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Questo eBook è un estratto del libro “Il Potere dell’8” di Lynne McTaggart

CONTIENE LE SEGUENTI PARTI:

Capitolo 1: Lo spazio delle possibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . .19 Capitolo 2: I primi esperimenti globali . . . . . . . . . . . . . . . . .27Capitolo 3: L’entanglement virtuale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .43Capitolo 4: Superare le barriere con la mente . . . . . . . . . . . . . .55Capitolo 5: Il Potere del 12 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .67Capitolo 6: L’Esperimento sulla Pace. . . . . . . . . . . . . . . . . . .79Capitolo 7: Pensare alla pace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .89Capitolo 8: L’istante sacro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .99Capitolo 9: Cervelli mistici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107

L’autrice di questo libro non dispensa consigli medici né prescrive l’uso di alcuna tecnica come forma di trattamento per problemi fisici e medici senza il parere di un medico, direttamente o indirettamente.L’intento dell’autrice è semplicemente quello di offrire informazioni di natura generale per aiutarvi nella vostra ricerca del benessere fisico, emotivo e spirituale. Nel caso in cui usaste le informazioni contenute in questo libro per voi stessi, che è un vostro diritto, l’autrice e l’editore non si assumono alcuna respon-sabilità delle vostre azioni.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta tramite alcun proce-dimento meccanico, fotografico o elettronico, o sotto forma di registrazione fonografica; né può essere immagazzinata in un sistema di reperimento dati, trasmessa o altrimenti essere copiata per uso pubblico o privato, escluso l’“uso corretto” per brevi citazioni in articoli e riviste, senza previa autorizzazione scrit-ta dell’editore.

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Prologo

Per diversi anni, non credendo alle strane guarigioni che acca-devano nei miei workshop, non ho voluto scrivere questo libro: in pratica, avevo difficoltà a gestire i miracoli. Non parlo di “miracoli” e “guarigioni” in senso metaforico; mi riferisco a veri e propri eventi miracolosi, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci, situazioni straordinarie e impreviste in cui le persone, dopo essere state divi-se in gruppetti e aver ricevuto un pensiero di guarigione collettivo, guarivano istantaneamente da problemi fisici di ogni genere. Sto parlando del tipo di miracolo che sfida tutte le nozioni che ci hanno insegnato sul presunto funzionamento del mondo.

L’idea di dividere il pubblico in gruppetti di circa otto individui nacque durante un seminario, quando mi venne la curiosità di sapere cosa sarebbe successo se tutti i membri del gruppo avessero cerca-to di guarirne uno attraverso i loro pensieri collettivi. Li presentai come gruppi del “Potere dell’8”, ma avrei potuto anche chiamarli gruppi del “Potere di 8 milioni”, vista la potenza che dimostrarono e lo scossone che assestarono a tutte le mie conoscenze sulla natura degli esseri umani.

In quanto scrittrice, sono attratta dai grandi misteri della vita, dalle domande più profonde, come il significato della coscienza, le esperienze extrasensoriali, la vita dopo la morte e, in particolare, dalle anomalie che contraddicono il buon senso. Mi piace scoprire, come disse lo psicologo William James, l’unico corvo bianco che serve a dimostrare che non tutti i corvi sono neri.

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Nonostante le incursioni nel campo dell’extra ordinario, con la mia formazione di giornalista investigativa nel cuore resto una re-porter con la testa dura e cerco sempre di costruire un’impalcatura di prove concrete. Non sono incline a riferimenti esoterici, misticismi, aure, né uso in modo indefinito o poco preciso i termini “quantico” ed “energia”. In realtà, non c’è niente detesti più delle chiacchiere fumose senza fondamento scientifico, perché rischiano di togliere credibilità al mio lavoro.

Non sono né atea né agnostica. Una parte di me, profondamente spirituale, resta convinta che gli esseri umani siano più di un am-masso di sostanze chimiche e impulsi elettrici. Ma il motivo per cui resto attaccata alla Linea Maginot che separa il materiale dall’im-materiale è che mi affido alle curve a campana e agli studi in doppio cieco per fondare la mia fede.

La mia stessa visione della natura della realtà, relativamente convenzionale, subì una prima scossa dopo le ricerche per Il campo quantico. Avevo iniziato a scrivere quel libro nel tentativo di spiega-re perché, dal punto di vista scientifico, l’omeopatia e la guarigione spirituale funzionano, ma presto il lavoro mi portò in un nuovo, stra-no territorio, una rivoluzione nell’ambito scientifico che sfida molte delle nostre convinzioni più profonde sull’Universo e sul suo fun-zionamento. Gli scienziati di frontiera che incontrai nel corso delle mie ricerche, tutti con credenziali impeccabili e legati a istituzioni prestigiose, avevano compiuto scoperte incredibili sul mondo suba-tomico, che sembravano sovvertire le attuali leggi della biochimica e della fisica. Avevano trovato prove del fatto che tutta la realtà poteva essere connessa attraverso il Campo del Punto Zero, un campo di energia quantica sottostante e una vasta rete di scambi di energia. Sparuti biologi avevano condotto esperimenti pionieristici che indi-cavano che il sistema di comunicazione primario dell’organismo non sono le reazioni chimiche, ma le frequenze quantiche e le cariche di energia subatomica. I loro studi dimostravano che la coscienza uma-na è capace di accedere a informazioni oltre i convenzionali limiti di spazio e tempo. In numerosissimi esperimenti avevano fornito prove

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del fatto che probabilmente i nostri pensieri non sono chiusi nella nostra testa, ma sono capaci di superare i confini fisici e in grado di attraversare persone e oggetti e persino di influenzarli. Ciascuno di questi studiosi si era imbattuto in un aspetto della nuova scienza, una visione del mondo completamente nuova.

Scrivere Il campo quantico mi spinse a ulteriori indagini sulla na-tura di questa nuova visione della realtà. M’incuriosiva soprattutto la principale implicazione di queste scoperte: i pensieri erano qualcosa di reale e avevano la capacità di modificare la materia fisica.

Quell’idea continuava ad assillarmi. Erano stati pubblicati svaria-ti best seller sulla legge dell’attrazione e sul potere dell’intenzione, sull’idea cioè che fosse possibile manifestare ciò che si desidera di più semplicemente pensandoci in modo mirato; sopraffatta da tante domande imbarazzanti, restavo però piuttosto scettica. Mi chiedevo se si trattasse di un potere vero e in quale misura fosse applicabile a qualunque ambito. Che cosa ci si può fare? Stiamo parlando di curare il cancro o di spostare una particella quantica? E la domanda più importante di tutte per la mia mente era: Che cosa capita quando tante persone si concentrano sullo stesso pensiero contemporaneamente? Se ne amplifica l ’effetto?

Dagli studi che avevo analizzato per Il campo quantico, era chiaro che la mente sembrava in qualche modo inestricabilmente connessa alla materia e, in effetti, in grado di alterarla. Ma questo fatto, che sollecitava profondi quesiti sulla natura della coscienza, era stato ba-nalizzato da alcune analisi popolari e trasformato nell’idea che fosse possibile raggiungere una grande ricchezza con la forza del pensiero.

Volevo offrire qualcosa che andasse oltre la manifestazione di un’auto e di un anello di diamanti, oltre l’ottenere più cose. Avevo in mente un’impresa più audace. Sembrava che questa nuova scienza sovvertisse tutte le nostre presunte conoscenze sulle capacità proprie dell’uomo e volevo vedere fin dove potevano arrivare. Se dispone-vamo di uno straordinario potenziale esteso di questo genere, ne seguiva che dovevamo agire e vivere in modo diverso, secondo una visione radicalmente nuova di noi stessi, come parte di un tutto più

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grande. Volevo verificare se quella capacità era abbastanza potente da guarire le persone o magari anche il mondo. Come un San Tom-maso dubbioso del ventunesimo secolo, fondamentalmente cercavo un modo per dissezionare la magia.

Il mio libro successivo, The Intention Experiment – Studi scientifici sul campo quantico, riunendo tutte le ricerche credibili sul potere del-la mente sulla materia, si proponeva di fare proprio questo; l’obietti-vo del libro, però, era anche un invito. Pochissimi studi, infatti, erano stati condotti sull’intenzione di gruppo e progettavo di colmare quel vuoto arruolando i miei lettori come parte di un corpo sperimentale per uno studio scientifico sull’invio di pensieri collettivi. Dopo la pubblicazione del libro, riunii un consorzio di medici, biologi, psi-cologi, statistici e neuroscienziati di grande esperienza nella ricerca sulla coscienza. Periodicamente, invitavo il mio pubblico virtuale, o quello reale delle conferenze o dei corsi, a inviare un apposito pen-siero specifico per modificare un certo obiettivo collocato in un la-boratorio e stabilito da uno degli scienziati con cui collaboravo, che poi calcolava i risultati per vedere se le nostre intenzioni avevano avuto qualche effetto.

Alla fine, il progetto si trasformò nel più grande laboratorio glo-bale del mondo e coinvolse centinaia di migliaia dei miei lettori in-ternazionali in alcuni tra i primi esperimenti controllati sulla capaci-tà di un’intenzione collettiva di modificare il mondo fisico. Anche se certi esperimenti erano piuttosto rudimentali, persino i più semplici furono condotti in rigorose condizioni scientifiche seguendo un ac-curato protocollo. E tutti, tranne uno, furono realizzati con uno o più controlli e anche “in cieco”, per cui gli scienziati coinvolti erano informati dell’obiettivo delle nostre intenzioni solo dopo che il lavo-ro era finito e i risultati calcolati.

Ero molto poco convinta che avremmo ottenuto risultati positivi, ma ero disposta a fare un tentativo. Scrissi a molti partecipanti al progetto che il risultato degli esperimenti contava meno della sem-plice disponibilità a esplorare l’idea, poi lanciai il libro e due mesi dopo, con un respiro profondo, diedi il via al primo esperimento.

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Come poi constatammo, gli esperimenti diedero riscontri posi-tivi. Molto positivi. Dei trenta esperimenti realizzati, ventisei pro-dussero un cambiamento misurabile, quasi sempre significativo, e tre dei quattro non riusciti avevano incontrato semplici problemi tecnici. Per contestualizzare questi risultati, basta dire che quasi nes-sun farmaco prodotto dall’industria farmaceutica può rivendicare un simile livello di efficacia.

Fu un anno dopo l’inizio degli esperimenti globali con gruppi di migliaia di persone che decisi di riproporre l’intero processo nei miei corsi, creando alcuni gruppi del Potere dell’8 e chiedendo ai membri di inviare pensieri di guarigione. Per me, finché non si rivelò efficace al di là di ogni aspettativa e finché persone da tempo malate non raccontarono guarigioni miracolose e quasi istantanee, si trattava solo di un altro esperimento, più informale, e quasi avventato.

The Intention Experiment catturò l’attenzione del pubblico. Per-sino Dan Brown, autore di best seller, incluse me e il mio lavoro in uno dei suoi libri, Il simbolo perduto. Ma i risultati degli esperimenti in sé sono solo una parte della storia. In realtà, non sono la parte più importante. Ora mi rendo conto che quando conducevo questi esperimenti e quelli con i gruppi del Potere dell’8 mi ponevo quasi sempre le domande sbagliate. I punti fondamentali riguardavano il processo stesso e le sue implicazioni sulla natura della coscienza, sulle nostre capacità di esseri umani e sul potere del collettivo. I risultati sia dei gruppi sia degli esperimenti, per quanto incredibili, sbiadivano al confronto di quello che accadeva ai partecipanti. L’ef-fetto più potente dell’intenzione di gruppo avveniva proprio su chi inviava l’intenzione, aspetto che tutti i libri più famosi in materia hanno praticamente ignorato.

A un certo punto cominciai ad accorgermi che l’esperienza stessa dell’inviare un’intenzione in gruppo innescava grandi cambiamenti nelle persone: modificava la percezione della coscienza individuale, eliminava il senso di separazione e individualità e poneva i membri del gruppo in quello che può essere descritto solo come uno stato di unità estatica. In tutti gli esperimenti, che fossero più o meno este-

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si, globali o limitati ai gruppi del Potere dell’8, osservavo la stessa dinamica: una dinamica così potente e incisiva che permetteva il verificarsi di miracoli sui singoli. Registrai centinaia, se non migliaia, di questi miracoli istantanei nelle vite dei partecipanti: guarivano da serie patologie di vecchia data. Ricucivano relazioni sfilacciate. Riscoprivano il loro scopo nella vita o lasciavano un lavoro di rou-tine per cominciare una carriera più avventurosa o soddisfacente. Qualcuno di loro si trasformò proprio davanti a me. E non erano presenti né sciamani né guru, e non veniva eseguita alcuna comples-sa cerimonia di guarigione; anzi, non era necessaria nessuna espe-rienza pregressa. Per innescare tutto questo era bastato solo riunire le persone in gruppo.

Mi chiedevo cosa mai gli avessi fatto. All’inizio non credevo ai miei occhi. Per anni attribuii alla mia immaginazione iperattiva quelli che sembravano effetti “di rimbalzo”, ossia ricadute positive indirette che di riflesso coinvolgevano chi era parte attiva della me-ditazione di guarigione. Come continuavo a ripetere a mio marito, avevo bisogno di raccogliere più storie, condurre più esperimenti e mettere insieme più prove concrete. Una volta raggiunto quest’o-biettivo, però, le mie scoperte cominciarono a spaventarmi e mi misi in cerca di qualche precedente storico o scientifico.

Alla fine mi resi conto che quegli esperimenti mi stavano fornen-do, in modo più profondo e concreto, una prova tangibile di qualco-sa che prima comprendevo solo a livello intellettuale: le storie che ci raccontiamo sul funzionamento della nostra mente sono palese-mente sbagliate. Anche se nel Campo quantico avevo parlato della coscienza e dei suoi effetti sul dominio del grande e del visibile, ciò di cui ero testimone superava persino le più estreme di queste idee.

Tutti gli esperimenti che conducevo, tutti i gruppi del Potere dell’8 evidenziavano che i pensieri possono arrivare a persone e per-sino a oggetti a chilometri di distanza, e hanno la capacità di mo-dificarli. I pensieri quindi non si dimostravano soltanto in grado di esercitare una certa influenza, ma addirittura di risolvere qualsiasi difficoltà nella vita umana.

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Questo libro è il tentativo di comprendere i miracoli che si sono verificati durante gli esperimenti, per capire gli effetti provocati nei partecipanti e inserirli nel più ampio contesto della scienza, delle pratiche esoteriche e delle religioni istituzionali. È la biografia di un evento casuale, un’impresa umana nella quale mi sono imbattuta, che sembra avere precedenti antichi, persino nelle prime chiese cri-stiane. Il Potere dell ’8 parla anche di me e di cosa accade a qualcuno come me quando le regole del gioco, le regole che hai seguito per tutta la vita, all’improvviso non valgono più.

I risultati raggiunti dai gruppi sono notevoli, ma non sono il ful-cro della storia. Questa storia parla del potere misterioso di guarire la tua vita, potere che porti dentro di te e che, paradossalmente, si scatena nel momento in cui smetti di pensare a te stesso.

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Capitolo 1

Lo spazio delle possibilità

In gruppoUn pomeriggio ero seduta al computer con mio marito a cerca-

re di capire come adattare i grandi Esperimenti sull’Intenzione che avevo realizzato, per proporli nei corsi che avremmo tenuto a breve negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Era l’anno che seguiva il lancio dei miei grandi Esperimenti sull’Intenzione globali, in cui invitavo lettori sparsi per il mondo a inviare pensieri verso un obiettivo ben controllato, posizionato nel laboratorio di uno degli scienziati che avevano accettato di collabo-rare con me. All’epoca ne avevamo condotti quattro, inviando inten-zioni a obiettivi semplici, come semi e piante, e ottenendo risultati davvero incoraggianti.

Ora cercavo di portare questi effetti a una dimensione individua-le, adatta alle persone e al corso di un weekend, ma non ne avevo tenuti molti prima e, all’epoca, sapevo quello che non volevo: far finta di aiutare le persone a manifestare miracoli, come promette-vano molti corsi simili. Ero anche preoccupata dei limiti fisiologici della struttura di un seminario. Magari il potere di trasformazione dei pensieri era visibile solo nell’arco temporale di settimane, mesi o persino anni. Come avremmo dimostrato qualche cambiamento significativo tra venerdì e domenica pomeriggio?

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Cominciai ad annotare i nostri pensieri su una slide di Power-Point: scrissi “Focalizzati”. Avevo intervistato parecchi esper-ti nell’uso del pensiero, monaci buddisti, maestri di Qi Gong e di guarigione, e tutti mi avevano spiegato che entravano in uno stato mentale di alta energia e concentrazione.

“Concentrati” disse Bryan. Forse l’intenzione di massa amplifica-va questo potere. Sembrava fosse proprio così.

Focalizzati.Concentrati.Tutti gli Esperimenti sull’Intenzione globali che stavo pianifi-

cando erano finalizzati a sanare qualcosa sul Pianeta, quindi era lo-gico che nei seminari di un weekend continuassi a concentrarmi sulla guarigione. Decidemmo che il corso avrebbe promosso la gua-rigione di qualcosa nella vita dei partecipanti.

