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Innocenza NUMERO 23 GENNAIO 2011

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Innocenza

NUMERO

23GENNAIO

2011

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p. 5 2-4 luglio: un autobus dato alle fiamme a San Salvador;una serata fra ragazzi in Israele

p. 10 e una domanda, Innocenza? (Massimo Parizzi), che per-corre gran parte del numero

p. 14 4-12 luglio: un prigioniero politico a Cuba; il bisogno di“rivivere dentro di sé la propria storia arricchita da quella dell’al-tro”; una mattina in piscina a Roma; le strolaghe vicino ad ArcticBay, penisola di Baffin, Canada; “quale marciume occorre spazzarevia per scoprire un mondo abitabile” (Joan Miró); Arctic Bay co-perta di polvere; una seduta di yoga a Kabul; un’incursione deimuttawa, “campioni della moralità saudita”, in un centro commer-ciale di Riyadh

p. 27 e una poesia di Roberto Juarroz, argentino, Vivere è infrangere

p. 28 12-20 luglio: di nuovo a Kabul, un rapimento per sbaglio egli smalti per unghie al supermercato; una ragazza che si fa duepiercing ad Atlanta, Georgia, Stati Uniti; due donne che in palestra,a San Salvador, parlano del matrimonio: è un “rinunciare a me”; lafine dell’estate ad Arctic Bay; Kabul nel caos della Conferenza in-ternazionale e “il bambino o il cane dentro di voi, quella parte in-nocente che sa ancora riconoscere la differenza”

p. 38 una pagina di Elsa Morante sulla “innocenza” degli animali

p. 39 21 luglio-2 agosto: un venditore ambulante di giornali aSan Salvador; i pensieri che “mette in testa” la TV a una ragazza ni-geriana negli Stati Uniti; le autorità saudite informano un marito

Sommario

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che una sua “dipendente”, sua moglie, è partita per l’estero; scontrifra genitori e figli all’Avana; cerimonie sciite a Baghdad viste dauna giovane non sciita; mettere via i libri sulla gravidanza insiemealla speranza di avere un altro figlio; una conversazione fra duedonne espatriate a Shanghai su una bambina adottata

p. 48 e una poesia di Sylvia Plath, Bambino

p. 49 2-23 agosto: “l’innocenza verrà divorata boccone per boc-cone”; una bambina che addestrava formiche; un luogo in cui “lapresenza dell’uomo è inosservata e la sua assenza non compianta”;un incontro facendo jogging nella campagna attorno a Bologna;una “azienda agricola con certificazione biologica” a Gaza; il fer-ragosto a Roma; una fiction televisiva, in Arabia Saudita, in cui“una donna sposa quattro uomini”; un picnic in Iraq; un tramontoad Arctic Bay

p. 60 e un saggio su Il rossore perduto (Alfredo Tamisari),quello provocato dal pudore e quello provocato dalla meraviglia

p. 64 25 agosto-5 settembre: due genitori vanno a trovare il figlionella sua base militare in Israele; una lettera di una donna israelianaal presidente palestinese Mahmoud Abbas e al primo ministroisraeliano Benjamin Netanyahu; come gli studenti delle scuolemedie superiori, a Cuba, devono vestire e portare i capelli; un in-contro a un autolavaggio, a Bologna, con una famiglia rom; unacoda in banca a San Salvador

p. 74 e una poesia di Robinson Quintero, colombiano, su Lostraordinario

p. 75 9-28 settembre: i festeggiamenti dell’Eid a Gaza; la ripresadopo il ritorno dalle vacanze a Roma; Fidel Castro e il sistema cu-bano che “non funziona neanche per noi”; libri bruciati in Iran; lamorte di Chucho all’Avana; la fatica di studiare medicina adAtlanta; una ragazza nigeriana negli Stati Uniti che non parla maidi razza “perché, francamente, non mi interessa”; l’arrivo della sta-gione buia ad Arctic Bay; razzismo su un autobus all’Avana

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p. 87 Collaboratori e traduttori

p. 95 Abbonamenti

Le notizie sulla colonna di destra sono tratte da “The New YorkTimes”

Copertina: “Ho fatto questa e molte altre foto all’inaugurazione diWorld Press Photo a Milano. Ho cercato di immortalare la distanzae il rapporto tra gli spettatori (tutti in salvo per il solo fatto di vi-vere qui) e il contenuto delle foto, come sempre molto forti e cheprovengono da posti e situazioni inarrivabili, nel senso che la vio-lenza in esse riprodotta ci risulta inarrivabile e incomprensibile. In-tendo dire che non credo si possa davvero immaginare il contesto,né quello che accade prima né quello che accade dopo lo scatto.Sussiste una distanza incolmabile che rende la nostra presa di co-scienza dei fatti un mero gioco a chi si sporca meglio gli occhi peruna manciata di minuti. La nostra innocenza è intonsa, forse mi-gliorata per essersi sottoposta a un simile spettacolo, il nostro di-stacco effettivo totale.” (Sebastiano Buonamico)

“Qui - appunti dal presente” viene composta per essere letta “comeun romanzo”: dall’inizio e di seguito. È un invito e un avverti-mento al lettore: molte pagine di diario, a non leggerle subito dopole precedenti e prima delle successive, perdono gran parte del lorosenso.

Questa rivista è pubblicata dall’associazione culturale no-profit“Qui - appunti dal presente” (http://www.quiappuntidalpresente.it/).Chi desidera collaborarvi è benvenuto. Scriva a Qui - appunti dalpresente, via Bastia 11, 20139 Milano, tel.-fax 02-57406574, e-mail: [email protected].

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Diari da luglio asettembre 2010

San Salvador, 2 luglio 2010

“Non possiamo restare indifferenti.” Ecco cosadicevano stamattina al notiziario commentandoil servizio sulla cerimonia in onore delle vittimedel 20 giugno a Mejicanos. Mi ha ricordato chetempo fa ho scritto proprio sull’indifferenza esu come l’esserne avvolta fosse una delle miepiù grandi paure.Lo so che parlare e parlare non aiuta proprio perniente, però credo che ci siano fatti sui quali bi-sogna dire la propria anche se solo tra pochi in-timi, per non vivere fuori dal mondo, perché ènecessario, perché fanno parte della vita quoti-diana e, ovvio, perché sono d’accordo: non pos-siamo restare indifferenti.L’episodio dell’autobus a Mejicanos mi ha la-sciata in uno stato di shock che non provavo damolto tempo; mi è venuto un nodo enorme ingola e le mie emozioni sono andate ben oltre lamia capacità di stupirmi e di reagire. Ecco per-ché in tutti questi giorni ho cercato di evaderedalla realtà di quanto è successo. Ho saputo che cosa era accaduto poche oredopo, il giorno stesso: la radio parlava di un au-tobus dato alle fiamme con i passeggeri a bordo.Non riuscivo a capire, non c’era spazio nel miocervello per elaborare una cosa simile. Quasi in

Maria Ofelia Zuniga

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contemporanea con la radio mi ha chiamato miasorella: “A Mejicanos hanno bruciato un autobuscon la gente dentro”. No, le ho risposto, hanno bruciatoun autobus ma di sicuro hanno fatto scendere le per-sone. “No,” ha detto “le persone sono bruciate dentro…” E abbiamo riattaccato. […]In camera da letto, la solita routine pre-sonno:non ho riacceso la radio, meglio un CD. Hospento la luce, acceso l’abat-jour e mi sonomessa a leggere. Non riuscivo a concentrarmi:non può essere, pensavo, devono essersi sba-gliati… forse qualcuno s’è ustionato mentrescendeva… Alla fine è arrivato il sonno. La mattina dopo, lunedì, di nuovo la routine: alle5.45 suona la sveglia, mi alzo, accendo la TV pervedere il notiziario e, prima di potere fare qual-siasi cosa, ecco lì… immagini di un Coaster bru-ciato, quattordici persone morte bruciate làdentro, dicono. Non sono ancora neppure riuscitia recuperare i corpi. Si parla di bambini. Nonhanno lasciato scendere le persone. Mi sono se-duta sul letto, ascoltavo le notizie e ho iniziato apiangere.

Che cosa è questo?

Più sentivo e meno ci credevo. Un senso di ri-fiuto simile l’ho provato poche volte nella vita,talmente poche che le posso contare, perché sonosoltanto due.Uno: quando quell’amara domenica, 13 luglio,vado a trovare mio padre, ricoverato in ospedale,e non lo trovo in camera. Nessuno mi dice nulla:starà facendo degli esami? Mi si avvicina un ma-lato sulla sedia a rotelle e mi fa segno… vicinoa me, di lato, c’è un lettino con un corpo coperto,

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un morto… il malato mi dice: “È suo padre”. No,non può essere, è falso. Mi vedo come la bam-bina di cinque anni che, come chi trova in un’ideaun rifugio sicuro, che offre protezione contro ildolore, si ripete: “I papà non muoiono mai”. Sco-pro il corpo e lo guardo… sollievo: non è lui!Non lo riconosco: mio padre era vivo mentre ilsignore che vedevo no. Prendo la cartella e leggo:“Julio César Zúniga Cortez. Causa del decesso:insufficienza cardiaca. Ora della morte: 11.50”.I papà non muoiono, il mio papà non può esseremorto: cercavo di ricominciare a pensarlo, maora tornare nel rifugio non era più possibile, laverità si imponeva, il mio papà era morto.La seconda volta in cui un evento mi ha fatta ca-dere in un tale stato di profonda negazione è statauna storia di disamoramento che non racconterò.Mi limiterò a dire che senza dubbio so moltobene cosa significhi preferire le menzogne e con-tinuare a nascondere la testa nella sabbia piutto-sto che affrontare la realtà di un amore che hasmesso di amare e non riuscire a trovare un ar-gomento che possa sostenere la dolorosa veritàdi un “non ti amo più”. Tutto passa e tutto ter-mina… alla fine.Così quel 21 giugno ho spento il televisore primadella fine del servizio. Non voglio vedere, nonvoglio sapere. Se non vedo non succede, non èsuccesso, non è vero… Andando al lavoro hocomprato il giornale per leggere dell’accaduto(bisogna tenersi informati). L’ho prestato a unoche me l’ha chiesto, poi l’ho messo via e ancoraoggi non l’ho letto. […]Forse per questo stamattina il commento di RafaDomínguez mi ha scossa, perché alla fin fine è

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successo davvero, così come anche “il mio papàè morto davvero” e “il mio ex davvero sta conun’altra”. Non importa se la mia capacità dicomprensione vuole digerirlo oppure no, se vo-glio accettarlo oppure no, se voglio saperlo op-pure no:“La sera di domenica 20 giugno è stato dato allefiamme un autobus con i passeggeri a bordo.C’erano dei bambini, c’era un neonato, le personesono morte carbonizzate, sono bruciate vive.”Spavento e orrore assieme, pazzia. Sono soltantoin grado di pensare che, se l’inferno esiste, sicu-ramente assomiglia molto a tutto questo. […] A quanto ho capito ci sono stati degli arresti e trai “presunti autori” ci sono anche dei minorenni.Alla domanda di un giornalista sul perché ab-biano fatto una cosa simile, la risposta di uno diloro mi ha fatto venire la pelle d’oca: “Ci siamolasciati prendere la mano. L’idea era di darefuoco all’autobus, ma prima far scendere le per-sone. Poi ci siamo lasciati prendere dal mo-mento”. Ci siamo lasciati prendere la mano? Gliè venuto in mente sul momento? Un’azione comequesta viene in mente sul momento, come qual-cosa, che so, di emozionante? Non lo so, non sose si può comprendere una risposta come questa,però a me, ripeto, fa accapponare la pelle! […]Sinceramente non ho idea di cosa si potrebbefare perché, se sono onesta, non lo so. Penso cheil livello generale di violenza è qualcosa che ci èscappato di mano a tutte e a tutti. […] Però pensoche ci siano delle strade per cambiare questa re-altà. Suppongo siano difficili da percorrere, conpericoli concreti in agguato e con pedaggi realida pagare con la vita per passare dall’altra parte,

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però esistono. Non ho idea di come iniziare apercorrerle e nemmeno come fare a sapere che“si è sulla strada giusta” e neanche se, in questopaese, siamo vicini a trovarla. Quello che so èche, se muore la mia speranza, se smetto di spe-rare, se smetto di credere, per lo meno in qual-cosa, allora preferisco esser morta. Senza dubbio ci sono cose che solo l’astrazioneci permette (almeno per un istante) di sopportare.È triste tornare alla realtà e rendersi conto chequello che si credeva vero è falso e che, perciò, latemuta verità è reale; alcune cose si superano, altresi accettano solo col tempo e altre ci invitano adandare avanti in qualchemodo … […]

Israele, 4 luglio 2010

È l’una e 45 di notte e mentre scrivo queste righemio figlio, insieme a una decina tra ragazzi e ra-gazze, se ne sta seduto nel portico, a mangiare,chiacchierare, ridere e suonare la chitarra.Stasera hanno fatto un poyke. Un poyke è unapentola in ferro battuto che viene messa sulfuoco con dentro carne, patate, verdure e speziea piacimento. Nel giardino sul retro della casaabbiamo una buca per il fuoco, perfetta per unpoyke.I ragazzi sono tutti sulla ventina. Niente birra, néalcolici, né fumo. Niente complicazioni sessuali.Solo un gruppo di “ragazzini” che si ritrovanonel loro fine settimana di licenza, dall’esercito odal servizio di leva, e che si divertono a raccon-tarsi delle storie. Un’esistenza perfettamentenormale e innocente.

Sarah Smile

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Innocenza?di Massimo Parizzi

C’è qualcuno che, davvero, si sente innocente?Io no.Questo “davvero”, o “in verità”, manifesta unadiffidenza. E la diffidenza è incompatibile conl’innocenza. Chi si sente innocente non può es-sere interrogato, solo confermato o contestato.Non esistono vie di mezzo. Qualunque domandasul suo senso di innocenza è una contestazioneradicale. Lo distrugge.Che cosa dire, per esempio, della pagina di diariodi Sarah Smile che avete appena letto (4 luglio)?Una decina di ragazzi e ragazze sui vent’anni,sotto il portico della sua casa in Israele, una sera,parlano, ridono e cantano. Una “esistenza inno-cente” (innocent living), la definisce. È, delle pa-gine di diario cui accennerò qui, la prima che miha fermato su questa parola, su questa cosa - in-nocenza - tanto da, poi, decidere, facendone il ti-tolo di questo numero di “Qui”, di invitare illettore a fermarcisi anche lui.Mi ci ha fermato, non solo perché Sarah questaparola la scrive (mentre gli altri no: la fanno pen-sare), ma perché vi accompagna due notazionistrane. La prima, strana per stridore: per quei ra-gazzi e ragazze, ci dice, è un weekend di libertàdall’esercito. Esercito e innocenza? La seconda è:“Niente birra, né alcolici, né fumo. Niente com-plicazioni sessuali”. Che innocenza è, questa?

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(Aleggia, qui, anche un’ideologia dell’innocenzache è specificamente ebraica e in particolare, confunzione politica, israeliana. Ne hanno parlatomolti autori, e suona così: gli ebrei sono vittime,quindi sono innocenti. Nella pagina di diario diSarah c’è, mi sembra, anche questo. Ma non c’èsolo questo.)

Di “innocenza” esiste un’unica accezione nonambigua, quella giuridica (anche se nei tribunalisi preferisce saggiamente sentenziare la colpe-volezza o, con varie formule, la non colpevo-lezza, non l’innocenza): si può essere innocentidi una colpa di cui si è accusati. Ma quando par-liamo di vittime innocenti della violenza dellanatura o umana (come i passeggeri dell’autobusincendiato a San Salvador di cui parla MariaOfelia Zuniga nella sua pagina del 2 luglio)? Oquando parliamo di perdita dell’innocenza?Si perde l’innocenza quando si entra in contattocon il male. Non sempre, e non necessariamente,subendolo o facendolo. Basta il contatto. Il con-tatto con il male infetta la coscienza per sempre.Esso vi penetra e vi resta. Viene riconosciuto,cioè ottiene riconoscimento. (“Questo non signi-fica fare finta che il razzismo non esista, certoche esiste” scrive “Leggy” il 21 settembre.“Solo, mi rifiuto di riconoscerlo.”) Il riconosci-mento può essere pieno e definitivo. Allora ilmale invade interamente la coscienza. La fa inqualche modo sua. È il cinismo. Che, a volte,può sembrare una consapevolezza superiore, unasaggezza. Addirittura un tener testa al male. Nonlo è. È soccombergli.Ma è anche possibile dare al male un riconosci-

Anche su questa rivi-sta: si veda Marc Ellis,Sulla guerra civileebraica e il nuovo pro-fetico, n. 12, ottobre2005, e Liza Rosen-berg, n. 16, febbraio2007, alla data 18 di-cembre 2006 (maanche, in questo nu-mero, la sua lettera aNetanyahu, 2 settem-bre).

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mento sempre parziale, sempre provvisorio.Come se, ogni volta, potesse essere invece lavolta dell’innocenza. Come se, ogni volta per laprima volta, fosse possibile invece l’innocenza.“Che cosa è questo?” (¿què es esto?), chiede esi chiede Maria Ofelia alla notizia dell’autobusdato alle fiamme con i passeggeri dentro. Eppureil male, la violenza, li conosce bene. Ha visto at-torno a sé, fra i sette e i diciannove anni, laguerra civile. Poi, una criminalità responsabiledel tasso di omicidi più alto dell’America latina.Non è un’ingenua.Non dare al male un riconoscimento pieno e de-finitivo, stupirsene ogni volta, può sembrare, espesso è detto, ingenuità. È il contrario. Èun’astuzia della coscienza per preservare sestessa, non esserne invasa, e, così e nello stessotempo, preservare l’innocenza. Ma non “dav-vero”. In qualche modo è una finta.Il fatto è che, per preservare la possibilità di per-seguire, non l’innocenza, ma una realtà menocolpevole, “per cambiare questa realtà”, comescrive Maria Ofelia, è necessario che da qualcheparte - nella coscienza, nell’immaginazione, oanche nell’arte, come scriveva Joan Miró alla vi-gilia della Seconda guerra mondiale (vedi la pa-gina di Emilia de Rienzo del 7 luglio) - esistaun luogo non reale che ne accolga e coltivi il de-siderio allo stato più puro. Come, appunto, de-siderio di innocenza. Un luogo in cui esso sitrovi a suo agio. Possa fiorire.Come dire: l’adesione totale alla realtà impedi-sce di cambiare la realtà. Ad affrontare la realtàdi petto si rimane schiacciati. Per cambiarla oc-corre affrontarla passando attraverso una qual-

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che irrealtà. Giocare di sponda. Una finta cheproduce verità.Di questi luoghi dell’innocenza, irreali, utopici,i più frequentati sono e sono sempre stati tre: lanatura, il mondo animale, l’infanzia. Sono anchequelli il cui carattere di “finte”, di “sponde”, diluoghi spostati rispetto al luogo della realtà, èpiù evidente. Non importa che, nella realtà, lanatura sia spesso dura e violenta verso gli uo-mini, che fra gli animali sia una continua strage,che i bambini nascano piangendo, non ridendo.Questo non ha impedito di immaginare un “giar-dino dell’Eden”; né impedisce di sentire nel rac-conto di Clare Kines delle sue giornate ad ArcticBay, a osservare uccelli, stagni, laghi, monti, uneguale inconfondibile richiamo. E non ha impe-dito a Sarah di dare alla “innocenza” della seratache descrive gli attributi che si attribuiscono,non importa se a torto, alla “beata innocenza”dell’infanzia: “Niente birra, né alcolici, néfumo”, cioè niente colpe, e “niente complica-zioni sessuali”.Non importa, in nessuno di questi casi, se a torto.Perché ciò che importa, e ciò che la natura, ilmondo animale e l’infanzia hanno in comune, èche, agli occhi degli uomini, essi non sono il loromondo. Clare lo scrive: “Vivo in uno dei pochiposti al mondo in cui esiste una simile vasta di-stesa di natura allo stato selvaggio, quasi difronte alla porta della mia casa. Un posto in cuipotrei viaggiare per centinaia di chilometri quasiin ogni direzione senza trovare traccia della perma-nenza dell’uomo. […] Una vera wilderness. […] Wil-liam Beebe definì la wilderness ‘quell’anticafratellanza della natura in cui la presenza dell’uomo

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è inosservata e la sua assenza non compianta’.Sono felice di attraversare questo posto”.

