Rassegna bibliografica di articoli selezionati apparsi in ...
Rassegna bibliografica - reteparri.it · Rassegna bibliografica 565 vello culturale più elevato...
Transcript of Rassegna bibliografica - reteparri.it · Rassegna bibliografica 565 vello culturale più elevato...
Rassegna bibliografica
D sindacato in Occidente in prospettiva comparata
Aldo Marchetti
“La strada per una comparazione internazionale è certamente complessa” : queste le prime parole dell’Introduzione al libro curato da Maurizio Antonioli e Luigi Ganapini che raccoglie parte delle relazioni presentate al convegno internazionale organizzato a Milano dalla Associazione Giuseppe Di Vittorio nell’aprile del 1994 (I sindacati occidentali dall’Ottocento ad oggi in una prospettiva storica comparata, Pisa, Biblioteca Franco Seran- tini, 1995, pp. 264, lire. 28.000). La comparazione, in questo caso, è quella della storia dei movimenti sindacali europei e degli Usa lungo tutto l’arco storico che va dalla fine dell’Ottocento agli anni sessanta del nostro secolo e le difficoltà enunciate all’inizio dello studio suonano allo stesso tempo come consapevolezza dell’importanza dei problemi posti e come ritrosa ammissione, forse, di un atto di coraggio. Non è affatto consueto, infatti, nella storiografia sul movimento operaio, imbattersi in studi comparati sui sindacati di diversi paesi ed è augurabile che il convegno della Di Vittorio non sia stato solo un’occasione di incontro tra studiosi di diversi paesi e tradizioni, ma abbia allargato piuttosto una strada sino ad oggi molto stretta.
Per desiderio stesso dei promotori il dibattito è stato aperto al contributo di alcuni sociologi dell’industria e del lavoro. Anche in questo caso si è trattato di una scelta felice perché rincontro tra le due discipline, così proficuo e così raro, ha consentito di porre problemi di metodo su un tema difficile da
trattare in modo unitario e refrattario agli sforzi di riduzione a “variabili esplicative” di carattere generale. Un intervento nel corso del dibattito di Gian Primo Cella ha posto infatti il problema di un parametro comune agli studi comparativi che egli individua nella struttura della contrattazione collettiva. In effetti la contrattazione, per la relativa certezza con cui è possibile datare alcune fonda- mentali conquiste sindacali e per la consolidata tradizione di analisi su cui si appoggia, appare come un denominatore comune da cui gli studi “trasversali” difficilmente possono prescindere, e Cella deve aver pensato, durante il suo intervento, al lavoro che ha curato, alcuni anni or sono, sull’andamento degli scioperi in Europa e negli Stati Uniti (7/ movimento degli scioperi nel Ventesimo secolo, a cura di G. P. Cella, Bologna, Il Mulino, 1979). Eppure proprio scorrendo le pagine di quel volume si scopre quanto problematica sia l’interpretazione unitaria dei conflitti sindacali nei diversi paesi e quante incertezze teoriche sollevi ogni ricerca di questo genere. Ciò che emerge da quel lavoro è infatti un insieme di “frammenti” di una teoria generale del conflitto che esclude, è vero, una prevalenza del “modello politico-organizzativo” , ma che mette altresì in guardia di fronte al primato di un “modello economico” . Ciò che si trae è l’invito alla cautela di fronte a spiegazioni unilaterali, di modo che appare del tutto plausibile lasciare ampio spazio a tentativi diversi e che non vantino le preroga-
italia contemporanea”, settembre 1996, n. 204
564 Rassegna bibliografica
tive della completezza e della esaustività. Potremmo dire anzi che quando i modelli sono più deboli si prestano più facilmente ad una verifica storica, e che, viceversa, quanto più complessa è la ricerca storica tanto più può aiutare il sociologo a costruire modelli argomentati e credibili, procedendo per disincrostazione e per asportazione del superfluo.
Ritornando al libro di Antonioli e Canapini, va detto che non solo non vuole presentarsi con il crisma della sintesi teorico-generale, ma che rischia forse di sottovalutare il peso degli studi presentati, che non sarebbero “ lavori definibili come comparativi in senso proprio” ma ricerche “affiancate e condotte nei differenti contesti nazionali e articolate secondo tematiche comuni” (p. 9). In realtà, attraverso tutti gli interventi scorre un unico filo interpretativo che consiste nell’intreccio tra culture del lavoro, ideologie del movimento operaio e forme dell’organizzazione. Benché il convegno, con un respiro molto ampio, si sia articolato attorno ai tre nodi storici del passaggio dal sindacalismo di mestiere a quello industriale, del sindacalismo nei regimi fascisti, dei sindacati occidentali nel secondo dopoguerra, è questo intreccio che domina i diversi studi, come possibile chiave interpretativa delle trasformazioni che i sindacati attuano o subiscono nel corso della loro storia. E bene aggiungere che la chiave scelta non apre i battenti di una sala illuminata a festa, ma piccole porte che danno su altre porte e così via, abbozzando il tragitto di una storiografia sindacale per nulla celebrativa e consapevole delle molte contraddizioni che è destinata ad incontrare lungo il suo percorso.
L’apertura problematica è ancor più visibile nella prima parte del libro, dedicata al periodo di transizione dal sindacalismo di mestiere al sindacalismo industriale. In tutti i casi nazionali che vengono considerati questo passaggio avviene in tempi molto lunghi e talvolta sembra non arrivare mai alla completa definizione di un modello culturale e or
ganizzativo. Per il caso inglese, anzi, Noel Whiteside (Proteggere il mestiere: l ’organizzazione sindacale in Gran Bretagna prima della grande guerra) parla di un processo estremamente lento e travagliato che pare anzi “non si sia mai compiuto [...} perché il perpetuarsi dell’organizzazione separata dei lavoratori qualificati [...] ha persistito, in alcuni settori tradizionali, per tutto il ventesimo secolo” (p. 70). Anche nel caso francese la tradizione del mestiere sopravvive ben oltre la nascita del primo sindacalismo industriale, sotto forma, come spiega Michel Pigenet, “ di una memoria in grado di legittimare la coesione e la resistenza del gruppo” (La nascita dei sindacati d ’industria alla vigilia della prima guerra mondiale: le ambiguità francesi). Si tratta pertanto di una tradizione che si accompagnerà ancora per molto a forme di solidarietà interprofessionale di tipo territoriale piuttosto che ad un sindacalismo industriale che resterà ancora a lungo più una “astrazione” che una realtà. L’intreccio tra solidarietà sul territorio e compattezza di mestiere è sottolineato anche da Ferdinando Fasce per il caso statunitense: “ Il loro piano — di abbracciare tutte le branche di onorevole fatica e ogni condizione umana senza distinzione di mestieri, occupazioni, sesso, credo, colore o nazionalità — deve fare i conti con l’ardua dialettica che viene a crearsi tra un modello di struttura prevalentemente territoriale di distretto [...] e la dimensione di mestiere” (Le origini del sindacalismo d’industria negli Stati Uniti, p. 96).
Per tutto un periodo della storia sindacale la sovrapposizione e il contrasto tra opzioni ideologiche e politiche e realtà comunitaria di luogo o di mestiere appare come un tratto caratteristico. In questa situazione il ruolo dell’ideologia come leva del mutamento sembra essere ovunque di notevole importanza, tanto che in Italia, seguendo il contributo di Maurizio Antonioli, la Fiom, pur nascendo come sindacato industriale, conta tra le sue file soprattutto operai artigianali con un li-
Rassegna bibliografica 565
vello culturale più elevato “che partecipano dell’ idea comune a tutto il socialismo italiano della fatalità di determinati meccanismi economici e sociali” {Dal sindacato di mestiere al sindacato d ’industria tra Ottocento e Novecento in Italia, p. 34). La peculiarità del fenomeno viene anzi sottolineata con forza: “paradossalmente per lunghi anni, per tutta l’età giolittiana, la Fiom si resse, organizzativamente e finanziariamente, su nuclei di operai dei mestieri tradizionali “ (p. 37). Allo stesso modo sarà la presenza degli operai socialisti di origine tedesca a contribuire in modo determinante alla costituzione della Ubw (United Brewery Workers), uno dei primi sindacati industriali nordamericani, e saranno ancora i militanti socialisti ebrei reduci dalla rivoluzione russa del 1905, che si incontrano con le masse di una forza lavoro femminile, anch’essa in gran parte ebrea, a dar vita, nel settore tessile, a un altro sindacato industriale, l’Ilgw (International Ladies’ Garment Workers). I primi saggi sembrano pertanto rivalutare il peso della cultura, e della ideologia socialista in particolare, come insieme di strumenti utili alla comprensione diffusa delle trasformazioni che stavano avvenendo nell’industria, ma allo stesso tempo la vivace sopravvivenza delle antiche culture di mestiere sembra gettare un’ombra sul futuro dei sindacati industriali e sulla loro capacità di esercitare un peso politico effettivo, almeno sino a quando, dall’incontro tra operai specializzati nella fase del loro declino e gli operai comuni delle grandi fabbriche dominate dal taylorismo- fordismo, non nasceranno i moderni sindacati di settore. La “coscienza di classe” , frutto dell’incrocio tra la “coscienza fiera” , figlia del mestiere e della autonomia, e la “coscienza proletaria” , figlia della fatica e della privazione (secondo il modello di Touraine: cfr. Alain Touraine, Michel Wieviorka, François Dubet, Il movimento operaio, Milano, Angeli, 1984, ed. orig. Parigi, Fayard, 1984) è ancora di là da venire.
I temi dell’ideologia tornano al centro dell’attenzione negli interventi dedicati al sindacalismo dei regimi dittatoriali sia che si presenti sotto le specie di quella miscela composta da tecnocrazia, produttivismo e antiliberalismo “che sarebbero poi confluiti nel grande alveo del corporatismo fàscista” di cui parla Alberto De Bernardi {Il sindacalismo fascista: un problema storiografico aperto, p. 121), sia che si tratti deH’antimodernismo e comunitarismo aziendale del Daf nazionalsocialista descritto da Inge MarBolek {Il Deutsche Arbeitfront-Daf), o dei principi di unità nazionale e di cooperazione, pilastri del sindacalismo falangista, come spiegano Carme Molinero e Pere Ysàs {Il sindacalismo franchista: caratteristiche e funzioni). L’ideologia acquista anzi un’importanza tanto più grande in quanto il ruolo che le viene attribuito è di tenere uniti e concordi i soggetti stessi del conflitto industriale. Le ambiguità e i limiti intrinseci di questa esperienza sono i temi principali delle relazioni e risultano particolarmente convincenti le storie parallele secondo le quali, in Italia, l’esperienza del primo sindacalismo fascista, che prova a essere conflittuale almeno per tutti gli anni venti, si concluderà con la sconfitta dei suoi leader (Rossoni e Begnotti), mentre in Spagna Gerardo Salvador, dirigente della Delegazione sindacale nazionale, dopo i tentativi di conservare uno spazio di autonomia per il sindacato falangista, verrà espulso dal partito, processato e confinato alle Baleari. Sia nel caso italiano che in quello tedesco si sostiene che i dirigenti sindacali furono, se non altro, costretti a ricorrere al conflitto, per non perdere del tutto i rapporti con la base associativa. Ma in questi casi la mancanza di riferimenti alle vertenze sindacali nel periodo corporativo, alle modalità del conflitto e della negoziazione, rende davvero difficile una adeguata comprensione del fenomeno. Se nel caso italiano si può ricorrere ad un libro uscito alcuni anni or sono (A. De Bernardi, Operai e nazione, Milano, Angeli, 1993) e
566 Rassegna bibliografica
per la Germania si può ottenere qualche ulteriore informazione da un altro piccolo ma denso volume (Sergio Bologna, Nazismo e classe operaia 1933-1993, Milano, Cox 18- Calusca City Lights, 1994), per la breve esperienza di Vichy e per quella, ben più lunga, della Spagna di Franco le informazioni sulle forme del conflitto sarebbero state molto utili al lettore non specialista.
