Raffaele Sciortino E c i i E b d - Asterios

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Raffaele Sciortino Eurocrisi Eurobond Lotta sul debito Asterios FOGLI INSTANT 2 Uscire dalla crisi “dal basso, a sinistra” Impaginato Eurobond:Indignatevi 06/10/11 16.14 Pagina 1

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Raffaele Sciortino

EurocrisiEurobondLotta sul debito

AsteriosFOGLI INSTANT 2

Uscire dalla crisi “dal basso, a sinistra”

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Indice1. L’epicentro della crisi, 5

2. Debito sovrano in Europa e risvolti geopolitici, 62.1 L’avanscena del galletto Sarkozy, 62.2 Un “deciso cambio di direzione”, 7

3. Qual è la posta in palio?, 84. I possibili passaggi, 10

4.1 La svalutazione dei capitali fittizi, 104.2 Una guerra finanziaria con morti e feriti, 12

5. Finanziarizzazione in salsa europea, 135.1 Le opzioni strategiche, 145.2 Il patto sta saltando, 15

5.3 Gli Eurobond, 166. Un’uscita dalla crisi “dal basso, a sinistra”, 18

6.1 La lotta al debito, 197. Il terreno inedito di un diverso modello

di sviluppo e di politica, 21

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Prima edizione: novembre 2011Asterios Editore è un marchio editoriale della

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Dunque il contagio si diffonde. Con buona paceper chi si credeva in qualche modo immunizzatosi è passati in poco tempo al default di fatto dellaGrecia, al rischio fallimento sui debiti sovrani dipesi medi come Spagna e Italia, ai dubbi sulla te-nuta delle banche francesi e negli ultimi giorni aun principio di panico nelle borse. Ma col conta-gio, e relative manovre, si è anche iniziato a di-scutere di debito e default, e non solo tra gli“esperti”. Mentre dall’alto vengono riproposte lestesse ricette alla radice della crisi, in basso ci siinizia a interrogare non solo sui costi sociali del-l’economia del debito ma anche su come si è pro-dotto, chi ci guadagna, dove ci sta portando, e quae là affiora il dubbio se è giusto pagarlo o comun-que se sostenerne i costi non significa alimentareil male piuttosto che guarirlo.1 Intanto sia l’euroche l’Unione europea, a differenza di un anno fa,appaiono oggi seriamente a rischio.

1. Vedi soprattutto gli interventi di Andrea Fumagalli, cui va il merito

di aver sollevato la questione, e Guido Viale e, a livello di movimenti, il

dibattito interno alla lotta NoTav dopo la giornata del tre luglio.

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Il contaggio si difonde.Il dubbio affiora.è giusto pagarlo?

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Proviamo allora a mettere a fuoco – sotto formadi ipotesi in sequenza – il quadro d’insieme in cuipuò darsi una lotta sul terreno del debito, non inastratto ma dentro le molteplici linee di fuga e discontro dell’attuale passaggio della crisi, come re-sistenza ma anche come potenziale prospettivacostituente.

settembre 2011

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1. L’epicentro della crisi

L’epicentro della crisi globale restano gli Sta-tes. L’incredibile iniezione di liquidità di questianni da parte della Federal Reserve, da ultimocon il cosiddetto quantitative easing 2, se è ser-vita a evitare fin qui un nuovo grande tracollo diborsa e fallimenti a catena nel sistema bancariostatunitense zeppo di cattivi crediti, non è peròstata in grado di rilanciare la ripresa produttivae tanto meno i consumi. Il giochino riuscito aBush dopo lo scoppio della bolla dot.com e sul-l’onda dell’undici settembre non è riuscito aobama. Il punto è che nonostante l’accorcia-mento della leva finanziaria (deleveraging) dalfallimento della Lehman in poi c’è ancora troppodebito, a tutti i livelli: pubblico, federale statalemunicipale, e privato, finanza imprese famiglie!Con un debito così alto e diffuso niente ripresa,ma senza stimoli monetari, tassi sotto zero e dun-que ulteriore indebitamento con l’estero i guai sa-rebbero ancora maggiori: ecco l’impasse che laFederal Reserve continua a spostare inavanti.2 L’amministrazione obama arriva dun-

2. Con una nuova iniezione di liquidità sui titoli statali ribattezzata Twist,

anche se crescono i dissensi interni e per le borse l’entità dell’intervento

pare insufficiente.

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que a quella che potrebbe essere una seconda re-cessione, il temuto double dip, o comunque unastagnazione di fatto, con munizioni in gran partegià sparate mentre il clima politico interno volgeal peggio, come si è visto dallo scontro sull’innal-zamento della soglia del debito federale e dalladecisa virata obamiana verso una politica di taglialla spesa sociale (maldestramente camuffatadalla “minaccia” di far pagare un tantino di piùanche i ricchi).

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2. Debito sovrano in Europae risvolti geopolitici

Questo quadro è l’antecedente immediato dellaprecipitazione della crisi del debito sovrano inEuropa, e non senza un risvolto geopolitico nonsecondario.

2.1. L’avanscena del galletto Sarkozy

Partiamo da quest’ultimo. In Libia Washington haottenuto al momento due importanti risultati. Daun lato, ha sfruttato abilmente gli spazi apertisicon la primavera araba per accelerare il pro-gramma di regime change dei regimi “dittato-riali” (ma solo quelli scomodi) e bloccare laradicalizzazione dell’ondata di rivolte che ha sa-puto rovesciare dal basso e senza ambigui “aiutiumanitari” i propri despoti. Dall’altro, ha dato unsonoro schiaffo a Cina e Russia e diviso l’Europa

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entrando decisamente in un’area d’influenza fon-damentale per la politica energetica. Lasciandol’avanscena al galletto Sarkozy nel ruolo di utileidiota – qualcuno ha già ribattezzato questa stra-tegia leading from behind – obama ha ribaditoche sul terreno militare gli Stati Uniti non hannorivali e per questo sono gli unici possibili garantidell’“ordine” globale. Avrà qualcosa a che faretutto ciò con la ripartizione dei costi dell’econo-mia del debito?

