Quindici Passi - Giuliano Foschini

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Inchiesta sull'ILVA di Taranto

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© 2009 Fandango Libri s.r.l.

Viale Gorizia 19

00198 Roma

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-6044-122-5

Copertina:

disegno di Gianluigi Toccafondo

progetto grafico Studio Jellici

www.fandango.it

Stampato su Editor 2, carta ecologica riciclata naturale, prodotta con il 100% di maceri e senza l’uso dicloro o imbiancanti ottici.

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Giuliano Foschini

Quindici passi

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Secondo l’Inventario nazionale delle emissioni in atmosferadi Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricercaambientale, nel 2006 in Italia l’industria ha emesso il 95%del totale dell’arsenico scaricato in atmosfera da tutte le fonti,il 90% del cromo, l’87% dei Pcb, l’83% del piombo, il 75%del mercurio, il 72% di diossine e furani, il 61% di cadmio.Sono state emesse in atmosfera poco più di 173mila tonnella-te di polveri sottili (PM10); per il 28% del totale dalle atti-vità industriali e per il 27 dai trasporti stradali e oltre 1milione di tonnellate di ossidi di azoto (NOx), il 44% deiquali derivanti dal traffico stradale, mentre il 25 è dovutoall’industria. Nelle classifiche di emissioni per questo tipo dielementi tossici, Taranto è nettamente al primo posto.

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Il Vulcano

Crateri di cemento, magma e cassa integrazione, Taranto èun vulcano. Attivo.

Erano le 8.35 dell’11 dicembre 2008. Il momento eraanonimo, eppure mi veniva da ripetere a bassa voce quel-la data e quell’orario, lo fissavo nella mente come servissealla storia. Per la prima volta nella mia vita pensai intensa-mente agli acronimi, le parole formate con le lettere o lesillabe iniziali di altre parole. A Taranto quel giorno c’eraun bel sole d’inverno, di quelli che conosce soltanto chi hala fortuna di essere nato nel sud del Mediterraneo. Dallamia sedia si riusciva persino a vedere il mare. Ero all’ospe-dale Testa, ma non ero malato. Ero in quella stanza perascoltare una conferenza organizzata dall’Arpa. Parlavanodi veleni e malattie, parlavano di industria e quindi parla-vano anche della gente. Parlavano con termini difficili,astrusi, a tratti odiosi, spesso in inglese. Non parlavanotanto di questa città, Taranto, e nemmeno di questa regio-ne. Discutevano di malati e di morti e per farlo usavanogli acronimi. Arpa, per esempio, è un acronimo. Sta perAgenzia regionale per la protezione ambientale: Arpa,come lo strumento musicale che è segno di eleganza, dimusica dolce. Ma questo c’entra poco. Anzi nulla. Arpa è

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un acronimo gentile. Forse l’unico. Gli altri che mi vengo-no in mente, forse perché sono quelli che sentii ripetere peruna giornata intera in quella dannata stanza, sono Pcb, Bat,Bot, Nox, Cox, Aia, Ipa, Pm10 e non sono gentili per nien-te. Prima di andare a Taranto quella mattina avevo studia-to. Sapevo già che questo miscuglio disordinato di lettereche intimoriscono come una lezione di chimica, a Taranto,significano tante cose ma spesso una cosa soltanto. E non èbuona per nessuno. Perché gli acronimi non stanno soltan-to nelle parole degli scienziati o dei politici. Non sono suigiornali e nelle riviste tecniche. Gli acronimi si trovanoanche nell’aria e per questo colpiscono tutti senza distin-zione di sesso, razza, religione e ceto. Gli acronimi sonodemocratici. A volte credo che gli acronimi non abbianouna funzione grammaticale né tantomeno sintattica. Piut-tosto hanno una funzione sociale: sono stati inventati pernon far capire il reale significato di quello che rappresenta-no. Per non far spaventare, allarmare, intimorire la gente.Per permettere loro di andare a lavorare e poi gustarsi latelevisione, un libro, una canna senza troppi pensieri per latesta. Si vive più tranquilli senza sapere cosa è l’Ipa.

La massiccia presenza di Idrocarburi Policiclici Aromatici nell’a-ria rappresentano la vera, grande emergenza sanitaria di Taranto.

Giorgio Assennato, Arpa Puglia

Non sono di Taranto, ma Taranto è una bella città. Hauno dei più affascinanti ma sgarrupati, fatiscenti, centristorici che io conosca. Ha un lungomare elegante, pano-ramico. L’unico che ricordi più bello, forse perché ancorapiù inatteso, è quello di Reggio Calabria. Poi certo c’è il

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ponte girevole e da un anno ha riaperto il Museo Nazio-nale Archeologico, una meraviglia anche per i profani. C’èpoi una Taranto che è tre volte Taranto. Si chiama Ilva, mafino a 15 anni fa, quando era pubblica, si chiamava Italsi-der. Si tratta dell’acciaieria più grande d’Europa, una fab-brica che contiene al suo interno 250 chilometri di ferro-via, altiforni di decine di metri, una produzione in tempidi crisi di 24.200 tonnellate di ghisa liquida al giorno e16.700 di acciaio liquido. L’Ilva produce tanto, più di ognialtra fabbrica nel continente. Sostengono gli acronimi cheinquini anche molto. Il proprietario di questa fabbrica èEmilio Riva, un distinto ed elegante signore ormai ottan-tenne che nel 1957 aprì un forno elettrico per la produ-zione dell’acciaio a Milano. Nel 1995 con una firma sol-tanto comprò dall’Iri tutte le acciaierie pubbliche, com-presa quella di Taranto, diventando così il massimoimprenditore siderurgico europeo. C’era il governo Dini,all’epoca, e questo distinto signore bresciano staccò per lostabilimento tarantino un assegno da 1.460 miliardi dilire. Troppo poco, ha poi detto qualcuno. Ma questo nonconta. Certo l’investimento ha poi dato i suoi frutti. Negliultimi quattro anni il gruppo ha prodotto utili per 2,5miliardi (non milioni) di euro. Riva quindi è un uomoricco, molto ricco, ricchissimo. Così tanto da essere entra-to nella cordata di imprenditori che ha salvato Alitalia,mantenendo l’italianità della compagnia di bandiera. Perquesto tutta l’Italia deve dirgli grazie.

Dovremo sempre essere grati a questi capitani coraggiosi.

Silvio Berlusconi, 18 agosto 2008

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Nella sala conferenze si discuteva di Ilva e di Taranto. Siparlava di aria. In realtà non si parlava soltanto di Ilva maanche della raffineria Agip e di tutte le aziende dell’indot-to, perché a Taranto non si fanno mancare nulla: c’è la raf-fineria Agip del gruppo Eni, il cementificio Cementir delgruppo Caltagirone, le due centrali elettriche della societàEdison Spa, le cave della società Italcave, gli impianti dellasocietà Italcave, gli impianti della società Enel, un impor-tante conglomerato di parecchie decine di piccole e medieimprese collocate nell’area del consorzio industriale Sisri,due inceneritori e un impianto pubblico di smaltimento,nonché l’arsenale e il porto militare, i cantieri navali exTosi e l’ex industria Belleli. A Taranto c’è tutta questaroba, tutta quanta insieme. Una roba che è fatta di fumo,di polvere, di fiamme. Attorno alla città rimesta un gigan-tesco polo industriale, per molti aspetti il più impressio-nante del Mediterraneo.

Quella mattina la sala dell’ospedale era piena, la gentesilenziosa e ordinata. In platea c’era qualche cittadino masoprattutto c’erano molti tecnici e tanti politici. Era faci-le distinguerli: i politici parlavano senza le slide alle lorospalle, per lo più a braccio, qualcuno, i più noiosi a direla verità, leggendo un foglietto che qualcuno aveva messoloro tra le mani. I tecnici, invece, formavano una sorta diologramma con il Power Point, il corpo mischiato con leslide, tanto che i più raffinati avevano persino scelto lacravatta in tinta con il colore delle diapositive. Finezze.

In questo momento la vera emergenza ambientale italiana si chia-ma Taranto. È la città più inquinata d’Ita lia, probabilmented’Europa.

Giorgio Assennato, Arpa Puglia

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Giorgio Assennato è il direttore generale dell’Arpa, unuomo canuto con l’aria da studioso. Durante il suo inter-vento la platea ascolta in silenzio e non perde una parola.È un professore universitario, un medico del lavoro, anziun “epidemiologo occupazionale” come mi disse unavolta, con la passione per la storia locale: è barese e di Baricolleziona antiche mappe e vecchie cartoline. GiorgioAssennato è un uomo di battaglie, nella sua vita ne ha fattetante: quando era al Policlinico di Bari ha combattuto(senza troppa fortuna) con i baroni universitari, quelli chescambiano i reparti per cosa loro, non per cosa nostra. Damedico del lavoro è stato invece uno dei primi a occupar-si dei dipendenti della Fibronit di Bari, la fabbrica dell’a-mianto: decine, centinaia di operai si sono prima amma-lati e poi sono morti. La stessa fine è toccata ai moltiinquilini delle abitazioni che confinavano con la fabbrica.

Anche grazie al lavoro e agli studi del professor Assen-nato è stata provata la correlazione tra quelle malattie el’industria: oggi il sito è stato messo in sicurezza, non è piùpericoloso per nessuno, ed entro i prossimi quattro annidiventerà un parco. Un parco vero, al posto dei capanno-ni di amianto ci saranno le siepi, gli alberi e magari qual-che monumento in memoria dei caduti dell’aria. “A tutticoloro che nella loro vita sono stati colpevoli soltanto dilavorare. O di respirare”, potrebbero scrivere sulla targa. Apensarci bene prima o poi Taranto potrebbe diventare unenorme monumento.

Gli effetti sanitari del disastro ambientale cominciano negli anniscorsi e continuano ancora oggi ma noi dobbiamo ancora conoscer-li. Soltanto nei prossimi anni gli studi epidemiologici potrannodirci esattamente cosa hanno significato per la salute della gente

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tutte queste emissioni dannose. Oggi i dati ci segnalano la presen-za anomala, rispetto al resto della provincia e della regione, di unaserie di malattie neoplastiche riconducibili all’inquinamentoambientale. Ma è ancora troppo presto per tirare le somme. Percapire a cosa andiamo incontro bisognerà ancora aspettare deltempo. Serviranno anni per capire quanti morti, quanti ammala-ti ha fatto questa guerra.

Giorgio Assennato, Arpa Puglia

Taranto è una bella città. Me lo ripeto sempre. Forse cercodi convincermene, ma il suo fascino è innato, sotterraneo.Non piace solamente a me. Piace molto anche a Vittorio;nemmeno lui è tarantino e fa l’avvocato. Sembra un ragaz-zo, ma non lo è, ha passato i quaranta, è segaligno, altocon la barba rossiccia e gli occhi azzurri. È un tecnico, unoche conosce le leggi, sa interpretarle, le scrive anche.Tempo fa mi parlò del progetto di una legge regionale permettere un limite alle emissioni di diossina. È un pazzo,quindi, ma dal primo giorno che l’ho conosciuto mi hasempre dato informazioni preziose. Vittorio parla soltantodelle cose che conosce. Potrebbe sembrare una banalità,invece è una rarità. Vittorio ha la passione dei panorami edelle foto scattate con il telefonino: “Non è un discorso diqualità ma di istanti, momenti, attimi”. Sostiene chequando si fotografano con il telefonino le persone e anchei panorami, non hanno il tempo o la voglia di mettersi inposa, come invece fanno con le macchine fotografiche tra-dizionali. Al piccolo obiettivo di un cellulare si offrononaturali. “Quindi sono più belli.” Sinceramente mi sem-bra una stronzata, affascinante, ma pur sempre una stron-zata. Vittorio ama però ripeterlo sempre, per vezzo. Devoammettere però che le sue foto non sono mai in posa.

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Sono sempre molto belle, leggere, come fossero ritoccatecon i colori a matita più che con il Photoshop. In unapausa della conferenza, anzi in un coffee break così come dabrochure della giornata, Vittorio mi tirò per il maglione, amomenti mi faceva precipitare il pasticcino che avevo inmano, per portarmi sul terrazzo dell’ospedale Testa. Midisse che aveva voglia di fotografare le strutture portualidell’area industriale: “Dal lastrico si riescono a dominarecome forse in nessun altro posto di Taranto”. Incantevole,il terrazzo dell’ospedale Testa. In realtà bello anche l’ospe-dale, squadrato come sanno essere soltanto gli uffici pub-blici ma comunque pulito, ben tenuto, ordinato. Rassicu-rante. In realtà l’ospedale non è un ospedale, ristrutturatocome nuovo, la costruzione è da qualche anno disabitatasu disposizione dell’Autorità sanitaria. “Troppo vicina alleraffinerie che rendono impossibile ogni attività, assisten-ziale e non”, mi spiegò Vittorio come un fonogramma,mentre salivamo le scale. In sostanza ero di fronte a unparadosso: il luogo della cura che diventa il luogo delrischio. Devono essere questo tipo di cortocircuiti ad azio-nare i vulcani. A Taranto quella mattina c’era il cielo amacchie. Nel porto era fermo un mercantile e lungo lalinea dell’orizzonte si intersecavano molte altre cose anco-ra. “Giganti”, “Mostri” ripeteva Vittorio. A me, invece,per uno strano gioco geometrico di prospettiva, quelle grue quei container in mezzo a un groviglio di ciminiereerano sembrati quasi dei mulini a vento. Era proprio così.Oggi ci sono le foto che mi danno ragione e poi forse quel-l’immagine è anche qualcosa in più. Una metafora. Saràche ho sempre sognato di chiamarmi de Cervantes Saave-dra. Vittorio aveva finito di fotografare, nel frattempo laconferenza era ripresa. Al mio posto mi aspettava unfogliettino di Legambiente, un pezzo di carta che distri-

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buivano all’ingresso e con il quale avevo giocato per tuttala mattinata. Ma come diavolo si fanno le barchette?

Lo stabilimento siderurgico Ilva vince su tutte le altre aziende ita-liane per aver emesso in atmosfera 32 tonnellate di Ipa (pari al95% del totale nazionale delle emissioni industriali censite dall’I-nes), 92 grammi di diossine e furani (pari al 92% del totale), 74tonnellate di piombo (78%), 1,4 tonnellate di mercurio (57%),231 tonnellate di benzene (42%), 366 kg di cadmio (42%), 4tonnellate di cromo (31%). Tre classifiche invece riguardano imacroinquinanti: le emissioni da primato nazionale dell’Ilva sonole 540mila tonnellate di monossido di carbonio (pari all’80% deltotale nazionale delle emissioni industriali censite dall’Ines), le43mila tonnellate di SOx (15%) e le 30mila tonnellate di NOx(11%).

Legambiente

Ero dentro il vulcano più grande d’Italia. Un vulcano senza magma ma ribollente di acronimi.

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Scusi mi fa accendere

Vittorio me l’aveva domandato con il sorriso, quando era-vamo in cima al terrazzo: “Hai da accendere?”. E quel sor-riso non l’avevo capito: io non fumo, Vittorio nemmeno.Avevo però intuito che si trattava di un’allusione, che làdietro c’era qualcosa e che quel qualcosa fosse in qualchemaniera legato alla città, al colore del cielo, al porto, alleciminiere. In sostanza al Vulcano.

Cosa volesse dire Vittorio lo capii dopo, qualche ora piùtardi. Era un’ironia amara la sua, l’avrei compresa grazie aun ragazzino bizzarro, ma simpatico; le scarpe bianche everdi che portava ai piedi, bianche con i quadrifogli verdi,sembravano un gadget della Prealpi. La sala delle confe-renze era piena zeppa, e non soltanto di studiosi. Accantoa quelli con la cartellina e con il Power Point, insieme agiornalisti e medici, politici e portaborse vestiti tutti ugua-li modello Blues Brothers, c’era anche gente normale. Erala gente del Vulcano.

Il ragazzino per esempio si chiamava Luca e aveva 14anni. Non era la prima volta che lo vedevo al Testa. In real-tà lo avevo già incontrato qualche giorno prima in una saladi ospedale. Un ospedale vero. Luca è un tipo strano e alladefinizione non contribuisce né il colore delle scarpe néquella giungla di capelli neri e ricci perennemente sporchi.

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Luca è una specie di scugnizzo con i congiuntivi al postogiusto, un talento con il pallone e sui banchi di scuola. Lamattina stessa che ci incontrammo, Luca mi raccontò lasua storia, quella di un tarantino doc cresciuto con duegrandi passioni: la geometria e Andrea De Florio.

Luca sosteneva che tra le due cose, in fondo, non ci fos-sero grandi differenze. Entrambe sono composte da lineeperfette, le prime tracciate su un foglio di carta in piùdimensioni (“li sai fare i parallepipedi, tu? Io ne disegno incontinuazione”), le altre attraversano un campo di pallo-ne. A lungo, e in più occasioni, ha provato a spiegarmi unateoria geometrica da lui recentemente scoperta, ma hofatto sinceramente molta fatica a comprenderla. Più age-vole, grazie anche a un gol contro la Juve Stabia visibile suYoutube, comprendere la storia di Andrea De Florio, uncentravanti passato per Taranto fatto di velocità e tecnicaapplicata alla serie C, uno di quelli che se il pallone nongli arriva preferiscono andarselo a prendere a centrocam-po, e poi lanciare il terzino per far vedere a tutta quanta lasquadra come si fa. Una delle prime cose che mi ha rac-contato Luca, quando eravamo ancora nello studio delmedico nell’ospedale, è che lui ha un poster di De Florioin camera e che un giorno gli piacerebbe essere come lui:“Menare e segnare”, mi disse proprio così tracciando dueinfiniti calcistici che sono una meraviglia. La seconda cosache Luca mi raccontò, appena conosciuti, era che lui sitrovava in ospedale non per caso. Non passava di lì né tan-tomeno era andato a trovare un parente. Luca mi raccon-tò che era lì perché portava nelle tasche sempre un accen-dino. Eppure non fumava. A Luca, così come a un altroragazzino che poi era finito anche sui giornali, avevanodiagnosticato due anni prima un carcinoma della rinofa-ringe. Il cancro caratteristico del fumatore incallito.

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Un bambino che vive a ridosso dell’area industriale inala in media2 sigarette al giorno cioè 780 all’anno.

Comunicato stampa dell’Associazione italiana contro le leuce-mie, PeaceLink

Non sarà un acronimo, ma accendino è una parola moltoimportante a Taranto. Forse la più importante. L’accendi-no è infatti l’oggetto più diffuso in città, un simbolo senzadistinzioni di età, classe o sesso. Ce l’hanno in tasca anchei vecchi, quelli che bevono la Birra Raffo, la birra che vienevenduta solo in questa città e che è una sorta di simbolo,anzi qualcuno dice che la Duff di Springfield nei Simpsonsia ispirata alla birra tarantina. “Ma che Duff, quella è a’Raff.” E poi un vero tarantino apre i tappi delle bottigliedi birra con l’accendino, un gesto simbolico che unisce ledue passioni di questa città.

L’accendino ce l’aveva in tasca anche Maria che hoincontrato quasi per caso la prima volta che sono stato aTaranto. Stamattina sarei andato volentieri a trovarla. Manon posso: Maria, che aveva un delizioso negozio di profu-mi giù in centro, tre mesi fa è morta. Aveva 49 anni, duefigli, e un cancro al pancreas. I bene informati assicuranoche anche il marito di Maria continui a portare l’accendino.

Luca nei suoi primi quattordici anni di vita, suo malgra-do, non si è mai disfatto di quell’accendino. Ci è affeziona-to come fosse la sua coperta di Linus, lo porta con sé ovun-que, persino quando corre sul campo di calcio accanto allepanchine, su tutte le fasce destre di terra battuta dei campidi provincia che abitualmente frequenta insieme con lasquadra giovanile della quale è capitano e numero 7. Gliaccendini sono ovunque a Taranto, uno in ogni tasca, unoin ogni borsa, se ne stanno nascosti nelle giacche di visone

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e in quelle di acrilico, anche solo come portafortuna. Deveesserci qualcosa di strano, in questa città. Qualcosa tipo l’in-chiostro magico, non puoi vedere nulla finché non avvicinial foglio bianco la luce.

A Taranto i pacchetti da dieci non si vendono.Tabaccaio del centro storico

La cosa è di difficile comprensione. Per questo forse èmeglio abbandonare i racconti geometrici di Luca e affi-darsi a un professore di liceo, una persona seria e appunti-ta, di quelli preparati, pignoli e per questo infastiditi dallacialtroneria giornalistica. Il professore si chiama Alessan-dro Marescotti. Alessandro è tarantino. Non è uno scien-ziato, ma lo è diventato. È professore di italiano, storia egeografia ed è il presidente di un’associazione ambientali-sta che si chiama PeaceLink quella che, forse, meglio ditutti può raccontare e spiegare lo strano caso del vulcanoTaranto. Forte dell’esperienza accumulata in questi anni,Alessandro è in grado di dare corpo alla freddezza degliacronimi. “I dati”, mi aveva raccontato una volta, “siaquelli dell’Arpa, sia quelli dell’Ispra, ci dicono senza dub-bio che Taranto è la città più inquinata d’Italia e probabil-mente d’Europa. Per questo motivo la gente si ammala esi continuerà ad ammalare. Riconosco però che è difficilecomprendere dati espressi con terminologia specialistica eunità di misura che esulano dall’esperienza quotidiana: insostanza noi parliamo di nanogrammi (miliardesimi digrammo) e la gente cosa capisce?” Poco, ci capisce poco.Per questo l’associazione di Alessandro, con la collabora-zione del direttore del servizio di Chimica ambientaledell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova

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(la lunghezza delle cariche scientifiche ne determina spes-so l’importanza), il dottor Franco Valerio, ha cercato ditrasformare le informazioni scientifiche in “conoscenzedivulgabili e facilmente comprensibili”. In sostanzahanno provato a sciogliere gli acronimi e a raccontarci lastrana storia degli accendini di Taranto. “Uno dei proble-mi principali di Taranto”, diceva Alessandro, “sono gliIpa, ossia gli Idrocarburi Policiclici Aromatici. Fra i piùpericolosi per l’uomo, perché assai cancerogeno, è il ben-zoapirene, sostanza contenuta anche nelle sigarette. Insostanza nell’aria di Taranto ci sono le sigarette.” Il sillo-gismo in questo caso non è soltanto un gioco di logica.Ha sicuramente una tendenza alla semplificazione, ma fatossire lo stesso. Luca pare tossisca anche in campo, diquesto l’allenatore non è affatto contento. “Per fare laproporzione”, raccontava Marescotti sempre con lo stessotono, come stesse spiegando le guerre puniche, “abbiamovalutato la quantità di aria respirata da ciascuna persona,a seconda dell’attività che svolge e a seconda dell’età cheha, e poi abbiamo quantificato il benzoapirene che c’è inuna sigaretta. A questo punto abbiamo individuato laquantità di benzoapirene presente giornalmente in unmetro cubo d’aria in alcuni quartieri di Taranto e abbia-mo calcolato i metri cubi respirati giornalmente da unbambino, a seconda del suo tipico stile di vita, tenendopresente le ore di sonno, quelle di gioco, più una serie dialtri fattori. Una volta ottenuto il totale dei nanogrammidi benzoapirene inalati in un giorno, abbiamo diviso talevalore per il benzoapirene mediamente contenuto nelfumo di una sigaretta, lo stesso fumo che inala il fumato-re. In questo modo è stato ottenuto l’equivalente in siga-rette.” Io non ci avevo capito niente. Per questo, come miha insegnato la maestra Annunziata Pisa alle scuole ele-

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mentari, ogni volta che penso alle parole di Alessandroripeto sempre la pappardella, a bassa voce per non sem-brare troppo cretino: hanno calcolato la quantità di vele-no che c’è nell’aria di Taranto, hanno calcolato quantoveleno misto ad aria, in media, uno respira in una gior-nata e poi alla fine lo hanno paragonato al veleno conte-nuto nelle sigarette. Dovrebbe essere più o meno così. Piùo meno.

Il benzo[a]pirene è una delle prime sostanze di cui si è accertata lacancerogenicità.Voci correlate: cancro.

Wikipedia

Nessun tarantino potrà mai dire, quindi, di non averfumato una sigaretta in vita sua. Nessuno potrà mai diredi non aver conosciuto il vizio. Questo mi aveva racconta-to Alessandro: “Dalle nostre analisi è venuto fuori chequando i venti soffiano dall’area industriale verso la città,tutta la gente, bambini compresi, è come se fumasse due,tre sigarette al giorno. In condizioni di assenza di vento lesigarette inalate sono una, due”. Alessandro snocciola inumeri come fossero la roba più normale al mondo, senzaun minimo di rabbia o stupore. Non penso sia rassegna-zione. Con quello stesso tono, in un’altra delle nostrechiacchierate, mi raccontò, quei tre giorni d’inferno,quando (e non era un film di Almodovar) il vento eratanto e soffiava forte e allora a Taranto fumarono tanto etutti. Era il 2 marzo del 2004 e i venti provenivano danord-ovest e così i quartieri più vicini alla zona industria-le, quelli dove vivono gli operai, si trovavano ancora più a

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ridosso della zona industriale, più esposti ai veleni dell’a-ria. Come hanno dimostrato alcune rilevazioni dell’epocatenute secretate fino a settembre del 2008, in quei giorninell’aria di Taranto erano presenti quasi 67 nanogrammiper metro cubo di diossina. “Significa che quel giornotutti, bambini compresi, hanno fumato 128 sigarette.” Seipacchetti e spiccioli in tre giorni, due al giorno.

A Seveso fuoriuscirono circa 3 kg di diossine in un giorno mentrea Taranto il doppio in 40 anni.