I tre saggi conclusivi del libro, che trattano del sindacato nel secondo dopoguerra rispettivamente in Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti, presentano infine esperienze radicalmente diverse, in cui ideologie, culture del lavoro e forme organizzative cambiano nuovamente il loro ruolo con effetti tali da rendere ancor più difficile una valutazione comparativa. L’aspetto della storia del sindacalismo italiano che Ganapini mette soprattutto in rilievo (ma le sue osservazioni valgono principalmente per la Cgil) è quello della difficile ricerca di una cultura autonoma dalle vecchie ideologie operaie e adatta a interpretare i mutamenti profondi del mondo industriale e le continue oscillazione tra la fedeltà ai dogmi del passato e le spinte incessanti al rinnovamento. Il tema, come è noto, è di rilevante importanza e l’indagine mette in tutta evidenza le difficoltà, le contraddizioni, i successi parziali e i passi indietro che hanno segnato questo tragitto. I richiami alla ideologia tuttavia sembrano conservare nel tempo una loro valenza positiva, poiché, anche quando il sindacato italiano assumerà le forme organizzative dei Consigli di fabbrica, continuerà a conservare gli elementi essenziali di una strategia generale che avevano profonde radici nella sua storia: “ il successo che essi [i Consigli di fabbrica] conseguirono nell’immediato non sarebbe stato concepibile se non avesse anche potuto valersi di una prospettiva strategica di ampio respiro: quella degli interventi sul terreno sociale, al di fuori dell’immediata prospettiva della fabbrica [...] che trovavano nelle proposte dirette a soddisfare bisogni emergenti della società degli an
ni sessanta il loro immediato antecedente” (L. Ganapini, I sindacati italiani dalla ricostruzione alla vigilia dell’autunno caldo, p. 202). Il problema tuttavia invita a un proseguimento della riflessione. Che la strategia delle riforme perseguita nei primi anni settanta abbia costituito un aspetto importante dell’influenza culturale e politica esercitata dal movimento operaio sulla società di allora non vi può essere dubbio, ma se si pensa ai risultati conseguiti dai Consigli di fabbrica, dai Consigli di zona, nella loro breve esperienza, e alle ricorrenti mobilitazioni nazionali per le riforme, la valutazione deve forse rendersi più complessa.
Ma come si sarebbe trovato un operaio comunista italiano che all’improvviso, negli anni cinquanta, si fosse trasferito in una grande azienda inglese? Sicuramente del tutto spaesato. Il saggio di Nina Fishman sul sindacalismo del dopoguerra nel Regno Unito costituisce senza dubbio un motivo di interesse per la lettura del libro: “I militanti comunisti dibattevano di politica con regolarità con i loro colleghi laburisti (e conservatori) nelle sezioni sindacali e nei comitati distrettuali, ma non sui luoghi di lavoro e nelle riunioni di fabbrica” . La tesi dell’autrice è quindi che la guerra fredda abbia influenzato molto poco i modelli di militanza dei sindacati inglesi e che sia la destra sia la sinistra di fabbrica fossero troppo interessate ad accumulare potere di contrattazione e a strappare piccole conquiste quotidiane per cercare motivi di divisione nelle sfere dell’ideologia o della politica: “la politica è qualche cosa che fanno loro e che quindi ha un interesse puramente accademico per noi” (Il fronte unito in cui non penetrò la guerra fredda, p. 221). Difficile pensare ad un maggiore distacco tra ideologie operaie e cultura sindacale e a un contrasto più netto tra la situazione italiana e quella inglese, ma nonostante ciò si potrebbero rivolgere alcune domande alla relatrice (autrice tra l’altro del recente volume The British Communist Party and thè Trade Unions,
Rassegna bibliografica 567
1933-1945, Aldershot, Scolar Press, 1995, recensito in “Italia contemporanea” , 1995, pp. 515-520). Il clima politico che si trova nelle fabbriche è altrettanto asettico all’interno delle organizzazioni sindacali di categoria e ai vertici del Trades Union Congress? Non vi è nessuna differenza, in un paese dove le tradizioni culturali e ideologiche si discostano notevolmente a seconda dei mestieri e dei settori, tra minatori e ferrovieri, tra metalmeccanici e portuali?
Il cerchio del libro si chiude con le nette considerazioni di Federico Romero ( / sindacati statunitensi dal boom postbellico ai problemi della deindustrializzazione) sul declino del sindacalismo statunitense, incapace di rinnovarsi nel periodo di più intensa ristrut
turazione, e sui timidi tentativi di una sua rinascita in alcune nuove fabbriche degli anni ottanta, e la domanda che ne deriva in modo spontaneo riguarda il destino del sindacalismo industriale nei paesi di vecchia industrializzazione. Ecco allora un ultimo enigma che il libro pone al lettore: non sono forse alcuni sindacati a maggior radicamento ideologico-culturale e con una più forte direzione centralizzata di settore e intersettoriale (quello tedesco e quello italiano) a dimostrare più flessibilità e più tenuta sul difficilissimo terreno degli attuali sconvolgimenti tecnico-organizzativi? Un altro convegno della “Di Vittorio” e un altro libro? Perché no?
Aldo Marchetti
Giovanni Gentile filosofo e organizzatore di cultura
Katia Colombo
Parafrasando Eugenio Garin, si potrebbe sottotitolare Cronache di storia italiana la biografia di Gentile scritta da Gabriele Turi 0Giovanni Gentile. Una biografìa, Firenze, Giunti, 1995, pp. 543, lire 48.000), come confermano gli “indizi” suggeriti dall’autore che, oltre a evocare Ernesto Ragionieri, rinvia al proprio L ’intellettuale Giovanni Gentile (“Belfagor” , 1994, n. 3), dove il termine intellettuale indica l’identificazione di uomo e filosofo (secondo l’autorappresentazione dello stesso Gentile), l’uomo di cultura attivo nella società, l’“educatore” , per cui una biografia intellettuale diventa ricostruzione, rappresentazione di una condizione sociale, politica e culturale collettiva, appunto cronaca di storia italiana. Diventa quindi assunzione di un metodo storiografico che, prese le distanze da riduttivi schematismi — presenti (revisionismo) o passati (una let
tura ideologico-politica centrata sulle categorie antifascismo e fascismo che, secondo Turi, ha finito per appiattire il discorso su Gentile in un’analisi comparativa con Croce) —, si è tradotto in un’indagine che non separasse il pensatore dal politico. Ma qui Turi ha dovuto arrendersi alla “necessaria, e utile, divisione dei compiti e degli speciali- smi” (L ’intellettuale Giovanni Gentile, cit., p. 131) e lasciare ai filosofi il discorso teoretico sul nesso tra attualismo e fascismo, pur non rinunciando a pronunciarsi sulle più recenti interpretazioni (“ lo storico generale non può accontentarsi di una valutazione che prescinda dall’analisi della loro funzione”) presentate al convegno promosso nel 1991 dalla Fondazione Gramsci (gli atti in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di Michele Ciliberto, Roma, Editori Riuniti, 1993).
568 Rassegna bibliografica
L’ esito più conseguente delle considerazioni metodologiche di Turi sarebbe stato la scrittura a due mani — lo storico generale e lo storico della filosofia — della biografia di Gentile, anche per approfondirne gli aspetti più controversi che sono poi quelli sui quali si esercitano oggi le più semplicisti- che letture. Un esempio citato dall’autore: nella mostra storico-documentaria su “ Filosofi Università Regime “ (1985), Gentile appariva solo come protettore di intellettuali antifascisti o perché si era avvalso della loro collaborazione per Y Enciclopedia italiana, o perché aveva intercesso in loro favore presso Mussolini. La peculiarità deH’idealismo gen- tiliano obbliga infatti a interrogarsi sui presupposti teoretici dei comportamenti pratici del filosofo per quell’identità di razionale e reale, di teoria e prassi, di pensiero e azione, secondo le “varianti” in cui si esprime il vi- chiano verum et factum convertuntur, che costituisce il nucleo centrale del pensiero di Gentile.
Avvalendosi tuttavia di una distinzione tra “orientamento civile” ed elaborazione ideologica, e di una accezione estensiva di “testo” (“ se per testi non si intendono solo quelli teorici” , L ’intellettuale Giovanni Gentile, p. 134), tanto più “opportuna” per gli apporti documentari ancora indisponibili quando Di Lalla scrisse nel 1975 una biografia di Gentile, che per impostazione può considerarsi l’antecedente del lavoro qui recensito (Manlio Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni), Turi non rinuncia alla scrittura della biografia “intellettuale” .
Se una contestazione di tutte quelle operazioni biografiche disinvoltamente centrate sulla dissoluzione della categoria fascismo doveva compiersi nel concreto del lavoro storiografico, la biografia di Gentile rappresenta certamente il terreno d’elezione. Ma la ri- costruzione della storia dell’intellettuale Gentile, per la sua esemplarità, interessa soprattutto rispetto al più ampio problema del rapporto tra intellettuali e potere, tema
classico della storiografia a partire dagli anni settanta, sul quale si sono orientate da tempo le ricerche di Turi. Critico verso quelle tesi che, malgrado il declino del paradigma crociano dell’antitesi tra cultura e fascismo, sostengono una sostanziale automia degli intellettuali dal regime, nei suoi studi Turi ha dimostrato come il fascismo fosse riuscito a raccogliere un consenso significativo fra gli intellettuali, aggregandoli attorno non a un’ideologia di partito, ma ai miti nazionalistici, ai valori di Stato e nazione con i quali si identificava. Il periodo giolittiano — come gli studi di Emilio Gentile sulle radici ideologiche del fascismo hanno messo in luce — e, soprattutto, la grande guerra diventano così i momenti critici in cui, con l’elaborazione e la diffusione di una cultura antiliberale, si pongono le premesse di un rapporto organico, e non esteriore, tra intellettuali e fascismo (nella duplice accezione di movimento e regime).
L’analisi del rapporto di Gentile col fascismo — non esteriore, strumentale, ovvero non finalizzato alla realizzazione di quella riforma della scuola dibattuta fin dagli inizi del secolo — viene così condotta sul piano della percezione che della crisi di fine secolo poteva avere il giovane Gentile, con la mediazione politico-culturale dell’ambiente pisano, evidenziando la continuità tra il liberalismo conservatore acquisito negli anni della formazione e l’adesione al Pnf.
E non poteva che intitolarsi “Dall’antico nel moderno” il capitolo che descrive gli anni della formazione: l’“antico” definisce il tradizionalismo schematico dell’insegnamento liceale, l’assenza di respiro culturale di una scuola (il liceo classico Ximenes) e di una città (Trapani, dove l’unica risposta alla “brama di sapere” erano le “deserte e tristi” biblioteche comunali che raccoglievano “i fondi dei soppressi ordini religiosi”) e, soprattutto, il provincialismo culturale di una Sicilia “sequestrata” , isolata politicamente e culturalmente dal resto del paese. Il “moderno”
Rassegna bibliografica 569
è rappresentato dalla Scuola Normale superiore di Pisa, che Gentile frequenta dal 1893 al 1897, e da quella sorta di conversione leopardiana al vero, al bello, al bene i cui artefici sono Alessandro D ’Ancona, Amedeo Crivel- lucci — docente di storia moderna dal quale Gentile apprende la metodologia del lavoro storiografico —, Donato Jaja, l’ultimo fedele erede della lezione di Bertrando Spaventa. Il primo contatto con il “moderno” , con una cultura di respiro europeo, si compie con D’Ancona che, in una prospettiva estetica desanctisiana, antiretorica e antidilettantistica, aveva superato la critica erudita di stampo settecentesco (l’erudizione diventava mezzo per un’analisi filologica centrata sul testo anche se attenta al contesto storico), coniugando ricerca scientifica e idealità politica nella convinzione dell’identità di storia letteraria e storia civile. L’unione di cultura e impegno civile era peraltro un tratto caratteristico di tutto l’insegnamento normalistico.