2.2. Un “deciso cambio di direzione”

Ma è con la crisi del debito sovrano dei paesi pe-riferici dell’area euro e il rischio serio di cortocir-cuito con i bilanci delle banche europee cheappare in tutta evidenza come sia in atto unoscontro a più livelli sui mercati finanziari e permezzo di essi. Non è solo che il livello dei deficitdi Stati Uniti e Gran Bretagna, per non parlaredel Giappone, è di gran lunga più critico di quellodella media e comunque dei paesi centrali dellaUe, ragion per cui la “razionalità” della finanza el’obiettività delle agenzie di rating appaiono al-quanto recondite. Ma vengono sempre più alloscoperto anche manovre e strategie degli attori ingioco, e non può esservi dubbio sul fatto che adavere l’iniziativa siano i grandi fondi speculativie monetari anglosassoni che hanno iniziato a gio-care pesantemente contro l’euro coadiuvati dalleautorità statunitensi. La pressione – oltre che sulsistema bancario europeo3 – si è fatta particolar-mente forte sul governo tedesco. Un monito si-

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gnificativo e quanto mai esplicito è venuto da La-wrence Summers che a luglio ha chiesto all’Eu-ropa un “deciso cambio di direzione” a rischio didoverle dettare le condizioni e a Berlino in par-ticolare di garantire con le proprie risorse nuoveemissioni di debito dei paesi a rischio.4 Ci si è poimesso niente meno che Georg Soros a chiederealla Germania di difendere l’euro… dai mercati fi-nanziari (!) aumentando il fondo europeo di sta-bilità finanziaria (EFSF) e rassegnandosi allaprospettiva degli Eurobond (ci torniamo sotto).5

Da ultimo ha rincarato la dose il segretario del te-soro statunitense Geithner “autoinvitatosi” al ver-tice Ecofin in Polonia di metà settembre dove si èbeccato i secchi rimbrotti del ministro delle fi-nanze tedesco.6

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3. Qual è la posta in palio?

Tensione se non proprio scontro aperto sul pianofinanziario, linee divergenti di politica estera,

3. Vedi la recente bordata del Wall Street Journal che ha messo in dubbio

la capacità della banca d’investimenti francese BNp di finanziarsi in dol-

lari, causa l’esposizione ai titoli di stato europei a rischio, con conseguenti

secche perdite in borsa. Questo episodio viene dopo la decisione della

Federal Reserve di New York di aprire un’indagine sulla solvibilità delle

filiali statunitensi delle banche europee. Intanto la direttrice del FmI, co-

nosciuta come l’“americana”, chiede insistentemente la loro ricapitaliz-

zazione via EFsF o direttamente con l’intervento degli stati.

4. La Stampa, 19 luglio 2011, p.3.

5. Il Sole24ore, 12 agosto 2011.

6. Loose lips sink the euro?, The Economist, edizione online, 16 settembre

2011.

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dunque, principalmente tra Stati Uniti e Germa-nia. Qual è la posta in palio? Per Washington,all’immediato, evitare default “disordinati” conperdite reali per i fondi finanziari – che finorahanno sempre potuto contare sui salvataggi pub-blici ma d’ora in avanti rischiano anch’essi – epossibili reazioni a catena sull’intero sistema. Apagare il conto deve essere ora anche la finanzapubblica tedesca, ovvero: il “contribuente” e ilpercettore del welfare (in aggiunta, va da sé, aldrastico peggioramento delle condizioni di vitanella periferia europea che è un assunto condi-viso sia da Washington che da Berlino). Ne risul-terebbe da qui a breve deteriorata la capacità diraccolta sui mercati del “blocco tedesco” e au-mentata invece la forza di ricatto da parte deicentri del potere finanziario. In questo modo ibuoni del tesoro statunitensi continuerebbero arappresentare il “porto sicuro” per il risparmia-tore globale impaurito, permettendo la raccoltadi risorse finanziarie a tassi negativi o quasi concui tenere in vita un sistema bancario in stato co-matoso, mentre l’euro risulterebbe seriamenteindebolito come moneta mondiale di riserva senon alternativa almeno concorrente rispetto aldollaro. Soprattutto ne uscirebbe compromessain prospettiva ogni velleità tedesca (ed europea?)di politica economica più indipendente rispettoal partner atlantico e proiettata verso la direttriceRussia-Cina. La stessa Cina perderebbe di ri-flesso in contrattualità e vedrebbe rintuzzato il ti-mido (finora) tentativo di diversificazionerispetto al double bind con il mercato statuni-

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tense. Tutto ciò nell’ipotesi che la UE e l’euro reg-gano. Che se poi il contagio dell’Italia – un pezzotroppo grosso per poter essere salvato – o qual-che altro evento nell’eurozona dovessero portarea un incasinamento generale, allora l’euro e l’Eu-ropa sarebbero messi definitivamente fuori giocoe Washington potrebbe a quel punto minacciareo ricorrere a misure più drastiche anche nei con-fronti di Pechino7 (una monetizzazione del debitoà la Nixon?) e/o attivare una qualche terapiashock di scarico secco dei costi della crisi suglialtri soggetti sfruttando la rendita di posizionedovuta al ruolo di “garante sistemico”.

