Quid est homo

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LUDOVICO POLASTRI -, 17' 33 Quid est homo (I) "Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?" (Sai. 8) L a conclusione a cui in definitiva arriviamo è che nulla può essere definito come cer to, che noi ci muoviamo e siamo, di fatto, incompleti o forse non sufficientemente evoluti per riuscire a comprendere chi siamo e quale è il nostro ruolo nell'enorme disegno nel quale sia mo giocoforza incastrati. Il salmista, attraverso il salmo 8, chiede lumi a Dio: "Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?". Una domanda che ci porta ad affronta re un lungo viaggio, interrogandoci fino nel no stro profondo inconscio. Realismo relativo Materia, Spazio,Tempo. Tre concetti in cui sia- Gennaio/Febbraio 2012 | n.7 mo immersi costantemente durante la nostra esistenza e di cui nessuno, neppure gli scienziati, sanno dare una definizione precisa. Le quattro forze fondamentali che spiegano l'interazione tra i corpi e dunque la materia stessa, la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole e la forza nucleare forte (queste ultime caratteristiche che si manifestano solo dentro l'atomo) sono elementi non tutti corre iabili tra loro. Di fatto, non essendo riuscita per ora la scienza a trovare il legame che unisce que ste quattro forze, non siamo in grado di spiega re come mai i fenomeni fisici che si manifestano nell'infinitamente piccolo seguano leggi diverse da quelle che caratterizzano il mondo sensibile in cui viviamo. Se un oggetto nella realtà tangi bile può essere collocato nello spazio con cer tezza conoscendone la sua velocità, nella realtà subatomica ciò non è possibile; per il principio di indeterminazione di Heisemberg dobbiamo Runa Bianca |

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LUDOVICO POLASTRI -, 17'33

Quid est homo (I)

"Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?" (Sai. 8)

La conclusione a cui in definitiva arriviamo è che nulla può essere definito come cer­to, che noi ci muoviamo e siamo, di fatto,

incompleti o forse non sufficientemente evoluti per riuscire a comprendere chi siamo e quale è il nostro ruolo nell'enorme disegno nel quale sia­mo giocoforza incastrati. Il salmista, attraverso il salmo 8, chiede lumi a Dio: "Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?". Una domanda che ci porta ad affronta­re un lungo viaggio, interrogandoci fino nel no­stro profondo inconscio.

Realismo relativoMateria, Spazio,Tempo. Tre concetti in cui sia-

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mo immersi costantemente durante la nostra esistenza e di cui nessuno, neppure gli scienziati, sanno dare una definizione precisa. Le quattro forze fondamentali che spiegano l'interazione tra i corpi e dunque la materia stessa, la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole e la forza nucleare forte (queste ultime caratteristiche che si manifestano solo dentro l'atomo) sono elementi non tutti corre­iabili tra loro. Di fatto, non essendo riuscita per ora la scienza a trovare il legame che unisce que­ste quattro forze, non siamo in grado di spiega­re come mai i fenomeni fisici che si manifestano nell'infinitamente piccolo seguano leggi diverse da quelle che caratterizzano il mondo sensibile in cui viviamo. Se un oggetto nella realtà tangi­bile può essere collocato nello spazio con cer­tezza conoscendone la sua velocità, nella realtà subatomica ciò non è possibile; per il principio di indeterminazione di Heisemberg dobbiamo

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scegliere se conoscere la sua posizione o la sua velocità.

Einstein non riuscì a trovare una teoria unifi­cante, una teoria "del Tutto", nonostante vi avesse dedicato diversi decenni della sua vita rivelatisi, tuttavia, infruttuosi. A quei tempi la forza debole e quella forte non erano ancora state scoperte ma egli trovava già insopportabile l'esistenza di due forze distinte, gravità ed elettromagnetismo. Nel frattempo furono scoperte le altre due forze, il che rese ancor più difficile l'impresa.

