Raccontare il brigantaggio
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Quaderni del WWF Molise
Raccontare il
Brigantaggio
Appunti 2013
RACCONTARE IL BRIGANTAGGIO, CAMMINANDO SUL MATESE
Da un avvenimento del 1862, l’Associazione WWF Molise ha tratto l’occasione per abbinare ad
una passeggiata nella natura del Matese il racconto di un triste episodio di brigantaggio.
Nell’ambito degli eventi organizzati ogni estate nel territorio della Riserva Regionale di
Guardiaregia-Campochiaro, il WWF Molise ha scandagliato la storia dei paesi matesini nella
seconda metà dell’800, soffermandosi in particolare su un episodio che viene raccontato dallo
scrittore Giambattista Masciotta:
"Il 19 settembre 1862 vengono derubati e assassinati da trenta briganti a cavallo gli sposi Luigi
Stanislao Fusco di Frasso (Telesino) e Carolina Cinelli di Morrone (del Sannio) che, in carrozza,
provenienti da Campobasso, viaggiavano per recarsi a Maddaloni. Si erano poco prima fermati
presso la Taverna Finizia per il cambio dei cavalli. Giunti sul ponte del Tammaro, nella piana di
Sepino, la carrozza viene fermata dai Briganti. Tutti vengono costretti a scendere e depredati. La
sposa, Carolina Cinelli, viene strappata al marito, il quale si rifiuta di scendere dalla carrozza. Un
brigante lo minaccia puntandogli contro uno schioppo e Carolina gli si para davanti: parte un colpo
che provoca la morte della donna. Poco dopo, viene ucciso anche il marito. Il giorno successivo le
spoglie di quei miseri barbaramente dilaniati vengono raccolti in bare distinte e tumulate nel locale
cimitero".
Ma perché tanta efferatezza contro due giovani sposi che, coronato il loro sogno d'amore,
raggiungevano il proprio nido? La voce popolare parla di delitto passionale. Pare che la giovane in
precedenza amoreggiasse col brigante Michele Caruso, ma quando la donna e i suoi genitori
seppero che il giovane, da sottufficiale dell'Esercito Borbonico, si era dato alla macchia dopo lo
sbandamento delle truppe di Francesco II, respinsero le sue offerte amorose. A nulla valsero le
minacce del focoso innamorato, anzi, quasi a sfidare le sue ire, i parenti fecero fidanzare e
sposare Carolina col Fusco. Così dice la gente.
A ricorso del triste episodio, nel Cimitero di Sepino (dapprima sul muro esterno, poi all’interno),
venne murata un’epigrafe, ripristinata, che così recita:
Passeggero ti soffermi e piangi, qui la civile Sepino a mirabile esempio di cristiana pietà
dopo solenni e gratuite esequie dava riposo a Luigi Fusco da Frasso e a Carolina Cinelli da Morrone giovani sposi e vergini ancora respinti dal talamo e da spietati briganti trucidati presso il ponte del Tammaro
nel giorno XIX di settembre 1862.
La madre della innocente sposa Beatrice Barbieri per debito di riconoscenza alla terra ospitale questa lapide fra le lacrime ponea,
passeggero se non piangi di che pianger suoli?".
Da qui è nato lo spunto per ricordare la vicenda storica, inserendola in un adeguata cornice
naturalistica: è stata così organizzata un’escursione pomeridiana che ha preso il via dal Capanno
dell’Area Faunistica WWF di Campochiaro, per poi inerpicarsi verso il Santuario di Ercole Quirino,
ed infine approdare alla località Fonte Francone.
Giunti sul posto all’imbrunire, la comitiva degli escursionisti, composta da circa una trentina di
appassionati, ha raccolto qua e là un po’ di legna secca per avviare un fuoco e, complice la
compagnia di pane e caciocavallo, è toccato a Lucio iniziare il racconto.
La narrazione non poteva prescindere da una introduzione che ha considerato le condizioni sociali
del periodo post-unitario, ma il fenomeno del brigantaggio non nasce con l’Unificazione; a volerlo
indagare meglio deriva dal disagio creato dal latifondo e dallo smisurato potere dei baroni sulla
terra fin dal tempo degli Aragonesi, con la tendenza dei “poveracci” a farsi giustizia da sé dei
soprusi subìti per poi darsi alla macchia; è la presenza di dazi, pedaggi e gabelle sulle merci e i
confini tra stati, territori e feudatari che sviluppano la professione di “spallone”, cioè
contrabbandiere, è il vivere in condizioni difficili di sopravvivenza tra i problemi di una natura dura e
di una Legge fatta per i ricchi dai ricchi.
E’ un fenomeno che assume dimensione politica quando la Storia complica i tempi: così come
quando nel 1799 il Cardinale Ruffo assoldò 3000 “sanfedisti” per mettere a ferro e fuoco quei paesi
che, fomentati dalle idee rivoluzionarie francesi, sostenevano la Repubblica Partenopea e
piantavano nelle piazze alberi della libertà. Sono gli anni dei capibanda Fra Diavolo, Panedigrano,
Sciarpa, Gaetano Mammone (da cui sembra derivare lo spauracchio del gatto mammone).