Poi scrissi: “In gruppo”. Un piccolo gruppo.“Cerchiamo di dividere i partecipanti in gruppetti di circa otto

persone e chiediamo loro di inviare un pensiero di guarigione col-lettiva a un altro componente del gruppo con una malattia” suggerii a Bryan. Forse, così facendo, potevamo scoprire se l’intenzione di un gruppo ristretto aveva la stessa potenza di quella dei gruppi più grandi. Dov’era il discrimine in termini di numero? Avevamo bi-sogno di una massa critica pari al numero di persone coinvolte in alcuni dei nostri esperimenti più estesi oppure sarebbe stato suffi-ciente un gruppo di otto? Non ci ricordiamo chi di noi ebbe l’idea (probabilmente fu Bryan, che ha un talento naturale per i titoli), ma battezzammo i gruppi “Il Potere dell’8” e, quando arrivammo a Chicago, avevamo elaborato il progetto.

Cominciai a pensare all’idea di piccoli gruppi dopo ciò che accadde a Don Berry. Don, un veterano dell’esercito americano che viveva a Tullahoma, nel Tennessee, scrisse sul forum di Intention Experiment, il sito dedicato agli esperimenti sull’intenzione, offrendosi come no-stro primo obiettivo umano. Da tempo gli era stata diagnosticata una spondilite anchilosante e le vertebre della sua spina dorsale si erano

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fuse insieme, impedendogli i movimenti laterali. Persino le costole sembravano bloccate nella loro posizione e, a causa della malattia, non riusciva a muovere il petto da vent’anni. Aveva inoltre due protesi all’anca e soffriva di dolori continui. Spiegò di avere i referti di svaria-te radiografie e altri esami medici e di poter così fornire la sua intera storia clinica con cui misurare qualsiasi cambiamento.

Don invitava i membri della mia community a stabilire, a ca-denza quindicinale, periodi in cui gli avrebbero inviato pensieri di guarigione e, da parte sua, iniziò a tenere un diario su cui registrava l’andamento della malattia. “Durante l’esperimento cominciai a sen-tirmi meglio” m’informò. “Non fu una guarigione istantanea, ma il mio benessere migliorò e i dolori diminuirono.”

Mi scrisse otto mesi dopo. Alla visita semestrale dal reumatologo, per la prima volta, alla domanda del medico poté rispondere che si sentiva straordinariamente bene e che aveva solo dolori occasionali. “Ero (e sono) ancora bloccato come un pezzo unico, ma riuscivo a piegarmi di più e soffrivo moooooooolto meno” gli spiegò. “Non ricor-do di essermi mai sentito meglio.”

Il medico prese poi lo stetoscopio per auscultare il cuore di Don e gli chiese di fare un respiro profondo. Alla fine della respirazione, mentre era intento ad ascoltare, all’improvviso lo guardò con espres-sione incredula e gli disse: “Il suo petto si è appena mosso!”.

Don mi scrisse che il reumatologo restò a bocca aperta. “Il mio petto si muove! Mi sento di nuovo una persona normale! Non ho avuto una guarigione spontanea, ma l’esperimento ha innescato in me la possibilità di migliorare il mio benessere. Mi ha anche spinto a riconoscere l’influenza del mio modo di pensare sulla salute e per-sino sul mondo attorno a me.”

Pensavo che il gruppo del nostro corso di Chicago avrebbe avuto un esito di questo genere: qualche piccolo miglioramento fisico do-vuto a un effetto placebo, un esercizio piacevole, qualcosa di simile a un massaggio o a un trattamento per il viso.

Dico Chicago, ma non eravamo nemmeno lontanamente vicini alla città: ci trovavamo a Schaumburg, in Illinois, uno dei tipici vil-

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laggi della contea di Cook nel Golden Corridor del nord-ovest dello Stato, un’area che deve il proprio nome ai profitti stellari generati dai centri commerciali, dalle zone industriali e dai ristoranti di lusso che si susseguono lungo l’autostrada. Motorola aveva impiantato il pro-prio quartier generale a Schaumburg; il Woodfield Mall, a due passi dal nostro hotel, era l’undicesimo centro commerciale per grandezza negli Stati Uniti. Avremmo potuto essere ovunque in America, in uno di quegli enormi complessi alberghieri collocati lungo un’auto-strada. Il Renaissance Schaumburg Convention Center Hotel era stato scelto dai nostri organizzatori soprattutto per la posizione, a una ventina di chilometri dall’aeroporto O’Hare di Chicago.

La sera prima della conferenza ci sedemmo nell’atrio cavernoso, attorno a un camino elettrico, a guardare fuori, verso il fiumiciattolo che ci separava dalla serpentina formata dalle autostrade. Avevo anco-ra la sensazione di essere in una fase troppo iniziale del mio processo di scoperta per tenere il corso ed ero preoccupata di quello che sarebbe successo il giorno successivo. Mi chiedevo se avremmo dovuto for-mare dei cerchi, se i partecipanti avrebbero dovuto tenersi per mano, dove si sarebbe dovuta collocare la persona oggetto del processo, se al centro del cerchio o all’interno dello stesso. Mi domandavo anche per quanto tempo il gruppo avrebbe dovuto focalizzarsi sull’invio di pensieri di guarigione e se i membri del gruppo dovessero essere esat-tamente otto oppure se potevamo utilizzare un qualsiasi altro numero.

Negli esperimenti globali ci eravamo mossi con molta cautela, coinvolgendo solo le persone che si radunavano nei piccoli gruppi spontanei che emergevano nella community del mio sito dedicata all’invio di pensieri di guarigione: non sapevamo infatti se far con-centrare i pensieri di migliaia di persone su un solo individuo avrebbe avuto un effetto positivo o negativo. Per la prima volta avremmo agito senza rete di protezione, né esperimenti in doppio cieco e senza alcun protocollo scientifico. E se per qualcuno fosse stata un’esperienza nega-tiva? Una cosa mi sembrava certa, anche se era solo una sensazione: bisognava che i gruppi si disponessero in cerchio. Il giorno successivo, ci dicemmo, avremmo scoperto se quell’intuizione era corretta.

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Il sabato dividemmo i partecipanti – un centinaio di persone – in gruppetti di circa otto membri, assicurandoci che quasi tutti i componenti non si conoscessero tra loro. Chiedemmo a una per-sona di ciascun gruppo con qualche tipo di problematica fisica o emotiva di nominarsi oggetto dell’intenzione degli altri. I volontari avrebbero spiegato la propria patologia ai compagni, che si sareb-bero poi posizionati in cerchio, tenendosi per mano e mandando in contemporanea pensieri di guarigione al malato; avrebbero mante-nuto l’intento per dieci minuti, la stessa durata che avevamo utiliz-zato negli esperimenti su larga scala, soprattutto perché sembrava il tempo massimo in cui persone senza una specifica preparazione riuscivano a mantenere la concentrazione.

Diedi istruzioni al pubblico nella fase detta Potenziamento, un programma che avevo creato e pubblicato in Intention Experiment, dopo aver riassunto le pratiche più comuni dei “maestri” dell’inten-zione, come monaci buddisti, maestri di guarigione e di Qi Gong, e averle combinate con le condizioni che si erano rivelate più efficaci negli studi su mente e materia condotti in laboratorio. Questa tec-nica cominciava con qualche respirazione, seguita da una visualizza-zione e da un esercizio sull’empatia, per aiutare i partecipanti a en-trare in uno stato di profonda concentrazione, alto livello energetico e predisposizione amorevole.1 Spiegai inoltre come ideare un’inten-zione molto dettagliata perché, secondo le ricerche di laboratorio, un alto grado di specificità sembrava funzionare meglio. I membri di ciascun gruppo dovevano tenersi per mano in cerchio o posizionare la persona oggetto dell’intervento al centro, e appoggiare una mano su di lui o lei, come i raggi di una ruota su un perno. Non avevo idea di quale modalità fosse preferibile, ma sembrava importante che i membri del gruppo restassero sempre in contatto fisico.

“È solo un altro esperimento un po’ improvvisato” dissi un atti-mo prima di iniziare, anche se avevo omesso che era il mio primo

1 Una descrizione dettagliata del programma “Potenziamento” è disponibile nel Capitolo 22,

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viaggio e che in pratica stavo cercando la rotta durante il tragitto. “Qualsiasi risultato va bene.” Proponemmo la stessa musica degli esperimenti più estesi e restammo a guardare mentre i gruppi sem-bravano stabilire una connessione profonda. La sera, prima che se ne andassero, chiedemmo alle persone oggetto dell’intenzione di pre-pararsi a descrivere la loro esperienza e il loro stato mentale, emotivo e fisico, la mattina successiva.

“Non inventate miglioramenti inesistenti” raccomandai. La domenica mattina, domandai a chi aveva ricevuto il tratta-

mento di farsi avanti e raccontare come si sentiva. Una decina di persone si misero in fila davanti a tutti e noi, a turno, passammo loro un microfono.

Una delle donne, che da anni soffriva di insonnia con sudorazio-ne notturna, si era goduta la prima notte di riposo. Un’altra signora con un forte dolore alla gamba raccontò che, durante la sessione del giorno precedente, il male era aumentato ma, dopo l’intenzione di gruppo, era diminuito tanto da raggiungere i livelli più bassi che ri-cordasse negli ultimi nove anni. Un’altra partecipante che soffriva di emicrania cronica disse che al risveglio il mal di testa era sparito. Il terribile mal di stomaco e la sindrome dell’intestino irritabile di un altro partecipante erano svaniti. Una donna afflitta da depressione si sentiva sollevata. I racconti continuarono così per un’ora.

Ero tanto profondamente scioccata che non osavo guardare Bryan. Era come se lo zoppo si fosse messo a camminare. Nonostante la mia avversione per i miracoli facili in stile New Age, un vero e pro-prio prodigio stava avvenendo proprio lì di fronte a me. Sperai che i risultati non fossero semplicemente dovuti al potere della suggestio-ne. Mi sembrò che, con il progredire della giornata, le intenzioni di gruppo diventassero più efficaci.

Una volta rientrata a casa, non sapevo come interpretare l’intera esperienza. Scartai la possibilità di una guarigione istantanea e mi-racolosa. Pensai che, forse, fosse tutto dovuto all’effetto dell’aspet-tativa, che consentiva alle persone di mettere in moto le proprie risorse di guarigione.

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Per l’intero anno successivo, indipendentemente dal luogo in cui ci trovavamo, in tutti i corsi, grandi o piccoli che fossero, ogni volta che riunivamo gruppi di circa otto persone, fornendo istruzioni ai partecipanti e chiedendo poi di inviare un’intenzione a un sogget-to designato, restavamo testimoni sbalorditi della stessa esperienza: storie di miglioramenti straordinari e di trasformazioni fisiche e psi-chiche si presentavano una dopo l’altra.

Marekje, affetta da sclerosi multipla, aveva difficoltà a camminare senza sostegni. La mattina dopo l’esperimento arrivò senza stampelle.

Marcia soffriva di opacità da cataratta che le impediva di vedere da un occhio. Il giorno successivo alla guarigione di gruppo sostenne di aver quasi completamente recuperato la vista da quell’occhio.

A Maarssen, in Olanda, incontrai Heddy che aveva l’artrosi a un ginocchio. “Non riuscivo a piegare il ginocchio a più di novanta gradi e avevo comunque difficoltà a salire e scendere le scale” disse, “di solito dovevo muovermi con grande attenzione, un gradino alla volta.” Il suo gruppo del Potere dell’8 l’aveva collocata al centro del cerchio e tutti i membri si erano seduti vicino a lei, mentre due per-sone le avevano appoggiato la mano sul ginocchio.

“All’inizio non sentii niente. Poi arrivò un calore e i miei muscoli iniziarono a tremare e anche tutti gli altri si muovevano con me. Poco dopo percepii che il dolore se ne andava. E pochi minuti più tardi era sparito del tutto” raccontò.

Quella notte Heddy riuscì a salire e scendere dalle scale facilmente e si recò alla sauna dell’hotel. Il mattino successivo il dolore non era tornato. “Mi alzai dal letto e, mentre andavo a fare la doccia, dimenti-cai che dovevo fare un gradino per volta. Scesi normalmente.”

A Denver, ci fu la madre di Laura, con la scoliosi. Quando ricevet-te l’intenzione raccontò che il dolore era sparito. Diversi mesi dopo Laura mi scrisse che la spina dorsale della madre si era modificata tanto che le aveva dovuto spostare lo specchietto retrovisore dell’auto perché si adattasse alla sua nuova postura con la schiena dritta.

Paul, a Miami, era affetto da una tendinite alla mano sinistra così forte da costringerlo a portare sempre un tutore ma, il giorno dopo

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aver ricevuto i pensieri di guarigione del gruppo, si presentò di fronte al pubblico mostrando che riusciva a muovere perfettamente la mano.

Ci fu Diane, alla quale la scoliosi procurava un dolore così forte all’anca che aveva dovuto smettere di fare sport e, nell’ultimo anno, aveva perso 2 centimetri e mezzo. Durante l’intenzione percepì un calore intenso e una specie di raffica che stimolò una reazione nella sua schiena. Il giorno dopo dichiarò: “È come se avessi un’anca nuo-va.” E Gloria, che durante l’intenzione per lei ebbe come l’impres-sione che la stessero stirando e allungando da entrambi i lati del tor-so, dopodiché il dolore costante alla colonna lombare sparì del tutto.

E ci fu Daniel, da Madrid, con una malattia rara che inibiva la ca-pacità dell’organismo di assorbire la vitamina D, per cui la sua colonna vertebrale si era incurvata in avanti tanto da limitargli la respirazione. Nella fase dell’intenzione provò un indolenzimento alla schiena, un ca-lore alle anche e freddo alle estremità. Percepì un aumento del dolore ed ebbe la sensazione che la schiena si stesse allungando, come se stesse crescendo. Per un attimo credette di essere sul punto di spezzarsi in due. Alla fine, Daniel raccontò che riusciva a respirare normalmente, per la prima volta dopo anni, e che la sua postura era notevolmente più dritta.

Ci furono centinaia e poi migliaia di altri casi, e ogni volta testi-moniavano i cambiamenti mentre avvenivano proprio lì, di fronte a me. Queste incredibili trasformazioni avrebbero dovuto farmi sta-re bene ma, all’epoca, le sentivo più che altro un peso. Temevo che avrebbero compromesso la mia credibilità in quello che consideravo il mio “vero” lavoro: esperimenti globali su larga scala.

Ecco perché, per tanti anni, ignorai ciò che stava avvenendo. Come qualsiasi giornalista direbbe, tralasciavo il punto essenziale della storia. Non coglievo fino in fondo ciò che persone come Rosa avevano cercato di spiegarmi, che riguardo al momento in cui il gruppo le aveva inviato un’intenzione per l’ipotiroidismo si espresse così: “Sentivo che si stava aprendo un varco in un tunnel e che mi stavo connettendo con l’Universo. E che se avessi ricevuto quest’e-nergia sarei riuscita a guarire. Avevo la sensazione di dare e ricevere guarigione, come se mi stessi guarendo anch’io.”

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Capitolo 2

I primi esperimenti globali

Un buon reporter, sfoderando gli attrezzi della meticolosa re-gistrazione di fenomeni osservabili, è un perturbatore dell’ordine sociale. Comincia da ciò che è noto e costruisce il caso a partire da questo, un fatto alla volta, come uno scienziato o un detective. Anche gli scienziati possono farsi portavoce di scomode verità, dal momento che, come mi si dice, gli scienziati migliori sono quelli che amano essere smentiti.

Sia i reporter sia gli scienziati cominciano avanzando alcune sup-posizioni. Costruiscono un’ipotesi, inventano un metodo per testarla e poi si fermano a vedere dove porta. A volte scoprono di aver segui-to strade sbagliate e di aver raggiunto un territorio inesplorato. Se sei un vero esploratore, sei felicissimo di trovarti lì, perché spesso è quando la tua ipotesi è sbagliata che scopri qualcosa di radicalmente nuovo sul funzionamento del mondo.

Ma come si dimostra un fenomeno che sfugge a tutte le leggi che ci sono state insegnate? Che cosa succede se tutti i presupposti da cui parti si trovano oltre i confini di ciò che è conosciuto o osservabile? E che cosa succede se cerchi di trovare la formula matematica di un miracolo?