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4. I possibili passaggi

Non si tratta qui di rievocare un presunto nuovogrande gioco tra potenze imperialistiche all’inse-gna di anglofilia e antitedeschismo o viceversaantiamericanismo e simpatie euroasiatiche e viasproloquiando. La questione è di ben altra consi-stenza, politica e teorica, attiene alla natura dellacrisi in corso e ai possibili passaggi che ci stannodavanti.

4.1. La svalutazione dei capitali fittizi

I continui tonfi delle borse e i segnali pessimi a

7. Vedi il discorso molto aggressivo nei confronti della Cina tenuto lo

scorso agosto da Fred Bergsten, testa d’uovo del Peterson Institute, dal titolo

The United States in the World Economy (disponibile in rete).

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livello produttivo intensificatisi in questi giorniindicano una cosa ben precisa. Ci si approssimavelocemente, dopo tre anni di salvataggi chehanno caricato all’inverosimile i bilanci statalisenza però ripulire in maniera risolutiva quelliprivati, all’inevitabile presa d’atto che si deve ri-durre seccamente l’indebitamento complessivo.È indispensabile per la borghesia globale unaforte svalutazione di capitali rivelatisi “fittizi”(non solo “speculativi” ma anche di impresa, no-tare) che, oramai senza sottostanti adeguati a ga-rantirne la valorizzazione, riducono al lumicinole prospettive di profittabilità. Solo combinandoquesta svalorizzazione di capitali con quellacolossale svalorizzazione del lavoro e della coo-perazione sociale che sta dentro i piani di auste-rity oramai all’ordine del giorno, sarà forsepossibile riavviare la macchina del profitto ov-vero della “crescita”. E qui i due grossi problemi.Non sarà più possibile, per lo meno nella misuravista nella fase ascendente della finanziarizza-zione, compensare la caduta dei salari con un dif-fuso consumo (o anche solo speranza diconsumo) a debito: sapranno i piani alti, e questaclasse politica, affrontarne le conseguenze so-ciali? Ma soprattutto si pone con urgenza il pro-blema di chi sarà costretto a bruciare più capitalidegli altri, a cancellare crediti inesigibili, a per-dere pezzi del proprio sistema bancario, a rinun-ciare con ciò al corrispondente prelievo sui flussiglobali di valore, a mettere a disposizione di altriil risparmio della popolazione et.cetera. A dimo-strazione che pur nell’intreccio imperiale del ca-

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pitalismo globalizzato i circuiti di credito e debitosono differenziati, si raggrumano intorno a nodidi potere (non solo statali) poco trasparenti maeffettivi e concorrenziali. Per dirla con una bat-tuta: il debito estero USA non equivale esatta-mente al corrispettivo credito cinese se è vero cheWashington può rivalersi attraverso il dollaro enon viceversa…

4.2. Una guerra finanziaria con morti e feriti

Con tutto ciò, molto probabilmente, non verrà ri-solto il nodo di fondo dello sviluppo capitalisticoche questa crisi ha messo allo scoperto: se è pos-sibile tornare ad una “crescita” senza ricorso aldebito “eccessivo” o il sistema non è piuttostogiunto a un punto di non ritorno, a un limite, dicui sono segno evidente l’estrema difficoltà per laborghesia a tornare indietro dall’orgia finanziariaagli investimenti produttivi, da un lato, e la resi-stenza delle classi lavoratrici contro lo sfonda-mento verso il basso della soglia “morale” delsalario globale, dall’altro. Ma certo una distru-zione consistente di capitali, probabilmente nonprima di ulteriori ancorché inutili dosaggi di“keynesismo finanziario”, darebbe transitoria-mente ossigeno al sistema salvo reazioni socialiincontrollabili.

La crisi dei debiti sovrani in Europa è un capitolodi questa guerra finanziaria che farà morti e fe-riti (lasciamo qui aperta la questione se si arriveràcomunque in futuro ad una guerra guerreggiatatra grandi potenze, ma almeno a sinistra bisogne-

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rebbe maneggiare con molta cura gli appelli perun nuovo New Deal visti i trascorsi…).

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5. Finanziarizzazione in salsa europea

La Germania si trova dunque al centro del ci-clone ancor prima di essere investita da una pro-babile recessione di ritorno. L’eurocrisi ne mettea rischio la capacità di centralizzazione per sèdella produzione industriale e dell’area di liberoscambio europee, rafforza le spinte centrifughenella UE (vedi la vicenda libica) ma anche le in-sofferenze interne, la espone alle pressioni dellafinanza internazionale alla cui scala le sue ban-che, pur forti sul continente, figurano ancora dapedine più che da protagoniste.8 Berlino si trovatra l’incudine di un apparato industriale senzapari che necessita però drammaticamente dimercati di sbocco esterni e il martelletto di unafinanziarizzazione in salsa europea che staclamorosamente fallendo. Il varo della monetaunica e la politica di bassi tassi di interesse por-tata avanti dalla Bce permettendo l’indebita-mento facile dei paesi della periferia – proprio ciòche oggi viene rinfacciato agli “spendaccioni” –sembravano la quadratura del cerchio a vantag-gio delle esportazioni tedesche che lo chiudevano

8. A parte la Deutsche Bank che è però anche la più legata alla finanza sta-

tunitense nè pare essersi curata troppo delle ricadute disastrose per la te-

nuta europea di azioni come la vendita dei titoli di stato italiani.