O come quando la regina Maria Carolina D’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV di Borbone,
ritornati i francesi nel 1806, riorganizza un esercito clandestino per tentare di riconquistare il trono;
torna Panedigrano, emergono Pietro Perugini da Pontelandolfo, Migliozzo da Morcone, Sabatino
Lombardo, detto Maligno, da Roccamandolfi, Fulvio Quici da Trivento, Panetta e Dragonetti da
Agnone; il Comune di Campochiaro, ad esempio, nel giugno del 1810 fu attaccato da una banda di
briganti di Guardiaregia, che incendiarono "molte case site a qualche distanza dall'abitato". Furono
"prese di mira soprattutto le masserie dei galantuomini, il bestiame venne trafugato e ucciso, rubati
i preziosi e gli altri oggetti di valore, incendiati i mobili". Della banda dei briganti di Guardiaregia
facevano parte anche dei campochiaresi, e perfino due sacerdoti. Infatti, il Giudice di Pace di
Bojano il 22 ottobre 1809 emise un mandato di ”arresto del prete sig. Nicolantonio Bucci di
Campochiaro [perché] imputato di criminosa corrispondenza con la comitiva di Guardiaregia”.
Il fenomeno era ben diffuso, come risultava dalla relazione che l'Intendente del Molise inviò l’ 11
maggio 1811 al Ministro dell'Interno, nella quale riferiva sullo stato del brigantaggio provincia di
Molise, informando che "I briganti di Guardiaregia al numero di tre, con altri due di Pietraroia e di
Campochiaro, si fecero vedere la notte del 7 c.m. sul Matese. Ciò significa che dai boschi della
Basilicata e di Puglia in cui erano annidati per l'innanzi, sono ora risaliti sui monti. All'annunzio
della loro apparizione tutte le disposizioni si sono da me date per assicurare l'esterminio o
l'arresto”.
Ma con scarsi risultati, se lo stesso Intendente prosegue affermando che: “I briganti di
Guardiaregia sono invisibili benché restino tuttavia sul Matese. Si sono disposti degli agguati per
farli cadere nelle mani della giustizia. Ma la vasta estensione di quel monte e la precauzione
estrema dei briganti, deludono finora queste misure"
In qualche momento, il numero dei Briganti sul Matese raggiunse anche i 500 uomini, ma in
generale erano di poche decine. Dopo l’Unificazione, per fronteggiarli, il Generale Piemontese
Pallavicini disponeva di un comando a Capua, dipendente dal 6° Dipartimento militare di Napoli.
Intorno al Matese, poi, oltre alle tenenze dei Carabinieri di Isernia, Piedimonte Matese e Cerreto
Sannita, stavano schierati il 39° e il 40° Fanteria dell’Esercito, almeno nei periodi più pericolosi.
Come se non bastasse, infine, ogni Comune aveva il proprio presidio di Guardie Nazionali.
Quest’ultimo, era composto di “cittadini idonei alle armi per difendere ed assicurare l’ordine
interno”. A Sepino, la Guardia Nazionale era composta da 392 “militi attivi”, dotati di 60 fucili.
Il 15 agosto 1863 fu promulgata la “Legge Pica” che di fatto sanciva lo stato di assedio delle
provincie meridionali e l’applicazione immediata della legge marziale su quanti fossero stati trovati
in viaggio in possesso di armi, bloccando anche la pratica armentizia della transumanza (a grande
vantaggio dei grandi allevatori lombardi e padani).
Insomma, il territorio molisano e, in particolare tutta la fascia matesina, vissero anni di vero terrore
(e dai briganti, e dai “piemontesi”) e di disagio economico.
Tra le bande più attive vi era quella di Michele Caruso, che agiva tra il Molise centrale e la Puglia.
Michele Caruso, detto "Colonnello Caruso" , nato a Torremaggiore, il 30 luglio 1837, è stato uno
dei briganti più famosi, anche e soprattutto per la sua crudeltà. Catturato dal Generale Pallavicini
nel 1863, venne fucilato a Benevento il 22 dicembre dello stesso anno. Sulla sua testa pendeva
una taglia di 20.000 lire.
Nel libro di Piero Rescigno “Diario Sepino, 1800-1900”, leggiamo che nell’aprile 1863 la banda di
Caruso tornò farsi viva nella piana di Sepino. Nella Taverna Finizia le Autorità avevano stanziato
un drappello della Guardia Nazionale, al fine di proteggere le carrozze che viaggiavano sulla
strada consolare. Dalle colline di Redealto (in direzione di Cercemaggiore), scesero una
cinquantina di briganti e si fermarono alla Taverna del Principe, depredando alcuni carrettieri. In
ottobre, tornarono alla carica e stavolta presero di mira la zona di Cercemaggiore, dove
seviziarono ed uccisero tre uomini e stuprarono cinque donne.
Sempre secondo il libro di Rescigno, nel 1867 iniziò a Napoli un maxi-processo contro i Briganti.
Tra di essi, i Briganti Varanelli (detto Tittariello), Codianni e Celenza. Varanelli, in particolare,
venne accusato della morte della morte di Filomena Cirelli e rinviato al giudizio da tenersi presso la
Corte di Assise di Campobasso. Nel luglio del 1868 si apre il processo a Campobasso contro 12
Briganti, imputati a vario titolo di partecipazione all’omicidio dei coniugi sul ponte Tammaro. Il
Celenza, riconosciuto da un testimone, è accusato di aver fatto fuoco contro Stanislao Fusco. La
Corte condanna il Celenza all’ergastolo, mentre gli altri imputati dovranno scontare pene dai 30 ai
7 anni di reclusione.
Tornando al caso che ci occupa, resta il mistero sui motivi dell’agguato perpetrato sull’antico ponte
sul torrente Tammaro, quel 19 settembre 1862.
Fu davvero una vendetta d’amore ad armare la mano del brigante Michele Caruso? Magari
perpetrata con un incarico scellerato dato al Celenza? Oppure si trattò di un semplice atto di
ladrocinio conclusosi tragicamente?