Anche quando diedi inizio al nostro primo esperimento globale sull’intenzione ci stavamo muovendo completamente alla cieca. Non avevamo mappe a cui rifarci o precedenti da seguire; praticamente nessuno si era avventurato in quell’area di ricerca. Un solido corpus di

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studi scientifici aveva dimostrato che i pensieri umani erano in grado di modificare la realtà fisica con obiettivi di ogni tipo, dalle apparec-chiature elettriche ad altri esseri umani. Robert Jahn, decano emeri-to della facoltà di Ingegneria di Princeton, e la collega, la psicologa Brenda Dunne, che dirigeva il laboratorio PEAR (Princeton Engi-neering Anomalies Research) per la ricerca sulle anomalie, avevano dedicato trent’anni a raccogliere scrupolosamente i dati di una delle prove più convincenti sulla capacità dei pensieri diretti a influenzare macchinari elettronici. Tra i diversi ingegnosi generatori di eventi casuali, o macchine REG, come decisero infine di chiamarle, avevano costruito speciali programmi per computer che proponevano un’al-ternanza casuale di due immagini, per esempio cowboy e indiani, ciascuna con la stessa frequenza di apparizione. Jahn e Dunne collo-cavano i partecipanti di fronte allo schermo del computer chiedendo loro prima di cercare di influenzare la macchina perché facesse uscire più indiani, poi più cowboy. Nel corso di oltre due milioni e mezzo di esperimenti, i due scienziati dimostrarono inequivocabilmente che l’intenzione umana era in grado di influenzare le macchine in una o in un’altra specifica direzione e i loro risultati furono replicati in maniera indipendente da sessantotto ricercatori.1

Lo scomparso William Braud, psicologo e direttore delle ricer-che della Mind Science Foundation di San Antonio, nel Texas, poi Institute of Transpersonal Psychology, aveva condotto un ampio numero di studi che dimostravano che i pensieri erano in grado di influenzare il movimento degli animali e avevano effetti potenti sul sistema nervoso autonomo (meccanismi di attacco o fuga) e sugli stati di stress degli esseri umani.2

Nel picco dell’epidemia di AIDS degli anni Ottanta, la dottoressa Elizabeth Targ, oggi scomparsa, mise a punto un paio di studi inge-gnosi e altamente controllati, in cui dimostrò che una quarantina di guaritori a distanza sparsi per gli Stati Uniti erano riusciti a migliorare la salute e le possibilità di sopravvivenza di pazienti terminali di AIDS semplicemente inviando loro pensieri di guarigione, anche se i guaritori non li avevano mai incontrati né erano mai entrati in contatto con loro.3

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Molti gruppi di meditazione di massa, formali e informali, ot-tennero inoltre risultati positivi nell’abbassare il tasso di violenza. L’organizzazione per la meditazione trascendentale (Transcenden-tal Meditation Organization), fondata dall’ormai defunto Mahari-shi Mahesh Yogi, aveva condotto diversi studi su grandi gruppi di meditazione, portando alcune prove provocatorie del fatto che, se l’1 per cento della popolazione praticasse la normale meditazione trascendentale e la radice quadrata dell’1 per cento della popola-zione praticasse la meditazione trascendentale Sidhi – un tipo di meditazione più avanzato –, ogni genere di violenza, dagli omicidi agli incidenti stradali, diminuirebbe.4

Non era però stato condotto quasi nessun esperimento sugli ef-fetti dell’invio dello stesso pensiero allo stesso obiettivo da parte di un gran numero di persone contemporaneamente.

Senza precedenti di esperimenti di gruppo a cui rifarci, restammo con molte variabili di difficile definizione. Qual era la formulazione migliore per un’intenzione? Dovevamo essere specifici nel formula-re l’intenzione oppure limitarci a una richiesta generale, chiedendo che l’obiettivo fosse in qualche modo influenzato e lasciando decidere all’Universo i dettagli? Le persone che inviavano l’intenzione doveva-no essere insieme nella stessa stanza oppure ciascuno di loro doveva restare a casa propria, di fronte allo schermo del computer? Se con-ducevamo l’esperimento tramite internet, come avevamo in progetto di fare, chi inviava l’intenzione doveva avere qualche connessione in tempo reale con l’obiettivo, come un riscontro immediato dal labora-torio? La distanza aveva importanza e il potere dell’intenzione sarebbe diminuito se ci fossimo allontanati dall’obiettivo? Per quanto tempo era opportuno restare concentrati su un pensiero perché avesse effet-to? Andava bene qualsiasi orario o l’Universo doveva essere dell’umore giusto? E c’era un numero ottimale di partecipanti necessari a produrre un effetto misurabile? Come negli studi di meditazione trascendentale, dovevamo raggiungere una massa critica per ottenere un risultato?

Avremmo dovuto vagliare tutti questi interrogativi, scrupolosa-mente, passo dopo passo.

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Probabilmente, il quesito più grande era chi, tra gli scienziati cre-dibili, sarebbe stato disposto a rischiare la propria reputazione per svolgere questa ricerca con me, gratuitamente. Per fortuna, diversi scienziati sono pervasi, come me, da una sottile vena di spiritualità che permea la loro vita e influenza le ricerche che desiderano con-durre. Fu così che in poco tempo trovai in Gary Schwartz, psicologo e direttore del laboratorio di ricerca su coscienza e salute (Labo-ratory for Advances in Consciousness and Health) dell’Universi-tà dell’Arizona, un volontario disponibile per i primi esperimenti. Gary disponeva di qualifiche impeccabili: laurea alla Cornell Uni-versity con il massimo dei voti, dottorato di ricerca a Harvard, do-cente a contratto a Harvard, cattedra a Yale e direzione del centro di psicofisiologia e della clinica di medicina comportamentale presso la stessa università (Yale Psychophysiology Center e Yale Behavioral Medicine Clinic). Nonostante le qualifiche notevoli, Gary si sentiva limitato dall’antiquato mondo accademico della East Coast e lo ab-bandonò in favore dell’apertura mentale dell’Università dell’Arizona dove, come docente di psicologia, medicina, neurologia, psichiatria e chirurgia, poteva insegnare e aveva inoltre la libertà di fare ricerca praticamente in qualsiasi ambito volesse. Questa libertà aumentò quando ricevette 1,8 milioni di dollari dal centro nazionale di medi-cina alternativa (National Center on Complementary and Alterna-tive Medicine) per creare un centro di medicina di frontiera e scien-za del campo energetico (Center for Frontier Medicine and Biofield Science). Gary aveva già condotto un gran numero di esperimenti di medicina energetica e aveva a sua disposizione un intero laboratorio, ora Laboratory for Advances in Consciousness and Health, total-mente dedicato alla ricerca sulla natura della guarigione.

Uomo vivace e tarchiato sulla sessantina, con l’aria di avere sem-pre fretta, Gary è tutto un ribollire di passioni che è riuscito a con-vogliare nel proprio curriculum accademico, trasformandole in ma-terie di studio per la laurea triennale e specialistica.

Quando entrai in contatto con lui per la prima volta, le passio-ni di Gary erano dirette verso i confini ultimi della mente umana.

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Molto prima di farsi coinvolgere nel mio lavoro, aveva condotto di-versi studi sulla guarigione energetica e sulla natura della coscienza, inclusi gli Afterlife Experiments, una serie di esperimenti controllati e attentamente strutturati per eliminare frodi e imbrogli e verificare se i medium erano davvero in grado di comunicare con i morti. Il suo gruppo di medium rivelò una percentuale di accuratezza dell’83 per cento, fornendo più di ottanta informazioni su parenti scomparsi, da nomi e stranezze personali a dettagli sulla natura della loro morte.5 In generale, Gary era disposto a indagare su quasi tutto, purché fosse quantificabile scientificamente. Era uno di quegli scienziati che non si sarebbe sconvolto all’idea di una massa di individui che cercavano di risolvere un problema mondiale con il potere del pensiero positivo.

Come la maggior parte degli scienziati, però, era istintivamen-te portato alla cautela e insisteva che nei nostri esperimenti globali sull’intenzione avanzassimo un piccolo passo alla volta. Nella scienza s’inizia dalle domande più basilari. Avremmo cominciato dal regno “vegetale”, poi saremmo passati a quello minerale e animale, partendo da modelli sperimentali molto semplici, che con il tempo sarebbero diventati più complessi. Prima avremmo usato come obiettivo le pian-te, poi forse l’acqua, per concludere con gli esseri umani.

Rimasi molto delusa dal dover cominciare con le piante. Quando lanciai l’Intention Experiment, avevo progetti grandiosi. Volevo sal-vare le persone dagli edifici in fiamme. Avevo immaginato grandi intenzioni collettive per curare il cancro, poi riparare lo strato di ozono, prima di far cessare le violenze nei punti caldi del Pianeta.

In risposta a tutte queste idee fantasmagoriche, Gary mi citava continuamente la scena iniziale del film Contact, quando Ted Ar-roway affianca la giovane e impulsiva figlia Ellie che con la radio amatoriale cerca di entrare in contatto con qualcuno, nella segreta speranza che quel qualcuno venga dallo spazio.

“Piano, Ellie, piano” mi disse più di una volta Gary, ripetendo le parole di Arroway, “piano”. Come mi ricordava spesso, stavamo lavorando a un tipo di esperimento mai tentato. Prima dovevamo stabilire che i pensieri di un gruppo di persone avessero un effetto,

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un qualsiasi effetto. Solo dopo che fossimo riusciti a dimostrarlo, ci saremmo potuti porre obiettivi più ambiziosi e stravaganti. Doveva-mo muoverci facendo un piccolo passo alla volta.

Per quanto apprezzassi il suo desiderio di rigore, tutte le deci-sioni continuavano a essere un tiro alla fune tra le mie fantasie e la cautela scientifica di Gary. “Va bene, vediamo se riusciamo a ridurre il riscaldamento globale” dissi a Gary in uno dei nostri periodici brainstorming telefonici.

“Che ne dici di cominciare da una foglia?” rispondeva. “E quando avremo finito, passeremo ai semi.”

Come alla fine Gary mi convinse, scegliere uno dei sistemi bio-logici più semplici, come foglie o semi, aiuta a limitare le infinite variabili presenti in un organismo vivente, la miriade di processi chi-mici ed elettrici simultanei che si verificano in ogni momento. Solo iniziando dai sistemi biologici più semplici potevamo dimostrare che i cambiamenti erano causati dal potere dell’intenzione e non da un vasto assortimento di altre possibilità. Le piante, inoltre, erano soggetti facili e sicuri. Impiegare una pianta o un altro obiettivo non umano significava che non avremmo dovuto inviare il nostro pro-getto a un comitato di revisione interno all’università, istituito per assicurarsi che gli esperimenti sugli esseri umani fossero condotti in modo etico, cosa che avrebbe potuto facilmente fermarci per mesi.

Di norma, il tipo di esperimenti che avremmo potuto realizzare sarebbe stato limitato dagli strumenti di misurazione su cui sarem-mo riusciti a mettere le mani. Per fortuna il laboratorio di Gary, ospitato in un semplice edificio moderno di un piano, in stucco rosa, era una disordinata grotta di Aladino, piena di macchinari sofistica-ti, in grado di registrare il più piccolo cambiamento in un organismo vivente. Gary era stato profondamente influenzato dal lavoro del fi-sico tedesco Fritz-Albert Popp che, nel tentativo di trovare una cura per il cancro, aveva scoperto che tutti gli esseri viventi, dalle alghe agli umani, emettono una debolissima corrente di luce. Popp diede alla sua scoperta l’altisonante nome di “emissione di biofotoni”6 e passò il resto della vita a convincere l’establishment scientifico del

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fatto che questa debole fuoriuscita di luce rappresentasse il princi-pale mezzo di comunicazione degli esseri viventi all’interno dei loro organismi e verso il mondo esterno. Giunse a credere che quella luce fosse nientemeno che il direttore centrale del corpo, responsabile del coordinamento di milioni di reazioni molecolari all’interno dell’or-ganismo e strumento fondamentale per garantire l’orientamento nell’ambiente attraverso un sistema di comunicazione a doppio sen-so. Negli anni Duemila, il governo tedesco e più di cinquanta scien-ziati in tutto il mondo sono arrivati a dargli ragione.

Popp aveva costruito e sviluppato diversi fotomoltiplicatori per registrare questa tenue luminosità e Gary voleva implementare le ricerche utilizzando la macchina per fotografarla. Comprese che con un sistema dotato di fotocamera digitale con dispositivo ad accoppiamento di carica (CCD, Charged-Coupled Device) sarebbe riuscito a creare immagini digitali delle deboli emissioni di luce de-gli esseri viventi e a contarle, un pixel alla volta. Convinse quindi un professore di radiologia a lasciargli utilizzare un dispositivo simile da 100.000 dollari, di solito adoperato in astronomia e capace di fotografare anche la luce proveniente da galassie lontane. Prima che iniziassimo a lavorare insieme, Gary aveva speso 40.000 dollari dei propri fondi per acquistare uno strumento tutto suo, meno costoso, che ci avrebbe permesso di cominciare dalle basi. Gary mi assicurò che misurare se il potere dei pensieri fosse in grado di modificare in qualche modo la leggera emissione di luce sarebbe stato molto più importante che non esaminare, per esempio, l’influenza sul tasso di crescita: un macchinario così sensibile ci avrebbe permesso di co-gliere tutte le più microscopiche differenze nell’emissione luminosa di qualsiasi creatura vivente.

Quando gli scienziati iniziano un nuovo esperimento, in genere partono dal lavoro di chi si è già avventurato in quel territorio, che è il motivo per cui, prima di studiare qualcosa di sconosciuto, amano ripetere ciò che è già stato dimostrato. Per la nostra fase preliminare, decidemmo di riproporre lo studio pilota che avevamo condotto con Fritz Popp, descritto in The Intention Experiment – Studi scientifici sul

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campo quantico.7 In quell’esperimento, io e sedici meditatori esperti ci ritrovammo a Londra e inviammo pensieri di guarigione a quattro obiettivi nel laboratorio di Popp a Neuss, in Germania, due tipi di alghe, una pianta grassa della varietà Albero di giada e una donna, tutti esseri viventi che risentivano di un qualche tipo di stress. Gli esami di tutti i soggetti dimostrarono che, nei momenti in cui invia-vamo pensieri di guarigione, esercitavamo una forte influenza sulle emissioni luminose, modificandole.

Per quel primo esperimento, tuttavia, non disponevamo di ciò su cui la maggior parte dei veri esperimenti scientifici insiste: un gruppo di controllo, ossia una serie di soggetti simili a quelli dello studio sui quali, diversamente dai soggetti scelti, non interviene al-cun agente di cambiamento. L’unico nostro “controllo” erano stati i periodi di mezz’ora in cui riposavamo e non inviavamo intenzioni e anche il fatto che non avevamo comunicato agli scienziati quando saremmo stati in attività o meno. Questa volta, invece, Gary e io avremmo avuto due soggetti quasi identici con le stesse condizioni di partenza; ne avremmo scelto a caso uno a cui inviare i pensieri, utilizzando l’altro come controllo. Ancora una volta gli esperimenti sarebbero stati “in cieco”, gli scienziati cioè avrebbero ignorato quale soggetto era stato scelto finché non avessero calcolato i risultati, così che nessun pregiudizio inconscio influenzasse i dati.

Dopo aver preso in considerazione un certo numero di possibi-lità per il primo esperimento su larga scala, alla fine decidemmo di iniziare da una foglia di geranio, raccolta da una rigogliosa pianta del laboratorio di Gary in Arizona. Come partecipanti scegliemmo il pubblico di una conferenza tenuta dalla mia compagnia e chie-demmo loro di inviare pensieri con l’intenzione di abbassare la “lu-minosità” di una delle due foglie di geranio, che avevamo scelto a caso e che sarebbero state costantemente riprese da una webcam e mostrate al pubblico su uno schermo gigante.

Una delle ragioni principali della cautela iniziale di Gary nella scelta del nostro primo oggetto sperimentale era legata alle modalità stesse della dimostrazione scientifica. Per provare che qualcosa fun-

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ziona secondo un protocollo scientifico standard, si deve dimostrare una significatività statistica, ossia bisogna fornire una prova mate-matica del fatto che i risultati non sono stati raggiunti per caso, ma sono una conseguenza di ciò che si sta analizzando. Per farlo, serve una certa quantità di dati relativi all’oggetto di studio.

Secondo le regole scientifiche, il livello di significatività comprende tutti i valori inferiori a “p < 0,05”, che indica una percentuale inferiore a uno su venti che i risultati non siano stati ottenuti per caso.

Perché i nostri risultati raggiungessero una vera rilevanza stati-stica, avevamo bisogno di più di trenta punti di paragone tra le due foglie, cioè quelli che gli scienziati chiamano “punti di rilevamento”. Soddisfare questa richiesta persino in un esperimento rudimentale come il nostro avrebbe comunque richiesto un preciso protocollo di cinquanta step, che sarebbe stato seguito dal giovane tecnico di laboratorio di Gary, Mark Boccuzzi. Mark avrebbe scelto due foglie di geranio della stessa dimensione e un numero di emissioni lumi-nose, per poi bucare sedici punti di ciascuna foglia, compresi all’in-terno di una griglia di circa 4 centimetri per 4, processo che avrebbe richiesto diverse ore di preparazione. Il piano prevedeva che Mark posizionasse entrambe le foglie sotto le videocamere digitali, invias-se le immagini a Peter, il nostro primo webmaster degli esperimenti sull’intenzione, e poi restasse in attesa del segnale che indicava la fine dell’invio dei pensieri; a quel punto avrebbe usato la macchina fotografica CCD per fotografare ciascuna foglia.

All’inizio volevamo che i partecipanti cercassero di abbassare le emissioni di luce, come avevamo fatto nell’esperimento di Popp. Il grado di luminosità associata a uno stato di salute è però contrario a quanto ci si aspetterebbe d’istinto: più bassi sono i livelli di emissio-ne globale, più l’organismo è sano. Con l’avvicinarsi della data fissata per l’esperimento, cominciai a pensare che i partecipanti sarebbero stati naturalmente portati ad aumentare la luminosità, perciò Gary e io decidemmo di modificare le direttive in tal senso. Non ero par-ticolarmente entusiasta del protocollo, perché quando si potenzia la luminosità di qualcosa in realtà gli si procura uno stress. Quin-

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di, fondamentalmente, tutto il nostro esperimento sarebbe stato un esercizio per infliggere dolore a un essere vivente, anche se si trattava solo di una foglia, pronta a staccarsi da una pianta.

Il giorno della conferenza lanciammo una monetina per decidere il nostro obiettivo; l’altra foglia sarebbe stata il controllo.

