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18 19 RAID IN MAROCCO IL MAROCCO è UN PAESE DA MOTO! NE HO PERCORSE DI STRADE IN GIRO PER IL MONDO, MA UNA CONCENTRAZIONE DI AMBIENTI E OCCASIONI COSì FELICI NON HANNO PARAGONE: CI TROVI UNA TALE VARIETà DI SITUAZIONI RACCHIUSE IN DISTANZE TUTTO SOMMATO CONTENUTE, SPENDI POCO, LA GENTE è FANTASTICA E NON MANCA LA STORIA! PARTE DOSSIER MAROCCO [PRIMA PARTE] ...E NON SOLO! TIMMY THE RED

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RAID IN MAROCCO

Il Marocco è un Paese da Moto! ne ho

Percorse dI strade In gIro Per Il Mondo,

Ma una concentrazIone dI aMbIentI e

occasIonI così felIcI non hanno Paragone:

cI trovI una tale varIetà dI sItuazIonI

racchIuse In dIstanze tutto soMMato

contenute, sPendI Poco, la gente è

fantastIca e non Manca la storIa! •

parte

dossier Marocco [PrIMa Parte]

...E NON SOLO!

timmy the red

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cultura moresca plurimillenaria è ancora viva: nelle medine di fés e Marrakech ci vivono come mille anni fa, le uniche eccezioni sono le parabole sui tetti e la luce elettrica,

ma sono differenze impercettibili all’interno delle strette viuzze, dove l’asino resta ancora il mezzo di trasporto più efficace. se poi pensiamo alle strade, devo rimarcare che ho trovato più buche sulla e45 che in tutto il Marocco e, nonostante la continua presenza di animali ai lati della via, non ci sono pericoli di sorta, basta un minimo di rispetto e attenzione. la prima volta in questo Paese si corre il rischio di restare confusi e frastornati dalle continue bellezze e sorprese incontrate: meglio programmare un giro limitato, magari evitando le grandi città, in modo da sintonizzarsi bene con l’ambiente così da poterle affrontare in un’altra occasione, già rodati e preparati. al limite, ne basta una: Marrakech. da udine a genova, per salire sul traghetto alla volta di tangeri assieme ai due amici Mau e dan, è un attimo. Più problematiche sono le operazioni d’imbarco e la gran ressa di marocchini in rientro determina un primo contatto non proprio confortante. I due giorni di traversata poi, tra la confusione delle centinaia di bambini che s’intrufolano dappertutto, bottiglie e cartacce sparse dovunque e l’odore di carne cucinata alla buona lungo i corridoi, non costituiscono certo una piccola crociera, come mi ero immaginato prima della partenza. Molto emozionante si è rivelato il momento in cui, lontano a prua, sono apparse le Colonne d’Ercole, non ci avevo proprio pensato a quest’opportunità. Mentre la nave si avvicinava e la luce diventava sempre più forte, quasi accecante,

cercavo di figurami l’impatto che poteva avere questo posto magico nell’antichità, per quegli ardimentosi navigatori a bordo delle loro esili imbarcazioni in rotta verso l’ignoto: pura avventura! le operazioni di sdoganamento risultano lunghe e frustranti, ma i pochi chilometri per arrivare dal porto all’alberghetto sul mare nelle vicinanze di Ceuta, bastano a ripagarci dei disagi subiti: una strada tra rocce multicolori, con visioni mozzafiato e curve formidabili alla luce magica del tramonto marocchino, è l’antipasto spettacolare di ciò che ci aspetta. le pale eoliche non disturbano più di tanto e nemmeno i poliziotti ai numerosi posti di blocco incontrati lungo la via. la serata con cena sul lungomare al chiaro della luna piena ci carica di entusiasmo: siamo pronti ad affrontare l’impresa. al quarto giorno di viaggio, praticamente il primo in Marocco, ci aspetta il trasferimento fino a Fés, una delle quattro famose città imperiali. Per i quasi trecento chilometri previsti attraverso il Rif, una zona di colline, altipiani e media montagna, ci vogliono cinque ore, compresa una breve sosta a chefchaouèn, la città azzurra, così chiamata per il ricorrente colore usato sia sulle imposte sia sui muri delle case. Pare che l’azzurro serva a tenere lontani gli insetti, ma in tutto il Marocco c’è solo qualche mosca ogni tanto, e non ho mai rilevato traccia di zanzare e moscerini ad infastidire il riposo, mica come da noi! Il cielo invece è popolato da una moltitudine di volatili, aironi, oche e anatre volanti (le flying ducks) e soprattutto cicogne, ecco perché i marocchini hanno così tanti bambini… I minareti non sono come quelli turchi o quelli dei balcani, snelli e appuntiti: sono costituiti da torri squadrate, a volte con merli, sormontate da una piccola cupola