L’Avana, 4 luglio 2010

Ho guardato la foto del prigioniero politico ArielSigler, dopo che è uscito di prigione. Ho chiusogli occhi e vari sentimenti mi hanno travolta. Dinuovo, ho sentito l’effetto dell’esempio. Hoasciugato le lacrime e sono tornata in me.Ho cercato di immaginare il futuro. Prima hodetto ad alta voce: “Che potere di distruzione,che indolenza! Chi pagherà per tutta questa sof-ferenza? Quale sarà la formula per non covareodio e rancore? Che cosa diranno quelli che oggisostengono che chi dissente, nell’isola, lo fa perdenaro? Qual è il prezzo di sette anni passati incarcere, o del rischio di finirci?”.È arrivato il momento di pensare al presente.Quale presente? Viviamo momenti unici, senzadubbio: si respira incertezza e incredulità. Checosa accadrà domani? Nessuno lo sa. Come equando finirà la situazione (se, prima o poi, fi-nirà)? Una domanda senza risposta. Qual è piùnefasta, la tragedia greca o quella cubana?“Tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine”dice un proverbio. E un altro: “Non c’è male cheduri cent’anni, né corpo che gli resista”. I pro-verbi sono leggi della vita quotidiana, ma com’ètriste quando questa stessa quotidianità ti riempiedi pessimismo.È questo il mio presente: camminare tutti i giorniper le strade, prendere i mezzi pubblici e sentirel’egemonia dell’alienazione. Esiste una sola re-altà e una sola preoccupazione per i volti assorti

Laritza Diversent

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che percorrono i viali: che cosa mettere in tavola.Dormono, ma senza sogni. Sanno che ci sarà undomani, ma sono rassegnati a non pensare al fu-turo. […]

Torino, 5 luglio 2010

“A ottanta miglia incontro al vento di maestrol’uomo raggiunge la città di Eufemia, dove imercanti di sette nazioni convengono a ogni sol-stizio ed equinozio. La barca che vi approda conun carico di zenzero e bambagia tornerà a sal-pare con la stiva colma di pistacchi e semi di pa-pavero, e la carovana che ha appena scaricatosacchi di noce moscata e di zibibbo già affastellai suoi basti per il ritorno con rotoli di mussoladorata. Ma ciò che spinge a risalire fiumi e at-traversare deserti per venire fin qui non è solo loscambio di mercanzie che ritrovi sempre le stessein tutti i bazar dentro e fuori l’impero del GranKan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stesse stuoiegialle, all’ombra delle stesse tende scacciamo-sche, offerte con gli stessi ribassi di prezzo men-zogneri. Non solo a vendere e a comprare siviene a Eufemia, ma anche perché la notte ac-canto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti suisacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti,a ogni parola che uno dice come ‘lupo’, ‘sorella’,‘tesoro nascosto’, ‘battaglia’, ‘scabbia’, ‘amanti’gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi,di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di bat-taglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti at-tende, quando per restare sveglio al dondolio delcammello o della giunca ci si mette a ripensaretutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà

Emilia de Rienzo

Elezioni presiden-ziali in Polonia: il li-berale europeistaBronislaw Komorow-sky batte il conserva-tore estremistaJaroslaw Kaczynsky,gemello dell’ex pre-sidente, morto in unincidente aereo inRussia nell’aprilescorso.

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diventato un altro lupo, tua sorella una sorella di-versa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno daEufemia la città in cui ci si cambia la memoriaad ogni solstizio e ad ogni equinozio.”

Bisognerebbe, come nella città di Eufemia delleCittà invisibili di Italo Calvino, avere il desideriodi contaminare storie, di aprire i propri ricordi airicordi degli altri, e poi rivivere dentro di sé lapropria storia arricchita da quella dell’altro e cosìvia giorno dopo giorno, momento dopo mo-mento.Capiterebbe così forse di sentirci abitanti di unostesso pianeta in cui ciò che io non conosco loconosce l’altro. Un pianeta che ci diverrebbetanto caro da volerlo proteggere e salvaguardare,delle storie che ci diventerebbero tanto famigliarida diventare nostre: le più belle, le più ricche, maanche le più tristi, le più povere.In quel bazar impareremmo a prenderci cural’uno dell’altro, impareremmo che cambiare èvivere. Impareremmo che si possono scambiare“cose”, ma molto di più si possono scambiareemozioni e sentimenti.

Roma, 5 luglio 2010

Aspetto l’estate per nuotare all’aperto. Mi piacel’acqua, il sole, il silenzio. Con questa idea sonoandata in piscina stamattina. L’acqua c’era, ilsole anche ma il silenzio no! Sono seriamentepreoccupata. Non riesco a darmi una risposta.Sono io che sopporto sempre meno le personechiassose o sono le persone chiassose che au-mentano sempre più il volume della loro voce? Mia madre metteva l’ovatta nelle orecchie. Sen-

Serena Damiani

Gli esperti temono chese i cinesi, 1,3 miliardidi persone, vorrannosempre più automobilie beni materiali, glisforzi della comunitàinternazionale per li-mitare il riscaldamentoglobale saranno con-dannati al fallimento.

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tiva troppo, diceva. Il mondo era meglio ovat-tarlo. Da pochi giorni ho la stessa età che avevamia madre quando sono nata.

Arctic Bay, Canada, 6 luglio 2010

Venerdì sera siamo usciti per il nostro solito giroin macchina e come ci capita spesso siamo finitinei pressi dell’emissario del Marcil Lake. È di-ventato uno dei miei posti preferiti per osservaregli uccelli. Facendo un rapido calcolo dovreiavere avvistato diciassette specie. Ma più che ilnumero, ad avermi impressionato sono i compor-tamenti che ho potuto osservare, alcuni dei qualitalmente straordinari da rendermi arduo il com-pito di identificare quello che ho visto.Nel laghetto più vicino alla strada nuotava unacoppia di strolaghe e dal momento che non sisono mosse, mostrando un atteggiamento sor-prendentemente fiducioso, non ne sono rimastoparticolarmente impressionato. Cioè, ho pensatoche fosse una scena bellissima, i due uccelli chenuotavano in quel laghetto così tranquillo, il soleche colorava di arancio le acque (a dirla tutta, fil-trando attraverso un’incredibile quantità di pol-vere sospesa nell’aria). Ho scattato qualchefotografia e proprio quando stavamo per andar-cene ho deciso di guardare meglio quelle che mierano sembrate strolaghe minori. Ho scopertocosì che si trattava di uccelli del tutto diversi.Be’, non proprio del tutto, in effetti erano strola-ghe, ma si trattava di una specie inaspettata.Mi sono accorto che il disegno sul dorso era di-verso e che le strisce anziché dietro erano sul latodel collo. Erano strolaghe mezzane del Pacifico,

Clare Kines

L’industria cinesedell’energia pulita, inpieno boom con oltreun milione di posti dilavoro, sta giungendovelocemente a domi-nare la produzione ditecnologie essenzialia rallentare il riscal-damento globale ealtre forme di inqui-namento atmosferico.Gran parte di talesuccesso è dovuto apolitiche statali ag-gressive a sostegno diquesta cruciale indu-stria di esportazione.Ma un simile tipo disostegno viola le re-gole della Organizza-zione modiale delcommercio (WTO),che proibiscono prati-camente ogni sussidioagli esportatori, e po-trebbe essere denun-ciato con successo difronte al tribunaledell’organizzazione aGinevra.

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e con la luce giusta ho visto che la macchia sullagola era viola e non rossa. Erano, come ho detto,inaspettate.Probabilmente la loro presenza qui non è un fattosenza precedenti, sebbene normalmente nidifi-chino più a sud, all’estremità meridionale del-l’isola di Baffin e sul continente. So di unvecchio avvistamento a Pond Inlet, ma sicura-mente devono essercene stati degli altri. Essendoormai nel bel mezzo dell’estate, ne ho dedottoche si trattasse di una coppia nidificante, e secosì fosse si tratterebbe dell’avvistamento piùsettentrionale di una coppia di strolaghe mezzanedel Pacifico nidificanti. Siamo tornati il giorno successivo e la coppia eraancora lì, anche se quando siamo arrivati uno deidue uccelli si era allontanato per cercare del cibo.Quello rimasto al laghetto di tanto in tanto si esi-biva in un interessante spettacolo. Si tuffava inacqua con un tonfo, poi si lanciava velocementeper diversi metri, emetteva un piccolo verso e siimmergeva sott’acqua. Ho tentato, senza riu-scirci, di fotografare la gola viola e poi li ab-biamo lasciati in pace. […]

Torino, 7 luglio 2010

Ci sono molti modi per reagire a un pericolo im-manente, all’avvento di quelli che Hanna Arendtchiamava “tempi bui”.Joan Miró, alla vigilia della Seconda guerramondiale, si trovava a Varengeville, un paesinodella costa normanna. Egli prova un desiderio in-timo di evasione dalla realtà che lo circonda eche provoca in lui un gran rifiuto: “A quel-

Emilia de Rienzo.

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l’epoca” racconterà in seguito “ero molto de-presso. Credevo che la vittoria dei nazisti fosseinevitabile […] ed ebbi l’idea di esprimerequest’angoscia tracciando segni e forme sullasabbia, in modo che le onde li trascinassero viaistantaneamente, o creando sagome e arabeschinell’aria come fumo di sigaretta, che poi sareb-bero saliti in alto, avrebbero accarezzato lestelle”. Avverte la difficoltà di esprimersi e direagire: “Ciò che vale, in un’opera, non è quelche vogliono scoprirvi troppi intellettuali, ma ciòche essa trascina in termini di esperienze vissute,di verità umana. […] Il gioco delle linee e deicolori, se non pone a nudo il dramma del crea-tore, è soltanto un passatempo borghese. Leforme che l’individuo inserito nella societàesprime devono svelare il moto di un’anima pro-tesa a evadere dalla realtà presente, oggi partico-larmente ignobile, poi devono approssimarsi arealtà nuove, e infine devono offrire ad altri uo-mini un’opportunità di elevazione. Per scoprireun mondo abitabile, quale marciume occorrespazzare via!”.

Arctic Bay, Canada, 9 luglio 2010

Finora l’estate ci ha riservato un tempo meravi-glioso, che mi ricorda le prime estati che ho tra-scorso quassù, prima che il mondo dimenticasseche questo dovrebbe essere un deserto. Cieli az-zurri, punteggiati qua e là da qualche nuvola e,negli ultimi tempi, quasi non un alito di vento. Il lato negativo di questo tempo fantastico è cheArctic Bay si è tramutata in polvere. Be’, nonesattamente, ma l’aria tutt’intorno sicuramente

Clare Kines

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sì. La polvere è praticamente ovunque. Le stradequassù sono fatte per lo più di fango indurito,mescolato qua e là con un po’ di ghiaia. Ogniveicolo che passa solleva una nuvola di polveree dal momento che le giornate sono asciutte esenza vento la polvere resta sospesa nell’aria.Fatta eccezione per i cinquanta chili di polvere ogiù di lì che si deposita sul mio furgone o mi siincrosta nelle narici. In questo momento c’è molto traffico, è un’oradi punta. Fuoristrada e furgoni percorrono lastrada fino a Victor Bay e ritorno a un ritmo con-vulso. Come se non bastasse hanno iniziato a co-struire un nuovo laghetto per la raccolta edepurazione dei liquami (con relativa strada), ilche significa una fila di mezzi pesanti che fa co-stantemente la spola tra il primo ponte e la cittàsollevando un’enorme quantità di polvere che ri-mane sospesa nell’aria. […]

Kabul, 10 luglio 2010

Ieri sera sono andata a yoga, un’idea strana magradita in questo posto di polvere e kalashnikov.Sono passata da K-Meisters, non lontano da casamia, e abbiamo preso un taxi. Quando siamo ar-rivati sembrava di essere entrati nell’armadio eusciti a Narnia: di colpo, la confusione dellastrada era scomparsa, e c’era fresco, buio comein una grotta e un meraviglioso profumo di li-mone e incenso. Mi sono immediatamente cal-mata; la mia ultima esperienza lì era stata unapedicure infernale, ma questa volta non avevo diche preoccuparmi: nessuno avrebbe preso d’as-salto i miei piedi con oggetti affilati. Nello spo-

“I ricchi sono diversi:sono più spietati.”Sam Khater, economi-sta, sul perché i ricchihanno smesso di pa-gare le loro ipotechein percentuale supe-riore rispetto al restodella popolazione.(“The New YorkTimes”, 9 luglio, “Ci-tazione del giorno”)

Karen Woo

Stati Uniti. L’ammini-strazione Obama hainiziato a inviareagenti federali a veri-ficare la documenta-zione contabile dimigliaia di aziende,costringendo le im-prese al licenziamentodi tutti gli immigratiirregolari.

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gliatoio - sul pavimento c’era un bellissimo tap-peto morbido con intessuto il profilo di un bo-varo bernese - mi sono cambiata, ho indossato ivestiti da yoga e infilato le mie cose in un arma-dietto. Nella stanza, in penombra, ho visto al-meno una faccia che ho riconosciuto, un omonecon la barba alla Chewbecca.L’avevo visto ieri sul bordo della piscina con ungruppo di amici. P-Monster e io ci eravamo presiun giorno di riposo all’hotel a 5 stelle di Kabul.Una piacevole brezza aveva fatto cadere inacqua un paio di ombrelloni che avevano man-cato per un pelo un cinese corpulento, ma deter-minato, che stava diligentemente facendo le suevasche mentre il sole spariva dietro al muro pe-rimetrale. P.M. si era lamentato che lì, in piscina,era circondato dai peggiori esempi di tuttoquello che non va nei peggiori tipi di persone aKabul. Io ho pensato che fosse semplicementeun po’ nervoso e stesse esagerando: non tutti quisono orribili. A urtarlo erano state le stupidechiacchiere che aveva dovuto ascoltare nellospogliatoio maschile: dei contractors, ben pa-sciuti e superprivilegiati, che si lamentavano didovere lavorare fino a tardi, di non potere andarein palestra, e di quanto tutto ciò fosse ingiusto.P.M. aveva digrignato i denti, ma sapevo cheprobabilmente, a quella “mezzasega superprivi-legiata”, avrebbe voluto dare l’occasione di ca-pire che cosa significasse ingiusto: perdere unbraccio o una gamba, essere ingiustamente im-prigionato in un brutto posto, vedere massacrarela propria famiglia; insomma, una cosetta delgenere. O anche qualcosa di più normale, comealzarsi la mattina alle quattro, lavarsi la faccia e

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il culo con l’acqua fredda di una caraffa e farsidodici-tredici chilometri in bicicletta per andarea lavorare per un grasso cazzone straniero pienodi boria. Sarebbe stata un’ingiustizia che mi sa-rebbe piaciuto che quel tipo provasse, tanto permettere le cose in prospettiva. Comunque, ioquello lì non l’avevo visto, quindi chissà… Torniamo a Mister Chewbecca: la barba portatada uno straniero è sempre una cosa curiosa;prima di tutto sembrano molto strani e inoltre, seè un tentativo per passare inosservati, solo unidiota cieco può non capire che quel grassonebianco, alto un metro e novanta e passa, nonviene da un villaggio qui attorno. Penso spessoche potrei comprarmi un set di barba e baffi daindossare quando giro per la città, tanto per ilgusto di farlo; probabilmente somiglierei a un af-gano più io di alcuni di questi tipi scandinavi.Comunque, Mister Chewbecca e il suo amico dalpizzetto un po’ più corto erano lì con i loro ma-terassini, a rilassarsi in attesa che la seduta co-minciasse.Ho permesso alla mia mente di allontanarsi dallesue solite preoccupazioni, pianificare, prepararei bagagli, fare sempre qualcosa, e mi sono con-centrata sulla seduta, sullo stretching, sulle sen-sazioni fisiche, con le gambe che mi tremavanocome foglie per lo sforzo. Per un secondo misono sentita trasportata di nuovo a Notting Hill;la gente non era per niente diversa: bianchi dellaclasse media che si sforzavano di rimettere inmoto il corpo dopo otto-dieci ore passate a unascrivania. Non c’era condizionatore e l’aria eraopprimente; scherzando ho detto che stavamofacendo yoga Bikkram. La stanza era piena, i no-

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stri materassini attaccati l’uno all’altro come sar-dine, l’atmosfera gioviale e coinvolgente. Ilritmo era quello dato da K-Meister. […] Più tardi, verso la fine della seduta, mentre, dopoavere lavorato davvero duro, stavamo finendocon il rilassamento focalizzato, ho sentito unrombo che ha fatto tremare le pareti. Ero divisafra uscire dalla mia bolla di Notting Hill perguardare fuori dalla finestra o rimanere nellabeatitudine che avevo raggiunto. Mentalmenteho immaginato di precipitarmi allo spogliatoioper mettere le scarpe da ginnastica: non era ilcaso di correre per la strada in infradito. […] In-vece sono rimasta distesa sul pavimento in posi-zione cadaverica. Doveva essere stato ilgeneratore, mi sono detta. D’altronde non sapevose sarei riuscita a vedere qualcosa dalla finestrae non volevo far preoccupare nessuno. Davantialle finestre - inganno accorto e gradito - pende-vano lunghi pannelli di carta di riso biancosporco che, tuttavia, non facevano altro che na-scondere i sacchi di sabbia che coprivano i vetri:(paranoidi) misure di sicurezza ingegnosamentecamuffate da morbidi arredi. Il rombo era causato da due MRAP (“mine resi-stant ambush protected”; resistente alle mine,protetto contro le imboscate): i blindati, speciedi carri armati con torretta e mitragliatrici sultetto, s’erano fermati proprio davanti alla pale-stra. Dentro sedevano dei militari americanidall’aria confusa. Una giovane donna in uni-forme è saltata giù e si è avvicinata a noi scusan-dosi se, con la loro presenza, stavano bloccandole trasmissioni dei nostri cellulari. Io ero tran-quilla, e non ho detto niente, ma un paio di tipi,

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gente dell’Onu, erano visibilmente indignati:“Maledetti militari, che creano rischi inutili, met-tono in pericolo tutti noi, bla bla bla”. Eranocommenti che avevo già sentito, una noia. A medispiaceva per i soldati in quei veicoli. S’eranopersi e non potevano far altro che stare seduti adaspettare istruzioni (erano lì da mezz’ora; in let-tura delle mappe del quartier generale dovevanoessere un po’ arrugginiti). Di solito non passanoper quelle strade secondarie e, adesso che vi sitrovavano, non sapevano come uscirne. Mi di-spiaceva per loro, con le loro uniformi e i loroveicoli decisamente vistosi, che irritavano lagente ovunque andassero. Avrei voluto saltare sul nostro taxi e dire: “Se-guitemi, vi porteremo in qualche posto che pos-siate riconoscere” (magari uno di quei carissimisupermercati frequentati dagli occidentali). “Dalì saprete dove andare.” Ma non era che una miafantasia. Era improbabile che ci avrebbero se-guito e di sicuro il mio suggerimento nonavrebbe raccolto consensi tra quelli dell’Onu concui dividevo il taxi: “Fantastico, Karen, faccia-moci seguire per tutta la città da un facile bersa-glio!”. Le divisioni tra noi mi rattristavano, ma,a dire la verità, quando il nostro taxi è partito, al-lontanandosi dai MRAP, ero contenta. Già da unpo’ quella situazione non mi piaceva, e la parterealista di me aveva vinto la battaglia controquella idealista: i MRAP non avevano nessuna ra-gione di essere lì e, se ne avevano una, allora erameglio che noi fossimo il più lontano possibile.Ci siamo stipati con i materassini da yoga nellanostra macchina da tre dollari, e il ridicolo con-trasto tra noi e il convoglio militare non mi è

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sfuggito. Quanti danni avrei potuto fare con unmaterassino da yoga e qualche trucco mentale daJedi, mi sono chiesta. Sembrava di vivereL’uomo che fissa le capre. Immaginavo i titolidei giornali: “Yoghi dilettanti sconfiggono i ri-belli con canti tantrici”.