Verso la fine degli anni'60 però gli americani Weinberg, Sheldon, Glashow e il pakistano Salam idearono un modello matematico che descri­veva la forza elettromagnetica e quella debole come aspetti di un'unica "forza elettrodebole". E' ormai certo anche che al crescere della tempera­tura la forza nucleare forte si indebolisce, avvici­nandosi per intensità a quella elettrodebole. Ma, per osservarne l'unificazione, bisognerebbe rag­giungere la fantastica temperatura di 10 miliardi di miliardi di miliardi di gradi centigradi. L'ultima forza rimasta, la gravità, continua ad oggi a sfug­gire all'unificazione.

Nel 1984 Witten, Green e Schwarz proposero una nuova teoria fisica, la cui innovazione scien­tifico-matematica risiede nel concetto di "corda". Secondo questa teoria, se potessimo esaminare le particelle fondamentali, come i quark e gli elet­troni, con un "ingrandimento" centomila miliardi di volte maggiore di quello che ci è permesso dalle tecnologie attuali, scopriremmo che esse non hanno una forma sferica ma sono composte da minuscole linee o anelli sottilissimi in conti­nua vibrazione. La teoria afferma che le proprietà delle particelle osservate, comprese quelle che veicolano le forze, sono il riflesso dei vari modi in cui queste microscopiche stringhe possono vibrare, come corde di una chitarra. Anziché pro­durre note musicali, però, ciascuna delle possibili vibrazioni ci appare come una diversa particella.

Così l'elettrone è una corda che vibra in un certo modo, il quark una corda che vibra in un altro modo, il fotone una corda che vibra in un altro modo ancora, e così via. Le interazioni tra particelle diventano allora fusioni e scissioni di corde. Semplificando al massimo, potremmo af­fermare che le particelle sono le note prodotte dalle vibrazioni delle microscopiche corde e che l'universo è musica, energia vibrante.

La teoria delle supercorde tuttavia ha una struttura concettuale così profonda e complessa che siamo ancora ben lontani daN'averne piena padronanza. La sua matematica è così compli­cata che finora non se ne conoscono neppure le esatte equazioni, ma solo delle approssimazioni risolte parzialmente. Si ipotizza uno spazio ad undici dimensioni, molto difficile da far accettare alla nostra limitata mente e soprattutto da speri­mentare.

Secondo Ohno, ricercatore giapponese, an­che la struttura del DNA degli esseri viventi ri­chiama quella di uno spartito musicale. Egli ha cercato di convertire ognuno dei quattro nude- otidi dell'acido desossiribonucleico (A,G,T,C) in due possibili note in chiave di violino: A in do-re, G in mi-fa, T in sol-la, C in si-do. Pur essendo que­sto codice musicale carente di alcune delle note (4 contro 7), sfruttando ripetizioni e combinazio­ni di questi segmenti musicali si possono otte­nere sequenze musicali molto simili a suonate di Chopin, ma anche valzer e mazurche. Forse la materia è fatta anche di vibrazioni musicali, forse è per quello che la musica ci rilassa, ci eccita, ci trasforma. Di fatto non sappiamo di cosa è costi­tuito l'essere umano: la definizione di materia ci sfugge pur essendone composti.

E anche sulla concezione di spazio e tempo, nei quali siamo immersi, le idee non sono chiare. Con Einstein si è realizzato un grande cambia­mento nel modo di pensare circa lo spazio e il tempo: l'equazione della relatività stabilisce che se la massa dei corpi in movimento varia a secon­da della velocità, allora nuove dimensioni dello spazio-tempo vengono definite dalle interazioni della massa variabile con il campo di energia. Per Einstein spazio e tempo non sono più quantità assolute e distinte, di valore primordiale come aveva supposto Newton, ma intrinsecamente relative, per cui lo spazio non è assolutamente distinguibile dal tempo; sono gli eventi di inte­razione tra energia e materia che determinano dimensioni variabili dello spazio-tempo nell'uni­verso.

Sembra quindi che lo spazio-tempo si com­porti come un "fluido virtuale" rispetto al quale può essere definito il moto di un corpo isolato. Persino lo spazio vuoto (anche se, è bene ricor­darlo, il vuoto assoluto non esiste) ha una sua specifica struttura geometrica. Allo stesso tem­

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po però è la materia a dare allo spazio-tempo la struttura geometrica che osserviamo, e quindi esso non è indipendente dal suo contenuto. Pur­troppo le distorsioni dello spazio-tempo, funzio­ni della velocità a cui sono soggette le masse dei corpi in movimento, generano inammissibili pa­radossi logici a tutt'oggi irrisolti. Il più famoso è il cosiddetto paradosso dei gemelli.