Di sicuro le barriere sociali non consentivano l’avvio di un rapporto sentimentale tra un popolano
ed una donna dell’alta borghesia, per cui tutto sembra portare alla conclusione che si trattò di un
atto criminale, magari spintosi oltre le reali intenzioni dei banditi.
Il quadro geografico
Proviamo anche a dipingere il quadro geografico dell’episodio: il collegamento viario tra il Molise e
il beneventano era assicurato dall’antica Via del Procaccio (Procaccio vuol dire “corriere postale”),
ovvero la strada creata nel 1600 circa, che serviva a tenere collegati i comuni del Molise con la
città di Napoli: essa ricalcava, perlopiù, il percorso del Tratturo Pescasseroli-Candela.
Ad essa si affiancò e sovrappose, in seguito, con qualche modifica nel tracciato, la strada
consolare che i francesi, nei primi anni dell’800, realizzarono per portare anche nei luoghi più
remoti del Regno le prime timide innovazioni illuministiche e consentire un più rapido
approvvigionamento della Capitale (Napoli) con gli ingenti prodotti agricoli del Sannio.
Nel Regno delle due Sicilie un regolare servizio delle poste, il “cursus publicus”, fu attivato sotto
Carlo V (1519-1556) e alla fine dello stesso secolo da servizio governativo diventò servizio
pubblico. Era un servizio effettuato su muli o cavalli, non certo su carri.
La condizione della viabilità nelle provincie fino a tutto il ‘700 era pari a zero: il sistema feudale
aveva infatti puntato a costituire una miriade di piccoli territori di cui il feudatario era signore
assoluto; la antica rete viaria romana – che collegava per lo più città di pianura - era stata
abbandonata o distorta per essere funzionale al sistema dei castelli ed abbazie, posti in luoghi
elevati per difendersi meglio in un territorio privo di stabilità politica ed amministrativa. Gli effetti
della mancanza di una rete fluida di collegamenti portò nel tempo allo sviluppo di una
autosufficienza – seppure di sussistenza - dei singoli territori, ma anche, ovviamente, a una
stagnazione culturale, anche derivante dal fatto che i legittimi titolari dei feudi ormai risiedevano
stabilmente a Napoli, mentre il territorio era affidato ad amministratori che spesso si arricchivano ai
danni del popolo e degli stessi feudatari.
La via del procaccio è illustrata da Giuseppe M. GALANTI [1703-1806], in Della descrizione
geografica e politica delle Sicilie: "Questa è una strada tutta nuova, per la quale si è durato gran
fatica ad ottenerne la costruzione. Meritava una preferenza alla strada di Abruzzo, la quale
sebbene siasi resa oggi piana ed agevole nel corso di 87 miglia, tuttavolta per la picciolezza del
traffico e de' prodotti vedesi solinga e poco frequentata. Per lo contrario i copiosi frumenti del
Sannio perennemente si trasportano in Terra di Lavoro, per li bisogni della capitale, onde
grandissimo è il traffico per quest'altra strada, ma è interrotto ne' mesi d'inverno, a cagione del
cammino che si rende impraticabile.
Questa strada trovasi in parte già fatta per il cammino che da Napoli conduce alla Reggia di
Caserta",
Questo l’itinerario: Da Napoli - Sbarre doganali di Capo di Chino - Casoria, casale di Napoli –
Cardito – Caivano - Osteria del ponte a Carbonara - Osteria delle foglie. Qui la strada va dritto a
Caserta, ch'è lontana 16 miglia da Napoli - Maddaloni - Real aquidotto di Caserta – Valle -
Biferchia osteria – Ducenta - Solipaca - Fiume Calore. Oggi si tragitta in barca, ma si deve compire
la costruzione del ponte, che da un secolo è stata sospesa a cagione de privati interessi dé baroni,
che sul fiume esigono il pedagio sotto titolo di scafa - S. Lorenzo Maggiore – Pontelandolfo -
Osteria di Morcone - Osteria di Sepino – Campobasso. 55 Miglia fino a Campobasso.
Oltre al Procaccio, il trasporto della corrispondenza era affidato ai corrieri; quelli ordinari partivano
in giorni ed orari stabiliti, mentre corrieri straordinari erano incaricati di volta in volta del trasporto
celere di missive ed ordini delle autorità.
Il Procaccio era scortato da squadre di uomini armati, specialmente di notte e quando attraversava
zone impervie ed isolate.
Durante le riforme attuate dai francesi nel periodo murattiano, anche tale attività fu sottoposta a
normativa; ogni Comune doveva offrire una squadra di uomini armati destinati a vigilare il proprio
comprensorio, così come rileviamo dall'Ordinanza dell'Intendente della Provincia del Molise inviata
al Sindaco di S. Croce del Sannio:
"Inteso appieno della esattezza, attività, zelo per il buon ordine e per la pubblica sicurezza vengo a
pogiarle l'incarico di far battagliare di notte e di giorno, e spezialmente in quelli del passaggio del
Procaccio, le contrade detta la Piana di Sepino, il Ponte di Morcone e Sferracavallo sino al
tenimento di Pontelandolfo, nonché quelle delle altre contrade, quali V. S. Ill/ma opinerà potessero
venire infestate da Ladri e dai Malintenzionati. Deve riferirmi qualunque novità per lo Corriero
Espresso ed in ogni Domenica farmi il rapporto.