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(sbaglia quindi chi parla semplicemente e pura-mente di neomercantilismo tedesco fermandosial solo livello dei flussi commerciali). Ma le bollespeculative così formatesi stanno scoppiando unaad una trascinando con sé il sovraesposto sistemabancario mitteleuropeo che rischia seriamente diritrovarsi con il cerino acceso in mano.

5.1. Le opzioni strategiche

Le contraddizioni si riversano sulle opzioni stra-tegiche sul tavolo. Della miopia dell’attuale go-verno tedesco, pressato peraltro dai falchi diFrancoforte, si è scritto molto al punto che iltopos dell’“egoismo” tedesco fa oramai da con-trappunto a quello sui “meridionali fannulloni”.Non che Berlino non persegua i suoi stretti inte-ressi – innanzitutto salvare le proprie banche coni “salvataggi” onerosissimi imposti a Grecia, Por-togallo ecc. – ma è anche vero che sa di averetutto da perderci da un tracollo dell’euro. D’altrocanto, l’alternativa proposta al governo tedescodai Summers, Soros, Geithner, quella cioè di farsigarante senza condizioni dei deficit statali euro-pei, se formalmente permetterebbe la tenutadell’Europa unita di fatto la subordinerebbe aimovimenti della finanza statunitense e interna-zionale col serio rischio di andare incontro ad unafine alla giapponese. Al tempo stesso un riorien-tamento del modello di sviluppo9 è complicato,

9. Globalizzazione con una finanza regolata? Deglobalizzazione relativa

con formazione di aree economiche continentali autocentrate? multi-

polarismo economico con ridimensionamento degli stati Uniti?

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comporterebbe almeno il configurarsi di un’alter-nativa insieme a Russia e Cina10 (e dunque la di-sponibilità cinese a cambiare l’attuale rotta) masoprattutto uno scontro aperto con gli Stati Uniti.Nessuno in Germania sembra disposto a tanto. Diqui il procedere con mezze misure alla ricerca, an-ch’essa non facile, del male minore: spaccare laUE in due e tenersi l’euro? Abbandonare la mo-neta unica al suo destino? Spingere la Grecia fuoridalla UE o continuare a centellinarle gli “aiuti” (!)per evitare che il default scateni una reazione acatena, pericolosa anche politicamente?

5.2. Il patto sta saltando

Quel che è certo è che il patto fondato sui circuitidi credito-debito tra i “virtuosi” della UE e le bor-ghesie periferiche sta saltando nel suo pilastroeconomico. Una tenuta della costruzione europeadal punto di vista delle èlites ne esigerebbe unariformulazione, ma in che direzione? Così comesi frantuma il (fragile) patto sociale tra costru-zione europea e classi lavoratrici. Con due deriveimmediate, e politicamente trasversali, che dob-biamo scontare: scarico delle responsabilità danord a sud con spirito “leghista”; arroccamentonazionalista e sovranista nei paesi travolti dallacrisi fino a possibili decisi toni antieuropeisti. Mala ricerca di capri espiatori esterni potrebbe non

10. Un quarto circa delle attuali riserve cinesi di valuta estera è in euro,

principalmente in titoli di stato tedeschi, francesi e olandesi. Nel caso

pechino dovesse impegnarsi di più sul fronte europeo non sarà comun-

que con un assegno in bianco.

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aver vita facile neanche in Germania quando lacrisi arriverà anche lì a colpire duro e dietro il“salvataggio degli spendaccioni” diffuso dal di-scorso dominante farà finalmente capolino quellodelle banche tedesche destinatarie effettive degli“aiuti” di Francoforte.

5.3. Gli Eurobond

Questo quadro complesso e in continuo movi-mento è ciò che sta dietro alla questione degli eu-robond come strumento possibile di soluzioneripartita della crisi del debito europeo, e in questosenso un po’ metafora della possibile tenuta e ri-configurazione dell’unità europea come unioneanche politica. Semplificando abbiamo finora trevarianti “politiche” – non entriamo qui nei par-ticolari “tecnici” – di questa proposta, di soggettie con finalità molto differenti. La prima, non stu-pisce, è quella dell’establishment politico-finan-ziario statunitense11 e transnazionale12 che, per imotivi visti sopra, con Soros arriva perfino a chie-dere un cambiamento di maggioranza a Berlinoper abbattere gli ostacoli alla creazione di un Te-soro europeo con i fondi tedeschi: in pratica unatransfer union deputata a garantire il fluire dellerisorse europee verso i grandi creditori interna-zionali.13 Una seconda variante è quella, altret-

11. mentre una parte, per ora minoritaria, punta più decisamente allo

sfascio dell’euro a breve: vedi l’articolo di m. margiocco, Greenspan voce

di una certa America che sogna il naufragio dell’euro, Il Sole 24 Ore, 23 agosto

2011.

12. Vedi le continue perorazioni dell’Economist per una unione fiscale:

Fudge, the final frontier, edizione ondine, 10 settembre 2011.