rientrante, più o meno pronunciata, e spesso molto colorati. uguale invece resta il lamentoso canto del muezzin che invita la gente alla preghiera nelle varie ore della giornata. a me pare che se ne infischino del tutto, ma forse mi lascio ingannare da un approccio troppo superficiale, però… la strada verso sud si snoda su dolci declivi tra campi appena mietuti; i colori predominanti sono il giallo-ocra e il verde: un bel contrasto sotto all’azzurro di un cielo terso all’inverosimile. si vedono innumerevoli greggi al pascolo e asinelli stracarichi che seguono tristi e lacrimosi i loro padroncini e padroncine verso casa. la gente certo non naviga nell’oro, pare vivano di un’economia agro-pastorale di pura sussistenza. le banchine in terra battuta ai lati della strada sono ben larghe e hanno molteplici funzioni: marciapiede, sentiero per gli asini, pista ciclabile, emporio improvvisato di vari generi e anche officina per le numerose auto ferme in panne. le donne, in questa regione, portano festosi e variopinti cappelli di paglia a tronco di cono. è un contesto rasserenante e ti dà la sensazione di come potevano vivere un tempo le nostre nonne, prima dell’avvento della civiltà industriale e del boom economico. l’impatto con Fés invece è scioccante, il traffico è disordinato e irrispettoso: nonostante l’ora pomeridiana, c’è grande frenesia e non è facile raggiungere l’albergo. naturalmente rifiutiamo l’aiuto dell’immancabile ragazzo in motorino che ci segue e ci assilla a lungo, ma forse sarebbe stato meglio assecondarlo, tutto sommato, magari chiedendogli di farci strada all'albergo dietro compenso: ci avremmo messo sicuramente di meno. Per una visita alla città, invece, meglio affidarsi a una guida ufficiale che parla l’italiano.

una scelta felice, in quattro-cinque ore riesce a offrirci il meglio della medina e del suq, comprese le famose concerie a cielo aperto: ciò che di più vicino a un girone dell’inferno dantesco abbia mai visto sulla terra. ci concediamo una buona cena in un ristorante tipico tra un turbinio di rondini allegre e chiassose e delicato profumo d’incenso. Poi a letto presto: l’indomani abbiamo in previsione una lunga tappa verso sud. Poco dopo l’uscita dalla città, e una sosta carburante presso un distributore servito da addetti premurosi e gentilissimi che, dopo il pieno, mi riconsegnano le chiavi e la moto perfettamente ripulita, affrontiamo le prime propaggini del Medio Atlante. Il clima è perfetto, ma sulla strada il puzzo degli scarichi risulta davvero fastidioso. Mi dico che il percorso in salita, probabilmente, mette in difficoltà gli scassatissimi mezzi circolanti, ma se all’inizio corriere e camion imperversano, più saliamo più si diradano, e allora come mai persiste questo forte odore di scarico? In un bel punto panoramico ci fermiamo per qualche foto e ne approfitto per chiedere agli altri se anche loro percepiscono il mio stesso fastidio. tutti, compresa mia moglie, non trovano che sia così tragica, anzi, dicono che in città era ben peggio. In verità anch’io ora non sento puzza, ma appena riprendiamo la corsa eccola di nuovo! Prima della cittadina di Azrou, deviamo per la strada secondaria che porta alla grande foresta dei cedri: un ambiente alpino dove non passa quasi nessuno, solo asini e muli, ma la puzza persiste. a questo punto mi rendo conto che il fatto non può ricondursi a residui di scarico e comincio a preoccuparmi per qualche probabile perdita di carburante. dopo aver fatto