Maurizio Portaluri, oncologo

Luca, così come racconta la sua cartella medica, ha la sin-drome del fumatore incallito. Significa che ha un accendi-no sempre in tasca eppure non sa come si aspira. Anzi a luile sigarette fanno proprio schifo: gli fa schifo il sapore inbocca, come metallico, che ha sentito per la prima voltal’estate scorsa a Ginosa quando ha baciato una ragazzina.Gli fa impressione quel giallino che rimane sulla porcella-na del lavandino e del gabinetto quando sua madre appog-gia le sigarette. E poi esce, ma quello schifo rimane là.Luca ha scoperto di essere malato quattro anni fa. Quan-do il medico, Patrizio Mazza, ha visto quegli esami, hacontrollato e ricontrollato quei vetrini, si è messo le maninei capelli, ricci anche i suoi come quelli di Luca. Comepoteva essere fumatore un bambino? Come era possibileche una giovane ala destra fosse diventata un tabagista?Come un ragazzino delle scuole medie si era trasformatoin un operaio della cokeria? A proposito, la cokeria. L’im-pianto serve alla produzione di coke metallurgico, indi-spensabile per l’alimentazione degli altiforni. Nell’indu-

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stria siderurgica dagli operai è considerato una sorta digirone privilegiato dell’inferno. Ogni tanto, come fosse unqualsiasi rubinetto di casa, una delle cockerie perde. Nonacqua, ma veleno. Per questo dai tecnici, dai giudici e dagliambientalisti è considerata una delle cause principi del-l’inquinamento atmosferico. “Non a caso”, mi aveva spie-gato sempre Marescotti, “l’esposizione al benzoapirene daparte di un lavoratore della cokeria è particolarmente alta.Oggi va molto meglio, perché la tecnologia si sta evolven-do. Ma quando l’Ilva era ancora Italsider gli operai dellacokeria hanno inalato tra le 6500 alle 65.000 sigarette.”Luca della cokeria sa poco e non sa niente. Sa tutto inve-ce della sua malattia, ormai sconfitta. Gliel’hanno diagno-sticata che aveva dieci anni. Gli hanno detto subito chesarebbe stata lunga ma sicuramente ce l’avrebbe fatta.Luca non ha mai avuto alcun dubbio: “Io ho il destinosegnato, tracciato, per me non ci sono grandi scelte: o fac-cio il matematico e divento famoso con il mio teoremaoppure faccio De Florio. E sono cazzi”.

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Quindici passi

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,undici, dodici, tredici, quattordici, quindici. Uno, due,tre… non avrei mai smesso di contare. Di contare e di pas-seggiare, a passi piccoli un po’ come fanno i vecchi neisupermercati non per colpa degli scaffali pieni zeppi diroba ma dell’Alzheimer. Piccoli passi come quelli dei ten-nisti quando corrono la linea di fondo campo, in quell’i-stante prima di colpire una pallina, in quel movimentoche è una fotografia. Uno, due, tre, quattro, un contominuscolo e veloce fino a quindici. È tutta qui che si èsvolta la vita di un uomo, è in questo minuscolo spazioche il vulcano ha mirato, ha colpito e ha affondato. Quin-dici passi sono la distanza dalle prime case del quartiere aridosso dell’Ilva, quindici passi dura il tragitto tra l’Ilva ele cappelle del cimitero di San Brunone.

L’Ilva è la cosa più bella del mondo.Operaio Ilva ad Alessandro Sortino, Rosso Malpelo, La7

I cazzotti più dolorosi arrivano per caso. Ti prendono alle

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spalle, sono vigliacchi e infami, anche per questo fannopiù male. Eravamo al secondo coffe break della mattinatae mi frullava ancora per la mente il doppio passo che miaveva raccontato Luca, l’ala-fumatore-geometra, il ragazzi-no con le scarpe Prealpi. Mimavo con i piedi come fossiun ballerino di tip tap, probabilmente sorridevo quandoho notato quella ragazza che si avvicinava a Vittorio e alprofessor Assennato. Si chiamava Marina, aveva i capelliricci, gonfi, le orbite scavate. Parlò così, per cinque minu-ti senza un sospiro o un’interruzione sola. Un monologoda teatro, lacerante. Lo registrai nel cuore.

Piacere dottori, sono Marina L. Chiedo scusa se vi importuno, mami piacerebbe avere cinque minuti soltanto del vostro tempo. Ionon sono una tecnica, non sono un chimico né tantomeno un poli-tico, ho deciso di venire qui oggi soltanto per ascoltare. Ho 27 annie nella vita faccio l’ostetrica. Anzi la farò: ho preso la laurea da seimesi, ho fatto la pratica qui a Taranto, ma purtroppo non c’è unaprospettiva di lavoro per me. Non ho voglia di avere un lavoro pre-cario, mi sto per trasferire a Rimini dove mi danno il posto fisso.Lì c’è la cultura del parto, hanno bisogno di noi. Dottori io vi di -sturbo perché vorrei avere il piacere di raccontarvi la mia storia, virubo soltanto qualche minuto ma penso che possa essere importan-te: per me che non l’ho mai raccontata a nessuno, e poi spero ancheper voi. Quando si fanno le cose, probabilmente uno non ha benpresente quanto siano importanti. Pensa che certe azioni si fannoper le idee, per i principi, forse per l’orgoglio dei vostri figli e deivostri nipoti. Invece no. Voi queste cose le fate per le persone. Glistudi, il tempo che lei professor Assennato ha speso per studiare lecose che oggi ci ha raccontato, quel tempo lei lo ha dedicato a me.Io Marina L. vivo dal primo giorno in cui sono nata al quartiereTamburi di Taranto. Sono figlia unica, i miei genitori non hanno

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niente a che fare con l’Ilva né tantomeno con le aziende dell’in-dotto. Io non sono una figlia dell’acciaio e non sono nemmeno unafiglia della fabbrica. Mia madre è segretaria in una scuola ele-mentare, mio padre lavora come tuttofare nello studio di un notaioqui a Taranto. Sono una borghese di secondo livello, nella vita nonmi è mai mancato niente né grazie né per colpa dell’Ilva o dellealtre industrie. Da cinque anni nella mia vita è mancata soltantouna cosa. Mio zio Vincenzo. Ed è per lui che ora voi state spen-dendo il vostro tempo. Mio zio Vincenzo è stato mio padre, anzi èstato più di mio padre. È stato mio padre e mia madre messi insie-me, anche se ripeto io li ho avuti tutte e due, e sono felicissima, cimancherebbe. Mio zio Vincenzo è stato mio fratello e mia sorella,è stato mio zio chiaramente, non è mai stato mio amico perché ladifferenza di età era troppa. Mio zio Vincenzo era nato nel 1939e non si è mai sposato. Non ha mai avuto figli e che io sapessi mainemmeno una fidanzata. In realtà non l’ho mai chiesto né a lui néai miei genitori. Per una questione di pudore e forse di apparte-nenza, perché zio Vincenzo era il mio. Punta e basta. Da quandoio sono nata, lui ha vissuto con noi. Appartamento accanto, stessopianerottolo. Tutto quello che io sono, non me ne vogliano i mieigenitori, lo devo a lui. Mi spiego meglio: tutto quello che ho impa-rato, dalle targhe delle macchine a come si fanno i lacci alle scar-pe, che in realtà non sono ancora capace, è perché un giorno zioVincenzo si è messo al tavolino e me l’ha spiegato. Io non gli ho maidetto che gli volevo bene, e sono una stronza. Lui me l’ha detto piùvolte, un sacco di volte. Zio Vincenzo lavorava da sempre allo sta-bilimento dell’Ilva, non mi chiedete in quale reparto, in qualestruttura, di cosa si occupasse perché proprio non me lo ricordo. Sosoltanto che era un operaio semplice e guadagnava un milione emezzo al mese. La casa era di proprietà, per lui spendeva poco eniente. Il resto era tutto quanto per me. L’unica cosa che so dell’Il-va è che in quello stabilimento non c’è niente di piccolo. Zio Vin-cenzo lo ripeteva sempre: “Lì dentro è tutto enorme, un cavo elet-

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trico, una vite, tutto è grandissimo”. Dell’Ilva io so soltanto questo.Niente di più. Anzi so anche che non ci lavorano le donne, o forsenon è vero, ma questa è l’idea che mi sono fatto sin da quando erabambina perché zio aveva soltanto colleghi maschi. Solo uomini.D’accordo, questo non importa. Così come voi sicuramente vi sta-rete chiedendo il perché io vi stia raccontando queste cose, mi avre-te presa per matta ma vi posso assicurare che non sono matta. Oalmeno così credo. Vi voglio raccontare questa cosa semplicementeper spiegarvi perché parlare, lavorare, battere il caso Taranto èimportante. Non per i giornali, ma per la vita e le storie dellagente. Io per colpa di Taranto sono arrabbiata con la vita: io misono appena sposata, non ve l’ho detto, e mio zio Vincenzo non èpotuto essere il testimone delle mie nozze. E questo è ingiusto. Daquando sono nata, uno dei due testimoni doveva essere zio Vin-cenzo, anzi, mi sono sempre scervellata per immaginare come pote-vo farmi accompagnare da zio e da mio padre all’altare. Uno dauna parte e uno dall’altro. Come avrete capito, zio Vincenzo èmorto, nemmeno due mesi dopo essere andato in pensione. Avevafatto una festa per il suo addio, a casa perché lui è una persona di-screta. Ha invitato i suoi colleghi di lavoro, qualche amico del Craldove lui andava a giocare a tennis, io anche gioco a tennis e sonostata da quando avevo sette anni, più forte di lui, ma questo nonc’entra dicevamo della festa e lui era contento e io anche, perché erodiventata grande e lui vecchio. Toccava a me prendermi cura dilui. Zio Vincenzo, che io ricordassi, non era mai stato male nellasua vita, mai un raffreddore, mai un’influenza. Io invece sì che erostata male, soffrivo di tonsilliti frequenti e allora il medico mi pre-scriveva le iniezioni di antibiotico per fare abbassare la febbre, eallora le iniezioni le faceva zio Vincenzo. Lui e soltanto lui. Se-nonché dopo quella festa cominciò a lamentarsi in silenzio, perchéera diventato fotofobico, mai che qualcuno potesse accendere unaluce su di lui. Fuggiva. Evidentemente però il fastidio doveva esse-re serio perché per tre giorni consecutivi continuava a parlarmi di

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questo mal di pancia, di un senso di nausea perenne, un po’ di feb-bre. Insomma un’influenza ma per uno che nella vita è stato sem-pre bene, insomma potete immaginare. Io non ero preoccupata. Inrealtà ci fu soltanto un piccolo allarme, una mattina mi chiese diandargli a comprare giù il giornale, mio zio leggeva Il Tempo purnon essendo un democristiano ma nemmeno un comunista, glidicevo sempre che era un cristiano sociale e lui abbozzava peraccontentarmi, ma in realtà glielo dicevo soltanto perché mi piace-va il nome del vecchio leader, Donat Cattin. Sì, insomma, quelgiorno mi chiese di scendere al giornalaio e non era mai successo in20 anni, così pensai che forse qualcosa di serio c’era. Lui se neaccorse, ero spaventata, tanto che per tutta la giornata non fecealtro che chiedermi cosa avessi, mi propose persino una partita diBurraco che non facevamo da quando io avevo 12 anni: giochiinterrotti per manifesta superiorità, la mia, anche perché contavopuntualmente a doppio le pinelle. Secondo me non se n’era maiaccorto, non era esattamente un furbacchione. Dicevo, tanto siaccorse che io… insomma… che il giorno dopo scese lui al giorna-laio. Non so perché però sentivo qualcosa nello stomaco, non so sevi è capitato mai, non era un presentimento, no, era forse la paurache faceva a pugni con la razionalità, io non lo so che cos’era maqualcosa c’era. Era il 23 dicembre e decisi, da sola, che doveva faredegli esami. Un’ecografia, una Tac, qualcosa. Per fortuna ho unamico che lavora all’ospedale nord, quello vicino al Tamburi: untecnico, era di turno il 24 pomeriggio. Prendemmo un appunta-mento, alle 17 se non sbaglio. Uscimmo senza dire niente amamma mentre gli amici che solitamente vengono a casa per lefeste erano già arrivati a casa. Erano giorni di panzerotti. Quelgiorno guidai io ed era una sorpresa: zio non voleva, io sono unadonna. La mia Yaris, un suo regalo, camminava da sola, quel viag-gio, chissà perché, è stato il più strano della mia vita. Era come sesapessi tutto, era come se partendo da casa con un’influenza, forsecon delle coliche intestinali, in realtà fossi completamente coscien-

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te di quello che da lì a poco mi avrebbero detto. La faccia di Luca,l’amico tecnico della radiologia: “È un cancro al polmone. Pur-troppo però ci sono metastasi ovunque, non ha più il fegato”. Miozio non aveva mai fumato nella sua vita, beveva soltanto l’AmaroLucano. Non si è suicidato, qualcuno l’ha ucciso. Zio Vincenzo èmorto nemmeno tre settimane dopo. Non ha sofferto. Lui no. Nonero mai andata a trovarlo al cimitero, è una strana cosa la morte.L’ho fatto qualche giorno fa, quando mi hanno detto di Rimini.Non so perché la Yaris si è fermata da sola. Ho pensato che quellaera la più grande ingiustizia, che chiunque sia stato non ha fattodel male a lui, ma a me. Che sono andata all’altare accompagna-ta a un braccio solo, che mi sono laureata senza di lui in mezzoalla gente, che i miei figli non lo sapranno mai chi era, come par-lava, come stava zitto, come metteva prima i tris e non le scale perterra, al Burraco. Io spero che qualcuno, non so se voi, se la gente,i politici, io non lo so chi faccia tutto il possibile perché questa cittànon uccida più le centinaia di zio Vincenzo, non privi più la suagente non di supereroi ma di normali storie d’amore. Io voglio espero che nessuno più debba vivere da casa alla fabbrica e dallafabbrica al cimitero, tanto è tutto vicino, tutto nel quartiere. Nes-suno deve più vivere come zio Vincenzo la sua vita in quindicipassi. Gli unici che possono fare qualcosa siete voi. Avete la forza eil coraggio. Io invece sono codarda, ho paura che possa succedere dinuovo e per questo me ne vado. Scusate tanto se vi ho annoiato, buon lavoro.

Per un po’ non ebbi il coraggio di parlare. E nemmeno ilcoraggio di ascoltare. Con tutto il rispetto per la signorinache in quel momento era sul palco, una brava ricercatricedell’università La Sapienza di Roma che si concentravasugli Ipa, in quel momento ebbi soltanto il coraggio delsilenzio. Non era il pancreas di zio Vincenzo e nemmeno

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la rinofaringe di Luca. Non erano gli acronimi e nemme-no tutti quei numeri. Non stavo capendo nulla di tuttaquanta quella roba. E quando non capisco, comincio adavere paura.

C’è da avere paura del Vulcano?

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Sognando nuvole bianche

I bambini sono incoscienti e hanno il baricentro basso.Basta vederli sulle piste di neve come scappano, dribblano,cadono e si rialzano senza avere paura. Basta vederli comeridono quando tu, che sei molto più grosso di loro, inciam-pi nello spazzaneve e lentamente, mentre stai per dire addioall’equilibro, maledici chi ha inventato gli attacchi degli sci,lo scarpone e anche le montagne. I bambini hanno paurediverse. Paure più vere. Non hanno paura di se stessi.

Ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino.Pablo Picasso

Nella sala c’erano molti bambini. Erano accalcati nelleultime file, portavano magliette colorate per distingueretra loro le scuole e le classi, un adesivo sulla t-shirt comenelle crociere e per tutto il tempo non hanno fiatato.Hanno dimostrato di non essere sedati, come si fa con ileoni negli zoo, soltanto quando alla prima pausa si sonomessi in fila al buffet e hanno ritirato il succo d’arancia edue biscotti con il cioccolato a testa. Poi si sono rimessi asedere. Non erano in quella stanza per rappresentanza o

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per buon costume. Non erano in rappresentanza deibuoni propositi e nemmeno per appagare l’esibizionismodelle loro maestre. Si trovavano al Testa per fare sentire laloro voce, mi spiegò educatamente Matteo della quarta A,indicandomi un pannello lì in fondo dove sono appesi unaserie di disegni. Poi mi mise un libro bianco per le mani,“Puoi tenerlo, è gratis”. Il libro si chiama Sognando nuvolebianche, il sottotitolo è “I bambini di Taranto contro l’in-quinamento della città”. È una magnifica dimostrazionedi orrore e speranza. È un melting pot di colori e parole,metafore e “ha” senza acca. È il Vulcano. Con il passare deltempo, alcune maestre hanno notato che i bambini taran-tini avevano un tratto comune nei loro disegni. Facevanoun cielo sempre pieno di nuvole, e queste nuvole eranosempre nere. Da questa storia è nata la mostra e il libro cheraccoglie alcuni di questi disegni e qualche testimonianza.

Sono una bambina di 8 anni e mi chiamo Alessia e mi piace moltola mia città. Però, signor governatore, ti faccio una richiesta. Perfavore toglici gli scarichi industriali dai mari affinché siano puli-ti, togli l’Ilva che ci sta uccidendo con il suo gas. Onorevole gover-natore aiuta la mia città a ricrescere!! Saluti cordiali.

Alessia

In quel volume ci sono un centinaio di lettere. E altret-tanti disegni. L’idea è di Nichi Vendola, il presidente dellaRegione Puglia, il presidente con la testa tra le nuvole(bianche, nere e rosse) che le ha raccolte e le ha stampate.I mittenti sono i bambini, il destinatario è il governatorema soprattutto il presidente della Repubblica, GiorgioNapolitano. È a lui che hanno scritto, e per lui che hanno

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colorato i bambini di Taranto.

Potrebbe essere che la mia città è l’anticamera dell’inferno?Anonimo

Marta è una di quelle con le idee più chiare. Ha sette anni,un jeans e un giubbotto rosso in similpelle. “Io non vogliomorire. La mamma di Chiara è morta, due anni fa.” Die-tro di lei c’è un disegno con una barca e quattro ciminie-re. I colori sono grigio, blu scuro per il mare, rosso, nero,matita sullo sfondo per il colore del cielo. Lo ha fatto Pas-quale e sotto ci ha scritto: “Visione di questo problema”.

Caro presidente, il mio papà mi ha detto che l’Ilva inquina l’ariae noi bambini ci ammaliamo. Io non voglio ammalarmi. Ti pregodevi dire all’Ilva di non inquinare l’aria di Taranto.

Rebecca

Questi bambini sono tutti colpevoli, nessuno escluso.Hanno già tutti commesso un reato, tutti, e uno su cinquene pagherà le conseguenze. Hanno commesso il reato dicittadinanza, di essere nati in questi quartieri, davanti aquesto mare. Così per lo meno mi spiegò Patrizio Mazza,primario ematologo del secondo ospedale di Taranto.“Rispetto a quelli che dovrebbero essere i valori normaliregistriamo un incremento delle leucemie e di tutte lemalattie tumorali del 20, 30% superiore alla media. Neibambini soprattutto.” Patrizio è un omone bolognese, un

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medico che da quindici anni vive, lavora e lotta a Taranto.Lavora all’ultimo piano dell’ospedale, vista ciminiere, inuna stanza grande come una cella, incasinata come le scri-vanie dei giornalisti. Anche lui era alla conferenza, infondo a un angolo. Ascoltava, a volte sorrideva, sarcastico.Patrizio Mazza lo conoscevo da un po’. La prima volta l’hoincontrato nella sua stanza, in quel settimo piano, e anchequella era una giornata di sole. L’appuntamento era alle15,15. Per colpa di un cameriere troppo celere, alle 15 erogià lì. La sua stanza era ancora chiusa, il corridoio di fron-te – inibito al pubblico come da cartello ben esposto –aveva la porta socchiusa. Mi affacciai. Nella prima stanzadi sinistra c’era un signore girato di spalle, feci attenzioneperché non mi vedesse. Non aveva i capelli, portava uncamice bianco e la voce era sottile, come effeminata, otti-ma dizione. Aveva vetrini in mano e vetrini sulla scrivania,ogni tre minuti ripeteva pedissequamente la stessa opera-zione, così preciso da poter rimetterci l’orologio: afferravail vetrino con la punta delle dita ma non prestai attenzio-ne se portasse i guanti. Alzava poi il vetrino verso l’alto,mettendolo in controluce, come fosse una radiografia.Rimaneva in quella posa plastica per qualche secondo,osservando il vetro con l’occhio sinistro chiuso quasivolesse bloccare l’immagine e scattare in quel momentouna bella Polaroid con il suo cervello. Dopodiché prende-va quel vetrino e lo posizionava sotto la lente del micro-scopio. Sollevava il sedere dalla sedia e saliva sulla macchi-na, come per possederla. Ne vidi una ventina di quelleoperazioni e al massimo rimase al microscopio per trentasecondi. Dopodiché prendeva il registratore che tenevapoggiato sulla scrivania e raccontava quello che vedeva:“Situazione cellulare anomala”, “anomalia destra” e cosedel genere. Per quanto mi riguardava avrebbe potuto in

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quel momento ordinare il sushi, il tono era come quelloche si usa al supermercato per un etto di crudo nazionale,la sensazione però è che in quelle frasi apparentementesenza senso si nascondessero in realtà delle condanne amorte. Dall’altra parte del corridoio sentii l’inconfondibi-le accento bolognese di Mazza. Scappai verso la voce. Maiavrei dato un volto a quel registratore, mai avrei conosciu-to la faccia del dottor Vetrino.

Io mi chiamo Stefano e abito a Taranto da quando sono nato e miraccontano i miei nonni che Taranto era un gioiello; però unmostro la sta facendo diventare inquinata, sporca e brutta.Onorevoli saluti.

Stefano

Il dottor Mazza sembra un uomo burbero, forse non lo è.Piuttosto ha il disincanto di chi conosce la malattia, di chila abita, la governa, uno di quelli capace nella vita di vin-cere e di perdere. Su quella sedia di plastica davanti alla suascrivania, in mezzo alle biro lasciate dagli informatori dellecase farmaceutiche, centinaia di persone hanno partecipa-to loro malgrado alla roulette russa della leucemia, alla di -sgraziata conta dei globuli bianchi. “Ne vedo, ne ho visti epurtroppo ne vedrò sempre tanti. I dati in possesso delreparto parlano di un incremento costante di malati diquesto tipo del 15-20%, un dato assolutamente anomalorispetto a quello che invece dovrebbe essere questo territo-rio. Quando io sono arrivato in questa città, quindici annifa e più, questo reparto era sempre pieno. Venivano perso-ne da tutta la provincia, ma anche da Brindisi, Lecce, que-sto era l’unico reparto di tutto il Salento. Ora qui intorno

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hanno aperto tre ematologie, siamo praticamente unreparto cittadino, io cerco di tenere i pazienti il minortempo possibile qui in ospedale. Abbiamo venti postiletto, e sono tutti quanti pieni. Prima di lei – mi disse ungiorno – su quella sedia era seduto un farmacista. Unsignore di 40 anni. Aveva la leucemia e probabilmente glirestavano pochi mesi di vita. Non fumava, non beveva, enonostante il mestiere, nella sua vita non era mai statoesposto a fonti particolarmente pericolose o cancerogene.Era una persona sana e invece si è ammalato per colpa diqualcosa, forse per colpa di qualcuno, e come lui centi-naia, migliaia di persone di questo posto. Di chi è la colpadovrebbero dircelo i giudici, ma fino a oggi mai nessunasentenza, nessuna indagine ha accusato qualcuno dellemalattie, della disperazione delle persone. Come uscire daquesta merda dovrebbero dircelo i politici che hanno ilcompito di mediare tra le varie posizioni e poi decidere,prendere una posizione, scegliere una strada. Io facciosolamente il medico. Io devo curare gli ammalati.”

Caro presidente, noi vorremmo che la nostra città sia più pulita,perché è così sporca e il cielo è pieno di fumi: infatti Dio vorrebbeaiutarci ma non può perché se si affaccia sta male anche lui.

Luam

Quella mattina avrei voluto salutare il dottor Mazza. Piùvolte lo cercai con lo sguardo ma non rispose. Forse nonmi vide. Forse non aveva voglia di convenevoli. Ascoltavacon attenzione maniacale un giovane epidemiologo, pren-deva appunti, a volte parlava tra sé. Chissà che fine hafatto il suo amico farmacista. E chissà dove sta quella

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ragazza, cazzo quella ragazza!, l’avevo dimenticata. Quelpomeriggio entrò da Mazza subito dopo di me e mi sorri-se forse per compassione, così da ricambiare le attenzionisilenziose che le avevo prestato prima in sala d’aspetto.L’avevo fissata ai limiti della molestia, per fortuna che ilmio turno non arrivò poi così tardi. Non era bella, eradiversamente bella. Spigolosa nel viso come un uomo,truccata come una parrucchiera, era fasciata in un jeansnero attillatissimo, stretto ancora di più alle caviglie dauno scarponcino dal tacco alto, con una maglietta verdemilitare che sfiorava morbida una cinta con le borchie,lasciandole la pancia scoperta. Chi era quella ragazza? Chelavoro faceva? Quanti anni aveva? Lì in sala, per inganna-re l’attesa ascoltava musica con un telefonino. Aveva leunghie delle mani laccate di fucsia, lo smalto mangiatoalle punte. Un orecchino soltanto che scendeva lungosulla spalla sinistra, i capelli neri, pochi e sottili. Feci sci-volare per terra la penna che avevo in tasca, le diedi uncalcio, mi serviva una scusa per avvicinarmi a lei. Mi inte-ressava raccogliere più informazioni possibili nel minortempo possibile, volevo sentire l’odore, guardarle megliola faccia per capire cosa nascondesse quel trucco. Volevoscoprire cosa stesse ascoltando in quelle cuffie. Non sentiiquasi nulla. Ma erano i Depeche Mode. A pain that I’mused to. Cantai il ritornello, scendendo giù nell’ascensore.Di certo in quel momento anche lei stava facendo lo stes-so, seduta sulla sedia dello studio di Mazza, un refertomedico in mano e i globuli bianchi come una pistola,puntati alla testa.

Non so perché quando guardo il cielo vedo le nuvole scure e chiedoa mio padre come mai le nostre nuvole sono così dense e scure? E

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mio padre mi risponde, caro figlio sono ricche di una sostanza dan-nosa e velenosa… Io chiedo a mio padre come si chiama questasostanza e lui mi risponde figlio non è il caso che io ti risponda ècosa da adulti. Ed io adesso mi chiedo come mai questi adulti nonsono ancora riusciti a risolvere questo problema? E come mai siamostati chiamati noi bambini che di queste cose non dovremmo saper-ne niente?