Stabilirà in codesta sua residenza, o in altro luogo ed anche in qualche Chiesa rurale o Ermitaggio
il punto di ritirare per riposo della pattuglia facendoli dall'Università vicine somministrare il saccone,
olio, legna, autorizzandola dare contro i renitenti le convenienti disposizioni. Le raccomando
specialmente d'invigiliare sulla condotta della pattuglia medesima, questa sarà composta di venti
Armigeri: due della Squadra Dipartimentale, e saranno li Esibitori di questa. Due di Cercepiccola;
Uno di S. Giuliano; Cinque di Morcone; Sei di Sepino e quattro della Sua Corte medesima..."
Campobasso, 17 Luglio 1806
Lo storico Giuseppe Maria Galanti ebbe più volte a lamentarsi circa l’inadeguatezza della rete
viaria molisana, tanto da scrivere “Le nostre leggi che tanto hanno avuto a cuore l'abbondanza
della capitale, non si hanno poi dato molta cura delle strade, per potere meglio ancora assicurarle
la sussistenza. Nel 1621, per quattro mesi, caddero dal cielo tante piogge, che non si poterono
trasportare, né per terra né per mare dalle provincie le merci e soprattutto il grano, per cui Napoli
fu affamata “.
La strada consolare Sannitica fu la prima rotabile (cioè percorribile con ruote, vale a dire con carri)
costruita nelle zone dell'Alto Sannio. Fu decretata con R. R. 22 luglio 1778,quando, ultimata la
rotabile Napoli-Maddaloni, si pensò alla Maddaloni-Campobasso come seconda tappa per
allacciare il Tirreno con l'Adriatico.
Il marchese Caravita affidò la progettazione della strada all'ing. Costantino Portanova, che fu
sollecito nell'eseguirlo tanto da presentare il progetto il 3 settembre 1779.
Il progetto seguiva il tracciato dell'antica Via del Procaccio: Maddaloni, Solopaca, Guardia
Sanframondi, Pontelandolfo, Morcone, Sepino, S. Giuliano, Campobasso. Ma la costruzione della
strada fu ritardata per gli intrighi che seguivano al momento della realizzazione in modo particolare
da parte del Duca di Maddaloni, che come tentò con ogni mezzo di far modificare il progetto
iniziale dell'ing. Portanova.
Giuseppe Maria Galanti, al quale stava tanto a cuore la costruzione di questa rotabile, pubblicò un
opuscolo contro il duca di Maddaloni intitolato: 'Memoria per la strada nuova del Contado di
Molise” (Napoli, 1782) in cui difendeva il progetto originario dell'ing. Portanova e condannava gli
intrighi del Duca di Maddaloni.
Dopo vari ritardi, nel 1807 la strada aveva raggiunto Pontelandolfo, proseguendo il tracciato ideato
dal Portanova che prevedeva l'utilizzazione del vecchio tracciato della via del Procaccio che da via
mulattiera doveva diventare strada rotabile, adatta per essere percorsa da carri, traini e berline
trainate da cavalli. Nel 1807 il governo napoleonico assegnava a favore della costruenda strada
rotabile Pontelandolfo-Campobasso le rendite ed i proventi della vendita dei beni dei conventi
soppressi di Campobasso, Isernia e Boiano. Nel 1808 si completò il tratto da Benevento a
Campobasso (tuttavia Vincenzo Cuoco, nel suo viaggio nel Molise (1812), lamenta l’incompletezza
dell’opera) e solo nel 1845 la strada fu realizzata totalmente raggiungendo Termoli.
Si poté, dunque, andare in carrozza da Termoli a Napoli, dall'uno all'altro mare, ed infondere
nuova vitalità ai commerci, come era nei desideri di Galanti.
Ma già nel 1861 si progettano rettifiche al percorso, “per evitare le erte salite e ripide discese di
Monteverde, S.Giuliano, Sferracavallo e Morcone”. Il problema più grosso è rappresentato dalla
collina di Monteverde. Così si legge in una relazione:
“Senza tema di esagerare può dirsi che antico quanto la Strada Sannitica, è il desiderio comune di
vederla rettificata nel tratto che attraversa Monteverde per le non frequenti grassazioni (furti,
rapine, n.d.r.) che impunemente vi si perpetrano nei tempi eziandio i più normali e tranquilli, per gli
assideramenti dei quali i viandanti muoiono per la rigidezza che ivi tocca il colmo della stagione
jemale (invernale, n.d.r.), e per i forti geli che la intera invernata vi rimangono perenni, e quindi
dannosissimo alla speditezza del commercio che rimane con grande sciupo di tempo incagliato,
dovendosi raddoppiare innanzi ai carri le bestie da tiro per vincere le pendenze e contropendenze
da cui è spesseggiata la traversa di Monteverde lunga oltre dieci chilometri…”.
Molto più lento ed arduo fu per i centri collinari, che una volta erano al centro della rete dei tratturi,
collegarsi con la nuova strada rotabile. I paesi che per primi riuscivano a collegarsi con la Sannitica
furono più fortunati e beneficiarono ampiamente di questa possibilità.
Esaurita questa parentesi storico-geografica, torniamo al locus commissi delicti. Per chi percorreva
la via consolare Sannitica, una
volta risalito il corso del fiume
Tammaro e superato il territorio di
Morcone, si entrava nel territorio di
Sepino, e qui si poneva la
necessità di scavalcare il
sopracitato fiume, a quell’epoca
sicuramente più ricco di acque
rispetto alla situazione attuale, per
poi poter correre liberamente nella
piana di Altilia.
L’unico ponte disponibile era
quello che si trova tutt’ora nei
pressi del Casino del Principe
(oggi il ponte presenta l’antica
struttura ottocentesca, cui si è
sovrapposto l’intervento in
cemento armato dei primi anni
sessanta). Qui la strada appare
incassata tra il fianco di una collina
e la valle sottostante: un luogo
ideale per un agguato.
