che ven­gono definite meccanico-atomistica e mecca­nico-totalitaria, e in una seconda parte che si diffonde sull’unità del genere umano e sulla funzione della Chiesa nel rivendicarla. In questo ambito sono valutate istituzioni quah la famiglia e lo Stato, il concetto di razza, di nazione e di nazionalismo. V’è infine una ter­za parte che riprende ed esamina più attenta­mente l’azione della Chiesa per l’unità della vita temporale dell’umanità. Le questioni della razza e del rapporto con gli ebrei sono trattate nella seconda parte: punto 4 - La Razza ed il Razzismo (paragrafi 111-130) e

punto 5 - Gli ebrei e l ’antisemitismo. Separa­zione religiosa (paragrafi 131-152). Senza entrare nei particolari, si può dire qui che le argomentazioni piuttosto serrate paiono rimandare a vari spunti del discorso pontifi­cio del 6 settembre 1938 e riflettono le con­cezioni filosofiche e le impostazioni sociolo­giche esposte in libri e articoli da LaFarge e Gundlach. Molto in breve si può comunque sottolineare come, pur nell’ambito della tra­dizionale prudenza ecclesiastica, sia qui pre­sente l’urgere dei tempi e dell’attualità: l’ac­corata descrizione delle devastazioni che stanno provocando le persecuzioni contro gli ebrei s’accompagna alla sottolineatura della differenza religiosa tra cattolicità ed ebraismo, una differenza che non comporta discriminazione razziale. Pur non mancan­do di ribadire la necessità di prendere misu­re energiche per salvaguardare la fede e i co­stumi dei suoi fedeli e contro le influenze perniciose dell’errore, la Chiesa considera “con non minore chiarezza l’impotenza e l’i­nefficacia dell’antisemitismo come mezzo per pervenire a tale obiettivo” (p. 290).

Vi sono, ovviamente, molti altri aspetti sui quali sarebbe utile soffermarsi e discutere; ma si può sperare che il dibattito e l’appro­fondimento siano soltanto rinviati: per esem­pio a quando questo volume sarà, come au­spichiamo, tradotto e pubblicato in italiano. Nel frattempo possiamo fare nostre le con­clusioni alquanto interlocutorie di Passelecq e Suckecky: l’enciclica, ancora in fase di ela­borazione, non pare indicare aggiornamenti veramente rivoluzionari; nondimeno, affer­mando in termini chiari l’incompatibilità tra il cristianesimo, il razzismo e l’antisemiti- smo, c’è da rammaricarsi che essa non sia giunta alla definitiva stesura e alla diffusione.

Guido Valabrega

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La Resistenza fotografata

Paolo Ferrari

È generale l’accordo sul fatto che la lettura di un documento fotografico richiede accorgi­menti di non scontata evidenza a dispetto della sua apparente immediatezza. Ed egual­mente si riconosce che questo tipo di riprodu­zione meccanica della realtà viene per lo più, anche in ambito storico, utilizzato al di fuori delle necessarie cautele critiche, con la conse­guenza che spesso uno dei modi che possono sembrare più neutrali di documentare eventi storici si trasforma in strumento di falsifica­zione del passato. Sulle complesse questioni correlate all’uso della documentazione foto­grafica, in riferimento a uno dei periodi più controversi del Novecento italiano, molti so­no i suggerimenti che vengono dal recente importante contributo curato da Adolfo Mi- gnemi, Storia fotografica della Resistenza (Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 303, lire 70.000), frutto di un lavoro approfondito promosso dalla Commissione archivi del- l’Insmli e svolto con la collaborazione degli Istituti della Resistenza.

Va subito detto che il titolo, come l’editoria ci ha abituato a sospettare, almeno in parte tradisce. Non si tratta infatti di una storia del­la Resistenza svolta attraverso un determinato tipo di documentazione, di un libro, cioè, teso a ricostruire e interpretare questioni e periodi dando principale rilievo alle immagini che di essi conserviamo, quanto di un contributo im­portante in primo luogo in altre due direzioni. Da un lato la documentazione fotografica sul­la Resistenza consente di sviluppare un discor­so metodologico sui criteri che devono essere seguiti nell’utilizzo di questo tipo di fonte, con la sottolineatura dei percorsi necessari a garantirne un uso critico, dalla ricerca degli elementi informativi relativi a ciascun foto­gramma all’interpretazione in relazione al contesto in cui è stato prodotto e viene poi col­

locato. Il fatto poi di articolare questo discor­so non in astratto, ma in relazione a un com­plesso documentario molto disomogeneo e di difficile lettura, rende ancora più utili le rifles­sioni contenute nel volume.

Quanto al secondo elemento cardine, “ il tema attorno al quale è organizzato il volu­me” , scrive Claudio Pavone nella Presenta­zione, “è [...] quello della costruzione della memoria collettiva della Resistenza attraver­so la fotografia” , come indica anche il titolo della densa Introduzione di Mignemi, La co­struzione dell’immagine della lotta di Resisten­za. Fin dalla prima pagina l’autore precisa l’intento di esaminare come attraverso il mez­zo fotografico interpretino le vicende in cui sono coinvolti fotocronisti civili e titolari di studi professionali, tedeschi, fascisti, alleati e

resistenti poco disponibili, in linea di massima, a costruire una autorappresentazione attraverso un mezzo in cosi aperto contrasto con le più elemen­tari norme di riservatezza [...] Per ciascuno di essi è possibile anzi delineare alcune tipologie di rappre­sentazione a ciascuna delle quali, forse, non sem­pre corrisponde una precisa m odalità formale di costruzione dell’immagine, ma i cui contenuti co­municativi appaiono inequivocabili. Sarebbe però riduttivo affrontare il problema della definizione dei caratteri di tali tipologie e tentarne una prima sommaria analisi senza aver collocato questo sfor­zo di costruzione delfimmagine dell’evento nella cultura fotografica del tempo in cui tale costruzio­ne si è realizzata, in base alla quale, cioè, si è pro­dotta la documentazione fotografica e se ne è rea­lizzata la prima fruizione (p. 11).

L’autore sottolinea come l’analisi della stermi­nata produzione fotografica sul secondo con­flitto mondiale debba svolgersi tenendo pre­senti, oltre alla specificità di tale tipo di docu­mento, i diversi piani del lavoro del fotografo (autore di immagini “private” o che lavora

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in strutture pubbliche o in studi privati) e del contesto in cui esso si svolge (nello specifico, le esigenze dei periodici illustrati, dei quoti­diani e degli organismi che sovraintendeva- no alla realizzazione e alla diffusione della documentazione fotografica ufficiale).