Francesco

Vittorio continuava a scattare fotografie con il telefonino,è una fissazione. Nel momento in cui posai gli occhi su dilui era concentrato sulla moquette rossa e su uno di queifogli che distribuivano all’ingresso. Era caduto per terra, edalla sua posizione si leggeva soltanto la parola “leucemia”e la parola “Taranto”. È una questione di prospettive, uncaso, o forse no. I bambini continuavano a non fiatare.Sembravano telecomandati, nemmeno un bisbiglio, a trat-ti qualcuno annuiva, eppure difficilmente saprà mai qual-cosa sulle capacità inibitorie dei policiclici, qualcosa rac-contata nella slide proiettata sul muro. Non capivanoeppure conoscevano e riconoscevano perfettamente lasacralità del momento. Stavano zitti e composti come si fain chiesa. Anche lì d’altronde capiscono molto poco eanche questo, in fondo, è un funerale.

Per incominciare vorrei parlarle dell’inquinamento, che provoca l’in-dustria siderurgica nella mia città a Taranto. Questa causa mortecon i loro gas tossici. Noi cerchiamo di eliminare questo grande difet-to per vivere una vita tranquilla e senza inquinamento. Quando daquell’industria esce il fumo, noi respiriamo anidride carbonica maper fortuna ci sono alcuni alberi che ci restituiscono ossigeno.

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Per finire questa lettera vorrei ricordarle che se non provvediamosubito moriranno molti bambini, piante e animali

Valeria Saponaro

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I bambini mai nati

I bambini di Taranto non disegnano soltanto. I bambinidi Taranto si ammalano anche. E spesso muoiono. PinoMerico è un pediatra che prima ha visto ammalarsi emorire decine di suoi pazienti e poi ha deciso di fondareun’associazione, si chiama “Bambini contro l’inquina-mento”. Non è un’associazione qualsiasi, per i bambini èuna via di mezzo tra il catechismo e il boy-scout: impara-no e poi provano a reagire. Cercano di capire il Vulcanoe poi di sovvertirlo, magari un giorno riusciranno anche aspegnerlo. “Questa non è una scommessa sul futuro, mapiuttosto una scommessa con il futuro”, mi disse quandolo incontrai, quasi un ghigno, un solco amaro, “dopo avervisto tanti pazienti ammalarsi, dopo aver visto tanti amicipiangere per i loro bambini, ho deciso che non era piùsoltanto il momento di curare. Ma anche quello di com-battere. La guerra che più dà fastidio è quella dell’infor-mazione. La gente deve essere consapevole. Tutti a Taran-to devono sapere che rischi ci sono, tutti a partire daloro.” Il dottor Merico mosse un dito di una manomagra, affilata. Indicava le file ordinate delle scolaresche,a pochi passi attaccati sui muri c’erano i disegni e i pen-sierini. “Quei lavori non sono nati per caso: abbiamo cer-cato di spiegare ai bambini, possibilmente con parole

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semplici, possibilmente evitando le sovrastrutture solitedel linguaggio degli adulti, perché il cielo di Taranto èspesso grigio. E quali sono i rischi per loro del rischio diquel cielo.” Pino Merico mi sembrò subito un tipo parti-colare. Ne ebbi conferma in quella chiacchierata breve,cinque minuti nemmeno. Era un medico, ma parlava piùcome un militante. Si affidava alla scienza, ma credevaanche alla coscienza civile. Ecco, la coscienza civile: attor-no a tutti gli scienziati o agli addetti ai lavori, la stanza erapiena di gente qualunque, di persone che per stare lì ave-vano magari preso un giorno di ferie al lavoro, che aveva-no rinviato impegni, perso appuntamenti, forse ancherinunciato a del denaro. Era “la società civile”, che non èun acronimo ma un luogo comune. Eppure quel luogocomune era l’unico strumento per cambiare le cose sulVulcano, mi assicurò il dottor Merico. “La gente comin-cia ad avere paura perché sa. La conoscenza permette difare rivoluzioni, è l’unica cosa in grado di far cambiaredavvero idea alle persone, di portare loro a fare rinunce.La gente di Taranto comincia a conoscere e secondo mequalcosa può cambiare.”

Le industrie ci stanno dando la possibilità di vivere. E morire.Operaio dell’Ilva, ammalato di tumore, Rosso Malpelo, La7

La diossina non era soltanto nell’aria. O magari nellacarne delle pecore o nei formaggi. La diossina era arriva-ta sin dentro le tette delle tarantine. Sì, le tette. “Abbia-mo riscontrato”, mi spiegò Merico, “alte concentrazionidi diossina anche nel latte materno. I nostri bambiniappena nati già cominciano a bere latte e veleno.” Spes-

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so, in realtà, lo fanno anche prima di nascere. Perché aTaranto i bambini disegnano. Muoiono. Ma spesso nonnascono neanche. Sono tante le malformazioni fetaliriscontrate, tante da spingere donne anche giovanissimead abortire. Tante da far gridare qualcuno dalla paura.“La verità”, mi spiegò però Merico, “è che in questo laletteratura scientifica è ancora debole, debolissima. Nonpossiamo dire nemmeno quante sono esattamente lemalformazioni fetali. Possiamo dire sicuramente, però,che sono una delle conseguenze sanitarie provocate dal-l’inalazione delle diossine.” I bambini muoiono a Taran-to. L’associazione di Pino Merico, “Bambini contro l’in-quinamento”, è dedicata a tre pazienti, morti in anni edetà diverse a Taranto. Questa è la storia del più piccolo diloro, aveva 8 mesi: per caso, per puro caso, i genitori ave-vano cominciato a raccontarla sul maxi schermo monta-to in fondo alla sala. Erano due signori distinti, parlava-no un italiano perfetto, avevano soltanto la faccia scava-ta. In sala trasmettevano la puntata di Rosso Malpelo, unprogramma andato in onda su La7 a cura di AlessandroSortino, un ragazzone dai capelli rossi, un bravissimogiornalista noto per le sue inchieste nella trasmissione leIene.

Il nostro bimbo aveva 7 mesi, un bel giorno si è addormentato edopo diverse ore ancora non si svegliava. Non capimmo cosa fossesuccesso. Lo portammo subito in ospedale, la diagnosi lasciò pocospazio ai dubbi: tumore esteso al cervello, lo operarono d’urgenza.La malignità di questo tumore l’abbiamo capita solo a distanza didue mesi dal primo intervento, quello più importante: dalla riso-nanza magnetica si sono accorti purtroppo che il tumore era cre-sciuto il doppio. Non era normale per un bambino un tumore così

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esteso e così attivo. Sono stati tre mesi di sofferenze e chemio, si ètentato di tutto per poterlo salvare. Finalmente, poi, è volato in cielo e ha smesso di soffrire.

Mamma e papà

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Agnello di dio (ssina)

Angelo Fornaro è un allevatore, è vecchio, ma forse dimo-stra più anni di quelli che ha, ha l’aria di un uomo perbene. Feci fatica a riconoscerlo al Testa con la cravattastretta sotto una giacca di vellutino marrone, le bretelle.Non sembrava affatto lo stesso uomo della mattina in cuilo conobbi. Era il 16 gennaio 2008, l’alba, faceva freddo,Angelo portava gli scarponi da lavoro sotto una tuta diacetato verde acqua. Sopra aveva una giacca a vento azzur-ra. C’era un bel cielo, ma non fu il giorno dei colori. Piut-tosto, quello degli odori. La terra umida, la merda di peco-ra, e poi l’alito di Angelo quando mi ha urlato forte in fac-cia che “facevamo tutti schifo noi giornalisti” mentreattorno tutte le telecamere lo assediavano come all’uscitadella casa del Grande Fratello. Ad ogni passo che facevaAngelo era seguito da un enorme microfono con l’asta,modello cinematografo, appena aggraziato da un piuminocome quelli che si usano per spolverare, montato sullapunta. Lo portava un ragazzo di Roma alto due metri chemi assicurò che mi avrebbe spaccato il culo, una voltafuori di lì. Gli avevo chiesto di lasciare un po’ in pace quelpoveraccio e lui mi ordinò di farmi i cazzi miei altrimentici saremmo dovuti vedere dopo. Le avrei prese di brutto,forse anche per quello non fiatai. In realtà il ragazzo non

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c’entrava niente, però. A dettare i suoi spostamenti era ungiovane giornalista di un rotocalco Rai che aveva presoevidentemente quella mattinata di lavoro come una parti-ta di calcio a sette, lui difensore e Angelo centravanti difurbizia, alla Inzaghi. Non lo lasciava un attimo, mai unadi-strazione, sempre lì appiccicato, ad aspettare, attenderela debolezza. “Come va?”, attaccava, e poi, “certo che que-sto è un bel posto”, (certo, a parte il fumo nero e quellefiammate che escono lì in fondo dalle fabbriche), “Ma èbuono il formaggio che producete?”, (sa un po’ di diossi-na ma è buonissimo), ancora: “Certo che si vive bene quial Sud”, (già, una meraviglia). Dunque, l’affondo, teleca-mera accesa, microfono e piumino posizionati a rigore diinquadratura: “Signor Angelo, cosa prova in questomomento? Lei ha lavorato una vita per vedere uccise le suebestie, ci racconti e non trattenga le sue emozioni”. Pian-gi Angelo, gli voleva dire la merda. Piangi in favore di tele-camera perché così mi sale lo share. Angelo Fornaro, “lostronzo che ha risolto tutti i problemi di Taranto”, quelgiorno pianse. Ma non per le telecamere. Dimenticavo: diquel giorno non dimenticherò mai una cosa soltanto. Lapuzza cruda del sangue.

Taranto, abbattute settecento pecore alla diossina.la Repubblica, 17 gennaio 2008

Angelo Fornaro è un pastore vero. Nel senso che è unpastore perché vive in campagna e campa grazie al bestia-me: il latte delle pecore, i formaggi, gli agnelli quando èPasqua. Non gliel’ho chiesto, ma secondo me in casa nonha la televisione. Insieme con i figli Vincenzo e Vittorio, e

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aiutati da due pastori albanesi, gestisce l’azienda agricola difamiglia. Quella masseria è così da cento anni. Un giorno,tanti anni fa, gli hanno costruito davanti l’azienda siderur-gica più grande d’Europa. L’area agricola è diventata zonaindustriale, hanno acceso gli altiforni e il cielo è diventatonero. Nonostante tutto, però, Fornaro e le sue pecore sonorimasti lì. Lì sono cresciuti i suoi figli, lì sono nati i suoinipoti. Fino a quando è arrivato un giorno di settembre edè cambiato tutto. Sasha, il pastore albanese che non aprebocca nemmeno se glielo chiedi per favore, quel giorno siera spinto un po’ oltre i normali confini del pascolo. Avevapreso una strada diversa ed era finito sotto il Vulcano. Pro-babilmente, anzi sicuramente, non era la prima volta cheaccadeva. Quel giorno però successe qualcosa. Da quelleparti passava – ardita sarebbe la ricostruzione di un appo-stamento voluto – un signore con una spiccata coscienzaambientalista e un telefonino dotato di una buona mac-china fotografica. Non era Vittorio. Immortalò quell’istan-te, le pecore e le ciminiere, il fumo e la lana, il bianco e ilgrigio forse semplicemente per raccontare e raccontarsi unpezzo della sua città. Una volta trasferita sul computerquella fotografia, una volta vista in grande quella immagi-ne, salì però una domanda: “Ma non è che in questa fotosi nasconde qualcosa di pericoloso? Questi sono animali daallevamento: vivono per produrre latte, per essere macella-ti e per essere mangiati. Il latte di queste pecore, il formag-gio, la loro carne non saranno mica contaminati da qual-che veleno?”. La domanda, apparentemente catastrofista,era comunque legittima, forse doverosa. È per questo che ilfotografo-ambientalista ha sentito il dovere di girarla allaredazione di un giornale locale, Taranto Sera, la bibbia dellacronaca cittadina un piccolo quotidiano fatto di notizie,fatti e foto segnaletiche di spacciatori, rapinatori e aspiran-

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ti killer. Un giornale tanto arrembante da potersi permet-tere ai tempi di Internet una distribuzione con gli strilloni,un giornale che dice la verità e per questo non ha paura deicolossi dell’industria. A Taranto Sera lavorano un gruppo digiornalisti, alcuni molto bravi, tutti agguerriti. Tra lorospicca Mario Diliberto, un mio amico, un giornalista raroperché raro è un giornalista senza enfasi. Mario quandoparla dell’Ilva ha in mente le parole di suo padre che hapassato una vita nell’acciaieria ma non si fa mai prenderedall’enfasi né dalla retorica. Racconta secco, quasi cinico. Èun cecchino infallibile, implacabile davanti a una notizia. Ele fotografie di quelle pecore al pascolo per lui, e per tutti isuoi colleghi, erano il migliore degli assist: le foto arrivaro-no in tarda mattinata, l’edizione che va per strada alle 17aveva in prima pagina le sequenze del bestiame sotto leciminiere e un pezzo d’accompagnamento che più didenuncia suonava di paura. “C’è da stare tranquilli?”, sichiedeva Taranto Sera. Letto il giornale si pose la stessadomanda anche l’allora procuratore aggiunto del tribunaledi Taranto, Franco Sebastio, oggi capo della Procura, chesulla base di quell’articolo aprì un fascicolo. Quella che sichiama un’indagine conoscitiva. Angelo Fornaro probabil-mente non l’ha mai saputo, ma è esattamente in quelmomento che è cominciato a essere “quello stronzo che conle sue pecore ha risolto tutti i problemi di Taranto”.

Da settimane sento parlare di diossina e dei danni che fa sulle per-sone. Vorrei sentire un giorno al telegiornale che c’è un sistema perfarla sparire così non avrò più paura di vivere nella mia città epotrò tornare a bere il latte senza paura di avvelenarmi.

Luca

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Ci volle poco tempo per le analisi. Abbastanza però perchéla gente si fosse dimenticata di quella strana storia dellepecore sotto le ciminiere. Non se ne ricordava quasi nes-suno quando arrivò, nelle redazioni dei giornali, un pome-riggio, era il 20 marzo del 2008, una telefonata del pro-fessor Giorgio Assennato, lo scienziato, il direttore del-l’Arpa. Disse che sul suo tavolo erano arrivati i risultati dellatte e del formaggio prelevati in alcuni degli allevamentiattorno alla zona industriale di Taranto, compreso quellodei Fornaro. E che le analisi parlavano chiaro: erano statiriscontrati valori anche dieci volte maggiori rispetto aquelli consentiti dalla legge di diossina e Pcb, ancora unavolta il solito acronimo. Significava che quella roba eraportatrice sana di cancro. Per ammalarsi non serviva sol-tanto respirare. Bastava anche mangiare. Questo significa-va che il “germe” era entrato nella catena alimentare edunque non soltanto l’aria, ma anche il cibo, il latte chesarebbe potuto finire sui banchi frigo non soltanto diTaranto e provincia, ma anche di tutto il mezzogiorno echissà, di tutta Italia.

Io so che tanta gente si sta ammalando e sono preoccupato non soloper me, ma anche per la mia famiglia. Ci dicono sempre che ibambini sono la felicità, che amano giocare spensierati, ma forsestiamo diventando tristi come le nuvole grigie della mia città.

Mirko

In vicende come queste la linea d’ombra tra l’allarme sani-tario e la psicosi, tra la verità e il verosimile, è assai labile.E i giornali lungo quella linea di confine ci sguazzano.Allarmare fa vendere copie, la gente ha bisogno di spaven-tarsi, ha una necessità quasi carnale di conoscere una cosaper la quale temere, per cui arrabbiarsi, per poter dimen-

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ticare le proprie miserie, i guai personali. Come è succes-so per l’influenza aviaria, così accadde anche il 21 marzo ecome al solito a pagare la psicosi furono i più deboli: i pro-prietari dei caseifici della zona videro crollare le vendite.Persino le multinazionali del latte che hanno dei depositivicino Taranto, per qualche giorno furono costretti a con-trollare il prodotto goccia per goccia. La Regione e la Aslcorsero ai ripari, avviarono in tutta fretta i protocolli d’ur-genza, applicarono immediatamente tavoli tecnici e map-pature, organizzarono riunioni su riunioni, misero insie-me esperti su esperti, prepararono relazioni su relazioni.Ogni emergenza ha i suoi riti mediatici, anche quella delladiossina nel latte di Taranto ebbe la sua. Complessiva-mente furono controllati circa 200 allevamenti, fu uninferno per funzionari e veterinari, batterono a tappetostalle e alberi di ulivo perché qualcuno fece notare che ladiossina poteva esserci anche nei grassi degli oli, e quindivia con le verifiche. Insomma fu un lavoraccio. Non duròa lungo. Due giorni, e dell’emergenza diossina non glienefregò più niente a nessuno. Il caseificio riprese a vendere,la multinazionale a imbottigliare, “i rischi sulla tavoladegli italiani” dei quali parlavano tutti i giornali, in queigiorni scomparvero e a occuparsi della vicenda rimasero isoliti ambientalisti volenterosi, qualche sito Internet e poii tecnici, questi ultimi per conto dei vari enti. Della vicen-da fu però costretto a occuparsi il signor Angelo Fornaro,suo malgrado.

Il primo alimento che ho conosciuto è stato il latte, prima quellodella mamma e poi quello della mucca. Ma adesso mi proibisconodi berlo perché adesso c’è la diossina.

Rebecca

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Il 7 aprile, infatti, l’ufficiale della Asl bussò alla portadella sua masseria e a quella di altre quattro nella zona pernotificare loro una carta giudiziaria. Non era una multa enemmeno un avviso di garanzia. Era un divieto. Un divie-to di pascolo. Da quel momento in poi Sasha non avreb-be più potuto portare a spasso il bestiame, niente piùpecore, niente più passeggiate sotto i camini delle fabbri-che. Nella carta c’era scritto infatti che non si poteva piùpascolare a otto chilometri da Statte, un piccolo centroalle porte di Taranto, la città più vicina agli allevamenti:complessivamente erano inibiti centosessanta ettari dicampagna, compresi tra la strada provinciale 48 e l’areaindustriale. Non era però finito. Dietro quel foglio cen’era un altro e poi un altro ancora. A firmarlo era la Asldi Taranto e, se possibile, era ancora peggio. C’era scrittoin un incomprensibile italiano, burocratese, che centoanni e più di storia di quella masseria erano stati cancel-lati. E che tutte le pecore e gli agnellini della tenuta For-naro erano in fermo sanitario. Significa cioè che nonavrebbero potuto e dovuto né produrre latte né men chemai essere destinate alla macellazione. Non c’era scrittoma Enzo Fornaro lo capì immediatamente: quella cartaera una condanna a morte. Qualcuno e qualcosa avevaavvelenato i suoi animali. Le bestie erano tutte infette,dentro la loro carne era nascosta la diossina e i soliti Pcb,nei muscoli covavano tumori da esportazione pronti afinire sulle tavole dei tarantini, dei pugliesi, degli italiani.Le capre erano untrici. Il Vulcano, la bestia degli acroni-mi, non aveva risparmiato nemmeno gli agnelli. Si eradetto fosse democratico questo Vulcano, in realtà sembraun bastardo.

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Oggi l’abbattimento delle pecore contaminate.

la Repubblica, 10 dicembre 2008

Dalla notifica al giorno della mattanza passò qualche set-timana. Come Angelo aveva immaginato, pochi giornidopo l’ufficiale giudiziario, bussò alla porta della masserial’ufficiale sanitario per comunicare che tutti gli animali,cinquecento all’incirca, sarebbero dovuto essere ammazzati. Dovevano morire anche gli agnellini appena nati, infat-ti si attese fino all’ultimo parto. Assicurò il dirigente sani-tario che le spese dell’abbattimento, ci mancherebbe,erano tutte a carico della Regione, gli allevatori avrebberoavuto diritto a un rimborso per gli animali morti, madoveva essere chiaro a tutti sin dall’inizio che quel rim-borso sarebbe stato soltanto simbolico, per la precisione133,3 euro lordi a capo abbattuto. Inutile farsi illusioni.Una volta tornato in ufficio il medico dell’Asl raccontò,con stupore, come Fornaro non avesse battuto ciglio aquella notizia. Aveva chiesto soltanto: “Dov’è che devo fir-mare?”. Angelo se lo aspettava e quella notizia non losconvolse. Perché non poteva sconvolgerlo. Le pecoreerano arrivate seconde. Prima di loro, per colpa dell’aria econ la notifica di un certificato medico, “da questa masse-ria se n’è andata mia madre e io, a trent’anni, ci ho rimes-so un rene”, mi disse quella mattina della mattanza Vin-cenzo, uno dei figli di Angelo, con un sussurro e senza unalacrima come fosse la cosa più naturale del mondo. Sonogente fiera i Fornaro, gente per bene, gente senza nemme-no una macchia. Per questo quella mattina andarono fuoridi testa. Era il 10 dicembre, appunto, e la sera prima leassociazioni di animalisti erano andati a piazzare qualchestriscione attorno alla fattoria. “Leoni per agnelli” c’era

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scritto in uno e poi qualcosa del genere. Angelo mi confi-dò che nemmeno li aveva letti quei cartelli, “Cos’è chevogliono?”.

La procedura, come da protocollo burocratico, preve-deva che in masseria arrivassero dei camion inviati dalladitta che gestisce il mattatoio di Conversano, la società chesi era aggiudicata la gara per l’abbattimento dei capi dibestiame bandita dalla Regione. I camion avrebbero dovu-to caricare le bestie per poi trasportarle nel centro dimacellazione. La procedura era assai complessa: l’aziendavincitrice dell’appalto doveva assicurare che la carne infet-ta mai e poi mai sarebbe stata messa in commercio e chele carcasse degli animali sarebbero state poi smaltite in di-scarica con le procedure previste dalla legge. Trattate cioècome rifiuti speciali pericolosi. La procedura prevedevapoi al carico delle bestie la presenza dei veterinari della Asle dei proprietari degli animali per verificare che tutto fossefatto in regola, che i conteggi fossero giusti in modo taleda garantirsi per lo meno i 133,3 euro lordi di rimborso.Nel protocollo i lampeggianti però non erano previsti.Eppure quella mattina c’erano e per i Fornaro furonotroppi. Prima dei camion nella masseria arrivarono forzedi polizia in tenuta da sommossa. Erano state mandatedalla Questura per tenere a bada possibili manifestazionidi forza di associazioni animaliste che nei giorni preceden-ti sui giornali avevano denunciato l’“inutile strage” e altriannunci di questo genere. Di attivisti nello spiazzo ce n’e-rano tre, con i loro striscioni. Non erano di più. C’eranoinvece una cinquantina di giornalisti, fotografi di quoti-diani, troupe di programmi di approfondimento e purequelli di Uno Mattina. Le camionette, i lampeggianti forseerano stati mandati anche per quello. Angelo però noncapì e allora si arrabbiò, disse che lo stavano trattando da

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delinquente lui che era un galantuomo, ricordò “che io avoi vi ho sempre trattato come ospiti di lusso”, il commis-sario qualche giorno prima per esempio aveva assaggiatodurante un sopralluogo una fetta di formaggio. Angelodisse che non era arrivato a 70 anni di vita di lavoratoreper vedersi trattare come un delinquente. Insomma disseche non era giusto.

E poi si mise a piangere.

Eccoli, i criminali, gli assassini siamo noi, arrestatelo questo stron-zo che ha cresciuto le pecore.

Angelo Fornaro

Dieci minuti dopo arrivarono i camion. Erano due, moltograndi, entrambi a due piani, tutti rossi ma nonostantequesto non assomigliavano per niente agli autobus inglesi.Gli operai del mattatoio erano persone gentili, si presenta-rono appena scesi dai mezzi e poi si misero una lungamantella rossa, che era l’abito da lavoro, pensare che i boiame li ero sempre immaginati vestiti di nero, come i bec-chini. Non erano in grado però di fare tutto da soli, cin-quecento animali da caricare non sono pochi. Stavano perchiamare Conversano per chiedere rinforzi ma non funecessario. Aiutarono i Fornaro e i loro pastori, “Voi sietequi per lavorare come noi, qui abbiamo lavorato per unavita. Siamo tutti lavoratori, vi aiutiamo”, disse Angelo. Lepecore parlavano albanese, o almeno penso che albanesedovesse essere la lingua nella quale Sasha si rivolgeva loronelle stalle. Ero a un metro di distanza, i piedi nella merda.L’odore però lo sentivo appena, mi affascinava la fila ordi-nata con la quale quelle bestie uscivano dalle stalle, poi si

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fermavano sotto un porticato e poi a una a una salivanosul camion rosso che intanto aveva parcheggiato accanto alcancello d’ingresso. C’era come un ordine funebre, unrituale da campo di concentramento in quelle linee trac-ciate dal gregge e in quegli ordini impartiti in albanese.

Eppure quelli non erano uomini, in fila c’erano bestienate con il destino già scritto: dovevano finire in unmacello, dovevano essere ammazzate e poi mangiate. Nonsono mai stato un animalista, ho paura dei cani, adoro lacarne, eppure in quella fila puzzolente di pecore lessi perla prima volta chiaramente il senso del vocabolo “tristez-za”, avvertii netta la sensazione dell’ingiustizia. PerchéAngelo doveva assistere a tutto questo? Lui assisteva e afavore di telecamere gli venne un’espressione sarcastica,come se quel sarcasmo fosse un gradino oltre il dolorepersonale.

Taranto è salva, grazie al sacrificio di queste pecore. L’hanno dettoi potenti. D’altre parole, l’ho salvata io Taranto.

Angelo Fornaro

Finirono in fretta, i camion furono caricati in meno di dueore. E in fretta uno dei boia con la mantella bianca ci spie-gò cosa sarebbe successo dopo: “Una volta arrivate almacello, mettiamo due sensori alle tempie delle bestie eviene data una scossa elettrica per stordirle. Dopodichévengono messe in fila una dopo l’altra e una macchina,dall’alto, infila con un uncino la carotide. Rimangonoappese in aria per un po’ in modo tale che il sangue scolie poi le carcasse vengono smaltite”. Avrei dovuto assistere,ma non ce la feci. Seguimmo io, Antonella ed Enzo – due

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amici che avrebbero dovuto raccontare la giornata con leimmagini in un documentario per il sito di Repubblica – ilcamion fino a Conversano. Vedemmo il primo agnellinoscendere e uno degli operai prenderlo, tirarlo per le duezampe e, come un gioco, farlo camminare per qualchemetro in modo tale che gli altri animali scendessero senzatroppi problemi dal camion. Scesero. Dall’alto comincia-rono a girare gli uncini. Ce ne andammo. Erano le 12.10del mattino quando il telefono squillò per la prima volta.