Il desanctisismo della produzione criticoletteraria, che vede Gentile impegnato in una ricerca già autonoma dalla lezione di D’Ancona, sarà il deus ex machina dell’incontro con Benedetto Croce, di un sodalizio intellettuale che si eserciterà inizialmente nel comune impegno ad approfondire il marxismo. Le letture di Croce e di Gentile sono, su questo tema, diversissime. Come è noto, la tesi centrale dell’interpretazione crociana consiste nella negazione del carattere di filosofia della storia o di nuovo metodo storiografico al materialismo storico, riduttiva- mente inteso come canone empirico — un promemoria rivolto agli storici affinché prestino attenzione alle motivazioni economiche dell’agire umano — cui, tuttavia, va ascritto il merito di avere contribuito al superamento dell’appiattimento positivistico e dell’erudizione antiquaria e filologico-letteraria. L’esegesi gentiliana (soprattutto centrata sulla terza tesi su Feuerbach), sebbene critica, è ben più profonda e articolata: avendo riconosciuto al materialismo storico il carattere di filo
sofia della storia — divergendo così da Croce — lo considera un fraintendimento dell’hege- lismo e autocontraddittorio perché prassi e materia sono principi inconciliabili. Anche negli anni della maturità Gentile si dichiarerà debitore del pensiero marxiano per il concetto di prassi, intesa come unica possibile relazione tra soggetto e oggetto che impedisce di considerare l’oggettività come autonoma e il soggetto come individuo.
Ulteriore “esito” degli anni pisani è l’acquisizione del risorgimentalismo, non solo in termini di conoscenza della storia e della filosofia del periodo risorgimentale (la tesi di laurea è su Rosmini e Gioberti), ma di vera e propria categoria filosofica — nell’accezione di Augusto Del Noce — che si esprime in una eticità e politicità di marca mazziniana (la vita come missione, dovere, exemplum, l’indissolubilità del binomio pensiero-azione) che trova una giustificazione, un fondamento teoretico, nella concezione gentiliana della filosofia: la filosofia non è teoria e contemplazione del mondo, ma azione e creazione del mondo; azione che non è immediato agire, ma coscienza dell’azione, fare etico.
Dalla puntuale ricostruzione di Turi emerge insomma come l’ambiente pisano avesse esercitato una funzione decisiva, anzi esclusiva, considerando l’arretratezza e asfissia culturale dell’“isola del sole” , nell’orientare, con gli interessi di ricerca di Gentile, le sue convinzioni etico-politiche: il laicismo, la supremazia dello Stato sulla Chiesa, l’incompiutezza del processo risorgimentale, i meriti della Destra storica, l’ostilità per i rossi e i neri (i clericali).
Il riconoscimento del debito culturale verso l’istituzione pisana fu ben presente allo stesso Gentile che mantenne, a vario titolo, un costante legame con la Normale fino alle dimissioni dall’incarico di direttore dopo il 25 luglio 1943 (sul tema si veda Paolo Simon- celli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano, Angeli, 1994 e Tina Tornasi, Nella Sistoli Paoli, La Scuola
570 Rassegna bibliografica
Normale dì Pisa dal 1813 al 1945. Cronache di un’istituzione, Pisa, Ets, 1990). Ma il “tributo” più significativo sta nell’avere assunto la Normale a istituzione scolare esemplare, a modello pedagogico alternativo alla scuola tradizionale con il suo enciclopedismo, le esposizioni di seconda mano, l’imparaticcio, la retorica.
La riforma scolastica del 1923 consacrava questo modello e coronava anni di studi pedagogici, avviati su consiglio di Jaja — che li considerava propedeutici alla ricerca filosofica, e “ opportuni” : gli sarebbe stato più facile collocare il proprio allievo alla Normale per l’insegnamento di pedagogia, in vista di un incarico di filosofia, strategicamente necessario alla “lotta” per l’affermazione dell’idealismo — ma congeniali alla “mentalità risorgimentale” di Gentile. Questione morale e non tecnica, la riforma della scuola rispondeva all’obiettivo di “ fare gli italiani” per lo Stato nuovo. Ed è intorno a questi temi di fondo del sistema formativo e della concezione del potere e dello Stato che si compie l’incontro tra Gentile e il fascismo. “Nella scuola — afferma Gentile — lo Stato realizza se stesso” , ossia la propria sostanza etica, la nazione. E la tesi della coincidenza di Stato e nazione, per cui lo Stato è in interiore homine; il problema ereditato dal Risorgimento della partecipazione delle masse alla vita politica è così risolto in termini di identificazione Stato-popolo nell’esplicita contestazione della teoria contrattualistica, la cui accettazione renderebbe i cittadini titolari di diritti di libertà antecedenti la costituzione dello Stato, cioè “naturali” . Lo Stato totalitario (endiadi coniata da Gentile per significare che nulla è prima e oltre lo Stato, inteso come soggetto universale, essere-tutto, Dio immanente), fascista, diventa così liberale perché titolare della libertà che partecipa ai cittadini. E l’esito di quel misticismo dell’attualismo di cui Croce accusava l’amico fin dal 1913, un dissenso teoretico che doveva diventare necessariamente politico e pubblica rottura con Y An
timanifesto (1925, si tratta, come noto, della risposta al gentiliano Manifesto degl’intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, redatta da Croce su iniziativa di Amendola e sottoscritta, fra gli altri, da Chiovenda, De Lollis, De Ruggiero, Einaudi, Fortunato, Jemolo, Ruffini, Salvatorelli).
Ostile alla concezione laica della scuola e dello Stato, se la laicità era intesa negativa- mente e quindi come agnosticismo, la riforma introduceva “l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica a fondamento e coronamento della istruzione elementare in ogni suo grado” , e il giuramento di fedeltà allo Stato che diverrà, dopo la costituzionalizza- zione del Gran consiglio del fascismo che identificava Stato e Pnf, giuramento di fedeltà al regime.
Rimosso il “malefico germe dell’elezioni- smo” , diveniva di nomina regia il Consiglio superiore della Pubblica istruzione, che si riduceva a organo consultivo; i rettori erano designati dal re e i presidi di facoltà dal ministro.
Veniva ridotto il numero delle scuole, secondo il “principio” “scuole poche ma buone” ; l’introduzione di un ventaglio di esami di ammissione, idoneità, abilitazione, licenza contribuiva a caratterizzare in senso selettivo l’intera struttura scolastica dove predominava l’istruzione classica, la sola che potesse dirsi formativa. Gli studi secondari essendo, secondo Gentile, riservati “a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretende destinare, al culto dei più alti ideali umani” , rendevano il sistema scolastico funzionale al reclutamento della classe dirigente all’interno della borghesia. A suggello della struttura classista del sistema formativo, veniva impedito l’accesso all’università attraverso la sezione fisico-mate- metica degli istituti tecnici, frequentati da chi proveniva dai ceti meno abbienti.
Si introduceva l’esame di Stato che, equiparando scuola pubblica e privata, doveva
Rassegna bibliografica 571
creare una concorrenza utile a elevare il livello dell’insegnamento, soprattutto pubblico.
“Precursore” , come si autodefinisce nella lettera aperta a Mussolini con cui dichiara i motivi della sua iscrizione al Pnf, o “teorico del fascismo ante literam" come lo considera Codignola, Gentile è, secondo Turi, “parte integrante della classe dirigente fascista pur senza avere una carica di partito o di governo” , dopo le dimissioni daH’incarico di ministro della Pubblica istruzione a seguito della crisi Matteotti (non per dissenso, ma per “facilitare un’opera di conciliazione nazionale” ). La presidenza della Commissione dei Quindici e, soprattutto, dei Diciotto testimoniano il fondamento di quell’appartenenza. Se anche, come ha documentato Aquarone, Mussolini rimase deluso dai risultati del lavoro della Commissione dei Diciotto Soloni, formalmente istituita con l’incarico di formulare proposte per una riforma costituzionale, l’opera giuridica di Alfredo Rocco traduceva in realtà legislativa l’ideologia totalitaria di Gentile. La costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo (1928), trasformando una struttura organizzativa del Pnf in organo dello Stato, identificava partito e governo, partito e Stato-nazione.
La presidenza dell’Istituto nazionale fascista di cultura e dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, la direzione dell’Enciclopedia italiana sono le tappe dell’“imperialismo intellettuale” di Gentile, che si esercita anche nel controllo del mondo editoriale, per il quale anzi, in un rapporto inviato a Mussolini — sco
perto da Turi — viene definito “nuovo Sant’Ufficio” : era “molto difficile — si legge nel rapporto — fare uscire un libro di cultura politica e filosofica in Italia senza il [suo] visto” .
Pur essendo un intellettuale organico al regime, non mancarono i dissensi: i ritocchi di Belluzzo alla sua riforma, potenziando l’istruzione tecnico-professionale, erano una minaccia per le finalità formative del sistema scolastico; la stipulazione dei Patti lateranen- si ricostituiva un’autorità — la Chiesa — esterna allo Stato, minandone il carattere totalitario; le leggi razziali erano una concessione al naturalismo, nella variante materialistico positivista. “Gentile si dimostra personalmente solidale con molti intellettuali ebrei tedeschi rifugiati in Italia. Fra questi Paul Oskar Kristeller” . I tentativi di trattenere in Italia lo studioso tedesco non avranno esito positivo, così come avviene per molti ebrei italiani allontanati dai posti d’insegnamento o di lavoro, che si erano rivolti a Gentile per ottenere protezione.
Questi dissensi non modificano l’atteggiamento di Gentile nemmeno nei confronti del fascismo repubblicano. Per le caratteristiche dell’attualismo (da una parte, una sintesi concettuale che svalorizzava i fatti — essendo essi “ il particolare” , inferiore e opposto all’universale, idea o teoria —, dall’altra un obbligo di coerenza, che è etico e teoretico) la fedeltà al regime, mistificato, lo accompagnerà fino alla morte “annunciata” e, insieme, “inattesa” (p. 512).
Katia Colombo
L’enciclica ‘inedita’ di Pio XI sul razzismo
Guido Valabrega
Intorno alle iniziative di papa Pio XI nei confronti del razzismo nazista e fascista da sempre si è discusso. Per tale motivo, partendo
da quanto egli disse in varie circostanze, molti hanno tentato di appurare e definire quanto e cosa aveva in animo di fare per il decen-
572 Rassegna bibliografica
naie della Conciliazione in quelli che dovevano essere gli ultimi momenti della sua vita. Anni fa, per esempio, Giorgio Candeloro così sinteticamente riassumeva nel nono volume della Storia dell’Italia Moderna (Milano, Feltrinelli, 1981, p. 455) gli estremi proponimenti di papa Ratti specie in riferimento alla campagna antiebraica di Mussolini: “ aveva intenzione di pronunziare in occasione del decennale della Conciliazione un discorso molto critico verso la politica fascista degli ultimi tempi. Ma, colpito da due attacchi cardiaci, morì il 10 febbraio 1939” .
Adesso gli interrogativi su quel nodo storico e in particolare le ipotesi, non soltanto sull’allocuzione, ma sulFenciclica che il pontefice avrebbe voluto emanare per definire la posizione della Chiesa cattolica sull’unità del genere umano e l’uguaglianza tra gli uomini, contro la concezione hitleriana della razza e contro l’antisemitismo, sono riesaminati a fondo e avviati a soluzione dall’indagine di due studiosi: il monaco benedettino belga Georges Passelecq e Bernard Suchecky, di origine ebraica, dottore in storia alla Scuola parigina di alti studi in scienze sociali e bibliotecario a Strasburgo (L ’encyclique cacheé de Pio XI, Prefazione di Émile Poulat, Parigi, Editions La Découverte, 1995, pp. 320, sip). Mossisi in momenti diversi, essi hanno unito il loro impegno nell’estate del 1987 per ritrovare i documenti, confrontare le testimonianze e verificare i dati, di fatto giungendo a inquadrare in modo esauriente il problema e soprattutto offrendo la possibilità di leggere e valutare direttamente la cosiddetta versione abbreviata del progetto di enciclica Humani generis mitas.