Riyadh, 12 luglio 2010

Devo raccontarvi cosa mi è successo ieri sera. Lamia carissima amica Tine ha terminato il suo pe-riodo qui in Arabia Saudita e sta per partire. Pur-troppo, rinchiusa in una colonia di espatriati, nonaveva mai avuto occasione di vedere i muttawain azione. Questi campioni della moralità sauditasono un elemento fondamentale della vita locale,quindi non potevo lasciare che partisse senzafare una simile esperienza. E siamo andate a cac-cia di muttawa. Ci siamo dirette al loro habitat naturale, i centricommerciali. E non siamo rimaste deluse. AllaRiyadh Gallery, che ha aperto un paio d’anni fa,stavano proiettando la Coppa del Mondo su unoschermo TV talmente enorme che lo si potevaguardare da un chilometro di distanza. Non stoesagerando, la gente stava seguendo la partita datutti e tre i piani. C’erano circa trecento persone.Nel bel mezzo della partita i muttawa sono en-trati e hanno ordinato di spegnere la TV. Eranodue, scortati da un agente di polizia e, passandoin mezzo a tutta quella gente, si sono messi a cer-care uomini senza donne. Perché è illegale cheun uomo vada in un centro commerciale da solo:deve farsi accompagnare dalla madre, da una so-rella o dalla moglie. Fermavano qua e là giova-

Eman Al Nafjan

11 luglio, Kampala,Uganda. Almeno trebombe sono esplosein un attacco sincro-nizzato su grandi as-sembramenti di tifosidella Coppa delMondo di calcio cheguardavano la finaletrasmessa su schermiall’aperto. Sono rima-ste uccise 76 persone.La responsabilitàdegli attentati verràrivendicata da Al-Shabab, gruppo isla-mista somalo.Secondo le NazioniUnite la Somalia,dopo l’Afghanistan el’Iraq, è il paese cheproduce il maggiornumero di profughinel mondo, el’Uganda rappresentaper loro un rifugionaturale. La sua poli-tica verso i rifugiati èfra le più liberali

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notti sauditi e domandavano dove fossero le lorodonne. Un tizio a cui non avevano creduto ha do-vuto trascinare una ragazzina fin da loro perchéconfermasse che era veramente imparentato conil gruppo di donne che indicava. Prima che i muttawa entrassero c’era chiasso, euomini e donne guardavano in su verso loschermo stando in piedi vicini. A ogni momentosaliente della partita si udivano grida di disap-punto o di esultanza collettive. L’atmosfera eraelettrica. Poi sono arrivati i muttawa, e tutti sisono accorti che erano arrivati molto prima divederli passare. Anche Tine ha fatto dei com-menti su quanto dovessero sentire il potere cheesercitavano sulla gente. Nessuno ha obiettato al fatto che la partita ve-nisse interrotta. Le donne sono corse via alla ri-cerca di posti a sedere nell’area segregata. Gliadolescenti si sono diretti nella direzione oppostadalla quale provenivano i muttawa per paura diessere fermati a causa del taglio dei capelli o deijeans a vita bassa. Tutti si guardavano attorno insilenzio, cercando i muttawa con lo sguardo etentando di immaginare chi potesse essere la loroprossima vittima.Abbiamo deciso di seguirli, anche se da lontano,per vedere chi avrebbero preso. Concentravano iloro sforzi soprattutto sui giovani maschi. Sonoandati perfino nei bagni alla ricerca di trasgres-sori. Prima di perderli di vista, li abbiamo vistiarrestare due uomini. Li hanno portati via con sémentre continuavano il raid moralizzatore.Sia io sia Tine abbiamo provato molta rabbia avedere quanto la gente fosse passiva. Era comese credessero veramente di essere colpevoli di

dell’Africa: concededi fatto asilo a tutticoloro che, prove-nienti dalla regione,lo chiedono.

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qualcosa. Centinaia di persone che tremavanodalla paura davanti a un paio di uomini con labarba. Non c’è da stupirsi che le cose non cam-bino. La gente crede di meritare di essere trattatain questo modo. L’incursione dei muttawa è du-rata una ventina di minuti e, proprio comequando erano arrivati, tutti si sono accorti subitoche se n’erano andati. Lo schermo è stato riac-ceso, la gente si è rilassata e ha ripreso a rumo-reggiare.Prima che andassero via ho portato fuori Tine perfarle vedere quanto sono arroganti perfino nelmodo di parcheggiare. Infatti la loro jeep era po-steggiata sul marciapiede proprio accanto alleporte automatiche. Quasi fosse un’ambulanza.

Vivere è infrangeredi Roberto Juarroz

Vivere è infrangere.Una legge o un’altra.Non ci sono alternative:non infrangere nulla è essere morti.

La realtà è infrazione.L’irrealtà anche.E fra le due scorre un fiume di specchiche non figura in nessuna mappa.

In questo fiume tutte le leggi si dissolvono,ogni infrazione diviene un altro specchio.

Da Poesía Vertical,Emecé, Buenos Aires,2005.

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Kabul, 12 luglio 2010

G. mi dice che un amico afgano gli ha raccontatodi un altro amico afgano il cui figlio è stato rapito“accidentalmente”. I rapitori, pare, si sono accortidell’errore quasi immediatamente e hanno chia-mato il padre del ragazzo per dirgli cos’era suc-cesso. “Ci dispiace molto eccetera, ehm, è statoun incidente, vorremmo restituirle suo figlio,però non possiamo semplicemente lasciarlo an-dare perché, ehm, sembrerebbe un po’ strano.Facciamo così, lei ci paga solo le spese vive delrapimento e noi lo restituiamo subito…” Sembrache le spese vive di un rapimento qui ammontinoa circa 10.000 dollari, e si tratta soltanto dellespese per mobilitare tutta la gente coinvolta. Ilpadre del ragazzo ha accettato di pagare - rivolevasuo figlio - ed è stata concordata una modalità diconsegna relativamente semplice, in una zona de-serta, lontana da qualsiasi città. Lì è apparso unconvoglio di una ventina di Landcruiser che, pro-prio come nel film in cui Leonardo di Caprio im-persona un agente straniero, hanno cominciato agirare in cerchio sempre più velocemente, solle-vando un muro circolare di polvere che ha ma-scherato il ritiro dei soldi e la consegna delragazzo rapito. […]

Sono al supermercato afgano Spinney’s e misento come una ragazzina: attratta dal reparto co-smetici, lascio P.M. a chiacchierare con uno deicomandanti della polizia, anch’egli impegnato afare la spesa. Mi chiedo se dovrei andare a salu-tare, mostrare interesse ed essere socievole, madecido che è meglio se mi tengo fuori dai “di-

Karen Woo

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scorsi da uomini”, e poi mi sto divertendo troppoa guardare i colori degli smalti per unghie. Nonce ne sono poi tanti fra cui scegliere, ma abba-stanza da occupare quella parte del mio cervelloche si diletta con questo genere di frivolezze; peralmeno dieci minuti sono completamente assortain questa attività. Questi piccoli piaceri… Mielettrizza scoprire che il negozio vende delle vereforbicine per unghie, una limetta e una pietra po-mice, e impazzisco di gioia quando mi offrononon uno, ma addirittura tre tipi diversi di ma-schere per il viso. Più tardi P.M. mi dirà che ilcomandante si era offerto di pagare per i miei ac-quisti, ma, secondo lui, in realtà il comandantenon paga niente quando va al supermercato.

Sono a casa, sotto la doccia, e sto pensando alleripercussioni negative che potrebbe avere portarelo smalto per unghie in una spedizione medicain una remota area montuosa dell’Afghanistan.Lo so, è ridicolo, ma ho passato svariati minutidi tensione a soppesare le conseguenze del fareamicizia con le donne del villaggio parlando diCrimson Lake o Buttercup Baby, per poi ren-dermi conto che lo smalto per unghie è conside-rato un accessorio diabolico, o come minimo ilsimbolo di una prostituta, e che le mie azionisono passibili di pena di morte. Rifletto se nonusarlo nemmeno io, ma poi decido che le dita deipiedi nude sono un errore e che posso rischiarecon un colore neutro. […]

Atlanta, Stati Uniti, 15 luglio 2010

Sì, mi sono fatta altri due piercing all’orecchiodestro. Ne volevo uno solo, ma in qualche modo

Joy Braimah

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mi sono fatta convincere a farne due. Mi sembrafico. Veramente volevo un piercing nel trago, mala signora ha detto che bisognava farlo in unostudio di tatuaggi, invece eravamo al centro com-merciale. È stata una cosa d’impulso, perchéquando siamo andate al centro commerciale l’ul-tima cosa che avevo in mente era un piercingall’orecchio, anche se era già da un po’ di tempoche stavo pensando di farmi fare qualche altropiercing. Avevo lasciato perdere del tutto l’ideadel piercing all’orecchio e volevo farmi fare in-vece un piercing all’ombelico, ma alla finepenso che sia fico lo stesso. Non è perfettamenteallineato sul retro dell’orecchio come mi sarebbepiaciuto, ma bisogna dire che quando mi ha fattoil primo buco ho fatto un movimento brusco,perché il dolore è stato uno shock per il mio si-stema nervoso. Ho una sopportazione moltobassa del dolore. Però mi piace. Poi le borchiesono rosa. Proprio fico.

San Salvador, 16 luglio 2010

Ecco l’eterno slogan con cui cresciamo, che ci ri-petono le telenovelas, i film, la famiglia, le cop-pie: “uniti, infelici ma uniti”, oppure “dopo tantasofferenza, il premio è un per sempre”, come ciinsegnava nei suoi scritti la signorina Corín Tel-lado (unico vizio di lettura di alcune e alcuni chehanno anche quello di comprare le riviste che det-tano cosa è “in” e cosa è “on” in fatto di abbiglia-mento, sesso, cibo, cose da avere ecc. ecc.).Se è certo come che questa mattina di luglio misono svegliata alle 6 e sono andata direttamentein palestra, non lo so, credo di non essere esperta

Kuala Lumpur, Ma-laysia. Il concorso sichiama “ImamMuda”, “GiovaneLeader”, ed è un’in-cursione malaysiananella reality TV a temareligioso. Fra i premispettanti al vincitore visono un posto di la-voro da imam, unaborsa di studio in Ara-bia Saudita e un pelle-grinaggio tutto inclusoalla Mecca. Lo show,che ha esordito inmaggio con dieci con-correnti, ha ottenutoun seguito impressio-nante tra i giovanidella Malaysia.

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Maria Ofelia Zuniga

È nata UN Women,l’agenzia dell’Onuper le donne. La pre-siede Michelle Bache-let, ex presidente delCile.

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in quasi niente, e tanto meno nelle questionid’amore, però oggi, mentre ci muovevamo tra gliattrezzi e le aree di relax, ho sentito (senza vo-lerlo…) una conversazione tra due donne e […]non ho potuto evitare, primo, di ascoltare, e se-condo di chiedermi: “Eh?”. Il dialogo si è svoltopiù o meno così […]:“Non è venuta la Tizia?” (La chiamo così perché,come sappiamo, il mondo è piccolo…) “No, nonsai che si è sposata?” “Ah sì, ho sentito, ma pen-savo che avrebbe continuato a venire.” “No,quando ci si sposa finiscono molte cose, bisognastar dietro alla casa, al marito e al lavoro, poi ar-rivano i figli, i problemi, gli obblighi… non ri-mane tempo per il resto… se io vengo anche dopodieci anni di matrimonio è perché me lo ha pre-scritto il medico.” “Sì, certo, è vero, però io noncredo di avere voglia di rinunciare a me…”Ecco, se dicessi che ho continuato ad ascoltaresarebbe una bugia: a questo punto della conver-sazione la mia mente già divagava. Forse è statol’attrezzo che stavo usando, ma mi è venuto uncapogiro, e da quel momento non ho fatto chepensare “però io non ho voglia di rinunciare ame”. […] Non avendo alcuna esperienza in ma-teria, suppongo che la mia opinione non conti,però […] credo che in molti casi (ok, la maggio-ranza…) le cose stiano davvero così: “madre,sposa, amica, amante, cuoca, governante, lavan-daia, stiro bene e lo faccio gratis, lustrascarpe,infermiera, organizzatrice e amministratrice delbilancio famigliare, compagna di lotta, aiutante,autista, quella che va al supermercato, al mer-cato, quella che tratta con la collaboratrice do-mestica, con il giardiniere, con il vicinato, con i

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poliziotti, organizzatrice di feste, buona ascolta-trice di problemi, preparamerende, organizza-trice di passeggiate, che inoltre (in molti casi) haun lavoro come minimo dalle 8 del mattino alle5 di sera, tanto per dire”. E a che ora una si ricorda che continua a essereuna e che a quell’una piace(va) essere una ebasta? […] Devo dimenticarmi di me stessa per-ché gli altri possano vivere? […] “Un giorno erouna persona cui piaceva fare cose per sé comeandare in palestra, uscire per qualcosa che nonfossero commissioni per qualcuno della fami-glia, fare shopping, fermarsi a ‘bere qualcosa’,andare a prendermi un sorbetto e mangiarlo len-tamente passeggiando, uscire per una birra eberla in un bar con gli amici parlando della vitae dei suoi casi, mi piaceva camminare, correre,viaggiare, giocare a calcio, andare in moto, pas-seggiare in un parco, cucinare per mangiare benee non per obbligo, gridare allo stadio, ridere persciocchezze con gli amici e le amiche, ogni tantouscire da sola, vedere un telefilm alla tele, an-dare al cinema a vedere un film non per bambini(non che quelli per bambini siano male, però…), ascoltare musica, sognare, camminare manonella mano col mio compagno senza correre danessuna parte, fare l’amore con delle pause esenza fretta o con frenesia ‘ma farlo’, a volte erocontenta, altre ero stanca, stufa e ne ero co-sciente, ma non ho mai pensato di essere una cat-tiva persona nel sentirmi così, però poi mi sonosposata e adesso…” Sarà davvero così? No, non lo credo e per fortuna ho dei buoniesempi che mi confortano. Non so davveroquanto sia facile o difficile, ma credo che sia ne-

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cessario e allo stesso tempo giusto che, nono-stante le esigenze e le aspettative del mondo, cisi possa riservare il diritto di continuare a esserecome siamo e che in mezzo alle infinite attivitàche richiede la vita in sé, e ancor più la vita incoppia o in famiglia, ci sia uno spazio per restareconnesse/i a questo luogo particolare in cui unadonna è una donna e basta, senza che siano iruoli e le responsabilità a definire e decidere“come dobbiamo essere”. O no?“Devi imparare a essere una donna di casa” miricordo che dicevano mentre crescevo. Donna dicasa? Personalmente mi fermo a donna e già neho abbastanza per tutta una vita (e anche perqualche altra, forse…), e se un giorno decideròcon qualcuno di addentrarmi nell’avventura dellaconvivenza “a due” spero, prego la Dea in cuicredo, incrocio le dita e lancio una moneta nelpozzo dei desideri: che sia prima di tutto non unarinuncia ma una continuazione e poi, già che cisiamo, che la decisione venga presa con il chiaropresentimento di potere, insieme, potenziare lecose buone, di voler dividere gli impegni, chenon tutto andrà bene ma che, allo stesso tempo,non tutto andrà male…Camminando fianco a fianco credo che, sforzan-dosi, con il tempo si impara chi è e chi non è lapersona che abbiamo vicina, e in questo cam-mino è una fortuna se, nonostante molte cose, siriesce a trovare il modo per continuare ad ammi-rarsi, accettarsi, amarsi, tollerarsi, rispettarsi eincoraggiarsi perché, anche in mezzo a tanta vi-cinanza e intimità, si possa continuare a esseredue che si aiutano a vicenda a restare ciò chesono, senza mai voler morire uno per l’altro, ma

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invece vivendo facendosi carico ciascuno del suoe gustandoselo assieme… Per quanto mi riguarda, ho detto.

Arctic Bay, Canada, 18 luglio 2010

All’improvviso, troppo all’improvviso, sembrache l’estate stia per finire. Il ghiaccio sulla baiasi è ritirato un paio di settimane fa (presto), e sista ritirando velocemente anche sull’AdmiraltyInlet. Ricordo la prima estate che ho trascorsoqui; mi sono meravigliato con qualcuno del fattoche finalmente il ghiaccio se ne fosse andato emi sono sentito rispondere: “Sì, l’inverno è pro-prio dietro l’angolo”. I piccoli di zigolo delle nevi hanno fatto la lorocomparsa e sembra che tutti i trampolieri ab-biano fatto la cova e in giro ci sono un bel po’di uccellini che hanno appena messo le piume.Le uova del nido di corriere grosso che ab-biamo trovato la scorsa settimana si sonoschiuse ieri. Sfortunatamente proprio dove sta-vano giocando i bambini, che hanno scopertogli uccellini. Spero che sopravvivranno a tuttele loro attenzioni. A quasi un mese dal solstizio, il sole è ogni seraun po’ più basso e a mezzanotte getta ombresempre più lunghe. Tra poco più di due setti-mane comincerà a tramontare e scivoleremo ve-locemente verso il tramonto invernale. Non socome mai il tempo sia trascorso tanto in fretta. Gli uccelli migratori del sud sembrano arrivatisolo da una settimana e adesso sono già sulpunto di andarsene. L’autunno non è ancora ar-rivato, ma uno di questi giorni farà la sua com-

Clare Kines

Haiti. Sei mesi dopo ilterremoto, solamente28.000 del milione emezzo di sfollati hai-tiani possiedono unacasa nuova, e a Port-au-Prince si continuaa vivere fra le rovine.

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parsa all’improvviso. E non a tutti dispiace: daquando la neve ha iniziato a scomparire Leah esua sorella non fanno che parlare della stagionedei mirtilli. […] Sì, l’estate sta rapidamente scivolando versol’autunno, e in questo luogo di sublime bellezzail costante affievolirsi della luce non fa che ac-centuare questo passaggio. E lo splendore e latranquillità di sere come questa danno l’impres-sione che l’inverno sia molto più lontano diquanto non sia in realtà.

Kabul, 20 luglio 2010

Allora, sono indaffarata a preparare il viaggio nelNuristan e intanto cerco di giostrarmi nel caosche è Kabul. Non so come abbiamo fatto a nonpensare che spostando il viaggio di qualchegiorno ci saremmo trovati nel bel mezzo dellaConferenza di Kabul: l’enorme incontro interna-zionale delle potenze mondiali per parlare del fu-turo dell’Afghanistan. L’intera città è in stato diemergenza e qui dove siamo noi, a Wasir AkbarKhan, ci sono a ogni angolo di strada carri ar-mati, blindati e soldati, uomini dell’intelligence,della polizia e dell’esercito afgani, ognuno nellapropria uniforme; e nessuno va da nessuna parte,se non in qualche Spinney, i re dei supermercati,che restano aperti qualunque cosa succeda. Su-permercati: tenete duro!Ieri sera ho dovuto essere soccorsa a casa mia daP.M. e Tariq che, partiti in missione, hanno at-traversato la città in macchina per farmi evaderee riportarmi qui. Mi è dispiaciuto abbandonareil mio roseto, i cinque gatti, le due tartarughe e

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gli svariati conigli che saltellavano fuori sulcampo da pallavolo. S., M. e Leg Roll stavanodiscutendo su quali eliminare; varie conigliettesono incinte e si teme una vera e propria esplo-sione demografica. […] Stupidamente, ho sottovalutato che cosa sarebbesuccesso qui, con nessuno che può muoversi e inegozi chiusi per due giorni. All’ultimissimo mi-nuto, come sempre, mi sono fatta fare a Qualai-fatullah un vestito da sera e un po’ di maglieetniche per il viaggio. Un giorno imparerò a nonfare tutto all’ultimo momento. Sento benissimoquello che dite, le priorità ecc., e in effetti pro-babilmente non dovrei preoccuparmi di un ve-stito da sera al momento, ma in fondo, cosa devefare una ragazza? […]Ieri sera P.M. mi ha detto di avere sentito varieforti esplosioni in lontananza; sembra che iofossi immersa nel computer e non abbia sentitoné le esplosioni né lui che ne parlava. Ripetutilanci di razzi sull’aeroporto… e noi che aspet-tiamo di poter partire da lì. Avevo ricevuto variaggiornamenti via email sul procedere dei vei-coli e fino a quel momento tutto stava andandobene, non avevano avuto problemi ed eravamonei tempi per il nostro appuntamento su a nord.Un paio di giorni fa abbiamo scoperto che sulpasso c’è ancora molta neve e che i cavalli nonsaranno in grado di fare tutto il percorso. Ave-vamo previsto che la maggior parte della nostraattrezzatura (e ce n’è molta) sarebbe stata tra-sportata dai cavalli, e adesso, quando i loro zoc-coletti non potranno andare oltre, dovremotrascinarcela noi su per il passo. Mi vedo da-vanti l’immagine di un caotico gruppo di per-

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sone che arranca nella neve a oltre 4800 metridi altezza, ma sembra così distante e indolorementre me ne sto seduta alla mia scrivania aKabul… So che sarà dura, ma adesso proprionon riesco a immaginarmelo.In ossequio alla Conferenza di Kabul l’aero-porto e le strade circostanti sono completa-mente chiusi. Ci sono un’infinità di personeimportanti in arrivo, tra cui anche Hillary Clin-ton, che sembrava davvero un uomo travestitoda donna quando l’ho vista in televisione. […]La maggior parte del tempo ascolto i politici inTV come se fossi autistica, avete presente?Come se capissi all’istante quando qualcuno stamentendo spudoratamente o sta solo comuni-cando una serie di stronzate, deliberatamentecondite con termini fatti apposta per nascondereche dentro l’aria fritta che vende non c’è nulladi nulla. A socchiudere un po’ gli occhi e ascol-tare le parole e basta, il bambino o il cane den-tro di voi, quella parte innocente che sa ancorariconoscere la differenza, aguzzerà le orecchiee dirà: “Quello lì mi sta offrendo qualcosa chesembra cibo, ma quando andrò a mangiare miprenderà per le zampe e mi strizzerà fino afarmi male; meglio che non gli dia ascolto”.Sono dibattuta, dunque, ma mi ritrovo lo stessoad accendere la TV e ascoltare le stronzate divarie persone piene di sé.Fortunatamente per me, invece di politici noiosi,la storia del giorno è quella di un cucciolo di or-nitorinco innamorato: è un servizio della BBC daSydney, Australia, dove un ornitorinco che sisentiva solo ha nuotato fino a un impianto di trat-tamento di liquami. “Questo piccolo ornitorinco

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si era rifugiato in una grossa condotta collegataa un serbatoio e si temeva che l’affettuoso mam-mifero oviparo semi-acquatico potesse soffriredi ipotermia…” […]

Da “Il paradiso terrestre”di Elsa Morante

Le scritture, narrandoci la cacciata di Adamo dal-l’Eden, non fanno gran conto di un particolareche il sacro Autore della Genesi considera certonon abbastanza importante: e cioè dell’estremaprova di misericordia che, pur nella severità, ilPadre Eterno dette all’uomo, lasciandogli la com-pagnia degli altri animali, i quali non avevano,come lui, mangiato il frutto della scienza. Come tutti sanno, nel gustare questo frutto,l’uomo acquistò la conoscenza del bene e delmale, vale a dire la capacità di giudizio. Ma glialtri animali rimasero immuni da simile capacità:è questo il carattere più amabile che distingue glialtri animali dall’uomo; ed è qui che risiede so-prattutto la grazia della loro compagnia. Nellaquale noi ritroviamo un poco dei piaceri, e dellusso impareggiabile, che ornavano le festedell’Eden perduto. E ci spaventa pensare quantoamaro sarebbe il nostro esilio se non ci fosse ri-masta questa consolazione.Una consolazione non dissimile è pure concessaagli adulti della specie umana durante la primis-sima infanzia dei loro nati. Ma su questi, pur-troppo, ad ogni giorno che passa, sempre più

In Pro o contro labomba atomica e altriscritti, Adelphi, Mi-lano, 1987, pp. 19-20.