Dalla redazione mi chiedevano cosa stesse accadendo,come fosse andata la giornata, se c’erano state novità,imprevisti, insomma qual era la notizia: l’unica cosa chemi venne in mente fu il belato degli agnellini, identico alpianto di un bambino. Non dissi niente e attaccai il tele-fono come fosse caduta la linea. Rimasi in silenzio anchequella mattina, nella sala. Scansai lo sguardo di AngeloFornaro, facendo finta di non averlo riconosciuto. Nientestrette di mano, tanto sicuramente non si ricordava di me.Poi scesi giù, per una passeggiata. Sarà perché si era aTaranto, ma certe volte mi piacerebbe avere il vizio delfumo. Per accendermi una sigaretta.

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Il lampadario e le scope

Mi alzai e dietro di me si alzò anche Vittorio. Il professorAssennato ci seguì ma fui subito sicuro che si trattò sol-tanto di un caso. Come per caso ci fermammo nell’andro-ne delle scale, e speravo che così avrebbe fatto Assennato.Non lo avrei bloccato, ma non ce ne fu bisogno. Si fermòanche lui. Per fortuna ebbi l’opportunità di parlare, chie-dere. Sentivo il bisogno di sapere, conoscere. La giornataera stata lunga, confusionaria, troppe informazioni, trop-pe emozioni, troppe facce e soprattutto troppe storie. IlVulcano cominciava a spaventarmi, ma avevo capito anco-ra troppo poco per comprendere l’esatta dimensione dellapaura. “Professore, quanto può far male?”

Assennato si strinse nelle braccia, lui era uomo dinumeri e non di giudizi. Ma era abituato a spiegare, e allo-ra fece anche con me. Per un quarto d’ora più o meno,ininterrottamente. Da bravo giornalista, presi appunti. Oalmeno ci provai.

Come avevo già più o meno intuito, e come era ripor-tato in quel fogliettino di Legambiente che mi avevanodato all’ingresso all’inizio della giornata, esiste un registro,il registro Ines, che certifica le emissioni nell’aria e nell’ac-qua di inquinanti specifici. Sulla base di questi dati vienechiaramente fuori che Taranto è la città più inquinata d’I-

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talia, probabilmente anche d’Europa. Prendiamo peresempio i famosi Ipa, gli Idrocarburi policiclici aromatici.Nel 2006, in tutta Italia, le industrie hanno emesso nell’a-ria 33.707 chilogrammi di Ipa. Soltanto a Taranto l’Ilva neha prodotte 32.240, cioè il 96%. Nell’acqua l’aziendasiderurgica ha scaricato invece 3241 chili di Ipa, contro i3562 italiani. Sono il 91%. La questione non cambia se sianalizzano le diossine e i furani: in Italia sono stati caccia-ti 95,2 grammi in un anno. A Taranto 91,5, il 96%.Oppure il cianuro, che solo a ripeterlo mi fa paura: il 72% di quelli scaricati nelle acque italiane, arrivano dall’Ilva.

I tarantini non lo sanno. Ma hanno la più grande societàdi export di Europa. Si muovono nel campo della chimica.

In ogni caso, fin qui è tutto chiaro. Oppure forse no. L’Il-va sostiene infatti che non è colpa loro tutto quel disastro,e nemmeno di tutte le altre aziende della zona. Comel’Eni, ad esempio, che recentemente ha chiesto di aumen-tare del 40% l’emissione di alcuni veleni: Nox (ossidi diazoto), Sox (ossidi di zolfo) e schifezze simili. Secondo l’Il-va in fondo è colpa dei tarantini che sono degli sporcac-cioni. Non è un modo di dire, ma hanno scritto propriocosì su un documento ufficiale, una difesa depositata dailoro legali al Tar di Lecce in un giudizio amministrativocontro la Regione.

La società Ilva è proprietaria dello stabilimento industriale diTaranto nel quale esercita attività siderurgica. Lo stabilimento siestende su di un’area di oltre 15 milioni di metri quadrati a desti-nazione urbanistica industriale e occupa direttamente oltre13.630 dipendenti. Gran parte delle aree del complesso produttivo(circa 10 milioni e 200 mila metri quadrati) sono inserite nel sito

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di interesse nazionale di Taranto che, come delimitato con decretidel ministro dell’Ambiente 10 gennaio del 2000, si estende per114,9 km quadrati e ricomprende aree dei comuni di Taranto,Statte, Montemesola, Crispiano e San Giorgio Jonico. Il complessoproduttivo di Ilva si colloca nell’ambito di un’ancor più vasta areaproduttiva in cui, oltre all’insediamento, operano altre importantirealtà produttive. Nell’area del sito ambientale di interesse nazio-nale di Taranto numerose cave dismesse in discariche abusive dirifiuti urbani porzioni del Mar Piccolo e del Mar Grande inqui-nate per decenni dagli insediamenti portuali e dall’arsenale, oltreche decine di pozzi “a perdere” e di collettori “a mare” provenientidai limitrofi insediamenti umani, la Salina Grande e le numero-se aree in cui da decenni sono presenti “siti di discarica di rifiutiurbani non adeguatamente conterminati e numerosi siti di smal-timento abusivo di rifiuti di varia provenienza… e fenomeni didegrado e di dissesto”. “La situazione ambientale presenta, quindi,elementi di criticità riconducibili a un pregresso e generale stato didegrado e dissesto del territorio provocato, per lo più, dalla tolle-ranza di discariche abusive, da scarichi incontrollati nei corsi d’ac-qua superficiali, dalla mancanza di un moderno ed efficiente siste-ma fognario per gli insediamenti urbani, dall’assenza di impiantipubblici effettivamente in grado di assicurare lo smaltimento deirifiuti e la depurazione dei reflui prodotti sul territorio.”

Difesa Ilva davanti al Tar di Lecce, 18 dicembre 2008

Le discariche. L’Ilva dice che è tutta colpa delle discaricheabusive.

Quando citai la posizione dell’azienda al professor Assen-nato, egli sorrise. Non commentò. Poi si mise di nuovo araccontare.

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Tutta quella roba che le fabbriche di Taranto, e l’Ilva inparticolare, buttano per aria poi finisce da qualche altraparte. E cioè dentro i nostri corpi. Dei tarantini, e nonsolo. Una parte degli inquinanti viene assorbita per inala-zione diretta. Ma parliamo di una piccola parte. Tutto ilresto viene assunto, invece, tramite l’alimentazione. Lediossine emesse dalla combustione dei processi industrialifiniscono infatti per contaminare il suolo e l’acqua e quin-di per contaminare gli alimenti. La carne, ma anche i deri-vati del latte, i pesci e i crostacei marini. Quando ci sedia-mo a tavola, insomma, è come se fossimo a una lezione dichimica. Ma gli effetti della presenza di tutta quanta quel-la roba non sono soltanto didattici. Ci sono anche quellimedici. Gli acronimi non passano inosservati. Qualcunosi accorge della loro presenza. A Taranto purtroppo intanti se ne sono accorti, tanti altri ancora per molto tempose ne accorgeranno ancora. La maggior parte di quegliinquinanti hanno infatti effetti sulla salute dell’uomo. Par-lava di “effetti”, il professor Assennato, ma in realtà avreb-be potuto benissimo utilizzare il singolare. Effetto, perchél’effetto alla fine è soltanto uno ed è sempre lo stesso: ilcancro. Per esempio, prendiamo sempre i soliti Ipa. Si èdetto che l’Ilva produce il 96% degli Idrocarburi Policicli-ci Aromatici immessi in Italia nell’aria e il 91 nell’acqua.Per la letteratura scientifica gli Ipa sono un inquinantecancerogeno al 100%. E guarda caso a Taranto città ci siammala di tumore il 31% in più che nel resto della pro-vincia. Di tumori e non di tumori qualsiasi, ma di quelletipologie di cancro che hanno una relazione specifica conl’inquinamento ambientale. Per esempio: i maschi taranti-ni hanno il 35% in più di tumori al polmone, e mentreprendevo appunti mi vennero in mente gli accendini diLuca e addirittura il 55% di tumori alla vescica, figli que-

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sti ultimi molto probabilmente proprio dei famigerati Ipa.Ma non solo: Vittorio mi aveva raccontato di un suo col-lega che all’improvviso si era ammalato di prostata. Capi-tano, pensai, i tumori alla prostata. Ma a Taranto capitanoancora di più: il 44% in più che nel resto della provincia,e la causa è molto probabilmente il cadmio, un metalloche chiaramente da queste parti è di casa. La metà di tuttoquello prodotto dalle fabbriche italiane arriva dall’Ilva.

Il linfoma non-Hodgkin è una malattia che io avevo giàsentito qualche volta. Il male che aveva avuto NanniMoretti e che poi aveva raccontato in Caro Diario, il miofilm preferito, il film che mi ha cambiato la vita. Morettiguarisce e, raccontano i medici, guariscono la maggiorparte dei pazienti che si ammalano di quella malattia. Ilproblema è che a Taranto si ammalano in troppi e la colpaè delle diossine e dei furani. La stessa terribile coppia diinquinanti che causa più del 43% di sarcomi dei tessutimolli, mentre è dei policorobifenili la colpa dei 44 puntiin più di ammalati a Taranto rispetto al resto della provin-cia di tumori epatobiliari.

Dietro ognuno di questi numeri c’è una malattia, una sof-ferenza, una storia, milioni di lacrime, lutti e gioie, quan-do si guarisce. Mi venne in mente zio Vincenzo, subito.A Taranto ci si ammala di geografia, basta essere nati aManduria, trenta chilometri più là, per essere un fortu-nato. A Taranto ci si ammala e non si sa per colpa di chi.Ma soltanto per colpa di cosa. Al momento, mi spiegòsempre il professor Assennato insieme con Vittorio, da unpunto di vista medico-scientifico e quindi anche legale èimpossibile fare una correlazione esatta tra le malattie deitarantini. È impossibile dire che sia tutta quanta colpa del

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Vulcano. È impossibile fare uno studio epidemiologico, ècosì che si dice, che metta in correlazione certa le emis-sioni industriali con le malattie dei tarantini. C’è semprela possibilità delle discariche abusive o magari del trafficocittadino. Per poter essere certi che sia tutta colpa dellefabbriche bisognerà aspettare ancora, studiare e poi corre-lare. Bisognerà ancora ammalarsi e forse anche morire peravere giustizia.

Sono un ragazzo di 10 anni e mi chiamo Renato. Sono orfano dipadre e per colpa di un tumore ho perso da poco il nonno. Qui aTaranto, dove vivo, per colpa dell’Ilva ogni anno muoiono ditumore moltissime persone, sugli oggetti c’è una polvere argentea eil mare è inquinato e si sente puzza di smog: so anche che moltefamiglie sono alimentate dall’Ilva, ma rimango fermo sulle mieidee, perché è immondo che siamo la città con il più alto tasso ditumori! Perciò chiedo aiuto.

Renato Ninfale

Scesi dalle scale del retro, in modo tale da ripassare dinuovo davanti alla mostra dei bambini. Questa volta cipersi più tempo. La guardai a lungo, lessi e rilessi uno auno quelle centinaia di pensierini scritti al Presidente dellaRepubblica dai bambini della città. Quelle righe semisgrammaticate dovrebbero leggerle tutti i cittadini italiani,sono un’opera d’arte, un atto di accusa alla politica e all’in-dustria, ai giornali, sono un bisturi senza anestesia, non sipotrebbe raccontare niente e poi niente meglio di come lofanno loro, i bambini. Senza retorica, senza contaminazio-ni politiche, senza filtri. Solo puzza, timore, ingenuità ecartoni animati per raccontare la vita nel Vulcano. Per

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esempio: ma Holly potrebbe mai scattare sulla fascia e poibloccarsi per uno spasmo causato dai Pcb che si trovanonell’aria? Hello Spank avrebbe il pelo bianco se fosse natoa Taranto o anche quello, come le lenzuola stese, sarebbediventato grigio? Insomma è normale che i sogni dei bam-bini cambino colore?

Il verde non è verde, il blu è malato, gli animali sono pochi, l’uo-mo sta morendo a causa di tante malattie legate all’inquinamen-to. Noi bambini vogliamo un futuro più bello e più colorato. È unnostro diritto.

Domenico Basile

Ho ammirato il profilo delle maestre, vorrei stringere lemani una ad una, a tutte, perché hanno fatto benissimo illoro mestiere, sono rimaste dietro le quinte, arginandoquel protagonismo solito dal quale sono affette molte inse-gnanti. Sarebbe stata l’occasione perfetta, la mostra, ilpubblico; sarebbero sicuramente salite su quel palco con lamessa in piega appena fatta per raccogliere applausi, sen-tirsi dire quanto sono state brave, fare una decina di rin-graziamenti alla dirigente scolastica, la vicaria, a tutte leinsegnanti del progetto e poi stringere la mano al sindacoe magari anche al presidente della regione. Hanno fatto illoro lavoro, hanno spiegato, motivato, lanciato l’input epoi sono state a guardare. È nato così il libro. Tra tutti, imiei preferiti sono Stefano e Fabiola, ho letto i loro pen-sierini e non ho resistito alla tentazione di riscriverli su unfoglio di carta e conservarli per sempre con me.

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Anche io voglio nella mia città nuvole bianche come quelle dei car-toni animati. Tanto sono certo che prima o poi sarà così. La pregodi fare che accada.

Stefano

Io sono una bambina di nove anni che vive in una delle città piùinquinate d’Italia, Taranto. Il cielo della nostra città è quasi sem-pre grigio mi sembra di vedere un lampadario spento. Ti prego, sepuoi accendi la luce sulla nostra città.

Fabiola

Alla fine scesi. Per poi però fermarmi dopo nemmeno unarampa di scale. Era bagnato per terra, era ormai pomerig-gio e nel vecchio ospedale avevano cominciato a fare lepulizie. Tutto splendeva, lo avevo già notato, non c’era unfilo di polvere all’interno delle finestre. Chi si occupavadella cosa, evidentemente, doveva essere una personaattenta. Quella persona mi spuntò all’improvviso lì davan-ti, una signora di 60 anni all’incirca con i capelli ramati eordinati, accucciata con le ginocchia a terra per battere almeglio il battiscopa del secondo piano. Sollevò lo sguardo,mi vide lì impalato sulla rampa, e mi fece segno di scen-dere con la mano. Affrontai i quattro scalini che rimane-vano con l’esterno dei piedi, sperando di lasciare menoimpronte possibili. “Non si preoccupi, venga pure, tantodopo devo ripassare lo straccio.” Saltai gli ultimi due conun balzo, a momenti cadevo all’indietro. La signora miguardò e sorrise, poi afferrò al volo l’occasione, “Scusisignore, un attimo, soltanto una parola”, disse e in unbaleno scattò in piedi e si mise tra me e l’altra rampa,impedendomi di scendere. Per fortuna. Tina aveva 51 anni

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solamente e viveva al quartiere Tamburi di Taranto, quel-lo più vicino all’Ilva. Era una bidella, da qualche annolavorava come interinale in una società che assicurava ilservizio di pulizia e sorveglianza nella maggior parte degliospedali e delle strutture pubbliche della Puglia. Ma inrealtà anche del Lazio, della Lombardia, insomma vince-vano sempre loro. Tina viveva al Tamburi e aveva un pro-blema. In realtà ne aveva più di uno, ma di quello nellospecifico aveva bisogno di parlarmi. “Giovane, sei un gior-nalista, vero?”, mi chiese toccandomi con una mano il passche portavo al collo da inizio giornata. “Lavori al Corrieredel Giorno? La Gazzetta? Senti, l’importante è che scriviquesta cosa perché io tengo un problema.” Ero pronto adascoltare la storia della sua mancata stabilizzazione nellasocietà oppure della classifica per le case popolari tarocca-ta o in alternativa c’è sempre un marciapiede rotto sottocasa di qualcuno e un giornalista che deve denunciare lacosa nella speranza che lo aggiustino, visto che le decine ditelefonate al centralino dei vigili urbani non sono servite anulla. Tina, invece, non disse nulla di tutto questo. Ma miparlò delle sue scope, di suo figlio pittore e della sabbia delVulcano.

Tina era una delle signore del Tamburi, appunto. Vive-va in una di quelle case con la vista sulle ciminiere, a pochipassi dai famosi parchi minerali dell’Ilva. Mi raccontò chetutti i giorni, da quando abita là dentro, lei è costretta ascopare il balcone almeno tre volte e quando c’è il ventonon ne parliamo, deve stare sempre lì fuori a scopare, chi-narsi, raccogliere e buttare. Il ballo del minerale, stavo perdirle, ridendo. Per fortuna rimasi zitto. “Non pensare chesia una cosa così, guarda che è una schiavitù, una cosabrutta assai non riuscire a tenere una casa pulita, esserecostretta a stendere sempre le robe dentro casa perché

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altrimenti diventano tutte quante nere oppure come unaspecie di rosa. Qua a Tamburi tutto è rosa. Pure le cappel-le del cimitero.” Il cimitero è quello di Brunone, quindicipassi dalla fabbrica e quindici dalle case. “Ora le cappellele pittano già di rosa, perché tanto diventano di quel colo-re dopo qualche giorno e a questo punto meglio farlosubito, si risparmia tempo e una brutta figura: almeno inostri morti, almeno loro, non sembrano sporchi.”

Avrei voluto interromperla un attimo. Taranto, il paese delcimitero rosa, era una figura retorica, un ossimoro sì, maforse anche una metafora. Avrei voluto interromperla unattimo Tina, per sdrammatizzare e sono sicuro che leiavrebbe capito, era una donna di spirito. Le avrei volutocitare una delle migliaia di cose che mi aveva detto qual-che minuto prima il professor Giorgio Assennato e che miaveva colpito particolarmente.

Tina doveva essere orgogliosa della sua Taranto, meglioancora doveva essere orgogliosissima del suo quartiere, ilTamburi. In una speciale classifica superava Padova, Firen-ze, Venezia, Milano, Roma, Bologna. E poi ancora di più:meglio di Taiwan, Chicago, Hong Kong, Santiago, SanPaolo, Houston, Brisbane, Atene. Taranto meglio di tuttequeste città e di altre mille ancora. Ecco, in realtà la clas-sifica lusinghiera non veniva da uno di quegli elementi chegraduatoria del Sole 24 Ore sulla vivibilità delle città defi-nirebbe “qualificante”. Il confronto era contenuto in unostudio su “I microinquinanti” della facoltà di Chimica del-l’Università di Bari alla quale avevano lavorato cinque pro-fessori universitari (Amodio, Caselli, De Gennaro, Placen-tino e Tutino). Dopo aver analizzato migliaia e migliaia ditabelle, gli scienziati avevano preso a campione una seriedi giornate che andavano dal 2 aprile 2003 al 27 febbraio

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2006, per poi fare il confronto tra la qualità dell’aria chesi respira al Tamburi e quella delle più grandi città italia-ne, europee e addirittura mondiali. La centralina che regi-stra i valori del benzoapirene è proprio a due passi da casadi Tina, in via Orsini. Per esempio: Tina si ricorda dov’e-ra il 4 aprile 2003? Spero di sì, perché quello è stato ungiorno davvero speciale. Il benzoapirene, uno degli inqui-nanti cancerogeni più tremendi che possano esistere, quel-lo che viene fuori dai tubi di scappamento delle automo-bili ma anche dai camini delle industrie, era presente diecivolte di più rispetto alla norma, sette volte di più che aChicago e San Paolo, quasi il doppio che a Los Angeles.Oppure il 16 gennaio 2005: quel giorno l’aria che harespirato Tina al Tamburi era identica a quella di HarrisonFord a Los Angeles. Stessa quantità di benzoapirene, dissela scienza. Sostenne il professor Assennato, tradito da unsorriso, che evidentemente in via Orsini devono circolarelo stesso numero di automobili che sulla Hollywood Bou-levard. O forse no.

Avrei voluto interromperla Tina, ma non ci riuscii. Conaddosso quel grembiule azzurro che le scendeva informesui fianchi, le ciabatte con un poco di tacco, continuava aparlare come una macchinetta, senza respirare per unsecondo. Continuava a ripetere di quella sabbia, volevagiustizia su quella dannata polvere, l’avversario della suavita, l’attentato alla sua pulizia, della sua ontologia di casa-linga. Tina era una donna determinata, lo capisci da comesi muove, dalla fermezza dell’espressione, dal modo in cuigesticola. Mi raccontò che qualche anno fa, esasperata,cominciò a raccogliere quella polvere e portarla alla Asl, aiCarabinieri, alla Polizia, e che poi aveva anche cominciatoa mandare quei sacchetti alla magistratura, che all’epoca si

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chiamava Pretura, e allora e soltanto allora qualcosa erasuccesso. Tina mi raccontò una storia meravigliosa. Miparlò della giustizia, ai tempi del Vulcano.

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La polvere

L’Ilva produce acciaio. L’acciaio non è un elemento natu-rale ma si realizza mettendo insieme il ferro e la polvere dicarbone. Anche la polvere di carbone però non esiste. Sirealizza cuocendo il carbone in stabilimenti che si chiama-no cokerie. Le cokerie altro non sono che dei forni. Perrealizzare l’acciaio è necessario avere materie prime. E que-ste materie prime a Taranto non esistono. L’Ilva le comprada altri paesi stranieri e arrivano a Taranto via mare. Dalporto vengono poi trasportate in azienda attraverso deinastri trasportatori. Tina, mi disse, di essere molto arrab-biata con questi nastri trasportatori. Sostiene che la polve-re che trova sul balcone sia colpa proprio di questi nastri.Tina vive al Tamburi, il quartiere che si trova a pochi passidall’Ilva. Quando fu costruita l’Italsider, quel quartiere giàesisteva. Ma perché allora fu costruita comunque l’aziendasiderurgica? Perché non la realizzarono in un’altra zona diTaranto? Nessuno immaginò che saloni, camere da pran-zo e altiforni non potessero stare troppo vicini? “Quellafabbrica”, mi disse Tina brandendo il dito come fosse unabacchetta, “l’hanno costruita alla rovescia. La zona dell’Il-va che non dà fastidio l’hanno fatta lontanissima mentrequella più pericolosa l’hanno fatta qui, accanto ai palazzi.Non è che non ci hanno pensato. Lo hanno fatto apposta:

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da questa parte è più vicino al porto e così hanno rispar-miato sui nastri trasportatori. Hai capito che casino questinastri?” Non avevo capito. E soprattutto non avevo capitoquesta roba della polvere. Da dove arrivava? Perché arriva-va? Che cos’era? Provai timidamente a farglielo notare.“Tu sei scemo”, mi disse. E poi mi mise in mano un mal-loppo di carte. “Leggi”, disse. “Così forse capisci.” Quellecarte che Tina conservava in un cassetto di una vecchiacattedra, uguale a quelle dei bidelli a scuola, erano le moti-vazioni di alcune sentenze penali. Qualche centinaio dipagine ciascuna. Le sfogliai, lì seduto sul gradino dellescale.

Sulla base di tale considerazione di fondo, il principale colpevole èEmilio Riva.

Martino Rosati, giudice, pag.24 sentenza n.408/07

La lettura fu utile. Per esempio, scoprii che il Vulcano haanche i suoi parchi. Senza ironia, li chiamano propriocosì, parchi. Non sono verdi e non sono fatti di erba.Sono grigi, neri, a volte rossastri. E sono fatti di minera-li. La definizione non era mia. Ma di Lucia De Palo. Lasignora è un giudice, e così scriveva in una sua sentenzadi primo grado, depositata il 15 luglio del 2002. “L’areadei parchi minerali si estende per circa 660mila metriquadrati ed è destinata a deposito di materiale di variotipo, (…) si tratta sostanzialmente di minerali e fossili.Hanno dimensioni notevoli: una lunghezza di centinaiadi metri e un’altezza di circa dieci.” Cento per dieci, piùche di parco si tratta di colline. Vengono infatti accumu-late piccole montagne di minerali, enormi cunette di pol-

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veri, pronte per essere trasformate in acciaio. In quasitutti gli altri stabilimenti siderurgici del mondo, persinoa Taiwan, queste colline sono coperte. Ma a Taranto no.In realtà quando l’Ilva ha acquistato il bene aveva pro-messo una serie di interventi per mettere in sicurezzaquell’area, ma a credere al panorama e ai giudici penali èstato fatto ben poco. “Un’abile opera di maquillage”, èdefinita in una sentenza di corte d’Appello, “verosimil-mente dettata dall’intento di lanciare un segnale perallentare la pressione sociale e della autorità locale eambientale: gli interventi fatti non possono essere consi-derati però il massimo che si poteva fare”.

Il parco si trova al di là del muro di cinta dell’aziendaa poche decine di metri dalle case del Tamburi. Basta sali-re su un qualsiasi balcone del quartiere per vederlo, inlontananza. Ma perché i minerali si muovono? “Il mate-riale accumulato allo stato grezzo”, scriveva sempre il giu-dice, “una volta movimentato, a causa della stessa attivitàproduttiva ma anche a seconda delle condizioni meteocli-matiche, si sgretola con conseguente formarsi di polveredi colore nero, rossastra e lucente.” Che bello, che deveessere: la notte, magari, e quella polvere nera, rossastra epure lucente. Come la polverina di Trilli campanellino.

Le polveri sono rossastre... visto da dove lavoro io, io lavoro al SanGiuseppe Moscati, l’azienda Ospedale Santissima Annunziata, dalsettimo piano, vedo quasi sempre sopra la zona del rione Tamburi,quindi di lato dell’Ospedale Nord, vedo proprio dal settimo pianouna cappa di colore rossastra, ma non rosso fuoco, un rosso che sicu-ramente è legato a cause credo... Senta io siccome stavo lavorando,non è che mi sono messo a guardare, io le posso dire di quei brevimomenti che alzavamo la testa perché insieme ad altri colleghi,

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loro erano di un paese della provincia, e dicevano: “Ma comefate a vivere, guarda là”.

Infesta Gianfranco, teste

In prossimità di casa per tanti anni ho giocato in un campo di cal-cio che è il comunale vecchio, dove c’è un cumulo di polvere, guar-date, è impressionante, io non so come diano ancora l’autorizza-zione a giocare su questo campetto, dove la scarpetta di calcio va aldi sotto, cioè veniva coperta del tutto dallo strato di polvere... Lodico a prova di quello che è la verità, io ho dei parenti che vannosettimanalmente, quelle persone che vanno col secchio, l’acqua e loscopettino tutte le domeniche e tutte le domeniche se ne ritornanocon le pezze nere. Cioè ormai si sono talmente attrezzati che vannodirettamente anziché con i secchi di acqua riempiti con le fontaneche sono distanti, vanno con i bidoncini personali.