un cenno agli altri, che appaiono anche un po’ seccati da questa mia ossessione, mi fermo per un ormai irrinunciabile controllo. esamino la moto da tutte le parti, sopra e sotto, senza trovare alcunché di anomalo, tanto meno il solito nauseabondo odore che, ormai da parecchio, mi stava assillando e tormentando. cosa può essere allora? Pochi secondi di riflessione e poi l’illuminazione: controllo il serbatoio e infatti il benzinaio non mi aveva chiuso bene il tappo. ecco perché! risolto brillantemente l’insulso problema, si riparte di buon umore per l’incontro con le scimmie della foresta, che appaiono abituate alla presenza umana e si lasciano avvicinare senza timore. osserviamo l’enorme scheletro del famoso cèdre gouraud, il plurisecolare cedro ormai desolatamente defunto e, dopo qualche scambio di battute con dei ragazzi a cavallo, proseguiamo per qualche chilometro su di un agevole sterrato, fino a rincontrare la nazionale 13. Il resto del viaggio verso sud, su e giù dall’atlante, rimane una delle più belle giornate da moto che ricordi, tra maestose aquile, fioriture coloratissime, paesaggi bucolici, poco traffico e un clima caldo ma secco che non mette mai a disagio. tutto prosegue alla grande attraverso le scenografiche gole dello ziz fino a sera quando, grazie a una felice intuizione di dan, troviamo da dormire in un vero e antico caravanserraglio, all’interno di una grande oasi lungo il corso asciutto del fiume. Il posto mi pare si chiami Kar-el-Jdid ed è stata un’esperienza piena, emozionante, viva. l’accoglienza della famiglia che ci ospita nel caravanserraglio è davvero amichevole: appena arrivati, mentre il simpatico aziz, il marito, ci offre l’immancabile tè alla menta, la moglie piazza subito

nel forno di terracotta il pane e si danno da fare per prepararci una tipica cena di tajine, tanto buona quanto abbondante. la pulizia non è il massimo, ma l’ambiente è davvero affascinante. di notte, spente le poche luci del patio, è bello restare in silenzio ad ammirare le stelle del deserto così vicine, così brillanti: non avevo mai visto tanto distintamente il Piccolo carro prima d’ora.la gente è cortese e disponibile e il conto alla fine è modesto: meno di cento euro per tutti e quattro, compresa una discreta prima colazione con caffé, uova sode, pane, marmellate, miele e calde crêpes appena sfornate. l’indomani, mentre si esce a fatica con le moto stracariche dall’antica porta di accesso al caravanserraglio realizzata a misura di dromedario, ci aspetta un breve tragitto fino a Merzouga, ai piedi del famoso Erg Chebbi che spesso ho visto nei servizi televisivi sulla Parigi-dakar di anni ormai lontani. si tratta di una formazione di dune di sabbia finissima dal colore rosato che si erge inconfondibile sull’infinita pietraia desertica. sulla strada verso sud, l’ultimo tratto asfaltato prima delle piste carovaniere, soffia un forte vento trasversale che, oltre a sollevare nubi di polvere, trascina la sabbia sulla pur buona carreggiata. non che la corsa diventi pericolosa, ma certo nemmeno troppo agevole. Meno di centocinquanta chilometri ci separano dalla meta, raggiunta dopo aver attraversato un paio di paesotti dove, per la prima volta, ho la sensazione di trovarmi davvero in africa. Il colore della pelle è generalmente più scuro e i tratti somatici richiamano ricordi di schiavi e negrieri. anche le costruzioni sono diverse, sanno proprio di continente nero. a seguito della notorietà acquisita

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grazie alla Parigi-dakar, ai piedi dell’erg chebbi sono sorti una miriade di ryad: piccole e grandi attrezzature turistiche costruite in stile tradizionale, con qualche particolare un po’ kitsch, ma dove l’accoglienza è sempre buona e il servizio discreto, alle volte fin troppo tranquillo. ci sistemiamo in un ryad a caso proprio ai piedi della grande duna di sabbia rosa. un rosa cangiante che sfuma dal grigio all’ocra a seconda dell’ora del giorno e della luce del sole: uno spettacolo meraviglioso. la sera dopo cena, i ragazzi che gestiscono la struttura improvvisano un happening musicale nel loro stile tradizionale. I ritmi risultano martellanti, ossessivi, e tutti loro paiono colti da un’estasi mistica mentre pestano sui tamburi e agitano le nacchere agghindati con turbanti e tuniche dai soliti colori sgargianti. si scambiano i ruoli improvvisando in un trascinante crescendo. essere coinvolti in questa specie di macumba è naturale, non se ne può proprio fare a meno. ci sono solo altri due ospiti, ma loro se vanno quasi subito. dopo il “concertino” mi rivolgo a un giovanotto dai modi garbati congratulandomi per quella che mi è parsa una specie di sessione di free jazz, ma lui pare non gradire l’accostamento e mi guarda quasi indispettito. allora cambio argomento chiedendogli se tutti suonano così bene, lui conferma e mi assicura che per loro riunirsi a suonare è una cosa naturale e sentita: irrinunciabile per un buon berbero e imparano a farlo fin da bambini. l’indomani trascorriamo una giornata da turisti qualunque con una scorribanda per i luoghi più significativi dei dintorni: una miniera a cielo aperto che pare una fornace, i laghi salati, un giacimento di fossili che ci vede a lungo impegnati nella raccolta,