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l’albero della scienza del bene e del male stendela sua ombra. Ed è quest’ombra che oscura le no-stre più care conversazioni coi nostri simili.

San Salvador, 21 luglio 2010

Non è un ladro né un aspirante pastore evange-lico, né tantomeno l’ennesimo venditore di bi-scotti. Vende, sì, o almeno ci prova, ma lo fa conun certo swing. Ha un dono. È appena salitosull’autobus della linea 52 alla fermata vicina alPalazzo del Governo, lungo viale Juan Pablo II.È ben vestito, pulito. Jeans, maglietta, cappel-lino, come qualunque giovane di poco più divent’anni. Passerebbe inosservato se non fosseper quella specie di coperta appesa alla spalla,di un arancione vistoso, che gli serve per portaredue dozzine di quotidiani mezzo arrotolati. Pas-serebbe inosservato, ma in questo momento è lacosa che meno desidera. Lui vuole vendere indue minuti “El Mundo”, un giornale salvadore-gno di quelli mediocri, di quelli che non è facilevendere. È salito per ultimo e, non appena l’au-tobus parte, porge cinque o sei esemplari a pas-seggeri a caso.“Buonasera, gentili passeggeri. Sono qui per por-tarvi il quotidiano ‘El Mundo’. Guardate, guar-date com’è completo oggi. Qui potete leggeredella controversia sul gas, ché c’è chi dice di sìal sussidio e chi dice di no, ma quello che sen-z’altro è chiaro è che non sono 11 dollari comevi hanno detto, sono quasi 15 dollari quello chevi verrà a costare la bombola del gas adesso!Qui è più chiaro. E poi, notizia dell’ultim’ora:hanno catturato il venezuelano Peña Esclusa!

Roberto Valencía

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Alejandro Peña Esclusa è stato catturato! Guar-date!” e mostra, orgoglioso, il giornale apertonella sua interezza. “A quanto pare qui, in Sal-vador, c’era una rete bella completa, non era soloChávez Abarca, non era un solitario. Era un com-mando radicato qui, nel Salvador. Qui è piùchiaro, guardate. E quest’altra storia, guardate,la storia di questo pover’uomo, salvadoregno, diSoyapango, che racconta qual è stata la ragioneche lo ha spinto a commettere quell’errore, sa-pete?, a dare ai suoi figli tortilla fatta con semiavvelenati. E la cosa più grave, dice, è che qua-lunque padre avrebbe fatto lo stesso. Guardate inche condizioni estreme si vive nel nostro paese.Bene, se volete il giornale, potete averlo. Sono25 centesimi, e ci sono anche altre notizie. Vi in-teresserà, davvero. E solo per pochi spiccioli.Grazie.”Un minuto e 51 secondi. Nessuno compra niente.Ma, senza dubbio, lui sa quello che vende, e mi la-scia la sensazione che ci sia chi, per la sopravvi-venza della carta stampata, fa più delle stesseaziende giornalistiche. E degli stessi giornalisti.

Atlanta, Stati Uniti, 22 luglio 2010

Ho appena visto il matrimonio di Jim e Pam in TheOffice e volevo così tanto… sposare quello che amoe che mi ama altrettanto. Strano, perché proprio oggiho detto a qualcuno che di sposarmi non m’impor-tava niente, e parlavo sul serio. Immagino che siacosì avere quel desiderio. Spero che sia passeggero,perché in questo momento non posso fare sogni delgenere. Capisco perché dicono che la TV fa male, timette in testa dei pensieri.

Joy Braimah

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Roma, 24 luglio 2010

Sono in vacanza in Italia con la mia famiglia,ma devo dirvi che cosa il ministero degli Esteriha mandato a mio marito. Sembra che abbianoun nuovo servizio che invia ai guardiani maschiun messaggio ogni volta che un “dipendente”lascia il paese. Mio marito mi dice di avere ri-cevuto lo stesso messaggio quando sono andatain Germania. Sono una donna adulta che si gua-dagna da vivere da oltre dieci anni ormai, masecondo il governo saudita sarò dipendente finoal giorno della mia morte solo a causa del miogenere. […]

L’Avana, 29 luglio 2010

L’altro giorno sono stata invitata a cena a casadi un’amica e alla fine della serata mi sono ritro-vata depressa a causa dello scontro tra due gene-razioni, genitori e figli: una che tace per rispettodegli anziani e l’altra che offende per la sua ideo-logia assolutista.Mentre La tavola rotonda animava il comple-anno della mia amica (lo zio non ha avuto la sen-sibilità di spegnere la televisione), la madrefaceva commenti terroristici sul futuro degli StatiUniti e i coniugi di entrambi tentavano comebambini di cambiare argomento, non so se persolidarietà con i più giovani o semplicemente perbuon senso: era una festa. La mia amica avevadue possibilità: dire la sua e trasformare la festain un funerale di urla e intolleranza, oppure ta-cere e dedicarsi alle patate fritte.

Claudia Cadelo

26 luglio. Wikileaksdiffonde una serie dirapporti del Penta-gono sulla guerra inAfghanistan. Docu-mentano stragi di ci-vili mai giunte aconoscenza dell’opi-nione pubblica, ese-cuzioni capitali senzaprocesso, il rafforza-mento di Al Qaeda,incontri promossi daiservizi segreti paki-stani tra esponentipolitici del paese ecapi talebani.

Eman Al Nafjan

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Ha scelto la seconda. La sua famiglia non è parsarendersi conto dello strano silenzio della festeg-giata per tutta la sera. Tra gli scambi di idee - “ilsocialismo è l’unica via”, “tutti questi mercenaridovrebbero marcire in galera”, “non so comefaccia Obama a dormire tranquillo”, “l’UnioneEuropea e l’Impero un giorno la pagheranno”,“Fidel ha sempre avuto ragione” - si passavanodi mano in mano i moduli e i documenti che ilgiorno seguente avrebbero presentato al Conso-lato spagnolo per chiedere la cittadinanza di quelpaese europeo, e le donne commentavano la te-lenovela messicana in onda alla televisione viacavo che hanno illegalmente in casa.Per tutto il tempo ho provato un sentimento diprofonda pena per questi strani militanti delPartito comunista cubano, dalla morale cosìsfacciata, l’ideologia ambigua e l’intransi-genza senza limiti. La loro cecità non gli per-mette di vedere l’enorme abisso che li separadalla generazione cui hanno dato la vita: sonosoli, talmente soli che neppure i loro figliosano illuminargli il cammino.

Mosul, Iraq, 29 luglio 2010

Sono tornata da Baghdad un paio di settimanefa, dopo avere trascorso due settimane a casa deimiei nonni. La nonna soffriva di un grave pro-lasso discale, è rimasta a letto per un mese emezzo e deve restarci ancora per altri due mesi.Quindi ho passato tutto il tempo a fare i lavoridi casa, pulire e cucinare. La mia abilità in cu-cina è migliorata! Siamo anche andati tre voltea fare shopping, e una volta siamo andati in un

“Sunshine”

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bel parco dove mio fratello e mia sorella hannogiocato; è stato bello. Mi è sempre piaciuta Ba-ghdad, ho dei ricordi bellissimi lì, e mi fa malevederla cambiata in modo così drammatico:facce inquietanti, strane lingue, costumi bizzarrie tradizioni bislacche!Mentre eravamo lì gli sciiti hanno tenuto una ce-rimonia per piangere la morte di Al Kadhem,avvenuta 1400 anni fa o giù di lì! Camminanoverso la sua tomba per ore e giorni! Sono libe-rissimi di praticare quello in cui credono fino ache ciò non comincia a influire sulle nostre vitee non ci fa sentire così arrabbiati verso le lorotradizioni. Hanno una cerimonia speciale comequesta quasi ogni mese, ognuna dura più o menouna settimana, e la situazione diventa terribile:strade chiuse, sporcizia dappertutto (lattine,cibo, bottigliette d’acqua ovunque per la strada,siccome il cibo è gratis!), cui si devono aggiun-gere DJ rumorosi e bandiere nere che rovinanoil panorama di Baghdad. Tutto si ferma, i titolaridei negozi devono chiudere i loro esercizi, e lepersone (come noi che non partecipiamo) diven-tano ostaggi nelle loro case, perché uscire è im-possibile.Mentre eravamo a Baghdad siamo andati a fareshopping. Ci sono muri di cemento ovunque, madietro di essi, per fortuna, ci sono ancora i beinegozi di Baghdad. Alle dieci e mezza di serasiamo entrati in un negozio che aveva abiti dav-vero favolosi. Mia mamma, mia sorella e io neabbiamo comprati diversi, e siamo rimasti nelnegozio una quarantina di minuti. Quando siamousciti, dietro i muri di cemento la visione erascioccante: nessun cliente, nessuna auto, benché

28 luglio, New York.Un’influente organiz-zazione ebraica,l’Anti-DefamationLeague, dichiara lasua opposizione allaproposta di aprire uncentro islamico e unamoschea due isolati anord di Ground Zero,proposta su cui infu-ria negli Stati Unitiun acceso dibattito. Alriguardo Obama, il10 settembre, dirà:“Questo paese so-stiene che tutti gli uo-mini e le donne sonocreati uguali, chehanno alcuni inalie-nabili diritti. E quelloche questo significa èche se puoi costruireuna chiesa in unposto, puoi costruireuna sinagoga in unposto, se puoi co-struire un tempio indùin un posto, alloradevi poter costruireuna moschea in quelposto”.

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solo un’ora prima tutto fosse normale. Dopo ilnostro arrivo i soldati, in vista delle loro “tradi-zioni religiose”, che avrebbero avuto luogo pochigiorni dopo, hanno iniziato a chiudere le stradecon filo spinato. Un soldato sciita ci ha visticamminare e, chiamando mio nonno che non tro-vava più la strada per riportarci a casa, ha detto:“Non lasceremo più entrare le vostre auto in que-sta strada! Sarà riservata solo ai makaweb (i par-tecipanti alla cerimonia)”. Mi è venuta voglia didargli un pugno.

Karkur, Israele, 2 agosto 2010

Stamattina ho passato un po’ di tempo a riordi-nare gli scaffali dei miei libri, il che, apparente-mente, non è una cosa terribilmentesignificativa. Spostare libri di qua e di là non ègranché eccitante, come non lo è metterne via al-cuni in un ripostiglio per fare spazio ad altri. Ameno che, naturalmente, i libri che stai impi-lando con cura nello sgabuzzino non siano quellidella tua gravidanza, che tu stai mettendo viaperché sei più o meno giunta alla conclusioneche, prevedibilmente, non ti serviranno più. Per tanto tempo, dopo la nascita del Ragazzo, horifiutato perfino la possibilità di avere un altrofiglio. Dopo tutto, avevo avuto una gravidanzadifficile e un parto complicato, che avrebbe po-tuto costarmi la vita. Avevamo provato ad avereun figlio per nove anni, e ora che ci eravamo fi-nalmente riusciti non potevo neanche immagi-nare di ricominciare un’odissea del genere. Lagravidanza mi aveva prosciugata dal punto divista emotivo, il parto mi aveva terrorizzata, e la

Liza Rosenberg

1 agosto, Pakistan. Acausa di piogge mon-soniche eccezionali, illetto del fiume Indo siallarga da uno a ven-tiquattro chilometri.Le acque spazzanovia un numero impre-cisato di villaggi e diquartieri cittadini. Lepersone colpite dallatragedia sono oltreventi milioni, e imorti, sembra, decinedi migliaia. Le inon-dazioni sconvolgonoanche zone dell’Af-ghanistan, della Cinae della Corea delNord.

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prospettiva di sfidare la sorte cercando di avereun altro figlio era qualcosa di troppo spossanteda prendere in considerazione. […] A un certopunto mi sono resa conto che forse sarebbe statobello avere un altro bambino, ma non ero prepa-rata a prendere misure straordinarie per questo.Se fosse capitato, bene. […] Intanto la mia collezione di libri sulla gravi-danza, dal consueto Cosa aspettarsi… a librisulle gravidanze ad alto rischio, restava sullemensole, e con il passare degli anni e lo spe-gnersi dei pochi barlumi di speranza rimasti, hoiniziato ad accettare il fatto che un altro figlionon sarebbe capitato. Non ci avevo ancora rinun-ciato ma, detto questo, i miei sentimenti eranoancora ambivalenti. C’erano momenti in cui vo-levo un altro figlio più di qualsiasi altra cosa,altre in cui non lo volevo assolutamente. […] Inmezzo a tutto ciò, i libri restavano al loro posto.Fino a oggi, perché a quanto pare oggi è il giornoin cui mi sono arresa. Non è stata una cosa pre-meditata; mettere a posto gli scaffali é stataun’attività del tutto non programmata, dovutasolo all’improvviso crollo sul pavimento del con-tenuto di una delle mie mensole, cosa che mi halasciata senza altra scelta che mettere a posto ilcasino. Le cose sono state smistate in vari muc-chi, libri, riviste, quotidiani ecc., e a ogni muc-chio è stata assegnata una nuova dimora. Mentre li separavo, mi sono messa a fissare ilibri sulla gravidanza. E mi sono resa conto, conun’acuta fitta di tristezza, che forse era giunto ilmomento di metterli via. Erano rimasti su quelloscaffale in fondo, nell’angolo destro, per anni, araccogliere polvere e portare via spazio, mentre

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ancora mi aggrappavo alla possibilità che si pre-sentasse l’occasione per riaprirli. Lasciarli suquello scaffale era simbolico, perché lì erano fa-cilmente accessibili; al presentarsi della neces-sità, avrei potuto prenderne subito uno. Oggi,con riluttanza, ho accettato che verosimilmentequesta necessità non si presenterà, che con tuttaprobabilità non daremo a nostro figlio un fratel-lino o una sorellina. Uno per uno, ho tolto queilibri dallo scaffale, li ho portati giù per il corri-doio e, con sentimenti contrastanti, li ho messiin alto in un ripostiglio con tutti gli altri libri chenon prevedo di riaprire a breve o mai.Rinunciare a qualcosa fa sempre sentire strani:forse, se alla fine siamo riusciti ad avere nostrofiglio, è stato perché era più facile continuare aprovarci che rinunciare, perché fino a che conti-nuavamo a provarci, significava che ci spera-vamo ancora. Oggi ho messo via quei libri e,benché la possibilità che possano ancora ser-virmi in teoria c’è sempre, la speranza - come ilibri - non c’è più.

Shanghai, 2 agosto 2010

Ieri mi trovavo a Shanghai, alla festa di comple-anno di un bambino, con mia figlia di due annie mezzo, e ho incontrato una donna originariadell’Europa orientale. Una donna apparente-mente in gamba, che vive a Shanghai da cinqueanni, è sposata con un tizio nato in un paese di-verso dal suo, è madre di una bimba di un annoe a settembre partorirà per la seconda volta. Unatipa tosta, no?Dunque, scambiamo quattro chiacchiere. Il so-

Kristin Bair O’Keeffe

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lito dialogo fra espatriati: “Da quanto vivi qui?È il tuo lavoro che ti ha portata qui o quello dituo marito?”. Bla, bla, bla. Qualche bambino cioltrepassa correndo. La donna mi chiede: “Qualè il tuo?”. Io indico Tully, proprio quando lei siferma strillando di fronte a me. “Quella.” Ladonna ha un sobbalzo. “Quella?” ripete indi-cando Tully come fosse del tutto assurdo chequella possa essere mia figlia. “Già, questa” ri-peto io, indicando ancora una volta Tully che, aquesto punto, è avvinghiata alle mie gambe.Essendo piuttosto avvezza al tono “adesso-que-sta-spara-una-cazzata-sull’adozione”, sapevoche avrei dovuto prendere in braccio Tully e an-darmene a casa… o, quantomeno, filarmela inun’altra stanza. Ma, prima che potessi muovereun passo o pronunciare una parola, la donnabutta indietro la testa e scoppia a ridere. Poi fa:“Chi è suo padre?” “Prego?” ribatto. Ma poi, perqualche ragione, invece di prendere a pugni infaccia quella donna tutt’altro-che-in-gamba (ilche era esattamente ciò che avrei voluto fare),finisco per spiegarle che mio marito è irlandesee che abbiamo adottato Tully in Vietnam. Intutto questo, Tully se ne sta lì, con lo sguardoall’insù, abbracciandomi le gambe e ascoltandoogni cosa.Poi la donna rilancia: “Oh, mio dio, come ti seisentita quando ti hanno scaricato in braccio unabambina di un anno?” Avrei voluto rispondere:“Piena d’amore. Serena. Al culmine della gioia.Luminosa. Grata. Del tutto travolta. Spaventata.Proprio come qualunque altra madre del mondo,biologica o adottiva”. Invece sono rimasta sedutalì, sforzandomi di cacciare indietro le lacrime,

Un’ondata di caldotorrido investe la re-gione di Mosca e altrezone della Russia, fa-vorendo il dilagare diincendi che non ver-ranno domati finoall’arrivo di pioggeconsistenti agli inizidi settembre. Il fumogiunge alla strato-sfera, e la concentra-zione di ossido dicarbonio e polveriporta al raddoppiodella mortalità nellacapitale. Oltre a fore-ste, bruciano torbieree un’immensa disca-rica a cielo aperto, eil calore distrugge il20 per cento del rac-colto di grano, di cuiviene bloccatal’esportazione.