Gary e io stabilimmo inoltre che i partecipanti avrebbero dovuto mantenere la concentrazione per dieci minuti, un lasso di tempo arbitrario scelto perché avevamo la sensazione che una durata su-periore sarebbe stata difficile da sostenere. Un’ora prima dell’inizio dell’esperimento, avevo cominciato a preoccuparmi del fatto che chiedere all’uditorio di restare concentrato per tutto quel tempo po-tesse rivelarsi difficile senza un qualche tipo di ancoraggio per la mente. Chiesi a mio marito Bryan di parlare della nostra conferenza con Mel Carlile, che gestiva il negozio di libri “Mind-Body-Spirit”, perché ci consigliasse una musica da meditazione da trasmettere du-rante l’esperimento. “Ecco qui, prova con il primo brano, ‘Choku Rei’ ” rispose Mel, allungando a Bryan un CD dell’album di melodie per il reiki di Jonathan Goldman, “Reiki Chants”.

Un attimo prima di iniziare, Gary chiamò per augurarci buona for-tuna. “Ricordate” aggiunse “che state facendo la storia della scienza.”

Sullo schermo comparve un’immagine gigantesca della nostra foglia. Spiegai al pubblico le tecniche del Potenziamento che ave-vo creato e descritto nel mio Intention Experiment. “Fate splendere sempre di più la fogliolina” raccomandai, “immaginatela splendere nell’occhio della vostra mente.”

I partecipanti continuarono a inviare i loro pensieri con quell’in-tenzione per dieci minuti, mentre in sottofondo andava la musica ipnotica da meditazione. Più tardi, rimasi stupita nello scoprire che Choku Rei significa, in essenza, rafforzare il potere, il flusso e la concentrazione dell’energia di guarigione, qualcosa di simile al Po-tenziamento. Forse le coincidenze non esistono.

Allora, comunque, mi sentii ridicola là in piedi sul palco. Nei miei giorni da reporter investigativo, ero stata molto pignola nel ri-spettare la pratica giornalistica standard secondo la quale, prima di

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considerare qualcosa come un fatto, bisogna raccogliere prove pro-venienti da almeno due fonti indipendenti. Ero così scrupolosa nel seguire questa regola ferrea che una sera del 1979, durante la stesura del mio primo libro, The Baby Brokers [I commercianti di bambini], una denuncia sul mercato delle adozioni private, ero rimasta alzata l’intera notte a leggere attentamente tutto il materiale di cui dispo-nevo su un uomo che aveva aperto una serie di agenzie di adozione in diversi Stati e Paesi. Le sue pratiche mi sembravano altamente dubbiose e, durante l’intervista telefonica, mi aveva persino rivolto una sottile minaccia, ma mi ero trattenuta, consapevole che una mia leggerezza avrebbe potuto ingiustamente rovinare la vita di quella persona, per quanto, in apparenza, si trattasse di un individuo che gestiva un traffico di esseri umani. “Non ho la certezza” decisi alle sei del mattino riguardo a un’accusa che mi ero preparata a muovere: non posso confermarla come un fatto. Anche se l’istinto mi diceva de-cisamente il contrario, addolcii la storia.

E adesso ero lì, tanti anni dopo, a guidare il mio pubblico in una preghiera rivolta a una foglia. Tutto in quel procedimento violava la mia regola delle due fonti. In effetti, era una violazione a quanto rimaneva del mio lato ostinato e dedito alla raccolta di fatti.

Alla scadenza dei dieci minuti di meditazione, Mark dispose en-trambe le foglie nel sistema di imaging biofotonico e le fotografò per due ore. La conferenza terminò, tutti tornarono nei loro rispetti-vi Paesi, e aspettammo di sapere che cos’era successo dall’altra parte del mondo, in un piccolo laboratorio dell’Arizona.

“Non ci crederai” mi disse allegramente Gary al telefono qual-che giorno dopo, quando gli rivelai quale foglia avevamo scelto. “La foglia a cui è stata inviata l’intenzione era così luminosa che l’altra sembra abbia un qualche deficit.”

I cambiamenti generati dai pensieri di “luminosità” erano sta-ti così netti da risultare visibili sulle immagini digitali create dalla macchina CCD. Anche dal punto di vista numerico, l’effetto dell’au-mento delle emissioni aveva prodotto risultati statisticamente molto significativi. In effetti, disse Gary, tutti i buchi effettuati sulla foglia

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scelta erano stati riempiti di luce rispetto a quelli della foglia di con-trollo, che erano chiaramente meno luminosi.

Una settimana dopo, Gary mi mise in copia a un’email destinata a Mark: “Aspetta di vedere che bei dati abbiamo… immagini, grafici e tabelle…”. Per il comunicato stampa ufficiale dell’evento, il tono fu più misurato: “Per un primo esperimento di questo tipo” scrisse, “i risultati non potrebbero essere più incoraggianti.”

Rinfrancati da questo risultato schiacciante, progettammo il no-stro primo grande evento online, fissato per il 24 marzo. Le prime ipotesi si basavano sul fatto che l’esperimento funzionava solo se il pubblico stabiliva un qualche tipo di connessione diretta con il soggetto e, per raggiungere quest’obiettivo, avevamo deciso di usare una webcam per proiettare in tempo reale e a ciclo continuo due immagini del soggetto e dei controlli. All’ultimo minuto, Peter, il nostro webmaster, ci consigliò di evitare le proiezioni da webcam, come avevamo fatto nel nostro esperimento alla conferenza, perché, se migliaia di partecipanti si fossero connessi tutti insieme al sito, cosa che sembrava possibile con l’avvicinarsi della data, le immagini avrebbero potuto bloccarlo. “Le trasmissioni via web in sé danno problemi o comunque sono molto imprevedibili” scrisse.

Mark ideò la seconda migliore possibilità: due macchine fotogra-fiche digitali che, ogni quindici secondi, avrebbero inviato al sito una nuova immagine di entrambe le foglie. Invece dei video, per preservare le prestazioni del server avremmo mostrato immagini in tempo reale.

Mia figlia più piccola, che allora aveva dieci anni, lanciò una moneta per scegliere tra la foglia n. 1 o la n. 2. Per garantire le migliori presta-zioni possibili, passammo a un server gigantesco con memoria extra e disattivammo tutti gli altri nostri siti. E poi, ancora una volta, restam-mo in attesa, aspettandoci di continuare a fare la storia della scienza.

Invece, come migliaia di altri partecipanti, passai l’ora successiva nella frustrazione più totale, nel tentativo di entrare nel mio sito senza riuscire a superare la prima pagina. I timori di Peter si rivela-rono fondati. Gli accessi simultanei al sito erano stati così numerosi, circa diecimila, da bloccarlo.

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L’unica cosa da fare era spiegare l’accaduto ai partecipanti, con la promessa che avremmo riprovato appena possibile, impegnandoci al contempo in privato a non promuovere più questi esperimenti presso un pubblico così vasto, in modo da evitare che il numero di partecipanti mandasse in tilt il server. Dimostrare il potere dei pen-sieri sembrava la parte facile. Quella difficile era trovare una confi-gurazione tecnica che permettesse a migliaia di persone di vedere in tempo reale e in contemporanea lo stesso soggetto.

Per evitare un altro cyber-ingorgo, trovammo un nuovo webma-ster e affittammo un server gigante da un’azienda che forniva servizi per “Pop Idol”, un programma inglese, antesignano di “X Factor”, con nove server collegati per gestire il carico. Il nuovo webmaster, Tony Wood, e la sua squadra, che avevano gestito i siti online di aziende come il “Financial Times”, erano sicuri che sarebbero riusci-ti a ideare qualcosa che avrebbe impedito al sito di bloccarsi. Questa volta, durante l’esperimento, avremmo chiuso la homepage, creato una pagina visibile solo ai partecipanti registrati e spostato l’esperi-mento dal sito principale. Giusto per essere sicuri, però, Tony volle fare una prova una settimana prima dell’evento reale.

Il 21 aprile, giorno della prova, solo una manciata degli oltre settemila iscritti entrarono nel sito e riuscirono a partecipare all’e-sperimento “luminoso”. Questa volta il nostro oggetto erano alcuni semi di fagiolini. L’esperimento riuscì di nuovo. Come nel tentati-vo di marzo con il pubblico, ottenemmo un effetto positivo, anche se non significativo in termini scientifici. Probabilmente il risultato era dovuto ai limiti della macchina fotografica CCD, che ci per-metteva di fotografare solo 12 semi, mentre il requisito minimo per la significatività statistica sono almeno venti punti di rilevamento da confrontare. Anche se il primo esperimento comprendeva solo due foglie, Mark le aveva punte trenta volte ciascuna in modo che, confrontando le emissioni luminose di ciascun foro, i punti di rile-vamento fossero più che sufficienti. Questa volta, con dodici semi, disponevamo solo di dodici punti di rilevamento per esaminare le emissioni di luce. Come mi scrisse Gary al riguardo: “Se fosse stato

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possibile immaginare il doppio dei semi, i risultati avrebbero rag-giunto la significatività statistica”.

La settimana successiva, però, quando il 28 aprile conducemmo quello promosso come l’esperimento “vero”, solo cinquecento perso-ne riuscirono ad accedere al sito e i risultati non furono significativi. Ad agosto decidemmo di riprendere dall’inizio e di ripetere il nostro primo esperimento con la foglia in una conferenza di Los Angeles, replicando i primi risultati.

Nonostante l’esordio stentato, avevamo risposto al quesito più importante: qualcosa di tutto questo avrebbe davvero funzionato? Anche se i risultati ottenuti quando i potenziali partecipanti non erano riusciti a collegarsi al portale erano poco significativi, nel mo-mento in cui la maggior parte degli iscritti aveva potuto accedere all’immagine del soggetto, avevamo registrato tre esiti positivi: l’e-sperimento dell’11 marzo con il pubblico della mia conferenza di Londra; l’esperimento con il seme del 14 aprile su internet e la ripe-tizione del primo esperimento con la foglia alla conferenza di Los Angeles. E in tutti e tre i casi gli effetti erano stati forti.

Cominci da certi presupposti, costruisci l ’ipotesi e speri che appaia una mappa. Erano più gli esperimenti che avevano funzionato che quelli che non l’avevano fatto ma, al di là di questo, non avevamo molto altro per continuare. I fallimenti erano dovuti solo a problemi tecnici? Op-pure, nel caso del 21 aprile, a uno scarso numero di partecipanti? An-che se nell’esperimento fallito del 24 marzo il sito internet non aveva retto, diverse persone che non erano riuscite ad accedere alla pagina del sito avevano comunque inviato pensieri all’immagine mentale di una foglia di geranio, e la sensibile macchina CCD di Gary e la sua strumentazione avevano comunque colto un effetto di qualche tipo, con un andamento in forte crescita attorno alla data della conferenza.

Che cosa voleva dire? Era una pura coincidenza? La mancanza di significatività era dovuta al fatto che il pubblico non aveva visto un’immagine dell’oggetto, a disguidi tecnici o al fatto che i parteci-panti erano sparsi per il mondo invece di essere nella stessa stanza, come nell’esperimento dell’11 marzo a Londra? L’intenzione collet-

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tiva era più potente quando veniva inviata da un gruppo concentrato nello stesso spazio fisico, come nella conferenza di marzo? Oppure bisognava proprio “vedere” l’oggetto per influenzarlo?

L’esperimento del 28 aprile era fallito perché non avevamo rag-giunto una massa critica di partecipanti o per problemi tecnici? Op-pure, come ipotizzato da Gary, poteva essere subentrato un “effet-to noia”, ossia il pubblico si era stancato di partecipare sempre allo stesso esperimento?

All’epoca non sapevamo rispondere a nessuna di queste doman-de. Nella scienza, se si trova qualcosa di strano, ci si tranquillizza con l’idea che si può ripetere il test e, se i risultati restano gli stessi, si individua l’elemento che determina il cambiamento per ristabilire ordine, certezza e una relazione prevedibile tra causa ed effetto.

C’era solo una cosa di cui eravamo sicuri: avremmo dovuto ab-bandonare l’idea di una connessione in tempo reale con gli obiettivi. Semplicemente, non potevo permettermi di affittare un server di elevate prestazioni ogni volta che volevamo condurre un esperimen-to. Tutti gli scienziati avevano sempre donato il loro tempo con ge-nerosità, ma quando mi era venuta in mente l’idea degli esperimen-ti sull’intenzione, non avevo tenuto conto dei costi tecnici. Per far funzionare l’esperimento del 21 aprile avevamo sborsato circa 9.000 dollari solo per mezz’ora di server e la creazione di speciali pagine web era costata altre migliaia di dollari, una cifra troppo alta perché io o la mia società potessimo spenderla con regolarità. Dovevamo trovare un altro modo per condurre gli studi e ideare una struttura sperimentale facilmente replicabile, così da garantire ai risultati una certa validità scientifica.

Fondamentalmente, dovevo trovare l’impossibile: un server po-tentissimo, un modo per condurre gli esperimenti senza spese ecces-sive e una piattaforma in grado di resistere all’accesso simultaneo di migliaia di visitatori.

Compresi, tuttavia, che la proiezione di immagini in tempo re-ale non aveva alcuna importanza. Quando sul mio sito internet cominciarono a formarsi spontaneamente alcuni gruppetti che ot-

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tenevano risultati su singoli membri, mi resi conto che tutti noi – ognuno dallo schermo del proprio computer – avevamo già sta-bilito la connessione.

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Capitolo 3

L’entanglement virtuale

I medici dissero a Daniel che era stato fortunato: avrebbe po-tuto essere colpito in faccia. C’era stata una tremenda esplosione di gas dove lavorava e le sue mani avevano riportato ustioni così gravi che, quando giunse in ospedale, i medici spiegarono alla moglie che avrebbe avuto bisogno di trapianti di pelle e setti-mane in terapia intensiva. Sentendosi impotente e sconvolta, la donna contattò un piccolo gruppo di intenzione che lei e Daniel avevano creato sul mio sito.

Dopo quei primi due costosi esperimenti con le foglie e i semi avevamo deciso, infatti, di realizzare i successivi esperimenti globali avvalendoci di una piattaforma online che consentisse la creazione di social network dedicati. Questo sistema ci offriva due cose di cui avevamo bisogno: centinaia di server capaci di gestire un traffico dati praticamente illimitato e un altrettanto illimitato numero di ac-cessi simultanei al sito e, soprattutto, l’assenza di costi. E c’era anche una community a cui i partecipanti potevano iscriversi e formare piccoli circoli per inviare pensieri e intenzioni.

Daniel e qualche altro membro avevano creato un gruppetto su questa piattaforma e facevano esperimenti inviandosi intenzioni l’un l’altro. Venuto a conoscenza della brutta situazione di Daniel, il gruppo aveva ora un soggetto umano. I membri cominciarono così a inviargli un intento di guarigione tutti i giorni a orari stabiliti.

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Cinque giorni dopo, Daniel lasciò l’ospedale. Aveva cominciato a guarire settimane prima rispetto al normale decorso e contraddetto tutte le previsioni evitando i trapianti. I medici volevano studiarlo come miracolo clinico. Un collega di Daniel, che aveva riportato ferite quasi identiche e seguito i metodi di guarigione ortodossa, fungeva da confronto. Era rimasto in terapia intensiva per altre due settimane e si era sottoposto a trapianti di pelle.

Quando Daniel alzò la mano, ancora coperta da una specie di guanto trasparente, per raccontarmi la sua storia, mi trovavo di fronte al pubblico di Dallas ad approfondire i risultati del nostro esperimento sull’intenzione, con diagrammi e grafici, su una slide di PowerPoint.

“Dal momento che eravamo in due con ferite quasi identiche, puoi considerare la mia esperienza come un esperimento controlla-to” disse ridendo.

Tornai ai miei grafici di foglie e semi, ma ero stata colta alla sprovvista. La parte razionale di me sapeva che non potevamo dav-vero confrontare Daniel e il suo collega senza controllare tutte le possibili variabili biologiche, ma se invece avesse avuto ragione lui? Era stato solo il potere della fiducia di Daniel, la sua aspettativa di guarigione, oppure il potere di un gruppo i cui membri non si trova-vano nello stesso luogo ma inviavano pensieri virtuali si amplificava?

Fatto: Daniel e il collega avevano subito ferite simili.Fatto: Daniel era l ’unico che avesse ricevuto pensieri di guarigione

di gruppo.Fatto: Solo Daniel aveva contraddetto tutte le prognosi ed era diven-

tato, come i suoi medici lo definirono, un “miracolo clinico”.Con un miracolo non cerchi di capire cominciando dal principio:

parti dalla fine, dal suo semplice esistere come fatto, come se entrando in una stanza scoprissi un cadavere. Tenti di andare a ritroso fino al punto in cui il cammino delle possibilità conosciute è stato abbando-nato, insegui qualsiasi labile indizio per dedurre una causa credibile, come un detective alla ricerca delle poche fibre di stoffa rivelatrici la-sciate sul divano. Non puoi isolare un singolo agente responsabile del

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cambiamento; puoi solo cercare di creare un ambiente favorevole per convincerlo a ripetersi. Tornata a casa, quell’estate decisi di condurre qualche esperimento in più con i gruppi. Le esperienze di Daniel e i miglioramenti della spina dorsale di Don Barry mi fecero venire un’i-dea. Forse potevo organizzare gruppi regolari per inviare intenzioni a persone come Daniel e Don, che avrei chiamato l’“Intenzione della Settimana”. Potevamo considerarlo un altro tipo di esperimento in-formale, una versione più ampia dei gruppi del Potere dell’8.