Come è noto, un ruolo centrale ebbero in Italia l’Istituto Luce e le forze armate per quanto riguarda sia la produzione dei mate­riali sia la selezione di quelli destinati a essere resi pubblici; a queste immagini si affiancaro­no quelle dovute agli studi privati e quelle che i militari al fronte scattavano di propria ini­ziativa, che proposero tipologie e modelli di­versi. Due prospettive, quella individuale e quella ufficiale, che vanno tenute presenti va­lutando come, a diversa distanza dagli avveni­menti, ne venga operata una specifica rappre­sentazione visiva.

Mignemi analizza quindi come la guerra sia stata rappresentata fotograficamente dal regime fascista, nel contesto cioè di uno stret­to condizionamento esercitato dai diversi or­gani dello Stato sulla diffusione di immagini, e dai tedeschi, evidenziando una marcata dif­ferenziazione per il diverso modello “narrati­vo” utilizzato e per il progressivo sostituirsi, da parte italiana, delle immagini del fronte interno a quelle della guerra combattuta: “ anche nella fase della Repubblica sociale italiana, quando i modelli propagandistici subiranno maggiormente l’influenza dell’al­leato germanico, il dramma bellico sarà evo­cato solo in termini vittimistici” (p. 22).

L’analisi della rappresentazione fotografi­ca della guerra si estende oltre la fine del con­flitto. Le opere — volumi e fascicoli fotogra­fici, numeri monografici di riviste, mostre — sono analizzate sia considerando le fonti alle quali i curatori hanno di volta in volta attin­to, sia il contesto storico nel quale le diverse iniziative, quasi sempre operazioni impegna­tive destinate a raggiungere un largo pubbli­co, hanno preso vita.

Dopo il 1945 le grandi agenzie fotografi­che ampliano i propri archivi acquisendo im­

magini scattate da privati o “immettendo sul mercato italiano [...] le fotografie scattate nel corso del conflitto dagli operatori privati ac­creditati presso i comandi delle varie forze ar­mate alleate” . Si tratta di fonti che suggeri­scono nuove rappresentazioni e producono nuovi simboli (si pensi alle colonne di alpini che marciano nella neve nella ritirata di Rus­sia) e vanno anch’esse considerate con gran­de cautela sul piano metodologico proprio per evitare di sostituire all’immagine della guerra voluta dal regime stereotipi diversi an­che se di segno opposto: “Ogni nuovo tenta­tivo di costruire una memoria visiva della guerra più ‘realistica’ e meno ideologizzata delle precedenti potrà trarre utili indicazioni proprio da una corretta ricostruzione e anali­si delle ‘memorie’ precedenti e dallo studio del loro stratificarsi” (p. 26).

L’analisi di Mignemi si articola, come si è detto, prendendo in considerazione le rap­presentazioni dovute ai diversi attori del con­flitto, e risulta convincente nel dimostrare co­me lo studio sistematico delle fotografie evi­denzi non soltanto precisi intenti propagan­distici, ma anche le diverse culture e le diffe­renti mentalità con le quali si affrontava quel momento storico.

Particolarmente difficile risulta la lettura critica delle fotografie prodotte dal movi­mento partigiano, per lo più prive degli indi­spensabili caratteri identificativi, circostanza alla quale si somma l’ignoranza relativa alle modalità di produzione di un materiale con­notato spesso da fini strumentali. Subito do­po la liberazione — insieme all’insurrezione il momento più fotografato, nel quale com­paiono anche i fotoreporter — diviene massi­ma la confusione nel mercato dell’immagine, al punto che “qualche Cln locale decise di di­sciplinare il commercio di alcune immagini che stavano assumendo un crescente valore simbolico [...] La prima perdita d’identità di molto materiale risale indubbiamente già a questa fase” . E proprio ai fotoreporter si de­ve, nel periodo immediatamente successivo

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alla liberazione, la creazione di “ tipologie e stereotipi che accompagneranno da allora in poi il racconto per immagini della libera­zione e più in generale, a partire da questo momento ‘alto’, dell’intera lotta di resistenza armata, con una forza e un vigore [...] che hanno ben poche altre fotografie scattate realmente sul ‘campo’ nei venti mesi prece­denti” (p. 41). Questo tipo di immagine ven­ne poi riproposto nelle iniziative che si susse­guirono, con intenti diversi, nei mesi successi­vi: la mostra della liberazione di Milano (inaugurata il 7 luglio 1945), la mostra sulla Resistenza di Torino (che si aprì ai primi di agosto), la mostra milanese della ricostruzio­ne e dei Cln di fine agosto e il film Giorni di gloria, uscito in autunno. Iniziative analizza­te sia per le scelte, strettamente legate ai di­versi momenti politici, compiute da autori e curatori, sia per l’uso delle immagini, per lo più subordinate al discorso testuale e private di una precisa collocazione spazio-temporale e, quindi, fortemente impoverite sotto il pro­filo documentario.

Mignemi esamina poi le due mostre sulla Resistenza del 1946: quella di Parigi — nella quale l’intento, legato alle trattative di pace, di sottolineare il contributo italiano alla vitto­ria alleata portava a rivalutare, rispetto al testo scritto, le fotografie per il loro valore docu­mentario — e la nuova mostra piemontese sul contributo dell’esercito alla lotta di libera­zione, espressiva del nuovo clima politico per lo spazio limitatissimo riservato alla guerra partigiana. Nella crisi che si sarebbe conclusa con la liquidazione dei Cln, da un lato non si at­tuarono iniziative volte alla sistematica con­servazione delle immagini fotografiche — in quanto di diverso tipo fu la documentazione privilegiata — e, dall’altro, si imposero nuovi stereotipi: “ L’allontanarsi nel tempo degli eventi in cui erano state prodotte le immagini finì con l’accentuare la tendenza a deconte­stualizzare un materiale già pesantemente pe­nalizzato dal punto di vista della propria iden­tità” (p. 63).

L’esame condotto da Mignemi dell’uso dell’immagine fotografica per comunicare di­verse memorie della lotta partigiana — anche con il ricorso a “false” immagini, a foto cioè scattate dopo la fine del conflitto — si arre­sta, tranne qualche accenno, al 1947, lascian­do sicuramente al lettore il desiderio di una prossima prosecuzione del lavoro, come si di­ce, “fino ai giorni nostri” .

Alla densa Introduzione (pp. 9-64), che si è tentato di delineare, seguono, raggruppati in cinque sezioni e preceduti da brevi note, i ma­teriali fotografici (pp. 67-294), ottimamente riprodotti, che consentono di verificare quanto affermato dal curatore. Per conclude­re, restano da proporre due considerazioni, che rappresentano altrettanti desiderata più che critiche in senso stretto. In primo luogo, come si è detto, Mignemi considera soprat­tutto la documentazione fotografica in rap­porto alla trasmissione delle diverse immagi­ni della Resistenza. Quanto invece al rappor­to tra fotografia e conoscenza degli eventi storici, l’autore sottolinea come un’analisi se­riale permetta di acquisire nuovi elementi sul modo di vedere il conflitto proprio dei diversi protagonisti: non soltanto, cioè, sui loro in­tenti propagandistici, ma anche sulla loro percezione della guerra in atto. Accanto alle valutazioni espresse a questo proposito, sa­rebbe stato interessante leggere qualche con­siderazione complessiva sul modo in cui, in­vece, singole foto o singole serie abbiano co­stituito una documentazione di rilievo sia te­stimoniando di aspetti sui quali non sono di­sponibili altre fonti, sia suggerendo prospet­tive diverse per lo studio di singoli momenti del conflitto, poiché in ogni caso l’importan­za di ogni tipo di documentazione è correlata alla sua capacità di illuminare su aspetti sui quali le altre fonti disponibili non dicono ab­bastanza.