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perché tutto ciò cui riuscivo a pensare era: “Tullysta ascoltando questa stupida”.Ovviamente, quella donna non ne aveva abba-stanza. Ci studia per qualche minuto e riprende:“Tutto sommato, in qualche modo ti assomiglia.Magra. Viso allungato. Potrebbe quasi essere tuafiglia”. “Idiota,” avrei dovuto risponderle “è miafiglia.” E invece… sono rimasta paralizzata sullasedia, disorientata dalla sfacciata insensibilità diquella tizia. Il volto in fiamme per la rabbia e lamortificazione. […]

Bambinodi Sylvia Plath

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Il tuo occhio limpido è l’unica cosa infinitamente bella.Voglio riempirlo di colore e anatroccoli,dello zoo del nuovodi cui tu mediti i nomi -bucaneve d’aprile, pipetta indiana,piccolostelo senza grinze,specchio d’acqua in cui le immaginidovrebbero essere maestose e classichenon questo angosciatotorcersi di mani, questo buiosoffitto senza una stella.

da Opere, Mondadori, Milano, 2002, trad. di Anna Ravano

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Re del Venda (Padova), 2 agosto 2010

Soffio delicatamente sugli occhi chiusi di miofiglio, dopo avergli raccontato una favola. Faparte della magia materna: nella scia della miavoce, lui vedrà il buio e poi, sotto le sue palpe-bre, creature a colori attraversare il deserto finoall’oasi dentro cui brilla il tesoro. Guardo il pae-saggio del suo volto mentre respira con tenerezzache commuove. I bambini nel lager come en-trano nel sonno? Quelli di strada? I piccoli degliorfanotrofi infernali o delle carceri nel repartoergastolane? Quale ritmo ha l’aria notturna nellenarici dei bimbi dentro la guerra? A quest’ora icrampi della fame risucchiano l’ombelico diNassur, rannicchiato nella tenda nomade neipressi di Palmira, mentre a qualche chilometrodalla clinica pediatrica Emergency a Nyala, inSud Darfur, una guancia bambina distesa in terrasta divenendo terra.

Nel buio, canto tra me e me una ninnananna emi sembra che vocali e consonanti evaporinonell’aria, inquinandosi. Penso al sangue nellaneve, visto proprio questa mattina. Era tre-mendo: sprofondava come una scrittura fu-mante. Un altro agnello sgozzato per pasqua.Anche questa volta, l’innocenza verrà divorataboccone per boccone. E sia. Ma il comanda-mento per noi vecchi è praticare l’innocenza re-citando i nomi dei sacri agnelli.

Anna Maria Farabbi

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questa è una poesia soffiata dal mio fiato

dalla mia bocca uguale a una qualunque bocca primitiva concentrata tra i legni per accendere il fuoco

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Roma, 2 agosto 2010

Oggi in piscina ho nuotato tanto. E adesso misento stanca. Piacevolmente stanca. A pranzo misentivo una tartaruga. Tra il caldo e la stanchezzami muovevo lenta, con la foglia di lattuga chescrocchiava fra denti e palato. La lattuga è unadi quelle insalate che mette allegria. Chiara,piena d’acqua, rumorosa, si adatta a tutto. Dabambina avevo un criceto, Pelone, che adoravamangiare la lattuga. Io lo amavo moltissimo. Eroconvinta che avremmo messo su un circo: Se-rena e il suo Pelone! Il primo criceto acrobata!L’idea del circo l’ho sempre avuta. In balcone da

Serena Damiani

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io guardo il fiato della poesia come le sciamaneche leggono i nidi e la pancia delle uccelle in voloe come loro zitta senza vocabolario studio la madre degli elementitra le viscere dei morti io canto con lo stupore delle bambine che suonano le conchiglie del mare il guscio delle lumache di terra e dell’uovo

mi schiero scalza in piazza con tutto il corpoa fianco di mio fratello impastato

il suo squarcio di sangue nella nevemi comanda la parolal’onestà l’integrità la resistenzala giustizia e il diritto per tutti alla bellezza

le polveri di tritolo tra i binari sono diventate seminel vento

dedicato a Peppino Impastatoa quei valori dentro cui è morto ed è vivo

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bambina ho addestrato non so quante formiche.Le formiche ballerine, acrobate e giocoliere! In balcone ho passato tante ore, da bambina. Ioin balcone. Mia madre seduta alla finestra. Sem-brava che per entrambe la vita, la vita vera, fossefuori e non dentro casa.

Arctic Bay, Canada, 3 agosto 2010

Ieri sera mi trovavo sulla riva del Marcil Lake,lo sguardo perso in lontananza. I bambini eranotutti presi dai loro tentativi di catturare qualchelarva di salmerino nei ruscelletti, Leah e sua so-rella erano andate in cerca di mirtilli. Mentre erolì, in piedi, di fronte allo specchio del lago, e legrida dei bambini svanivano dalla mia coscienza,mi sono reso conto di una delle ragioni per cuiamo questo posto.Le montagne in fondo ad Adam’s Sound eranoilluminate dalla tarda luce serale. Le poche nu-vole in cielo erano screziate di lilla e di rosa. Imiei occhi viaggiavano tra gli abissi dei canyone dei burroni, risalivano sfiorando le cime dellemontagne, e poi ridiscendevano nel fiordo. Nelladirezione verso cui ero rivolto difficilmente avreiincontrato un’altra persona nel raggio di centi-naia di chilometri. Mi sono sentito elettrizzato difronte all’enorme vastità di questa terra selvag-gia e incontaminata. Ho sognato di attraversarea piedi tutto quello spazio, fin dove riusciva adarrivare il mio sguardo, un’impresa impossibile.Vivo in uno dei pochi posti al mondo in cui esisteuna simile vasta distesa di natura allo stato sel-vaggio, quasi di fronte alla porta della mia casa.Un posto in cui potrei viaggiare per centinaia di

Clare Kines

L’eredità linguisticadell’Indonesia è inpericolo: un numerosempre maggiore difamiglie facoltose edell’alta borghesia sirivolge a scuole pri-vate, che si concen-trano sulla linguainglese e dedicanopoco tempo alla lin-gua indonesiana, co-nosciuta comeBahasa Indonesia.

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chilometri quasi in ogni direzione senza trovaretraccia della permanenza dell’uomo. Un luogoinconcepibilmente vasto. Una vera wilderness.Un luogo di una bellezza quasi indescrivibile,esaltante e maestoso in modo quasi indescrivi-bile. Ma a dispetto di tanta magnificenza non mi sonosentito piccolo o insignificante, direi piuttostofortunato. Non sono sicuro che questa sia la pa-rola giusta, ma ho sentito come qualcosa di piùsignificativo nel mio posto qui. Il mio posto qui,nella natura, non ammassato in una folla.William Beebe definì la wilderness “quell’anticafratellanza della natura in cui la presenza del-l’uomo è inosservata e la sua assenza non com-pianta”. Sono felice di attraversare questo posto,per lo più inosservato, sicuramente inosservatoda esso. Mi sento incredibilmente fortunato adavere avuto questa opportunità.Ma non ero inosservato da tutti attorno a me. Legrida dei bambini mi hanno riportato al mio an-golo in questo posto. Uno aveva preso una larvadi salmerino. Era ora di andare a dare un’oc-chiata.

Bologna, 9 agosto 2010

“Buonasera!” “Hallo”.Questo il resoconto completo delle mie conver-sazioni dal vivo, nell’arco di oltre quarantadueore di questo week-end, l’ultimo prima di quellodi Ferragosto. […] Sabato verso sera, sfruttando il giorno di riposo,ho deciso di uscire di casa, per fare uno dei mieiconsueti lunghi allenamenti di corsa in un orario

Francesco Selis (“Franz”)

5 agosto. Trentatré mi-natori rimangono in-trappolati a circa 700metri di profondità inuna miniera di rame eoro cilena. A inviare a

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del tutto insolito, con il vantaggio di non doveresopportare il sole e il caldo feroce del primo po-meriggio, visto che quest’anno l’idea di alzarmiapposta alle sette di mattina rappresenta un sa-crificio ancora più duro. Ho iniziato a correrepoco dopo le otto, e mi sono goduto così un me-raviglioso nitido tramonto sulla campagna neidintorni, la prima campagna che si impone gra-dualmente e decisamente sulla minacciosa pre-senza, laggiù, della tangenziale e dell’autostradaBologna-Ancona. Più deserte che mai le mie so-lite stradine; il cielo a occidente, con le sue stria-ture cremisi e carminio e fucsia, è spettacolare,ma vengo sorpreso da uno spettacolo che misembra ancora più insolito: il colore delle vicinezolle di terra, dalla parte opposta, che sembra vi-rare al rosa. Sciami di fastidiosi moscerini nonmi impediscono di togliermi la maglietta; non ècaldo, ma a quest’ora l’umidità fa ugualmenteun po’ sudare. E così affronto contadinesca-mente in pantaloncini corti e a petto nudo i grup-petti di gente-bene, abbigliata con eleganzamolto ricercata, che mi tocca intersecare all’al-tezza del circolo del golf, intenta a recarsi al ritocollettivo della cena, vociante con le tipiche in-flessioni aristocratiche. […] Doppiata finalmente la strada provinciale cherappresenta il punto più lontano del mio solitoanello, mi accorgo di un’altra presenza umanache mi precede, anch’essa indiscutibilmente apasso di corsa. Nell’avvicinarmi capisco trattarsidi una donna, e che la mia velocità, benché mo-desta, mi permetterà in breve tempo di superarla.Penso sia una olandese; ci dev’essere una piccolacolonia, appunto di uomini e donne olandesi,

tempo record tuttal’attrezzatura per illoro salvataggio sonoi minatori della Pen-nsylvania.

“L’Occidente diceche siamo terroristi eintolleranti, ma nelmomento del bisognosiamo noi a servire ilpopolo.” MaulanaYousaf Shah, leaderprovinciale delgruppo islamista Ja-miat-ulema-e-Islam,che sta fornendo aiutoai pakistani colpitidalle inondazioni.(“The New YorkTimes”, 7 agosto,“Citazione delgiorno”)

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ospiti di un agriturismo; ne ho incontrati diversevolte, intenti a camminare o a pedalare. Vista la si-tuazione così particolare, la mia prima preoccupa-zione è di rassicurarla sulle mie intenzionipacifiche. E così quando, appena avvertita la miapresenza, la vedo girarsi istintivamente indietro, ledico subito a voce alta: “Buonasera!”. “Hallo” mirisponde, senza darmi troppa confidenza. La su-pero cercando di evitare sguardi minimamente in-vadenti, poi allungo decisamente.La boscaglia intorno ai laghetti del ristoranterende ora il percorso quasi buio; chi è sempre vis-suto in città non è abituato alle tenebre, e ne su-bisce il fascino misterioso e un po’ inquietante.Ho voglia di rincasare, ora, mentre compare nellamente e si impone il ricordo di quando percorsicamminando nella notte questa stessa strada,quasi un anno fa, e quanto mi sembrò lunga, laprima sera che, dopo l’incidente che pose finealla carriera e alla strada della gloriosa “Cometa”(il mio primo taxi), mi recai a cenare a piedi finoal ristorante dei laghetti e ritorno.A passo di corsa, tuttavia, si esce presto dal trattopiù buio, e in breve tempo posso sperimentarel’antico sapore di una casa accogliente, nellanotte ormai iniziata.

Gaza, 10 agosto 2010

Ieri, in giro a condurre una ricerca sul campo perThe Gaza Kitchen, Maggie e io ci siamo imbat-tute in quella che pensiamo sia l’unica aziendaagricola “con certificazione biologica” di Gaza.Ora, prima di strabuzzare gli occhi, tenete contoche non si tratta di una novità, piuttosto di un ri-

Laila El-Haddad

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torno alle pratiche agricole tradizionali del pe-riodo precedente al 1948, quando all’improvvisovita e modi di guadagnarsi la vita furono brutal-mente sconvolti. Con la Nakba [la “catastrofe” della guerra e dellanascita dello Stato di Israele], l’industrializza-zione, la modernizzazione e l’occupazione cam-biarono tutto. La terra per l’allevamento furubata; gli stili di vita seminomadici si ridussero;poi arrivarono nuovi tipi di insetti e parassiti, cuifece seguito un uso incontrollato di pesticidi; in-fine, con il farsi imprevedibile dell’accesso allefrontiere per l’esportazione delle merci, molticontadini iniziarono a optare per un differenzialedi rischio tutto-o-niente, cercando di aumentarela produzione su quel poco o tanto di terra cheavevano e di vendere tutto quel che potevano ilpiù velocemente che potevano, al diavolo l’im-patto a lungo termine dei pesticidi sulla gente esull’ambiente. Abu Yasir non era fra loro. Cofondatore dei“Safe Agricultural Producers” con Majdi Da-bour, che ha studiato ingegneria agricola biolo-gica a Santa Cruz, in California, è convinto chela sua fattoria pilota rappresenti il futuro e, alungo termine, sia più produttiva e più sosteni-bile. “Qui gli insetti e gli uccelli sono i benve-nuti. Gli mandiamo inviti personali” scherza.Inizialmente il progetto era finanziato dal Nor-wegian People’s Aid e, per un breve periodo, altrisessanta agricoltori sono stati sovvenzionati eistruiti nelle tecniche di trattamento naturale deiparassiti, divenute molto popolari quando, acausa dell’assedio israeliano, procurarsi fertiliz-zanti e pesticidi è divenuto difficile. “Ma quandoil flusso dei finanziamenti si è fermato, si sono

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fermati anche loro” dice Abu Yasir. Molti, tuttavia, continuano ancora a seguire al-cune pratiche biologiche e due agricoltori, fra i“convertiti”, sono rimasti a lavorare al progettopilota. Fra le varie tecniche impiegate (come re-cintare l’azienda con file di piante di basilico eincoraggiare l’arrivo delle api, entrambi repel-lenti naturali di insetti indesiderati), la fattoriaproduce il suo concime e ha un sistema di rac-colta dell’acqua piovana. Se hanno dei clienti, racconta Abu Yasir, nonhanno “un mercato, né d’esportazione né d’altrogenere”. I clienti sono soprattutto privati che or-dinano per telefono, sul modello dei Gruppi diacquisto solidale, o vanno direttamente inazienda a “raccogliersi la roba”. Abbiamo incon-trato una donna, Sameera Hamdan, vedova emadre di otto figli, sopravvissuta a un cancro alseno dopo avere subito una mastectomia. Anchei suoi figli recentemente si sono ammalati peravvelenamento da pesticidi. “Per questo motivoveniamo a comprare la verdura da Abu Yasir” ciha detto raggiante con sei chili di pomodori inmano.I prezzi, ci ha spiegato Abu Yasir, sono più omeno gli stessi di quelli dei prodotti convenzio-nali: “La produzione per noi è più a buon mer-cato, solo, richiede più lavoro”.

Roma, 13 agosto 2010

Si avvicina. A me le date, le ricorrenze, gli ap-puntamenti mettono un certo disagio addosso.Ferragosto con il suo cocomero, i balli di gruppo,i fuochi d’artificio. Sembra la scena di un film.Un film già visto, di cui non ricordi bene la

Serena Damiani

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trama e nemmeno i nomi degli attori ma sai diaver già visto. E se di un film non ricordi latrama e nemmeno gli attori, mi sa che non era ungran film. A Roma c’è silenzio. Da diversi anni io e Marcoa ferragosto andiamo al centro. Ci piace mi-schiarci ai turisti. Guardarli fotografare e foto-grafarsi. Da un po’ di anni ferragosto mi piace.Sa di granita al caffè. Ed io adoro la granita alcaffè.

Riyadh, 15 agosto 2010

Da sedici anni a questa parte, durante il Rama-dan, pressoché tutte le famiglie saudite guardanoun programma intitolato Tash Ma Tash [“Nientedi speciale”]. È una satira della società saudita,e molto divertente. Diversi sceicchi, fra l’altro,l’hanno vietato come anti-islamico, specie percome vi sono rappresentati dagli attori queglistessi sceicchi.L’episodio di ieri è stato ancora più controversodel solito e ha sconvolto nel profondo la maggio-ranza dei miei connazionali maschi, conservatorie liberali. Vi si vedeva una saudita sposare quat-tro uomini perché “ne è economicamente edemotivamente in grado, e non vede quindi unaragione per non farlo”. Sono le stesse parole chesentiamo ripetere di continuo dai sauditi poli-gami, ma quando è una donna a pronunciarleanche i miei compatrioti più razionali vanno sututte le furie. Espressioni di disgusto e orrore sono arrivate daogni parte. Un commentatore ha scritto di avereperso ogni rispetto per gli attori da quando, lo

Eman Al Nafjan

Afghanistan. In al-cune famiglie le figliefemmine vengono ve-stite da maschi e, in-vece che “figlie” o“figli”, sono chia-mate “bacha posh”,letteralmente “in abitida ragazzo” in dari.Quasi sempre il ri-torno alla femminilitàavviene all’iniziodella pubertà. In unpaese in cui ai figlimaschi si dà moltopiù valore che allefemmine, le famigliesenza maschi sono og-getto di commisera-zione e disprezzo, eanche un figlio fintone eleva, almeno perqualche anno, la posi-zione sociale. Inoltre

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scorso anno, uno dei protagonisti ha indossatoabiti femminili. Come se fosse la cosa più de-gradante che un uomo possa fare. Siamo cosìinferiori, come genere, che indossare i nostrivestiti, anche in uno spettacolo comico, ti de-grada come persona. […]

Mosul, Iraq, 22 agosto 2010

A forza di studiare mi sento stanca, mentalmentee fisicamente. Gli studenti hanno bisogno di ri-poso, ecco perché abbiamo le “vacanze estive”,ma sembra che agli studenti di ingegneria nonsia concesso riposarsi! A volte mi sveglio e stobene, altre sono arrabbiata e stufa di studiare. Mimancano i miei hobby, mi manca leggere, farelavori manuali, suonare la tastiera o anche soloconcedere una tregua al cervello. A volte ci passoun’ora o due, faccio quello che posso, ma mi faarrabbiare ancora di più, non avere potuto dedi-carmi più spesso ai miei hobby in queste va-canze. […] Prima che iniziasse il Ramadan siamo andati aDhook, nel nord, a fare un picnic. Abbiamo tra-scorso una giornata veramente piacevole. Primaabbiamo fatto colazione a Sarash (un centro divilleggiatura estiva), dove faceva fresco al mat-tino. Poi siamo andati ad Ashawa. Ci siamo statitante volte, c’è una magnifica cascata, e potevosentire gli spruzzi d’acqua anche da lontano.Quest’anno, quando siamo arrivati, sembravache qualcuno stesse rovesciando un secchiod’acqua sporca!Comunque ci siamo divertiti, perché è arrivata

un bacha posh può piùfacilmente studiare, la-vorare fuori casa, per-sino scortare le suesorelle in pubblico, go-dendo di libertà inau-dite per le ragazze.

“Sunshine”

“Dovremmo vergo-gnarci di come ab-biamo guidato ilpaese.” Adel AbdulMahdi, vicepresidentedell’Iraq. (“The NewYork Times”, 18 ago-sto, “Citazione delgiorno”)

Mentre l’America al-lenta il proprio sforzobellico in Iraq, sonosempre più numerosigli ex diplomatici efunzionari militaristatunitensi a cacciadi opportunità di af-fari nella regionecurda, ricca di petro-lio, o che fungono daconsulenti per il suogoverno.

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una comitiva da Baghdad. Ballavano, nuotavano,suonavano…Poi siamo tornati a Dhook. Là abbiamo pranzatoin un ristorante chiamato “Shandokha” e doposiamo andati alla diga, al centro commercialeMazy, a Dream city e abbiamo anche fatto unasorpresa a mio padre: gli abbiamo comprato unatorta e siamo uscite dal luna park cantando “tantiauguri”.Ho trascorso una bella giornata, diversa dal so-lito tran tran. Vorrei che tutte le città in Iraq fos-sero sicure come al nord, pulite e con servizimigliori quanto a elettricità, acqua e al traffico!La meritiamo una vita migliore, abbiamo la vo-lontà di cambiare la nostra condizione, di rico-struire il nostro paese; l’unica cosa di cuiabbiamo bisogno è un buon governo che non la-vori contro i suoi cittadini, ma collabori con noie investa le risorse dell’Iraq invece di rubarle.Speriamo in un domani migliore.

Arctic Bay, Canada, 23 agosto 2010

Provo un costante senso di soggezione e meravi-glia di fronte al mondo in cui vivo. Soprattuttoin questi giorni, in cui la luce non fa che mutaree il paesaggio cambia di continuo.Ieri sera, sulle colline subito fuori città, mi sonofermato sul bordo della strada e ho guardato in-dietro verso Adam’s Sound e Arctic Bay. Leah,Hilary e la sorella di Leah raccoglievano mirtillipoco più in basso e i bambini giocavano con leloro palette in un piccolo quadrato di sabbia. Unpiccolo torrente che scorre poco distante fornivala colonna sonora.

Per assicurarsi con-tratti da parte del go-verno statunitense dopole critiche alla sua con-dotta in Iraq, la compa-gnia militare privataBlackwater ha creatodecine di società o sus-sidiarie fittizie.