Trattasi di un esperimento mentale in cui si suppone che uno dei due gemelli resta a terra e l'altro naviga nello spazio ad una velocità che si approssima sempre più a quella della luce; dato che C=S/T, se la velocità dell'astronave aumenta, il valore del tempo sull'astronave deve diminui­re, deve cioè rallentare il ticchettio dell'orologio del gemello in volo rispetto a quello del gemel­lo rimasto a terra. In tal caso, quando il gemello volante torna a casa, trova il fratello molto più vecchio di lui. Lo stesso effetto si otterrebbe se il gemello viaggiasse in prossimità di un buco nero che, data la sua enorme gravità, ne rallenterebbe il tempo.

Questo tipo di concetto non è nuovo: basti pensare al paradosso di Achille e la tartaruga formulato da Zenone d'Elea (480 a.C.), che impe­diva al veloce Achille di sorpassare la tartaruga perché, prima di raggiungerla, avrebbe dovuto

arrivare alla metà della distanza tra lui e la tarta­ruga; ma se si suppone di poter dividere un seg­mento dello spazio all'infinito, Achille non potrà avere altro che un tempo infinito per raggiunge­re l'infinitesima suddivisione della distanza chelo separa dalla tartaruga.

Il paradosso dei gemelli, come quello del­la tartaruga irraggiungibile, evidenziano come alcuni ragionamenti scientifici, apparente­mente coerenti, portino a conclusioni para­dossali. Sono esempi che restano perciò una sfida alla ricerca di nuovi modelli concettuali di revisione del ragionamento scientifico pre­cedente che, pur sembrando per molti aspetti logico, applicato rigorosamente, diviene irra­zionale anche nei riguardi del senso comune.

Un evidente errore comune ai due paradossi della tartaruga ed Achille ed a quello dei gemel­li consiste nel trattare entità quali lo spazio ed il tempo come assolute, e poi pensare di render­le relative tra loro. Ogni entità infatti, per esse­re considerata assoluta, dovrebbe anche essere assolutamente distinta dalle altre e quindi non potrebbe poi essere relativizzata. Secondo alcu­ni scienziati, poiché la nostra mente deve scin­dere gli eventi nella loro successione, ne deter­mina anche lo scorrere temporale, scorrere che

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non esisterebbe se fossimo in grado di percepire l'insieme delle informazioni che ci arrivano con­temporaneamente.

" Vi è una grave discrepanza tra il flusso del tem­po della nostra esperienza e le teorie scientifiche, mirabilmente esatte, del mondo fìsico per le quali il tempo è fermo... c'è qualcosa di difettoso, sconcer­tante, che va risolto" (K. Popper).

Il paesaggio cambia, mutano le forme, gli uomini invecchiano e muoiono. Che la terra di­venga ed il tempo scorra appare evidente osser­vando gli stessi strati geologici, i fossili; tuttavia paradossalmente, scientificamente, tutto è fer­mo! La discordanza, ora insolubile, tra l'esperien­za quotidiana e la "mirabile certezza" (Einstein) scientifica del tempo non fluido, bloccato, pare verrà risolta abbastanza presto dalla fisica post­moderna.

Si è arrivati ad ipotizzare dunque il tempo fermo, il block time. La mente è strutturata così da percepire il mondo esterno in modo diver­so da quello che è in realtà; i colori, i suoni non esistono esternamente, essi sono il risultato di elaborazioni mentali: vibrazioni esterne ven­gono visualizzate o sonorizzate nella mente; la molteplicità delle cose pare sia fornita dal nostro meccanismo conoscitivo là dove l'universo è uni­tario, non frammentato. Forse la mente non è lo strumento adatto per descrivere il mondo.

