Racconto della Rosa, ProLoco Induno Olona, edizione prima

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1913 . 2013 anni 100 26 Maggio 2013 . Villa Bianchi Festa della Rosa

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In occasione dei cento anni della Festa della Rosa, la Pro Loco di Induno Olona, con il patrocinio del Comune, ha organizzato il primo concorso: Racconto in rosa. I partecipanti erano invitati a scrivere un racconto che, in qualche modo conteneva il concetto di “rosa”, per esempio, come colore, come nome, come fiore, come participio passato. Questa è una selezione degli scritti ricevuti. Forte di questo successo, il concorso sarà riproposto per l’edizione 2014 della Festa della Rosa di Induno Olona, che si svolgerà domenica 18 maggio nei giardini di Villa Bianchi, in Via Porro. Per ulteriori informazioni, scrivere a [email protected], oppure chiamare la Pro Loco Induno Olona 0332 200867, lasciando eventualmente un messaggio. L’ufficio è aperto giovedì dalle 15.00 alle 17.00 e sabato dalle 09.00 alle 12.00. Vedere anche www.prolocoinduno.it, oppure la pagina Pro Loco Induno Olona su Facebook.

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1913 . 2013

anni100

26 Maggio 2013 . Villa BianchiFestadellaRosa

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In occasione dei cento anni della Festa della Rosa, la Pro Loco di Induno Olona, con il patrocinio del Comune, ha organizzato il primo concorso: Racconto in rosa. I partecipanti erano invitati a scrivere un racconto che, in qualche modo conteneva il concetto di “rosa”, per esempio, come colore, come nome, come fiore, come participio passato.

Questa è una selezione degli scritti ricevuti.

Forte di questo successo, il concorso sarà riproposto per l’edizione 2014 della Festa della Rosa di Induno Olona, che si svolgerà domenica 18 maggio nei giardini di Villa Bianchi, in Via Porro.

Per ulteriori informazioni, scrivere a [email protected], oppure chiamare la Pro Loco Induno Olona 0332 200867, lasciando eventualmente un messaggio. L’ufficio è aperto giovedì dalle 15.00 alle 17.00 e sabato dalle 09.00 alle 12.00. Vedere anche www.prolocoinduno.it, oppure la pagina Pro Loco Induno Olona su Facebook.

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La rosa nel cuore

- di Luciano Bernocchi -

Era una domenica di maggio, alla messa della mattina; nell’altro lato della navata stavano le ragazze. Una tra loro mi piaceva, un suo sguardo cercavo, almeno un’occhiata, ero giovane ma per lei il mio cuore già faceva il matto. Uscendo dalla chiesa, non ricordo con quale scusa, le ho chiesto se la potevo accompagnare. Quattro passi verso casa sua, qualche battuta spiritosa.

Prima di lasciarla le ho chiesto se potevo incontrarla ancora; per le tre del pomeriggio mi ha assicurato.

Per quell'incontro mi sono preparato, belle frasi ho memorizzato, dal giardino una bella rosa ho rubato ma non volevo presentarmi tenendola in mano, l’ho infilata all’interno della giacca.

Che emozione starle vicino, seduti su di una panca dei giardini a parlare di me, di lei, di più non vi posso dire. Dei miei sentimenti le volevo accennare ma che batticuore, che timidezza, le belle parole le avevo dimenticate, che imbarazzo.... per rimediare, la rosa che tenevo nascosta, con timore le ho donato,

La mia sorpresa ha funzionato, sorridendo, il primo bacio mi ha regalato.

Grazie a quella rosa che mi ha aiutato, siamo ancora insieme. Altre rose le ho regalato ma il ricordo della prima e di quel momento ci hanno sempre accompagnato.