un pozzo dove aiutiamo due ragazzi nella pulizia dall’insabbiamento e un accampamento di una famiglia di berberi seminomadi in pieno deserto dove, come al solito, veniamo accolti con garbo e disponibilità. una volta tolte le scarpe e accomodati sui tradizionali tappeti, ci offrono tè alla menta e pane appena sfornato nell’attiguo fumoso locale destinato alla cottura dei cibi. così anch’io ho bevuto il mio tè nel deserto. siamo ormai molto vicini al confine con l’Algeria e c’è pure un avamposto militare seminascosto tra le rocce a sorvegliare la zona, si sa che tra marocchini e algerini non corre buon sangue. verso sera, prima di cena, mi aggiro da solo tra le casupole del vicino villaggio per addentrarmi meglio nella realtà del posto: sono autentiche vecchie case di paglia e fango e nel cortile spesso soggiornano tranquilli pelosi dromedari. Memore degli avvertimenti e raccomandazioni dei giovanotti del ryad, sono deciso a non comprare niente dai bambini locali. dopo qualche passo un ragazzino mi avvicina cercando di vendermi un passerotto evidentemente appena catturato nel suo nido; resisto e passo oltre, salvo pentirmene subito dopo: avrei potuto benissimo comprarlo per poi liberarlo da qualche parte. così, pentito, abbacchiato e preso dal rimorso, non posso fare a meno, poco dopo, di comprare una banale collanina da un altro che mi avvicina appena entro nel “suo” territorio. gli offro cinque dihram, i soldi marocchini, e sulle prime appare tutto felice, poi si pente e mi assilla perché ne vuole degli altri, ma non ho spiccioli e così sono costretto a trascinarmelo dietro implorante e piagnucolante fino al ryad. non appena varco la porta cambia atteggiamento lanciandomi torbide

occhiate e quelli che mi paiono evidenti insulti. l’indomani infatti è ancora l’alba quando dalla finestra lo vedo in minacciosa attesa, fuori dal portone del cortile, dove abbiamo parcheggiato le moto. Mi metto il cuore in pace, mi faccio passare altri cinque dirham da mia moglie e così me la cavo dignitosamente mentre la sua faccia torva, con quei pochi soldi in mano, si trasforma miracolosamente in un affascinante sorriso sdentato. e poi giù batti un cinque di qua, battine un altro di là, Vive l’Italie e io che ero contento quanto e forse più di lui. e siamo al settimo giorno che ci vede pronti a partire di buon’ora da Merzouga mentre si alza una vera tempesta di sabbia. ne usciamo con qualche lieve difficoltà e con la mia macchina fotografica rovinata dopo un velleitario tentativo di ripresa in corsa. ora dovremo usare solo quella di scorta e meno male che c’è! la meta della giornata sono le Gorges du Todra e, se ce la facciamo, pure quelle del Dadès. la strada secondaria da Erfoud a Tinejdad è quanto di meglio per andare in moto tra paesaggi spettacolari e un percorso sinuoso, ma non difficile, che invita a danzare allegri tra le curve. Incontriamo numerose vecchie kasbah dal colore rosso scuro, ancora abitate e spesso ben conservate. Il mezzo di trasporto più diffuso (oltre all’asino) è la bicicletta, pare di essere ad amsterdam, in un certo senso. Proprio all’incrocio con la nazionale 10, ci fermiamo brevemente al locale di hamid dove assaporiamo “la migliore spremuta di arance a sud dell’atlante”, come lui afferma perentorio e come noi possiamo confermare. non si possono descrivere la bellezza e le sensazioni provate su è giù per le strade delle gole, bisogna proprio percorrerle direttamente per capire. dico che sono ambienti e paesaggi che non