Invitai tutti gli iscritti alla mia mailing list a partecipare a un in-vio di pensieri di guarigione settimanale promosso da noi e di solito finalizzato a risolvere problemi di salute o difficoltà economiche do-vute alla crisi finanziaria di quell’autunno. Invitammo la comunità web a decidere chi avrebbe ricevuto l’intenzione quella settimana e pubblicammo il nome della persona, il problema e la foto sul nostro sito, per inviarle pensieri di guarigione tutte le domeniche all’una, secondo il fuso orario della costa orientale degli Stati Uniti.

Dopo poco tempo, ricevetti dozzine di richieste la settimana: per-sone con un cancro o una ferita da trauma; bambini con danni cere-brali o difetti di nascita; gente sull’orlo della bancarotta o che aveva perso il lavoro; famiglie separate e animali feriti. Il sito si stava trasfor-mando nell’equivalente virtuale di un gruppo di preghiera settimanale.

Le nostre intenzioni non funzionavano sempre. Ricevevamo nu-merose richieste da persone a cui restavano poche settimane di vita. E il processo non otteneva sempre esito positivo nemmeno nei gruppi del Potere dell’8 che organizzavo nei miei seminari. Nella maggior parte dei casi, non avevamo referti di medici o di altri professionisti sanitari che ci consentissero di verificare in maniera indipendente gli effetti di cui parlavano i familiari dei soggetti scelti. A volte i cambia-menti erano enormi, come quelli di due partecipanti che sostenevano che il loro cancro fosse scomparso spontaneamente, e altre volte pic-colissimi, ma le testimonianze di miglioramenti straordinari erano ab-bastanza da farmi sospettare che stesse davvero succedendo qualcosa.

Brian, a seguito di un grave incidente appena subito, era rimasto paralizzato e non era ancora del tutto cosciente, così la sua famiglia

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chiese che fosse uno dei nostri obiettivi. Subito dopo l’invio dei pen-sieri di guarigione, la madre cominciò a notare che diventava più con-sapevole di ciò che lo circondava e prestava maggiore attenzione, con un generale miglioramento dello stato di coscienza. Iniziò a rispon-dere più spesso alle domande e persino ad aver voglia di chiacchierare.

Due giorni dopo il nostro intervento, Brian andò alla seduta di fisioterapia e, per la prima volta, riuscì a camminare per quasi due metri con l’operatore e il bastone, e poi per un’altra decina di me-tri senza il tutore alla gamba destra. Iniziò anche a usare di più il braccio destro e, in riabilitazione, pedalò su una bicicletta reclinata. Aveva riacquistato la capacità di movimento mesi prima rispetto alla prognosi medica.

Margaret, un’amica di famiglia che aveva proposto Brian come soggetto dell’intenzione della settimana, scrisse una relazione sui suoi progressi. Secondo quanto riportato da lei, la famiglia di Brian era “meravigliata dalla rapidità dei progressi”. A loro modo di vedere, l’intenzione di gruppo aveva richiamato qualche tipo di “intervento divino”.

Miracolo. Stupore. Divino. Contro ogni aspettativa.Più sentivo storie come quella di Brian, più inquieta diventavo

e cercavo di rendere rigorosi i controlli degli esperimenti globali su larga scala che continuavo a condurre. Gary e io decidemmo di tornare ai semi, ma questa volta con applicazioni concrete: avrem-mo cercato di influenzare la loro velocità di crescita e la loro salute. Decidemmo di utilizzare l’orzo perché è un cereale comunemente impiegato come mangime per il bestiame e benefico per l’alimenta-zione umana. Ci saremmo posti una domanda con enormi implica-zioni pratiche: il cibo è in grado di crescere più in fretta e di essere più salutare quando riceve pensieri positivi?

Qualche scienziato si era già avventurato su questo terreno prima di noi: esistevano infatti diversi studi simili che dimostravano che i semi a cui un guaritore aveva inviato un’intenzione o erano stati irri-gati con acqua trattata dal guaritore erano più sani e germogliavano e crescevano più in fretta.1 Questi piccoli studi erano affascinanti,

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ma erano incentrati su individui singoli che mandavano pensieri ai semi di fronte a loro. Con il nostro esperimento avremmo cercato di capire se un gruppo composto tutto da persone differenti che invia-vano i loro pensieri da migliaia di chilometri di distanza ci avrebbe consentito di raggiungere lo stesso risultato o anche uno migliore.

Per ciascuno degli esperimenti, Gary e il suo team di laboratorio prepararono quattro vassoi con trenta semi d’orzo ciascuno, di cui uno fungeva da obiettivo e gli altri tre da gruppo di controllo, per eliminare risultati casuali. Questa volta, la miglior connessione con l’obiettivo che potevamo offrire al pubblico era una fotografia, anche se non era-vamo affatto sicuri che funzionasse. Mark decise che si sarebbe limi-tato a fotografare i quattro insiemi di semi con una macchina normale e me li avrebbe inviati la notte prima dell’esperimento.

In quel periodo avevo in programma una serie di conferenze in diverse parti del mondo, circostanza che ci forniva l’opportunità ideale per testare se l’esperimento potesse funzionare in situazioni diverse e senza preoccuparci per la tenuta del sito. La prima meta era l’Australia, un intervento di quattro ore di fronte a settecento persone, in una conferenza prestigiosa.

La sera precedente al primo esperimento, Mark mi inviò le fo-tografie dei quattro insiemi di trenta semi, ciascuno disposto in un piccolo semicerchio su vassoi per la germinazione, contrassegnati dalle lettere A, B, C e D, così che potessi includere ogni immagi-ne su una slide della mia presentazione. Durante la conferenza del giorno dopo, feci scegliere a una persona l’obiettivo tra i quattro vas-soi di semi, poi proiettai semplicemente la fotografia di quello scelto, guidando il pubblico nell’inviare l’intento che le piantine crescessero più velocemente e in salute; nel mentre, come in tutti gli esperimenti da quella prima conferenza di Londra, per favorire la concentrazio-ne, trasmisi il brano “Choku Rei”.

Una volta conclusa l’operazione, chiamai Mark per avvertirlo, dandogli così il segnale di piantare tutti i semi. Dopo cinque gior-ni Mark raccolse i germogli e misurò la loro altezza in millimetri. Dopo di che, fu costretto ad aspettare pazientemente per settimane

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che Gary, che doveva destreggiarsi tra la stesura delle proprie pub-blicazioni e i frenetici orari di insegnamento, completasse i calcoli.

Gary aveva definito queste e le successive prove simili “Studi sull’Intenzione”, ma per eliminare la possibilità che i risultati fossero casuali o dovuti a qualche fattore diverso dai pensieri del pubblico, dopo ciascun esperimento fece anche una serie di prove di controllo completamente indipendenti. Gli scienziati, per eliminare la possi-bilità che qualsiasi modifica rilevata nell’esperimento sia causata da un elemento differente dall’agente stesso, conducono spesso studi di controllo che mimano l’esperimento effettivo sotto ogni aspet-to, senza però introdurre nessun agente di cambiamento. Nei nostri studi di controllo Mark strutturò l’esperimento in modo che fosse identico ai normali studi sul potere del pensiero, scegliendo e prepa-rando altri centoventi semi divisi in quattro gruppi e selezionandone uno a caso come obiettivo, solo che questa volta nessuno avrebbe davvero inviato pensieri. Dopo un periodo di tempo prestabilito, come negli esperimenti veri, avrebbe piantato tutti e quattro i gruppi di semi, per poi raccoglierli e misurarli cinque giorni più tardi.

Se la crescita dei semi di questi controlli fosse stata identica o molto simile a quella riscontrata negli esperimenti effettivi, ci sareb-be stata la conferma che l’intenzione del pubblico era stata l’unico agente di cambiamento. Questo studio doveva fungere da controllo di secondo livello. Inoltre, ci avrebbe fornito il doppio dei semi da confrontare, 1.440 in totale, dandoci così anche la possibilità di una più elevata significatività statistica.

Conducemmo quindi altri due esperimenti con i semi d’orzo, uno con un piccolo gruppo online e un altro di fronte al mio pub-blico di un centinaio di persone presso l’Omega Institute, un cen-tro per ritiri a Rhinebeck, New York, che offre corsi residenziali sul potenziale umano.

Dopo l’esperimento di Rhinebeck, Gary analizzò i tre esperi-menti. I dati erano promettenti. I risultati del primo e del secondo esperimento erano significativi, ma quelli del terzo erano incredibili. Mi inviò un primo grafico, per mostrarmi la differenza tra i semi

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che avevano ricevuto pensieri e quelli di controllo: uno scarto di quattro millimetri che, per quanto piccolo sembri, è sufficiente per essere significativo in uno studio scientifico. Concluse l’email con un “interessante, vero?”.

Il terzo tentativo con il gruppo di Rhinebeck, con un pubbli-co più limitato, aveva prodotto i risultati più importanti. Sembra-va logico pensare che gli effetti dovessero essere tanto più marcati quanto più grande fosse il gruppo, invece pareva proprio che non ci fosse bisogno di una certa massa critica per agire sull’obiettivo. Ci chiedemmo così se l’esito fosse dovuto a specifiche istruzioni sulla crescita, all’esperienza del pubblico, costituito per buona parte da meditatori esperti e altamente motivati, o magari anche al contesto del ritiro, che permetteva di raggiungere un grado di concentrazione più alto di quello della vita di tutti i giorni, in cui il tempo di inviare le intenzioni era ritagliato dagli altri impegni.

Come qualsiasi scienziato confermerà, il dato che emerge da un singolo esperimento non è significativo. L’esito può essere una pura coincidenza, un risultato spurio, come lo definiscono gli scienziati. Solo dopo diverse repliche si può affermare con una qualche certez-za di aver individuato un vero effetto. Per dimostrare che ci erava-mo imbattuti in qualcosa di reale, non ci restava altro che ripetere l’esperimento.

Conducemmo altri tre Esperimenti di Germinazione: a Hilton Head, in South Carolina, di fronte a cinquecento operatori della tecnica di Contatto Terapeutico (Healing Touch); in un workshop di centotrenta persone in una conferenza dell’Association for Glo-bal New Thought a Palm Springs, in California; in un workshop residenziale ad Austin, in Texas, con centoventi partecipanti. Dopo il sesto esperimento, Gary condusse un’analisi formale dei risulta-ti in cui, attraverso una serie di calcoli complessi, mise a confron-to rispettivamente: la crescita dei semi scelti con quella dei semi non scelti negli esperimenti; lo sviluppo di tutti i veri obiettivi degli esperimenti con gli “obiettivi” degli studi di controllo; la crescita di tutti i semi degli esperimenti con quella di tutti i semi degli studi di

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controllo. Utilizzò due metodi statistici, soprattutto per compensare il fatto che alcuni semi non erano spuntati, mentre altri erano diven-tati molto più alti del normale.

“In una sola parola, i risultati sono STUPEFACENTI” mi scrisse.Come media generale, i semi che avevano ricevuto i pensieri negli

“Studi sul Potere dell’Intenzione” erano cresciuti decisamente più di quelli del gruppo di controllo (56 mm contro 48 mm). Negli studi di controllo non c’era differenza tra i semi oggetto dell’esperimento e gli altri; i semi denominati “Semi Intenzione” degli studi di controllo mi-suravano infatti 45 mm, 2 mm meno di quelli non scelti, mentre i semi obiettivo erano più alti di tutti i quattro gruppi di ciascuno studio di controllo. L’effetto dei nostri esperimenti era significativo dal punto di vista statistico; c’era infatti solo una possibilità dello 0,7 per cento che avessimo raggiunto questo risultato per pura coincidenza.

Per dare un’idea di quanto fosse significativo il risultato, immagi-na di giocare a testa o croce con una monetina, cercando di raggiun-gere un certo numero di “teste” di fila. Con il nostro esperimento dovresti lanciare la monetina 143 volte per raggiungere lo stesso risultato solo per coincidenza. I semi scelti nei veri “Studi sul Potere dell’Intenzione” erano cresciuti molto di più di quelli “scelti” negli studi di controllo, con una possibilità dello 0,3 per cento che l’evento fosse dovuto al caso, come una monetina lanciata 333 volte.

Ma l’effetto più forte di tutti emerse quando confrontammo i dati relativi alla crescita delle piante degli effettivi “Studi sul Pote-re dell’Intenzione” con quelli della crescita di tutte le piante degli esperimenti di controllo. Il giorno in cui inviavamo i pensieri, tutte le piante degli “Studi sul Potere dell’Intenzione” crescevano più di quelle degli esperimenti di controllo, con il record assoluto negli esemplari che ricevevano i pensieri, come se ci fosse una specie di comunicazione tra tutti i semi coinvolti. Questo risultato, con una possibilità su 10 milioni che si trattasse di una semplice coinciden-za, era sbalorditivo.

Cosa significava? L’intenzione aveva un “effetto a pioggia”? Gli esseri viventi sono influenzati dall’energia del pensiero umano

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dell’ambiente e non dalla sola energia di due entità in comunica-zione tra loro? Pensai a un esperimento dello psicologo olandese Eduard Van Wijk, che aveva condotto numerosi studi sulle miste-riose emissioni luminose scoperte da Fritz Popp. Van Wijk posi-zionò un vaso con una semplice alga vicino a un guaritore e al suo paziente, misurando poi le emissioni di luce dell’alga durante le ses-sioni di guarigione e i momenti di riposo. Analizzando i dati, scoprì notevoli alterazioni nella conta di fotoni del vegetale. Durante le sedute di guarigione, la qualità e la velocità delle emissioni cambia-vano in maniera significativa,2 per quanto anche i pensieri di guari-gione provocassero alterazioni.

Gary scrisse i risultati di tutti i nostri esperimenti con i semi d’orzo e li presentò al convegno annuale della Società per l’Esplo-razione Scientifica (Society for Scientific Exploration), pubblicando il riepilogo negli atti. Era il primo tentativo di dimostrare formal-mente la validità dei dati dei nostri “Esperimenti sull’Intenzione”3 e la conclusione era inequivocabile: “L’intenzione di un gruppo può avere effetti selettivi sulla velocità di crescita dei semi.”

Le implicazioni di questo piccolo, perfetto, esperimento mi met-tevano in forte agitazione. Tra le righe neutre e caute del nostro mo-desto articolo si celavano alcune profonde scoperte sulla natura della coscienza. Avevamo più e più volte dimostrato che la mente umana ha la capacità di spostarsi oltre il tempo e lo spazio e di connettersi con altre menti, agendo sulla materia a distanza. In pratica, avevamo dato prova di qualcosa di straordinario e profondo: che la mente umana ha la capacità di operare non localmente.

La non località, anche definita, abbastanza poeticamente, “en-tanglement”, è una strana proprietà delle particelle quantiche. Una volta che particelle subatomiche, come gli elettroni o i fotoni, entra-no in contatto3 continuano a influenzarsi per sempre, senza nessun motivo apparente, anche a distanza o dopo tanto tempo e in assenza di una forza fisica, come una spinta o una sollecitazione, in assenza cioè di tutti gli elementi che di solito, secondo i fisici, sono necessari perché un oggetto agisca su un altro.

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Quando le particelle entrano in contatto,4 ossia stabiliscono un rapporto di entanglement, le azioni dell’una influenzeranno per sempre l’altra, indipendentemente dalla distanza a cui si trovano. Una volta connesse, lo stato di una particella si ripercuote subito sul-la posizione della seconda. Esse continuano a parlarsi e quello che accade a una è identico, oppure opposto, a ciò che accade all’altra.

Anche se i fisici moderni accettano senza difficoltà la non lo-calità come una caratteristica propria del mondo quantico, sono convinti che questa strana, controintuitiva proprietà dell’universo subatomico non sia valida per qualsiasi oggetto più grande di un elettrone. Quando si arriva al livello materiale del mondo in cui viviamo, secondo loro, la materia comincia di nuovo a comportarsi bene, seguendo le leggi di Newton, prevedibili e misurabili. Anche se una manciata di studi su cristalli e alghe5 avanzava l’ipotesi che la non località esista anche nel dominio delle grandezze misurabili e che possa essere il principio guida della fotosintesi, questa pro-prietà, “l’inquietante azione a distanza” del mondo quantico, per usare il famoso detto di Albert Einstein, viene ancora considera-ta prerogativa esclusiva del regno dell’infinitesimale e certamente non attribuita alla coscienza umana.

Ciononostante, il nostro piccolo esperimento sui semi aveva di-mostrato che era possibile creare effetti di non località nel mondo del visibile, non solo tra le menti degli individui, ma anche su un obiettivo in remoto. Un gruppo di persone a Sydney, in Australia, aveva agito su semi che si trovavano nei laboratori dell’Università dell’Arizona a Tucson, a circa 15.000 chilometri di distanza, solo attraverso il potere di un pensiero focalizzato. E chi inviava le inten-zioni non doveva nemmeno trovarsi nella stessa località: un gruppo di persone sparse per il globo produceva lo stesso effetto di un grup-po riunito nella stessa stanza. In qualche modo, come un paio di elettroni in entanglement, le nostre menti individuali, distanti l’una dall’altra, avevano stabilito una connessione invisibile in grado di agire come una sola forza collettiva per modificare un gruppo di semi, sempre a distanza.

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Cominciai a prendere in considerazione la possibilità che la co-scienza umana possieda l’abilità di creare una specie di internet psi-chica, permettendoci di essere in contatto con tutto in ogni momen-to. Forse basta solo uno sforzo di concentrazione per fare il login ed entrare in rete.