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Rose del mio paese

- di Luciano Bernocchi -

Quella pianta di rose gialle nell'aiuola all’angolo della casa riparato dal gelo dell’inverno, lasciata crescere, negli anni ha coperto parte della facciata, salendo anche a far da cornice ad una finestra del primo piano. Non era ancora primavera che, scaldata fin dal mattino dai tiepidi raggi del sole, precocemente fioriva, forse prima di tutte in paese. Aprivo la finestra e i suoi boccioli mi salutavano, ne coglievo alcuni e li donavo alla mia ragazza, orgoglioso di mostrarglieli così presto e di abitare in un posto dove l'inverno era già finito e le farfalle osavano svolazzare intorno.

Le altre piantine sistemate in fila davanti alla rete di confine, invidiose, si sforzavano di mostrare i loro boccioli dai vari colori; dopo qualche giorno anche loro si schiudevano, lasciandosi ammirare, regalando il loro intenso profumo.

Peccato coglierle, però vinceva in me la voglia di fissare su di una tela quelle sfumature di rosso,di rosa, i luminosi gialli, l’armonia dei loro petali; coglievo le più belle sistemandole in un vaso, entusiasta, mi accingevo a ritrarle ma a lavoro finito le mie non venivano mai belle come quelle vere.

Quando mi sono sposato, sono andato ad abitare in una via dove il vento era di casa.

Mi sono comunque abituato; anche qui crescevano le rose ma a qualcuno le spine dei loro gambi non piacevano. Ad una ad una quella persona le ha estirpate tutte e così non ho più potuto far trovare a mia moglie le composizioni floreali al centro della tavola. Senza rose non potevo restare. In un angolo del giardino, che mi sembrava il più riparato, ho sistemato un piccolo cespuglio dalle bianche roselline; se colte però, sfiorivano in fretta, anche queste mi hanno dato lo spunto per qualche rapido quadro en plein air.

Le rose mi hanno sempre affascinato, sia le bellissime dal lungo gambo dietro una vetrina, quelle del mio vicino, sia le più semplici che casualmente si trovano camminando sui sentieri dei nostri monti, che lasciano, una volta sfiorite a fine stagione, rossi cuori. Scegliere la più bella da portare al concorso nel giorno della loro festa, è sempre stato per me difficile. E’ bello vederle scendere come cascate da alcune cancellate o da vecchi muri con i sassi lasciati a vista, non si può fare a meno di far loro una foto e complimentarsi con chi abita lì.

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Le rose parlano al cuore, la singola per la mamma in segno del nostro affetto, solo quelle rosse che l’innamorato dona alla sua amata, le bianche sull’altare a testimoniare una unione d’amore, quelle posate nel ricordo di un caro, rose su di un cofanetto che vorresti per l’ultimo viaggio.

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La rosa di Salvo

- di Lorenzo Franchini -

Sfrecciò davanti a Villa Bianchi incurante del gesticolare del messo. L'aveva sentito

arrivare quando era ancora in via Tabacchi, tale era il rombo del motore della sua Vespa

lanciata a folle velocità. Il messo si sbracciava cercando di imporre con l'autorità della

sua divisa maggior prudenza. Tutto inutile. Senza rallentare sfilò davanti alla chiesa e

sterzò bruscamente per infilarsi di slancio in via Comi, per poi arrampicarsi su per

l'ultimo tratto in salita, col motore che urlava, amplificato dai muri di quella strettoia

che portava alle ultime case del paese.

Si fermò, e senza nemmeno scendere dalla Vespa cominciò a gridare:

“Mattina! Mattinaaa!”

“Ma chi è? Cosa vuole?” rispose la Teresa dal poggiolo al primo piano.

“Sugnu Salvo, u maritu ’i Concetta... unni è mattina?»

Salvatore Faraci era arrivato in Valceresio dalla Sicilia dopo la fine della guerra, quando

la Sicilia, come il resto d'Italia, si leccava ancora le ferite lasciate dal conflitto. Aveva

sposato Concetta che era poco più di una bambina, dopo una classica fuitina mal

digerita dalle loro famiglie. Per il quieto vivere i novelli sposi avevano così deciso di

salire al nord in cerca di tranquillità e lavoro.