Clare Kines

20 agosto. Il presi-dente francese Sarkozylancia una campagnaper l’eliminazione deicampi Rom: ogniadulto che si “lasceràespellere” riceveràtrecento euro, ognibambino cento.

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Davanti ai miei occhi si stendeva il più ampiotramonto che avessi mai visto. Non c’era unasola porzione di cielo, in qualunque direzione siguardasse, che non fosse tinta di arancio. Le nu-vole basse erano colorate su ogni lato. Su ognilato. Oltre Victor Bay, nella direzione in cui ilsole stava tramontando, gli arancioni e i giallierano più intensi, ma c’era colore dappertutto.Sono rimasto lì a guardare i colori più vicini alsole diventare più carichi e scuri, mentre nelresto del cielo cominciavano a sbiadire, passandodall’arancio al rosato per poi scomparire. Avevolasciato la macchina fotografica a casa, ma nonera importante. Se è vero che la parte centraledel tramonto avrebbe potuto trasformarsi in unastupenda fotografia, una foto non avrebbe maipotuto dare l’idea dell’intera scena. E con lamacchina fotografica in mano non sarei riuscitoad assorbire l’esperienza fino in fondo.Qualche volta è meglio non fare esperienza delmondo attraverso l’obiettivo.

Il rossore perdutodi Alfredo Tamisari

Leggendo un brano tratto dal nuovo libro diMarco Belpoliti, Senza vergogna (Guanda,2010), pubblicato da «la Repubblica»del 22 aprile 2010, mi sono ricordatoche nel Dizionario delle parole perdute(http://dizionarioparoleperdute.splinder.com/tag/

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rossore) sono state inserite, molto opportuna-mente, due belle definizioni della parolarossore. Eccole:

“Mi è capitato una volta che un amico cinquan-tenne dicesse: ‘È una cosa che posso fare senzarossore’. L’ho considerata una bella lezione permio figlio che era presente.” (Beno Fignon)

“Quanto si arrossiva una volta! Anche miamamma usciva di casa col timore di arrossire in-contrando qualcuno. A me capitava spesso ascuola. Questo fenomeno è del tutto sparito. Chiarrossisce più? Neanche noi veterani, figurarsi ivideotelefonisti di oggi! Rimane una sola cate-goria: le donne al sopraggiungere della meno-pausa, ma è un’altra cosa. A me capitavasoprattutto al turno pomeridiano, in ottobre: gliscolari mi dicevano ‘Maestra, perché diventirossa?’. Per inciso, trasferita a Roma per ragionidi famiglia, quanto mi piaceva che i ragazzini midessero del tu. Ed è bello adesso, le rare volteche incontro qualcuno: loro sono adulti e mifanno soggezione.” (Licia Micovillovich)

Vorrei aggiungere anch’io qualche ricordo:

Quando, raramente e del tutto casualmente, unaconversazione familiare sfiorava il tema delsesso, subito il discorso veniva deviato e le pa-role camuffate. Un lampo, pochi secondi, ma ba-stavano perché sulle guance di mia madre sidipingesse il rossore dell’imbarazzo e del pu-dore.

Ragazzino, tornavo a casa su un tram affollatis-simo. Vidi nella ressa una mano che si infilavanella borsetta di una signora. Guardai il viso delladro - una persona piuttosto anziana - che, fa-

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cendosi largo a gomitate, si avvicinò all’uscita escese svelto alla fermata. Non seppi far nulla, mitremavano le gambe. Poco dopo scesi anch’io eraggiunsi casa di corsa. “Mamma” dissi “se tuvedessi qualcuno che sul tram ruba da una bor-setta, cosa faresti?” La mamma mi rispose conun’altra domanda: “Perché? Ti è capitato?” “No,no, era così per dire…” conclusi, mentre unavampa di calore mi inondava il viso: sentivo lavergogna di essere stato a guardare, era come seavessi rubato anch’io.

Secondo il Belpoliti, la vergogna è oggi un sen-timento perduto. Forse è vero: la nostra è una so-cietà svergognata. “Vergogna! Vergognatevi!” sisente spesso urlare tra la gente, nei salotti tele-visivi e nelle piazze, ma sono tracimazioni ran-corose e senza effetto; l’invito non scalfiscenessuno e difatti nessuno si pente: la vergognanon è più fusa con il senso della colpa.Prendiamo per esempio l’ignavia a cui ho allusonel mio secondo ricordo: oggi ben pochi rispon-dono all’appello di prendere posizione (per il ti-more del conflitto, per opportunismo e altreragioni), abdicano senza vergognarsene alla pro-pria dignità di esseri sociali e pensanti. Stanno aguardare, sono attendisti, “stanno nel mezzo”,dicono loro, sono coloro “che non furono ribelli,né pur fedeli”, diceva Dante collocandoli all’in-ferno. La barriera del pudore si è molto abbassata e nonsolo quella del pudore sessuale. Ci si vergognadi vergognarsi perché non bisogna apparire de-boli e disarmati, bensì individui che sanno do-

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minare la vita. Se l’esibizione fallisce, se si per-dono consensi, se addirittura si rischia di diven-tare nessuno, si fa strada una particolare speciedi vergogna: cioè una vergogna amorale, slegatada qualsiasi norma etica.Nei talk-show si tocca l’apice dell’oscenità: lavergogna morale scompare del tutto, sostituitadal cinismo: si esibiscono le debolezze e i difettiespliciti per farsi ammirare, per diventare deidivi.

Per tornare al rossore, vorrei attirare l’attenzionesu quello provocato dalla sorpresa, dalla meravi-glia.

Eravamo in ascesa da oltre due ore. Il percorsoverso la Capanna Marinelli (Valmalenco) preve-deva una prima fase molto faticosa e monotonaattraverso la mulattiera che si inerpicava aggi-rando il costone della montagna. Eravamo chiusie oppressi tra le rocce. Poco prima di arrivare incima alla montagna, avvertimmo l’aria gelidasulla schiena e indossammo il maglione. Poi,completata l’ascesa, la visione che ci tolse ilfiato. Mio cognato si riprese subito dallo stupore,reagì con un urlo prolungato e cominciò a gio-care con l’eco della sua voce. Io rimasi fermo,come inebetito. La valle aveva aperto la sua im-mensità, mi abbracciava, mi avvolgeva, lanciavaverso di me la lingua di un piccolo ghiacciaioche pareva il muso di un orso mansueto, e tuttoquesto all’improvviso, senza preannunci, comeun’apparizione miracolosa. Sentivo il viso tuttocaldo e mi piace pensare che il rosso paonazzodella fatica abbia quella volta accolto anche ilrossore dell’emozione.

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Qualche volta mi chiedo che cosa sia diventatoil nostro sguardo e come sia mutato da quando,grazie al trionfo della televisione, tutto è espostoalla vista e sembra che non ci sia più nulla da ve-dere. All’epoca dell’episodio che ho raccontato,ero molto giovane e i miei occhi erano quasi ver-gini. Non sono sicuro di poter provare oggi emo-zioni così intense e non solo perchè sonoinvecchiato.Troppe immagini, troppa informazione, tropporumore, troppa luce. Le stelle sono illanguidite;l’Unesco ha dichiarato il cielo notturno patrimo-nio dell’umanità. L’eclissi di luna è trasmessa inprima serata. Siamo deprivati. Penso sconsolatoalle parole di David Maria Turoldo: “Solo la me-raviglia ci può salvare”.

Israele, 25 agosto 2010

D.B. ha chiamato oggi e ha detto che aveva ilpermesso: potevamo andare a trovarlo alla base,se volevamo. Se volevamo?! Ho afferrato l’ul-tima scatola di biscotti al cioccolato dal freezer,la macchina fotografica che ho riportato dal-l’America per il suo ventunesimo compleanno,e ci sono andata in macchina con Ari. Trenta mi-nuti. Non è lontano. Ci aspettava fuori dalla base. Nell’area picnic al-lestita per i visitatori. Nessuno può entrare nellabase senza autorizzazione. Era sudato. A quantopare l’aria condizionata non funziona. Prendonoi materassi e dormono nel locale adibito all’ad-destramento. Ma non si lamenta. Ci siamo seduti nella penombra e abbiamo par-lato. Ci ha raccontato un po’ la sua settimana. È

Sarah Smile

25 agosto. Trovati inun ranch nel nordestdel Messico i corpicrivellati di pallottoledi 72 persone. Si ri-tiene si tratti di mi-granti diretti negliStati Uniti che hannoopposto resistenza arichieste di denaro daparte di trafficanti didroga. È sempre piùfrequente che questiultimi esigano di es-sere pagati per per-mettere ai migranti dipassare il confine, e a

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che non sta facendo cose speciali adesso. Stannoripassando le basi. Combattimento corpo a corpoe tiro con la pistola e il fucile. Ci ha spiegatocome ha imparato a proteggersi se qualcuno loattacca con una spranga o un coltello. “Non ti ho insegnato a non fare a pugni e a nontirare calci?!” Ride. “Sì, mamma” risponde sor-ridendo. Ancora quattro settimane al diploma.Poi sarà un soldato a tempo pieno. In servizio at-tivo. E io smetterò di dormire la notte. Mentre parla io, dentro di me, mi dico: questo èmio figlio. Il mio bambino. Questo bel ragazzo,così prestante, con queste fossette quando sor-ride; è mio figlio. Mi chiama “mamma”. Mi ab-braccia e non mi lascia più andare. È il mioragazzo. Ed è così calmo. Così maturo. Così vi-rile. Così vero. Sono in soggezione. Sono fiera.E sono in soggezione. Da dove è venuto? Chi è?È mio figlio. Il mio “ragazzo”. Mio figlio uomo.Eppure non riesco a capacitarmene.

Karkur, Israele, 2 settembre 2010

Sullo sfondo degli attacchi terroristici di Hamas,i leader di Israele e Palestina si incontrano oggia Washington per i primi colloqui diretti dopoquasi due anni. Ieri una produttrice della trasmis-sione radio The World Today del BBC World Ser-vice mi ha chiesto di rivolgermi al presidentepalestinese Mahmoud Abbas e al primo ministroisraeliano Benjamin Netanyahu. Mi ha chiesto diparlare con il cuore, di dire loro quello che pensodell’attuale situazione e che cosa credo si debbafare. Quella qui sotto è la “lettera” che ho scritto al

volte li costringono acontrabbandare cari-chi di droga.

Liza Rosenberg

Mentre il governo degliStati Uniti cerca diporre fine alla espan-sione degli insediamentiebraici in Palestina, chedura ormai da qua-rant’anni, il ministerodel Tesoro degli StatiUniti vi contribuiscetramite agevolazioni fi-scali sulle donazioni aloro favore.

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presidente Abbas e al primo ministro Netanyahu.L’ho registrata e inviata alla BBC ieri sera. È statamandata in onda subito dopo.

Cari presidente Abbas e primo ministro Netanyahu,nel grande schema delle cose io non sono impor-tante. Sono una israeliana, una scrittrice, una mo-glie… Adesso, però, vi parlo da madre, da madreil cui più grande desiderio é semplicemente cre-scere suo figlio in un’atmosfera che non alimentil’odio e la paura.Signor Netanyahu, sono tanto, tanto stanca delleazioni del suo governo, che sembrano servire soloa isolare ancora di più questo paese dal resto delmondo. Cercare di aggiustare la situazione condiscorsi eloquenti non funziona. I problemi nonstanno nelle spiegazioni, ma piuttosto nelle azionistesse. Nessuno crede più che le vittime siamonoi; ci deridono perché continuiamo a compor-tarci come se lo fossimo. Non possiamo conti-nuare a dire che vogliamo la pace quando leazioni che mostriamo al mondo dicono così chia-ramente il contrario. L’occupazione sta incri-nando la nostra bussola morale collettiva.Signor Abbas, non invidio la sua posizione di lea-der di un popolo diviso senza un paese. Dettoquesto, quando lei e i suoi colleghi continuate aincolpare Israele di tutti i vostri problemi, quandosembra che non vogliate assumervi nessuna re-sponsabilità per la difficile situazione del popolopalestinese, tutto ciò non contribuisce per nientea creare un clima di fiducia in Israele.Io non pretendo di comprendere tutte le sottilisfumature della situazione relativa alla sicurezza,né coltivo illusioni riguardo a che si giunga a una

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soluzione. Tutto quello che so è che la situazioneattuale é insostenibile. Abbiamo bisogno chesiate dei leader forti. Abbiamo bisogno che pren-diate decisioni coraggiose, difficili, anche dolo-rose; decisioni che con ogni probabilità in certiambienti susciteranno sdegno. Fotografie e con-ferenze stampa congiunte sono inutili se non neconsegue nulla.A dire la verità, non nutro grandi speranze sul-l’attuale ciclo di negoziati diretti. L’esperienzami ha resa cinica, e nessuno di voi due sembramolto entusiasta di essere lì. Vorrei che mi stu-piste e mi dimostraste che ho torto, se non perme, almeno per mio figlio e la sua generazioneda ambedue le parti della barricata.

L’Avana, 4 settembre 2010

Ieri sono andata a iscrivere mio figlio al liceo eal posto di un cartello di benvenuto mi sono tro-vata davanti una lavagna con su scritto quantosegue:

Relativamente all’uniforme: Le femmine nonporteranno più di un paio di orecchini. Le cami-cie e le bluse saranno indossate dentro la gonnao i pantaloni, senza pince per farle aderire alcorpo, né accorciate per farle salire sopra la vita.Non rimuovere le tasche. Le gonne dovrannoscendere per quattro centimetri oltre la rotula delginocchio. Non sono ammesse gonne a vitabassa, scolorite o con segni di stiratura. I panta-loni dovranno essere adeguati all’altezza dellescarpe. Non sono ammessi pantaloni a vitabassa. Le femmine non porteranno trucco. Nonsono ammessi bracciali, collane, catenine né

Yoani Sánchez

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anelli. I simboli religiosi non potranno essere vi-sibili. Le scarpe dovranno essere chiuse e lecalze bianche e lunghe. Non sono ammessi MP3,MP4 e cellulari. I maschi non porteranno orec-chini, spille o piercing. Le cinture dovranno es-sere semplici e senza fibbie eccentriche, grandio alla moda; e dovranno essere di colore nero omarrone.Relativamente ai capelli: I capelli, ben pettinatie ben tagliati, dovranno essere conformi al de-coro, privi di qualsiasi stravaganza o eccentricitànon in sintonia con l’uniforme. Nei maschi nonsono ammessi: capelli lunghi, tinti, con punte oaltri disegni. Le femmine non useranno pendenti.I fermagli tra i capelli dovranno essere azzurri,bianchi o neri e di dimensioni adeguate. I capellidei maschi non devono superare i quattro centi-metri.

Adesso non sono più sicura se Teo sta per entrarein una scuola media superiore o in un’unità mi-litare.

Bologna, 5 settembre 2010

Uno spicchio di città verso nordovest: la Ferra-rese che, prima di dichiarare nel nome le sue vereintenzioni poco oltre la tangenziale, assumequello di via Mascarella, dentro le mura, e poi(niente meno!), di via Stalingrado.Quella “nostalgia di campagna” che si manifestaa volte già prima dell’anello di asfalto, in questazona fa capolino molto presto, cioè già all’al-tezza del quartiere fieristico, per poi intensifi-carsi nelle due aree successive, quella della sedeCo.Ta.Bo. (la principale cooperativa di taxi bo-

Francesco Selis (“Franz”)

La Cina ha superato ilGiappone per prodottointerno lordo divenendola seconda potenza eco-nomica mondiale. Il sor-passo degli Usa èprevisto entro il 2030.Intanto è già la mag-giore consumatrice dienergia del mondo.

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lognese di cui sono socio) e poi nella multiareadi servizio “Sprint-Gas”. […]Il primo settembre è stata una giornata incante-vole di vivido cielo azzurro, sole splendente earia piacevolmente fresca. Sono uscito di casaprima delle cinque del pomeriggio, e mi sono re-cato proprio in quelle zone periferiche, con l’in-tento di lavare la Cavallona (il mio taxi) e fare ilpieno di metano. […] Spengo il motore in coda a un paio di altre au-tomobili che attendono presso l’impianto, unodi quelli in cui l’auto sta ferma e il ponte le sisposta sopra avanti e indietro con i suoi gettid’acqua, spazzoloni, vortici d’aria; durata, daicinque ai dieci minuti a seconda del programmaprescelto. Di fronte a me la batteria di box, co-perti da una tettoia, per il lavaggio a self-servicecon le lance (quella specie di potenti pistole adacqua).Nel primo sulla sinistra è fermo un grande auto-furgone monovolume di colore bianco perla, unpo’ opaco. Il portellone è alzato e un uomo dallacorporatura robusta si fa aiutare dalla figlia, inpiedi all’interno, a scaricare qualcosa, poi ri-prende a riparare un fanale posteriore, che penzolaappeso ai suoi stessi cavi. Spostando lo sguardonei pressi, scorgo il resto della famiglia, o, chissà,forse solo parte del resto. Si tratta di una donnona,la cui corporatura, il cui portamento, le cui cia-battine infradito, la cui sottanona, sono un incon-fondibile marchio di etnia Rom, e poi la stessafiglia, già donna benché forse poco più che quin-dicenne, che, scesa dal furgone, ora cammina neipressi completamente scalza.Seguo le manovre dell’uomo, fino al riavvita-

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mento finale della calottina di vetro con unagrande chiave. Quasi ne avverto la resistenza,crescente a tratti, mentre la gira in senso orario.Poi la mia attenzione viene ricatturata dalla mo-glie, che, al di là della batteria dei box, è andataa lavarsi le mani e la faccia presso un lavandinoall’aperto. Un’abbondante saponata, e poi il ri-sciacquo, a self-service, con le mani. Poi è lavolta della figlia, ad avviarsi verso il lavandino.È una ragazza molto bella, la chioma nera on-dulata, e quei piedi nudi. […] Toelettatura(quasi…) completa, per lei, sempre a self-ser-vice: mani viso e shampoo, il tutto con unatranquillità e una naturalezza che io, da bam-bino, da ragazzo e da adolescente, non credo diaver mai avuto. Anzi, non l’ho neppure ora allesoglie dei cinquantacinque.Non sta bene puntare gli occhi su una ragazzache potrebbe essere mia figlia, per non dire mianipote. Ma, che io lo desideri o lo tema, diffi-cilmente lei mi scorgerà: ora si sta asciugandoe spazzolando i capelli, l’attenzione fissa sullospecchietto esterno destro dell’autofurgone.È quasi venuto il mio turno, avvicino la Cavallaal ponte mobile, in pole-position. Poi torno ascendere e osservo l’evolversi della scena: oral’uomo ha in mano una lancia e sta lavando lacarrozzeria del furgone; solo lavaggio, un sologettone, niente passata di detersivo liquido. Mauna disinvoltura circense nell’evitare di colpirecon il getto d’acqua la sua donnona, intenta afare chissà che cosa intorno a quel furgonebiancastro, che pian piano sta acquistando unaspetto più luminoso.È il mio turno, avvicino la mia fida vettura piano

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piano al ponte mobile finché le luci di segnala-zione rosse si accendono. Scendo, introduco lachiavetta, spingo il pulsante. Gli ingranaggidell’apparecchiatura si rimettono in funzione.