Intini Pietro, teste

Lucia De Palo, il giudice, parlava chiaro. Altro che Tina ei suoi racconti. “È stato accertato”, scriveva nella sentenza,“che nei forti giorni di tramontana il fenomeno assumedimensioni insopportabili e si vedono chiaramente daiparchi minerali alzarsi delle nuvole di polvere che rag-giungono dimensioni enormi, con conseguenti grossissimidisagi alla popolazione.” Il vento che governa un quartie-re, Almodovar forse ci farebbe un film.

L’effetto sulle cose è che va a sporcare tutto questo minerale dove siva a depositare, perché basta vedere i nostri stabili sono di colorescuro, marronastro, luccicanti a volte. Sulle macchine lo stesso pro-blema sui marciapedi questa polverina che vedi dappertutto e que-

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sto è un problema che si accentua specialmente se c’è vento che èuna dannazione per il quartiere Tamburi... Beh! Le persone natu-ralmente... poi questa è polvere che vola nell’aria a mio avviso, nonsono un tecnico, però respiro questa polvere ti entra dentro casa...Quando c’è vento, siccome io abito vicino all’Ilva, dai parchi sivede che si alza questa polvere.

Guarino Domenico, teste

Sì, qui diventa proprio mostruoso, una situazione invivibile. Nellegiornate di vento.

Crocco Danilo, teste

La polvere doveva essere davvero tanta. Si alzava a tutte leore del giorno, era in grado di arrivare ovunque, nei nego-zi e nelle scuole. Si fermava sui balconi, si aggrappava aimuri, si fermava per terra, il campo sportivo dove si affon-da nei minerali, per esempio. La polvere si appiccicava sulcorpo. In tanti al quartiere Tamburi raccontavano di nonlavarsi con il bagnoschiuma. Ma con lo spirito. E poi lapolvere non dava fastidio soltanto a Tina.

Mi devo girare così, perché ti va in faccia, ti dà fastidio agli occhi... Ferulli Francesco, teste

Si avverte un bruciore agli occhi sicuramente e altri danni inmaniera evidente al momento non si notano, però io vi posso direche purtroppo l’interessamento a polveri determina dei danni chenon sono rapidi, ma sono nel tempo.

Infesta Gianfranco, teste

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Personalmente a me producono un fastidio agli occhi, un rossastrosugli occhi e anche sulla parte respiratoria... Quando uno si puli-sce il naso si vede un po’ di polvere sul fazzoletto.

Gentile Armando, teste

Tina aveva ripreso a pulire, non riuscivo più a vederla.Avrei voluto parlarle, forse chiederle scusa, o forse no per-ché altrimenti avrebbe ripreso a strillare. Squillava il tele-fono, mi cercava Vittorio. Non risposi, volevo continuarea leggere.

Nelle carte tornava spesso il nome di Franco Sebastio.Anche lui era un magistrato. Doveva essere la dannazionedell’Ilva, magari nell’ufficio di qualche dirigente dell’a-zienda c’era un poster con la sua faccia, gli occhiali, i baffifolti, e sopra qualche decina di freccette. Era Franco Seba-stio che aveva istruito in qualità di pretore prima, poi disostituto procuratore, poi di procuratore aggiunto tutti iprocedimenti penali contro l’Ilva di Taranto. Sebastio l’a-vevo intravisto prima in sala ma anche conosciuto unavolta, tempo fa, per un altro procedimento che riguardaval’Ilva ma non c’entrava nulla con il Vulcano: l’aziendaaveva preso una vecchia palazzina, tutta sporca, con i vetrirotti, e ci aveva deportato un po’ di dipendenti scomodi,che avevano rifiutato un accordo con l’azienda. Li avevapresi e messi lì a fare niente, come punizione. A Taranto lagente diceva in giro “beati loro, vengono pagati e nonlavorano”. Loro invece, i dipendenti deportati, andaronovia di testa. Depressi, mobbizzati. Del caso se ne discussesui giornali, i sindacati denunciarono. Intervenne la magi-stratura, arrivò Sebastio, la palazzina chiuse, i dipendentitornarono al lavoro e i vertici dell’Ilva furono condannati.Quella era la storia della palazzina Laf.

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Questa invece è la storia di una polverina magica fluo-rescente, colorata. E anche un poco molesta. Ma non solo:pare sia anche pericolosa.

Giudice, voglio premettere che molestare significa recare molestia,dar noia, fastidio ma anche procurare una sensazione incresciosadi irritazione provocata da tutto ciò che produce un turbamentodel benessere fisico e che offendere è qualcosa di più e sta per urta-re contro, rendere ranno, danneggiare, produrre una lesione (…)Ora fatta questa premessa, voglio dire che il particolato (unamiscela di particelle solide e liquide sospese nell’aria i cui costi-tuenti variano per dimensione, composizione e origine) anchequello più grossolano, può non solo molestare ma anche offenderesia la mucosa degli occhi, determinando irritazioni oculari, sia leprime vie aeree del naso, determinando fastidi, starnuti e prurito,sia le primissime vie aeree, determinando anche tosse secca e stiz-zosa. E questi sono i sintomi più banali, più immediati che si pos-sono avere (…) Dobbiamo però fare una piccola considerazione,cioè purtroppo il nostro apparato respiratorio è il più esposto almondo esterno di tutti gli altri organi che noi abbiamo, persinopiù del mantello cutaneo che si espone per 4,5 metri quadrati. Ilmantello alveolare si espone per 60, 100 metri quadrati, cioèsignor Giudice se noi dovessimo dispiegare gli alveoli dei nostri pol-moni su un pavimento, noteremo con grande sorpresa che dispie-gando tutti questi alveoli, occuperemmo la superficie di un campoda tennis. Allora lei capisce che inalando dai 10 ai 20mila litri algiorno di aria, perché questo è quello che inaliamo, è ovvio che inquesto immenso filtro vanno a depositarsi un’innumerevole quan-tità diciamo di sostanze nocive per il nostro apparato respiratorio(…) Il problema è che il particolato tende a legarsi con in pollininell’aria (…), così i soggetti predisposti a questo tipo di patologiahanno molto più frequentemente crisi asmatiche, è stato visto che

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l’aumento del particolato si correla con l’aumento dei ricoveri ospe-dalieri, con l’aumento dell’uso di farmaci antiasmatici e quindidiciamo, evidenziano questa azione negativa.

Dottor Corbo, specialista in pneumologia, consulente delPubblico ministero

A lamentarsi non erano poi soltanto i cittadini. Ma anchele istituzioni, i politici, chi rappresenta i cittadini. “Nelcorso del dibattimento”, annotava sempre il giudice, “sonostati sentiti testi che hanno, per ruolo istituzionale, quellodella salvaguardia del territorio, e hanno tutti descritto lasituazione con toni estremamente gravi.”

Nonostante questo, però, il Comune di Taranto e laProvincia di Taranto, dopo aver siglato un protocollo d’in-tesa con l’azienda, decisero di ritirare la costituzione diparte civile nel procedimento penale. Se non lo avesserofatto, la città e i centri della provincia avrebbero avutodiritto a un risarcimento economico, magari anche soltan-to simbolico, per risarcire il danno subito. Gli unici a nonritirare la costituzione di parte civile furono la Uil eLegambiente. L’avvocato dell’associazione ambientalista,Eligio Curci, seguì tutte le udienze.

Era una lamentela continua, tant’è che si sono già organizzati deicomitati cittadini (…) Noi abbiamo fatto anche un corteo, pro-prio per manifestare tutto questo. Personalmente ho visitato nonsoltanto il campo sportivo che credo sia stato uno degli elementi piùeclatanti per il cumulo che noi abbiamo registrato di polveri pro-venienti dal parco minerale. Ma anche in alcune abitazioni dovei cittadini ci hanno dimostrato come quotidianamente sui balconi,sui davanzali, eccetera, c’è la presenza di queste polveri. Quindi è

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un dato scontato, ma d’altra parte è un dato anche visibile. Ci sonoalcune zone e alcune strade e dei guard-rail che ormai sono diven-tati tutti rossi. Cioè basta andare in quelle zone dove è facilmentevisibile che c’è una deposizione di polveri. (…) Molte strade e moltiguard-rail, sono per esempio tutti rossi, quel materiale si depositaun po’ dappertutto, specificamente nel quartiere Tamburi.

Rossana Di Bello, ex sindaco di Taranto

La colpa della polvere non era soltanto del vento, raccon-tava sempre il giudice. La nube si alzava anche nei giornidi calma piatta. “Anche in condizioni di assoluta normali-tà climatica e in assenza di vento lo spolverio è emerso esembra idoneo a imbrattare cose e persone per una vastis-sima area e a creare problemi alla respirazione e alla vista.La situazione (...) è permanente.” L’unica soluzione perrisolvere il problema, dicevano sempre i giudici nelle lorosentenze, era spendere tanti soldi, oppure spostare i par-chi. Non è un caso che nei primi due gradi di giudiziofosse stata decisa anche la confisca dell’area, poi annullatadalla Cassazione. Ma a proposito di chi è la colpa?

Il primo responsabile del rispetto delle norme dovrà identificarsi,indiscutibilmente, nel legale rappresentante della società dotata dipersonalità giuridica, e cioè Emilio Riva (…) Tutti i dati proba-tori sopra analizzati dimostrano che, nella conclamata inidoneitàdei rimedi-tampone apprestati negli anni per eliminare o contene-re il fenomeno dello spolverio, la soluzione di un problema aventecosì gravi ricadute sulla salute dei cittadini non poteva passare senon attraverso radicali mutamenti del processo produttivo (…) Indefinitiva si trattava di operare scelte di ampio respiro strategicovolte a ripensare struttura, articolazione e ubicazione delle aree

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produttive dell’enorme insediamento siderurgico così da prevenire,eventualmente, anche alla dismissione dei parchi minerali e dun-que alla decisione di eliminare all’occorrenza determinate aree efasi del ciclo produttivo (…) Non vi è chi non veda come l’impor-tanza e la portata di scelte industriali volte a eliminare la fonte dipericolo ovvero a mantenere la fonte di emissione, rendendola com-patibile con la salute dell’uomo e dell’ambiente al prezzo di ingen-tissimi esborsi di denaro, non potevano che competere al minimoall’amministratore delegato, Emilio Riva (…) Non si era in pre-senza di fenomeni occasionalmente cagionati dall’attività produt-tiva ma di caratteristica costante e connaturata alla peculiarestrutturazione del ciclo produttivo integrale e alla specifica disloca-zione dell’area parchi nell’ambito dello stabilimento Ilva (…)Sarebbe legittimo pretendere in ragione delle enormi dimensionidello stabilimento tarantino (il più grande d’Europa) e delle altret-tanto imponenti ricadute pregiudizievoli per il territorio e la salu-te dei cittadini (…): non si può parlare di inesigibilità tecnica oeconomica quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rile-vanza costituzionale, come ad esempio il diritto alla salute.

Dino Maria SemeraroCesarina Tronfio

Giovanna SemeraroConsiglio Corte d’Appello di Lecce, 10 giugno 2004

Emilio Riva è un pregiudicato. Così era scritto nelle pagi-ne che mi aveva dato Tina. L’imprenditore, il proprietariodell’Ilva, il grande capitano d’impresa italiano, è stato con-dannato due volte, in due procedimenti diversi, sempreper lo stesso reato: aver inquinato Taranto. Il 25 ottobre2005 la Cassazione lo ha condannato a sei mesi di reclu-sione – sostituiti con l’ammenda di 7980 euro – per getti-to pericoloso di cose. Laddove per cose si intende polveri

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e inquinanti lanciati nell’aria. Il 10 ottobre 2008, invece, la sezione distaccata della

Corte di Appello di Lecce (si attende ora l’ultima pronun-cia della Cassazione) lo ha condannato a due anni per get-tito pericoloso di cose, danneggiamento aggravato, omis-sione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro nelreparto cokerie. In entrambi i procedimenti insieme conRiva è stato condannato anche il direttore dello stabili-mento di Taranto, Luigi Capogrosso.

Non è vero quindi che sul Vulcano non è mai colpa dinessuno.

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Il Vulcano (II)

Fu quando pensavo che fosse tutto in quelle cinquecentopagine di sentenze, in quel migliaio di cartelle scritte dacinque giudici diversi a distanza di parecchi anni gli unidagli altri, fu quando avevo pensato di aver capito il Vul-cano che invece mi accorsi di non aver capito nulla. Asso-lutamente nulla. Bastò mettersi le scarpe da ginnastica escendere giù all’Hotel Delfino per fare colazione alle novedella mattina. Mi bastò aprire il giornale.

L’Ilva ha comunicato alle organizzazioni sindacali dei metalmec-canici che dal 10 maggio prossimo sarà fermato l’altoforno 2 dellostabilimento siderurgico di Taranto. Una decisione che comporteràl’aumento del numero di cassintegrati dagli attuali 4.100 a 6.700circa, ovvero la metà dei lavoratori dello stabilimento. La produ-zione di ghisa, ridotta già a partire dall’ottobre scorso, calerà ulte-riormente da 26.000 tonnellate al giorno a 7.000 circa, mentreresterà operativo solo l’altoforno 5 su un totale di cinque altoforni.

la Repubblica

Il lavoro è l’altra faccia del Vulcano, quella che non puzza,che non fa fumo. Non colora di grigio le nuvole, ma fa

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bene e fa anche male uguale. Se possibile, ancora di più.L’altra faccia del Vulcano si materializza 24 ore su 24, aciclo continuo, ma poi c’è una giornata in particolare incui si materializza più precisa del solito, il 27 di ogni mese.È da questa parte del Vulcano che nasce il magma, è da quiche comincia la vita.

Taranto è una delle città più indispensabili al sistemaindustriale italiano, necessaria all’autosufficienza di questanazione e di questo continente. Senza Taranto, sentiitempo fa in televisione, saremmo tutti ancora più dipen-denti dalla Russia e dalla Cina. Ciascuno a Taranto ha incasa un padre operaio, un cugino macchinista, un generocapo turno, la gran parte della città riesce a mangiare gra-zie alle grandi aziende, siano esse l’Eni, l’Agip, l’Ilva,oppure l’indotto, che non è il nome di una fabbrica ma ètutto quello che gira intorno e quindi, comunque, arriva il27 di ogni mese. Raccontava l’Ilva nel suo bilancio disostenibilità presentato nel 2005 che ha 13.346 dipenden-ti diretti, più i 3136 dell’indotto. Negli anni molti di lorosi sono fatti male in fabbrica, tanti, troppi, sono mortimentre lavoravano l’acciaio. Nell’ultimo anno poi l’azien-da ha aumentato gli investimenti in tema di sicurezza (duemiliardi di euro) e ad aprile del 2009 ha annunciato trion-fale in una conferenza stampa che nello stabilimento si èregistrato un calo del 50% di tutti gli infortuni. Ognitanto, però, qualcuno continua a farsi male. Gli operai diTaranto sono ragazzi giovani e sono uomini, anche vecchi.Lo 0,6 per cento degli operai Ilva ha meno di 20 anni, il18,7 ne ha da 21 a 25, il 38 è compreso in una fascia dietà che va dai 26 ai 30, il 20,1 dai 31 ai 40, il 17,1 dai 41ai cinquant’anni. C’è poi un 5% che è ultracinquantenne.Non è certo il massimo nella storia delle acciaierie. Quan-do si chiamava ancora Italsider, dentro il mostro hanno

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lavorato anche 21.785 persone per poi crollare nel 1995quando arrivò il gruppo Riva a 11.796.

In un libro stampato dalla Regione Puglia sulla storia diTaranto c’è un appunto interessante. Scriveva un vecchiosindaco di Taranto, era il 1959, si parlava dell’acciaieriache stava per nascere e della banda che girava per la città.Si parlava dell’altra faccia del Vulcano. A me venne inmente un paese che si chiamava Macondo, e la storia dicome la gente del luogo conobbe il ghiaccio.

Alla notizia la città esultò. Fu scomodato persino un complessobandistico che portò in ogni rione l’annuncio tanto atteso. La cittàcominciava finalmente a guardare al suo futuro con maggiore sere-nità. Chi alzò un dito allora per dire che il IV centro siderurgicostava per nascere proprio alle porte della città? (...). Nessuno pote-va farlo. Perché, allora, c’era fame di buste paga, di posti di lavo-ro, di tranquillità economica, di serenità. Se ce lo avessero chiesto, avremmo costruito lo stabilimento anchein pieno centro cittadino, in piazza della Vittoria, nella Villa Peri-pato, al lungomare.

Angelo Monfredi, sindaco di Taranto, 1959

Nel corso di un incontro al Quirinale proprio rispondendo a unadomanda di alcuni studenti di Taranto dissi che bisogna rendersiconto che per tanto tempo il problema numero uno è stato il pro-blema del lavoro, di creare posti di lavoro, specialmente nel Mez-zogiorno d’Italia e sembrava che la strada maestra fosse quella dicostruire fabbriche. In questo senso ho peccato anch’ io: mi ricordoche mi diedi molto da fare e partecipai a delle battaglie perché sicostruisse il grande impianto siderurgico a Taranto. Abbiamoimparato, dopo, che bisognava essere più prudenti, e che bisognava

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mettere nel conto anche tutte le conseguenze negative dell’indu-strializzazione. Ma si è dovuti passare per quell’esperienza, percapirlo.

Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica, 2008

A colazione servivano, tra le altre cose, quella frutta secca-ta e glassata che è la prova evidente dell’esistenza del tra-scendente. Le banane, soprattutto. I cornetti alla cremafacevano abbastanza schifo, l’edizione di Bari di Repubbli-ca in prima pagina parlava del Petruzzelli, il teatro brucia-to, ricostruito ma ancora chiuso per un dispetto della poli-tica (il governo nazionale di destra a quello locale di cen-trosinistra). A pagina 9 raccontava invece della crisi. Ilmondo va a rotoli, l’economia ha inchiodato con il frenoa mano, si è messa su un lato, rischia di cappottarsi. Leaziende chiudono, i dipendenti arrivano la mattina in fab-brica e non trovano più nulla, via le scrivanie, via i com-puter, c’è soltanto una lettera di licenziamento. I sindaca-ti contrattano, le istituzioni continuano a stanziare soldisu soldi, i precari non si lamentano più di essere precari.Ora sono disoccupati. Ora c’è la crisi e quindi anche l’Il-va è in crisi. “La nostra produzione è calata del 70% inconseguenza a una drastica riduzione degli ordinativi”,spiegava il responsabile dei rapporti internazionali delgruppo Riva, uno dei manager più importanti dell’acciaie-ria, Giancarlo Quaranta. 6700 lavoratori in cassa integra-zione. “Paghiamo la crisi di settori trainanti come quellodelle auto, degli elettrodomestici e delle costruzioni –diceva Quaranta a Repubblica – registriamo un calo degliordinativi del 60%.”

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Il fatturato del gruppo Riva ha sfondato il tetto dei dieci miliardidi euro. L’acciaio, dicono, subirà una contrazione dei consumi equindi Riva ha deciso di mandare in cassa integrazione 2500 ope-rai. Ma a leggere le analisi di Federacciai non è vero che si consu-merà di meno. Il portafoglio ordini delle aziende siderurgiche su-birà, nella peggiore delle ipotesi, un decremento del 2%, ma mer-cati come Africa del Nord e la stessa Scandinavia continueranno acomprare acciaio perché non ne producono. L’Italia, invece, è lea-der europeo del settore. Che cos’è cambiato? Sono mutati i marginidi guadagno. I prezzi delle materie prime sono cambiati brusca-mente e così anche i prezzi dell’acciaio. Quindi Ilva teme non diandare in crisi, ma di guadagnare di meno. Un’azienda ha il dove-re di guardarsi dagli imprevisti del futuro, ma non ha il diritto digiocare sulla pelle di una città.

Francesco Boccia, deputato, economista, già liquidatore delcomune di Taranto

La pagina 9 del giornale mi colpì. Tanto. In fondo al pezzoc’era anche una piccola tabella, colorata, piena di numeri.Fonte: “Dati ufficiali dell’Inps”, era scritto grande come ifoglietti illustrativi dei medicinali. I numeri erano scritti ingrande. Nonostante questo li lessi più volte perché teme-vo di non aver capito bene. La tabella diceva che a Taran-to, nel mese di marzo del 2009, le ore di cassa integrazio-ne ordinaria sono aumentate rispetto all’anno precedentedel 1495,71%, mentre a livello regionale l’incremento èdel 118,22. Millequattrocentonovantacinque, 1495,mille-quattrocento-novanta-cinque ore in più di cassaintegrazione in un mese soltanto. Era scritto proprio così,non mi ero sbagliato.

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Se dicessi che in questo momento non sono preoccupato, direi pro-prio una stronzata. Certo che sono preoccupato, anzi sono propriocacato sotto, non dormo da quindici giorni, io sono terrorizzato. Iolavoro dal 1987, senza pausa, tutti i giorni tranne al mese di ago-sto e ai compleanni di mia moglie e dei miei figli. Mi sono presoun giorno anche quando l’Inter ha vinto lo scudetto lo scorso anno.L’unico mestiere che so fare è quello della fabbrica ma non è que-sto. Io sono uno che si adegua, mi butto a fare tutto, in campagnami sono praticamente costruito una casa da solo. Il problema nonsono io ma sono gli altri: a 50 anni chi è che mi deve prendere alavorare? Avanti, chi è che mi deve prendere? Io però del lavoro hobisogno, per questo ringrazierò a vita il signor Riva che ci ha datoquesta grandissima possibilità e che mi permette di fare una vitatranquilla, che mi permette di non fare mancare niente ai due mieifigli. Ora però tutta questa cosa a me mi sta toccando il sistemanervoso, mia moglie mi dice di stare calmo ma io sono quindicigiorni che non riesco a dormire, mi sento una cosa che mi sale dallostomaco, mi manca il respiro, mi sento di morire, il cuore batteforte, davvero è brutto assai, mi sento morire. E se continua così iodavvero muoio: non so se mi ammazzerà la fabbrica, questa pauraoppure la depressione. Ma qualcosa mi ammazzerà. Io ho due figlie un affitto, io, non so se mi spiego, io quando parlo non devo pen-sare solamente a me ma devo pensare a loro, ho la foto sul telefo-nino, vedi come sono belli, il grande ha 14 anni, quello deve stu-diare non posso mica dirgli, senti vai a lavorare perché papà haperso il lavoro e allora non sappiamo come dobbiamo fare a man-giare. Io a quello gli devo dire “quanto ti serve per i libri quest’an-no?”, e certo non posso andare a rubare perché io sono una perso-na onesta e tra un padre povero e un padre ladro, allora megliopovero. Magari se proprio non ce la faccio mi impicco. No, scusa,forse ora sto esagerando, e che davvero è un periodo complicato, ionon so come e cosa fare, qua è tutto un casino, è tutto difficile.Certo che sento questa cosa dell’inquinamento, certo che la situa-

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zione è tremenda, delicata, lo so i tumori, questo cielo sempre gri-gio, tutta quella polvere per strada delle montagne dei minerali,ma io se chiude l’Ilva e tutte le altre fabbriche qui attorno, cosadevo fare, avanti, dimmi tu cosa devo fare? Chi me li deve dare isoldi per campare? Questo non è un referendum, non è che le merdedei politici dopo che per anni e anni non hanno fatto niente e sene sono fregati del problema di Taranto ora si svegliano, vengonoqua e dicono “chiudiamo tutto così l’ambiente respira”. A parte chenon è vero perché tutta questa cosa qua ce la porteremo ancoraavanti e avanti per anni, una volta ho sentito dire a un medico chenoi e le generazioni dei miei figli siamo già condannati, dobbiamosolamente sperare che la ruota non giri dalla parte nostra. Comun-que come si può dire, chiudiamo tutto così l’aria diventa più puli-ta? E gli operai poi come fanno? Chi dà da mangiare a Taranto?Perché mi mettono davanti alla scelta se poter dare i soldi a miamoglie per fare la spesa oppure alzare la possibilità che possa mori-re tra qualche anno? È un atteggiamento da infami, da merde vere.Anche perché la mia risposta è obbligata, non posso fare altro. Iodevo portare il pane a casa. Punto. Non ci possono essere altre paro-le. A questo punto vuol dire che faremo come se fossimo nell’eserci-to, cioè noi siamo come i soldati che vanno in guerra, uno metteanche in conto di poter morire. Soltanto che noi non combattiamoper la patria ma per l’affitto di casa.

Nino, operaio

Diritto alla vita. O diritto al lavoro. Mai avevo conosciu-to una dicotomia più odiosa.