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tanto reazionaria ma chiaramente più meschinaperché disponibile a subordinarsi anche al dia-volo, che si fa strada nelle disperate classe diri-genti della periferia europea (da noi Tremonti eora anche Confindustria con il suo organo distampa, e tutto il ceto della governance partitico-amministrativa a corto di crediti nonché il partitotrasversale delle grandi opere, da nord a sud) alfine esclusivo di non dover pagare il conto econo-mico e politico del disastro cui hanno contribuitocon il loro magna magna finanziario privo di ognistrategia. Meriterebbero tanti calci in culo, altroche gli eurobond dalla Merkel. Infine, la versionepiù “seria” ed europeista alla Prodi (eurounion-bond) che propone, in un quadro di piena conti-nuità neoliberista con Maastricht, di garantirealla Germania in cambio del suo aiuto la parteci-pazione nelle utilities dell’energia di Italia, Spa-gna ecc. e financo l’oro delle banche centrali.L’obiettivo è qui di riformulare le basi del pattotra le borghesie europee esorcizzando la fuga te-desca e disciplinando un pochino le “esuberanzemediterranee”, mentre alle popolazioni reste-rebbe l’onere di ripagare i debiti con i propri sa-crifici in cambio di un simulacro di unificazioneeuropea e di una prospettiva di ripresa fondata…sulle grandi infrastrutture tipo alta velocità (!).Non è comunque affatto scontato che la Germa-nia accetti le condizioni e i vincoli che si accom-pagnerebbero al varo degli eurobond. Nel caso,alle litanie oggi contro la miopia di Merkel suben-trerebbe il livore contro il pugno di ferro tedesco

13. Un Tesoro Ue per salvarci, Il sole 24 Ore, 18 settembre 2011.

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(con una certa sinistra da noi a fare da batti-strada?).

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6. Un’uscita dalla crisi “dal basso, a sinistra”

Certo non è in questa direzione che possiamo cer-care un’uscita dalla crisi “dal basso, a sinistra”.Quale che sia la variante che dovesse passarel’austerity pro-pagamento del debito è data perscontata (l’eurobond essendo appunto pensatocome uno strumento di indebitamento e di vin-colo più stretto sui bilanci pubblici) altrettantoche nel caso non si arrivi, come più probabile, aduna più stretta unione fiscale e politica europea.Del resto, se per i movimenti è fondamentaleguadagnare una dimensione non nazionalista olocalista questa è una prospettiva che a torto o aragione non si raggiunge “a prescindere” dal con-tenuto effettivo del contenitore, l’Europa di Bru-xelles e Francoforte. Il punto è piuttosto – nelledinamiche sociali e di lotta che si apriranno conl’approfondirsi della crisi – se e come è possibilericomporre una risposta su un terreno comune ingrado di bloccare e invertire le tendenze allaguerra di tutti contro tutti. Per fare un esempioconcreto, è assolutamente comprensibile e legit-timo che i sentimenti che agitano le piazze grechenon siano proprio… amorevoli verso Berlino. Altempo stesso la resistenza della popolazione te-

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desca a pagare il conto erroneamente attribuitoal buen vivir mediterraneo, è una resistenza a pa-gare i costi della crisi che può sì portare ad un ar-roccamento “leghista” ma anche diventare unprezioso e anzi indipensabile fattore della lottacontro il debito sulla dimensione di uno spaziodi conflitto continentale esteso all’area riat-tivata dalla primavera araba.

6.1. La lotta al debito

La lotta al debito può costituire questo terrenocomune a misura che diventerà chiaro come pro-prio il suo pagamento olia e alimenta i meccani-smi della crisi prolungandola e peggiorandola. Ilnodo che sempre più emerge ed emergerà dalledisparate reazioni della gente comune è quellodegli immani costi umani sociali e ambientalidell’economia del debito. La finanziarizzazionedella vita, nelle sue molteplici forme, divora let-teralmente il presente e ancor più il futuro: chefine faranno le pensioni? E l’istruzione? E la sa-nità? La precarietà è un destino inappellabile? Etutto questo per cosa, per quale tipo di sviluppoe di società? Dietro tutto ciò la questione difondo: a chi vanno i proventi del debito? Ad unacupola ultraconcentrata di fondi finanziari inter-nazionali e banche, con terminali e uomini dap-pertutto, il cui potere non solo non è statointaccato dalla crisi ma che oggi passano all’in-casso delle risorse pubbliche che li hanno salvati.È insomma il capitale che con la finanza si auto-nomizza dal lavoro. Ma la sua è un’autonomia il-

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lusoria e precaria perchè è comunque alla produ-zione sociale che sottrae la linfa: il debito è la fac-cia perversa dei “beni comuni” prodottidall’incredibile livello di socializzazione e di pro-duttività del lavoro e delle conoscenza. Per questola crisi attuale solleva questioni “di sistema”.Senza pagamento del debito il meccanismo si ar-resterebbe, ma a bloccarsi sarebbe il meccanismodi una riproduzione capitalistica sempre più di-struttiva, niente affatto quello della riproduzionesociale della vita, anche se ci vogliono convinceredel contrario.

Ciò non significa, attenzione, che già oggi le po-polazioni siano disposte a rifiutare in quanto talequesto fardello, tanto meno che si faccia stradada subito o necessariamente la rivendicazione diun diritto al default (il fallimento nell’immagina-rio sociale ha una connotazione negativa e so-prattutto può essere e storicamente è statopiuttosto un’arma nelle mani di imprese e stati).Questo almeno per due ragioni di fondo. Innan-zitutto, la finanziarizzazione è entrata profonda-mente nella vita dei soggetti, non è una meraescrescenza esogena ma l’“illusione reale” di ac-cedere al reddito tramite l’esposizione sui mercatidella potenza del proprio corpo-mente e delleproprie relazioni, una potenza sociale percepitaperò come capitale individuale. Non si salta senzascossoni e lotte oltre questo passaggio, forte è adoggi il timore di rimettere in discussione con lacrisi del sistema bancario e di borsa la propriastessa esistenza così come con il fallimento del-l’impresa di veder cancellato il reddito legato al

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lavoro. In secondo luogo, non ci si stacca da mec-canismi così potenti senza intravedere un bar-lume di alternativa “di sistema”, senza la capacitàautonoma di ricostruire i legami sociali che col-mino la voragine apertasi.