San Salvador, 5 settembre 2010

Undici e otto minuti. Domani iniziano le vacanzee l’agenzia della Citibank della 79esima AvenidaSur di San Salvador, più che una banca, sembrala centralissima Calle Rubén Darío la vigilia diNatale. Per la folla, intendo. Ci sono addiritturatre o quattro bambini che fanno per mettersi agiocare a nascondino tra le colonne, finché unamamma non li richiama all’ordine. Loro lo fannogiocando, ma qui tutti ammazzano il tempocome possono. Alcuni ascoltano musica con ilcellulare. Altri intrattengono conversazionivuote. La maggioranza non fa assolutamentenulla, si limita a guardarsi attorno con un’espres-sione di circostanza ed evita di incrociare losguardo altrui. Io, che me l’aspettavo, sono venuto con un libro,una raccolta di racconti intitolata Ultimo venerdì.Sto anche prendendo appunti, certo, per poterscrivere di questo prima o poi. Perché nel fare lacoda, quando vogliono farla, i salvadoregni sono- siamo? - pazienti come pochi, e tra i pochi postiin cui si rispetta la coda con stoicismo ci sono lesuccursali delle banche. Non importa che magarici siano motivi per protestare, come gli sportelliindiscutibilmente classisti. Ce n’è uno per gli anziani, i disabili e le donneincinte, che ha ragione di esistere, ma in questopreciso momento conto altri tre sportelli speciali:

Roberto Valencía

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uno, quello aziendale, è per le pratiche aziendali,appunto; gli altri due sono per i clienti VIP, quellidanarosi. In Salvador si dà per scontato che chiguadagna più soldi non si mescoli con la pleba-glia. Perché mai un poveraccio che va a incassareil suo assegno quindicinale di 120 dollari e unasignora tutta agghindata che vuole mandare 1000dollari al figlio che studia negli Stati Uniti do-vrebbero condividere la stessa coda e gli stessiodori? Ecco. Adesso conto sette clienti very importantpeople con a propria disposizione due impiegati,mentre noi altri quaranta poveri cristi dobbiamospartirci quattro sportelli. Ma oggi non voglio la-mentarmi troppo, davvero. Alternare lettura, os-servazione e annotazioni fa passare il tempo piùin fretta. Undici e ventidue minuti. Guardo per terra, unimpeccabile pavimento bianco piastrellato. È pu-lito, come se lo avessero installato ieri. In realtàtutta l’agenzia traspira pulizia. In realtà tutte lebanche in cui sono entrato in questo paese sonoda questo punto di vista uguali. Molto, infinita-mente più pulite degli ospedali pubblici. Questa,inoltre, ha appesi alle pareti appariscenti annuncipubblicitari con modelli anglosassoni. Larghisorrisi. Un papà che dà il biberon al figlio, unagiovane studentessa a Londra, un dirigente cheviaggia in aereo in prima classe. Dappertutto lar-ghi sorrisi. Nulla a che vedere con questa codadai gesti seri, i lineamenti indigeni, trucco pocoo nulla, donne e uomini brutti. Undici e trentuno. Un bambino cicciottello suidieci anni entra saltellando. Lo segue il padre. Ilsuo sorriso ha l’aria onesta, non come quello dei

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cartelli, ma svanisce appena arriva alla coda, cheper me è già più lunga dietro che davanti. Sto perfinire un racconto intitolato La pazzia, machiudo il libro per un attimo. Mi guardo attornoe penso che magari qualcuno mi sta osservandoe pensa: che cosa fa questo matto, questo mattoche legge, che guarda di qua e di là, e poi prendeappunti sui fogli delle ricevute. Guardo di nuovo,ma non incrocio gli occhi di nessuno. Proseguocon la lettura. Undici e trentotto. Finisco il racconto. Solo altredodici persone prima del mio turno. Mi metto aosservare i loghi sulle magliette in coda: ProjectAfrica, dice una; un’altra è dei Lakers, un’altraancora dice Corri con lo sguardo; su una scurasi legge Insaccati del Salvador; e un quarantennecon i baffi ne indossa una con su scritto Friday’sRestaurant & Bar Mantenimiento. Undici e quarantacinque. Ho solo tre persone da-vanti, e m’invade una strana sensazione di feli-cità. Guardo dall’altra parte dello sportello; oggici sono più donne che uomini, ma una sola è gio-vane e bella, quella del numero 5. Magari mi ca-pitasse lei, penso, anche se, ne sono convinto, èsicuramente la più antipatica. Questi minuti sonoi più lunghi. Non ho più nessuno davanti. Aspettoun altro po’. Si libera uno sportello. Il 5! “Buon-giorno.” Consegno libretto, certificato di resi-denza e modulo compilato.“Fino a che ora rimanete aperti oggi?” domando,per forzare una conversazione che non scorrerà,come se ai bancari fosse proibito parlare con iclienti. “Fino alle 12” e sospira. “Come livuole?” “Da 20.” Conta e riconta, quindi mi con-segna le banconote. “Grazie e buone vacanze” le

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dico. Non mi guarda neanche negli occhi. Facciomezzo giro e, prima di uscire, alzo lo sguardoper dare un’ultima occhiata all’orologio dellasuccursale. Sono le undici e cinquantuno minuti.

Lo straordinariodi Robinson Quintero

Qui non succede niente di straordinarioLe rose cresconoi morti riposanoi bimbi lanciano sassi al cieloalcuni uomini portano a casa doni

Molto spesso non accade nullafuori dal normaleGli amici escono a festeggiarela gente si sposaalcuni ridono altri piangonogli assenti scrivono

Sembra che tutto vada liscioda queste partiGli alberi perdono le fogliela pioggia si astrae in se stessail sole si alza puntuale anche nella nebbia

E gli sciocchi furenti di noiaostinati commentano:qui non accade niente di straordinarioda tempo non succede niente di straordinario

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Gaza, 9 settembre 2010

L’Eid a Gaza è qualcosa di molto strano. D’al-tronde, cos’è che non è strano qui, a parte la stra-nezza stessa? Le strade si trasformano in ungrande quartiere commerciale, i marciapiedi di-ventano un’estensione dei negozi che vi si affac-ciano, da un giorno all’altro saltano fuorivenditori ambulanti che espongono le loro merciall’aperto su rastrelliere e in chioschi, offrendodi tutto, da prodotti a buon mercato arrivati at-traverso i tunnel, giocattoli, borse, imitazioni diprofumi e di vestiti, a collanine, braccialetti eninnoli vari, il tutto a “prezzi superscontati perEid!”, come un uomo in un bizzarro costume daorso continua a ricordarci. Si riesce a malapenaa farsi largo attraverso la folla, così molti scel-gono di rimanere a casa: “È una giungla là fuori,meglio starsene alla larga!”.Ma questa è Gaza, ed è raro che la gente abbiala possibilità di concedersi un “attimo di re-spiro”. È stato un lungo, torrido Ramadam. Cosìmolti dicono di non avere il coraggio di uscire,ma lo fanno comunque. È eccitante, al diavolola folla!Dopo una lunga giornata passata a Beit Lahiya,avevo deciso di portare i ragazzi allo stabili-mento balneare Shalehat (suona molto più sofi-sticato di quello che è… ma è una delle pochearee verdi in cui possono scorazzare libera-mente). All’ultimo minuto, però, abbiamo cam-biato i nostri piani e abbiamo deciso di andareinvece a prendere un gelato dal “Signor Kathem”(la gelateria più vecchia di Gaza). Una banca-rella attira la mia attenzione, un uomo che vende

Laila El-Haddad

6 settembre, Italia.Assassinato dalla ca-morra a Pollica (Sa-lerno) AngeloVassallo, il sindaco-pescatore, come vienechiamato in paese.Ambientalista, era unuomo pulito, capacedi opporsi a tanti af-fari sporchi. Ai suoifunerali, che si ter-ranno nel porto, glirenderanno omaggioseimila persone.

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tappeti intrecciati a mano, una tradizione artigia-nale molto antica che a Gaza sta scomparendo,così mi fermo e studio l’assortimento.A un tratto, boom, la terra trema, la gente iniziaa urlare. Per un attimo è il caos, che si aggiungeal caos che c’è dalla vigilia di Eid, che a sua voltaè un altro strato di caos che si aggiunge alla si-tuazione già caotica e indiscernibile che è Gaza. Uno chiede a un altro che chiede a un altro, escopriamo che Israele ha bombardato quattropunti di Gaza, fra cui un complesso accanto allostabilimento Shalehat dove avremmo dovuto es-sere. Feriti? Morti? “Nessuno… no aspetta, due,no quattro… gravi”. “Questo è il modo di Israeledi dirci: Buon Eid, Gaza!” commenta con non-curanza un uomo leccando un cono gelato ap-pena comprato da Kathem. La polizia è in statod’allerta, passano delle ambulanze. La tensionecala e si riaccende. Finché tutto torna “come prima”. La gente con-tinua a fare shopping. È Eid, dopo tutto. E que-sta è Gaza.

Roma, 9 settembre 2010

Sono tornati quasi tutti. Ho appena finito di la-vare i piatti e sto prendendo il mio caffè. Il caffème lo fa Marco. A lui viene molto meglio che ame. Stamattina abbiamo fatto una lunga passeg-giata al parco vicino casa e abbiamo parlato.Questo è uno di quei momenti dell’anno che mimettono ansia. Non ci sono motivi oggettivi per-ché io abbia l’ansia. È un’ansia… per abitudine,tradizione. È cominciata da bambina. Con i so-

Serena Damiani

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spiri di mia madre. “E adesso si ricomincia! Pre-para i vestiti per domani sulla sedia. Vai a dor-mire altrimenti domattina sarai stanca. Dadomani si ricomincia.” In questo periodo del-l’anno le immagini di mia madre si sfocano.Niente più sole, mare, spiaggia. Ma scuola, stu-dio, ordine, sospiri, tristezza. Quando è estatepenso tanto a mia madre. Poi arriva settembre edè come se per una volta ancora ci salutassimo. Ioprendo un’altra strada. Non ho mai capito la ras-segnazione, i sospiri, i vorrei ma non posso. Asettembre prendo un’altra strada.

L’Avana, 9 settembre 2010

Mi ero ripromessa di non parlare mai più di quelsignore dalla barba curata e l’uniforme verdeoliva che, con la sua costante presenza, ha mo-nopolizzato ogni giorno della mia infanzia. Hodifeso la mia decisione di non fare più riferi-mento a Fidel Castro con vari argomenti: rappre-senta il passato; e bisogna guardare al futuro, allaCuba in cui lui non ci sarà più; inoltre, con tuttii problemi che il presente ci pone, parlare di luimi sembrava una distrazione imperdonabile.Però oggi si è intrufolato di nuovo nella mia vitacon uno dei suoi tipici spropositi. Mi sento in do-vere di nominarlo per l’ennesima volta dopo lesue dichiarazioni secondo cui “il sistema cubanonon funziona neanche per noi stessi”, rilasciateal giornalista Jeffrey Goldberg.Se non ricordo male, per affermazioni simili opiù innocue molti militanti del Partito Comu-nista sono stati esiliati e una schiera innumere-vole di cubani ha scontato lunghe condanne. Il

Yoani Sánchez

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dito indice di quello che fu il Líder Máximo èstato sistematicamente puntato contro coloro chehanno cercato di spiegargli che il paese non an-dava avanti. E come se il castigo che colpiva glieretici non bastasse, indossare una maschera èdiventato un espediente necessario per sopravvi-vere su un’isola che lui cercava di trasformare apropria immagine e somiglianza. Dissimula-zione, bisbigli, doppiezze, tutto per nasconderela stessa opinione che adesso il comandante “ri-suscitato” butta lì precipitosamente di fronte aun giornalista straniero.Magari si è trattato di uno di quegli impeti di sin-cerità che prendono gli anziani nel momento ditirare le somme della propria vita. O può esserestato un altro disperato tentativo di richiamarel’attenzione, come la previsione di un’imminentecatastrofe nucleare o il tardivo mea culpa per larepressione degli omosessuali che ha recitatoqualche settimana fa. A vederlo riconoscere ilfallimento del “suo” modello politico ho la sen-sazione di assistere a una messinscena in cui unattore gesticola e alza la voce perché il pubbliconon smetta di guardarlo. Ma fino a quando FidelCastro non prenderà il microfono per annunciarea noi lo smantellamento della sua obsoleta crea-tura, non sarà successo nulla. Se non rivolgequella stessa frase al popolo di Cuba e se non siimpegna a non interferire con i cambiamenti ne-cessari, siamo alle solite

Londra, 10 settembre 2010

Dopo la rivoluzione islamica dei fanatici rivolu-zionari saccheggiarono la casa di Shapur Ba-

Potkin Azarmehr

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khtiar e distrussero tutti i libri della sua grandebiblioteca bruciandoli. Anni dopo, uno dei fana-tici che avevano partecipato al saccheggio fuggìdalla Repubblica Islamica e cercò asilo a Parigi.Pentito di quello che aveva fatto, contattò il dot-tor Bakhtiar per esprimergli il suo rimorso e cer-carne il perdono. Bakhtiar gli rispose: “Se vuoiil mio perdono, tutto ciò che devi fare è leggerealcuni dei libri che hai distrutto”.Ricordo i libri strappati e dati alle fiamme du-rante la “rivoluzione culturale” in Iran: è stato unmomento di svolta nella mia vita. Vedere quei fa-natici ignoranti distruggere dei libri fu un’espe-rienza tremenda, orribile.Quelli che baciano un libro e quelli che bru-ciano i libri dimostrano solo la loro ignoranza.Un libro è fatto per essere letto; può piacerti onon piacerti, ma leggerlo è l’unico modo di trat-tare un libro.

L’Avana, 17 settembre 2010

Non è stato Fidel a licenziarlo dal suo posto dilavoro, né Raúl. È stata la vita, da sola, a licen-ziarlo dalla vita.Chucho è morto oggi. […] Vegliato questa notte,tra il giovedì e il venerdì, nell’impresa di pompefunebri di Infanta La Nacional. Mia madre è ri-masta lì tutta la notte. Io me ne sono andato. Nonsopporto la poca luce e la mediocrità istituzionaleche ci grava addosso anche dopo morti.Chucho è stato un lottatore. Aveva settant’annipassati. Senza figli. Senza moglie. Forse solomia madre. Si conobbero nella fabbrica di bam-bole Lilí, proprio mentre mia madre si innamo-

È in corso in Iran,“per arrestare la diffu-sione di stili non con-venzionali epromuovere la culturaislamica”, una campa-gna pubblicitaria a fa-vore dei capelli cortistile anni Cinquanta edell’uso del gel.

Orlando L. Pardo Lazo

12 settembre. Un pe-schereccio italiano èattaccato a colpi dimitra nel Mediterraneoda una motovedetta li-bica su cui erano im-barcati dei militariitaliani, scesi sottoco-perta durante la spara-toria. Il ministro degliInterni, Maroni, com-menta: “L’avranno

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rava di mio padre, il modesto impiegato dell’Uf-ficio del personale di quasi vent’anni più vecchiodi lei.Io nacqui nel 1979. Mia madre finì a fare la ca-salinga. Chucho aspettò, come uno di quei per-sonaggi alla García Márquez che lui non ha mailetto. Passò un secolo e un millennio. Con l’ar-rivo per tutti della vecchiaia, cominciò a fre-quentare la nostra casa di Lawton. Arrivavaprima dell’alba. Aiutava come poteva. Un vec-chietto arzillo con più energia e lealtà del 99 percento dei giovani, incluso il sottoscritto, ovvia-mente.Allora mio padre era come il padre di mia madre.Lui e Chucho giocavano a scacchi sotto un por-tone degli anni Novanta. Mio padre era ancoraabbastanza forte da batterlo. Dalla sua aveva ilvantaggio storico di chi ha avuto le mani libereper potersi dedicare ad attività intellettuali.Chucho, a te toccò il lavoro manuale. La lotta.Da raccoglitore di scommesse della lotteria neglianni Cinquanta a segretario di sezione di un Par-tito Comunista di Cuba già stufo anche del co-munismo cubano.Sono le tre di notte a Cuba. Scrivo, nudo in ca-mera mia, mentre lui è disteso alla Nacional di In-fanta, sala A (terzo piano), non molto lontanodalla sua casetta in un labirinto di Calle Manglar.La notte unisce nella desolazione lui, il vecchioChucho, e me, l’adolescente tardivo Landy.Qualche volta, mio padre già morto, ha espressoil desiderio di dettarmi le sue memorie; io, condelicatezza, ho lasciato perdere. Non me nepento. La sua vita non si meritava la falsità dinessun racconto. La sua vita era una cosa più che

scambiata per unanave di clandestini”(contro cui, sembraimplicare, sparare èlecito).

14 settembre, L’Avana.Il governo cubano an-nuncia il progetto di li-cenziare oltre mezzomilione di lavoratori.Si aspetta che trovinoun nuovo lavoro nelsettore privato.

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concreta. Un sasso. Come la parola “chucho”,per esempio, anche se tra i suoi amici quasinessuno conosce il suo nome e tantomeno ilsuo cognome (ammesso che ne avesse uno).Chucho, maledizione. Chucho, che nella vo-ragine proletaria dei lavori volontari deglianni Sessanta avresti potuto essere mio padre.Chucho, che non credevi più ma ancora con-fidavi nella Rivoluzione. Con la tua scritturada cavallo, che io passavo in bella con la mac-china da scrivere Underwood già proprietàprivata di mio padre. Verbali di riunioni e in-viti a riunioni. Era questo che mi dava Chuchoda battere a macchina. Tac tac. Tic tac.Il tempo della nostra classe sociale è finito.Insieme a te muore lo spirito di quelli chestanno sotto. Povero, ma onesto. Trovavi so-luzioni senza mettere nei casini gli altri. Conle tue grasse risate da personaggetto urbanodei racconti di Lino Novás Calvo. Urlavi al te-lefono come un rozzo campagnolo. Eri que-sto. Un guerrigliero balbettante in quelpalazzotto abbandonato che i suoi primi pro-prietari chiamarono L’Avana.L’organo ufficiale del Partito Comunista diCuba, non c’è dubbio, non si accorgerà di“questa grande perdita di un compagno distrada”, ma con Chucho è caduta la testa diun’epoca che nessun cubano vivrà più. Men-talmente, per molti versi, per me è come sefosse morto Fidel (sotto tanti aspetti f isici,verso la fine sembravano speculari).Chucho, smetto di parlare di te in secondapersona singolare, questo vizio vuoto deglielogi funebri.

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Il mattino avanza e presto sarà l’alba nell’Avanadella Post-Rivoluzione. Mia madre è rimasta piùsola. Il tuo amore per lei è un po’ più vicino allasua realizzazione, in qualche posto che forsenemmeno esiste.Chucho, mi dispiace. Addio.

Atlanta, Stati Uniti, 21 settembre 2010

Mi sento paralizzata dalla quantità di compiti chedevo fare. Solo per la lezione di oggi, devo rive-dere 95 slides di Power Point sullo sviluppoumano e ripassare 18 pagine fitte fitte di appuntidi biochimica entro stasera, altrimenti rimangoindietro. Le lezioni della settimana scorsa equella di ieri che ho studiato, devo ripassarle pernon dimenticarmele. Ci sono tonnellate di infor-mazioni che galleggiano nella mia testa e nonsono state consolidate. Anatomia, nervi craniali,o mio Dio! Oltre all’altra roba. I nervi cranialinon sono così male, a paragone di tutte le altreparti. Sono esausta, ma troppo spaventata perfare un pisolino: so che non mi sveglierei primadi domani. Caffeina… quanto mi manchi!

Stati Uniti, 21 settembre 2010

Chi mi conosce sa che non parlo mai di razzaperché, francamente, non m’interessa. Venendodalla Nigeria e avendo vissuto lì tutta la mia vita,sinceramente, la razza o il colore della mia pellesono l’ultima cosa che mi viene in mente. Nonho tanti amici afroamericani perché, secondoloro, io non sono nera, sono nigeriana… mah…scusate un attimo che vado a controllare di checolore ho la pelle. […]

Joy Braimah

17 settembre. Secondoun rapporto dell’U.S.Census Bureau, nel2009 vivevano instato di povertà negli StatiUniti 44 milioni dipersone, una ognisette.

“Leggy”

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Un amico mi ha detto che devo dichiarare piùspesso che sono un’orgogliosa e forte ragazzanera. No. Sono una ragazza forte, punto. Questonon significa fare finta che il razzismo non esi-sta, certo che esiste. Solo, mi rifiuto di ricono-scerlo. […] Non capisco proprio la razza, nonsaprei nemmeno come discuterne o parlarne. Hopassato sedici anni della mia vita in un paese incui non dovevo pensare al colore della mia pellee adesso, da studentessa del terzo anno in Ame-rica, ho semplicemente deciso di ignorarlo. Per-ché questo sfogo, allora? È che stasera un amicobianco mi ha detto, testualmente: “Sei la ragazzanera più bianca che abbia mai conosciuto”. El’ha detto in un tono, come se davvero pensasseche stesse facendomi un complimento. Io hopensato: “Eh?”. La mia razza non mi definisce.[…] Non sopporto le affermazioni stereotipate.Io non ne faccio e odio quando la gente le fa in-torno a me. […] Ho due amici afroamericani, molto cari, e unodei loro amici mi ha detto una volta che non eroleale verso la mia nerezza perché dicevo di nonessere una grande fan del rap e che secondo memolti rapper non dicevano niente di significativonelle loro canzoni. […] Non devono piacermiper forza determinate cose, non devo parlare inun certo modo, o avere solo amici di colore, perdimostrare che sono nera e fiera di esserlo. Lamia pelle parla abbastanza per me, direi. Esserenera in America mi fa solo incazzare! Sono stufadi sentirmi dire chi è razzista con me e chi nonlo è, sono stufa di sentirmi dire che portare i ca-pelli al naturale mi aiuterà ad apprezzare di piùil mio essere nera, sono stufa di sentirmi dire

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quanto sono “bianca” quando parlo.Sono nata nera. Il modo in cui mi comporto nonha niente a che fare con il colore della mia pelle,quello che mi piace o che non mi piace non haniente a che fare con la mia pelle. A volte misento un’ombra, come se tutti vedessero la miapelle e non la persona dietro il suo colore. “Ionon sono la mia pelle, non sono i miei capelli,sono quell’anima che ci vive dentro” (IndiaArie). Mi sembra che l’abbia detto benissimo.