“Mattina! Mattinaaa!”

“Vusa no! La Martina non c'è! É scesa dal dottor Fontana a prender delle cose…”

Martina, inconfondibile con la sua chioma di ricci sempre fulvi a dispetto dell'età, era

conosciuta e rispettata da tutti in paese. Energica e instancabile aveva cresciuto tre figli

di cui due già sistemati, ma in un certo senso erano un po' figli suoi tutti i bambini nati

nei dintorni negli ultimi vent'anni, tutti bimbi accompagnati alla vita dalle sue mani

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esperte di levatrice.

“Miii! ...dal dottore Fontana andò?”

“Si, è andata in farmacia e…”

Prima che la Teresa finisse di parlare Salvo spalancò il gas e si fiondò giù per dove era

arrivato, alla volta della farmacia. Conosceva bene il dottor Fontana perché si occupava

del suo giardino, così come di tanti altri giardini delle belle ville del paese. Salvo era un

bravo giardiniere, un mestiere che in famiglia si tramandavano da generazioni, e non

aveva faticato a trovare un'occupazione. I primi tempi aveva lavorato nelle serre del

Castello di Frascarolo, ma ben presto il passaparola vinse la diffidenza verso "il terùn"

che sapeva dare nuova vita anche ai rosai più trascurati. Le signore facevano a gara per

contendersi i suoi servigi, in particolare quando, a fine maggio, proprio le rose erano

protagoniste di una festa che dava lustro al paese in tutta la valle.

Arrivò davanti alla farmacia proprio quando Martina era sull'uscio della bottega.

“Mattina, menomale ca ti truvai! Presto, monta! Concettina mia ruppi le acque!”

“Salvo! Ma come? Mancano ancora diversi giorni…”

“Monta ti dissi! Presto, presto!”

In effetti non c'era tempo da perdere: per Concetta, nonostante la giovane età, questa

sarebbe stata la quarta volta che partoriva. Era arrivata in Valceresio con in grembo

Gigliola, la primogenita. Margherita arrivò inattesa poco più di un anno dopo: Concetta

imparò a sue spese a non fidarsi di chi le assicurava che era impossibile restare gravide

durante l'allattamento. Papà Salvo era felice, le bimbe avevano portato una ventata di

gioia in famiglia e il lavoro per mantenere tutti non gli mancava. Lo angustiava però

non essere ancora riuscito a regalare a suo padre, nonno Rosario, un nipotino maschio

che avrebbe portato il suo nome e tramandato il cognome dei Faraci. Salvo era certo

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che la nascita di un bel maschietto avrebbe definitivamente cancellato il rancore della

famiglia per la sua fuitina. Fu così che Concetta si trovò presto di nuovo in dolce attesa.

Il destino però seppe essere tanto generoso quanto beffardo. Al posto dell'agognato

erede maschio in un colpo solo arrivarono Gemma e Flora. La preoccupazione per

queste due nuove bocche da sfamare lasciò presto spazio alla gioia, senza però dare

soddisfazione alle aspettative ereditarie di nonno Rosario. Concetta non volle più

nemmeno discutere la questione, ma Salvo quando voleva sapeva essere convincente.

Era sicuro che la prossima volta, questa volta!, sarebbe stata quella buona.

“Mattina! Monta in sella!”

“Ma ti te se' mat! Figurati se salgo con te su quell'affare!”

Il dottor Fontana, ben conscio dell'urgenza, senza indugiare prese in mano la situazione:

“Signora Martina, venga, la porto io con l'automobile... lei Salvo, faccia strada che la

seguo!”

L'improvvisato corteo, con la Vespa in testa seguita dalla Topolino del dottor Fontana,

si mise in strada di gran carriera, sfilando sotto il naso del messo che si affannava a

sbracciarsi, indispettito dall'inutilità delle sue rimostranze, ignorato come fosse

trasparente.