Sotto il profilo metodologico, la novità principale che ha spinto a una ripresa degli studi su questo tema e che ha permesso di conseguire i risultati descritti nel volume, è stata la comparsa sulla rivista statunitense “National Catholic Reporter” , dal dicembre 1972 al gennaio 1973, di alcuni articoli che per la prima volta aprivano un vero e proprio
dossier sulFenciclica inedita di Pio XI contro l’antisemitismo. Partendo dalla lettura di tali interventi, indagando sulle fonti alle quali si rifacevano, ritrovando testimoni e personaggi particolarmente informati, prima Passelecq e poi Suchecky (colpito a sua volta dalla diffusione nel 1975 sulla pubblicazione tedesca “ Freiburger R undbrief’ d’un articolo su Edith Stein ed il progetto d’una enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo) sono riusciti a dare un panorama adeguato sull’intera vicenda: su coloro che sin qui più puntualmente hanno studiato la questione (anzitutto recuperando le tesi di dottorato di Edward Stanton alla Saint Paul University di Ottawa, e di Johannes Schwarte all’Università Guglielmo di Münster in Westfalia), sulla genesi dell’idea di enciclica in Pio XI, sugli esperti che furono incaricati di stendere il progetto e sugli esiti ai quali pervennero, infine sulle difficoltà e i fatali ritardi nella loro consegna al pontefice già gravemente malato.
Come si vede da quanto abbiamo sinteticamente riassunto, ci si trova dinnanzi a un’indagine in diverse direzioni che per i frutti concreti che riesce a cogliere merita di essere considerata con molta attenzione: ci permettiamo, quindi, di sottolinearne qualche aspetto. Un primo punto di grande interesse è l’individuazione degli autori della bozza provvisoria del documento che avrebbe dovuto diventare l’enciclica vera e propria, con alcune importanti informazioni sulla loro biografia. Gli estensori del progetto di enciclica furono tre padri gesuiti che intensamente vi lavorarono nell’estate del 1938: lo statunitense John LaFarge, profondamente impegnato contro la discriminazione razziale, che nel 1937 aveva pubblicato il libro In- terracial Justice, presto divenuto un punto di riferimento per l’azione antisegregazionista; il francese Gustave Desbusquois, fondatore e direttore dell’Azione popolare, un nucleo di attivismo cattolico centrato sui problemi sociali e in contatto con sindacati e organizzazioni padronali, movimenti coopera
Rassegna bibliografica 573
tivi, gruppi giovanili; il tedesco Gustav Gun- dlach, studioso di problemi economici, vivacemente presente tra le forze cattoliche nelle vicende della repubblica di Weimar, critico verso i cedimenti negli ambienti cristiani alle pressioni naziste in specie in occasione delle disponibilità dimostrate dall’episcopato austriaco nella fase dell’Anschluss: per un suo intervento polemico diffuso dalla radio del Vaticano, fu denunciato a Berlino e avvertito che sarebbe stato arrestato se avesse rimesso piede in Germania (cfr. p. 103). Ai tre si aggiunse anche un altro gesuita tedesco, Heinrich Bacht, con l’incarico della traduzione del testo in latino.
Un secondo aspetto che merita di essere rapidamente rievocato perché ha sollevato numerosi interrogativi è quello che concerne gli intralci che non permisero a Pio XI di portare a conclusione il suo disegno. Questo tanto più che, come con finezza dimostrano i due autori, con rincalzare degli avvenimenti il pontefice “aveva preso coscienza della necessità urgente di colmare il deficit” (p. 201) in cui si trovava la dottrina cattolica sui temi del razzismo e dell’antisemitismo. Essa, infatti, era ancora legata alla tradizionale distinzione tra un antisemitismo razziale giudicato inaccettabile e un antisemitismo statuale, di controllo politico su una minoranza, ammesso e comprensibile. In concreto la responsabilità degli indugi e dei temporeggiamenti ricadrebbe sul superiore generale dei Gesuiti, Wladimir Ledochowski, che ricevette da padre LaFarge nel settembre 1938 tre versioni del progetto di enciclica in francese, inglese e tedesco (p. 45) da trasmettere al papa. Ledochowski, di origine polacca, ossessionato dalla minaccia del comunismo sovietico, convinto che il nazionalsocialismo non sarebbe stato a lungo al potere in Germania (cfr. pp. 93, 138), scelse di procrastinare e di rinviare: in particolare sottoponendo i materiali alla lettura d’un esperto, il padre gesuita Enrico Rosa. Questi però, gravemente infermo, morirà il 26 novembre 1938. La tattica
del ritardare, in conclusione, avrà successo perché Pio XI non avrà la forza e il tempo per prendere in esame i documenti finalmente consegnatigli.
Per quanto riguarda poi il cosiddetto “misterioso segreto del discorso di Pio XI” per il decennale della Conciliazione, Passelecq e Suchecky mettono in evidenza la loro capacità di utilizzare e riconsiderare quanto già è noto e di interpretare e sottolineare ciò che eventualmente è sfuggito ad altri commentatori. Così, per un verso, recuperano i dati più significativi degli ultimi discorsi pronunziati dal papa: per esempio, riportano il testo della allocuzione improvvisata il 6 settembre 1938 ai partecipanti d’un pellegrinaggio di cattolici belgi e che fu annotato da uno di questi e poi pubblicato sul giornale “Le Libre Belgi- que” del 14 settembre 1938. È il famoso discorso, che pare costituire una sorta di punto conclusivo e allo stesso tempo d’apertura del pensiero papale sulla questione dell’antisemitismo: sia pure non esprimendosi esplicitamente sulle nuove leggi discriminatorie e non escludendo il diritto a difendersi contro le minacce a giusti interessi, vi si ribadiva l’inammissibilità del razzismo con slancio commovente. Cosi concludeva il pontefice: “No, non è possibile ai cristiani di partecipare all’antisemitismo. Riconosciamo a chiunque il diritto a difendersi, di usare i mezzi per proteggersi contro tutto ciò che minacci i suoi interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti” (p. 181).
Delineato quale fu, allo stato dei fatti, il risultato dell’evoluzione del pensiero pontificio sul punto più controverso del problema razziale, Passelecq e Suchecky, per un altro verso, cercano di appurare quale forma tutto ciò avrebbe assunto nel discorso che Pio XI andava vergando prima di morire. A questo fine ricorrono a quanto scrisse papa Giovanni XXIII nel febbraio 1959 in una lettera ai vescovi italiani che contiene lunghi estratti degli appunti che Pio XI stava redigendo
574 Rassegna bibliografica
(pp. 194-196). Significativamente le ultime parole che si riescono a leggere rievocano la temperie in cui si trovavano allora il mondo e la Chiesa: “State in guardia, carissimi Fratelli in Cristo, e non dimenticate che sovente vi sono degli osservatori e dei delatori (dite pure spioni e direte la verità) che per zelo o per esserne stati incaricati vi ascoltano per denunciarvi senza aver compreso nulla di nulla” .
Ricordando di passata come, secondo gli autori, talune parti della Humani generis imitas, quantunque non relativi al razzismo e al- rantisemitismo, si ritroverebbero nella prima enciclica di Pio XII, successore di Pio XI, e che la questione dei “silenzi” di Eugenio Pacelli aprirebbe un’altra discussione (p. 208), pensiamo giusto, in conclusione, ricordare il testo provvisorio dell’enciclica “ nascosta” che viene qui riportato.
Il documento, di cui si può finalmente prendere nozione, è di ampie proporzioni (quasi 100 pagine del volume) e di impianto ambizioso. Articolato in 179 paragrafi, esso è suddiviso in una prima parte sui disordini di cui soffre la società contemporanea che diremmo concentrata sulla critica alle teorie e alle pratiche avviate dalla rivoluzione francese e, in specie, contro le concezioni che vengono definite meccanico-atomistica e meccanico-totalitaria, e in una seconda parte che si diffonde sull’unità del genere umano e sulla funzione della Chiesa nel rivendicarla. In questo ambito sono valutate istituzioni quah la famiglia e lo Stato, il concetto di razza, di nazione e di nazionalismo. V’è infine una terza parte che riprende ed esamina più attentamente l’azione della Chiesa per l’unità della vita temporale dell’umanità. Le questioni della razza e del rapporto con gli ebrei sono trattate nella seconda parte: punto 4 - La Razza ed il Razzismo (paragrafi 111-130) e
punto 5 - Gli ebrei e l ’antisemitismo. Separazione religiosa (paragrafi 131-152). Senza entrare nei particolari, si può dire qui che le argomentazioni piuttosto serrate paiono rimandare a vari spunti del discorso pontificio del 6 settembre 1938 e riflettono le concezioni filosofiche e le impostazioni sociologiche esposte in libri e articoli da LaFarge e Gundlach. Molto in breve si può comunque sottolineare come, pur nell’ambito della tradizionale prudenza ecclesiastica, sia qui presente l’urgere dei tempi e dell’attualità: l’accorata descrizione delle devastazioni che stanno provocando le persecuzioni contro gli ebrei s’accompagna alla sottolineatura della differenza religiosa tra cattolicità ed ebraismo, una differenza che non comporta discriminazione razziale. Pur non mancando di ribadire la necessità di prendere misure energiche per salvaguardare la fede e i costumi dei suoi fedeli e contro le influenze perniciose dell’errore, la Chiesa considera “con non minore chiarezza l’impotenza e l’inefficacia dell’antisemitismo come mezzo per pervenire a tale obiettivo” (p. 290).
Vi sono, ovviamente, molti altri aspetti sui quali sarebbe utile soffermarsi e discutere; ma si può sperare che il dibattito e l’approfondimento siano soltanto rinviati: per esempio a quando questo volume sarà, come auspichiamo, tradotto e pubblicato in italiano. Nel frattempo possiamo fare nostre le conclusioni alquanto interlocutorie di Passelecq e Suckecky: l’enciclica, ancora in fase di elaborazione, non pare indicare aggiornamenti veramente rivoluzionari; nondimeno, affermando in termini chiari l’incompatibilità tra il cristianesimo, il razzismo e l’antisemiti- smo, c’è da rammaricarsi che essa non sia giunta alla definitiva stesura e alla diffusione.
Guido Valabrega
Rassegna bibliografica 575
La Resistenza fotografata
Paolo Ferrari
È generale l’accordo sul fatto che la lettura di un documento fotografico richiede accorgimenti di non scontata evidenza a dispetto della sua apparente immediatezza. Ed egualmente si riconosce che questo tipo di riproduzione meccanica della realtà viene per lo più, anche in ambito storico, utilizzato al di fuori delle necessarie cautele critiche, con la conseguenza che spesso uno dei modi che possono sembrare più neutrali di documentare eventi storici si trasforma in strumento di falsificazione del passato. Sulle complesse questioni correlate all’uso della documentazione fotografica, in riferimento a uno dei periodi più controversi del Novecento italiano, molti sono i suggerimenti che vengono dal recente importante contributo curato da Adolfo Mi- gnemi, Storia fotografica della Resistenza (Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 303, lire 70.000), frutto di un lavoro approfondito promosso dalla Commissione archivi del- l’Insmli e svolto con la collaborazione degli Istituti della Resistenza.
Va subito detto che il titolo, come l’editoria ci ha abituato a sospettare, almeno in parte tradisce. Non si tratta infatti di una storia della Resistenza svolta attraverso un determinato tipo di documentazione, di un libro, cioè, teso a ricostruire e interpretare questioni e periodi dando principale rilievo alle immagini che di essi conserviamo, quanto di un contributo importante in primo luogo in altre due direzioni. Da un lato la documentazione fotografica sulla Resistenza consente di sviluppare un discorso metodologico sui criteri che devono essere seguiti nell’utilizzo di questo tipo di fonte, con la sottolineatura dei percorsi necessari a garantirne un uso critico, dalla ricerca degli elementi informativi relativi a ciascun fotogramma all’interpretazione in relazione al contesto in cui è stato prodotto e viene poi col
locato. Il fatto poi di articolare questo discorso non in astratto, ma in relazione a un complesso documentario molto disomogeneo e di difficile lettura, rende ancora più utili le riflessioni contenute nel volume.