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Capitolo 4

Superare le barriere con la mente

Anche i gruppi del Potere dell’8 erano in grado di creare un’inter-net psichica, come scoprii durante l’invio dei pensieri di guarigione per John, che era stato vittima di vari incidenti in moto. La ma-dre frequentò uno dei nostri workshop subito dopo l’incidente e ci spiegò che il figlio aveva subito un grosso danno al collo e a diverse vertebre. I medici le avevano detto che le lesioni alla spina dorsale erano così gravi che rischiava di restare tetraplegico.

Quel fine settimana, la madre di John chiese al gruppo di manda-re un’intenzione speciale al figlio. Due mesi dopo mi scrisse per rag-guagliarmi sugli sviluppi della situazione: dopo l’invio dei pensieri di guarigione provato prima con noi e poi continuato con i membri della famiglia, il figlio aveva iniziato a usare la parte superiore del corpo ed era persino riuscito a muovere gli alluci.

“Sta sperimentando un recupero incredibile. Probabilmente è guarito all’85 per cento, cosa che, secondo i medici, avrebbe richiesto dai sei mesi a un anno, non sei settimane!”.

Se i notevoli progressi di John erano in qualche modo legati al gruppo del Potere dell’8, erano stati ottenuti senza che nessuno dei membri avesse legami con lui: nessuna connessione in tempo reale, né foto, né conoscenze pregresse su di lui o sulla zona in cui viveva, nessun rapporto tranne sua madre e i suoi pensieri per lui.

Iniziai a ipotizzare che un circolo di “preghiera” di gruppo creasse

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un ambiente adatto a potenziare la guarigione e che il gruppo avesse la capacità di creare una qualche specie di connessione invisibile, lo stesso tipo di connessione straordinaria di cui eravamo stati testimo-ni con gli esperimenti sul potere dell’intenzione globali.

Decisi di studiare più a fondo questa connessione nei nostri espe-rimenti globali, lavorando su qualcosa di diverso da piante e semi e collaborando con un altro scienziato per dimostrare che i risultati degli studi sulla foglia e sui semi non erano dati casuali prodotti da un solo laboratorio. Contattai un fisico russo di nome Konstantin Korotkov, docente al Politecnico di San Pietroburgo, oggi ITMO University (Russian National University of Information Technolo-gy, Mechanics and Optics, ex Università Statale di San Pietrobur-go). Korotkov aveva perfezionato le idee e gli strumenti di Popp dopo aver scoperto che le deboli emissioni di luce erano molto più facili da misurare se attraversate da un campo elettromagnetico che le amplificava centinaia di migliaia di volte, rendendone più sempli-ce la quantificazione.

All’età di ventiquattro anni, Korotkov, quando già si stava facen-do un nome come studioso di meccanica quantistica, era rimasto affascinato dal lavoro di Semyon Davidovich Kirlian. Questo inge-gnere russo aveva scoperto che, quando un qualsiasi conduttore di energia, inclusi i tessuti umani, viene posto su una lastra di materiale isolante, come il vetro, ed esposto a una corrente elettrica ad alto vol-taggio e ad alta frequenza, attorno all’oggetto si genera una corrente di bassa intensità; questa debole corrente, a sua volta, crea un alone di luce colorata che può essere impresso su una pellicola fotografica. Kirlian aveva fatto affermazioni forti su questa luce,1 sostenendo che le sue fotografie rivelavano nientedimeno che il campo di energia di un essere vivente e che lo stato di questo campo, o aura, come lo definì, ne rifletteva le condizioni di salute.

Alla fine Korotkov trovò la maniera per migliorare questo siste-ma rudimentale e catturare la luce misteriosa in tempo reale, sol-lecitando i fotoni di un sistema vivente: li stimolò a entrare in uno stato eccitato perché brillassero milioni di volte più intensamente

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del normale. Sviluppò la GDV Camera (Gas Discharge Visualization, visualizzazione della scarica dei gas), un macchinario che si serviva della tecnologia ottica più avanzata, di matrici televisive digitali e di un potente computer, un misto di fotografia, analisi dell’intensità della luce e riconoscimento automatico di strutture. Un programma estrapolava poi i dati dall’immagine in tempo reale del “biocampo” che circondava l’organismo e ne deduceva lo stato di salute.

Al nostro primo contatto, Korotkov aveva cinquantacinque anni ed era una figura pubblica ben nota che era riuscita a conferire un’aria di legittimità alla fotografia Kirlian e al concetto dei campi energe-tici umani. Aveva scritto cinque libri sull’argomento2 attraendo l’at-tenzione del Ministro della Salute russo, che riconobbe l’importanza della sua invenzione per misurare lo stato di salute e la diagnosi delle malattie. Nel 2007 la GDV Camera era ampiamente utilizzata per la diagnostica generale e per stimare il recupero postoperatorio,3 anche il Ministero dello Sport russo aveva iniziato a interessarsi a Korotkov e alle sue macchine, impiegandole persino per la valutazione fisica degli atleti olimpionici. Fuori dalla Russia, migliaia di medici utilizzava-no la sua strumentazione,4 fatto non sottovalutato dal Ministero della Salute degli Stati Uniti; infatti, una parte dei fondi di Gary Schwartz era destinata allo studio del “biocampo” con questa macchina.

Korotkov è un interessante paradosso: una figura agile ma mas-siccia, dalla testa completamente rasata, taciturna e metodica sul la-voro ed espansiva invece nella vita privata. Per quanto modesto sulle sue famose invenzioni,5 ha un certo gusto le maniere plateali: per esempio, una volta arrivò a un evento formale in Giappone vestito con un kimono tradizionale, brandendo una spada da samurai. An-che se gode della notorietà che gli deriva dalle applicazioni pratiche delle sue scoperte, in privato è estremamente interessato all’effetto della coscienza umana sul mondo fisico ed è dotato di una profonda spiritualità, sviluppata dopo le tante scoperte straordinarie realizzate nel suo lavoro. Nonostante l’educazione atea ricevuta in conformità alla cultura dell’Unione Sovietica della Guerra Fredda degli anni Cinquanta e Sessanta, si era sentito sempre più attratto dai grandi

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interrogativi sulla natura della coscienza, chiedendosi soprattutto quanto durasse questa misteriosa luce dopo la morte del corpo fisico.

In una serie di esperimenti condotti verso la fine degli anni No-vanta, Korotkov e il suo team esaminarono dozzine di uomini e donne appena deceduti, scoprendo che, per diverse ore, la lumino-sità della scarica dei gas dei viventi e quella dei cadaveri rimaneva praticamente identica. Con il passare del tempo, i pattern luminosi seguivano andamenti completamente diversi, che sembravano riflet-tere la natura del decesso; quando le persone morivano con serenità, spegnendosi poco per volta, lo stesso avveniva con le loro emissioni, mentre quando la loro morte era più violenta, anche la luce subiva cambiamenti più repentini. Chi moriva per cause naturali, nelle pri-me cinquantacinque ore dopo il trapasso, emetteva onde luminose di oscillazioni più ampie, che poi si riducevano progressivamente.

Per quanto i materialisti obiettassero che la luce fosse il semplice residuo dell’attività fisiologica dei tessuti muscolari in decomposi-zione, la letteratura medica forense ha stabilito con chiarezza che le caratteristiche elettrofisiologiche del corpo subiscono un drastico cambiamento nelle prime ore dopo il trapasso, per restare poi inalte-rate o produrre oscillazioni costanti. I dati di Korotkov erano molto diversi. L’unica conclusione possibile era che la luce si mantenesse anche dopo che la vita era cessata, segnalando una qualche forma di transizione. Korotkov scrisse un libro sulle proprie scoperte e in privato sviluppò un’intensa spiritualità, considerando la “struttura energetico-informazionale” un analogo di quella che viene spesso definita “anima”, connessa ma essenzialmente indipendente dal cor-po umano. Mentre continuava a lavorare per i vari ministri, cresceva in lui anche l’interesse per lo studio della natura della coscienza, soprattutto per l’effetto che i nostri pensieri hanno sugli altri.

Quando lo contattai per lavorare insieme, decidemmo che il pri-mo esperimento sarebbe stato elementare: avremmo cercato di mo-dificare l’acqua con i nostri pensieri in qualche maniera impercetti-bile. Suggerì così di misurare uno dei cambiamenti più sottili, ossia le variazioni della configurazione delle molecole d’acqua che, come

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oggi sappiamo, hanno la particolare capacità di operare in squadra. Due fisici italiani dell’Istituto di Fisica Nucleare di Milano, Giu-liano Preparata e il collega Emilio Del Giudice, ormai scomparsi, avevano dimostrato che l’acqua ha una proprietà incredibile: le sue molecole, infatti, quando vengono compresse in uno spazio ristret-to, mostrano un comportamento collettivo, formando quelli che i due scienziati definirono “domini coerenti”, come una potente luce laser.6 Questi aggregati di molecole d’acqua, in presenza di altre mo-lecole, tendono a diventare “corrieri di informazioni”, polarizzandosi attorno a qualsiasi molecola carica, immagazzinando e trasportan-done la frequenza in modo che possa essere letta a distanza.

In un certo senso, l’acqua è come un registratore, che imprime un’informazione e la diffonde, a prescindere dal fatto che la molecola originale sia presente o meno. Come osservato dagli scienziati russi,7

l’acqua ha la capacità di trattenere il ricordo dei campi elettromagne-tici che le vengono applicati per ore e persino per giorni; anche altri scienziati italiani dell’Università La Sapienza di Roma e dell’Univer-sità di Napoli Due e, più di recente, Luc Montagnier, premio Nobel e co-scopritore del virus dell’HIV,8 hanno confermato le scoperte di Preparata e Del Giudice: certi segnali di risonanza elettronica modi-ficano in maniera permanente diverse proprietà dell’acqua. I team di Roma e Napoli hanno comprovato inoltre che le molecole d’acqua si organizzano in modo da formare una particolare struttura sulla quale possono essere impresse informazioni d’onda. L’acqua sembra capace di inviare il segnale, anche amplificandolo.

Come le piante, gli animali e le persone, i liquidi come l’acqua “risplendono”. La GDV Camera è abbastanza sensibile da misurare svariate dinamiche dell’energia dell’acqua e può individuare qualsiasi cambiamento di emissione di luce sulla superficie del liquido, cam-biamento che a sua volta dipende dalle modalità di aggregazione delle molecole. Svariati esperimenti condotti dal team di Koroktov su un’ampia gamma di liquidi biologici dimostrano che la GDV è altamente ricettiva ai mutamenti dei contenuti chimico-fisici dei liquidi, che non vengono rilevati dalle normali analisi chimiche. La

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strumentazione di Koroktov è riuscita a distinguere differenze in-finitesimali,9 per esempio, tra campioni di sangue di persone sane e persone malate, tra oli essenziali naturali e sintetici con la stessa composizione chimica e persino tra acqua semplice e acqua in cui erano stati aggiunti rimedi omeopatici ad alte diluizioni.

Per il nostro primo esperimento, Kostantin avrebbe riempito fino all’orlo una provetta con acqua distillata e inserito un elettrodo con-nesso a una GDV standard. L’obiettivo era misurare e mettere a con-fronto i segnali emessi dall’acqua prima, durante e dopo l’esperimento. Avremmo chiesto a chi mi seguiva via internet tramite il sito dell’In-tention Experiment, la newsletter e le pagine dei social media di inviare amore alla foto della provetta, nel tentativo di provare le affermazioni del naturopata giapponese Masaru Emoto, anche lui scomparso, se-condo il quale l’emozione può cambiare la struttura dell’acqua.

Il dottor Emoto era diventato molto famoso per una serie di esperimenti informali, pubblicati nel Miracolo dell ’acqua10 e altri li-bri, in cui avanzava l’ipotesi secondo la quale i nostri pensieri resta-no impressi nell’acqua. Aveva chiesto ad alcuni volontari di inviare pensieri positivi o negativi all’acqua, poi l’aveva ghiacciata e ne aveva fotografato i cristalli. Secondo Emoto, i cristalli che avevano ricevu-to intenzioni positive avevano assunto meravigliose forme simme-triche, mentre i campioni esposti a intenzioni negative, come paura, odio e rabbia, avevano dato origine a configurazioni asimmetriche e scomposte. Per quanto bizzarro sembrasse il suo lavoro, era stato replicato con successo due volte dal dottor Dean Radin,11 noto pa-rapsicologo e scienziato, capo dell’Institute of Noetic Sciences di Petaluma, in California.

Ancora un po’ scottata dai problemi tecnici iniziali negli esperi-menti con la foglia, mi limitai a pubblicizzare i lavori in programma soltanto alla nostra community online, in modo da non sovraffollare la piattaforma. Anche senza troppa promozione, si iscrissero miglia-

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ia di persone da ottanta Paesi, con una forte partecipazione da tutti i continenti, compreso l’Antartide, e altre località remote in Indonesia, Zambia, Costa Rica, Cina. La notizia si era diffusa, arrivando persino allo stesso Emoto, che mi mandò un’email per augurarci buona fortuna.

La sera del giorno designato, Konstantin ci inviò una foto della provetta, che postammo sul sito, rendendola visibile solo agli utenti registrati per l’evento, poi accese la GDV Camera e mise su un CD di Rachmaninoff per fargli compagnia, quindi si mise in attesa.

Ore dopo, una volta concluso l’esperimento, Konstantin controllò i dati registrati dalla macchina e scoprì un cambiamento altamente significativo. Le emissioni di luce dell’acqua erano aumentate d’in-tensità, con un forte impatto anche sull’area totale delle emissio-ni luminose, che si era modificata. Queste variazioni erano, però, avvenute prima che iniziasse l’esperimento vero e proprio, si erano fermate sei minuti prima del momento stabilito per l’invio dei pen-sieri ed erano riprese solo dopo la conclusione. Quando mettemmo a confronto i dati della fase dell’invio delle intenzioni con quelli dei venti minuti precedenti, la significatività scomparve.

Forse la nostra intenzione era stata troppo passiva o generica e avrebbe funzionato meglio se ci fossimo concentrati su qualcosa di più specifico, come negli Esperimenti di Germinazione. Dopo tutto, l’idea di un’emozione sfaccettata e molteplice come l’amore è alta-mente personale, specie se inviata a un contenitore d’acqua. E un buon numero di utenti erano riusciti ad accedere al sito in anticipo, cosa che poteva aver alterato i risultati.

Decidemmo di ripetere l’esperimento, ma con tre importanti dif-ferenze: avremmo inviato alla provetta un’intenzione molto specifi-ca, chiedendo ai partecipanti di fare in modo che l’acqua “splendesse sempre di più”; avremmo preparato una provetta di controllo, ossia un contenitore identico con acqua distillata proveniente dalla stessa fonte, sempre attaccato a una GDV; avremmo aumentato la durata complessiva della registrazione dei dati.

Questa volta i risultati, una volta messi a confronto i rilievi del contenitore di controllo, indicarono una differenza statistica alta-

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mente significativa nell’intensità e nella propagazione della luce durante la fase di invio dell’intenzione e in quella successiva. Il par-ticolare più interessante fu che le variazioni maggiori, rispetto alle condizioni di partenza e di conclusione, erano avvenute nella fine-stra dei dieci minuti di invio dei pensieri. Anche se il numero dei partecipanti era leggermente inferiore a quello del primo tentativo, ottenemmo un effetto molto più importante. Ancora una volta, le dimensioni del gruppo non influenzarono in alcun modo i risultati dell’esperimento.

Cominci da presupposti certi, costruisci un’ipotesi precisa, trovi un modo per verificarla e poi ti fermi e stai a vedere dove arrivi, solo per scoprire che qualcuna delle tue certezze fondamentali sull ’Universo è an-data in frantumi.

Degli undici esperimenti che eravamo riusciti a condurre con successo, dieci avevano dato un riscontro positivo e tutti, tranne uno, erano risultati statisticamente significativi; nel frattempo, però, ave-vano mandato all’aria ogni nostra ipotesi iniziale sul possibile fun-zionamento dell’intenzione di gruppo.

Cercai di esaminare ciò che avevamo imparato sugli eventi che si stavano verificando. Eravamo riusciti a modificare l’acqua e le piante con il pensiero, sia che ci trovassimo tutti insieme in una stanza, in luoghi diversi o persino a migliaia di chilometri di distanza dall’o-biettivo. E i nostri pensieri avevano influito sugli oggetti, anche se non li avevamo mai mandati alla cosa in sé – che ovviamente si trovava in un laboratorio lontano –, ma solo a una rappresentazione simbolica: la sua fotografia.

Anche se l’unico punto di contatto era una fotografia su un sito, i partecipanti avevano stabilito facilmente una profonda connessio-ne gli uni con gli altri e con l’obiettivo. Sembrava che il pensiero di gruppo creasse una rete psichica non locale a connessione istanta-nea, dove la distanza tra i partecipanti non aveva più importanza, anche quando non lavoravamo con obiettivi reali e intenzioni ma solo con la loro rappresentazione fotografica, quasi fosse una bam-bolina voodoo.

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Nei primi Esperimenti sull’Intenzione globali, Gary e io eravamo partiti dal presupposto che fosse importante stabilire una qualche connessione diretta tra partecipanti e obiettivo, motivo per cui all’i-nizio insistevamo perché, durante l’evento, venisse mostrato tramite webcam. Sia durante gli Esperimenti di Germinazione sia in quelli con l’acqua, scoprimmo però che la coscienza umana può connet-tersi a un obiettivo virtuale, influenzandolo, e che la connessione è potente quanto quella con un obiettivo reale. Come sensitivi e altri chiaroveggenti sostengono da anni, la rappresentazione simbolica di qualcosa, come le coordinate su una mappa, permette alla mente di puntare facilmente un obiettivo.