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7. Il terreno inedito di un diverso modellodi sviluppo e di politica

Abbiamo allora a che fare con un terreno ine-dito e l’esigenza di un discorso-contro che va co-struito organizzato indagato all’interno dellemobilitazioni, anche nelle sue criticità, sapendoche umori e reazioni dal basso non si muovonolungo una linea “diritta come la prospettiva Nev-skij”. In quest’ottica, e a conclusione, solo alcunispunti per un dibattito che è ancora agli inizi.

● Cruciale nel terreno di conflitto che si è apertoè la dinamica potenziale di separazione delleforme della riproduzione sociale dal ricatto finan-ziario (che in certa misura ha sussunto quello la-vorativo). Questa dinamica può darsi nellemodalità più confuse. Da un lato probabilmenteci si porrà il problema di come non incrementareo diminuire il debito esistente piuttosto che rifiu-tarlo tout court, su un terreno “riformista dalbasso” non a priori chiuso a un discorso di sacri-

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fici purchè distribuiti “equamente” fra tutti.Dall’altro, inizia a farsi strada l’idea che la solu-zione non stia nel “non pagare solo noi” ma nel“non pagare” affatto per i costi della crisi e cer-care vie alternative. Esemplare al riguardo è la di-namica della lotta No Tav nella sua capacità diagganciare, in anticipo nel panorama italiano, ilnodo del debito pubblico – chi paga l’alta velo-cità? – per un suo abbattimento “virtuoso” ma diporre al tempo stesso la questione di un diversomodello di sviluppo e di politica. Su questoscarto si giocherà la dinamica sociale e politicaa venire: il debito pubblico è il “bene comune” cuisacrificarsi accettando di subordinarsi al mercatocome lotta di tutti contro tutti? oppure è unaforma raffinata di ricatto che ci costringe attra-verso una paradossale autodisciplina (attraversoi vincoli di mutui, fondi pensione, assicurazioni,credito al consumo, ecc.) a forgiare le catene chetengono avvinte le nostre vite?

● Se è così la lotta al debito è immediatamenteposta di fronte all’esigenza di farsi discorso co-stituente, e non solo difensivo, di elaborare esaper proporre una prospettiva altra, di riappro-priazione della ricchezza sociale, da contrap-porre ai dettami della finanziarizzazione cheavviluppano le vite di ciascuno. Come si può vi-vere senza un’economia del debito? Qui il keyne-sismo della old left in tutte le sue varianti èinservibile e dannoso non solo nel suo evocaresoluzioni oggi impraticabili con soggetti scom-parsi ma nell’ostinarsi a difendere la spesa sta-

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tale come spesa “sociale” – quando i meccanismidella finanziarizzazione hanno abbondante-mente rotto questo legame – e nel non voler met-tere in discussione cosa significa “produrre” perla società e non a spese di essa. Si tratta al con-trario di spingere avanti gli spunti che guardanooltre una “crescita” capitalistica di cui semprepiù verranno percepiti gli aspetti distruttivi. Nonper arroccarsi su un programma di piccole opereo di politica industriale “green” che possono allimite essere dei momenti di passaggio, ma piut-tosto in direzione di una contro-grande opera dide-accumulazione: forgiare forme di vita cheper riprodursi non devono passare per il mecca-nismo della finanza e dell’accumulazione di ca-pitale senza per questo perdere in innovazione ecooperazione sociale produttiva. L’economia deldebito, l’economia capitalistica nell’attuale sta-dio, produce sulla base di una produzione co-mune ma socialmente ed ecologicamentedistruttiva.14 È possibile, e come, costituire altreforme comuni di produzione e circolazione incui i beni sono prodotti per essere consumati inmaniera associativa e non distruttiva sulla falsa-riga di quelle enormi potenzialità di condivisionedelle conoscenze ed esperienze che la rete ci faintravedere negli interstizi non occupati dallasua sussunzione al capitale?15 Un bel problema– il trionfo neoliberista sulle macerie del falli-

14. Anche all’interno delle teorie della decrescita si inizia a prendere atto

che il problema è la produzione di merci: vedi maurizio pallante, Debiti

pubblici, crisi economica e decrescita felice, 2011, disponibile online.

15. Vedi Nick Dyer-Whiteford, The Circulation of the Commons, 2006,

disponibile online.

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mento del socialismo reale sembravano averlorelegato nei libri di storia – che si presenta oggiad una scala inedita e drammatica per le sortistesse del pianeta.

●Tutto ciò non si darà ovviamente a tavolinoma emergerà dalle pratiche sociali a condizioneche proliferino e si intreccino “vertenze” sulle di-verse dimensioni della produzione e riprodu-zione, dal locale al globale e viceversa. Che èanche la condizione per iniziare ad affrontare ilnodo del potere. È evidente come la crisi desta-bilizza in occidente, con forme e tempi differenti,l’usuale gestione politica, rimette in discussionegli equilibri fra i vari livelli istituzionali e territo-riali, mette a nudo l’incapacità crescente del si-stema dei partiti di praticare mediazione socialeeffettiva, evidenzia come lo Stato si è trasformatodefinitivamente in una funzione della sovranitàdei mercati finanziari e delle banche centrali so-vranazionali. Il problema è come agire dentro lacrisi questa disarticolazione del sistema poli-tico-partitico. Ci piacerebbero tante piazze Tahrira scala continentale, ma nella mora è importanterimettere al centro una discussione sul come siprepara, o non si prepara, un percorso in dire-zione di una trasformazione radicale. Non lo siprepara liquidando tutto ciò che non si muove neibinari della vecchia politica e del politically cor-rect di sinistra come “antipolitica”, “populismo”,ecc. finendo così col rimanere al di qua del sentiresempre più diffuso “sono tutti uguali” invece dicontribuire a un posizionamento al di là di esso