Quanto al secondo elemento cardine, “ il tema attorno al quale è organizzato il volume” , scrive Claudio Pavone nella Presentazione, “è [...] quello della costruzione della memoria collettiva della Resistenza attraverso la fotografia” , come indica anche il titolo della densa Introduzione di Mignemi, La costruzione dell’immagine della lotta di Resistenza. Fin dalla prima pagina l’autore precisa l’intento di esaminare come attraverso il mezzo fotografico interpretino le vicende in cui sono coinvolti fotocronisti civili e titolari di studi professionali, tedeschi, fascisti, alleati e
resistenti poco disponibili, in linea di massima, a costruire una autorappresentazione attraverso un mezzo in cosi aperto contrasto con le più elementari norme di riservatezza [...] Per ciascuno di essi è possibile anzi delineare alcune tipologie di rappresentazione a ciascuna delle quali, forse, non sempre corrisponde una precisa m odalità formale di costruzione dell’immagine, ma i cui contenuti comunicativi appaiono inequivocabili. Sarebbe però riduttivo affrontare il problema della definizione dei caratteri di tali tipologie e tentarne una prima sommaria analisi senza aver collocato questo sforzo di costruzione delfimmagine dell’evento nella cultura fotografica del tempo in cui tale costruzione si è realizzata, in base alla quale, cioè, si è prodotta la documentazione fotografica e se ne è realizzata la prima fruizione (p. 11).
L’autore sottolinea come l’analisi della sterminata produzione fotografica sul secondo conflitto mondiale debba svolgersi tenendo presenti, oltre alla specificità di tale tipo di documento, i diversi piani del lavoro del fotografo (autore di immagini “private” o che lavora
576 Rassegna bibliografica
in strutture pubbliche o in studi privati) e del contesto in cui esso si svolge (nello specifico, le esigenze dei periodici illustrati, dei quotidiani e degli organismi che sovraintendeva- no alla realizzazione e alla diffusione della documentazione fotografica ufficiale).
Come è noto, un ruolo centrale ebbero in Italia l’Istituto Luce e le forze armate per quanto riguarda sia la produzione dei materiali sia la selezione di quelli destinati a essere resi pubblici; a queste immagini si affiancarono quelle dovute agli studi privati e quelle che i militari al fronte scattavano di propria iniziativa, che proposero tipologie e modelli diversi. Due prospettive, quella individuale e quella ufficiale, che vanno tenute presenti valutando come, a diversa distanza dagli avvenimenti, ne venga operata una specifica rappresentazione visiva.
Mignemi analizza quindi come la guerra sia stata rappresentata fotograficamente dal regime fascista, nel contesto cioè di uno stretto condizionamento esercitato dai diversi organi dello Stato sulla diffusione di immagini, e dai tedeschi, evidenziando una marcata differenziazione per il diverso modello “narrativo” utilizzato e per il progressivo sostituirsi, da parte italiana, delle immagini del fronte interno a quelle della guerra combattuta: “ anche nella fase della Repubblica sociale italiana, quando i modelli propagandistici subiranno maggiormente l’influenza dell’alleato germanico, il dramma bellico sarà evocato solo in termini vittimistici” (p. 22).
L’analisi della rappresentazione fotografica della guerra si estende oltre la fine del conflitto. Le opere — volumi e fascicoli fotografici, numeri monografici di riviste, mostre — sono analizzate sia considerando le fonti alle quali i curatori hanno di volta in volta attinto, sia il contesto storico nel quale le diverse iniziative, quasi sempre operazioni impegnative destinate a raggiungere un largo pubblico, hanno preso vita.
Dopo il 1945 le grandi agenzie fotografiche ampliano i propri archivi acquisendo im
magini scattate da privati o “immettendo sul mercato italiano [...] le fotografie scattate nel corso del conflitto dagli operatori privati accreditati presso i comandi delle varie forze armate alleate” . Si tratta di fonti che suggeriscono nuove rappresentazioni e producono nuovi simboli (si pensi alle colonne di alpini che marciano nella neve nella ritirata di Russia) e vanno anch’esse considerate con grande cautela sul piano metodologico proprio per evitare di sostituire all’immagine della guerra voluta dal regime stereotipi diversi anche se di segno opposto: “Ogni nuovo tentativo di costruire una memoria visiva della guerra più ‘realistica’ e meno ideologizzata delle precedenti potrà trarre utili indicazioni proprio da una corretta ricostruzione e analisi delle ‘memorie’ precedenti e dallo studio del loro stratificarsi” (p. 26).
L’analisi di Mignemi si articola, come si è detto, prendendo in considerazione le rappresentazioni dovute ai diversi attori del conflitto, e risulta convincente nel dimostrare come lo studio sistematico delle fotografie evidenzi non soltanto precisi intenti propagandistici, ma anche le diverse culture e le differenti mentalità con le quali si affrontava quel momento storico.
Particolarmente difficile risulta la lettura critica delle fotografie prodotte dal movimento partigiano, per lo più prive degli indispensabili caratteri identificativi, circostanza alla quale si somma l’ignoranza relativa alle modalità di produzione di un materiale connotato spesso da fini strumentali. Subito dopo la liberazione — insieme all’insurrezione il momento più fotografato, nel quale compaiono anche i fotoreporter — diviene massima la confusione nel mercato dell’immagine, al punto che “qualche Cln locale decise di disciplinare il commercio di alcune immagini che stavano assumendo un crescente valore simbolico [...] La prima perdita d’identità di molto materiale risale indubbiamente già a questa fase” . E proprio ai fotoreporter si deve, nel periodo immediatamente successivo
Rassegna bibliografica 577
alla liberazione, la creazione di “ tipologie e stereotipi che accompagneranno da allora in poi il racconto per immagini della liberazione e più in generale, a partire da questo momento ‘alto’, dell’intera lotta di resistenza armata, con una forza e un vigore [...] che hanno ben poche altre fotografie scattate realmente sul ‘campo’ nei venti mesi precedenti” (p. 41). Questo tipo di immagine venne poi riproposto nelle iniziative che si susseguirono, con intenti diversi, nei mesi successivi: la mostra della liberazione di Milano (inaugurata il 7 luglio 1945), la mostra sulla Resistenza di Torino (che si aprì ai primi di agosto), la mostra milanese della ricostruzione e dei Cln di fine agosto e il film Giorni di gloria, uscito in autunno. Iniziative analizzate sia per le scelte, strettamente legate ai diversi momenti politici, compiute da autori e curatori, sia per l’uso delle immagini, per lo più subordinate al discorso testuale e private di una precisa collocazione spazio-temporale e, quindi, fortemente impoverite sotto il profilo documentario.
Mignemi esamina poi le due mostre sulla Resistenza del 1946: quella di Parigi — nella quale l’intento, legato alle trattative di pace, di sottolineare il contributo italiano alla vittoria alleata portava a rivalutare, rispetto al testo scritto, le fotografie per il loro valore documentario — e la nuova mostra piemontese sul contributo dell’esercito alla lotta di liberazione, espressiva del nuovo clima politico per lo spazio limitatissimo riservato alla guerra partigiana. Nella crisi che si sarebbe conclusa con la liquidazione dei Cln, da un lato non si attuarono iniziative volte alla sistematica conservazione delle immagini fotografiche — in quanto di diverso tipo fu la documentazione privilegiata — e, dall’altro, si imposero nuovi stereotipi: “ L’allontanarsi nel tempo degli eventi in cui erano state prodotte le immagini finì con l’accentuare la tendenza a decontestualizzare un materiale già pesantemente penalizzato dal punto di vista della propria identità” (p. 63).
L’esame condotto da Mignemi dell’uso dell’immagine fotografica per comunicare diverse memorie della lotta partigiana — anche con il ricorso a “false” immagini, a foto cioè scattate dopo la fine del conflitto — si arresta, tranne qualche accenno, al 1947, lasciando sicuramente al lettore il desiderio di una prossima prosecuzione del lavoro, come si dice, “fino ai giorni nostri” .
Alla densa Introduzione (pp. 9-64), che si è tentato di delineare, seguono, raggruppati in cinque sezioni e preceduti da brevi note, i materiali fotografici (pp. 67-294), ottimamente riprodotti, che consentono di verificare quanto affermato dal curatore. Per concludere, restano da proporre due considerazioni, che rappresentano altrettanti desiderata più che critiche in senso stretto. In primo luogo, come si è detto, Mignemi considera soprattutto la documentazione fotografica in rapporto alla trasmissione delle diverse immagini della Resistenza. Quanto invece al rapporto tra fotografia e conoscenza degli eventi storici, l’autore sottolinea come un’analisi seriale permetta di acquisire nuovi elementi sul modo di vedere il conflitto proprio dei diversi protagonisti: non soltanto, cioè, sui loro intenti propagandistici, ma anche sulla loro percezione della guerra in atto. Accanto alle valutazioni espresse a questo proposito, sarebbe stato interessante leggere qualche considerazione complessiva sul modo in cui, invece, singole foto o singole serie abbiano costituito una documentazione di rilievo sia testimoniando di aspetti sui quali non sono disponibili altre fonti, sia suggerendo prospettive diverse per lo studio di singoli momenti del conflitto, poiché in ogni caso l’importanza di ogni tipo di documentazione è correlata alla sua capacità di illuminare su aspetti sui quali le altre fonti disponibili non dicono abbastanza.
Infine, si può rilevare che introduzioni più articolate ai diversi gruppi di immagini sarebbero state in alcuni casi opportune. Il testo, in particolare, dell’interessante capitolo
578 Rassegna bibliografica
conclusivo (La Resistenza ricostruita) soffre per l’eccessiva stringatezza, suggerendo la messa sullo stesso piano della “ripresa diretta” , cioè della “foto-verità” , e deH’immagine “falsa” in quanto “ricostruita” , sulla base della considerazione che “la fotografia rimane comunque un’artificiosa restituzione della realtà” . Ma qualsiasi documento è in qualche misura “artificioso” , non restituisce “diretta- mente” la realtà, ma richiede un’interpretazione; e d’altra parte ogni documento restituisce soltanto un frammento di realtà (né occorre dilungarsi, con buona pace del senso comune, sull’ambiguità della fotografia, che si ferma alla “superficie” delle cose e richiede un complesso lavoro di interpretazione). Di conseguenza resta centrale anche la distinzione tra immagini relative agli eventi e immagini ricostruite di tali eventi, così come distingueremmo tra un documento e un romanzo storico, anche quando quest’ultimo è in grado di restituirci il senso delle vicende passate
meglio di singoli documenti storici. Anche se, naturalmente, in un discorso sulla memoria per immagini della Resistenza le fotografie ‘ricostruite’ costituiscono una fonte della stessa importanza delle immagini originali. Ma alla questione della falsificazione non riteniamo certo che l’autore abbia dedicato un’attenzione limitata, sia perché ha sempre seguito il problema (sul quale si veda anche il volume di Alain Jaubert, Commissariato degli archivi. Le fotografie che falsificano la storia, Milano, Corbaccio, 1993, ed. orig. Parigi, Musée d’Art Moderne, 1986), sia perché, appunto, lo affronta direttamente in rapporto alla Resistenza in un capitolo specifico, con molti esempi alcuni dei quali hanno avuto larga diffusione. Il che, tra l’altro, dimostra come la storia della Resistenza sia affrontata dai migliori ricercatori, oltre che con acribia documentaria, senza aprioristiche difese.