Infine, si può rilevare che introduzioni più articolate ai diversi gruppi di immagini sa­rebbero state in alcuni casi opportune. Il te­sto, in particolare, dell’interessante capitolo

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conclusivo (La Resistenza ricostruita) soffre per l’eccessiva stringatezza, suggerendo la messa sullo stesso piano della “ripresa diret­ta” , cioè della “foto-verità” , e deH’immagine “falsa” in quanto “ricostruita” , sulla base della considerazione che “la fotografia rima­ne comunque un’artificiosa restituzione della realtà” . Ma qualsiasi documento è in qualche misura “artificioso” , non restituisce “diretta- mente” la realtà, ma richiede un’interpreta­zione; e d’altra parte ogni documento resti­tuisce soltanto un frammento di realtà (né occorre dilungarsi, con buona pace del senso comune, sull’ambiguità della fotografia, che si ferma alla “superficie” delle cose e richiede un complesso lavoro di interpretazione). Di conseguenza resta centrale anche la distinzio­ne tra immagini relative agli eventi e immagi­ni ricostruite di tali eventi, così come distin­gueremmo tra un documento e un romanzo storico, anche quando quest’ultimo è in gra­do di restituirci il senso delle vicende passate

meglio di singoli documenti storici. Anche se, naturalmente, in un discorso sulla memoria per immagini della Resistenza le fotografie ‘ricostruite’ costituiscono una fonte della stessa importanza delle immagini originali. Ma alla questione della falsificazione non ri­teniamo certo che l’autore abbia dedicato un’attenzione limitata, sia perché ha sempre seguito il problema (sul quale si veda anche il volume di Alain Jaubert, Commissariato degli archivi. Le fotografie che falsificano la storia, Milano, Corbaccio, 1993, ed. orig. Pa­rigi, Musée d’Art Moderne, 1986), sia perché, appunto, lo affronta direttamente in rappor­to alla Resistenza in un capitolo specifico, con molti esempi alcuni dei quali hanno avu­to larga diffusione. Il che, tra l’altro, dimo­stra come la storia della Resistenza sia af­frontata dai migliori ricercatori, oltre che con acribia documentaria, senza aprioristi­che difese.

Paolo Ferrari

Togliatti e la guerra fredda

Giampaolo Valdevit

Quale sia stata la fisionomia politica del Pei, e di Togliatti in particolare, soprattutto nel triennio cruciale compreso fra la svolta di Sa­lerno e la rottura della coalizione antifascista è uno di quei problemi che ha largamente coinvolto la storiografia italiana del dopo­guerra. In tempi recenti è stata per lo più la politica estera ad assurgere al ruolo di terre­no privilegiato di indagine al riguardo. Nel dibattito, storiografico e politico, sono state variamente proposte e riproposte chiavi di lettura molto diverse: la “doppiezza” togliat- tiana, oppure il Togliatti tattico consumato, l’abile navigatore in un mare irto di scogli, al­la ricerca di un’“autonomia possibile” , o in­fine l’uomo dall’assoluta fedeltà a Mosca

(che di recente è stata riproposta nello squa­lificante libello di Renato Risaliti, Togliatti fra Gramsci e Neciaev, Prato, 1995).

Da ipotesi interpretative del genere si di­scosta nettamente il saggio di Roberto Gual­tieri, nel quale viene offerta una visione a tut­to tondo dell’attività dispiegata da Togliatti in merito ai problemi di politica estera che l’I­talia postfascista si trovò ad affrontare: To­gliatti e la politica estera italiana. Dalla Resi­stenza al trattato di pace (Roma, Editori Riu­niti, 1995, pp. XIII-281, lire 30.000). Al ri­guardo va subito detto che l’autore dimostra di aver colto in maniera proficua un avverti­mento che si è sentito più volte echeggiare al­l’interno della storiografia delle relazioni in­

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Rassegna bibliografica 579

ternazionali: l’impegno in una ricerca che sappia connettere la dimensione nazionale con quella internazionale evitando di appli­care schemi rigidi o, al contrario, di limitarsi a ripercorrere passo dietro passo il decisión making (che sono purtroppo, entrambe, ten­denze tu tt’altro che in via di scomparsa, e in qualche misura dotate di capacità suggesti­va; e Tessersene tenuti alla larga è sicuramen­te un merito di questo lavoro).

L’attività di politica estera di Togliatti vie­ne cosi ricostruita attraverso una rete di rela­zioni che si snodano sullo sfondo della ‘gran­de alleanza’ di guerra e dei suoi esiti. Si trat­ta innanzitutto di relazioni interne al partito ed esterne ad esso in ambito nazionale, non­ché di relazioni fra il Pei e il comunismo in­ternazionale. In questo quadro forse è da no­tare una sottolineatura eccessiva delle capa­cità di proposta di Togliatti, che Gualtieri estende a tutta la sfera del comunismo inter­nazionale, e che — per inciso — sembra un rovesciamento polemico dell’immagine an­cora corrente del Togliatti lacchè di Mosca. Quanto rimane, infine, ancora imprecisato è il versante sovietico della vicenda, ma è os­servazione che non suona in alcun modo a rimprovero per Gualtieri, essendo largamen­te noto il ritardo in termini di disponibilità documentaria, di ricerca storica e riflessione storiografica.

Quello di Togliatti, sostiene l’autore, fu un progetto coerente, costruito sul fondamento di una larga coesione antifascista e di un’uni­tà nazionale; un progetto che aveva bisogno di un ambiente per potersi realizzare: l’am­biente della ‘grande alleanza’. E un disegno, continua Gualtieri, che in molti si dettero a rovinare. Ma, contrariamente alle interpreta­zioni correnti, costoro non furono tanto i De Gasperi o i Truman, quanto gli interlocutori interni, per così dire, al “campo” di Togliatti, dentro al Pei e fuori dal Pei; e in quest’ultima categoria figurano da protagonisti Stalin e più ancora Tito e Kardelj. Non è difficile ve­dere affiorare in una linea interpretativa del

genere la traccia di quella contrapposizione fra “buoni” e “cattivi” , che è stata prediletta dalla storiografia di sinistra (ma non solo da essa). Ora, si sa che il mondo è fatto di buoni e cattivi ma, anziché stare a distinguerli — che è interesse prevalente delTagiografia — è forse più produttivo vedere come interagi­scono. Si tratta dunque di vedere come il pro­getto di Togliatti subisce un impatto nel mo­mento in cui viene proposto ad interlocutori interni ed esterni, e come esce da tale impat­to: inalterato, modificato, oppure corrotto?