Ho trent’anni e lavoro all’Ilva dal 2001. Avevo 22 anni e mezzoquando mi hanno assunto, praticamente un ragazzino, non potròmai dimenticare quel giorno, quando mi è arrivata la lettera di

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assunzione è stato uno dei giorni più belli della mia vita. A Taran-to in fondo non è difficile trovare un lavoro, io non avevo nessunaraccomandazione, all’Ilva non lavorava nessuno di casa. Per averequel posto ho semplicemente inviato una lettera e poi quelli mihanno chiamato, tutto qua. È stato facilissimo. Io lavoro alla Cola-ta continua 5, uno di quei reparti che ha il ciclo continuo, 24 oresu 24, non si ferma mai. O meglio io pensavo non si fermasse mai.Io sono addetto alle piattaforme, seguo il colaggio dell’acciaio liqui-do. Noi trasformiamo l’acciaio liquido trattato in precedenza e lotrasformiamo in lingotti. Coliamo questo acciaio, cioè l’acciaioviene colato all’interno della macchina, poi si raffredda lungo ilpercorso e viene tagliato da dei cannelli meccanici con l’ossigeno egas. Le temperature? Beh, diciamo che si sta caldi. L’acciaio ha unatemperatura intorno ai 1.650 gradi. Noi nel reparto siamo 44,lavoriamo 8 ore a testa al giorno. Cioè in realtà lavoravamo. Ilreparto è stato fermato, non ci sono commesse, quindi ora forse perla prima volta da quando quel reparto è stato realizzato è tuttoquanto fermo. Oggi sono a casa, sono in ferie ancora per un po’, matra qualche giorno non tornerò al lavoro. Andrò in cassa integra-zione. Io di solito guadagno 1.300 euro, ora mi pare che dovreiandare a guadagnare intorno agli 800, 850 euro al mese. Certoper me non è esattamente una tragedia come per molti miei colle-ghi che hanno famiglia: io vivo ancora con i miei, sono single, nonho tantissime spese. Certo però anche io dovrò fare le mie bellerinunce, che magari sembrerà anche poco ma sono importanti perun ragazzo di 30 anni. Io non ho molti vizi, ma adoro ballare. Ioballo la salsa ma poi il sabato mi piace anche andare in discoteca.Ecco in discoteca non potrò andarci più, pazienza, così come ognivolta che accendo la macchina per andare a fare un giro ci devopensare due volte. E che dobbiamo fare, la vita è così. Però io vogliodire una cosa: se ci sono ora questi problemi la colpa non è certo dichi ha fatto le battaglie per l’ambiente, di chi ha cercato di difen-dere i nostri interessi. La colpa è di questo mondo industrializzato

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di merda, la colpa della mia cassa integrazione è della non curan-za dei banchieri o dei bancari, come cazzo si chiamano loro chehanno in questi anni soltanto pensato ai fatti loro senza pensare aldisastro che stavano procurando a noi poveri cristi. Se ti dicessi chein questo momento non ho paura di perdere lo stipendio ti direiuna cavolata. Anche perché poi dopo è difficile trovare qualcos’al-tro, qui a Taranto o lavori all’Ilva oppure fai il marinaio. Ma inquesto momento il problema di Taranto non può essere soltanto ilnostro stipendio. Io ho paura non soltanto di perdere il lavoro, ioho anche paura di ammalarmi e il discorso della malattia non èun discorso prettamente egoistico, ma si rispecchia in un passato ein un futuro oltre che nel presente. Comunque tieni conto che ilpeso di queste aziende così inquinanti lo ha patito chi c’era primadi noi, lo patirà quelli che arriveranno dopo di noi. Queste azien-de, il nostro lavoro hanno un peso gravoso sulla salute e sull’am-biente. Io non ho figli ma penso sia giusto pensare a chi arriva dopodi noi.

Mario, operaio Colata 5

Lasciai il cornetto a metà. Vidi all’altro tavolo il professorAssennato che chiacchierava con un’altra persona. Era dispalle, non riuscii a capire chi fosse. Il professore incrociòla mia curiosità, afferrò lo sguardo e mi fece segno, perinvitarmi al suo tavolo.

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La storia

Mi alzai di scatto, ero imbarazzato. Non avevo un abbi-gliamento esattamente professionale. Scarpe da ginnasticasenza calze sotto un paio di pantaloncini corti, unamaglietta di allenamento del Milan a maniche lunghe.Classica tenuta da prima colazione in albergo, quandoscendi in tutta fretta perché altrimenti passa l’orario in cuiè aperto il buffet. La sera precedente con Vittorio avevamotirato fino a tardi, in un vecchio ristorante del centro sto-rico: spazzolò tutto quello che avrebbe potuto crescere suuno scoglio lungo qualche decina di metri, io che odio ifrutti di mare mi ero buttato invece su scampi buttati nel-l’acqua bollente e poi serviti su un letto di ghiaccio. Spa-ghetti alle cozze, naturalmente, e una spigola all’acquapazza. Poi vino, bianco e ghiacciato, tanto che una voltatornato in albergo non avevo avuto nemmeno la forza ditogliere le lenti a contatto. Mi ero addormentato così, lamattina avevo gli occhi tanto appiccicati da doverli scolla-re con le mani. Ero sceso a colazione senza nemmenoessermi lavato la faccia, facevo schifo, non volevo e nonpotevo incontrare nessuno. Là in fondo c’era però Assen-nato che continuava a sorridere e a fare segno con le manidi avvicinarmi. Ero già in piedi, strinsi le spalle e feci duepassi per andargli incontro. Il professore sussurrò qualco-

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sa che non potevo sentire, si girò la seconda persona cheera al tavolo con lui. Non feci fatica a riconoscerlo, NichiVendola sorrideva. E come al solito brillava dal lobodestro.

Caro signor Vendola, sono un bambino che vive in provincia diTaranto. Io ho capito che l’Ilva fa mangiare le famiglie però non ègiusto che per mangiare si deve rischiare di morire. Voi avete la pos-sibilità di aiutarci e richiamare quelle persone che devono togliereil problema, e non lo hanno ancora fatto.

Gianni

Quando l’onorevole comunista Nichi Vendola vinse le pri-marie del centrosinistra per le elezioni regionali pugliesicontro ogni pronostico nei confronti del candidato delpartito democratico Francesco Boccia, ero a Londra in unalberghetto di Covent Garden. Non votai, probabilmentenon avrei votato. Erano le otto del mattino, dormivo, midiede uno scossone sulla spalla il mio amico Teddy cheaveva appena acceso il televisore ed era riuscito a sintoniz-zarsi sulla Rai “Oh svegliati, svegliati, ha vinto Vendola!Ha vinto Vendola!”.

Qualche mese dopo, poi, Vendola vinse anche le elezio-ni da presidente regionale contro l’uscente Raffaele Fitto,il delfino migliore di Berlusconi giù al Sud, un ragazzo dinemmeno 40 anni, figlio d’arte, che era sempre vissuto trapolitica, governo e pallone (i suoi piedi da centrocampistaraffinato erano forse la cosa di cui andava più fiero) e intutte e tre le cose era riuscito sempre molto bene. Era sicu-ro di vincere Fitto, e tutti erano sicuri che lui vincesse.Forse per questo vinse Vendola. Come si dice da queste

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parti “fece strano”: un comunista, cattolico, omosessualeche diventava governatore; quel signore che da bambinoandavo a vedere in piazza Caduti a Barletta sbraitare con-tro i sindaci democristiani, quello che li chiamava mafiosie soprattutto li chiamava per nome e cognome, che passa-va dall’altra parte del palco. Comunque la si pensi, da qual-siasi parte la si guardi, la Puglia è una terra meravigliosa.

Tre passi dopo gli strinsi la mano, vestito tutto di nero.Il professore Assennato mi salutò con una pacca sulla spal-la, dandomi come al solito del lei. Mi sedetti al tavolo,ordinai un altro caffè per sonno e per paura che l’alito puz-zasse troppo. Poi, preso da un impeto di maleducazione,indicai il titolo di Repubblica, quello sugli operai e la cassaintegrazione, che era aperto sul loro tavolo. Mi venne dafare una domanda soltanto: “Perché?”.

Caro presidente Vendola, le scriviamo perché speriamo che Lei sia uno di quei pochi adultiche ascoltano i bambini. Siamo molto preoccupati per la nostrasalute perché abbiamo letto sui giornali che ci sono tarantini di 8anni che hanno polmoni malati come persone di 70 anni chehanno fumato tre pacchetti al giorno da quando erano ragazzini.Fra di noi ci sono compagni che soffrono di allergia, asma e dialtri problemi respiratori. (…) Il cielo di Taranto di notte non èsplendente, perché i fumi delle fabbriche lo ricoprono con tantofumo che nascondono le stelle. I nostri nonni ci raccontano chequando andavano al mare a piedi facevano i bagni nel mar Pic-colo e dei cieli stellati della loro infanzia. Noi facciamo fatica per-fino a immaginarli. Sappiamo che uno dei maggiori responsabilidell’inquinamento di Taranto è l’Ilva. Ma noi non desideriamoche la fabbrica chiuda perché molti nostri papà vi lavorano permantenere le famiglia. Le chiediamo però: cosa dobbiamo sceglie-

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re tra salute e lavoro?Non sono tutti e due garantiti dalla nostra Costituzione? Perché lefabbriche non possono utilizzare impianti di depurazione per offri-re lavoro e salute? Vorremmo mangiare le nostre cozze crude, masenza correre il rischio di ammalarci come facevano i nostri nonni.

Gli alunni della 5° D, Scuola elementare Rodari, Taranto

Prima di arrivare a Taranto mi ero preparato puntigliosa-mente sull’argomento Vulcano. Mi ero documentato,informato, per quanto possibile. Sapevo per esempio chel’Ilva in qualsiasi altro posto d’Europa avrebbe già dovutochiudere. Così mi avevano raccontato, e così era. In tuttigli altri paesi esisteva infatti una rigida normativa in mate-ria di emissioni di sostanze tossiche, in particolare di dios-sine. Non a caso si parla di diossine: sono tra le sostanzepiù pericolose, perché tra le più cancerogene. In Austria illimite massimo di emissioni è di 0,4 nanogrammi al metrocubo. In Belgio 0,5. In Germania e in Olanda 0,4. InGiappone 1. In Canada 1,35. In Italia invece puoi emet-tere quello che vuoi. Non c’è alcuna norma specifica cheregolamenti la materia. O meglio esiste una vecchia nor-mativa che però nel computo delle emissioni teneva contodell’intera gamma di diossine e non soltanto di quellenocive, come invece accadeva in tutti gli altri paesi delmondo.

Il risultato italiano è che, nel computo globale, le parti-celle nocive annegavano in quelle buone e così mai e poimai sarebbe stato possibile superare quei limiti. Tutto aposto, tutto nella legge. Aveva lavorato per anni l’Ilva aTaranto, così per anni avevano lavorato tutte quelle azien-de che emettevano nell’aria inquinanti tossici e pericolosiper la nostra salute. “In realtà”, mi aveva spiegato una

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volta, Vittorio, “esiste il Protocollo di Aarhus, un docu-mento sugli inquinanti organici approvato nel 2004 dal-l’Unione Europea che pone come limite nell’industriametallurgica un’emissione massima di 0,2-0,4 nanogram-mi per metro cubo. Non sono numeri a caso ma è quelloche è riuscita a ottenere a Linz, in Austria, lo stabilimentodi Airfine. Questa direttiva è stata recepita in Italia nel2006, ma poi non ne ha mai tenuto conto.”

Com’è possibile? “Tecnicamente, è un’incongruenza”,rispose Vittorio, stringendosi nelle spalle. In Italia, quindi,era tutto possibile. Anche perché, nel caso dell’Ilva, nessu-no sapeva esattamente cosa fosse. Prima del 2008 nessuno,nemmeno l’Arpa, aveva mai misurato esattamente quantadiossina emettessero i camini dell’Ilva. Nessuno sapevacosa sputasse il Vulcano. Ci si basava unicamente sulleindicazioni che la stessa azienda dava al registro nazionaledelle emissioni. E già sulla base di quei dati non c’era dastare tranquilli. Poi le cose si chiarirono.

I tecnici dell’Agenzia regionale per la protezione ambien-tale non è gente comune. Ne conoscevo quattro ed eranotutti uguali. Parlavano per acronimi e in mezzo ci butta-vano battute taglienti, figure retoriche geniali, ironizzava-no sulla chimica. Il dottor Giua, per esempio, un signoretoscano, un chimico se non sbaglio, era tremendo. E comelui Bottinelli, io lo chiamavo il “re dell’amianto”, una viadi mezzo tra un pescatore di Posillipo e il dottor House.

I tecnici dell’Arpa, dopo un accordo con l’azienda,cominciarono a controllare l’Ilva per la prima volta nell’e-state del 2007. Il 12 e il 16 giugno 2007. Entrarono gra-zie a un protocollo d’intesa che coinvolse l’Ilva, le partisociali, il ministero dell’Ambiente e la Regione. Sembravail grande accordo, la risoluzione di tutti i problemi. In

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ballo c’era infatti una partita molto grossa: l’Aia, non acaso un acronimo. Aia sta per Autorizzazione integrataambientale. Si tratta di un certificato che ogni tot di annideve rilasciare il ministero dell’Ambiente ai grandi gruppiindustriali perché possano continuare la propria attività.L’Ilva aveva l’Aia in scadenza, doveva rinnovarla.

Vittorio diceva che quella era una “grande occasione”.“In sede di Aia”, mi spiegò una volta, “il ministero puòmettere dei paletti, può dare delle prescrizioni. In sostan-za può fare quello che la legge dovrebbe prevedere e cheinvece non prevede.” Così era successo per esempio inFriuli Venezia Giulia, dove un limite c’era, ed era di 0,4.Ecco, se l’Ilva fosse stata anche in Friuli Venezia Giuliaavrebbe dovuto chiudere.

In ogni caso, dopo il grande accordo l’Arpa entrò all’Il-va. I risultati di quelle prime analisi furono così così: ladiossina emessa dallo stabilimento in quei giorni variavadai 4,9 ai 2,4 nanogrammi per metro cubo. La mazzataarrivò qualche mese dopo, nella seconda campagna dicampionamenti effettuata il 26 e il 27 febbraio del 2008:i numeri schizzarono da 8,3 a 4,4 nanogrammi per metrocubo. Significa dalle venti alle 11 volte in più rispetto aquello che sarebbe il limite in tutte le altre parti delmondo. In tutte le altre, appunto, ma in Italia no. L’a-zienda si disse però pronta a cambiare il registro, a investi-re tanti soldi per migliorare le attrezzature, per produrre lostesso l’acciaio, dare lavoro ai tarantini ma nello stessotempo diminuire le emissioni inquinanti. Promisero inve-stimenti per 400 milioni di euro, misero anche mano alportafoglio. E qualcosa accadde: 23 e 26 giugno del 2008,l’Arpa torna all’Ilva. Rimisura la diossina e puff, i valorisono caduti, quasi dimezzati: le diossine emesse scendonoin una a 1,9 massimo 3,4. Miracolo? “No urea”, mi rispo-

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se tempo fa il professor Assennato. “Si tratta di un additi-vo chimico – mi spiegò – che se inserito nel ciclo indu-striale riesce a diminuire drasticamente le emissioni inqui-nanti.” Tutto a posto, quindi. Tutto risolto, basta buttaredue gocce di urea e tutto è risolto. Niente affatto. Il prin-cipio dell’annaffiatoio non sempre funziona. Questo è unodi quei casi. Inserire l’urea nel processo della catena dimontaggio non è semplice. Per dire la verità, l’azienda ciha anche provato, ma gli sono stati piantati davanti deci-ne di paletti burocratici: manca la concessione a costruire,il comune di Taranto non la vuole rilasciare senza il vialibera del ministero dell’Ambiente, parte un ricorso al Tar.Insomma si perde tempo. Nel frattempo però, nel crono-programma che l’Ilva invia al ministero per ottenere l’Aia,indica un livello massimo di emissioni di diossina moltomaggiore rispetto a quelli già raggiunti. A giugno hannogià ottenuto 1,9 nanogrammi per metro cubo ma diconoche non possono scendere sotto i 3,5. Perché?

La fabbrica dei veleni non esiste. Chiunque afferma il contrario fadichiarazioni da procurato allarme, delle quali dovrebbe interes-sarsi la procura della Repubblica. L’Ilva sta riducendo le emissionicon tre anni di anticipo rispetto a quanto stabilito nel cronopro-gramma concordato con la Regione. E siamo pronti addirittura adimezzarle se ci concedono in fretta l’autorizzazione per la realiz-zazione dell’impianto di urea.

Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionaliIlva Taranto

Più o meno la stessa domanda se la fece il presidente NichiVendola che il 30 luglio del 2008 inviò una lettera al pre-sidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Lettera alla quale

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allegò anche i disegni dei bambini, quelli della mostra.Vendola ama parlare per metafore, è il pezzo forte dei suoicomizi. La più bella secondo me, era quella sui quartieripopolari, quelli più lontani, quelli più disgraziati: unavolta disse che si chiamavano tutti con il nome dei santi,San Pio a Bari, San Paolo a Enziteto, per esempio, e disseche la scelta toponomastica non poteva essere casuale, erapiuttosto una maniera come per chiedere scusa della scia-gura urbanistica, quasi una preghiera perché i casermoninon potessero diventare ghetto.

Comunque il presidente della Regione il 30 luglio scrisseal premier, Silvio Berlusconi: “Taranto è una città splendi-da ma sofferente. La fabbrica – la grande fabbrica chedoveva essere il suo polmone produttivo, simbolo e vitadella città – sembra essersi rovesciata contro le attese e lesperanze di un’intera comunità. Inquinamento, malattietumorali, distruzione del territorio, lo sfregio di interiquartieri condannati a vivere senza poter aprire le fine-stre”. La “poesia”, fin qui. Poi: “Dopo l’accordo – scrivevail governatore pugliese – alcuni obiettivi sono stati rag-giunti: 72 progetti di risanamento ambientale in Ilva sonogià stati realizzati, un’altra sessantina sono in corso o pro-grammati, è stato rimosso l’amianto, dismesse le apparec-chiature al Pcb, applicata una sperimentazione sulle dios-sine per ridurne la carica distruttiva, migliorate le emissio-ni in atmosfera, ma tutto questo non basta. Altre città,come Genova, si sono semplicemente liberate della fabbri-ca e hanno visto repentinamente cambiare la loro vita eriscoperto il colore del cielo. A Taranto questo non è pos-sibile ma non è possibile neanche continuare così, con pic-coli miglioramenti segnati su un calendario troppo lungo.La città non ne può più. Il management dell’Ilva sa che

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abbiamo perseguito con realismo e rispetto l’obiettivo diuna radicale ambientalizzazione delle strutture produttivedel colosso siderurgico. E quel management non puòreplicare alle spasmodiche attese della città minacciando,sia pure velatamente, il ricorso al ricatto occupazionale.Occorre fare scelte coraggiose, scelte non più procrastina-bili, scelte di vita. Ecco perché la Regione intende chiede-re e ottenere da Ilva interventi efficaci, ecco perché nonpossiamo accontentarci di spalmare in cinque anni unariduzione significativa delle diossine, ecco perché Le chie-do di aiutarci cambiando quella norma che stabilisce unlimite così alto a questo veleno che vi rientra tutto”.

Berlusconi non rispose. La legge non cambiò. Vendolaattaccò ancora l’Ilva dicendo che la maggior parte degliinterventi promessi non erano stati realizzati. L’Ilva rispo-se che no, non era vero, che la colpa era tutta loro, delleistituzioni, che non rilasciavano le autorizzazioni necessa-rie. Avevano in parte ragione tutti e due, intanto il Vulca-no continuava a lavorare.

Taranto, evidentemente, deve essere in Sicilia.Sebastiano Venneri, Legambiente

Era la fine di ottobre del 2008, e attorno all’Ilva scoppiòun nuovo caso. Il ministro dell’Ambiente, Stefania Presti-giacomo, rimosse con un decreto scritto in burocratese elungo poco più di una paginetta i tecnici che facevanoparte della commissione Aia. Coloro i quali, cioè, cheavrebbero dovuto dire sì o no all’autorizzazione necessariaall’Ilva per proseguire l’attività. Coloro i quali, per dirla

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con Vittorio, “avevano tra le mani l’opportunità di cam-biare qualcosa”.

La Prestigiacomo sostituì i tecnici che aveva nominatoil suo predecessore, Alfonso Pecoraro Scanio: si trattava ditecnici, sì, ma anche con coscienze politiche visto che, perpuro caso, molti erano vicini ai Verdi, il movimento del-l’allora ministro. Ciò nonostante, dopo la decisione dellaPrestigiacomo successe però un finimondo. “Decapitazio-ne del sapere tecnico-scientifico” tuonò il presidente dellaRegione, Vendola. Seguito a ruota da tutte le associazioniambientaliste. La storia più interessante me la raccontòperò un altro collega, Emanuele Lauria, cronista politicodella redazione di Repubblica Palermo. È uno di quelli chequando chiama, il politico trema, perché sa già che hacombinato qualche casino. Ecco, Emanuele mi raccontòche nella commissione nominata dalla Prestigiacomo c’e-rano tecnici. Ma soprattutto c’erano siciliani, e soprattut-to ancora c’erano siracusani, il paese natale del ministrodell’Ambiente. “Siciliano”, disse Emanuele, “è il presiden-te della commissione, Dario Ticali. È un ingegnere paler-mitano, 32 anni, si è laureato sei anni fa. Attualmente èricercatore all’università Kore di Enna, l’ateneo caro al ret-tore Salvo Andò, ex ministro, e al senatore del Pd Vladi-miro Crisafulli. Ticali è uno scienziato, tra le sue pubbli-cazioni spiccano quelle sulla “potenzialità del ravanetonella tecnica delle costruzioni stradali” e sulla “gestione deirifiuti urbani in Sicilia”. Ecco, il ravaneto. “Ma nella com-missione”, disse sempre Emanuele, “non è difficile rintrac-ciare i nomi di professionisti esponenti di famiglie moltonote nel Siracusano e non solo. C’è il commercialista Mas-simo Conigliaro, docente della scuola superiore dell’eco-nomia e delle finanze ma anche figlio della compagna del-l’ex presidente della commissione antimafia Roberto Cen-

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taro. Ci sono, fra i giuristi, stretti congiunti di due magi-strati: Valeria Polto è figlia di Salvatore Polto, presidentedella sezione penale del tribunale aretuseo. Elena Tambu-rini è figlia di Giuseppe Tamburini, da settembre a capodel tribunale di Modica. C’è poi l’ingegnere AntonioVoza, figlio di colui che è stato per anni un’istituzionenella città siciliana, ovvero l’ex soprintendente ai beni cul-turali Giuseppe Voza. E dell’organismo fa parte anche l’av-vocato ragusano Mariagrazia Gerratana, che ha uno studiolegale a Pozzallo. Insomma, il futuro dei grandi insedia-menti industriali italiani e in particolare dell’Ilva passa perla Sicilia e soprattutto per i siciliani.” Il vero scandalo nac-que però attorno al presidente di quella commissione, taleBonaventura Lamacchia. A farlo scoppiare anche in que-sto caso era stato un giornale, L’Espresso, in un articolettodi Sandra Amurri. “Lamacchia ha un curriculum giudizia-rio di tutto rispetto – scriveva la giornalista – Calabrese,deputato nella XII legislatura per la lista Dini, poi Upr conCossiga e infine Udeur, è stato condannato a 2 anni e 5mesi, pena patteggiata, come amministratore delegato epresidente del Cosenza calcio. I reati? False fatturazioni,costi inesistenti riferiti a documenti contabili mai esistiti,ricettazione, falso in bilancio, falso ideologico, evasionefiscale quantificata dalla Guardia di Finanza in oltre 30miliardi di lire. Inoltre la Procura federale della Federcal-cio lo ha interdetto per cinque anni da qualsiasi incaricodi natura sportiva, a causa dell’irregolare iscrizione delCosenza Calcio ai campionati 1990-91 e 1994-95.”Lamacchia, quando era sindaco del suo paese, incassòanche un anno di reclusione per turbativa d’asta. Nel2002, dopo un anno di latitanza trascorsa tra Bratislava,Bari e Milano, venne arrestato. Fu condannato nel 2004,pena patteggiata, a 2 anni e mezzo per bancarotta fraudo-

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lenta e tentata estorsione: aveva distratto, destinandoli adaltre società, circa 2 miliardi di lire dalla Edicom e dallaEdilrestauri. Nella veste di procacciatore d’affari dellacanadese Warner Lambert, produttrice di caramelle allaliquirizia, aveva tentato di costringere produttori calabresia cedere le radici di liquirizia a un prezzo inferiore rispet-to al dovuto. Per finire, la settimana scorsa la Procura diCosenza lo ha rinviato a giudizio per calunnia dopo cheaveva denunciato il furto di assegni, risultati scoperti, per12 mila euro. Il 7 novembre, il ministero annunciò trami-te agenzia Ansa, la sospensione di Lamacchia dalla com-missione. Qualche giorno prima il ministro era andatoperò su tutte le furie, scrivendo una lettera al direttore diRepubblica, Ezio Mauro.

Gentile direttore, ho letto con grandissimo stupore quanto apparso sul suo giornalesulla vicenda dell’Ilva. E credo di avere il diritto di dire come stan-no le cose. 1) È davvero singolare che il “caso” Ilva scoppi adesso,quando, grazie alle sperimentazioni avviate, è stato rilevato unabbassamento significativo delle emissioni. Un dato che è statoconfermato dall’Arpa Regionale, al di là della querelle normativache l’agenzia ha avviato col ministero. A leggere articoli e annessedichiarazioni sembrerebbe, invece, che le emissioni dell’Ilva sianocominciate nella primavera scorsa, più o meno all’epoca del cam-bio di governo. Non si comprenderebbe altrimenti perché tutto ciòche c’era da fare non è stato fatto nei due anni del governo Prodi(e della presidenza Vendola) visto che tali emissioni c’erano già, e alivelli anche maggiori di quelli attuali. Ma forse l’inquinamentofa male quando governa Berlusconi, mentre quando governa Prodii camini emettono delicati effluvi alla lavanda. 2) I componentidella commissione Aia sono stati sostituiti perché una legge dello

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stato ha modificato la composizione dell’organismo che non avreb-be dovuto occuparsi solo dell’Ilva ma dei 200 maggiori impiantiindustriali italiani. Il condizionale in questo caso è d’obbligo vistoche i componenti di quell’organismo si sono dimostrati inefficien-ti. Infatti la barricadera commissione nominata dal governo Prodi,rimasta in carica dall’ottobre 2007 all’agosto 2008, ha emesso intotale ben 4 pareri, e tutti e quattro l’ultimo giorno in cui è statain carica, due mesi fa, a scioglimento già annunciato, lasciando unarretrato di 160 richieste. Nei 10 mesi di “intensa” attività la com-missione Aia non ha bocciato l’Ilva, non ha difeso l’ambiente, nonera anti o pro diossina. Semplicemente non ha deciso. Ha perpe-tuato insomma un metodo invalso nel recente passato secondo cuiil pubblico che doveva dire sì o no semplicemente non rispondeva,paralizzava. Vendola, appreso della “decapitazione” dell’Aia (perusare la sua terminologia) avrebbe dovuto rallegrarsi per la sosti-tuzione di una commissione inefficiente e non in grado di tutelarel’ambiente. Invece si è inquietato. Verrebbe da pensare che perqualche ragione il presidente della Puglia preferisse avere l’Ilva conla pistola dell’Aia alla tempia, piuttosto che un quadro di certezzee prescrizioni precise. 3) Non risulta inoltre che alla riunione svol-tasi al ministero il 16 ottobre (e non il 15) fossero presenti rappre-sentanti dell’azienda, come sostiene il direttore dell’Arpa regionale.Anche questo dato è facilmente verificabile consultando il fogliodelle presenze a quella riunione. 4) Sull’area di Taranto inoltre èstato firmato all’inizio del 2008 (quindi da Vendola e da Pecora-ro Scanio, oltre che da imprese ed enti locali) un accordo di pro-gramma proprio su questi temi con prescrizioni che l’Ilva sta rispet-tando. Quell’intesa prevede fra l’altro che l’Ilva realizzi unimpianto in grado, intanto, di dimezzare le emissioni. Ma ilcomune non ha rilasciato l’autorizzazione a realizzarlo perchéricade su un sito inquinato. Ci voleva un via libera del ministerodell’Ambiente che, nella precedente gestione, non è arrivato. Oranoi l’abbiamo dato. Il Comune darà finalmente l’autorizzazione?