Paolo Ferrari
Togliatti e la guerra fredda
Giampaolo Valdevit
Quale sia stata la fisionomia politica del Pei, e di Togliatti in particolare, soprattutto nel triennio cruciale compreso fra la svolta di Salerno e la rottura della coalizione antifascista è uno di quei problemi che ha largamente coinvolto la storiografia italiana del dopoguerra. In tempi recenti è stata per lo più la politica estera ad assurgere al ruolo di terreno privilegiato di indagine al riguardo. Nel dibattito, storiografico e politico, sono state variamente proposte e riproposte chiavi di lettura molto diverse: la “doppiezza” togliat- tiana, oppure il Togliatti tattico consumato, l’abile navigatore in un mare irto di scogli, alla ricerca di un’“autonomia possibile” , o infine l’uomo dall’assoluta fedeltà a Mosca
(che di recente è stata riproposta nello squalificante libello di Renato Risaliti, Togliatti fra Gramsci e Neciaev, Prato, 1995).
Da ipotesi interpretative del genere si discosta nettamente il saggio di Roberto Gualtieri, nel quale viene offerta una visione a tutto tondo dell’attività dispiegata da Togliatti in merito ai problemi di politica estera che l’Italia postfascista si trovò ad affrontare: Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace (Roma, Editori Riuniti, 1995, pp. XIII-281, lire 30.000). Al riguardo va subito detto che l’autore dimostra di aver colto in maniera proficua un avvertimento che si è sentito più volte echeggiare all’interno della storiografia delle relazioni in
Rassegna bibliografica 579
ternazionali: l’impegno in una ricerca che sappia connettere la dimensione nazionale con quella internazionale evitando di applicare schemi rigidi o, al contrario, di limitarsi a ripercorrere passo dietro passo il decisión making (che sono purtroppo, entrambe, tendenze tu tt’altro che in via di scomparsa, e in qualche misura dotate di capacità suggestiva; e Tessersene tenuti alla larga è sicuramente un merito di questo lavoro).
L’attività di politica estera di Togliatti viene cosi ricostruita attraverso una rete di relazioni che si snodano sullo sfondo della ‘grande alleanza’ di guerra e dei suoi esiti. Si tratta innanzitutto di relazioni interne al partito ed esterne ad esso in ambito nazionale, nonché di relazioni fra il Pei e il comunismo internazionale. In questo quadro forse è da notare una sottolineatura eccessiva delle capacità di proposta di Togliatti, che Gualtieri estende a tutta la sfera del comunismo internazionale, e che — per inciso — sembra un rovesciamento polemico dell’immagine ancora corrente del Togliatti lacchè di Mosca. Quanto rimane, infine, ancora imprecisato è il versante sovietico della vicenda, ma è osservazione che non suona in alcun modo a rimprovero per Gualtieri, essendo largamente noto il ritardo in termini di disponibilità documentaria, di ricerca storica e riflessione storiografica.
Quello di Togliatti, sostiene l’autore, fu un progetto coerente, costruito sul fondamento di una larga coesione antifascista e di un’unità nazionale; un progetto che aveva bisogno di un ambiente per potersi realizzare: l’ambiente della ‘grande alleanza’. E un disegno, continua Gualtieri, che in molti si dettero a rovinare. Ma, contrariamente alle interpretazioni correnti, costoro non furono tanto i De Gasperi o i Truman, quanto gli interlocutori interni, per così dire, al “campo” di Togliatti, dentro al Pei e fuori dal Pei; e in quest’ultima categoria figurano da protagonisti Stalin e più ancora Tito e Kardelj. Non è difficile vedere affiorare in una linea interpretativa del
genere la traccia di quella contrapposizione fra “buoni” e “cattivi” , che è stata prediletta dalla storiografia di sinistra (ma non solo da essa). Ora, si sa che il mondo è fatto di buoni e cattivi ma, anziché stare a distinguerli — che è interesse prevalente delTagiografia — è forse più produttivo vedere come interagiscono. Si tratta dunque di vedere come il progetto di Togliatti subisce un impatto nel momento in cui viene proposto ad interlocutori interni ed esterni, e come esce da tale impatto: inalterato, modificato, oppure corrotto?
E fuor di dubbio che Gualtieri ci permette di inoltrarci in una direzione del genere, il che sta a significare che la contrapposizione cui si è fatto cenno, più che una chiave interpretativa, è una verniciatura esterna. Perché, dunque, il progetto di Togliatti esce corrotto? Dalle pagine di Gualtieri è agevole individuare la presenza di un limite intrinseco al progetto togliattiano. Lo possono porre in luce l’atteggiamento di fronte alla questione di Trieste e alle relazioni italo-jugoslave, che costituiscono parte cospicua di questo saggio.
Togliatti, dunque, appare in difficoltà nel controllare il radicalismo comunista soprattutto là dove esso si presenta come il connotato unico del movimento antifascista. Egli riesce sì a controllare quello dei Secchia e dei Longo, ma non il radicalismo dei comunisti triestini, che dal settembre 1944 aderiscono massicciamente alle rivendicazioni territoriali jugoslave, né quello del rappresentante del Pei nella Venezia Giulia (Vincenzo Bianco — Vittorio), ed infine neppure quello di cui dà segno del tutto palese il partito comunista sloveno e jugoslavo, Kardelj più ancora di Tito. Nell’ottobre 1944, di fronte alla pressione che costoro manifestano, egli cede o quanto meno devia rispetto all’impianto del proprio progetto (come afferma anche Marco Galeazzi, Togliatti e la questione jugoslava, “Critica marxista” , 1994, n. 6, p. 70). Egli appoggia cioè l’idea di sottrarre la Venezia Giulia al controllo alleato, ed acconsentire all’occupazione jugoslava significa accettare un
580 Rassegna bibliografica
modello di lotta di liberazione che non appartiene al progetto di Togliatti, un modello fondato non su un largo fronte antifascista bensì sull’egemonia comunista.
Perché cede Togliatti? Lo fa in ossequio ai principi della realpolitik dopo aver preso consapevolezza della situazione in atto nella Venezia Giulia dove, al di fuor da ogni dubbio, sarebbe difficile trovare chi fra i comunisti italiani sia ancora disposto a differire al dopoguerra la discussione sui nuovi confini (come il Pei ha chiesto in pratica dal 1942)? È per timore di contraccolpi dentro il Pei, dove un confronto aperto con Tito e Kardelj sarebbe sicuramente osteggiato da coloro sui quali il movimento di liberazione jugoslavo esercita una forte suggestione? È il progetto nazionale o la politica di partito che lo spinge, o forse entrambi? O, forse ancora, gioca il timore che, se non si dà via libera a Tito nella Venezia Giulia, la “corsa per Trieste” che ne nascerebbe possa produrre in essa un’esperienza greca? Sono interrogativi già presenti nella riflessione storiografica e che Gualtieri si astiene dallo sciogliere in via definitiva, anche perché qualcosa è rimasto ancora sepolto negli archivi. In ogni caso se Togliatti cede, sembra farlo soprattutto per ragioni tattiche. In seguito egli procede a zig zag: nel febbraio 1945 cerca la mediazione di Mosca, e ancora nell’aprile tenta di ricorrere a Stalin per bloccare Tito. Dalle pagine di Gualtieri appare dunque chiaro che a Mosca Togliatti non si rivolge per avere rimbeccata, come si sente ancora dire da alcuni.
In seguito la linea si assesta, e questa volta ciò riflette una particolare lettura togliattia- na dell’interesse nazionale (e di quello del partito). Per la Venezia Giulia, a guerra finita, Togliatti proporrà autonomia e autogoverno, auspicherà anche la formazione di un partito comunista autonomo, parlerà anche di un plebiscito. La Venezia Giulia è dunque un’entità da sottrarre alla pressione jugoslava e all’antagonismo italo-jugoslavo, nel quale Togliatti vede una minaccia per la po
litica di unità nazionale, la fonte di un rigurgito nazionalista che finisce per coinvolgere la stessa De. E per questo che Togliatti si impegnerà in una mediazione impossibile, vista la distanza che si è ormai frapposta fra Italia e Jugoslavia e la determinazione delle grandi potenze, Stati Uniti in primis, a chiudere il capitolo dei trattati di pace.
Sono i prodromi di un atteggiamento che il Pei manterrà nella sostanza inalterato fino alla soluzione della vertenza nel 1954. Ma va pure aggiunto che sostenere ipotesi di autogoverno nella Venezia Giulia nel luglio 1945 poteva preludere ad un passaggio surrettizio di essa alla Jugoslavia. Allora nella maggior parte della Venezia Giulia era in atto una situazione di forte egemonia comunista, che solo nella Zona A cominciava a venir contrastata dal Governo militare alleato, e le forze dell’antifascismo non comunista attraversavano una fase di pressoché totale sbandamento. Si accorse Togliatti di tale possibilità?
A guerra finita il progetto di Togliatti si precisa e Gualtieri ne individua le coordinate nell’indipendenza politica, interdipendenza economica, equidistanza, ostilità alla divisione dell’Europa, apertura ai compromessi: sono queste, per Togliatti, le linee guida dell’attività italiana nel negoziato per i trattati di pace. E progetto, egli aggiunge, contrapposto a quello di De Gasperi: quanto questi punta sulla rottura della “grande alleanza” , tanto l’altro gioca tutto sul suo mantenimento. Eppure dall’agosto 1946 entrano in circolazione, soprattutto ad opera della stampa comunista, alcune definizioni: Trieste che si avvia a diventare una “ base deH’imperiali- smo” , più tardi si parlerà di “ due campi” , di azione americana “per dominare il mondo”. Questo non è il linguaggio della “grande alleanza” , è il linguaggio della guerra fredda. Qui i conti non tornano: da dove salta fuori questo linguaggio (e i concetti che gli stanno dietro) se è la “grande alleanza” , per così dire, la stella polare di Togliatti?
Rassegna bibliografica 581
Dietro a tutto ciò sta, mi pare, un equivoco, che è stato già presente in altri lavori: è un equivoco legato al peso effettivo che il peace making ebbe nello sviluppo delle relazioni fra le grandi potenze fra 1945 e 1947. Come hanno spiegato, vent’anni fa e più, i primi postrevisionisti americani, il negoziato per il trattato di pace fu solo un sideshow della politica internazionale. Su questo palcoscenico secondario si continuò la politica della “grande alleanza” , la ricerca di soluzioni di compromesso e cosi via. Era un capitolo da chiudere per le grandi potenze. E tale era, nonostante le divergenze sulle singole ipotesi di soluzione, anche per De Ga- speri e Togliatti: era l’eredità che l’Italia postfascista non poteva non assumersi e della quale era chiamata a pagare i passivi. Sul trattato di pace, e sul negoziato che portò ad esso, non furono giocate partite a poker fra i due.
Certo è che l’ipotesi di costituire il Territorio libero di Trieste era più accettabile per Togliatti che per De Gasperi; ma nei confronti degli Stati Uniti quest’ultimo non adoperò tanto, come afferma Gualtieri, la strategia della dipendenza, quanto quella
della vulnerabilità (ottenendo, per inciso, poco ascolto).
Ma se il linguaggio ed i concetti della guerra fredda emersero ben presto nella posizione del Pei, resta da vedere da quali analisi di politica internazionale essi abbiano avuto origine. E in tale quadro assai più dei negoziati di pace contano le crisi mediterranee del 1946, l’irrisolto problema tedesco, l’instabilità europea e la sicurezza europea. È su questi problemi che va cercata la politica estera di Togliatti, ed in particolare la strutturazione del rapporto fra Pei e Urss. Non intendo, sia chiaro, riproporre il “mito sovietico” come chiave interpretiva capace di aprire nuove vie. Voglio solo suggerire la direzione verso la quale va puntato il cannocchiale, se vogliamo capire dove Togliatti volesse spingere la politica estera italiana. E allora — già lo lascia intravvedere Gualtieri — è un altro il Togliatti che si profila: non è più il new dealer, l’uomo dell’equidistanza, l’uomo fino all’ultimo della “grande alleanza” . Sembra di vedere invece qualcos’altro, ed è questo qualcos’altro che abbiamo ancora bisogno di mettere a fuoco.