I neurofisiologi sanno che il cervello è una macchina che trucca il tempo, pare possieda una prospettiva del tempo diversa dalla regola dello svolgersi ordinato: causa-effetto, stimolo-reazio- ne. Il cervello reagisce a stimoli esterni non per­cepiti, ritarda o anticipa il dato della esperienza cosciente, gioca con la simultaneità, proietta gli eventi all'indietro nel tempo. Gli eventi soggettivi temporali vissuti più o meno velocemente sono il prodotto interpretativo del cervello. E' quanto afferma anche la "legge di Weber", dal nome del fisiologo tedesco che, introno alla metà dell'800, notò che la variabilità della misura del tempo nei singoli individui dipende da un coefficiente di variazione costante: ognuno di noi ha una scala del tempo che è simile sia che si misurino inter­valli di breve durata sia che siano più lunghi.

In sostanza la scala del tempo sembra esse­re scritta su una specie di "regolo", di nastro, che può venire disteso per far sì che abbracci ogni in­tervallo di tempo, dai secondi ai giorni. Il "regolo",

non fornisce una misura oggettiva ma "elastica", soggettiva, diversa da individua ad individuo, pur avendo una costanza individuale. Nei malati di Parkinson, per esempio, si verifica una perdita dell'accuratezza nella stima del tempo; questa distorsione viene curata somministrando so­stanze come la dopamina. H. Bergson riteneva il tempo della esperienza soggettiva costruito dal­la mente. "Il mondo non fluisce, esso semplicemen­te è" (Weyl). Anche per la logica buddhista tutto è senza il fluire del tempo, senza estensione spa­ziale; nascere e morire è un'illusione; è illusione la stessa paura di morire (Buddha). I mistici, da sempre, vivono questo mondo come illusione, vocazione oggi anche della fisica moderna.

Già si può intravedere a questo punto, con la sola fatica scientifica, quel limite temporale che da tempo è patrimonio conoscitivo dei mistici. Quando il tempo viene tagliato, da questo pun­to, che potremmo dire un punto di crisi, di sin­golarità, irrompe l'aldilà manifestandosi come "contemporaneità del principio e della fine". For­se il tempo è solo una vasta contemporaneità. Lo scorrere è soltanto al livello della nostra attuale coscienza che vive nelle cose. Secondo l'imma­gine indiana, il tempo non è come la freccia che parte da un punto per arrivare ad un altro ma è come l'acqua del lago nel quale solo la superficie increspata dal vento cambia continuamente. Il lago sembra mutare ma in realtà l'acqua, e spe­cialmente l'acqua profonda, non muta e tutto è compresente. Per questa via si scopre il tempo "sacro", quello dell'aldilà. Ecco perché il calenda­rio romano era presentato dai "pontificies"e dopo di loro fu presentato dal "rex sacrorum", proprio perché il tempo di là, qualora venga percepito da noi, è cosa sacra che appare ed avvia alla nostra salvazione.

La conclusione in definitiva a cui arriviamo è che nulla può essere definito come certo, che noi ci muoviamo e siamo, di fatto, incompleti o forse non sufficientemente evoluti per riuscire a comprendere chi siamo e quale è il nostro ruolo in questo enorme disegno nel quale siamo gio­coforza incastrati. Il salmista attraverso il salmo 8

chiede lumi a Dio: "che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?". La risposta tuttavia non arriva. Una domanda a cui la religione non è mai riuscita a dare una risposta, una domanda inevasa che ci porta ad

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interrogarci fino nel nostro profondo inconscio. Non solo. A queste considerazioni si aggiunga il fatto che la nostra esistenza si svolge in una zona dell'universo con limiti fisici ben definiti, confini che i matematici ed i fisici hanno cercato di tra­durre in equazioni, ipotesi, verifiche sperimenta­li.

E' noto ormai a tutti che la velocità massima esistente è quella della luce e che oltre questo limite non è possibile andare perché, spiega Ein­stein, una resistenza si oppone sempre ad un movimento. La velocità della luce trova dunque la sua definitiva resistenza in quel punto che ac­consente una velocità di circa 300.000 chilometri al secondo, che è la massima raggiungibile nel nostro universo o, come ipotizzano alcuni co- smologi, nell'universo che noi abitiamo.