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ma con la sua carica di rabbia. Non lo si preparase non si tiene conto che la trasformazione deipartiti istituzionali (tutti) è irreversibile, non soloper il loro farsi “impresa liquida”, ma perchè nonpossono più rispondere in nessun caso alla valo-rizzazione del protagonismo degli individui edelle relazioni umane che, seppur in maniera am-bivalente, è radicata strutturalmente nella nuovacomposizione sociale. Non lo si prepara senzafare i conti fino in fondo col fatto che se ciò che è“politico” deve riacquisire significato deve essereinterno alla cooperazione sociale, il suo farsi “diparte” antagonistico in cerca di soluzionicomuni per la vita di tutti/e e di ciascuno.

Se è così, una dinamica di mobilitazione radi-cale dovrà posizionarsi non solo in piena autono-mia dai poli istituzionali, ma tendere adisperdere il potere – quella dinamica, ancor-ché contraddittoria e non irreversibile, che se-condo Raul Zibechi ha riaperto le porte del futuroin America Latina – lungo linee di ricostruzioneo costruzione ex novo dei legami sociali e di riap-propriazione dei modi e delle finalità di produ-zione della ricchezza sociale.

● È qui la difficoltà estrema ma anche la grandescommessa. Tendenzialmente non è più possibileuna lotta di difesa, ad esempio salariale, senza checi si inizi a porre questo insieme di problemi siaper il merito che per la costruzione di alleanze so-ciali. Come difendi una fabbrica in via di chiusura,dentro una crisi generalizzata, senza pensare aforme di riappropriazione e “autogestione”, non di

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impresa ma immediatamente intrecciate con iltessuto sociale? Come difendi il posto di lavoro nelpubblico impiego, dentro un quadro di svendite eprivatizzazioni, senza porre il problema di cosa èun “servizio pubblico”, scontrarti su questo con lagovernance amministrativa, iniziare a produrrecon un’organizzazione diversa nuovi tipi di beni efarlo con i soggetti che finora ti sono stati contrap-posti come “clienti” o “utenti”? Come si può oggi“fare sindacato” senza un organizing direttamentesul sociale, tra le figure precarizzate, sui nodi delfare società, dei beni comuni e del modello di svi-luppo, senza costituire un sindacalismo sociale ingrado di “tesserare” al di là degli steccati di cate-goria e oltre il ristretto confine dei luoghi di la-voro? Welfare e lavoro e loro difesa cambianocompletamente. Perchè sono cambiati radical-mente i soggetti sociali, i terreni dello scontro, leforme di organizzazione e i luoghi di discussione eformazione, il rapporto con il potere…

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forum per utopie e skepsistrieste

abiblio

Raffaele Sciortino

appunti

Obamanella crisi globaleDal we can al we can’tPrefazione di Augusto Illuminati

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In tutte le librerie

La vittoria elettorale di Obama ha segnatonegli States una indubbia discontinuità afronte della disastrosa esperienza dellalunga amministrazione Bush. Una partedella società statunitense ha reagito a unacrisi che è economica e morale ma anchedi una forma complessiva di vita mentre

pag. 168, 15,00 euro, ISBN: 9788897158011

Raffaele Sciortino

Obamanella crisi globale

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nelle alte sfere si è percepito il pericolo diun indebolimento irreversibile della po-tenza americana. Quello di Obama si èposto come il tentativo di una exit strategydal bushismo in grado di rilanciare il pri-mato globale statunitense con modalità dif-ferenti e su basi economiche e socialinuove.Un’eredità pesante per un compito eminen-temente “riformista”, un riformismo da de-mocrazia imperiale. Con la difficoltàdecisiva di doverlo fare dentro una traiet-toria non più ascendente della potenza astelle e strisce e senza un blocco socialenewdealista in qualche modo rieditabile. Obama nella crisi globale presentaun’analisi in “corso d’opera” dei passaggistrettissimi di questo tentativo, dalla corsaalla nomination al primo anno e mezzo dipresidenza, sotto l’angolo visuale dell’im-patto della crisi globale. Una crisi che stainvestendo la riproduzione complessivadella società del capitale e spostando tuttigli equilibri internazionali. Bail out dellebanche, stimolo all’economia, riforma sa-nitaria, regolazione finanziaria, all’in-terno; rapporto con Pechino, fallimentodella governance multilaterale, scontro conl’Europa e ribilanciamento dello sforzo mi-litare e diplomatico, all’esterno. Ecco inodi cruciali sui quali si sta infrangendo laspinta del change obamiano nell’incapa-cità/impossibilità di trovare un equilibriotra insostenibilità della finanziarizzazionee irrinunciabile pretesa alla leadership glo-bale.

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In tutte le librerie

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pag. 32, 3,00 euro, ISBN: 9788895146294

FOGLI INSTANT 2

I nodi della costruzione europea stanno venendo al pettine. La crisieconomica e finanziaria è stata trasferita sui debiti sovrani. La vi-cenda greca è solo il primo atto di una crisi che presto toccheràaltri paesi europei e fra questi l’Italia. La scelta della classi dirigentiè chiara: far pagare la crisi ai ceti subalterni. Vogliono usare comeariete per l’attacco finale ai diritti conquistati dai ceti subalterni neltrentennio seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Come prescrivela “shock economy”. L’Unione Europea è del tutto interna a questalogica, e l’adesione all’euro rende più difficile escogitare strategiealternative. Questo saggio analizza la situazione e proponel’uscita dall’euro come unica possibilità concreta per evitare un ro-vinoso attacco ai diritti e ai redditi dei ceti subalterni in Italia e inEuropa.