Salvo e Concetta abitavano in due stanze col gabinetto in corte in un casolare ai margini

del bosco, lungo la strada che porta a Monteallegro. Martina entrò in casa mentre Salvo

e il dottore rimasero fuori: quelle erano cose di donne. Nemmeno il tempo di una

sigaretta ed ecco che si sente, limpido e cristallino, un vagito. Salvo non stava nella più

pelle! Di slancio abbracciò il dottor Fontana, visibilmente imbarazzato da tanta

confidenza. Martina li invitò ad entrare. Concetta era distesa nel letto, ancora scossa

dalla fatica. Guardò il suo Salvo e con dolcezza, con un filo di voce, disse al suo uomo:

“Salvo mio... Rosaria ummi piaci! Nonnu Rosario fusse cuntentu si a picciridda a

chiamammu Rosa?”

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La lacrima rosa- di Adriano Lungosini -

In un paese qualunque, che potrebbe anche essere Induno Olona, viveva un giorno un

uomo grigio.

Quest’uomo aveva quale sua particolarità quella di essere grigio. Anzi a ben vedere la

sua non era una particolarità perché il suo essere grigio derivava proprio dall’essere

banale, piatto, privo di tonalità e di sfumature. Era di un monocorde e sbiadito, anonimo

grigio. Proprio quel grigio, sapete, che potreste vedere sulla facciata di uno di quegli

squallidi opifici abbandonati da anni in una fredda valle vicino a un fiume, di quelle

vecchie fabbriche la cui vista vi infastidisce e vi domandate sempre perché qualcuno

non le butta giù, perché vi danno un senso di vuoto e di inutilità. Il nostro uomo non era

giovane, erano anni che il grigiume si accumulava in lui ma non era nemmeno vecchio.

D’altronde, come può essere vecchio un uomo che non è stato veramente giovane? Il

suo essere grigio derivava infatti essenzialmente dal non avere mai veramente vissuto.

Tutto il suo tempo nel mondo era stato esistenza, mai vita. Aveva sempre seguito la

corrente, su tutto e in tutto, senza mai porsi veramente la domanda su cosa stesse

facendo e soprattutto dove stesse andando. Così non aveva mai avuto una vera

emozione e così, senza accorgersene, a poco a poco era diventato grigio, quel grigio che

respinge e spegne ogni colore.

Un giorno, forse anche lui a pensarci ora non saprebbe dire bene perché, il nostro uomo

grigio decise di provare a fare qualcosa di diverso. Egli non sapeva a che cosa sarebbe

andato incontro davvero, quando iniziò a frequentare un ambiente e delle persone

diverse da quelle che facevano parte abituale del suo mondo grigio. A dire la verità egli

stava per la prima volta timidamente uscendo dal piccolo guscio che si era costruito e

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dal quale pensava di vedere il mondo.

Però in questo nuovo ambiente che iniziò a frequentare egli incontrò una donna. Fu una

cosa proprio strana per lui osservare da vicino questa donna perché, vedete, lei non era

affatto grigia ma era colorata con tutti i colori del mondo. Era come se fosse una figura

di purissimo cristallo e dentro di lei la luce del sole creasse i colori dell’arcobaleno. E

questi colori erano luminosi e vivi e continuamente mutavano e si intersecavano su di

lei in correnti e torrenti e sfumature come in un caleidoscopio e l’uomo grigio era

meravigliato di questo, meravigliato proprio come un bambino che per la prima volta

vede l’arcobaleno.

Quando lei sorrideva poi tutti quei colori così vivi si fondevano in un unico lampo di

luce così forte che lui rimaneva accecato. Era troppo bella quella donna colorata e così

a lui venne il desiderio di sfiorarla. E un giorno, raccolto tutto il suo coraggio, allungò

un braccio e appoggiò le dita su di lei. Ancora oggi l’uomo grigio non sa spiegare bene

che cosa gli successe.