E fuor di dubbio che Gualtieri ci permette di inoltrarci in una direzione del genere, il che sta a significare che la contrapposizione cui si è fatto cenno, più che una chiave interpreta­tiva, è una verniciatura esterna. Perché, dun­que, il progetto di Togliatti esce corrotto? Dalle pagine di Gualtieri è agevole individua­re la presenza di un limite intrinseco al pro­getto togliattiano. Lo possono porre in luce l’atteggiamento di fronte alla questione di Trieste e alle relazioni italo-jugoslave, che co­stituiscono parte cospicua di questo saggio.

Togliatti, dunque, appare in difficoltà nel controllare il radicalismo comunista soprat­tutto là dove esso si presenta come il conno­tato unico del movimento antifascista. Egli riesce sì a controllare quello dei Secchia e dei Longo, ma non il radicalismo dei comuni­sti triestini, che dal settembre 1944 aderisco­no massicciamente alle rivendicazioni territo­riali jugoslave, né quello del rappresentante del Pei nella Venezia Giulia (Vincenzo Bian­co — Vittorio), ed infine neppure quello di cui dà segno del tutto palese il partito comu­nista sloveno e jugoslavo, Kardelj più ancora di Tito. Nell’ottobre 1944, di fronte alla pres­sione che costoro manifestano, egli cede o quanto meno devia rispetto all’impianto del proprio progetto (come afferma anche Mar­co Galeazzi, Togliatti e la questione jugoslava, “Critica marxista” , 1994, n. 6, p. 70). Egli ap­poggia cioè l’idea di sottrarre la Venezia Giu­lia al controllo alleato, ed acconsentire all’oc­cupazione jugoslava significa accettare un

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modello di lotta di liberazione che non ap­partiene al progetto di Togliatti, un modello fondato non su un largo fronte antifascista bensì sull’egemonia comunista.

Perché cede Togliatti? Lo fa in ossequio ai principi della realpolitik dopo aver preso con­sapevolezza della situazione in atto nella Ve­nezia Giulia dove, al di fuor da ogni dubbio, sarebbe difficile trovare chi fra i comunisti italiani sia ancora disposto a differire al do­poguerra la discussione sui nuovi confini (co­me il Pei ha chiesto in pratica dal 1942)? È per timore di contraccolpi dentro il Pei, dove un confronto aperto con Tito e Kardelj sarebbe sicuramente osteggiato da coloro sui quali il movimento di liberazione jugoslavo esercita una forte suggestione? È il progetto naziona­le o la politica di partito che lo spinge, o forse entrambi? O, forse ancora, gioca il timore che, se non si dà via libera a Tito nella Vene­zia Giulia, la “corsa per Trieste” che ne na­scerebbe possa produrre in essa un’esperien­za greca? Sono interrogativi già presenti nella riflessione storiografica e che Gualtieri si astiene dallo sciogliere in via definitiva, an­che perché qualcosa è rimasto ancora sepolto negli archivi. In ogni caso se Togliatti cede, sembra farlo soprattutto per ragioni tattiche. In seguito egli procede a zig zag: nel febbraio 1945 cerca la mediazione di Mosca, e ancora nell’aprile tenta di ricorrere a Stalin per bloc­care Tito. Dalle pagine di Gualtieri appare dunque chiaro che a Mosca Togliatti non si rivolge per avere rimbeccata, come si sente ancora dire da alcuni.

In seguito la linea si assesta, e questa volta ciò riflette una particolare lettura togliattia- na dell’interesse nazionale (e di quello del partito). Per la Venezia Giulia, a guerra fini­ta, Togliatti proporrà autonomia e autogo­verno, auspicherà anche la formazione di un partito comunista autonomo, parlerà an­che di un plebiscito. La Venezia Giulia è dun­que un’entità da sottrarre alla pressione jugo­slava e all’antagonismo italo-jugoslavo, nel quale Togliatti vede una minaccia per la po­

litica di unità nazionale, la fonte di un rigur­gito nazionalista che finisce per coinvolgere la stessa De. E per questo che Togliatti si im­pegnerà in una mediazione impossibile, vista la distanza che si è ormai frapposta fra Italia e Jugoslavia e la determinazione delle grandi potenze, Stati Uniti in primis, a chiudere il ca­pitolo dei trattati di pace.

Sono i prodromi di un atteggiamento che il Pei manterrà nella sostanza inalterato fino alla soluzione della vertenza nel 1954. Ma va pure aggiunto che sostenere ipotesi di auto­governo nella Venezia Giulia nel luglio 1945 poteva preludere ad un passaggio sur­rettizio di essa alla Jugoslavia. Allora nella maggior parte della Venezia Giulia era in at­to una situazione di forte egemonia comuni­sta, che solo nella Zona A cominciava a ve­nir contrastata dal Governo militare alleato, e le forze dell’antifascismo non comunista attraversavano una fase di pressoché totale sbandamento. Si accorse Togliatti di tale possibilità?

A guerra finita il progetto di Togliatti si precisa e Gualtieri ne individua le coordinate nell’indipendenza politica, interdipendenza economica, equidistanza, ostilità alla divisio­ne dell’Europa, apertura ai compromessi: so­no queste, per Togliatti, le linee guida dell’at­tività italiana nel negoziato per i trattati di pace. E progetto, egli aggiunge, contrappo­sto a quello di De Gasperi: quanto questi punta sulla rottura della “grande alleanza” , tanto l’altro gioca tutto sul suo mantenimen­to. Eppure dall’agosto 1946 entrano in circo­lazione, soprattutto ad opera della stampa comunista, alcune definizioni: Trieste che si avvia a diventare una “ base deH’imperiali- smo” , più tardi si parlerà di “ due campi” , di azione americana “per dominare il mon­do”. Questo non è il linguaggio della “grande alleanza” , è il linguaggio della guerra fredda. Qui i conti non tornano: da dove salta fuori questo linguaggio (e i concetti che gli stanno dietro) se è la “grande alleanza” , per così di­re, la stella polare di Togliatti?