hanno nulla da invidiare al selvaggio West, al verdòn, alla turchia e quant’altro visto prima. anche l’insistenza dei ragazzini nel cercare di venderti qualcosa mentre ti fermi nei punti più significativi, non è poi così insopportabile e ogni tanto non puoi proprio fare a meno di acquistare qualcosa che poi magari butti via perché non sai più dove piazzarla sulla moto. Prima del rientro io e Manu prolunghiamo la corsa su un’impervia strada incorniciata dagli oleandri che s’inerpica su montagne altissime e maestose, quelle che ti danno la sensazione dell’infinito e ti aprono l’anima. sostiamo un momento nella località montana di Msmenir quando il sole volge ormai al tramonto e poi prendiamo la strada del rientro sul far della sera osservando le abitudini locali: i giovani maschi vanno a zonzo per le strade tutti tirati a fino mentre gli anziani sono intenti a far niente seduti dove capita. solo le donne, imbacuccate nei loro veli sgargianti, si danno da fare: sono impegnate nei piccoli campi o a rincasare col fascio d’erba per la capretta. alle volte lo portano sulla schiena, alle volte sul dorso del triste asinello al seguito. tutte loro non amano essere ritratte e si voltano sdegnate alla vista della macchina fotografica. Per cenare e dormire troviamo un alberghetto in posizione panoramica in uno dei punti più belli delle gole. non hanno un posto chiuso per le moto e li convinciamo, senza fatica, a farcele depositare nell’ingresso, dato che lo spazio non manca. In questa zona probabilmente sono più abituati al turismo tradizionale e l’atteggiamento degli addetti, sempre e solo uomini, non è così pronto ed efficace come nei giorni precedenti. hanno un fare svagato e indolente come di chi lo fa per forza. rinfrancati

da una bella dormita e da una robusta prima colazione, l’indomani, domenica, ci avviamo verso Marrakech lungo la Vallée du Dadès. facciamo sosta nella località di Aït Ben Haddou: un’antica città di scura terracotta che si staglia sul giallo chiaro delle rocce alle spalle, e pare finta, talmente è perfetta nella sua armonia costruttiva. è un sito spesso utilizzato per riprese cinematografiche e che ricordo benissimo di aver visto in qualche film (compreso Il Tè nel Deserto), molti anni addietro. d’altronde, la vicina città di Ouarzazate vive quasi esclusivamente di cinema e del suo indotto legato al turismo cinematografico. Per arrivare al passo Tizi n' Tichka, a quota 2.260 metri, ci mettiamo meno del previsto. nella zona di Telouet è come fare un salto indietro nel tempo, in un ambiente primordiale dove la natura e i ritmi stagionali la fanno da padrone, sui tetti dei radi villaggi che attraversiamo sono rare anche le parabole satellitari. ci sentiamo i protagonisti di un film. la discesa dal tizi n' tichka è tortuosissima: mi pare la strada di un passo alpino e infatti incontriamo anche qualche ciclista locale in allenamento, cosa che non mi sarei aspettato in Marocco. verso sera arriviamo in città e troviamo senza grossi problemi l’albergo cercato, proprio fuori le mura della medina. l’impatto col traffico serale di Marrakech è traumatico: nei pressi della famosa piazza “dell’adunata dei morti”, attraversare la strada costituisce un’avventura spericolata per chi non ci è abituato. a creare l’estrema confusione sono soprattutto le migliaia di fumose motorette che sfrecciano senza alcun riguardo per nulla e nessuno. Pare impossibile che non accadano incidenti ad ogni passo, eppure… anche

l’approccio alla piazza, il cui nome arabo è Jemaa el-Fna, risulta sconvolgente: dopo pochi passi mi sono ritrovato con un giallo serpentaccio sulle spalle e un tipo nero che pretendeva dei soldi per il servizio! con le mani ben strette su borse e portafogli cerchiamo di adattarci e cogliere lo spirito estremo del sito, ma non è facile al primo impatto. ceniamo nei caratteristici chioschi (un’esperienza da provare assolutamente) e poi vaghiamo qua e là tra saltimbanchi, giocolieri e suonatori col timore che va sempre più scemando a favore di una vaga allegria e senso di sfida. l’indomani ci avventuriamo nel suq un po’ timorosi e veniamo subito agganciati da una presunta guida ufficiale che almeno parla bene l’italiano. Il tipo appare in gamba e noi non abbiamo tempo da perdere, così ci affidiamo fiduciosi a questo Mustafà che promette di portarci in giro senza farci spendere… hai voglia! con grande classe e mestiere, negli antri del suq, riesce a spillarci una cifra mostruosa per quelle latitudini, ma le nostre mogli sono felici e, tutto sommato, anche questo fa parte del gioco. Il suq di Marrakech non è all’altezza di quello di fés, secondo me, ma non ci va distante. la madrasa, una sorta di tempio-seminario islamico, che visitiamo in tutti i suoi angoli più reconditi, è splendida, come pure certi prodotti dell’artigianato locale che, purtroppo, possiamo solo ammirare. alla seconda sera, sulla grande piazza, ci sentiamo quasi di casa e guadagniamo presto un tavolino sulla terrazza panoramica del famoso bar le grand balcon du café glacier, dove all’entrata ti fanno già pagare la consumazione obbligatoria. da lì si può ammirare la frenetica vita di sotto, col sole al tramonto: uno spettacolo unico!

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