Arctic Bay, Canada, 25 settembre 2010

L’equinozio d’autunno è stato lo scorso weekend, e questo significa che d’ora in poi avròmeno luce rispetto a… be’… a quasi chiunquealtro. Stiamo scivolando nella stagione buia e,prima di rendercene conto, il sole tramonterà pertre mesi.Non mi crea problemi la stagione buia, non mene ha mai creati. Ha un suo fascino e comunquepassa in fretta. Ma quest’anno s’è avvicinata ve-locemente. Sembra ieri che mi godevo ventiquat-tr’ore di luce, a contare uccelli e scattare foto.Presto la notte sarà di un nero d’inchiostro, lestelle più vicine che in qualunque altro postodella terra, e potrai guardarle alla musica dellaneve che scricchiola e stride sotto i piedi. Presto,calerà la nostra fantastica notte nordica.

L’Avana, 28 settembre 2010

La coda per l’autobus, a Coppelia, è un postospeciale, un angolo così eloquente che, se ungiorno scomparisse, L’Avana non sarebbe più la

Clare Kines

Claudia Cadelo

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stessa. Ieri sera, alle dieci, aspettavo il mio P4quando una donna, in piedi accanto a me con lafiglia, ha osservato com’era “animata” la cittàper l’anniversario dei CDR [Comitati per la difesadella rivoluzione]. “Scherza, signora?” ho detto,e lei m’ha lanciato un’occhiataccia da serial kil-ler.Per ordine dell’autista, secondo cui sul P4 non cistava un’anima in più, sono salita dalla porta didietro. Un ubriaco alle mie spalle spingeva persaltare la coda, ma barcollava e, nel tentativo ditenersi stretta a tutti i costi la sua bottiglia, haperso l’equilibrio ed è caduto. L’autista è partitomentre lui stava ancora cercando di salire, e perpoco non ci ha lasciato la pelle. La donna accanto a me, quella della città “ani-mata”, s’è messa a gridare, e io ho osservato:“Con una sbornia così, non arriverà all’angolo!”.Lei ha aggiunto: “Non poteva essere che unnegro. I negri sono tutti uguali…”. E s’è messaa discettare su “quei negri” in un modo che, seMartin Luther King l’avesse sentita, sarebbemorto una seconda volta. Mi sono guardata attorno piena di vergogna.Tutti vicino a me erano bianchi. Nessuno haaperto bocca e ho capito che, in difesa dei negri,nessuno l’avrebbe fatto. Ho avuto una crisi dinervi. Poi me ne sono pentita, ma in quel mo-mento m’è venuta voglia di prendere quelladonna per il collo, soprattutto perché la sua ar-ringa l’aveva tranquillamente ascoltata sua figlia,una bambina. Che bell’esempio! “Signora,” le ho detto “se gridassi ‘abbassoFidel’ sarebbe la prima a saltar su. Si può sapereallora perché dovrei stare a sentirla parlare come

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il capo del Ku Klux Klan? E se gridassi ‘abbassoEsteban Lazo’ [membro del Consiglio di Stato,nero]? Salterebbe su lo stesso? E non è uguale?”.La frase mi è venuta fuori un po’ goffa. La si-gnora non ha detto niente. La gente mi fissava ed’un tratto mi sono sentita come se fossi uscitada una tomba del cimitero Colón, con i vermi emezzo teschio fuori.Ho capito che non mi sarei calmata. Non è cosìche si dialoga, lo so, ma a volte il dialogo è al dilà della mia capacità di tolleranza. Sono scesaprima e ho fatto a piedi il chilometro che mi se-parava da casa, parlando da sola.

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Collaboratori e traduttori

Potkin Azarmehr, nato in Iran, vive in GranBretagna, dove lavora come business intelligenceproject manager. La sua pagina, tradotta da SaraCrimi, è tratta dal blog For a democratic secularIran (http://azarmehr.blogspot.com/). Lo ringra-ziamo per il permesso di pubblicarla.

Kristin Bair O’Keeffe, americana, vive aShanghai con il marito irlandese e la loro figliavietnamita. La sua pagina, tradotta da SaraCrimi, è tratta dal blog Kristin Bair O’Keeffe(http://www.kristinbairokeeffeblog.com/).

Joy Braimah: “Sono nata a Benin City, Nige-ria. Mi sono trasferita negli Stati Uniti (Atlanta,Georgia) nel 2002. Sono laureata in psicologiae ora frequento il primo anno di medicina. Mipiace scrivere perché lo trovo terapeutico”. Lesue pagine, tradotte da Paola Zanetti, sonotratte dal blog The smile of a Nigerian Scorpio(http://www.nigerianscorpio.com/). La ringra-ziamo per il permesso di pubblicarle.

Claudia Cadelo, nata nel 1983, vive al-l’Avana. Le sue pagine, tradotte da GabriellaGregori (29 luglio) e Massimo Parizzi (28 set-tembre), sono tratte dal blog Octavo Cerco

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(http://www.octavocerco.blogspot.com/). La rin-graziamo per il permesso di pubblicarle.

Sara Crimi (www.saracrimi.com), nata nel1974, è traduttrice e redattrice freelance a Mo-dena. Traduce soprattutto testi in ambito arti-stico. Qui ha tradotto le pagine di Kristin BairO’Keeffe, Eman Al Nafjan (15 agosto) e PotkinAzarmehr.

Serena Damiani, autrice e attrice teatrale, è natanel 1962 a Roma, dove vive.

Emilia de Rienzo, nata a Torino nel 1947, ha in-segnato per trent’anni. Ha scritto un libro sullasua esperienza scolastica, Stare bene insieme ascuola si può?, Utet, Torino, 2006, e altri su han-dicap, adozione e affidamento. Le sue paginesono tratte dal blog Pensare in un’altra luce(http://pensareinunaltraluce.blogspot.com/). Laringraziamo per il permesso di pubblicarle.

Laritza Diversent, avvocato, si è laureata al-l’università dell’Avana nel 2007; lo stesso annoha iniziato a scrivere come giornalista indipen-dente. La sua pagina, tradotta da Elia Riciputi,è tratta dal blog Jurisconsulto de Cuba(http://jurisconsultocuba.wordpress.com/).

Anna Maria Farabbi è nata nel 1959 a Perugia,dove vive. Poeta e traduttrice, ha pubblicato fra l’al-tro le raccolte di poesia Adlujè, Il Ponte del Sale, Ro-vigo, 2003, e Solo dieci pani, Lietocolle, Faloppio,2009. Inoltre ha curato la raccolta di racconti di KateChopin Un paio di calze di seta, Sellerio, Palermo,2004. Collabora a varie riviste di critica letteraria.

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pp. 16, 50, 56, 76

pp. 15, 18

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Rosaria Fiore, nata nel 1970 a Udine, dove vive,è traduttrice editoriale. Qui ha tradotto le paginedi Sarah Smile (4 luglio) e Clare Kines (6, 9, 18luglio, 3, 23 agosto).

Gabriella Gregori è nata nel 1967 a Trento,dove vive. Traduttrice tecnica e letteraria e foto-grafa, qui ha tradotto le pagine di Maria OfeliaZuniga e Claudia Cadelo (29 luglio), e la poesiadi Robinson Quintero.

Laila El-Haddad, nata nel 1978, vive tra gliStati Uniti e Gaza. È giornalista e ha due figli,Yousuf e Noor. Le sue pagine, tradotte da Bar-bara Volta (10 agosto) e Cristina Mazzaferro (9settembre), sono tratte dal blog Gaza Mom(http://www.gazamom.com/). La ringraziamoper il permesso di pubblicarle.

Roberto Juarroz (1925-1995), poeta argentino,pubblicò sotto il titolo generale di Poesía verticalquattordici volumi di versi. Il primo comparvenel 1958 e l’ultimo, postumo, nel 1997. Qui lasua poesia è tradotta da Massimo Parizzi.

Clare Kines, nato e cresciuto a Roblin (Ma-nitoba, Canada), ha lasciato la Royal Cana-dian Mounted Police dopo ventiquattro annidi servizio. Rimasto vedovo nel 1996, si è tra-sferito nel 1999 ad Arctic Bay, dove ha incon-trato sua moglie Leah. Hanno adottato duebambini, Travis e Hilary. Gestiscono il “Kig-gavik Bed and Breakfast”. Le sue pagine, trattedal blog The house & other Arctic musings(http://kiggavik.typepad.com/), sono tradotte daRosaria Fiore (6, 9, 18 luglio, 3, 23 agosto) e

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Paola Zanetti (25 settembre). Lo ringraziamoper il permesso di pubblicarle.

“Leggy”, nata e cresciuta in Nigeria, vive negliStati Uniti, dove studia ingegneria. La sua pa-gina, tradotta da Cristina Mazzaferro, è trattadal blog Confessions of a confused teenager(http://leggy-freda.blogspot.com/).

Cristina Mazzaferro ([email protected]),nata a Pescara nel 1971, vive a Noale (Venezia).Traduce da inglese, francese e tedesco. Qui hatradotto, oltre a numerose “notizie” della colonnadi destra, le pagine di Laila El-Haddad (9 settem-bre) e “Leggy”.

Eman Al Nafjan, madre di tre figli, è spe-cializzanda in un’università di Riyadh, Ara-bia Saudita. Le sue pagine, tradotte da PaolaZanetti (12 e 24 luglio) e Sara Crimi (15agosto), sono tratte da Saudiwoman’s Weblog(http://saudiwoman.wordpress.com/).

Orlando Luis Pardo Lazo, scrittore e foto-grafo, è nato nel 1971 all’Avana, dove vive.La sua pagina, tradotta da Elia Riciputi, ètratta dal blog Lunes de post-revolución(http://orlandoluispardolazo.blogspot.com/).Lo ringraziamo per il permesso di pubblicarla.

Massimo Parizzi è nato nel 1950 a Milano, dovevive. È traduttore. Ha ideato e dirige questa rivi-sta. Qui ha tradotto la poesia di Roberto Juarroze la pagina di Claudia Cadelo del 28 settembre.

Robinson Quintero Ossa è nato a Caramanta,Colombia, nel 1959. Ha pubblicato tre raccolte

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pp. 17, 19, 34, 51,59, 84

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poetiche. L’ultima è La poesía es un viaje, Uni-versidad Nacional de Colombia, Bogotá, 2004.La sua poesia è tradotta da Gabriella Gregori.

Elia Riciputi è nato nel 1983 in Romagna,dove vive. Traduttore da inglese e spagnolo,qui ha tradotto le pagine di Laritza Diversent,Roberto Valencía, Yoani Sánchez e OrlandoLuis Pardo Lazo.

Liza Rosenberg, nata nel 1968, è cresciuta aSchenectady, nello stato di New York, e vivea Karkur, in Israele, dove si è trasferita nel1991. Le sue pagine, tradotte da Paola Za-netti, sono tratte dal blog Liza Rosenberg(http://lizarosenberg.com/). La ringraziamo peril permesso di pubblicarle. La lettera ad Abbase Netanyahu (2 settembre) è stata scritta per laBBC World Service Radio e trasmessa nel pro-gramma The World Today.

Yoani Sánchez è nata nel 1975 all’Avana,dove vive. Le sue pagine, tradotte da Elia Ri-ciputi, sono tratte dal blog Generación Y(http://www.desdecuba.com/generaciony). Laringraziamo per il permesso di pubblicarle.

Francesco Selis (“Franz”), nato a Bologna nel1955, vive a San Lazzaro di Savena (Bologna).Fa il taxista. Le sue pagine sono tratte daFranz-blog.2 (www.franz-blog.it). Lo ringra-ziamo per il permesso di pubblicarle.

Sarah Smile, arte-terapeuta, si è trasferitain Israele nel luglio 2003 con il marito equattro figli. Le sue pagine, tradotte da Ro-

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saria Fiore (4 luglio) e Paola Zanetti (25agosto), sono tratte dal blog Sarah Smile( http://sarahbsmile.blogspot.com/).

“Sunshine” è nata nel 1992 e vive a Mosul,Iraq. Le sue pagine, tradotte da Paola Za-netti (29 luglio) e Barbara Volta (22 ago-sto), sono tratte dal blog Days of My Life(http://livesstrong.blogspot.com).

Cristina Tabbia è nata a Cucciago (Como)nel 1975 e vive a Pechino. Traduttrice e inter-prete, qui ha tradotto le pagine di Karen Woo

Alfredo Tamisari è nato nel 1942 a Milano,dove vive. Ex insegnante elementare, ora col-labora con la Libera Università dell’Autobio-grafia (www.lua.it). Ha pubblicato, fra l’altro,le raccolte di frammenti poetici autobiograficiFrancobolli di tempo, Milano, 2005, e Nellospecchio del ricordo, I Dispari, Milano, 2007.

Roberto Valencía, giornalista, vive a San Sal-vador. Le sue pagine, tradotte da Elia Rici-puti, sono tratte dal blog Crónicas Guanacas(http://cronicasguanacas.blogspot.com/).

Barbara Volta ([email protected]) ènata ad Alessandria nel 1983 e vive a PonzanoMonferrato (Alessandria). Frequenta il corsodi laurea specialistica in Lingue, letterature eciviltà dell’Europa e delle Americhe. Qui hatradotto le pagine di Laila El-Haddad (10 ago-sto) e “Sunshine” (22 agosto).

Karen Woo , medico d i Londra , cofon-

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pp. 9, 64

pp. 42, 58

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pp. 39, 71

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d a t r i c e d i “ B r i d g e A f g h a n i s t a n ”(bridgeafghanistan.blogspot.com), è statauccisa nell’agosto 2010 insieme ad altri noveoperatori umanitari dell’International Assi-stance Mission (www.iam-afghanistan.org) daun gruppo di talebani, in una vera e propria ese-cuzione, mentre tornava a Kabul dalla missionenel Nuristan di cui parla nel suo diario. Avevatrentasei anni. Le sue pagine, tradotte daCristina Tabbia, sono tratte dal blog DrKaren explores healthcare in Afghanistan(explorerkitteninafghanistan.blogspot.com).

Paola Zanetti ([email protected]), nataa Casale Monferrato (Alessandria), è interpretee traduttrice da inglese, francese e tedesco. Quiha tradotto le pagine di Eman Al Nafjan (12 e 24luglio), Joy Braimah, “Sunshine” (29 luglio),Liza Rosenberg, Sarah Smile (25 agosto) e ClareKines (25 settembre).

Maria Ofelia Zuniga Platero è nata nel1973 a San Salvador, dove vive. Le sue pa-gine, tradotte da Gabriella Gregori, sonotratte dal blog Esta boca es mía… Enchufadasy enchufados, estemos donde estemos…(http://estabocaesmia-mo.blogspot.com/).La rin-graziamo per il permesso di pubblicarle.

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Abbonamenti

Il costo dell’abbonamento annuale (4 numeri)è di 30 euro e vale come iscrizione alla associa-zione culturale no-profit “Qui - appunti dal pre-sente” (per leggerne lo Statuto andare awww.quiappuntidalpresente.it, cliccare “Abbo-namento” e, alla seconda riga, “per leggere loStatuto cliccare qui”). Coloro per i quali questocosto è troppo alto possono chiederci un abbo-namento a prezzo ridotto (in pratica, decidereloro quanto possono pagare e dircelo). L’importopuò essere versato (senza dimenticare di indicarenome, indirizzo e causale): per assegno o vagliapostale a “Qui - appunti dal presente”, via Bastia11, 20139 Milano; per bonifico sul conto cor-rente intestato a “Qui - appunti dal presente”,IBAN: IT09R0306901612100000001948; tramitePayPal, a www.quiappuntidalpresente.it, clic-cando su “abbonamento” e, poi, su “pagaadesso”; o tramite carta di credito, comunican-done via fax o telefono allo 02-57406574, o viae-mail a [email protected], intestazione, numero,scadenza e codice di sicurezza (o CCV2; le ultimetre cifre stampate sul retro della carta, nello spa-zio per la firma, o, per le carte American Ex-press, le quattro cifre stampate sul davanti soprail numero della carta).

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Gli ultimi numeri

Numero 20 (novembre 2008), “ricordi” - sommario: Ricordi, di Massimo Parizzi;Tangeri, mia città d’origine, di Jihane Bouziane; La mia casa natale, di Maria Gra-nati; Progresso e memoria, di Jacques Revel; Il pieno del ricordo, di Giorgio Morale;L’arte della dimenticanza, di Andrea Inglese; Mentre cade l’autunno, di GiovanniQuessep; Rovine palestinesi, di Jonathan Boyarin; Ricordando la nakba, di RanaQumsiyeh; La guerra è uno stato mentale, di Uri Avnery; Stiamo attenti alla nostraumanità, di Massimo Parizzi; Da Palermo a Milano, di Attilio Mangano; La miaprima delusione, di Renata Borghi; Luci e ombre, di Marina Massenz; La storia ini-zia indietro, di Marco Saya; 4 novembre 1966, di Laura Zanetti; Avevo vent’anni, diNives Fedrigotti; Il senso personale della storia vissuta, di Oksana Kis; Gli ieri, diMaria Ofelia Zuniga; Addirittura, di Johanna Bishop; Ma con la macchina fotogra-fica…, di Veronica Chochlova; Vecchi ricordi, di Hao Wu; La memoria della con-temporaneità, di Roberto Bordiga.

Numero 21 (marzo 2009), “umana società” - quarta di copertina: “Finita la bat-taglia / e morto il combattente, a lui venne un uomo / e disse: ‘Non morire. Ti amotanto’. / Ahi, ma il cadavere seguitò a morire. // In due si avvicinarono e insistevano:/ ‘Non lasciarci. Coraggio. Torna in vita’. / Ahi, ma il cadavere seguitò a morire. //Accorsero venti, cento, mille, cinquecentomila, / gridando: ‘Tanto amore, e nulla sipuò contro la morte’. / Ahi, ma il cadavere seguitò a morire. // Lo circondarono mi-lioni di individui / con preghiera comune: ‘Resta, Fratello!’. / Ahi, ma il cadavereseguitò a morire. // Allora tutti gli uomini della terra / lo circondarono; li vide il ca-davere triste, emozionato: / si drizzò lentamente, / abbracciò il primo uomo, siavviò…” (César Vallejo) - sommario: pagine di diario da Gaza, Cina, Israele, Cuba,Italia, Ucraina e Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna; poesie di Giacomo Leopardi,Marco Saya, T.S. Eliot, Jaime Gil de Biedma, César Vallejo, Ennio Abate; estrattida “The New York Times”, “CNN International”, “la Repubblica”; Appunti di Mas-simo Parizzi; un brano di una lettera di Etty Hillesum.

Numero 22 (giugno 2009), “da Gaza in poi” - quarta di copertina: “…l’antipoli-tica è questa morte seminata all’ingrosso tra inermi…” (Lidia Campagnano, Roma,29 dicembre 2008) - sommario: pagine di diario da Stati Uniti, Italia, El Salvador,Iraq, Israele, Kosovo, Ecuador, Palestina, Cuba, Gaza, Gerusalemme, Cina; Il doloredel mondo offeso, di Elio Vittorini; 325, di Sebastiano Buonamico; Sullo Shema e ilprofeta martire, di Marc H. Ellis; Primavera 1938, di Bertolt Brecht; da Guerra, diFranco Buffoni; La chéursa, di Raffaello Baldini; Fra pastori, di Laura Zanetti; Po-lifonia della nostalgia, storie di migranti ecuadoriani, di Carla Badillo Coronado.

Qui - appunti dal presente è un periodico dell’Associazione culturale no-profit“Qui - appunti dal presente”, via Bastia 11, 20139 Milano, tel.-fax: 02-57406574,e-mail: [email protected], url: www.quiappuntidalpresente.it, www.quihere.eu.Stampa: in proprio. Registrazione Tribunale di Milano 619, 26 ottobre 2001. Diret-tore responsabile: Massimo Parizzi.

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"Per scoprire un mondo abitabile, quale marciume occorre spazzare via!"

(Joan Miró, 1939)