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Dietro a tutto ciò sta, mi pare, un equivo­co, che è stato già presente in altri lavori: è un equivoco legato al peso effettivo che il peace making ebbe nello sviluppo delle rela­zioni fra le grandi potenze fra 1945 e 1947. Come hanno spiegato, vent’anni fa e più, i primi postrevisionisti americani, il negozia­to per il trattato di pace fu solo un sideshow della politica internazionale. Su questo pal­coscenico secondario si continuò la politica della “grande alleanza” , la ricerca di solu­zioni di compromesso e cosi via. Era un ca­pitolo da chiudere per le grandi potenze. E tale era, nonostante le divergenze sulle sin­gole ipotesi di soluzione, anche per De Ga- speri e Togliatti: era l’eredità che l’Italia postfascista non poteva non assumersi e del­la quale era chiamata a pagare i passivi. Sul trattato di pace, e sul negoziato che portò ad esso, non furono giocate partite a poker fra i due.

Certo è che l’ipotesi di costituire il Terri­torio libero di Trieste era più accettabile per Togliatti che per De Gasperi; ma nei con­fronti degli Stati Uniti quest’ultimo non adoperò tanto, come afferma Gualtieri, la strategia della dipendenza, quanto quella

della vulnerabilità (ottenendo, per inciso, poco ascolto).

Ma se il linguaggio ed i concetti della guer­ra fredda emersero ben presto nella posizione del Pei, resta da vedere da quali analisi di po­litica internazionale essi abbiano avuto origi­ne. E in tale quadro assai più dei negoziati di pace contano le crisi mediterranee del 1946, l’irrisolto problema tedesco, l’instabilità eu­ropea e la sicurezza europea. È su questi pro­blemi che va cercata la politica estera di To­gliatti, ed in particolare la strutturazione del rapporto fra Pei e Urss. Non intendo, sia chiaro, riproporre il “mito sovietico” co­me chiave interpretiva capace di aprire nuove vie. Voglio solo suggerire la direzione verso la quale va puntato il cannocchiale, se voglia­mo capire dove Togliatti volesse spingere la politica estera italiana. E allora — già lo la­scia intravvedere Gualtieri — è un altro il To­gliatti che si profila: non è più il new dealer, l’uomo dell’equidistanza, l’uomo fino all’ul­timo della “grande alleanza” . Sembra di ve­dere invece qualcos’altro, ed è questo qualco­s’altro che abbiamo ancora bisogno di mette­re a fuoco.

Giampaolo Valdevit

Mezzo secolo d’Italia repubblicana

Mario Giovana

Proporsi un riepilogo critico del mezzo seco­lo di storia italiana appena concluso nell’in­tento di fornirne una sintesi ma anche di de­dicare un deciso approccio analitico alle mol­te e complesse trame di cui è stata ed è intes­suta la vicenda del paese, richiede sicuramen­te, assieme a una forte capacità di rappresen­tazione concentrata di idee e di fatti, un uso sapiente degli strumenti dell’“ analisi diffe­renziata” e una altrettanto forte consapevo­lezza del crinale altamente problematico sul

quale devono disporsi le riflessioni in ordine ai processi dai quali è scaturita la crisi dello Stato e della democrazia repubblicana negli anni recenti, nonché in relazione alle prospet­tive che ne possono derivare. Perché il “caso Italia” è un lungo percorso durante il quale senza alcun dubbio — come osserva Alfio Mastropaolo in una acuta ed originale disa­mina politologica del cinquantennio (La Re­pubblica dei destini incrociati. Saggio su cin- quant’anni di democrazia in Italia, Firenze,

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La Nuova Italia, 1996) — il paese “non solo ha progredito moltissimo” ma si è adeguato alle altre società avanzate, tuttavia compien­do questo tragitto senza risolvere problemi di fondo del proprio assetto politico-sociale, ac­cumulando “ anomalie” , muovendosi tra scarti laterali ad un sistema di “democrazia bloccata” e tensioni di lotte riassorbite, o in gran parte rese monche, sulla strada delle ri­forme per riequilibrarne gli scompensi di an­tica data, in primo luogo quelli tra Nord e Sud della penisola. Perché la democrazia re­pubblicana ha dovuto, continuamente, sal­varsi dall’agguato del terrorismo, convivere con lo stragismo di matrice fascista ed il gol- pismo di consimile matrice alimentati — e forse diretti — da apparati dello Stato stesso, riproporsi di continuo il problema della cre­scita dei fenomeni di stampo mafioso come emergenze che attanagliano una porzione in­gente del territorio nazionale sottraendola di fatto al potere delle istituzioni. Perché, al do­mani dell’esito liberatorio della guerra di Re­sistenza, le spinte restauratrici di un burocra­tismo consolidato e di un moderatismo alla ricerca di stabilizzazioni di potere contro le ipotesi di un profondo rinnovamento e di dialettiche alternative alle proprie primazie politico-sociali si sono rapidamente fatte sen­tire ed hanno sostanzialmente avuto la me­glio sui disegni innovatori di una parte pro­gressista, peraltro prigioniera di schematismi ideologici inibenti, di tatticismi defatiganti ed infruttuosi, della mancanza di una cultura di governo da sostituire, e far trionfare, a fronte di quella dei proclami avveniristici, delle atte­se di palingenesi improbabili approdate poi a strategie difensive di piccolo cabotaggio per sottrarsi alle eventualità di un destino di emarginazione totale. Perché, infine, l’Italia ha vissuto la stagnazione di decenni dello scontro tra i blocchi contrapposti nella stan­za blindata di una fedeltà atlantica tradotta in subordinazione senza variabili agli indiriz­zi della politica statunitense, e questa si è esercitata troppo sovente nel paese attraver­

so interferenze colonizzanti, a cominciare dal piano dei conflitti sociali per finire a quel­lo dei controlli sugli apparati di difesa inter­na. E su tutto ciò ha imperato una classe di­rigente asfittica, ambigua, proclive a tutelare l’assistenzialismo di Stato e la sua versione privata a scapito delle riforme, della finanza pubblica e della pulizia amministrativa, pur­ché reggesse l’intelaiatura di una logica di po­tere risolta nei circuiti clientelati, nelle specu­lazioni e negli aggiustamenti occasionali agli scompensi più gravi senza mettere a repenta­glio i grandi interessi costituiti.