Nemmeno la dimensione del gruppo si era rivelata importan-te; un gruppo ridotto di un centinaio di persone in una stanza di Rhinebeck, lontano migliaia di chilometri dall’obiettivo, dimostrò di avere la stessa potenza di un gruppo cinque volte più grande. Il secondo Esperimento sull’Acqua di Korotkov, che contava una partecipazione ridotta, produsse un effetto più ampio. Neanche la distanza dall’obiettivo aveva alcuna influenza sull’esito. Il pubbli-co australiano, a quasi 15.000 chilometri di distanza dall’obiettivo, che si trovava a Tucson, in Arizona, ottenne gli stessi risultati di un gruppo situato nel vicino Stato della California. Quando s’inviavano pensieri a qualcosa, essere in numero maggiore o trovarsi più vicini non era necessariamente meglio.

Un’altra strana proprietà del pensiero era che sembrava agire su tutto ciò che si trovava lungo il suo percorso; i semi che facevano parte di un esperimento, per esempio, subivano tutti una qualche modifica, pur non essendo gli obiettivi specifici di quella parte dello studio. Anche questo fenomeno aveva una grossa implicazione, per-ché indicava che gli esseri viventi acquisivano informazioni dall’in-tero ambiente e non soltanto dalla relazione tra due entità in reci-proca comunicazione.

L’elemento più importante sembrava l’esperienza. I risultati più incisivi si ottenevano con persone abituate a concentrarsi per in-viare pensieri, come meditatori esperti o guaritori. Al più riuscito

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degli Esperimenti di Germinazione, in cui i germogli che avevano ricevuto l’intenzione erano cresciuti il doppio rispetto al gruppo di controllo, avevano partecipato cinquecento operatori professionisti di Contatto Terapeutico. E tanto dagli Esperimenti di Germina-zione quanto da quelli sull’Acqua avevamo imparato anche che più eravamo specifici, più l’intenzione era efficace.

Questi primi esperimenti erano rudimentali, persino un po’ roz-zi, ma avevano implicazioni enormi. Mettevano in discussione an-che certe leggi newtoniane su cui poggia la fisica classica.12 Newton descriveva un Universo ordinato, costituito da oggetti separati che agivano nel tempo e nello spazio secondo leggi fisse, e una delle più importanti era proprio la sua prima legge: ogni dato oggetto rimane fermo o continua a muoversi a velocità costante, a meno che non intervenga una forza esterna. Questa legge esprime uno dei fonda-menti su cui si basano molte nostre certezze sul funzionamento del mondo: la nozione per cui gli oggetti sono statici, separati e dotati di confini ben definiti, a meno che non siano sottoposti a un qual-che intervento fisico, a una certa forza come una spinta, un colpo o una botta improvvisa. In effetti, tutte le leggi di Newton descrivono oggetti che esistono indipendentemente l’uno dall’altro e hanno bi-sogno dell’intervento di una certa energia fisica e quantificabile per cambiare, persino per muoversi.

Pochissimo nei nostri esperimenti rifletteva qualcosa di poten-zialmente ascrivibile alla visione newtoniana del mondo. Non fa-cevamo niente a un oggetto: inviavamo pensieri a quell’oggetto. Gli effetti che ottenevamo si avvicinavano più al comportamento in-disciplinato del mondo della fisica quantistica, così come era stato definito in origine da Niels Bohr e dal suo allievo, il fisico tedesco Werner Heisenberg. Questi due scienziati riconobbero alcuni aspet-ti fondamentali dell’Universo quantico. Nella dimensione dell’infi-nitamente piccolo, gli oggetti non sono ancora proprio oggetti, ma piuttosto nuvolette di probabilità, potenziali di ogni futuro sé possi-bile dell’oggetto, ovvero quella che i fisici chiamano “sovrapposizio-ne”, o somma, di tutte le probabilità.

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Oggi l’establishment scientifico accetta che nel mondo ermetico dei quanti la materia fisica non sia solida e stabile, non sia anco-ra qualcosa di definito, e che ciò che dissolve questa nuvoletta di probabilità, trasformandola in oggetto concreto e misurabile, sia la presenza di un osservatore. Una volta che gli scienziati osservano o misurano effettivamente una particella subatomica, questa nuvoletta di puro potenziale “collassa” in uno stato particolare e identificabile.

Le implicazioni di queste prime scoperte sperimentali nella fisica quantistica, oggi chiamate effetto osservatore, sono sempre state pro-fonde: la coscienza dell’essere vivente è l’agente che in qualche modo trasforma il potenziale in reale. Nel momento in cui osserviamo un elettrone o rileviamo un dato che lo interessa, contribuiamo a determi-narne lo stato finale. Questo fatto ha sempre portato con sé un certo numero di scomode implicazioni. Di queste, la più fastidiosa è la de-duzione secondo cui la coscienza che osserva diventa l’elemento fon-damentale della creazione del nostro Universo per cui, in realtà, non esistono “oggetti” a sé stanti, indipendenti dalla nostra percezione.

Gli scienziati si sono sempre tenuti lontani da questa nozione inquietante, accettando invece una visione del mondo più rassicu-rante, per quanto improbabile, secondo la quale il regno di ciò che è grande e visibile è governato da una serie di leggi, mentre quello del microscopico da un’altra; inoltre, quando queste anarchiche par-ticelle subatomiche iniziano in qualche modo a capire di far parte di qualcosa di grande e visibile, ricominciano a comportarsi bene, agendo in base alle leggi newtoniane, logiche e affidabili.

I nostri primi esperimenti avevano in parte intaccato qualcuno dei principi fondamentali di questa visione del mondo chiara e determi-nata, come la certezza delle dimensioni di tempo e spazio, la prima legge di Newton e persino l’idea che il regno del grande e del visibile e quello delle particelle invisibili seguano leggi differenti e distinte.

Sia i cerchi del Potere dell’8 sia gli esperimenti globali stavano, inoltre, facendo emergere altro, qualcosa di fondamentale sulla co-scienza umana e sulla sua capacità di oltrepassare i confini di oggetti e persone, persino i limiti del tempo e dello spazio. Più volte ave-

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vamo dimostrato che la mente umana ha la capacità di operare non localmente, di attraversare muri, mari e continenti e di modificare la materia a migliaia di chilometri di distanza. Gli scienziati fanno fatica ad accettare l’idea, proposta per la prima volta dal filosofo te-desco Immanuel Kant, secondo cui il mondo non è possibile senza di noi; è probabile, però, che in realtà l’effetto osservatore vada inteso nel senso che, quando ci occupiamo di un oggetto in particolare, concentrandoci su di esso all’unisono e articolando insieme una ri-chiesta molto specifica, noi creiamo qualcosa.

Le nostre esperienze non confermarono le teorie del gruppo di meditazione trascendentale secondo cui, per raggiungere un risulta-to specifico attraverso il potere del pensiero, è necessaria una certa massa critica. Un gruppo di cento individui in una stanza, concen-trato e focalizzato sullo stesso pensiero, infatti, aveva ottenuto gli stessi effetti di migliaia di persone sparse per il mondo e connesse via web. Gli esiti dell’esperimento erano stati gli stessi, tanto che i partecipanti si trovassero in un unico spazio o fossero sparsi per il globo, uniti solo dal medesimo pensiero e da una pagina internet.

In effetti, come stavo iniziando a capire, l’intenzione funzionava anche con un gruppo di sole otto persone. L’invio dei pensieri pro-duceva risultati perché, potevo ipotizzare, in quel momento occupa-vamo tutti lo stesso spazio psichico.

L’unica cosa che importava, l’unica cosa di cui sembrava esserci bisogno, era un qualche tipo di gruppo.

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Capitolo 5

Il Potere del 12

I cambiamenti di cui ero testimone nelle Intenzioni della Settima-na non potevano essere dovuti a un effetto placebo. Guarivano bam-bini e persino feti. C’erano persone in coma o che non sapevano di essere oggetto di un invio di pensieri. La piccola Isabella era nata a Spokane, nello Stato di Washington, alla ventiquattresima settimana di gestazione, pesava poco più di 600 grammi e aveva gli intestini staccati, un’infezione da streptococco allo stomaco e polmoni deboli. Due giorni dopo essere stata sottoposta a un’operazione all’intestino, che doveva connetterne i vari tratti, sviluppò un’infezione e fu costret-ta a subire un secondo intervento ai polmoni. Le furono somministra-ti svariati antibiotici e fu interpellato uno specialista, che diagnosticò che si trattava di un’infezione antibioticoresistente. I medici le attac-carono un sacchetto da stomia. Sembrava un caso quasi disperato.

La madre si rivolse a noi perché la piccola fosse scelta come In-tenzione della Settimana. Sette giorni dopo il nostro invio di pensie-ri, Isabella fu sottoposta a un altro intervento, da cui uscì incredibil-mente bene. Anche se i medici temevano una recidiva dell’infezione da streptococco, che li avrebbe costretti a un’altra operazione, con loro grande sorpresa i valori del sangue della piccola, causa dell’al-lerta, tornarono rapidamente nella norma. Cominciò a crescere in modo normale e, otto mesi dopo, fu dimessa dall’ospedale, comple-tamente sana. La madre lo definì “un miracolo”.

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Jeuline, di Göteborg, in Svezia, doveva partorire, ma al bam-bino che portava in grembo fu diagnosticato un raro e grave di-fetto cardiaco, che avrebbe certamente influito sulla funzionalità di cuore e polmoni. I medici temevano che il piccolo alla nascita non sarebbe riuscito a respirare perché era probabile che i polmoni fossero danneggiati. E anche se ci fosse riuscito, avrebbe dovuto essere abbastanza forte da sostenere almeno tre diversi interventi alle vene del cuore.

Prima della data del parto, Jeuline chiese di essere inclusa nel cerchio dell’Intenzione della Settimana. Dopo l’invio dei pensieri, le condizioni del figlio appena nato risultarono decisamente migliori del previsto. I dottori si stupirono che riuscisse a respirare da solo e che, dopo le poppate, la saturazione di ossigeno nel sangue salis-se, visto che di solito nei bambini con problemi di cuore accade il contrario. Il piccolo continuò a prendere peso e rimase in salute per l’operazione che subì due mesi e mezzo dopo e, da lì in poi, diventò sempre più forte.

“I medici sono sorpresi del suo aspetto sano e delle sue condizio-ni di salute” ci scrisse allora la madre.

“Sta meglio di altri bambini con problemi di cuore analoghi. Un piccino molto allegro, calmo e felice.”

Poi ci fu un’adolescente scappata di casa che tornò dai genitori. Juracy, dal Messico, ci scrisse che la figlia di sedici anni se n’era anda-ta. Stava per essere bocciata in matematica, trascorreva tutto il tem-po libero andando a feste che finivano alle prime ore del mattino e stringeva amicizia con ragazzi che la madre disapprovava. Il gruppo inviò pensieri perché madre e figlia fossero più amorevoli l’una nei confronti dell’altra, comunicassero con più onestà e rispettassero le differenze reciproche. Svariate settimane dopo, ricevetti un biglietto affettuoso da Juracy, in cui mi raccontava che la figlia, tre settimane dopo l’inizio dell’invio delle intenzioni, era tornata a casa e aveva-no cominciato a parlare in modo schietto e sincero. La figlia aveva anche modificato i suoi profili sui social media che, da molto scuri e sprezzanti, erano diventati allegri e colorati.

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Non sapevo a che cosa stessimo assistendo, se a una guarigione di successo o a una semplice coincidenza. Il fatto che il processo funzionasse su un bambino, e persino su un feto, e anche su persone in stato di incoscienza o ignare degli sforzi fatti per loro conto ten-deva a escludere un effetto dovuto all’aspettativa. Tutto questo era in qualche modo legato a una specie di amplificazione del potere dell’intenzione di gruppo?

Sto solo descrivendo questo fatto. Non fingo di capire cos’è “questo”.Sto imparando con voi. Per anni, nei corsi del Potere dell’8, con queste frasi mi solleva-

vo da qualsiasi responsabilità: erano il mio modo per “lavarmene le mani”. Non sono una guaritrice. Qui sono solo una giornalista. Dopo essere stata testimone di tanti cambiamenti miracolosi nella vita delle persone, per un po’ diventai persino indifferente. Oh. Un’altra guarigione miracolosa. E allora?

Allo stesso tempo sviluppai una sorta di ossessione per la ricerca di un precedente di questi effetti di guarigione collettiva. Qualcuno doveva averci pensato prima di me. Certamente i circoli di preghie-ra sono oggi parte integrante della maggior parte delle moderne Chiese cristiane. Ma i miei gruppi del Potere dell’8 e dell’Intenzione della Settimana, in alcuni casi, ottenevano guarigioni immediate. Mi chiedevo che cosa permettesse a un gruppo di persone che si con-centravano su un solo pensiero allo stesso tempo di produrre effetti tanto potenti. Questo rituale doveva essere già stato scoperto e uti-lizzato da una civiltà precedente.

Cominciai a cercare antichi cerchi usati per la guarigione e co-minciai dal più famoso di tutti: Stonehenge, il gigantesco cerchio preistorico in pietra a Salisbury Plain, in Inghilterra.

Gli archeologi non sanno ancora spiegare l’effettivo scopo di Sto-nehenge e cos’abbia spinto una civilizzazione neolitica a trasportare ottantadue rocce di ardesia di Carn Menyn per 250 km, dalle Preseli Mountains, nel sud-ovest del Galles, fino all’attuale sede a Salisbury Plain, quando ciascuna delle pietre pesa quasi tre tonnellate, richiede

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fino a trenta uomini per essere trasportata o trascinata con corde di cuoio e trasferita su una nave che risalga il fiume Avon e il Salisbury Avon per la fase conclusiva del viaggio. Molti ricercatori si rifanno ancora a William Stukeley,1 il primo archeologo di Stonehenge, se-condo cui la struttura mesolitica era un luogo di culto; come scrisse all’inizio degli anni Venti del Settecento: “Entrando nell’edificio e guardandosi attorno, osservando le rovine aperte, si viene trascinati in una sorta di [cito letteralmente] stato di estasi, che nessuno riesce a descrivere.” Altri erano convinti che il circolo di pietre funzio-nasse come un enorme calendario, dal momento che la posizione dei massi permette di identificare precisamente il solstizio d’estate e d’inverno, nozione fondamentale per i tempi di semina e di raccolta in un’epoca in cui non esistevano altri mezzi per calcolare le stagioni.

Ma nel mese precedente al nostro primo workshop, come scoprii solo in seguito, il professor Timothy Darvill e il professor Geoff Wainwright, due dei migliori archeologi britannici, dopo aver dato vita a un progetto di tre anni e aver unito le loro scoperte all’ingiu-stificato numero di ossa individuate in precedenza, avevano avanza-to un’ipotesi diversa dai colleghi, dimostrando l’esistenza di traumi di qualche genere.

“Lo scopo di Stonehenge era simile a quello di una Lourdes preistorica” affermò Wainwright.2 “Le persone venivano qui per essere guarite.”

“Inizialmente poteva essere stato un luogo per i defunti, con cre-mazioni e celebrazioni a loro dedicate” aggiunse Darvill, “ma gros-so modo dopo il 2300 a.C. il suo scopo cambia e viene utilizzato soprattutto per i vivi, un luogo in cui guaritori specializzati e altri operatori medici di quell’epoca si prendevano cura dei corpi e delle anime dei malati e degli infermi.”

Darvill e Wainwright concentrarono gli studi sulle pietre in sé e sull’antica credenza che le voleva imbevute di mistici poteri di guari-gione, derivati soprattutto dalle acque delle fonti e dei pozzi che, nel Galles, le avevano bagnate. Io, invece, ero interessata ai poteri che venivano dalla loro collocazione. La posizione in cui erano sistemate

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non era casuale, creava un percorso in allineamento con il sorgere del sole di piena estate. Le rocce di ardesia formavano un cerchio all’interno di quelle che oggi appaiono come due file di pietre di-sposte a ferro di cavallo.

Sul terreno gli archeologi hanno scoperto tracce che indicano la possibile presenza di altre rocce. Forse, a compiere guarigioni non era-no solo le pietre, ma anche i guaritori disposti in cerchio, dove la forma stessa del cerchio aveva già in sé una capacità terapeutica. Dal momen-to che sono centinaia gli antichi cerchi in pietra e legno sparsi per la Gran Bretagna, Darvill non dubita che avessero un ruolo importante nelle guarigioni, ma non ci sono prove che dimostrino che anche il cerchio di persone fosse parte integrante del processo di guarigione.

Nei secoli la disposizione a cerchio ha assunto una speciale im-portanza in molte culture e religioni, dal paganesimo Wicca alla mistica cristiana. Si ritiene, per esempio, che la leggenda di Artù e della tavola rotonda3 e della fratellanza medievale dei Rosacroce abbia unito pratiche arturiane a quelle degli antichi esseni, arcaica setta mistica di asceti che, secondo alcuni, avrebbe educato Gesù.