Una considerazione merita tutto questo ragionamento sulle strade. A cosa servono le strade?
Servono a collegare i posti dove le persone vivono, certamente. Oppure servono perché alcune
persone possano andare a prendere qualcosa che gli serve. E già sono due idee di strade
differenti. Oppure ancora servono semplicemente per passare, per andare oltre. E che utilità
hanno allora le strade? Probabilmente non hanno la stessa utilità per tutti coloro che vi transitano,
né per i territori che attraversano. Sappiamo oggi che non è vero che le strade sono importanti in
sé, ma hanno importanza per gli usi che del territorio si fanno. Il Collegamento Campobasso –
Napoli è stato importante fino al momento di Roma Capitale (1871), quando appunto è stato
soppiantato dall’asse Campobasso – Roma; ma cosa è cambiato in termini pratici, cioè economici
e di sviluppo culturale? La realizzazione della rete infrastrutturale degli anni ’70 che cosa ha
comportato? L’annichilimento dei piccoli centri e l’ingrossamento di altri, con quali risultati? Con il
risultato che ciò che è distante dall’asse stradale vale zero; ma anche che ciò che è
immediatamente vicino all’asse stradale, il luogo di semplice passaggio, cioè, vale ancor meno di
zero.
Sarebbero considerazioni da tener presente quando si pensa a nuove strade, ma questo non
riguarda né il popolo, né il feudatario. Riguarda chi amministra.
Il racconto, grazie anche al buio che presto è calato sulle montagne del Matese, ha rapito
l’attenzione dei presenti, i quali hanno dapprima ascoltato con attenzione e poi hanno rivolto
alcune domande al narratore.
Il fascino del racconto e la suspense creata dalla terrazza di Fonte Francone ha permesso a tutti di
calarsi per un attimo nella realtà storica di metà ottocento, immaginando di vivere le vicende
raccontate. Un imprevisto contributo è stato fornito dall’improvviso apparire di un cavallo, sbucato
dal buio tra i faggi, il quale sembrava voler quasi partecipare alla trama del racconto!
Un connubio, quella tra storia e natura, sicuramente ben riuscito, che il WWF Molise si propone di
ripetere ancora.
WWF MOLISE – 9 agosto 2013-08-09
La notte dei briganti
Passeggeri, grazie per essere venuti in questa notte di san Lorenzo, in cui
anche le stelle son passeggere come tutti noi.
Passeggero è chi passa, passa nel tempo o nello spazio, è chi passando
guarda e guardando osserva e osservando riflette su ciò che accade agli
altri assieme a ciò che accade a lui.
Mentre aspettiamo che il cielo diventi nero, questa sera vi voglio parlare
di una lapide che, grazie a cultori della nostra terra, ancora si può
leggere nel cimitero di Sepino.
Essa così ricorda:
Passeggiero ti sofferma e piangi, qui la civile Sepino a mirabile esempio di cristiana pietà
dopo solenni e gratuite esequie dava riposo a
Luigi Fusco da Frasso e a Carolina Cinelli da Morrone
giovani sposi e vergini ancora respinti dal talamo e
da spietati briganti trucidati presso il ponte del Tammaro nel giorno XIX di settembre 1862.
La madre della innocente sposa Beatrice Barbieri per debito
di riconoscenza alla terra ospitale questa lapide fra le lagrime poneva.
Passeggiero, se non piangi, di che pianger suoli?".
La lapide racconta della sventurata sorte di due giovani sposi che si
avviavano alla loro nuova vita assieme, ma racconta anche di due
mondi in dura lotta tra di loro: da una parte il mondo dei briganti, fatto
di regole primordiali e feroci, dall’altra quello dei galantuomini, dei
borghesi che si fanno strada tra le macerie della aristocrazia borbonica.
Da poco è arrivato Garibaldi, che è un uomo, non è un re, non è
principe, non è nobile. Ha tolto di mezzo il re borbone, e con lui le
vecchie regole di casta ed anche i timori religiosi, ha dato il regno a un
re piemontese, che sta lontano, oltre, ma molto oltre le montagne che
si vedono da Tr’viente.
Le regole sono cambiate. E allora cambiano gli uomini, si muovono; si
muovono cercando una nuova dimensione di vita in bilico tra vecchi e
nuovi valori; si muovono stupiti, senza certezza e senza guida. Le cose
cambiano e bisogna essere pronti e scaltri, se si vuole un posto al sole.
Il cantastorie Lucio, un poco ritoccato.
Arraffando e imponendosi con la violenza, come fanno i briganti. Oppure mettendo a frutto le risorse, i
soldi, le conoscenze che si hanno, come fanno i borghesi. Sepino è “civile”, vedete. I briganti, “spietati”.
Ma veniamo al fatto… è il 19 settembre 1862, un venerdì, e siamo a Campobasso la mattina presto. Dallo
spiazzo della Maddalena sta per partire la diligenza per Napoli. “La giornaliera”, la chiamano.
La diligenza è un grosso cassone di legno su ruote, trainato da quattro cavalli; il postiglione e il vetturino
sbuffano mentre caricano sul tetto dei grossi bauli, che appartengono a tre viaggiatori in particolare. Gli
altri no, sono bagagli normali come sono normali gli altri viaggiatori… ma questi tre sono un po’ diversi.
Sono diversi perché sono due giovanissimi sposi accompagnati dalla madre dello sposo. E’ gente di un certo
peso, si vede subito da come son vestiti e da come si
muovono.