Difficile, dunque, rendere adeguatamente, in un disegno di massima e però intenzionato a non trascurare nulla delle molteplici realtà italiane, delle loro multiformi facce e con­traddizioni, la storia del cinquantennio. L’impresa l’ha affrontata Enzo Santarelli con un lavoro doppiamente coraggioso, in quanto ben compreso di doversi districare, in una economia descrittiva e di resa di inda­gine reltivamente compressa, fra gli infiniti nodi delle realtà del mezzo secolo, non volen­do dar luogo ad una mera storia “istituziona­le” , bensì prefiggendosi di coniugare — se­condo la sua preventiva delucidazione — “ storia sociale, storia delle idee e storia dei gruppi dirigenti” , nella consapevolezza del permanente intreccio di vecchio e nuovo che attraversa — talora confondendosi — la cronaca dello Stato unitario di formazione abbastanza recente rispetto alle maggiori de­mocrazie occidentali ed al peso di una storia assai più antica della cultura e della società degli italiani (Enzo Santarelli, Storia critica dell’Italia repubblicana. L ’Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. XVII- 369, lire 24.000). Santarelli non tace, per co­minciare, quanto la coincidenza del proprio itinerario di vita con il tratto di storia narrata lo induca a non appellarsi a una “compiuta (o supposta) ‘neutralità scientifica’” senza per questo venir meno al dovere del rigore nella ricostruzione di eventi e posizioni ideali; e nemmeno si chiama fuori dalle influenze

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Rassegna bibliografica 583

esercitate sul proprio lavoro dall’incedere della crisi sfociata nell’avvento del governo di centrodestra (la soglia a cui è pervenuto il riepilogo), conseguenti, del resto, alla sua dichiarata appartenenza al novero di coloro che avvertono la necessità “di un cambia­mento radicale e organico della società” . Ma entrambe le condizioni si riflettono nel saggio, se mai, non oltre il segno di una par­tecipata tensione alla materia esplorata. L’autore, infatti, presenta un panorama del cinquantennio puntualmente richiamato nel­le articolazioni di fatti e di magmatici som- movimenti da cui è stato contraddistinto, co­gliendo momenti nodali non soltanto della fattualità politica e dei crocevia delle scelte che hanno determinato indirizzi delle forze di maggioranza e di minoranza sui dati di fondo — economici, finanziari, di politica estera — ma del dibattito culturale, anche là dove esso ha avuto per protagonisti cena­coli e gruppi ristretti, evidenziandone co­munque i valori di dinamismo intellettuale e di ricerca nei loro specifici orizzonti ( il grup­po de “Il Mondo”, i “Quaderni rossi” di Ra­niero Panzieri, per fare due esempi), indicato­ri di una vitalità mai venuta meno.

Le scansioni centrali del corso cinquanten­nale della storia italiana, secondo Santarelli, si ritrovano in alcuni passaggi che condizio­neranno stabilmente in larga misura l’intero sviluppo fino alla crisi di delegittimazione che ha colpito il sistema, alla caduta dei par­titi storici, all’emergere, lungo questo proces­so, di tendenze disgregatrici dell’unità nazio­nale e di un personale del capitalismo dai connotati di piccola borghesia spregiudicata: uomini nuovi che appaiono “un po’ edifica­tori d’imperi un po’ uccelli rapaci” , al seguito di un ceto dirigente politico nel quale si sono fuse al peggio le tradizioni clientelari e di cat­tiva gestione della cosa pubblica maturate nel moderatismo democristiano con le voracità e l’affarismo privo di scrupoli elevati a logiche di potere (il craxismo ne è stato il paradigma persino sfrontatamente teorizzato). La re­

pubblica nasce sotto l’ipoteca di una subordi­nazione internazionale destinata a pesare sempre di più con gli irrigidimenti della “guerra fredda” e nell’assenza pressoché to­tale di varianti autonome immaginate dalla classe di governo. Nell’arco di tempo tra il 1947 ed il 1948, con l’estromissione delle sini­stre dal governo, la conventio ad excludendum dei comunisti da prospettive di ricambio ai vertici del paese, la restaurazione economica condotta da Luigi Einaudi, la sconfitta del Fronte democratico popolare (“ errore di fondo”, annota Santarelli, nella strategia del­le sinistre) il 18 aprile 1948, il riaggregarsi al centro degli spessori conservativi, mentre l’intervento americano con il Piano Marshall determinava il riflusso dell’elettorato di sini­stra e si scioglieva definitivamente l’alleanza antifascista (tra l’incredulità e l’imprepara­zione di quella stessa sinistra che ne era stata il fulcro), si creavano le premesse di un bipo­larismo nel quale crescerà a dismisura il pote­re della De. Vi si impantaneranno in ruoli di sudditanza al partito di maggioranza estesi settori delle correnti di democrazia laica e (talvolta presunte) liberali; i comunisti affer­meranno una egemonia di opposizione ma ir­retiti — malgrado le potenzialità del “partito nuovo” e la visione togliattiana della “ via italiana al socialismo” — nella solidarietà acritica nei confronti dell’Urss e, via via, nel gioco che mirava ad emarginarli in modo drastico suscitandone ognora più intimorite tattiche difensive, fino a compromessi di “so­pravvivenza” consociativi e, in realtà, rivela­tori delle insufficienze culturali e politiche della compagine: “[...] il PCI scontava — an­nota Santarelli, a proposito del travaglio de­gli anni cinquanta — un più antico limite di inadeguatezza — l’aver presentato il ‘partito nuovo’ o la ‘tematica di Salerno’ come un contributo originale italiano alla stretegia proletaria, ma senza una sistemazione e un dibattito teorico, con la conseguenza di do­ver pagare più tardi un grosso scotto: l’in­comprensione dei nuovi sviluppi del capitali­

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smo italiano all’inizio degli anni cinquanta [qui l’autore si rifà ad un giudizio di Donald Sassoon] e la perdita del monopolio della cul­tura marxista all’inizio degli anni sessanta’” .

L’insieme delle contraddizioni e delle man­chevolezze della classe dirigente non ha impe­dito che nel paese si sia prodotto un salto di qualità di enormi proporzioni nei suoi assetti socioeconomici e che l’Italia abbia appunto raggiunto le nazioni di più progredito livello industriale. A questa dinamica ascensionale, sostiene Santarelli, hanno contribuito in pri­mo luogo grandi lotte di massa, dal movi­mento contadino alle fabbriche del Nord, as­secondate da un movimento sindacale che, tra molte incertezze ed errori, non ha manca­to di costituire un fattore propulsivo essen­ziale, oltre che una componente decisiva di difesa della democrazia nel paese. Ma il lun­go e assestato predominio di un moderatismo di governo sostanzialmente corrivo agli inte­ressi dei grandi gruppi di potere economico, principale attore di strategie di svuotamento dei progetti di grande riforma agraria nel­l’immediato dopoguerra e della costruzione di uno statalismo marcato dalle politiche as­sistenziali e dal “ dirigismo” dei “ grandi boiardi” , di osservanza democristiana o alli­neati con le opzioni del personale di governo, ha determinato per un verso il perpetuarsi, e talora l’accentuarsi, di squilibrii storici nel­l’assetto socioeconomico nazionale, peraltro verso incrostazioni irrimediabilmente corrut- tive della gestione pubblica, sprechi di pro­porzioni enormi, dissesti paralizzanti nella pubblica amministrazione e confusioni al­trettanto paralizzanti sul piano degli ordina­menti legislativi, del funzionamento della magistratura, e via dicendo.