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pag. 296, 30,00 euro, ISBN: 9788895146225

Gli effetti dei cambiamenti climatici hanno profonde ripercussioni sulle condizionidi vita e sulle culture del mondo: gli spazi di sopravvivenza si riducono dando originea violenti conflitti, guerre civili ed enormi ondate di profughi. Lo scenario della sal-vaguardia dei diritti dell’individuo mostra differenze sempre più marcate non solotra Nord e Sud, ma anche tra generazioni, racchiudendo quindi una potenzialebomba sociale.

I cambiamenti climatici non rappresentano solo un fenomeno globale, ma sonoanche di incalcolabile durata, in quanto pongono le società umane e le loro istituzionidavanti a sfide sempre nuove. I genocidi del XX secolo sono prova della velocità concui l’uomo trova soluzioni radicali e mortali alle questioni sociali.

Harald Welzer descrive i tratti principali della violenza del XXI secolo: la guerra perle risorse, i conflitti interni, il terrorismo e le ondate di profughi costretti a lasciareil loro paese in seguito a calamità naturali. Egli fa luce sul modo in cui i cambiamenticlimatici pongono la società di fronte a questioni sempre nuove riguardanti la sicu-rezza, le responsabilità e la giustizia e delinea con una certa inquietudine l’ampiezzadi tali questioni e lo scarso successo con cui esse vengono risolte.

I CAMBIAMENTI DEL CLIMA PoRTANo ALLA GUERRA DEL CLIMA

Guerre per l’acqua potabile, nuove violenze di massa, “pulizie etniche”,guerre civili proprio nei paesi più poveri e ininterrotti flussi di profughisono ormai aspetti caratteristici del nostro tempo. I conflitti del XXI se-colo non hanno più come oggetto del contendere ideologia e concorrenzapolitica, ma sono infiammati da questioni riguardanti le classi sociali, lecredenze e soprattutto le risorse.I genocidi del XX secolo sono prova della velocità con cui le questioni so-ciali rischiano di essere risolte con soluzioni radicali e mortali. Le societàpiù sviluppate si stanno infatti già adoperando per tenere lontani “i pro-fughi del clima”.

Harald Welzer

Guerre climatiche

Per cosa si uccidenel xxi secolo

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Premesso daL’economia cannibaledi Emiliano BazzanellaSeguito daSul buon uso del cannibalismodi Jonathan Swift

L’artedi ignorarei poveri

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John Kenneth Galbraith

abiblioforum per utopie e skepsisTrieste

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In tutte le librerie

pag. 64, 5,00 euro, ISBN: 9788897158035

L’invidia dei ricchiSi inizia con la soluzione proposta dalla Bibbia: i poverisoffrono in questa vita ma sono meravigliosamente ricom-pensati nella prossima. La loro povertà e una sfortuna tem-poranea; se poi oltre che poveri sono anche mansueti, allafine erediteranno la terra. Questa è, per certi aspetti, unasoluzione mirabile. Permette ai ricchi di godersi i loro beniinvidiando i poveri per la loro fortuna futura.

Il nodo dello Stato socialeDemolire l’intera struttura federale di previdenza sociale esupporto al reddito per lavoratori e anziani, compresi gliaiuti ai minori, Medicaid, tessere alimentari, sussidi di di-soccupazione, rimborsi per infortuni, case popolari, pen-sioni di invalidità e tutto il resto. Tagliare il nodo, perchénon c’è modo di scioglierlo.

John Kenneth GalbraithL’artedi ignorarei poveri

premesso daL’economia cannibaledi Emiliano Bazzanella

seguito da

Sul buon usodel cannibalismodi Jonathan Swift

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La crisi del debito sovrano in Europa, con il possibile rischiodi disfacimento della moneta unica e della stessa UE percome le conosciamo oggi, non è da leggere principalmentea partire dagli equilibri politici e sociali interni alla Germanianè come esito del conflitto tra formiche nordiche e cicale me-diterranee. Questo saggio aiuta a inquadrare l’eurocrisicome passaggio della crisi globale che, irrisolta nei suoi nodidi fondo, sta dando luogo ad uno scontro a più livelli suimercati finanziari e per mezzo di essi con profonde frattureanche nel campo occidentale tra dollaro e euro, tra finan-ziarizzazione transnazionale garantita dal potere imperialestatunitense e finanziarizzazione in salsa europea. In giocoè, insieme, una colossale svalorizzazione di capitali e dellavoro che ciascuno cerca di scaricare sugli altri.Ma col “contagio” si è iniziato a discutere di debito e de-fault, e non solo tra gli “esperti”: ci si inizia a interrogaresui costi sociali dell’economia del debito ma anche su comesi è prodotto, chi ci guadagna, dove ci sta portando, e quae là affiora il dubbio se è giusto pagarlo o comunque se so-stenerne i costi non significa alimentare il male piuttosto cheguarirlo.La lotta al debito può costituire quel terreno comune di ri-presa di parola dal basso in cui il farsi “di parte” in cercadi soluzioni comuni per la vita di tutti/e e di ciascuno puòconfigurare una nuova politica autonoma dai poteri? Problema inedito…

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Raffaele Sciortino (Torino, 1963) è dottore di ricerca in relazioni internazionalipresso la Statale di Milano.

[email protected]

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Verso una colossale svalorizzazione di capitali e del lavoro

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