Questa ulteriore realtà sarebbe ancora una realtà materiale, pur con un concetto di materia diverso dal nostro attuale, una materia più sot­tile, che potrebbe ulteriormente sottilizzarsi, e così all'infinito sempre più in là dell'aldilà attra­verso i superamenti dei vari limiti di equilibrio. Le cose che vediamo non sono l'immagine vera e reale dell'universo, ma solo una densificazione, un simbolo, le cui apparenti dimensioni spazio­temporali sono pure scientificamente crollate perché legate a sistemi di riferimento e dipen­denti dal loro stesso movimento, come ci è stato recentemente dimostrato.

L'uomo è dunque inserito in quello che può essere chiamato, usando un concetto di Max Muller, un "realismo relativo". Non potendo dun­que essere certi dei dati immediatamente forniti dal mondo esterno, si presenta abbastanza pro­blematica la speranza di conoscere i dati fonda- mentali di questo mondo, e più problematica ancora quelli di una eventuale realtà non visibile, sia pure attraverso la sua immagine simbolica. Ed allora, in questa totale frana conoscitiva, che cosa resta come dato sicuro di conoscenza? Cosa resta in definitiva all'uomo se le immagini ester­ne non reggono, se anche il contenuto di verità dell'immagine simbolica viene compromesso?

Esistere: l'unica certezza dell'uomoL'unico dato conoscitivo, forse l'unica certez­

za che possa essere affermata come certa, al di fuori di ogni immagine esterna fallace, di ogni condizionamento biochimico, di ogni limite per quanto riguarda il numero delle nostre cellule cerebrali e via dicendo, è l'esperienza del nostro esistere: l'esperienza di “esserci". Questo elemen­to pare sia l'unico che permetta di aprire uno spiraglio alla speranza di conoscere qualcosa di sicuro. "C'è verità solo nell'esserci e nell'esistere del mondo", ci ricorda Heidegger.

E'vero che anche questa esperienza ha la sua base biologica, biochimica, tuttavia noi sentiamo che il fatto di "esserci" è un fatto profondamente vero, disarticolato dai mediatori chimici del no­stro corpo o dal numero di cellule cerebrali. Dall' interno di questa radicale esperienza comune a tutti gli uomini, esperienza che parte dall'"es- serci" si muove un grumo psichico che si svolge ed appare rivestendosi, alla fine, dell'immagine simbolica. Il simbolo, in qualche modo, raffigu­ra e racchiude in una immagine nota, perché mutuata dall'esterno, questa interna esperienza deN'"esserci".

In ogni caso si può dire pertanto che, attra­verso questa via, si affondano le proprie radici nell'essere. E'come se, da una matrice profonda, una energia psichica si mettesse in azione, pro­prio nel momento in cui mi accorgo di"esserci"e me ne stupisco: "esplosione della mente" (Milare- pa). Energia che sento operante e che si riveste di una immagine per potersi presentare alla ribal­ta del nostro conoscere. Immagine certamente mutuata dall'esterno, legata ai contenuti cultura­li dell'epoca dalla quale l'immagine è stata presa a prestito; tuttavia immagine idonea ad espri­mere la misteriosa esperienza dell'"esserci" ed a ricondurci all'essere. Ogni percezione, pensiero, emozione, azione, veglia, riposo, sogni, illusioni e quant'altro sono cose vere, non tanto per il signi­ficato, sempre discutibile che racchiudono o per il traguardo, sempre opinabile, cui mirano, ma sono vere in quanto oggettivamente esistenti.

Ciò che è comunque importante sottolineare è l'energia psichica originaria, quella che è mes­sa in moto nel momento in cui ci accorgiamo di esserci. Questa energia psichica è infatti il dato concreto autonomo, condizione della nostra maturazione, probabilmente della nostra stessa evoluzione. Essa appare alla coscienza e questa ne resta affascinata come se la coscienza fosse

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immersa nel sacro, nel "numen", "visitata dagli dei": "la verità dell'essere è la dimora dell'uomo" (Heidegger). L'esistere non è una struttura tra le altre, ma è la condizione stessa delle strutture, fondamento unitario sul quale si manifestano le diverse modalità dei fenomeni. "Nell'universo è impossibile pensare alla separazione tra le cose" (Hoyle). Tutto l'universo, sassi , vegetali, anima­li, uomini, sono sostanzialmente "essere unitario che è la vera realtà" (Upanishad).