In questo contesto ha trovato spazio il “ doppio Stato” delle congiure variamente ispirate ed orientate ma tutte recanti il segno preminente dell’interferenza delle centrali statunitensi in collusione con le destre eversi­ve interne e con le stesse mafie, in un grovi­glio difficilmente districabile di complicità

politiche, affaristiche e avventuristiche all’in­segna dell’anticomunismo, utilizzato come deterrente psicologico oltre il tempo dello stesso deperire quale referente luciferino del- l’Urss e dello scontro tra i blocchi.

La rinuncia a riformare lo Stato delle bu­rocrazie e del centralismo (le regioni sono state poco più di una affermazione di princi­pio congelata nelle limitatezze delle reali ri­sorse disponibili per attuare le autonomie), l’affollarsi attorno al sistema clientelare del potere di governo di miriadi di arrembaggi speculativi e corporativi, il mancato ricambio della classe dirigente, sono stati coefficienti di fondo di una crisi nel lungo periodo incan­crenitasi: “i partiti — osserva Santarelli — che avrebbero dovuto essere il segnacolo di un’avanguardia incorporando principi di giustizia individuale e sociale che l’ammini­strazione centrale e l’ordinamento giudizia­rio tradizionalmente rifiutavano — una volta rinviata o inceppata l’opera di innovazione e decentramento avevano preso ad ammini­strare l’esistente, nella gestione quotidiana della cosa pubblica. Rivendicando lo Stato amministrativo o la privatizzazione dello Stato, l’inesausta originaria polemica anti­partitocratica esprimeva, al limite, il senti­mento di ambiguità e di falsa coscienza di lar­ghi strati sociali in un quadro di rivoluzione incompiuta o mancata.”

Gli spunti di analisi e di critica del saggio di Santarelli sono oltremodo fitti, talora cari­chi di suggestioni stimolanti e, nell’insieme, costituiscono un apporto che ci pare tanto più vivificante in quanto, come dicevamo, l’autore è riuscito a prospettarli in una sintesi che si avverte gli è stata stretta ma non gli ha impedito di riversarvi una densità tematica seguita lucidamente, e di allinearvi i tratti sa­lienti degli interrogativi di volta in volta su­scitati dal “caso italiano” . Terminato nell’at­mosfera rovente degli scandali di “tangento­poli” e agli albori dell’esperienza di governo del centrodestra berlusconiano, il lavoro del­lo storico marchigiano si è mosso tra preoc­

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cupate domande sul processo degenerativo della democrazia repubblicana ed evidenti sospensive di giudizio sull’avvenire prossimo del paese non prive di accenti pessimistici. Santarelli si chiede se gli effetti corrosivi degli scandali finanziari siano il frutto di un “siste­ma bloccato” , o di una “carenza di moralità pubblica”, o di ambedue i fattori. “Gli inter­rogativi non mancano, — scrive — e l’indagi­ne scientifica rinvia alla conclusione che un fattore rafforza l’altro, in una spirale conti­nua, in un meccanismo unico, non esclusivo dell’Italia, ma dotato di connotati e peculia­rità nazionali, per cui si può parlare di una caratteristica ‘combinazione italiana’, al cui centro si collocano fenomeni come il populi­smo e il clientelismo, una tecnostruttura mi­sta — quella ‘burocrazia economica di natu­ra imprenditoriale, o di natura parassitaria’ che si è venuta sviluppando nella penisola — influenza dei partiti e dei loro capi corren­te. E una prima risposta sul terreno della sto­ria economica e dell’analisi sociale. Emerge così un problema di identificazione delle ra­dici, vecchie e nuove. Nell’immediato come nel medio periodo risaltano le forti tendenze collusivo-oligopolistiche delle imprese da un lato e del potere politico dall’altro, la voraci­

tà del ceto di governo a livello locale e nazio­nale, Timmaturità civile delle classi dirigenti e l’assenza di un’etica interiorizzata e condivi­sa tanto al Nord come al Sud” . Un giudizio duro e che, tuttavia, a noi sembra tu tt’altro dello sfogo acre di uno spirito deluso: e, di­fatti, Santarelli, rilevando come nella “re­pubblica democratica fondata sul lavoro” , la continuità dello Stato non manchi di con­trapporsi alla continuità del movimento su­scitato dalla repubblica uscita dalla Resisten­za “in una lunga lotta intessuta di conquiste e di ripiegamenti”, con controffensive efficaci, nel 1953, nel 1960, “persino nei drammatici anni settanta”, individua una cesura nel ciclo della vicenda repubblicana ma non un’inter­ruzione del flusso di spinte e di energie verso il cambiamento; e chiude le sue pagine con l’incitamento raccolto da Piero Calamandrei sulle labbra di Alcide Cervi: “Non c’è tempo da piangere. Bisogna continuare. Dopo un raccolto ne viene un altro” . Auspicio cui può darsi gli avvenimenti seguiti alla con­giuntura italiana nella quale Santarelli chiu­deva la sua fatica possano fornire qualche motivo di ulteriore conforto.

Mario Giovana

Viaggio in archivio

Maria Maiatesta

Il viaggio come metafora della ricerca intel­lettuale e della formazione è una delle figure retoriche più fortunate e maggiormente dif­fuse nella letteratura e nel linguaggio delle scienze umane. Isabella Zanni Rosiello la ri­prende per farne l’ossatura di quella che di primo acchito si presenta come una guida ri­volta agli studenti e agli apprendisti storici in procinto di compiere il loro primo grand tour in archivio. La metafora, già implicita nel ti­

tolo (Andare in archivio, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 230, lire 20.000), ritorna nelle pagi­ne del volume a ricordare il significato della ricerca storica, il suo essere una grande av­ventura intellettuale, ma anche i rischi che questa avventura comporta. L’autrice mette continuamente in guardia il turista sprovve­duto sui pericoli nei quali può incorrere, sulle incognite che può incontrare addentrandosi nella terra sconosciuta dell’archivio.

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586 Rassegna bibliografica

Un viaggio senza mappe e senza istruzioni può essere foriero, invece che di esaltanti sco­perte, di feroci delusioni. Quale guida più qualificata di Isabella Zanni Rosiello, diret­trice per molti anni dell’archivio di Stato di Bologna ed insigne studiosa, per indirizzare il viaggiatore inesperto? Andare in archivio è dunque un Baedeker per la ricerca archivisti­ca, costruito in modo rigoroso seguendo un triplice criterio di orientamento: spiegare la struttura dell’archivio sia dal punto di vista materiale che, soprattutto, dal punto di vista concettuale per aiutare il neofita a interroga­re la documentazione in modo pertinente; ri­costruire, onde facilitare la ricerca, la mappa variegata della conservazione del materiale archivistico, sparso in centinaia di istituzioni pubbliche e private; introdurre alla pratica della ricerca mostrando con numerosi esempi la corretta utilizzazione degli strumenti fon­damentali di mediazione tra lo studioso e la documentazione nascosta, ossia gli inventari.