Gli mancò il respiro e fu come se una cascata d'acqua gelata avesse improvvisamente

iniziato a corrergli lungo la schiena ma allo stesso tempo come se un gran falò, un falò

gigantesco avesse iniziato ad ardere furiosamente proprio davanti a lui, che veniva

investito da tutto il suo calore.

E allo stesso tempo tutto iniziò a girare, a girare lentamente e a perdere i contorni e le

forme e lui si trovò immerso in un luogo che non era un luogo ma solo un grande spazio

di colori e in un tempo che non era tempo perché non vi era passato, non vi era futuro

ma tutto era lì in quell'attimo di eterno presente. E dal braccio si diffondeva dentro di

lui un'armonia di suoni che non era musica ma era più bella di ogni musica e lui sapeva

che veniva da lei, dalla donna colorata e che provocava in lui la pace assieme

all'emozione.

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Non lo seppe dire quanto durò, seppe solo che si trovò a fissare la punta delle sue dita e,

meraviglia, i polpastrelli erano colorati. Vi era rimasto un poco del suo colore, del

colore di lei. Ma subito il sorriso che gli era apparso in volto svanì perché vide che il

grigio stava rapidamente riprendendo il posto di quel colore. Ma lei, dov’era lei? Alzò

gli occhi e la vide, poco lontana.

Si teneva la mano proprio nel punto dove lui l'aveva sfiorata con le dita e lo guardava,

infuriata. E gli parlò: “Come hai osato toccarmi, mi hai fatto male, sei freddo, sei

grigio, mi hai rubato il colore. Non mi toccare più, se lo facessi mi svuoteresti, mi

porteresti via tutto il colore e non potrebbe riempirti, non potrebbe cancellare tutto il tuo

grigio”.

E l’uomo grigio si disse che no, non poteva essere ma lei non volle più avvicinarsi a lui.

Così lui si trovò immerso nel mondo di prima solo che ora tutto quel grigio che si era

costruito, cui si era abituato, gli riusciva intollerabile. E si sentiva il cuore gonfio e

guardando si accorse che un frammento di cristallo vi era confitto dentro. Si disse che

doveva essere capitato quando aveva toccato la donna colorata. Quella lunga scheggia

di cristallo acuminato era entrata nel suo cuore. Provò a toglierla ma capì subito che

non avrebbe potuto. Gli si sarebbe spaccato il cuore. Così la tenne immersa

profondamente nel suo cuore e quando gli capitava di vedere la sua donna colorata la

scheggia si animava e fremeva, e gli faceva male e dal suo cuore usciva un piccolo

rivolo di sangue pallido, quasi come una lacrima rosa.

Lui capì che era quello che era sepolto profondamente dentro la sua anima. Un morbido

cuore rosa, oppresso e schiacciato da tutti gli strati di grigio che vi aveva spalmato

sopra. E ora lei, la sua donna colorata, lo aveva raggiunto con una lunga scheggia

affilata che lo avrebbe tormentato per sempre.

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Rosa

- di Piera Malnati -

L’avevano chiamata Rosa perché quando nacque, davanti alla casa in cui vivevano, su a Cavagnano, era sbocciata una rosa, su uno stelo alto alto, quasi superbo nello sprezzare il freddo rigido dell’inverno.

Era gennaio e nevicava da giorni e il bocciolo tenero e fragile sapeva di miracolo.Quel nome e quel fiore l’avrebbero accompagnata per la vita.

La casa, piccola e modesta, aveva una certa dignità, impreziosita da un filare di rose che costeggiava il sentiero che la divideva dal bosco.

Erano rose antiche, con la prestanza di vecchie signore, di quelle che profumano l’aria quando sono nel pieno della fioritura e a maggio, momento del loro trionfo, era un tripudio di api ed insetti che ronzavano senza sosta.

La piccola diventò subito per tutti “la Rosetta”, mentre lei, non amando il diminutivo, si ostinava a ripetere:- Rosa mi chiamo! Rosa e basta! -

Quando venne il momento di scendere a valle in cerca di lavoro e dovette accontentarsi di vivere in un appartamentino al secondo piano di una palazzina senza giardino, le rose ed il loro profumo se li sognava, la notte.