Noi apparteniamo all'esistere come le onde appartengono al mare. Non c'è nulla fuori dall'e- sistere. Non possiamo uscire o separarci dall'e- sistere totale dell'universo come le onde non possono separarsi o uscire dall'oceano. Neppure per un istante l'albero ha esistenza a sé, autono­ma: la pioggia bagna le foglie, il vento scuote le fronde, il suolo lo nutre, le stagioni, la luce, il sole, la luna, svolgono il loro compito nel vortice dei molti influssi legati all'essere unitario. Chi è per­venuto a comprendere la totalità dell'esistere "è qualcosa di più di sé stesso", "pensa più di quanto pensi" (Lévinas). "Per l'uomo la cui consapevolezza abbraccia l'universo, questo diventa il suo corpo" (Govinda).

In questa profondità, superata ogni dimen­sione limitata, ci ritroviamo nel comune dato sostentatore di tutto l'essere, che del resto ci riguarda anche personalmente. Il dato lumino­so dell'"esserci" ci permette dunque di superare tutti i limiti, e permette altresì di radicarci in un vasto fondamento esistenziale di verità, l'unico sentito direttamente come tale. I simboli, i loro significati, le religioni hanno un ruolo, non tan­to di verità, perché essa è mistero impenetrabile, quanto piuttosto un ruolo vitale. I simboli reli­giosi servono, cioè, per poter vivere in attesa di morire.

Studiosi moderni, storici delle religioni legano il senso, l'esperienza dell'esistere unitario all’idea del cosiddetto sacro. Oggi si parla di esperien­za del sacro quando stupito, meravigliato, im­provvisamente m'accorgo di "essere al mondo" nell'esistere unitario dell'universo:"mysterium fa- scinans". Sacro come fatto mentale, non dunque posto al di fuori ma emergente dal fondo inson­dabile dell'esistenza stessa. I teologi sono spiaz­zati. Forse, per vivere, a noi basta quel poco di penetrabilità nel mistero che è possibile e que­sto, con ogni probabilità, è anche troppo per noi. Attraverso di noi, quindi, con lo strumento della interiore intuizione, potremo arrivare alla com­prensione, all'esperienza dell'essere.

Viene così sperimentata una realtà più pro­fonda, immutabile, a-temporale, alla quale si ar­riva dolcemente, senza sbalzi, gradini o fratture, senza l'esperienza della morte; si apre all'espe­rienza una realtà più vasta, o meglio è lo spiri­to che prende coscienza della sua reale natura, aprendo orizzonti illimitati. La realtà non è più illogica, fratturata, avulsa dagli schemi del mon­do. Il nostro spirito, pur nella maggiore o minore densità, risponde ad una armonia totale, della quale noi siamo sereni cittadini sia nel denso che nel sottile, sia immersi negli inferi dell'universo, sia nel cielo terzo di cui parla S. Paolo scrivendo a quelli di Corinto, ove udì "parole ineffabili, le quali non è lecito ad un uomo alcuno di proferire".

Diceva Confucio: "Poiché il cielo mi ispira, nes­suno può nulla contro di me". Dunque a questo punto non ha più senso parlare di oggettivismo contrapposto ad un soggettivismo. Nella realtà è vero che ci sono distinzioni di comodità discor­siva ma, alla radice, la sostanza è unica ove tutte le distinzioni sfumano ed i paradossi trovano la loro conciliazione.

Ludovico Polastri

È laureato in ingegneria mecca­nica all'Università di Brescia. Ha conseguito la specializzazione post lauream presso il Politec­nico di Milano e effettuato corsi

di specializzazione in ambito: Produttivo, Certifi­cazione dei Sistemi Qualità e Ambientali Azienda­

li, Organizzazione e Gestione Aziendale. Ricopre da molti anni ruoli di responsabilità in ambito tecnico, produttivo e impiantistico per conto di importanti realtà aziendali. Si occupa inoltre di aspetti normativi e legali inerenti la sicurezza e la prevenzione sui luoghi di lavoro. Ricercatore in­dipendente e giornalista free lance, collabora per diverse testate giornalistiche.

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