Si diceva che questa è apparentemente una guida alla ricerca archivistica per storici in er­ba. Il libro è in realtà molto di più e il lettore meno ingenuo coglie, al di là della precettisti­ca indirizzata al neofita, il “meta-libro” , il dialogo che l’autrice intrattiene con gli addet­ti ai lavori. La guida è così una riflessione ampia e complessa (ma svolta tutta sul filo della concretezza, riconducendo ogni discor­so teorico alla pratica del confronto con le carte d’archivio) sulla ricerca storiografica e sul mestiere di storico.

Il libro si apre con un’osservazione che te­stimonia della “laicità” dell’autrice: la ricer­ca storica può essere fatta anche senza ricor­rere alla documentazione archivistica e l’as­senza della ricerca d’archivio non preclude il raggiungimento di risultati originali. Que­sta affermanzione, pronunciata da chi ha de­dicato un’intera esistenza agli archivi, è dop­piamente significativa. Zanni Rosiello ridi­mensiona il mito “classico” dell’archivio in­teso come fondamento e strumento di iden­tificazione del lavoro dello storico; sottrae

la ricerca storica a quella che Gérard Noiriel ha definito la “ tirannia dell’archivio” allu­dendo al ruolo determinante che questo an­cora oggi occupa alfinterno della storiogra­fia delle “Annales” nella definizione dell’og­getto e dei metodi di ricerca (G. Noiriel, Pour une approche subjectiviste du social, “Annal ESC”, 1989, p. 1.442). Ma riafferma al tempo stesso la peculiarità della fonte ar­chivistica, essa sola in grado di fornire noti­zie e informazioni impossibili a reperirsi al­trove. La documentazione archivistica non è la sola a cui il vero storico può rivolgersi, ma certo ha una specialità che la rende uni­ca: il suo legame profondo e indissolubile con le istituzioni che l’hanno prodotta. Il la­voro di decodificazione che lo storico deve compiere per utilizzare in modo pertinente le informazioni contenute nelle fonti archivi­stiche sta tutto nella sua capacità di com­prendere il passaggio dalla documentazione prodotta dall’istituzione (la “memoria-docu­mentazione”) a quella intesa come “memo­ria-fonte” .

Quando l’autrice raccomanda di non cer­care in archivio le materie ma le istituzioni, non si rivolge solo agli studenti, ma anche a quei docenti distratti che non li istruiscono adeguatamente agli inizi della ricerca per sti­lare la tesi di laurea e a quegli storici, spesso altrettanto distratti, che interpretano il lavo­ro archivistico come trascrizione piuttosto che come elaborazione ed organizzazione delle informazioni dal modo di produzione originario alla loro utilizzazione in sede sto­riografica. Allo stesso modo Zanni Rosiello sottolinea con insistenza l’importanza di un uso professionale degli indici e dei repertori e ribadisce per converso la necessità che il fruitore degli archivi ricorra con intelligenza all’aiuto degli archivisti, evitando di servirsi di costoro per supplire alla propria incompe­tenza o per accondiscendere alla propria pi­grizia.

L’altro assunto che attraversa tutto il vo­lume è il nesso che intercorre tra la ricerca e

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il tempo. Il lavoro di scavo archivistico non è un bene di consumo che si brucia rapidamen­te. E una pratica terribilmente fuori moda, che richiede assenza di fretta e tempi lunghi. An­che in questo caso il discorso è duplice. Se l’autrice si rivolge in modo esplicito agli stu­denti sconsigliando loro di affrontare argo­menti troppo ampi, il messaggio è implicita­mente rivolto anche a quegli studiosi che han­no trasformato i tempi lunghi e meditativi del­la ricerca storica in sequenze brevi e convulse totalmente dipendenti dalla congiuntura del presente.

Questa guida può dunque considerarsi co­me un avvio al professionismo della ricerca storica, nel quale la tradizione dei grandi sto­rici del Novecento, che Fautrice cita a più ri­prese, si coniuga con il mestiere dello storico così come si è definitio negli ultimi decenni, che si avvale di una molteplicità di fonti sco­nosciute o poco praticate in passato. Il secon­do capitolo del volume costituisce una vera e propria cartografia della documentazione ar­chivistica, arricchita da un apparato biblio­grafico che rappresenta un’autentica miniera di informazioni per orientarsi nella complica­tissima disseminazione a cui sono soggette le fonti archivistiche nel nostro paese. Ed è pro­prio in questo secondo capitolo che prendono corpo i profili ideali dello storico (che coniuga la tradizione del rigore professionale con la modernità della dilatazione delle fonti) e del­l’archivista.

Aperto anch’esso alla dilatazione dei pro­cessi di costruzione della memoria storica, al moltiplicarsi della materialità documentaria, quest’ultimo tende a rivendicare il primato dell’archivio pubblico sulla disseminazione degli archivi privati. L’autrice parla esplicita­mente della sfiducia che in molti casi, soprat­tutto all’interno della cultura di sinistra, uo­mini e istituzioni hanno manifestato nei con­fronti degli archivi pubblici, preferendo con­servare in ambito privato importanti com­plessi documentari piuttosto che consegnarli alle istituzioni deputate a questo scopo dallo Stato. Archivisti e storici devono costruire nel futuro un dialogo più aperto e lavorare as­sieme al rafforzamento delle istituzioni pub­bliche, contenendo in questo modo la prolife­razione di un sistema di archivi parallelo a quello degli archivi di Stato.

La sottolineatura dell’importanza degù ar­chivi di Stato e dell’opportunità di potenziarli nella direzione di un modello conservativo al­la francese, piuttosto che accentuare ulterior­mente quel particolarismo che da secoli carat­terizza la sedimentazione della memoria stori­ca italiana, corre lungo tutto il volume ren­dendolo ancor più stratificato e allusivo. Piacevolissimo dal punto di vista stilistico e stimolante per le sollecitazioni intellettuali che contiene, la sua lettura è caldamente con­sigliata anche a quegli storici che proprio in erba non sono più.

Maria Malatesta

Storia generale e di altri paesi

M a u r i z i o V i r o l i , Per amore del­la patria. Patriottismo e naziona­lismo nella storia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. XII-220, lire28.000.

Storici e politologi, per non parlare dei politici, si sono spesso

sforzati di tracciare una netta di­stinzione fra patriottism o e na­zionalismo. D opotutto la devo­zione alla “patria” ha ispirato tanto l’esclusivismo illiberale di Mussolini e delle squadre fasciste quanto il liberalismo pluralistico dei democratici del Risorgimen­to. L’autore di questo saggio raf­finato e stimolante, dedicato a

N orberto Bobbio, è ben consa­pevole di queste difficoltà e tutta­via sostiene che si possa e anzi si debba tracciare una distinzione netta fra il patriottismo, basato su una visione politica della na­zione come comunità di eguali, e il nazionalismo, la cui premessa è invece l’idea della nazione co­me entità culturale eterna.