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O anche in questo caso si preferisce tenere tutto fermo, facendo nelfrattempo allarmate denunce? (...) Caro direttore, siamo un paesestrano. Con un presidente della Regione che da più di tre anni emezzo governa la Puglia e per tre anni, supponiamo, ha avuto sen-timenti “anti-diossina” gelosamente custoditi nel cuore. E dire cheaveva il potere e per due anni un ministro dell’Ambiente in pienasintonia politica. Avrebbe potuto fare leggi e sfracelli. Invece nien-te. Caro direttore, noi siamo consapevoli della complessità dei pro-blemi e stiamo intervenendo con impegno e responsabilità perridurre radicalmente le emissioni nocive senza, possibilmente,costringere alla chiusura un’impresa che dà lavoro a mezza Taran-to. Ma io sono arrivata 6 mesi fa. I “veleni” e Vendola c’erano già.Da anni.

Queste erano le premesse. Le cose però non semprevanno come uno immagina che andranno. Per lo menosui vulcani.

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La legge

Ero ancora seduto al tavolo. Io, Vendola, Assennato, tretazze di caffè, due fette di pane con la nutella. Feci quelladomanda sui veleni e la cassa integrazione: “Perché?”,domandai.

Vendola sorrise, sinceramente non capii per cosa diavo-lo ridesse. A me non veniva neanche da sorridere, forseperché avevo sonno. Disse il governatore che da quelmomento in poi a Taranto e in tutte le altre Taranto diPuglia qualcosa sarebbe cambiato, o meglio ancora sareb-be potuto cambiare. C’era la possibilità, una strada da per-correre, e questa era la più grande vittoria. Vendola eAssennato non erano lì per caso. Quella mattina sarebbe-ro dovuti tornare all’ospedale Testa per presentare agliaddetti ai lavori, ai tarantini, a quell’accrocchio di scien-ziati e cittadini, medici e potenziali ammalati, la nuovalegge regionale sulle emissioni di diossina che la giuntaaveva già approvato e che da lì a poche ore sarebbe finitain consiglio regionale per l’approvazione finale. Mentreparlava, Vendola sfogliava quattro paginette scritte a corpo12, da lì a poco capii che si trattava della legge. “In attua-zione di quanto previsto dal Protocollo di Aarhus, ratifi-cato e reso esecutivo dalla legge 6 marzo 2006, tutti gliimpianti di cui all’articolo 1 di nuova realizzazione devo-

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no adeguarsi ai valori limite ottenibili con l’applicazionedelle migliori tecnologie disponibili. In particolare, nondevono essere superati”, poi c’erano i due punti, e si anda-va a capo.

“A partire dal primo aprile del 2009 la somma di 2,5nanogrammi al metrocubo di diossine” e “a partire dal 31dicembre del 2010 di 0,4”. In sostanza in quelle tre pagi-nette era scritto che il Vulcano sarebbe dovuto sbarcare inEuropa, che si sarebbero dovuti adeguare alle leggi, chetutto stava andando verso la normalità. Una legge, sullediossine. Tutta pugliese. “Un’assurdità”, pensai tra me eme. Non dissi nulla, ascoltai Vendola e Assennato rincor-rersi tra la chimica e la letteratura. “In caso di superamen-to dei limiti, che verranno controllati dall’Arpa”, spiegavail professore, “la Regione diffiderà il gestore dell’impiantocolpevole di tale superamento a rientrare, entro sessantagiorni nei limiti previsti. Se il gestore non adempie, saràcostretto a bloccare l’impianto.”

“I bambini di Taranto ci hanno raccontato la paura e labruttezza”, diceva Vendola, “hanno evocato la scena diun’assenza solente: assenza di bellezza. Ovvero povertà diqualità ambientale. Ma anche malattia e morte. I bambinidi Taranto ci hanno chiesto di far sul serio, di afferrare perle corna un veleno cattivo come la diossina. Ci hanno chie-sto di respirare il profumo della speranza.”

Una legge regionale, pugliese, sulle diossine. Questi sonopazzi, pensai. Sorrisi, rimasi ad ascoltare per un po’, poifinalmente riuscii ad andare a farmi una doccia.

Decisi che non sarei più tornato all’ospedale Testa,quella mattina. Il Vulcano era sempre il Vulcano. E ioavevo paura.

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Una notte il suo messaggio fu ricevuto in un istante è stato trasportato senza dolore su di un pianeta sconosciuto c’era un po’ più viola del normale un po’ più caldo il sole ma nell’aria un buon sapore terre da esplorare e dopo la terra il mare un pianeta intero con cui giocare e lentamente la consapevolezza mista a una dolce sicurezza l’universo è la mia fortezza extraterrestre portami via voglio una stella che sia tutta mia extraterrestre vienimi a pigliare voglio un pianeta su cui ricominciare.

Eugenio Finardi, Extraterrestre

Sbagliai quel giorno. Una legge, regionale, delle diossinefu approvata il 16 dicembre 2008 dal Consiglio regionaledella Puglia. La votò tutta la maggioranza di centrosinitrainsieme con tre consiglieri di opposizione. La minoranzadi centrodestra si astenne senza opporsi, contestando nonil merito del provvedimento. Ma il metodo. Furono tuttid’accordo, in sostanza, che quella legge si doveva fare. Chedei limiti bisognava imporli. Erano tutti d’accordo che sulVulcano era necessaria la rivoluzione.

“Ora vedrai che il ministero impugnerà la legge regio-nale, decadrà e non cambierà nulla”, mi disse un amicosaggio, una mattina. “Su queste materie la Regione nonpuò legiferare. E poi Vendola e la Prestigiacomo si odiano.

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Non ne parliamo poi con Fitto: è lui il ministro degli Affa-ri regionali, tocca a lui impugnarla.” Il ministro RaffaeleFitto non impugnò la legge pugliese sulle diossine.

L’accordo siglato questa sera a Palazzo Chigi tra Governo, RegionePuglia e Ilva alla presenza delle parti sociali rappresenta un gran-de esempio di responsabilità istituzionale di tutte le parti in causa.Il difficile contemperamento delle esigenze di tutela ambientale edi difesa del lavoro è giunto al termine di una mediazione artico-lata svolta sotto il coordinamento del sottosegretario alla presiden-za del consiglio, Gianni Letta. Con l’accordo raggiunto si pongonole basi per la modifica di alcune parti della legge regionale che ave-vano destato particolari preoccupazioni per la salvaguardia del-l’occupazione. In definitiva un buon esempio di cooperazione trale istituzioni.

Raffaele Fitto, ministro per gli Affari regionali

“Ora vedrai che l’Ilva annuncerà che chiude tutto, licen-zierà gli operai e allora per la paura, con le elezioni alleporte, saranno costretti a tornare indietro”, mi disse unaltro amico, ancora più saggio. L’Ilva ha minacciato, maloro non sono tornati indietro. Il passo l’ha fatto l’azienda.Il 19 febbraio del 2009 si sono seduti intorno a un tavoloe hanno sottoscritto un accordo: ministero dell’Ambiente,dell’Interno, del Lavoro, dei Rapporti con le Regioni,dello Sviluppo Economico, e poi regione Puglia, provinciae comune di Taranto, Arpa, Ilva, Cgil, Cisl, Uil e Ugl.Tutti d’accordo. “Entro il 21 dicembre del 2010 e non piùdel 2009 l’Ilva dovrà raggiungere, tramite le migliori tec-nologie disponibili, il limite di 0,4.” 2010 invece che2009. Dodici mesi possono essere anche nulla.

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Abbiamo già completato le fondamenta dell’impianto di urea e neiprossimi giorni prenderanno il via i lavori di montaggio meccani-co ed elettrico. Entro il 30 giugno sarà tutto pronto. Adesso l’Ilvaelaborerà uno studio per ridurre ulteriormente l’emissione di dios-sine. E questo entro il 31 dicembre 2009. Ci auguriamo che lo spi-rito rimanga di collaborazione e pragmatismo al fine di non rica-dere negli stessi errori del passato.

Luigi Capogrosso, direttore stabilimento Ilva di Taranto

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La passeggiata

Quella mattina della colazione andai via subito da Taran-to, senza passare più dal Testa, senza nemmeno salutareVittorio che infatti si arrabbiò. In automobile cercai dinon guardare il cielo, di non fare caso al colore delle nuvo-le, di non pensare né ai mulini a vento né tantomeno allefiammate che si vedono sempre, in lontananza nell’oriz-zonte tarantino. Cercai di tenere gli occhi bassi, la musicaalta, senza pensare a nulla che non fossero le parole dellecanzoni. In quei giorni lì metto su Elio e Le storie Tese,possibilmente Uomini con il borsello.

A Taranto ci tornai che era estate, per caso perché in realtàdovevo andare a Castellaneta Marina a guardare il tennis.Era luglio, e c’era il sole. Qualche giorno prima mi aveva-no mandato via email un’inaspettata fotografia, documen-tava il risultato di un primo accordo tra le istituzioni. Erail primo luglio 2009: il presidente della Regione applaudi-va, il ministro Stefania Prestigiacomo applaudiva, FabioRiva (il figlio del patron) applaudiva, davanti a loro appa-riva un nastro da tagliare per un’inaugurazione, alle spallela nuova grande macchina dell’Urea, il depuratore deifumi, la lavatrice delle paure. Quella era una domenica epensai che forse Luca stava giocando da qualche parte a pal-

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lone, mi chiesi se Maria si fosse mai laureata, mi domandaidella polvere di Tina e della legge di Vendola. Mi dissero chein fondo era cambiato poco, se non che il magma della cassaintegrazione stava diventando ancora più pericoloso. Midissero che qualcuno aveva già posto dubbi sulla bontà dellalegge regionale, “basta aggiungere ossigeno nei camini,diluendo con l’aria le diossine, per sfalsare tutte le analisi”,sostenendo una tesi non supportata però dai tecnici. Mi dis-sero che c’era ancora bisogno di aspettare e che comunquela vita continuava. Così mi dissero, un paio di amici, pertelefono. Appena chiusi, mi vennero in mente le parole diFranco Sebastio, il procuratore capo del tribunale di Taran-to. Un giorno a Taranto la gente decise di scendere in piaz-za e di organizzare una manifestazione di protesta, comenon mai. C’erano le scuole, i medici, gli operai, le casalin-ghe, i genitori. Fu una bella giornata. Quel giorno sentii ilprocuratore Sebastio per telefono e mi disse che un poco gliaveva fatto strano vedere tutta quanta quella gente in piaz-za. “Sa, quando ci sono state le condanne contro Riva leaule di tribunale erano vuote.” Vuote.

Pensai a Sebastio quella mattina di aprile, e che comun-que questa volta sarei dovuto passarci, alle pendici del Vul-cano. Parcheggiai la macchina davanti a un marciapiedesbreccato, lì al Tamburi. Accanto c’è una chiesa dove undipinto di Cristo, alle spalle, ha le ciminiere dell’Ilva. Eratutto chiuso, il Taranto giocava in casa. Entrai in un bar,l’unico aperto, c’era una signora minuta dietro il banconee un televisore a tutto volume. Si litigava su Canale 5 cosìforte che la signora nemmeno mi sentì entrare. Chiesi unaCoca Cola, feci caso alle macchine parcheggiate con duedita di polvere sopra e ai muri scrostati e colorati.

“Signora, ma lei vive qui?”“Sì, qui accanto.”

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“Ma come si vive in questo quartiere? Non ha paura divivere qui al Tamburi?”

“Beh, effettivamente un poco sì. Ci sono gli spacciato-ri. E poi la lampadina qui di fronte è un mese che è rotta,e nessuno l’aggiusta. Quando mi ritiro a casa la sera, dopola chiusura, ci sono un sacco di brutte facce e un poco miviene la paura.”

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Una cronologia*

1957[Italsider] Prime voci circa la localizzazione di uno stabili-mento siderurgico nella zona di Taranto.[Stato] Necessità di un nuovi investimenti in siderurgianel Mezzogiorno. Attività di lobbing parlamentare perconvogliare nell’area di Taranto gli investimenti pubblici.[Comune di Taranto] Dopo un lungo susseguirsi di giun-te di sinistra (Taranto rossa) inizia un lungo periodo digiunte democristiane. Il sindaco, Raffaele Leone, convocauna riunione per la costituzione di un consorzio per l’areaindustriale.[Sindacati] Atteggiamento favorevole alla localizzazione aTaranto del centro siderurgico.[Associazioni] Non vi sono opposizioni rispetto alla loca-lizzazione dell’impianto a Taranto.

1959

[Stato] A giugno il comitato dei ministri per le partecipa-zioni statali delibera la costruzione a Taranto del IV cen-tro siderurgico.[Italsider] Costruzione a Taranto del IV centro Siderurgico[Comune di Taranto] La città esulta.

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1960

[Italsider] Italsider rappresenta una speranza per la popo-lazione: viene percepita come una opportunità di miglio-ramento delle condizioni di vita. Preparazione del sito peraccogliere l’impianto.[Stato] Dagli studi commissionati dalla Finsider vengonoindividuate tre zone comunali che presentavano caratteri-stiche idonee.[Comune di Taranto] Si decide la localizzazione dello sta-bilimento con superficie di 528 ettari, separato dalle abi-tazioni cittadine solo da una strada statale senza tenerconto delle prescrizioni del piano regolatore. La camera dicommercio in un documento di qualche anno prima riba-diva la necessità dell’ubicazione della nuova area indu-striale in prossimità delle grandi linee stradali, ferroviarie emarittime.Si costituisce il consorzio per l’area di sviluppo industriale(Consorzio ASI) che cerca di regolamentare l’insediamen-to della grande fabbrica.

1961

[Italsider] Iniziano i primi lavori per la costruzione dellostabilimento. I bulldozer sradicano ventimila alberi diulivo tra l’indifferenza generale, anche di quei proprietariterrieri che vengono comunque risarciti con buoni inden-nizzi.[Comune di Taranto] Boom economico tarantino: lapopolazione aumenta di oltre 32.000 unità.[Associazioni] Si segnalano mancanza di infrastrutture edeccessivo sfruttamento delle risorse naturali.

1964

[Italsider] A ottobre viene avviato il primo altoforno.

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[Associazioni] Il circolo universitario popolare jonico(CUPJ) che nel 1964 si trasforma in università popolarejonica (UPJ) funge da spazio di elaborazione culturale.Proprio nei locali dell’UPJ, siti nella centralissima viaD’Aquino, per la prima volta la direzione dell’Italsider siconfronta con la cittadinanza: il direttore dello stabili-mento Arnaldo Mancinelli presenzia dei confronti sullegrandi questioni ecologiche. Italia Nostra, attraverso il suopresidente Antonio Rizzo, esprime perplessità nei con-fronti di un’industrializzazione incontrollata.

1968

[Italsider] Progetto di ampliamento dello stabilimento da528 a 1500 ettari (due volte la superficie urbana della cittàdi Taranto).[Stato] comitato interministeriale per la programmazioneeconomica (CIPE) delibera i lavori di ampliamento.[Comune di Taranto] Il consiglio comunale è chiamato aesprimersi rispetto all’ipotesi di ampliamento.[Sindacati] Si afferma con decisione la questione ambien-tale. Dibattito tra forze politiche e sindacali.

1970

[Stato] A marzo il comitato tecnico esecutivo dell’IRI rela-ziona sulla opportunità dell’ampliamento dell’Italsider diTaranto. Il 26 novembre la relazione viene approvata dalCIPE.[Comune di Taranto] A novembre viene istituita una con-ferenza dei servizi per la discussione dei lavori d’amplia-mento di stabilimento e porto industriale e per la varianteal piano ASI necessaria.[Regione Puglia] A dicembre viene istituita la regionePuglia con l’approvazione del suo statuto.

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[Sindacati] Le forze politiche e sindacali, seppur conaccenti diversi, giudicano con favore l’ulteriore sviluppoindustriale ma rivendicano l’importanza nelle decisionifinali della volontà locale espressa in consiglio comunale.

1971

[Italsider] I lavori di ampliamento porteranno l’Italsider“sul mare”, concedendole tre dei cinque sporgenti per l’at-tracco delle navi che trasportano materie prime, con graviconseguenze per l’ecosistema della rada di Mar Grande,già fortemente compromesso con la prima fase insediativae con la conseguente distruzione dell’isola di San Nicolic-chio, piccolissima isola disabitata utilizzata dai pescatoricome appoggio per le loro attività. A settembre vieneavviato l’altoforno 4.[Comune di Taranto] A gennaio la Giunta Comunalenega la licenza edilizia per l’ampliamento.[Stato] A marzo il Comitato dei Ministri per il Mezzo-giorno invita il Comune alla concessione della licenza “inprecario” all’Italsider per i lavori d’ampliamento[Comune di Taranto] Dopo le pressioni del Comitato deiMinistri per il Mezzogiorno, ad ottobre, viene concessa lalicenza “in precario”.[Associazioni] L’associazionismo ambientalista localemuove i primi passi convocando manifestazioni pubblichenelle vie del centro cittadino e momenti di sensibilizzazio-ne e riflessione soprattutto nel quartiere Tamburi, il piùcolpito dall’attività industriale.ll 31 gennaio (in pieno dibattito sulla variante al pianoASI) durante la manifestazione “Taranto per un’industria-lizzazione umana” organizzata nel centro cittadino da Ita-lia Nostra, furono esposti in Piazza della Vittoria pannisimbolicamente anneriti dal fumo, sugli alberi della stessa

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piazza furono appesi cartelli che riportavano la scritta“reliquia”, furono esposte altre “reliquie” contenenti “arianon inquinata”, “acqua dello Jonio non inquinata” e “ter-reno agrario purissimo”.Il Circolo Culturale “La Routine”, con sede nel quartiereTamburi, riesce a raccogliere 700 firme per una sottoscri-zione finalizzata a sensibilizzare le istituzioni competentisul problema ambientale.[Regione Puglia] Viene istituito il Comitato Regionale perL’Inquinamento Atmosferico (CRIA) ma sin dal suo inse-diamento il comitato non interverrà nell’area di Taranto.[Provincia di Taranto] La tematica ambientale acquistalegittimazione a livello istituzionale. L’AmministrazioneProvinciale organizza un convegno dal titolo “Inquina-mento ambientale e salute pubblica a Taranto”, durante ilquale per la prima volta si confrontano tutti gli attori inte-ressati alla salvaguardia ambientale: amministratori locali,studiosi, sindacalisti, ambientalisti e rappresentanti del-l’industria. Sull’onda lunga del convegno, per la primavolta a Taranto, si decide di condurre uno studio sull’in-quinamento atmosferico che viene commissionato dalComune. I primi risultati indicano abbastanza chiaramen-te che nella zona occidentale della città esiste un processodi crisi ambientale”.[Italsider] La direzione dello stabilimento, nel corso deldibattito sull’ampliamento, annuncia investimenti per 50miliardi di lire per il perfezionamento e potenziamento diimpianti di depurazione e abbattimento dei fumi, e lacollaborazione con una società statunitense, la EcologicalScience Corporation, per la revisione del processo pro-duttivo. Per i lavori di ampliamento si annunciano ulteriori inve-stimenti in eco-compatibilità per 75 miliardi di lire.

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1972

[Sindacati] CGIL CISL e UIL organizzano la prima piatta-forma rivendicativa della lunga Vertenza Taranto.Il sindacato e la classe operaia tarantina – con le loro lotte ela loro cultura, nate dalla fusione dei caratteri innovatividelle conquiste e delle posizioni della classe operaia delNord con le migliori tradizioni del bracciantato pugliese –riaffermeranno nel corso dei decenni la propria presenza,difendendo e migliorando le condizioni di vita e di lavoronell’area industriale, contribuendo a modificare i rapportisociali, politici, economico-produttivi della città e, in granparte, della provincia. Il Movimento operaio tarantino –storicamente fra i più forti nel Mezzogiorno – saprà supera-re anche l’ambito provinciale per diventare un punto di rife-rimento valido per l’intero Movimento sindacale italiano.

1974

[Italsider-Sindacati] A seguito della Vertenza Tarantoviene firmato l’accordo tra sindacati ed Italsider. Nell’ac-cordo viene inserito il problema dell’eco-compatibilità edell’ammodernamento impiantistico. Gli impegni assuntidall’Italsider, in tutti i suoi stabilimenti, ammontano a 90miliardi di lire da spendere per la maggior parte a Taran-to. Vengono riviste l’organizzazione del lavoro in fabbricae gli investimenti in campo ecologico.[Comune di Taranto] Creazione del Servizio SicurezzaLavoro e del Servizio per l’Igiene del Lavoro e Ambientale.

1975

[Italsider] Crollo del consumo mondiale di acciaio (-8%).Solo nei Paesi della Comunità Europea la diminuzione fuaddirittura del 18%. Il costo del lavoro all’Italsider si col-locava ad un livello nettamente superiore alla media nazio-

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nale. In effetti la forza-lavoro Italsider era ben organizzata,dotata di un elevato potere contrattuale, grazie alla pre-senza di un sindacato forte di una percentuale di adesionidel 75%. Nel complesso, la caduta della produttività eralegata principalmente alla diminuzione dell’attività pro-duttiva che, a sua volta, si inquadrava nella crisi struttura-le dell’azienda.

1976

[Stato] Viene varata la Legge Merli, che detta la disciplinaper gli scarichi degli insediamenti industriali. Rimarràinapplicata fino alla metà degli anni Ottanta, per i ritardidel governo nell’emanare i decreti esecutivi.[Regione Puglia] Stenta ad assumere quel ruolo di indiriz-zo e programmazione conferitole dalla legge Merli a causadella mancanza di adeguate risorse finanziarie.

1978

[Stato] Viene istituito il Servizio sanitario nazionale (SSN)con la legge 833, la legge della riforma sanitaria. La rifor-ma prevede la creazione di apparati tecnico-burocratici, leUnità sanitarie locali (USL), alle quali vengono assegnatianche compiti di prevenzione e tutela dell’ambiente.

1979

[Stato] L’attività svolta dall’Istituto Nazionale per gliinfortuni sul lavoro (INAIL) sin dall’insediamento delSiderurgico inizia a far emergere i primi preoccupanti datirelativi all’incidenza delle malattie professionali derivantidall’esposizione a gas, fumi e polveri altamente nocive.[Provincia di Taranto] A settembre del 1979, vengonoinstallate 5 stazioni fisse di rilevamento posizionate inpunti strategici del territorio provinciale. Dall’analisi dei

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dati emerge un primo rapporto sullo stato dell’ambientenell’area jonica.

1980

[Italsider] Si acuisce la crisi del settore siderurgico, infattinegli anni 1980, 1981, 1982, si registrerà un calo costan-te della domanda mondiale.Nel 1983 la domanda scende fino a raggiungere i 300milioni di tonnellate nei paesi industrializzati.[Magistratura] Prime azioni della Magistratura nei con-fronti di una serie di impianti industriali tarantini, tra iquali la Cementir, l’IP e anche l’Italsider.

1981

[Italsider] L’effetto della crisi della siderurgia vede Italsiderin grave crisi di liquidità e incapace di fronteggiare lasituazione con mezzi propri, l’azienda viene ceduta allaNuova Italsider e sottoposta a una ricapitalizzazione.Viene avviato un programma, denominato TARAP-MRO, di ristrutturazione degli impianti e dei processiproduttivi su consulenza della Nippon Steel. Lo scopo eraquello di migliorare l’efficienza degli impianti e di razio-nalizzare i costi assai elevati.Attraverso questo piano si cercava, con l’aiuto della side-rurgia leader nel mondo, quella giapponese, di porre rime-dio alle diseconomie di scala generatesi dopo il raddoppio,a causa della crisi siderurgica, agli errori gestionali esoprattutto alla bassa produttività degli impianti.

1982

[Magistratura] La Pretura di Taranto indaga per getto dipolveri e inquinamento da gas, fumi e vapori, i vertici del-l’Italsider.

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Il processo si svolge nel 1982, vede la partecipazione dinumerosi testimoni provenienti dai quartieri più a rischiod’inquinamento industriale (Tamburi, Città Vecchia,Paolo VI) e, almeno in una prima fase, la costituzione diparte civile non solo di associazioni ambientaliste maanche del Comune.[Comune di Taranto] Dopo una prima fase in cui si eracostituito parte civile nel processo contro l’Italsider, nelcorso dell’anno però l’orientamento dell’AmministrazioneComunale cambia: quasi alla vigilia della sentenza il sin-daco dell’epoca, Giuseppe Cannata, annuncia la revocadella costituzione di parte civile del Comune per motivi diopportunità politica.[Magistratura] Il processo si conclude con la condanna deldirettore dello stabilimento Italsider a 15 giorni di arrestocon l’accusa di getto di polveri ma non di inquinamentoda fumi, gas e vapori

1984

[Italsider] Dopo la sentenza la direzione dell’Italsider siadopera per migliorare la percezione dell’attività dello sta-bilimento, soprattutto attraverso la carta stampata. In que-sto senso gli interventi dei dirigenti evidenziano gli inve-stimenti che dalla metà degli anni Settanta si sono realiz-zati e quelli in fase di realizzazione che riguardano sempregli impianti ecologicamente più critici.[Comune di Taranto] Costituzione del Fondo d’ImpattoAmbientale. Il comitato direttivo del Fondo comprende13 membri, 7 rappresentanti degli Enti Locali, 3 dei sin-dacati e 3 delle industrie. Il Fondo è alimentato dallo0,85% del monte salari delle industrie stesse e rimane invita fino alla durata in carica del sindaco di sinistra MarioGuadagnalo, presidente dal Fondo. La portata innovativa

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in termini di finalità annunciate del Fondo viene smenti-ta all’atto pratico: le azioni intraprese sono di natura pret-tamente ordinaria, non incidono in maniera strutturalesul problema delle polveri e più in generale dell’inquina-mento.