Giampaolo Valdevit
Mezzo secolo d’Italia repubblicana
Mario Giovana
Proporsi un riepilogo critico del mezzo secolo di storia italiana appena concluso nell’intento di fornirne una sintesi ma anche di dedicare un deciso approccio analitico alle molte e complesse trame di cui è stata ed è intessuta la vicenda del paese, richiede sicuramente, assieme a una forte capacità di rappresentazione concentrata di idee e di fatti, un uso sapiente degli strumenti dell’“ analisi differenziata” e una altrettanto forte consapevolezza del crinale altamente problematico sul
quale devono disporsi le riflessioni in ordine ai processi dai quali è scaturita la crisi dello Stato e della democrazia repubblicana negli anni recenti, nonché in relazione alle prospettive che ne possono derivare. Perché il “caso Italia” è un lungo percorso durante il quale senza alcun dubbio — come osserva Alfio Mastropaolo in una acuta ed originale disamina politologica del cinquantennio (La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su cin- quant’anni di democrazia in Italia, Firenze,
582 Rassegna bibliografica
La Nuova Italia, 1996) — il paese “non solo ha progredito moltissimo” ma si è adeguato alle altre società avanzate, tuttavia compiendo questo tragitto senza risolvere problemi di fondo del proprio assetto politico-sociale, accumulando “ anomalie” , muovendosi tra scarti laterali ad un sistema di “democrazia bloccata” e tensioni di lotte riassorbite, o in gran parte rese monche, sulla strada delle riforme per riequilibrarne gli scompensi di antica data, in primo luogo quelli tra Nord e Sud della penisola. Perché la democrazia repubblicana ha dovuto, continuamente, salvarsi dall’agguato del terrorismo, convivere con lo stragismo di matrice fascista ed il gol- pismo di consimile matrice alimentati — e forse diretti — da apparati dello Stato stesso, riproporsi di continuo il problema della crescita dei fenomeni di stampo mafioso come emergenze che attanagliano una porzione ingente del territorio nazionale sottraendola di fatto al potere delle istituzioni. Perché, al domani dell’esito liberatorio della guerra di Resistenza, le spinte restauratrici di un burocratismo consolidato e di un moderatismo alla ricerca di stabilizzazioni di potere contro le ipotesi di un profondo rinnovamento e di dialettiche alternative alle proprie primazie politico-sociali si sono rapidamente fatte sentire ed hanno sostanzialmente avuto la meglio sui disegni innovatori di una parte progressista, peraltro prigioniera di schematismi ideologici inibenti, di tatticismi defatiganti ed infruttuosi, della mancanza di una cultura di governo da sostituire, e far trionfare, a fronte di quella dei proclami avveniristici, delle attese di palingenesi improbabili approdate poi a strategie difensive di piccolo cabotaggio per sottrarsi alle eventualità di un destino di emarginazione totale. Perché, infine, l’Italia ha vissuto la stagnazione di decenni dello scontro tra i blocchi contrapposti nella stanza blindata di una fedeltà atlantica tradotta in subordinazione senza variabili agli indirizzi della politica statunitense, e questa si è esercitata troppo sovente nel paese attraver
so interferenze colonizzanti, a cominciare dal piano dei conflitti sociali per finire a quello dei controlli sugli apparati di difesa interna. E su tutto ciò ha imperato una classe dirigente asfittica, ambigua, proclive a tutelare l’assistenzialismo di Stato e la sua versione privata a scapito delle riforme, della finanza pubblica e della pulizia amministrativa, purché reggesse l’intelaiatura di una logica di potere risolta nei circuiti clientelati, nelle speculazioni e negli aggiustamenti occasionali agli scompensi più gravi senza mettere a repentaglio i grandi interessi costituiti.
Difficile, dunque, rendere adeguatamente, in un disegno di massima e però intenzionato a non trascurare nulla delle molteplici realtà italiane, delle loro multiformi facce e contraddizioni, la storia del cinquantennio. L’impresa l’ha affrontata Enzo Santarelli con un lavoro doppiamente coraggioso, in quanto ben compreso di doversi districare, in una economia descrittiva e di resa di indagine reltivamente compressa, fra gli infiniti nodi delle realtà del mezzo secolo, non volendo dar luogo ad una mera storia “istituzionale” , bensì prefiggendosi di coniugare — secondo la sua preventiva delucidazione — “ storia sociale, storia delle idee e storia dei gruppi dirigenti” , nella consapevolezza del permanente intreccio di vecchio e nuovo che attraversa — talora confondendosi — la cronaca dello Stato unitario di formazione abbastanza recente rispetto alle maggiori democrazie occidentali ed al peso di una storia assai più antica della cultura e della società degli italiani (Enzo Santarelli, Storia critica dell’Italia repubblicana. L ’Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. XVII- 369, lire 24.000). Santarelli non tace, per cominciare, quanto la coincidenza del proprio itinerario di vita con il tratto di storia narrata lo induca a non appellarsi a una “compiuta (o supposta) ‘neutralità scientifica’” senza per questo venir meno al dovere del rigore nella ricostruzione di eventi e posizioni ideali; e nemmeno si chiama fuori dalle influenze
Rassegna bibliografica 583
esercitate sul proprio lavoro dall’incedere della crisi sfociata nell’avvento del governo di centrodestra (la soglia a cui è pervenuto il riepilogo), conseguenti, del resto, alla sua dichiarata appartenenza al novero di coloro che avvertono la necessità “di un cambiamento radicale e organico della società” . Ma entrambe le condizioni si riflettono nel saggio, se mai, non oltre il segno di una partecipata tensione alla materia esplorata. L’autore, infatti, presenta un panorama del cinquantennio puntualmente richiamato nelle articolazioni di fatti e di magmatici som- movimenti da cui è stato contraddistinto, cogliendo momenti nodali non soltanto della fattualità politica e dei crocevia delle scelte che hanno determinato indirizzi delle forze di maggioranza e di minoranza sui dati di fondo — economici, finanziari, di politica estera — ma del dibattito culturale, anche là dove esso ha avuto per protagonisti cenacoli e gruppi ristretti, evidenziandone comunque i valori di dinamismo intellettuale e di ricerca nei loro specifici orizzonti ( il gruppo de “Il Mondo”, i “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri, per fare due esempi), indicatori di una vitalità mai venuta meno.
Le scansioni centrali del corso cinquantennale della storia italiana, secondo Santarelli, si ritrovano in alcuni passaggi che condizioneranno stabilmente in larga misura l’intero sviluppo fino alla crisi di delegittimazione che ha colpito il sistema, alla caduta dei partiti storici, all’emergere, lungo questo processo, di tendenze disgregatrici dell’unità nazionale e di un personale del capitalismo dai connotati di piccola borghesia spregiudicata: uomini nuovi che appaiono “un po’ edificatori d’imperi un po’ uccelli rapaci” , al seguito di un ceto dirigente politico nel quale si sono fuse al peggio le tradizioni clientelari e di cattiva gestione della cosa pubblica maturate nel moderatismo democristiano con le voracità e l’affarismo privo di scrupoli elevati a logiche di potere (il craxismo ne è stato il paradigma persino sfrontatamente teorizzato). La re
pubblica nasce sotto l’ipoteca di una subordinazione internazionale destinata a pesare sempre di più con gli irrigidimenti della “guerra fredda” e nell’assenza pressoché totale di varianti autonome immaginate dalla classe di governo. Nell’arco di tempo tra il 1947 ed il 1948, con l’estromissione delle sinistre dal governo, la conventio ad excludendum dei comunisti da prospettive di ricambio ai vertici del paese, la restaurazione economica condotta da Luigi Einaudi, la sconfitta del Fronte democratico popolare (“ errore di fondo”, annota Santarelli, nella strategia delle sinistre) il 18 aprile 1948, il riaggregarsi al centro degli spessori conservativi, mentre l’intervento americano con il Piano Marshall determinava il riflusso dell’elettorato di sinistra e si scioglieva definitivamente l’alleanza antifascista (tra l’incredulità e l’impreparazione di quella stessa sinistra che ne era stata il fulcro), si creavano le premesse di un bipolarismo nel quale crescerà a dismisura il potere della De. Vi si impantaneranno in ruoli di sudditanza al partito di maggioranza estesi settori delle correnti di democrazia laica e (talvolta presunte) liberali; i comunisti affermeranno una egemonia di opposizione ma irretiti — malgrado le potenzialità del “partito nuovo” e la visione togliattiana della “ via italiana al socialismo” — nella solidarietà acritica nei confronti dell’Urss e, via via, nel gioco che mirava ad emarginarli in modo drastico suscitandone ognora più intimorite tattiche difensive, fino a compromessi di “sopravvivenza” consociativi e, in realtà, rivelatori delle insufficienze culturali e politiche della compagine: “[...] il PCI scontava — annota Santarelli, a proposito del travaglio degli anni cinquanta — un più antico limite di inadeguatezza — l’aver presentato il ‘partito nuovo’ o la ‘tematica di Salerno’ come un contributo originale italiano alla stretegia proletaria, ma senza una sistemazione e un dibattito teorico, con la conseguenza di dover pagare più tardi un grosso scotto: l’incomprensione dei nuovi sviluppi del capitali
584 Rassegna bibliografica
smo italiano all’inizio degli anni cinquanta [qui l’autore si rifà ad un giudizio di Donald Sassoon] e la perdita del monopolio della cultura marxista all’inizio degli anni sessanta’” .
L’insieme delle contraddizioni e delle manchevolezze della classe dirigente non ha impedito che nel paese si sia prodotto un salto di qualità di enormi proporzioni nei suoi assetti socioeconomici e che l’Italia abbia appunto raggiunto le nazioni di più progredito livello industriale. A questa dinamica ascensionale, sostiene Santarelli, hanno contribuito in primo luogo grandi lotte di massa, dal movimento contadino alle fabbriche del Nord, assecondate da un movimento sindacale che, tra molte incertezze ed errori, non ha mancato di costituire un fattore propulsivo essenziale, oltre che una componente decisiva di difesa della democrazia nel paese. Ma il lungo e assestato predominio di un moderatismo di governo sostanzialmente corrivo agli interessi dei grandi gruppi di potere economico, principale attore di strategie di svuotamento dei progetti di grande riforma agraria nell’immediato dopoguerra e della costruzione di uno statalismo marcato dalle politiche assistenziali e dal “ dirigismo” dei “ grandi boiardi” , di osservanza democristiana o allineati con le opzioni del personale di governo, ha determinato per un verso il perpetuarsi, e talora l’accentuarsi, di squilibrii storici nell’assetto socioeconomico nazionale, peraltro verso incrostazioni irrimediabilmente corrut- tive della gestione pubblica, sprechi di proporzioni enormi, dissesti paralizzanti nella pubblica amministrazione e confusioni altrettanto paralizzanti sul piano degli ordinamenti legislativi, del funzionamento della magistratura, e via dicendo.
In questo contesto ha trovato spazio il “ doppio Stato” delle congiure variamente ispirate ed orientate ma tutte recanti il segno preminente dell’interferenza delle centrali statunitensi in collusione con le destre eversive interne e con le stesse mafie, in un groviglio difficilmente districabile di complicità
politiche, affaristiche e avventuristiche all’insegna dell’anticomunismo, utilizzato come deterrente psicologico oltre il tempo dello stesso deperire quale referente luciferino del- l’Urss e dello scontro tra i blocchi.
La rinuncia a riformare lo Stato delle burocrazie e del centralismo (le regioni sono state poco più di una affermazione di principio congelata nelle limitatezze delle reali risorse disponibili per attuare le autonomie), l’affollarsi attorno al sistema clientelare del potere di governo di miriadi di arrembaggi speculativi e corporativi, il mancato ricambio della classe dirigente, sono stati coefficienti di fondo di una crisi nel lungo periodo incancrenitasi: “i partiti — osserva Santarelli — che avrebbero dovuto essere il segnacolo di un’avanguardia incorporando principi di giustizia individuale e sociale che l’amministrazione centrale e l’ordinamento giudiziario tradizionalmente rifiutavano — una volta rinviata o inceppata l’opera di innovazione e decentramento avevano preso ad amministrare l’esistente, nella gestione quotidiana della cosa pubblica. Rivendicando lo Stato amministrativo o la privatizzazione dello Stato, l’inesausta originaria polemica antipartitocratica esprimeva, al limite, il sentimento di ambiguità e di falsa coscienza di larghi strati sociali in un quadro di rivoluzione incompiuta o mancata.”