La sposa è una giovinetta che non avrà più di sedici anni,
graziosa, ciarliera e vivace; pur essendo di un paese di 3000
anime veste alla cittadina, con una gonna di velluto scuro
da viaggio e una camicetta di seta bianca, chiusa al collo da
un nastrino con cammeo. Ha lunghi capelli raccolti ed
annodati sotto un cappellino, da cui sfugge ogni tanto
qualche ciocca ribelle e vezzosa, la pelle chiarissima, un viso
paffuto e labbra carnose con le quali parlotta con la
suocera. E ride. E’ amabile, allegra e bene educata. Il
postiglione ha notato l’interesse con cui il giovane vetturino
getta sguardi alla fanciulla, gli dice: “Chessa jè la nepote de
lu mieriche Cinelli de Morrone”. La fanciulla è bella,
elegante, graziosa.. illuminata dai primi raggi di sole di una
giornata di settembre, ovvio che si faccia notare. Il nonno
era il medico Luigi Cinelli che per Gioacchino Murat,
all’inizio dell’800, scrisse la relazione su Morrone per
l’inchiesta murattiana.
“Z’ha spusate a une de Frass’, chiss sacc’ quanta cievz
tienn”. Continua indicando il giovane sposo che non avrà
più di vent’anni. Elegante anche lui con stivali, pantaloni
che scendono dentro gli stivali, lunga giacca attillata, capelli
scuri e mossi. La madre parlotta con i giovani e non può fare a meno, ogni tanto, di aggiustare al figlio ora
una ciocca di capelli, ora la cravatta, ora la spalla, per togliere qualche pelucchio… non tutti a quei tempi
hanno conosciuto nella propria vita momenti di tenerezza familiare: la regola anzi sono botte, cinghiate,
violenza… anche in famiglia, soprattutto in famiglia.
“Quanta cievz…” Quanti gelsi. Sì, perché i Fusco, a cui appartiene il giovane Luigi, sono allevatori di bachi da
seta e lavorano, diremmo oggi, nell’indotto della fabbrica borbonica di San Leucio. San Leucio è una delle
industrie che sono il vanto dei Borboni che producono sete meravigliose esportate in tutta Europa, e la
fabbrica è improntata su principi illuministi di benessere degli operai e delle loro famiglie, così come in altri
luoghi come Capodichino, o nelle acciaierie di Taranto, dove si fabbricano navi e le prime locomotive
europee. Il territorio Borbonico è molto settorializzato e specializzato, in senso illuminista: alcuni territori
producono eccezionalità, altri provvedono al sostentamento dei lavoratori, ogni provincia produce da sé
quello che le occorre per vivere, mangiare, vestirsi, scrivere… Ma i piemontesi sono arrivati da poco,
nessuno ancora sa che le cose stanno per cambiare e nessuno sa cosa voglia dire monopolio, ancora.
I bauli che stanno caricando contengono probabilmente il corredo e regali di nozze. “Beat’ a isso’” dice tra
sé il vetturino, mentre il postiglione invita i passeggeri a salire.
La carrozza parte, direzione Napoli, sulla via detta del Procaccio, cioè della posta. Transita per la taverna di
tappino, transita per la taverna Falasca di san Giuliano, scende nella piana di Sepino dove ancora esiste un
vasto e fitto bosco, il bosco del Galdo (termine che deriva dal longobardo Wald, bosco, appunto,quindi
questo è “il bosco del bosco”…) da qui deve attraversare il ponte sul fiume Tammaro e procedere per
Sassinoro, Morcone, Pontelandolfo che ha vicino Frasso, poi Caserta e infine Napoli.
Ma nei pressi del ponte ecco qualcosa va storto, ecco spuntare i briganti. Eppure una guarnigione di guardie
nazionali si sapeva essere alloggiata alla taverna di Sepino ma no, si sono spostati verso Cercemaggiore.
Quello che accade ci viene raccontato da diversi, anche da Giambattista Masciotta. Secondo la cronaca e i
rapporti ufficiali un gruppo di trenta briganti armati fermano la diligenza, staccano i cavalli. Mentre alcuni
tengono i viaggiatori sotto tiro, altri saccheggiano i bagagli. Stiano tutti calmi e nessuno si farà male.
Sempre secondo la cronaca raccontata a questo punto uno dei briganti che tiene sotto tiro i viaggiatori si
avvicina a Carolina, allunga una mano forse per prenderle il cammeo, la giovane si oppone, afferra il fucile
del brigante per la canna e un colpo esplode. La giovane cade, lo sposo si avventa sul brigante ma viene
assalito dai compari che lo trafiggono più volte con le baionette, e gli danno colpi sul corpo e sul capo col
calcio dei fucili. Tutto sotto gli occhi della madre che urla e poi si ammutolisce, impazzita. Morirà in due
giorni di crepacuore. O forse no, è il marito che non vuol scendere e la sposa è già a terra. Lo minacciano,
lei si fa innanzi, succede l’incidente. O forse accade altro ancora, perché i corpi, ci dicono, vengono ritrovati
“dilaniati”.
Spariti i briganti verrà gente di Sepino, dalla vicina taverna, dal paese a rincuorare i viaggiatori e raccogliere
i cadaveri. Si faranno esequie civili e religiose, tutto a spese del Comune, perché questo triste episodio ha
colpito tutti e si deve dare un segno che no, la civile Sepino non ci sta alla barbarie dei briganti. La madre
della giovane sposa, per dare memoria ai figli e ringraziare il comune, farà apporre la lapide al cimitero.
“Passeggero, se per questo non
piangi, per che cosa sei abituato a
piangere?”