1986

[Stato] Con la Legge n. 349 viene istituito il Ministerodell’Ambiente.

1988

[Stato] Viene approvato dall’IRI un piano di ristruttura-zione discusso sia dal Parlamento che in sede comunitaria.Esso prevede aiuti per un ammontare di 5.170 miliardi dilire.Nel contempo a maggio inizia il processo di liquidazionevolontaria della Finsider, dell’Italsider, della Nuova Delta-sider e della Terni Acciai Speciali, che si concluderà nel1989 con la costituzione di una nuova società, l’Ilva spa.

1991

[Stato] Il Ministero dell’Ambiente dichiara l’area di Taran-to “area ad elevato rischio ambientale”.L’area interessata, oltre al comune di Taranto, comprendealtri 4 comuni della provincia jonica (Crispiano, Massafra,Montemesola, Statte) per un totale di 564 kmC e 263.614abitanti.[Associazioni] Nasce PeaceLink, associazione ambientalistache, per prima, utilizza strumenti telematici per la diffusio-ne delle informazioni sulle tematiche della pace ma anchesulle problematiche ambientali, soprattutto a Taranto.

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1994

[Stato] L’ENEA avvia il “Piano di disinquinamento per ilrisanamento del territorio della provincia di Taranto” cheverrà pubblicato nel 1998 seguito da una nuova dichiara-zione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri(D.P.C.M. 30/07/97).La dichiarazione di area ad elevato rischio di crisi ambien-tale ha validità massima per un periodo massimo di 5 anni(art. 7, comma 1 L. 349/86). La dichiarazione reiterata èavvenuta perciò con un ritardo di 2 anni rispetto ai tempiprevisti dalla legge.La dichiarazione di area ad elevato rischio ambientale del1990 e le successive reiterazioni, segnano gli ultimi signi-ficativi avvenimenti della storia ambientale che lega il ter-ritorio tarantino alla gestione pubblica dello stabilimentosiderurgico. Infatti, nella prima metà degli anni Novanta,si esaurisce l’intervento pubblico nel settore dell’acciaio.

1995

[Stato-Ilva] In aprile giunge al termine la trattativa tral’IRI e il Gruppo Riva per l’acquisizione dello stabilimen-to di Taranto. Il prezzo di cessione concordato è di 1460miliardi. Il Gruppo Riva si presenta come una vera e pro-pria multinazionale (non quotata in Borsa) che ha peròmantenuti intatti gli equilibri di gestione e controllo ditipo familiare, infatti uno dei due fondatori è ancora ilpresidente del Gruppo, Emilio Riva, che gestisce le attivi-tà affiancato nelle posizioni dirigenziali chiave dai figli edai nipoti.[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Le istituzionilocali sono tenute fuori dal tavolo di negoziazione tra IRIe Gruppo Riva. Gli esponenti politici si limitano ad inter-venire seguendo la scia delle rivendicazioni sindacali, non

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ponendo la questione ambientale tra le priorità nell’agen-da istituzionale.[Associazioni] L’associazione “Caretta Caretta” denuncia ilversamento in Mar Grande di sostanze non trattate da uncanale di scarico dell’Ilva.

1996

[Regione Puglia] La Regione viene investita di competen-ze speciali in materia ambientale ed è quindi costretta adedicare una parte del suo apparato tecnico-amministrati-vo a queste tematiche. Il ruolo della Regione acquista rilie-vo nella questione ambientali per la collaborazione con ilMinistero dell’Ambiente alla realizzazione del Piano diRisanamento.Nel maggio si crea l’Ufficio del commissario delegato perl’emergenza ambientale, una carica per un certo periodocondivisa dal prefetto di Bari e dal presidente della Regio-ne con competenze differenziate per ambiti d’intervento ein seguito (agosto 2000) assegnato al solo presidente regio-nale.

1997

[Regione Puglia-Ilva] Viene siglato il Primo Atto d’intesatra Regione e Ilva. L’Atto non prevede né limiti di tempopiù stringenti in fatto di risanamento né il ricorso a san-zioni in caso di inadempienze. Viene presentato dal Grup-po Riva il primo piano industriale di investimenti per 539miliardi di lire per rifacimenti di nuovi impianti e perl’eco-compatibilità e la sicurezza sul lavoro.Inizia nello stesso periodo l’intervento per la rimozionedell’amianto dagli impianti produttivi.[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Le istituzionilocali svolgono un ruolo marginale, non delineando una

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strategia d’intervento da seguire. Comune e Provincia silimitano a intervenire nella fase di attuazione e coordina-mento degli interventi previsti nel Piano, a livello comu-nale tentano di portare avanti il progetto del Fondo diImpatto Ambientale.[Sindacati] Il fronte sindacale non partecipa ai tavoli diconcertazione tenuti a livello regionale e i malumori ini-ziano a serpeggiare soprattutto negli ambienti della UIL.Si denuncia la mancanza di impegno su una serie di pro-blematiche ambientali presenti all’interno dello stabili-mento, ci si scaglia contro la logica dell’accordo che difatto “concede una proroga di due anni e mezzo all’impre-sa per adeguarsi agli impegni”. La UIL inizia a distinguer-si rispetto alla CGIL e alla CISL, mantenendosi più rigidarispetto all’approccio collaborativo che diventa predomi-nante in campo politico e sindacale.

1998

[Stato-Ilva] Dopo otto anni di attesa dalla prima dichiara-zione di Area a elevato rischio di crisi ambientale arriva inprimavera il piano di risanamento ambientale messo apunto dall’ENEA per conto del ministero dell’Ambiente.Il Piano prevede interventi, in termini di finanziamento, atitolarità privata e pubblica, con diversi livelli di priori-tà.Tra gli interventi a titolarità privata ben 14 su 25 si con-centrano sugli impianti Ilva, per una spesa complessiva di208 miliardi, quelli a titolarità pubblica (48 miliardi)riguardano azioni per porre rimedio a decenni di mancan-za di controlli rispetto al rapporto salute-industria. Ilrispetto delle fasi di attuazione si rivelerà completamentedisatteso. I tempi stringenti fissati nell’Atto d’IntesaRegione-Ilva, gli stessi interventi ribaditi nel Piano ed altriinterventi previsti in sede di trattativa IRI-Riva non ver-

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ranno rispettati. Deterioramento delle relazioni tra ilmanagement Ilva e operai. Scoppia il grave caso di mob-bing delle palazzine Laf a danno di 70 operai successiva-mente costretti alle dimissioni.

2000

[Stato-Regione Puglia] Visto il ritardo nell’attuazione delPiano di risanamento, ad agosto, il ministero dell’Interno,affida la titolarità esclusiva dello stesso al presidente dellaregione nella sua veste di commissario delegato per l’e-mergenza ambientale in Puglia.[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Comune eProvincia vengono privati delle loro prerogative nei mec-canismi di controllo e di attuazione del Piano.[Comune di Taranto] Nel corso della primavera con le ele-zioni amministrative si conclude definitivamente l’espe-rienza del “citismo” (Giancarlo Cito era stato eletto sinda-co nel 1993). Le elezioni le vince il centrodestra con il sin-daco Rossana Di Bello.Creazione della commissione consiliare “Ambiente edEcologia” che svolge un’indagine conoscitiva sullo statodell’ambiente e della salute dei cittadini.[Stato] Relazioni allarmanti del Presidio Multizonale diPrevenzione PMP (uffici tecnici delle ASL) circa l’inqui-namento prodotto dalla produzione del coke e richiestadel fermo delle batterie 3 e 6.[Magistratura] In base alle ipotesi di reato segnalate dallarelazione del PMP sull’inquinamento industriale dell’Ilvaviene realizzata una perizia a seguito della quale si invita-no gli organi istituzionalmente competenti ad intervenire.

2001

[Comune di Taranto] A seguito della perizia e della lette-

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ra della Magistratura con la quale si invitava, chi di dove-re, a prendere provvedimenti circa l’inquinamento indu-striale prodotto dagli stabilimenti Ilva, l’Amministrazionecomunale, con una “storica” ordinanza sindacale (6 feb-braio) ordina, entro 15 giorni (poi passati a 90) dalla noti-fica dell’ordinanza, di realizzare interventi migliorativirelativamente ai forni delle batterie 3 e 6, di ridurre la pro-duzione di coke con il fermo delle batterie 3 e 6 o alter-nativamente di procedere alla sostituzione delle stesse.Scoppia la “vertenza ambiente”.[Ilva] Il Gruppo Riva che fino a quel momento si eradichiarato disposto al dialogo solo con l’interlocutoreregionale, si dimostra conciliante. Intanto viene formula-to un ricorso al TAR mentre le azioni messe in atto perscongiurare il fermo delle batterie oggetto dell’ordinanzarisultano insufficienti. La direzione dello stabilimentosembra reagire come nel 1997, mostrandosi da un latofavorevole al dialogo e dall’altro non rispettando gli impe-gni pattuiti per ritardi o “imperfezioni” nelle fasi di attua-zione.[Magistratura] Avvisi di garanzia inviati al presidente delgruppo Riva e ad altri due dirigenti dello stabilimento,legati alle risultanze della maxiperizia realizzata per contodella procura nei mesi precedenti.[Sindacati] Le confederazioni sindacali si dichiarano espli-citamente contrari e a una “vertenza ambiente” condottaattraverso le ordinanze, esprimono preoccupazione neiconfronti di un crescente antindustrialismo che si diffon-de in città, denunciano eccessiva strumentalizzazione poli-tica della vicenda e ripropongono lo strumento del Pianodi risanamento, seppur rivisto nei meccanismi di attuazio-ne, come strada da seguire.[Associazioni] L’associazionismo ambientalista si mostra

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compatto nell’appoggiare l’ordinanza comunale. Vienepraticata una forte azione di denuncia per favorire uncoinvolgimento della cittadinanza nei processi decisionaliterritoriali e diffusione dell’informazione attraverso glistrumenti telematici. Per la prima volta viene posta la que-stione dell’effettiva attivazione dell’Agenzia regionale perla protezione dell’ambiente (Arpa) che, a distanza di dueanni dalla legge regionale di istituzione, non è entrataancora nella fase operativa.[Comune di Taranto] Il 31 ottobre il sindaco Di Belloinvia una lettera pubblica al presidente delle Regione Fittonella quale afferma di avvertire la limitatezza dei suoi pote-ri di sindaco e “quel che è peggio […] una sorta di sotto-missione istituzionale ormai conclamata verso i responsa-bili dell’inquinamento” .[Ilva] In risposta alla pressione proveniente da Comune eMagistratura, la direzione dello stabilimento per la primavolta decide di rivolgersi direttamente alla cittadinanzarivendicando il ruolo di fonte di occupazione e reddito perla città, evidenziando gli investimenti fatti sin dal 1995per migliorare l’impatto ambientale e rendendosi disponi-bile a continuare in questa direzione che è l’unica a garan-tire rispetto della salute dei cittadini e una posizione diprimo piano per l’azienda nel panorama mondiale. Sonole idee principali espresse in una lettera firmata da EmilioRiva e inviata in ottobre alle famiglie tarantine.

2002

[Comune di Taranto] Il sindaco non riesce a persuadere ilGruppo Riva ed è costretto a cambiare atteggiamento,richiedendo l’intervento del Governo centrale e dellaRegione Puglia.L’opposizione di centrosinistra, dopo aver appoggiato le

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azioni del sindaco, rivede la sua posizione e lo invita a per-seguire, insieme a Provincia e Regione, gli interventi pre-visti nel Piano di risanamento del 1998 che attendonoancora attuazione.[Magistratura] A luglio, in un clima più favorevole a unapproccio consensuale, arriva la condanna di primo gradoper il procedimento iniziato nel 1999. Qualche giornodopo la sentenza, l’Ilva comunica la decisione di spegnerele batterie oggetto delle ordinanze comunali e di ridurregli investimenti per lo stabilimento tarantino.[Associazioni] L’associazionismo continua ad appoggiarel’Amministrazione Comunale e l’azione della Magistratu-ra che in questa fase sembrano operare in maniera sinergi-ca. Dopo una fase iniziale di reciproca diffidenza, gliambientalisti cercano il confronto con i sindacati per con-dividere una piattaforma di rivendicazione della tutelaoccupazionale e del rispetto dell’ambiente.[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune diTaranto-Ilva] Inizia la cosiddetta “stagione delle intese”. Ilministero dell’Industria, a settembre, istituisce un tavolo,da attivare a livello regionale, con il compito di definire unaccordo per il risanamento complessivo dello stabilimentosiderurgico che definisca in maniera puntuale gli investi-menti che il Gruppo Riva deve realizzare. Al livello regio-nale è anche affidata la realizzazione di un Accordo di Pro-gramma che interessi tutta l’area ionica da risanare. Vienesiglato il primo Atto di intesa, ne seguiranno altri 3, nelquale vengono concordati interventi precisi con altrettan-te scadenze temporali vincolanti finalizzate all’adegua-mento delle migliori tecniche disponibili (BAT Best Avai-lable Techniques) necessarie per il rilascio dell’Autorizza-zione Integrata Ambientale (AIA) prevista dalle direttiveeuropee.

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2003

[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune diTaranto-Ilva] L’8 gennaio viene siglato il secondo Attod’intesa che prevede il potenziamento del barrieramentotra lo stabilimento e le aree urbane contigue ad esso, tra-mite l’ampliamento delle colline artificiali esistenti. Siaccertò poi che l’opera oltre che non comportare miglio-ramenti riguardo alla dispersione di inquinanti in atmo-sfera, avrebbe provocato il peggioramento della qualitàdella vita dei residenti, alterando la morfologia dei luoghi,accentuando l’attuale chiusura del quartiere e la sua sepa-razione dal contesto territoriale, riducendo luce e aria agliedifici residenziali e scolastici adiacenti.

2004

[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune diTaranto-Ilva] Il 27 febbraio viene siglato il terzo Atto d’in-tesa e il 15 dicembre il quarto Atto d’intesa. Uno degliaspetti positivi di innovazione degli Atti d’Intesa sta nellavolontà di racchiudere finalmente in un quadro organicoe di concreta realizzazione la miriade di interventi pro-grammati fino a quel momento. I risultati, però, sonolimitati in quanto ad interventi di natura prettamente tec-nica e a breve termine si alternano interventi e atti pro-grammatori a lungo termine.Molti problemi di natura strettamente tecnica vengonoaffrontati in maniera poco convincente.[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Solo dopo lasottoscrizione del 3° Atto d’intesa, Comune e Provinciaritirano la costituzione di parte civile nel processo cheaveva visto la condanna in primo grado dei vertici dellostabilimento per le polveri del parco minerali che ricade-vano sul quartiere Tamburi.

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[Stato-Comune di Taranto-Regione Puglia] L’interventodi “barrieramento” a ridosso dei parchi minerari è sosti-tuito da un nuovo progetto per il risanamento del quar-tiere Tamburi. Si tratta, però, di un Programma che maiavrebbe potuto essere approvato dal Ministero per paleseincompatibilità dei contenuti con i regolamenti della deli-bera CIPE 2004.

2005

[Regione Puglia] Nelle elezioni di aprile viene eletto presi-dente della regione Puglia Nichi Vendola.

2006

[Comune di Taranto] Il 17 ottobre viene dichiarato uffi-cialmente lo stato di dissesto finanziario del Comune diTaranto.[Stato-Regione Puglia-Comune di Taranto] La strutturacommisariale del Comune di Taranto e la Regione Pugliarimodulano il Programma di risanamento di Tamburi perrenderlo coerente con il regolamento CIPE.

2007

[Comune di Taranto] Il 14 giugno Ippazio Stefano vieneproclamato sindaco di Taranto.[Regione Puglia] Vieneriorganizzata L’Arpa (Agenzia regionale per l’ambiente)che inizia una campagna di rilevamento dei dati dell’in-quinamento prodotto dall’Ilva. Emergono dati preoccu-panti soprattutto per quanto riguarda le emissioni di dios-sine e di Idrocarburi Policiclici Aromatici.[Associazioni] A maggio, PeaceLink, Uil Taranto e ilComitato contro il rigassificatore, presentano un dossierallarmante sull’inquinamento.[Ilva] A giugno l’Ilva querela i relatori del dossier sull’in-

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quinamento per “procurato allarme ambientale”.[Associazioni] Comincia nuovamente a diffondersi un dif-fuso senso di preoccupazione tra la popolazione.

2008

[Regione Puglia] L’Arpa continua la campagna di rileva-mento delle emissioni inquinanti e i dati resi pubblicisono sempre più allarmanti. Attraverso una rimodulazio-ne dell’originario progetto di riqualificazione del quartie-re Tamburi, vengono stanziati e resi utilizzabili per lacostruzione del mercato rionale, la realizzazione di urba-nizzazioni e spazi verdi e la bonifica dei suoli inquinati, 10milioni di euro in attuazione della delibera CIPE n. 3 del22 marzo 2006 con l’impegno a stanziare ulteriori 68milioni di euro includendoli nel nuovo ciclo di program-mazione dei fondi FAS (Fondo Aree Sottoutilizzate). Adagosto viene siglato l’atto integrativo d’intesa che rendeutilizzabili i 10 milioni di euro.[Associazioni] Anche le associazioni si attivano creandouna propria rete di informazione e divulgazione dei dati.Si crea un vero e proprio allarme inquinamento e riemer-ge un diffuso atteggiamento “antindustriale”. Inizia undibattito circa l’opportunità di indire un referendum cit-tadino sull’opportunità di chiudere lo stabilimento Ilva,seppur con varie sfumature (chiusura totale o del solo ciclodi lavorazione a caldo).[Regione Puglia] Il 30 luglio il presidente Vendola in unalettera aperta al presidente del consiglio Berlusconi sotto-linea tutta la gravità del “caso Taranto” e lo invita a colla-borare per la soluzione del problema.[Stato] Ad agosto la risposta arriva attraverso il ministrodell’ambiente Prestigiacomo che a fronte di generichedichiarazioni di interessamento sul caso Taranto (annun-

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cia anche un Consiglio dei Ministri a Taranto per settem-bre che non avrà mai luogo) di fatto si schiera a fianco delGruppo Riva sostenendo di non ritenere opportuna larevisione delle limitazioni legislative alle emissioni inqui-nanti (quelle italiane sono scandalosamente alte) sottoli-neando invece positivamente gli sforzi tecnici e di investi-mento dell’Ilva per la riduzione delle emissioni.Vieneaddirittura messa in discussione l’attendibilità dei datiprodotti dall’Arpa. Sullo sfondo sembra esserci l’iter perl’adeguamento alle “migliori tecniche disponibili” (BAT-Best Available Tchniques) da parte dell’Ilva e il conse-guente rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale(AIA) prevista dalle direttive europee. Contestualmente,in sede europea, il governo pone la questione dell’insoste-nibilità per l’Italia delle limitazioni alle emissioni di Co2.[Associazioni] Le associazioni, e più in generale la comu-nità tarantina, assistono a quello che sembra essere unoscontro istituzionale senza precedenti e si preparano asostenere l’azione della Regione Puglia.[Regione Puglia] La stagione delle intese sembra definiti-vamente terminata. Il 20 novembre, all’ospedale Testa diTaranto, viene presentata la nuova legge regionale sulleemissioni di diossina. La Legge impone, a tutti gli impian-ti che producono diossine, di rispettare i limiti alle emis-sioni di 0,4 nanogrammi all’ora, in linea con quelli indi-cati dal Protocollo di Aarhus.[Ilva] La dirigenza dello stabilimento dichiara l’impossibi-lità a rispettare i tempi previsti dalla Legge.[Associazioni] Il 29 novembre il comitato cittadino Alta-marea, che riunisce 18 fra associazioni e movimentiambientalisti, indice una grande manifestazione control’inquinamento. Con lo slogan “Vogliamo Aria Pulita!”più di 20.000 persone scendono in piazza.

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[Regione Puglia] Il 16 dicembre viene approvata dal con-siglio regionale della Puglia la Legge regionale “anti-dios-sine”, con l’astensione dell’opposizione di centro-destra adeccezione di tre consiglieri che sostengono la maggioranzaper l’approvazione del provvedimento. Un solo consiglie-re di opposizione abbandona l’aula al momento del voto.

2009

In seguito all’approvazione della Legge regionale “anti-diossina”e in vista della prima fase della sua applicazione(1 aprile 2009) si apre un forte dibattito circa la sua effet-tiva applicabilità.[Ilva] La direzione dello stabilimento, oltre a ribadire lesue valutazioni negative delle prescrizioni previste dallaLegge regionale, annuncia ripercussioni sul piano occupa-zionale.[Stato] Agli inizi di febbraio, il ministero dell’Ambiente,recependo le sole preoccupazioni della dirigenza Ilva, con-voca un tavolo di concertazione tra Ministero, RegionePuglia, Ilva e sindacati per evitare la paventata chiusuradegli impianti e arriva a ‘minacciare’ il ricorso contro laLegge regionale per incostituzionalità.[Sindacati-Associazioni] Forte dibattito nella comunitàtarantina con posizioni sostanzialmente convergenti nelritenere necessario un punto di mediazione tra le ragioniambientali e le problematiche occupazionali. Il 17 gennaioLegambiente avvia a Taranto la campagna nazionale“Mal’aria” e presenta il libro bianco sull’inquinamentoatmosferico da attività produttive in Italia.[Regione Puglia] La Regione Puglia ribadisce l’assolutasostenibiltà della riduzione delle emissioni di diossina pre-vista dalla prima fase della Legge regionale, peraltro giàottenuta in una precedente sperimentazione (giugno

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2007) mediante l’impiego del trattamento con urea.[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune diTaranto-Ilva-Sindacati] Dopo una fitta serie di incontricontrassegnati da toni accesi, il 19 febbraio viene siglato aRoma un Protocollo d’intesa tra tutti i soggetti coinvoltiche rinvia di tre mesi (30 giugno 2009) l’entrata in vigoredella prima fase della Legge regionale ‘antidiossina’lasciandone, di fatto, inalterati i principi di fondo.Vengo-no stabiliti, nella prima fase, precisi criteri e modalità dimonitoraggio delle emissioni e riaffermata la sostenibilitàdel limite di 0,4 ng I-TEQ/Nmcubo come obiettivo daraggiungere entro il 2010 mediante l’adozione dellemigliori tecniche disponibili indicate da uno studio di fat-tibilità proposto dal gestore (entro il 30 dicembre 2009)supportato da ISPRA e Arpa Puglia.

*La cronologia è tratta dal libro Vivere con la fabbrica, edito dallaRegione Puglia.

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Bibliografia di riferimento

Patrizia Consiglio, Francesco Lacava, Il caso Taranto. Sviluppo econo-mico lotte sociali democrazia in fabbrica, Ediesse, Roma 1985; Maurodel Monaco (tesi di laurea specialistica), Processo di policy ambientale:il caso Ilva di Taranto, Facoltà di Economia, Università Bocconi diMilano, 2006; Riccardo Mongelli (tesi di laurea), Ilva (ex Italsider) diTaranto. L'italsiderino e il metalmezzadro. Da braccianti e pescatori ametalmeccanici, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Siena,2006; Giacinto Nasole (tesi di laurea), L'operaio di Taranto, una situa-zione difficile. Il caso Ilva, Facoltà di Economia, Università Bocconi diMilano, 2006; Federico Pirro, Angelo Guarini, Grande industria eMezzogiorno 1996-2007, Cacucci editore, Bari 2008.

www.comune.taranto.it (Comune di Taranto); www.fiomtaranto.it(sindacato CGIL-Metalmeccanici di Taranto); www.legambienteta-ranto.eu (Legambiente Taranto); www.peacelink.it (Associazione Pea-ceLink di Taranto); http://www.rassegnastampacrp.com/rassegna.aspx(Rassegna stampa del sito ufficiale del consiglio regionale della Puglia)www.regione.puglia.it (Regione Puglia); www.rivagroup.com (Grup-po Riva); www.uilmtaranto.org (sindacato UIL-Metalmeccanici diTaranto).

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Ringraziamenti

La colpa di questo libro è principalmente di cinque persone. Di MarioDesiati, innanzitutto, che ha detto sì e poi ha fatto tutto quanto il resto.Di Antonella Gaeta, che mi vuole bene, forse pure troppo. Di miamadre, Lucia, e mio padre, Costantino, che mi hanno fatto crescere inquella casa. E di Micaela, chiaramente, perché è sempre colpa sua.

La colpa di questo libro è dei miei colleghi di Repubblica, a Bari, chemi sopportano e mi fanno divertire: Stefano, Mimmo, Roberto,Michele, Gianni, Lello, Davide e tutti quanti gli altri.

La colpa di questo libro è dei miei amici, perché ci sono sempre e cisono stati anche questa volta: Francesca, Anna, Gabriella, Lorenza,Paolo, Ila, grazie.

Un grazie speciale deve andare al professor Giorgio Assennato, perchémi ha insegnato che le cose si possono cambiare. Ma soltanto se haistudiato. Grazie a Vittorio Triggiani, alle sue leggi e alle sue fotogra-fie. E grazie infinite a Mario Diliberto, nonostante la maglia.

Grazie a Nico e Vito, per la disponibilità, e a tutti i professionisti dellaRegione che hanno lavorato ai due volumi su Taranto.

Grazie poi a tutti quelli che mi hanno risposto al telefono, o che mel’hanno sbattuto in faccia. Che mi hanno dato un appuntamento, omi hanno fatto un bidone.

Grazie a Federica, zio Enio e zia Iride, per tutto.

Grazie a Sebastiano Venneri, Alessandro Marescotti, Eligio Curci e atutti quelli che non ci stanno.

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Indice

Il Vulcano 7Scusi mi fa accendere 15Quindici passi 23Sognando nuvole bianche 30I bambini mai nati 39Agnello di dio (ssina) 43Il lampadario e le scope 55La polvere 67Il Vulcano (II) 78La storia 87La legge 101La passeggiata 106Una cronologia 109Bibliografia di riferimento 132Ringraziamenti 133

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Finito di stampare per conto di Fandango Libri s.r.l.nel mese di luglio 2009presso Grafiche del Liri03036 Isola del Liri (FR)

Redazione Fandango Libri