Fece lavori di ogni genere, dall’operaia in fabbrica alla commessa nel negozio di alimentari, dalla sartina alla stiratrice.

Poi un giorno, passando davanti alla serra di un famoso fiorista del luogo, dove amava soffermarsi quando raramente passeggiava, vide un cartello con scritto:Cercasi collaboratrice, amante dei fiori.

Per chi se non per lei era stata messa quella richiesta?

Da tempo era stanca e demotivata, la vita in fabbrica chiusa nelle quattro mura per ore e ore non faceva per lei.

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La depressione era sempre in agguato e la voglia di cambiare si faceva sempre più forte. Ne era certa, quello sarebbe stato il suo nuovo lavoro.

E così fu.

La mattina e non c’era giorno senza sole per lei tanto amava quello che faceva quotidianamente, iniziava a prendersi cura delle piante fuori e dentro le serre, ma erano le rose quelle che maggiormente catturavano la sua attenzione.Talvolta, a occhi chiusi, in solitudine, le annusava con un’intensità quasi passionale, mentre l’olfatto le spalancava la porta verso altri mondi.

A seconda della specie erano sentori di mela, di tè, di muschio, di mirra e violetta.Era nel suo paradiso: rose rifiorenti, varietà preziose, esemplari da collezione, rose canine per gli innesti o semplici rose rampicanti che abbracciavano un tronco, altrimenti spoglio e nudo.

Aveva raggiunto una sua dimensione di vita, aveva scoperto l’esperienza del vivere in intima concordanza con se stessa, con gli altri e con la natura: si sentiva catturata dalla bellezza dei fiori, inglobata nel senso della vita, che finalmente cominciava a sorriderle.

Non era più la donna fragile, insicura e insoddisfatta: stava bene Rosa, amava il suo lavoro ed aveva sviluppato una competenza nel settore che tutti la cercavano per consigli e consulenze, ma soprattutto aveva imparato a evitare le spine, a sopportare e a superare quelle della vita.

Come la fragranza emanata da una rosa, quella che i profumieri chiamano “nota di cuore” fa dimenticare le spine insidiose, così le cose belle della vita devono aiutare a cancellare dolori e tristezze, che inevitabilmente, segnano il percorso dell’uomo.

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La pantera rosa

- di Doris Marocco -

Negli anni 80, le tutine a pelle sfoggiate in palestra suscitavano gli sguardi maliziosi dei ragazziE invidiose delle ragazze, ma lei, imperterrita, con bilanciere, manubri, e panca, ostentava Freddamente una tutina rosa shocking (colore molto di moda, allora ...)Ad occhi chiusi, ben sapendo d’essere osservata , si allenava sola, convinta che un progettoSul corpo l’avrebbe realizzata come donna ...Anni di lavoro durissimo, nella sua visione rosa dell’obiettivo che la vedeva su un podioCAMPIONESSA ITALIANA ...Si dice molti muscoli e poco cervello, ma lei voleva sfatare questo schema e si dava da farePer dimostrare che le quote rosa delle donne hanno almeno il 50% del totale vivente ...

Conservava le rose secche in un piccolo vasetto in cucina diligentemente seguivaProgrammi poco appetibili ma di grande risultato.Appunto: le rose hanno le spine ... e la tutina rosa shocking negli anni ne ha sentite tante!Ne è valsa la pena per la PANTERA ROSA?Sì: la campionessa di bodybuilding si allena ancora in incognito. Ormai la tutina rosa è obsoletaMa la conserva come una reliquia: se oggi ancora insegna in palestra è proprio meritoDelle sue quote rosa ...