Le cose andarono proprio così, come
ci dice la cronaca del Masciotta? O
fu questa la volontà di usare questi
ragazzi come martiri civili? O il
tentativo di una madre di coprire
pietosamente onori sconvolti?
Perché insistere tanto sulla verginità
degli sposi? Sono partiti di venerdì,
gente così non si sposa di giovedì,
tra una cosa e l’altra…
La gente infatti parla. Parla sottovoce, chiacchiere di taverna, certo. La gente parla e si chiede intanto come
mai la guarnigione di carabinieri e guardie civiche che si trovava alloggiata alla taverna di Sepino, proprio
quella mattina si era mossa. Si era mossa perché a due passi, a Cercemaggiore, avevano saputo essere
appostato un brigante e i rapporti di polizia parlano, nella serata del 19 settembre, di scontri a fuoco. In
quei giorni c’è dunque un brigante importante, in giro. E’ il brigante Michele Caruso, detto il colonnello
Caruso.
Del colonnello Caruso sappiamo che è nato a Torremaggiore il 30 luglio del 1837, all’epoca dei fatti aveva
perciò 25 anni; fin da piccolo fu irrequieto e spesso violento,
dedito a furti e ricatti; presto si avviò per la via del tratturo
diventando prima un cavallaro e poi un sensale di grano, imparò
quindi le regole dure dei pastori, dei viaggiatori, della gerarchia
tratturale, del commercio di strada; imparò a trattare con la
gente e a imporsi; imparò che quando sei uno che si muove puoi
combinare cose che se stai fermo in un posto è bene non fare.
Forse, va detto forse perché molti documenti borbonici sono
andati persi, prestò servizio militare e, dicono, con il grado di
caporale nell’esercito borbonico si trovò a combattere contro
Garibaldi sul Volturno e nell’assedio di Gaeta. Forse si mise in
mostra, al punto da essere poi contattato da loschi partigiani
borbonici che battevano le campagne offrendo armi, denaro e
impunità a chi avesse sostenuto con il brigantaggio il ritorno del
re Borbone.
Si alleò con altri capibanda e arrivò ad avere una banda di 300
uomini, oltre a una rete di appoggi, arsenali e riserve su tutto il territorio.
Combatteva, saccheggiava e comandava, primo scopo arricchirsi e mantenere i suoi uomini, perché questo
era il segno del suo potere che doveva essere evidente anche agli altri comandanti briganti.
E’ un capo brigante feroce e lui, le donne, le stupra, le violenta e oppure o le fa violentare dai suoi uomini.
E’ successo a tante che nemmeno si
possono contare. Violentate.
Violentate e uccise, o uccise e basta,
solo perché piagnucolose e
fastidiose. Altre, si dice, uccise
perché rimaste in cinta dopo una
violenza, e il colonnello non vuole
essere ricattabile con la paternità,
perché un senso dell’onore, anche se
tutto suo, lui ce l’ha.
Non è che lui ce l’abbia con le donne,
non è questo. Le donne a quei tempi
non sono così importanti da poter
essere oggetto di odio. La sua è una
logica primitiva, per cui chi ha le armi
comanda, e chi comanda fa ciò che vuole delle cose, delle mucche, delle pecore, degli uomini e delle donne.
Perché gli uomini fanno la guerra, mettono a rischio la propria vita se non per sottomettere, mangiare il
grano che altri hanno seminato, bere il vino che altri hanno vendemmiato, stuprare donne che altri hanno
reputato il tramitedel proprio futuro?
E’ successo a donna Mariantonia Bilotta, di Morcone, alla quattordicenne Pasqualina Lanzitti, violentata alla
luce del rogo che bruciava il cadavere del padre, a quindici donne, braccianti agricole, di Sant’Angelo dei
Lombardi e di queste due morirono dopo giorni; a Carmela Labriola, serva dei Cerulli di Pontelandolfo; a
Teresa Martucci e Angela Iapolla di Decorata, semplici contadine intente a raccogliere legna; a Concetta
Chiafari di Molinara, uccisa perché piagnucolona; a Anna Belmone, contadina nubile di San Marco la
Catola, che sfuggita a tre briganti che le razziavano il pollaio e la casa, si rifugia in casa della vicina, moglie di
Saverio Belmonte. Ma proprio qui incontra il Caruso che le violenta entrambe. Per tacere delle centinaia di
contadini nelle cui case isolate si presentava a sera, scannando gli uomini e facendo bisboccia tutta la notte,
stuprando e ubriacandosi e scomparendo il mattino dopo senza prove e testimoni. Quante, delle antiche
masserie delle nostre terre, ancora mostrano il buco nel muro, sopra la porta, dal quale il fucile del massaro
sperava di poter tenere testa a visitatori notturni?
No, dice la gente, se c’è di mezzo il colonnello Caruso le cose non possono essere andate così, anzi
l’agguato è stato premeditato e organizzato, forse commissionato. Perché? Perché prima della venuta di
Garibaldi, quando il Caruso era un semplice caporale dell’esercito borbonico, i due amoreggiavano, dice la
gente. Caduto il re borbone il padre di Carolina aveva rotto il fidanzamento, imponendo alla figlia un ricco
matrimonio.
Chiacchiere, sicuramente. Nel processo a Caruso non c’è nessuna accusa sull’episodio del ponte sul
Tammaro. Però quel giorno era lì vicino, questo è
certo. E nessuno dei suoi briganti si sarebbe azzardato
a prendersi la responsabilità di una missione così
avventata, con i carabinieri in giro. Il punto è che per il
popolo, o per una parte del popolo, il brigante è
comunque uno di loro, un loro figlio, un loro parente. E
va sostenuto, giustificato, in qualche modo protetto.