Gli spunti di analisi e di critica del saggio di Santarelli sono oltremodo fitti, talora carichi di suggestioni stimolanti e, nell’insieme, costituiscono un apporto che ci pare tanto più vivificante in quanto, come dicevamo, l’autore è riuscito a prospettarli in una sintesi che si avverte gli è stata stretta ma non gli ha impedito di riversarvi una densità tematica seguita lucidamente, e di allinearvi i tratti salienti degli interrogativi di volta in volta suscitati dal “caso italiano” . Terminato nell’atmosfera rovente degli scandali di “tangentopoli” e agli albori dell’esperienza di governo del centrodestra berlusconiano, il lavoro dello storico marchigiano si è mosso tra preoc
Rassegna bibliografica 585
cupate domande sul processo degenerativo della democrazia repubblicana ed evidenti sospensive di giudizio sull’avvenire prossimo del paese non prive di accenti pessimistici. Santarelli si chiede se gli effetti corrosivi degli scandali finanziari siano il frutto di un “sistema bloccato” , o di una “carenza di moralità pubblica”, o di ambedue i fattori. “Gli interrogativi non mancano, — scrive — e l’indagine scientifica rinvia alla conclusione che un fattore rafforza l’altro, in una spirale continua, in un meccanismo unico, non esclusivo dell’Italia, ma dotato di connotati e peculiarità nazionali, per cui si può parlare di una caratteristica ‘combinazione italiana’, al cui centro si collocano fenomeni come il populismo e il clientelismo, una tecnostruttura mista — quella ‘burocrazia economica di natura imprenditoriale, o di natura parassitaria’ che si è venuta sviluppando nella penisola — influenza dei partiti e dei loro capi corrente. E una prima risposta sul terreno della storia economica e dell’analisi sociale. Emerge così un problema di identificazione delle radici, vecchie e nuove. Nell’immediato come nel medio periodo risaltano le forti tendenze collusivo-oligopolistiche delle imprese da un lato e del potere politico dall’altro, la voraci
tà del ceto di governo a livello locale e nazionale, Timmaturità civile delle classi dirigenti e l’assenza di un’etica interiorizzata e condivisa tanto al Nord come al Sud” . Un giudizio duro e che, tuttavia, a noi sembra tu tt’altro dello sfogo acre di uno spirito deluso: e, difatti, Santarelli, rilevando come nella “repubblica democratica fondata sul lavoro” , la continuità dello Stato non manchi di contrapporsi alla continuità del movimento suscitato dalla repubblica uscita dalla Resistenza “in una lunga lotta intessuta di conquiste e di ripiegamenti”, con controffensive efficaci, nel 1953, nel 1960, “persino nei drammatici anni settanta”, individua una cesura nel ciclo della vicenda repubblicana ma non un’interruzione del flusso di spinte e di energie verso il cambiamento; e chiude le sue pagine con l’incitamento raccolto da Piero Calamandrei sulle labbra di Alcide Cervi: “Non c’è tempo da piangere. Bisogna continuare. Dopo un raccolto ne viene un altro” . Auspicio cui può darsi gli avvenimenti seguiti alla congiuntura italiana nella quale Santarelli chiudeva la sua fatica possano fornire qualche motivo di ulteriore conforto.
Mario Giovana
Viaggio in archivio
Maria Maiatesta
Il viaggio come metafora della ricerca intellettuale e della formazione è una delle figure retoriche più fortunate e maggiormente diffuse nella letteratura e nel linguaggio delle scienze umane. Isabella Zanni Rosiello la riprende per farne l’ossatura di quella che di primo acchito si presenta come una guida rivolta agli studenti e agli apprendisti storici in procinto di compiere il loro primo grand tour in archivio. La metafora, già implicita nel ti
tolo (Andare in archivio, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 230, lire 20.000), ritorna nelle pagine del volume a ricordare il significato della ricerca storica, il suo essere una grande avventura intellettuale, ma anche i rischi che questa avventura comporta. L’autrice mette continuamente in guardia il turista sprovveduto sui pericoli nei quali può incorrere, sulle incognite che può incontrare addentrandosi nella terra sconosciuta dell’archivio.
586 Rassegna bibliografica
Un viaggio senza mappe e senza istruzioni può essere foriero, invece che di esaltanti scoperte, di feroci delusioni. Quale guida più qualificata di Isabella Zanni Rosiello, direttrice per molti anni dell’archivio di Stato di Bologna ed insigne studiosa, per indirizzare il viaggiatore inesperto? Andare in archivio è dunque un Baedeker per la ricerca archivistica, costruito in modo rigoroso seguendo un triplice criterio di orientamento: spiegare la struttura dell’archivio sia dal punto di vista materiale che, soprattutto, dal punto di vista concettuale per aiutare il neofita a interrogare la documentazione in modo pertinente; ricostruire, onde facilitare la ricerca, la mappa variegata della conservazione del materiale archivistico, sparso in centinaia di istituzioni pubbliche e private; introdurre alla pratica della ricerca mostrando con numerosi esempi la corretta utilizzazione degli strumenti fondamentali di mediazione tra lo studioso e la documentazione nascosta, ossia gli inventari.
Si diceva che questa è apparentemente una guida alla ricerca archivistica per storici in erba. Il libro è in realtà molto di più e il lettore meno ingenuo coglie, al di là della precettistica indirizzata al neofita, il “meta-libro” , il dialogo che l’autrice intrattiene con gli addetti ai lavori. La guida è così una riflessione ampia e complessa (ma svolta tutta sul filo della concretezza, riconducendo ogni discorso teorico alla pratica del confronto con le carte d’archivio) sulla ricerca storiografica e sul mestiere di storico.
Il libro si apre con un’osservazione che testimonia della “laicità” dell’autrice: la ricerca storica può essere fatta anche senza ricorrere alla documentazione archivistica e l’assenza della ricerca d’archivio non preclude il raggiungimento di risultati originali. Questa affermanzione, pronunciata da chi ha dedicato un’intera esistenza agli archivi, è doppiamente significativa. Zanni Rosiello ridimensiona il mito “classico” dell’archivio inteso come fondamento e strumento di identificazione del lavoro dello storico; sottrae
la ricerca storica a quella che Gérard Noiriel ha definito la “ tirannia dell’archivio” alludendo al ruolo determinante che questo ancora oggi occupa alfinterno della storiografia delle “Annales” nella definizione dell’oggetto e dei metodi di ricerca (G. Noiriel, Pour une approche subjectiviste du social, “Annal ESC”, 1989, p. 1.442). Ma riafferma al tempo stesso la peculiarità della fonte archivistica, essa sola in grado di fornire notizie e informazioni impossibili a reperirsi altrove. La documentazione archivistica non è la sola a cui il vero storico può rivolgersi, ma certo ha una specialità che la rende unica: il suo legame profondo e indissolubile con le istituzioni che l’hanno prodotta. Il lavoro di decodificazione che lo storico deve compiere per utilizzare in modo pertinente le informazioni contenute nelle fonti archivistiche sta tutto nella sua capacità di comprendere il passaggio dalla documentazione prodotta dall’istituzione (la “memoria-documentazione”) a quella intesa come “memoria-fonte” .
Quando l’autrice raccomanda di non cercare in archivio le materie ma le istituzioni, non si rivolge solo agli studenti, ma anche a quei docenti distratti che non li istruiscono adeguatamente agli inizi della ricerca per stilare la tesi di laurea e a quegli storici, spesso altrettanto distratti, che interpretano il lavoro archivistico come trascrizione piuttosto che come elaborazione ed organizzazione delle informazioni dal modo di produzione originario alla loro utilizzazione in sede storiografica. Allo stesso modo Zanni Rosiello sottolinea con insistenza l’importanza di un uso professionale degli indici e dei repertori e ribadisce per converso la necessità che il fruitore degli archivi ricorra con intelligenza all’aiuto degli archivisti, evitando di servirsi di costoro per supplire alla propria incompetenza o per accondiscendere alla propria pigrizia.
L’altro assunto che attraversa tutto il volume è il nesso che intercorre tra la ricerca e
Rassegna bibliografica 587
il tempo. Il lavoro di scavo archivistico non è un bene di consumo che si brucia rapidamente. E una pratica terribilmente fuori moda, che richiede assenza di fretta e tempi lunghi. Anche in questo caso il discorso è duplice. Se l’autrice si rivolge in modo esplicito agli studenti sconsigliando loro di affrontare argomenti troppo ampi, il messaggio è implicitamente rivolto anche a quegli studiosi che hanno trasformato i tempi lunghi e meditativi della ricerca storica in sequenze brevi e convulse totalmente dipendenti dalla congiuntura del presente.
Questa guida può dunque considerarsi come un avvio al professionismo della ricerca storica, nel quale la tradizione dei grandi storici del Novecento, che Fautrice cita a più riprese, si coniuga con il mestiere dello storico così come si è definitio negli ultimi decenni, che si avvale di una molteplicità di fonti sconosciute o poco praticate in passato. Il secondo capitolo del volume costituisce una vera e propria cartografia della documentazione archivistica, arricchita da un apparato bibliografico che rappresenta un’autentica miniera di informazioni per orientarsi nella complicatissima disseminazione a cui sono soggette le fonti archivistiche nel nostro paese. Ed è proprio in questo secondo capitolo che prendono corpo i profili ideali dello storico (che coniuga la tradizione del rigore professionale con la modernità della dilatazione delle fonti) e dell’archivista.
Aperto anch’esso alla dilatazione dei processi di costruzione della memoria storica, al moltiplicarsi della materialità documentaria, quest’ultimo tende a rivendicare il primato dell’archivio pubblico sulla disseminazione degli archivi privati. L’autrice parla esplicitamente della sfiducia che in molti casi, soprattutto all’interno della cultura di sinistra, uomini e istituzioni hanno manifestato nei confronti degli archivi pubblici, preferendo conservare in ambito privato importanti complessi documentari piuttosto che consegnarli alle istituzioni deputate a questo scopo dallo Stato. Archivisti e storici devono costruire nel futuro un dialogo più aperto e lavorare assieme al rafforzamento delle istituzioni pubbliche, contenendo in questo modo la proliferazione di un sistema di archivi parallelo a quello degli archivi di Stato.
La sottolineatura dell’importanza degù archivi di Stato e dell’opportunità di potenziarli nella direzione di un modello conservativo alla francese, piuttosto che accentuare ulteriormente quel particolarismo che da secoli caratterizza la sedimentazione della memoria storica italiana, corre lungo tutto il volume rendendolo ancor più stratificato e allusivo. Piacevolissimo dal punto di vista stilistico e stimolante per le sollecitazioni intellettuali che contiene, la sua lettura è caldamente consigliata anche a quegli storici che proprio in erba non sono più.
Maria Malatesta
Storia generale e di altri paesi
M a u r i z i o V i r o l i , Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. XII-220, lire28.000.
Storici e politologi, per non parlare dei politici, si sono spesso
sforzati di tracciare una netta distinzione fra patriottism o e nazionalismo. D opotutto la devozione alla “patria” ha ispirato tanto l’esclusivismo illiberale di Mussolini e delle squadre fasciste quanto il liberalismo pluralistico dei democratici del Risorgimento. L’autore di questo saggio raffinato e stimolante, dedicato a
N orberto Bobbio, è ben consapevole di queste difficoltà e tuttavia sostiene che si possa e anzi si debba tracciare una distinzione netta fra il patriottismo, basato su una visione politica della nazione come comunità di eguali, e il nazionalismo, la cui premessa è invece l’idea della nazione come entità culturale eterna.