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Rosa Rosa Rosa

- di Doris Marocco -

Usava un fard rosa, il numero 18. Andava pazza per le rose gialle piuttosto spampanate. Perché, secondo lei, esprimevano al massimo la gradazione del colore. Alla sua epoca, le bambine vestivano di rosa, e il grembiule dell’asilo a quadretti VichyEra cucito dalle suore, ROSA.Nel mese di maggio, dedicato alla Madonna, lungo le processioni si sparpagliavano petali Di rosa lungo il percorso ... petali rugiadosi colti invece di primo mattino, servivano Alla nonna per prepare una deliziosa ratafià.

Amava a dismisura un rossetto rosa antico di Arden numero 42. Lo metteva di nascostoPerché le ragazze per bene non si pitturano .. un velo di smalto rosa trasparente era“tollerato” ... (anche due mani).

Pigiava tra le pagine del PALAZZI (il vocabolario), piccole rose che usava come preziosiSegnalibro ... investendoli di significati esagerati!In quel tempo lontano, credevo fermamente che la vita fosse doveva essere ROSA.

Siamo nel 2013, lei ormai è anziana, però non smette di sognare, scrive, si nutreDi bei pensieri, e non guarda più così lontano.Ha colto tante rose, ma le sue preferite sono sempre gialle e spampanate ...

PROPRIO COME ME.

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Non mi chiedere un ricordo

- di Roberta Usan -

Carletto, mi chiamano tutti così, nonostante i miei 89 anni suonati. Vivo solo, ormai da tanto tempo, a Varazze. Amo il mare, tanto quanto ho amato mia moglie Norma, che purtroppo ha preferito altri lidi, più caldi e confortanti di questi terreni.

La mia vita da single non mi pesa affatto ed ogni mattina ho i miei appuntamenti fissi.“Buongiorno signorina!”“Salve Carletto! Due francesini morbidi, anche oggi?”

Ormai tutti sanno già quello di cui ho bisogno, e si muovono attorno a me come comparse di un film. Io ne sono contento perché mi sento coccolato, a volte ammirato, da paesani e turisti che incontro nei negozi, al parco o per le strade soleggiate della mia cittadina.“Sì due francesini, uno a pranzo e l’altro a cena, se ci arrivo anche oggi!”“Lei ha sempre voglia di scherzare! Quanto la invidio… è il suo elisir di giovinezza, vero?”

Con un sorriso a 26 denti scarsi, lascio i soliti 80 centesimi sul piattino vicino al registratore di cassa che non mi rilascia mai un ricordino. Ah, al diavolo anche lo scontrino! Non sarò di certo io a salvare l’Italia dalla rovina!“Ci vediamo domani ehmm…”“ … Martina, sono Martina. Sì, a domani, Carletto!”

Non mi stanno mai in mente i nomi, è più forte di me. Ma non importa, a me piace dare dei soprannomi alle persone che conosco e lei è la Francesina!

Le giornate non passano mai lentamente, ho sempre un sacco di cose da fare: pensare alla spesa, pagare le bollette, andare a giocare a carte. Ma ultimamente sbaglio orari, giorni, impegni, forse perché non hanno più tanta importanza. Ci vado quando ho tempo. Prima o poi faccio tutto, senza fretta.

Ma oggi che giorno è? Per me sono tutti uguali, non ci sono più feste né lavori da programmare; ogni giorno è regalato, come un pacchetto con sorpresa. Allora mi faccio un altro regalo: vado a mangiare uno stuzzichino al baretto, sul lungomare, sul Viale delle Rose, in compagnia delle voci dei turisti e dei canti dei gabbiani.

Tutti si sentono felici quelli che vengono qui! E’ una malattia contagiosa che apprezzo

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sempre anch’io. Che bella cosa il mare!

“Oh Carletto, come stai? Non ti ho più visto al circolo per le nostre partite a carte.”“Ciao … Peppino. Sì, sto bene. Non si vede?”“Certo che si vede! Sei il ritratto della salute, ma come mai non vieni più? Ti avevo detto che ci sarebbe stato anche Michele, giovedì scorso. Non ti ho più visto!”“Michele? Giovedì?”“Già, Michele, il nostro commilitone …”“Ora ricordo … ma chi ha vinto?”“Io naturalmente, sai che non mi batte nessuno!”