Ma torniamo al rapporto che il Brigante Caruso ha con
le donne. Non tutte le donne furono per lui semplici
oggetti di piacere, alcune erano con lui, lo ospitavano,
lo alloggiavano, altre curavano il benessere dei suoi
uomini, ma due in particolare lo segnarono
profondamente, una addirittura in modo mortale.
A Cercemaggiore aveva trovato nel bosco a far legna
Maria Luisa Ruscitti, serva di una famiglia locale. La
rapì, la violentò… ma lei divenne per lui la compagna
ideale. Aveva all’epoca diciannove anni. Imparò presto
l’uso delle armi e le tecniche di battaglia; diventò in
fretta un soldato eccezionale, determinato e feroce e
al tempo stesso una calda compagna. Feroce era
feroce: si dice che fu vista accanirsi sul corpo di un
soldato piemontese calpestandolo più volte con gli
zoccoli del cavallo, mentre incitava gli uomini.
Purtroppo per lei - e per loro - durante uno scontro nel quale aveva appena ucciso un ufficiale, Maria Luisa
fu disarcionata e fatta prigioniera. Fu condannata a 25 anni di galera. Ne uscirà nel 1888 per tornare a fare
la serva a Cercemaggiore, vivendo fino al 1903 in modo dimessissimo.
Ma un’altra donna segnerà il Brigante Caruso. Passando per le campagne di Riccia, Caruso vede un uomo,
un contadino, che, vistolo e abbandonato l’aratro, corre sbracciandosi verso casa. Il colonnello con un colpo
di fucile lo uccide. Lui pensa che stia andando ad armarsi o a chiamare qualche pattuglia, invece stava
correndo per avvisare la figlia Filomena e altre due figlie, che si nascondessero.
Caruso le vede uscire di casa, vede Filomena che dicono fosse bellissima; ha quindici anni, pelle abbronzata
dal sole, è una contadina… occhi scuri e profondi, la vede con i lunghi capelli ricci mossi dal vento e dalla
corsa frenata verso il padre, ne osserva il fisico perfetto, generoso…
Non fa nulla, tira dritto per la sua strada, quel giorno. Ritorna quaranta giorni dopo mentre lei nel campo è
intenta alla semina. Lei, al vederlo, fugge. Lui la rincorre con il cavallo, la afferra, la solleva. Lei si divincola,
si agita, morde, gli sfugge, rotola a terra e riprende a correre. Lui volta il cavallo e torna ad afferrarla. Per
quattro volte l’afferra e per tre lei gli sfugge, ma la quarta è esausta. Il brigante la conduce in una grotta tra
Riccia e Decorata e la violenta.
Lui non lo sa, non gli rimane molto tempo, ma si troverà spesso a passare per le contrade di Riccia con il
pensiero fisso di Filomena, di prendersi Filomena, la bella Filomena Ciccaglione. Le è sufficiente minacciarla,
minacciare di morte le sue sorelle perché lei accorra, quando chiama. Servizievole ed obbediente.
Così il sei dicembre 1863; si è
saputo che Caruso, con un
solo compagno di 17 anni
appena, si trova tra Molinara
e Riccia. E vuole Filomena, la
manda a chiamare. Lo hanno
saputo anche il sindaco e il
comandante della guardia
nazionale, che parlano con
Filomena. E’ il momento della
vendetta, è il momento della
gloria, ed anche della taglia
che c’è su Caruso. Dov’è
l’appuntamento? In quale
pagliara? Filomena accetta.
Per la vendetta, solo per
quello. Quella sera, al
brigante stanco, una inattesa Filomena donerà momenti di tenerezza che certamente mai quel ragazzo
violento e selvaggio ha provato; mentre lei gli accarezza i capelli, lui affonda gli occhi in quelli scuri,
profondi e intensi di lei.
“Mi hai tradito…” dice lui. Un istante solo e carabinieri e guardie irrompono nella pagliara, arrestano e
legano tutti, anche la Ciccaglione, ma solo così, per non destare sospetti.
Caruso e il giovane Testa, il compagno
diciassettenne, vengono tradotti a Benevento
e qui processati dal tribunale militare. Il 12
dicembre Caruso e il Testa, portati in piazza a
dorso di asino, vengono pubblicamente
fucilati.
La compagnia è disciolta, la rete di
connivenza smantellata, dei trecento briganti
molti sono presi e fucilati, altri condannati e
inviati nel carcere di finestrelle, ad alcuni, da
qui, sarà data la possibilità di essere mandati
in america, come combattenti nella guerra
civile americana al fianco dei nordisti.
E Filomena? Ritornerà a Riccia, fortemente provata da questa storia, dalla sua storia. Della bella Filomena si
dirà, poco dopo, “sì, è bella. Ma smunta e scimunita”. Morirà dopo tre anni, a 19 anni soltanto, con una
pensione di 40 ducati.
Carolina Cinelli e Luigi Stanislao Fusco. Come sono morti? Non lo sappiamo, l’autopsia, se è stata fatta, non
ci è stata tramandata. C’erano verità dolorose da nascondere? E’ stata solo una rapina finita male? Una
occasione per farsi vanto di martiri civili?
Non lo sappiamo, ma pensando a questi giovani sposi uccisi mentre si avviavano verso il futuro in una terra
ricca di gelsi non ci resta che piangere perché… passeggeri, se non piangiamo di questo, di che cosa siamo
soliti piangere?
Curato mediante considerazioni autonome su varie fonti da dr. L. Lotti e Arch. L.C. Fatica ©