Mentre Peppino parla, non lo ascolto neanche più. Non mi importa sapere in cosa è bravo lui. Mi metto a pensare in cosa sono bravo io!

Il mio lavoro da troppo tempo è quello del pensionato. Quanto tempo è passato dalle giornate sudate in fabbrica!“Beh Carletto, ora ti lascio perché ho da fare a casa.”“Alla prossima ehmm….”“ … Peppino. Sì, alla prossima, Carletto.”

Vedo il suo sorriso spento, deluso della mia pecca. Che sarà mai! Un nome: capita a tutti di dimenticarselo, no? Mi siedo sulla panca di legno, di fronte al mare. Il calore del sole mi ammorbidisce le idee e i pensieri un po’ offuscati, mentre gli occhi chiusi mi cullano fino a farmi fare un sonnellino. Il canto dei gabbiani è la mia ninna nanna. Il vento sulla faccia è una carezza materna. Potrei stare qui all’infinito.

“Mi scusi, si sente bene?”

Un vigile mi sveglia, con mio dispiacere. Avrà pensato che sono morto. Bella morte sarebbe questa, senza dolore, senza pensieri, cullato dalle cose più care e che amo: il mare e il sole!“Beh, non lo vede? Sto benissimo. Perché oggi siete tutti preoccupati per me?”“ A dire il vero, il proprietario del bar sulla spiaggia mi ha chiamato.”“E perché mai?”“Perché lei è qui, seduto immobile, da questa mattina!”“E adesso che ore sono?”“Le sette, di sera!”“Ma dai? E’ già passato tutto questo tempo? Anche per noi pensionati le giornate volano in fretta, ahahah!”“Se vuole la riporto a casa. Dove abita? Signor … come si chiama?”“Carlo, anzi Carletto per l’esattezza. Questo me lo ricordo ancora, sa!”Vedo l’imbarazzo che prende il sopravvento sulle guance del vigile urbano. Sembrano due pomelli lampeggianti. E poi sono io quello strano!“Me lo auguro, certo, ma casa sua è in via …?”

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Questo proprio non lo ricordo più. Ma cosa gliene importa a questo qui dove abito io. Saranno o no fatti miei? Mi sto innervosendo. “Io so dove abito e non ho intenzione di dirlo a lei”.“Non sia permaloso, la voglio solo aiutare”.Il vigile è diventato stranamente gentile e con una mano mi aiuta ad alzarmi dalla panca.E’ inutile arrabbiarsi, una volta tanto che la gente è cortese a questo mondo…Beh, allora ne approfitto.“Mi segua, la porta a casa mia. Ma poi non mi farà mica la multa per sosta vietata, sulla panca, oltre l’orario?”“No, no, cosa sta dicendo? Vedo che ha voglia di scherzare. Allora questo vuol dire proprio che sta sta bene!”“Che le avevo detto. Lei non mi chieda nessuna informazione, neanche un ricordo: così io faccio bella figura e siamo tutti contenti.”Il militare inizia a ridere per la battuta, poi mi guarda di soppiatto: non capisco se mi vuole psicanalizzare. Poco mi interessa. Sono arrivato a casa.“Allora lei abita qui?”“Sì al primo piano.”“Carlo Veneziani?”“Visto che c’è anche il mio nome sul citofono?”

Finalmente l’uomo mi lascia, soddisfatto, dopo un formale arrivederci: una via di mezzo tra la stretta di mano e un saluto militare. Ecco la mia casetta. Sono a casa!

Mi gira un po’ la vista per il caldo. Non ricordo però come mai quel signore, quello in divisa, all’angolo della strada, continua a salutarmi. Non mi pare di conoscerlo. Chi sarà mai?

Beh, sono sempre più convinto che chi non ha testa, ha gambe!

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