Contattai Klaas-Jan Bakker,4 gran maestro emerito dell’ordine dei Rosacroce AMORC. Mi spiegò che i Rosacroce sono convinti che i loro metodi di guarigione, prima usati dagli esseni, fossero stati insegnati a Gesù. L’elemento che più si avvicinava ai miei cerchi del Potere dell’8 era il Consiglio di Soccorso (Council of Solace), i cui membri erano scelti proprio per guarire le persone. I rappresentanti del consiglio di solito si connettevano al malato per assicurarsi che fosse in grado di ricevere il trattamento, poi gli inviavano pensieri appositi a certe ore del giorno, entrando in uno stato mentale di grande concentrazione e visualizzando la persona guarita. Oltre alle guarigioni individuali, ogni giorno a mezzogiorno, nei templi dei Rosacroce, ha luogo una cerimonia di guarigione rituale, nel corso della quale gli adepti inviano pensieri positivi di guarigione a chi ne ha bisogno e al Pianeta. Certe altre pratiche, inoltre, offrivano alcuni paralleli con la rete di connessione psichica5 che avevo scoperto nei nostri esperimenti e cerchi.

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Dal momento che i Rosacroce sostenevano di aver ereditato le loro pratiche dalla mistica cristiana, iniziai a studiare gli utilizzi re-ligiosi più tradizionali del cerchio.

Molti libri della Bibbia, come gli Atti degli Apostoli, il libro di Esdra e di Giona, parlano del potere della preghiera per invocare l’intervento della protezione divina ed evitare catastrofi e, probabil-mente, Santa Teresa d’Ávila introdusse la pratica dei piccoli gruppi di preghiera nella Chiesa cattolica.5 I musulmani compiono il pelle-grinaggio Hajj alla Mecca, dove formano cerchi concentrici per pre-gare attorno alla Kaaba, antica costruzione e centro sacro dell’Islam. Nell’ebraismo, in tutte le sinagoghe esiste un minian, ossia un grup-po di almeno dieci membri (solo uomini nel caso di chiese ortodos-se), una delle cui funzioni è di pregare insieme per la guarigione di un membro della congrega. Quando i membri della congregazione recitano la preghiera di gratitudine “Birkat HaGomel”, per ringra-ziare di essere sopravvissuti a un’esperienza traumatica o a una ma-lattia mortale, deve essere presente un minian. “Minian” viene dalla parola ebraica maneh, che è collegata al termine aramaico “mene”, o numero, soglia per raggiungere una certa massa critica di individui. Ovviamente i gruppi di preghiera sono stati ampiamente impiegati nella maggior parte delle religioni.

Studiando l’utilizzo dei gruppi di preghiera del mondo cristiano,6 m’imbattei in un vecchio sermone di Charles Spurgeon, predicatore battista inglese del diciannovesimo secolo, che spiegava il significato di un passaggio degli Atti degli Apostoli in cui si raccontava come questi diedero vita alla prima Chiesa cristiana. Spurgeon si concen-trava sul brano di Atti 1:12-14, che narra di come i dodici discepoli di Cristo tennero il loro primo incontro di preghiera. Tornati dal Monte degli Ulivi, vicino alla vecchia città di Gerusalemme, si riunirono in una stanza superiore, che secondo alcuni storici sarebbe il Cenacolo sul Monte Sion a Gerusalemme, e si misero tutti a pregare.

Secondo molti studiosi della Bibbia, il Nuovo Testamento fu scritto in greco antico e, stando a Spurgeon, San Luca, medico greco e stimato autore degli Atti, che avrebbe potuto essere testimone di-

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retto di alcuni eventi, per descrivere il metodo di preghiera di grup-po dei cristiani scelse il termine “homothumadon”.

La parola homothumadon ricorre dodici volte nella Bibbia, so-prattutto negli Atti, sempre per descrivere la natura della preghiera degli apostoli. La versione autorizzata della Bibbia di Re Giacomo7 traduce homothumadon con la scialba perifrasi “di comune accordo”, ma Spurgeon afferma che homothumadon, avverbio, sia in realtà un termine musicale che indica il “suonare insieme le stesse note”. In altri punti è stato reso “con un solo cuore e una sola mente”8 e, se-condo Spurgeon, significa che gli apostoli pregavano “all’unisono, in armonia e in modo continuato”.

Quando cercai la definizione di homothumadon, scoprii che nem-meno quest’ultimo tentativo di resa trasmette la profondità dell’o-riginale. Il vocabolo greco è composto da due parole: homou, che letteralmente significa “all’unisono” oppure “insieme nello stesso luogo allo stesso tempo”, e thymos, che indica l’“esplodere di un sentimento” o anche lo “sfrecciare” ed è spesso impiegato per con-ferire un senso di intensità di qualche genere: “riscaldarsi, respirare in modo violento”, persino “disperarsi”. Combinate insieme, le due parole evocano l’immagine musicale di, diciamo, una sinfonia di Beethoven, cioè di note che si rincorrono appassionatamente se-guendo percorsi diversi ma si armonizzano nella tonalità per co-struire un finale in crescendo. Il termine enfatizza il fatto che gli apostoli dovevano pregare come una singola unità appassionata, con una voce sola. “Qui c’è uno dei segreti dimenticati della Chiesa primitiva” annota Spurgeon. “Luca più e più volte ripete che ciò che facevano lo facevano insieme. Tutti. Uniti e all’unisono.”

Secondo Spurgeon, Gesù considerava la preghiera un atto co-munitario. Voleva che gli apostoli pregassero insieme, con gli stessi pensieri e le stesse parole, come se fosse un’intenzione sostenuta da tutti, insieme: e molti altri biblisti gli hanno dato ragione. Albert Barnes, specialista in studi biblici e pastore presbiteriano america-no del diciannovesimo secolo,9 sosteneva che homothumadon sotto-lineasse che gli apostoli operavano “con una mente sola. La parola

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indica la loro totale armonia di pensieri ed emozioni. Non c’erano divisioni, né interessi differenti né scopi discordanti”.

Pregare in questo modo può anche aver avvicinato ulteriormen-te gli apostoli, dando loro una sensazione di indivisibilità; secondo Robert Jamieson, A. R. Fausset e David Brown,10 commentatori biblici del diciannovesimo secolo, tanto nella vita quanto nelle pre-ghiere gli apostoli “erano uniti da un legame più forte della morte”. Può essere stato Gesù stesso a consigliare questo metodo, sapendo che i discepoli, nel preparare una rivoluzione religiosa, sarebbero andati incontro a grandi difficoltà. Matthew Poole, teologo pro-testante dissidente inglese del diciassettesimo secolo,11 sosteneva che l’utilizzo della parola homothumadon indica proprio il senso di unità di intenti degli apostoli di fronte ai problemi, senso di unità che infondeva loro “una grande determinazione, nonostante tutte le resistenze e ostilità”, in cui senza dubbio s’imbattevano nel cre-are la prima Chiesa.

Molti studiosi di storia della Chiesa sono convinti che Gesù ab-bia scelto consapevolmente questo tipo di preghiera a piccoli gruppi per lasciare agli apostoli un metodo con cui insegnare ai membri della Chiesa primitiva il nuovo modo di pregare, e come segno distintivo d’appartenenza alla comunità cristiana. Secondo Frederic William Farrar, membro del clero inglese, decano di Canterbury12 e arcidiacono di Westminster, Gesù insegnò volutamente agli apostoli a pregare così perché si allontanassero dalla “mera supplica individuale”: “I discepo-li molto tempo prima avevano richiesto ‘Signore, insegnaci a pregare’ (Luca 11:1) e, nei tre anni trascorsi con Gesù, è molto probabile che la modalità fornita loro come esempio avesse raggiunto proporzioni tali da essere entrata nella prassi del culto.”

Ciò lascerebbe intendere che la preghiera di gruppo, con una sola mente e un solo cuore, facesse esplicitamente parte del progetto per la comunità della neonata Chiesa cristiana. Più di recente, Peter Pett, pastore battista in pensione e docente universitario,13 ha so-stenuto che la tecnica di pregare come un’unica fervente unità fosse destinata all’intera congregazione della Chiesa.

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“Si sottolinea la totale e completa unità della Chiesa primitiva. Discepoli e discepole godono di una parità non comune al di fuori dei circoli cristiani. Pregano insieme come una cosa sola. La mag-gior parte delle preghiere vere e proprie probabilmente si svolgeva nel tempio, dove gli adepti si riunivano tutti i giorni con altri disce-poli di Gesù” (Luca 24:53).

Lloyd John Ogilvie, ministro presbiteriano ed ex cappellano del Senato degli Stati Uniti,14 ritiene che l’allora recente “movimento” cristiano dovesse servirsi di questo nuovo tipo di preghiera comune. “Nel loro obiettivo iniziale di creare un culto, si dedicarono alla pre-ghiera comunitaria. Questo atto, più che vicinanza fisica, significava unità spirituale.”

La preghiera, scrive Ogilvie, è fatta per essere un atto di relazione:Se desideriamo che lo Spirito Santo infonda forza in noi, individui singoli, dobbiamo esaminare le nostre relazioni: abbiamo qualcuno da perdonare? Qualche torto da riparare? Bisogno di portare conforto a una persona? In quanto congregazioni, non possiamo ave-re la forza dello Spirito finché non siamo una mente sola e un cuore solo, finché non ci amiamo gli uni con gli altri come Gesù ha amato noi e finché non sania-mo tutte le relazioni compromesse.

Secondo alcuni studiosi, la versione originale dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli era in aramaico, lingua madre di Gesù. Se è così, una parola che compare è kahda,15 avverbio che significa sia “insie-me” sia “allo stesso tempo”.

I piccoli circoli di preghiera hanno costituito una parte fonda-mentale della fase iniziale della formazione della Chiesa cristiana. In effetti, piccoli circoli per l’invio di intenzioni potrebbero essere stati utilizzati, se non inventati, da Gesù Cristo.

Nella Bibbia molti riferimenti al fatto che gli apostoli fossero “di comune accordo” citano un atto di guarigione di gruppo. In Luca

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(9:1), Gesù diede agli apostoli “forza e potere […] per guarire le ma-lattie” e li mandò in missione insieme, perché andassero di villaggio in villaggio, in Galilea, ad “annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi”. San Matteo notava inoltre che gli apostoli mandati alle “pecore perdute della Casa di Israele” avevano il compito di “guarire i malati”. Negli Atti, “fuori dalle città una grande folla”17 andava verso Gerusalemme “portando i malati”, e “furono tutti guariti”. Nel suo commento, anche Adam Clarke, studioso biblico metodista in-glese del diciottesimo secolo, a proposito di homothumadon annota-va: “Quando qualsiasi gruppo di fedeli di Dio si raduna con lo stesso cuore e la stessa predisposizione spirituale, può ricevere tutti i doni e le fortune di cui ha bisogno.”18

Pensai alle parole di Clarke,19 che a proposito di homothumadon scrisse:

“Questa parola è molto espressiva: significa che tutti i loro pen-sieri, sentimenti, desideri e speranze erano concentrati su un solo obiettivo, avendo tutti in mente lo stesso fine; e, avendo nient’al-tro che un unico desiderio, inviavano a Dio una sola preghiera e ogni cuore la esprimeva. Non c’erano persone disinteressate né poco coinvolte né indifferenti, tutte si dedicavano alla preghiera con ogni parte di sé, e lo Spirito Divino scendeva a incontrare la loro fede e la loro preghiera unita.”

Quando i loro pensieri erano focalizzati, concentrati e di gruppo. For-se homothumadon si riferiva allo stato mentale necessario per i circoli di guarigione che si tengono di prassi nelle Chiese cristiane, senza una piena comprensione dello speciale potere di questa pratica. Tut-to ciò lascia supporre che Gesù fosse consapevole del potere della preghiera di gruppo e stesse trasmettendo quest’idea ai suoi disce-poli. O forse, come credo, stava solo cercando di dire che Dio è in ciascuno di noi, ma che il potere in gruppo si amplifica.

Cercai la parola greca ekklésia,20 che appare nella Bibbia 115 vol-te, ma la dicitura “Chiesa” della versione di Re Giacomo non sem-bra rendere bene il termine. Una traduzione più fedele è “assemblea convocata o congregazione di persone che si incontrano con uno

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scopo specifico, un gruppo con un unico proposito, riunito in un solo corpo”. “Chiesa” all’epoca non indicava l’edificio in sé e nemme-no un’ampia organizzazione, ma semplicemente un piccolo raduno di individui, come gli apostoli, “chiamati” a incontrarsi per pregare come una sola fervente unità.

Probabilmente, l’idea originale di “Chiesa” di Gesù era qualcosa di simile al Potere del 12. Si comincia da dodici, che imparano a pregare insieme e poi diffondono la pratica. In uno dei primi capitoli degli Atti, gli apostoli, dopo aver pregato insieme, pregano con un gruppo di centoventi persone, tra cui Maria e i fratelli di Gesù, e pian piano raccolgono altri adepti, insegnando loro a fare la stessa cosa.

In quello stesso capitolo degli Atti (1:15-26), infatti, gli apostoli, subito dopo la Resurrezione, si dedicarono prima di tutto a cercare qualcuno per rimpiazzare Giuda. Comunemente si crede che Gesù abbia scelto dodici apostoli per rappresentare le dodici tribù di Isra-ele, ma può esserci stata un’altra ragione per mantenere il gruppo di dodici membri, anche se l’ultimo arrivato non era stato testimone diretto degli insegnamenti di Gesù.

Il numero dodici per gli apostoli poteva aver avuto la stessa importan-za della preghiera stessa.

Questa “assemblea convocata” combacia esattamente con la mia definizione di circolo di guarigione. In effetti, mi resi conto che ho-mothumadon ed ekklésia erano metafore perfette per il gruppo del Potere dell’8: una comunità di individui che prega insieme con fer-vore come una sola entità, formulando lo stesso pensiero di guari-gione allo stesso momento. Quando le persone sono impegnate in un’attività di grande coinvolgimento emotivo, come un cerchio di guarigione, si trasformano da voce solitaria in sinfonia tonante.

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Capitolo 6

L’Esperimento sulla Pace

Arrivata l’estate, ero stanca di procedere con cautela, di occupar-mi di semi e foglie nei miei esperimenti globali, ed ero pronta per qualcosa di più impegnativo. Se un piccolo gruppo di preghiera che si fondeva in una sola voce appassionata creava una qualche sor-ta di entità virtuosa, quanto poteva ampliarsi quella forza di gua-rigione su grande scala? L’ispirazione mi venne dalla mia amica Barbara Fields, direttrice dell’Association for Global New Thought, che aveva organizzato un progetto sulla pace incoraggiando la for-mazione di gruppi in diverse città, e anche dall’idea di dichiarare una Giornata internazionale della Pace a settembre. Chiamai Gary Schwartz e lo informai che era ora di verificare se la mente collet-tiva che analizzavamo negli esperimenti globali aveva il potere di risolvere alcuni dei problemi più difficili del mondo reale. “Faccia-mo qualcosa di davvero grande” proposi, “vediamo se riusciamo ad abbassare gli episodi di violenza e a riportare la pace in una zona di guerra. Dopo tutto, l’associazione per la Meditazione Trascenden-tale ha condotto più di cinquecento studi per stabilire se gruppi di meditazione abbiano la capacità di ridurre i conflitti, e alcuni hanno prodotto risultati interessanti.”

“Se cerchi di intervenire su un fenomeno di questa portata, non puoi limitarti a inviare pensieri per dieci minuti una sola volta e pretendere che funzioni” mi rispose Gary. Ci chiedevamo come pro-

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cedere. Da bravo scienziato, Gary tende sempre a iniziare riprodu-cendo qualsiasi struttura sperimentale abbia funzionato nell’ambito in questione. “Dovresti partire dal lavoro dell’organizzazione per la Meditazione Trascendentale” mi suggerì. Uno studio condotto su 24 città dimostrava che, quando l’1 per cento della popolazione me-ditava con regolarità, il tasso di criminalità diminuiva di circa un quarto, ottenendo risultati simili dopo aver esteso lo studio ad altre 48 città.1 Erano riusciti anche a dimostrare che, quando un certo numero di praticanti esperti aveva indirizzato i propri pensieri alla città di Washington, la quale nel 1993 aveva registrato un’impennata di violenza, il tasso di criminalità era sceso.2

Nel 1983 l’organizzazione aveva persino condotto esperimenti nel tentativo di ridurre i conflitti in Medio Oriente,3 scoprendo che più alto era il numero di persone che meditavano sul conflitto tra arabi e israeliani in Palestina, minore era il numero di vittime e di episodi violenti complessivi tanto in Israele quanto nel vicino Libano.

Negli anni, l’organizzazione è stata perseguitata da voci secondo le quali avrebbe truccato i dati, ma gli studi sembravano accurati e ben controllati e prendevano in considerazione molti fattori, dal clima alla stagione fino agli sforzi delle istituzioni per far rispettare la legge. Po-tevamo imparare molto da loro. Le ricerche erano state pubblicate su riviste scientifiche peer reviewed, sottoposte cioè a controlli da parte di esperti di settore indipendenti. Ovviamente, la gran parte dei lavori riguardava gli effetti di un’attività di massa passiva, come la medita-zione, che si limita a cercare la pace all’interno del singolo individuo. Io volevo portare la sperimentazione a uno stadio successivo, per ca-pire quali effetti avrebbe innescato un gruppo composto da un gran numero di individui che decidevano spontaneamente di concentrarsi per ridurre il numero di morti e incidenti.

Casualmente, Gary conosceva il protocollo sperimentale utilizza-to dall’Organizzazione per la Meditazione Trascendentale che, a suo parere, avrebbe fornito al nostro Esperimento sulla Pace un modello su cui basarci. Alcuni studi avevano esaminato l’effetto prodotto dalla radice quadrata dell’1 per cento della popolazione mondiale, numero

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che, secondo l’Organizzazione, corrispondeva alla massa critica mini-ma per determinare un cambiamento, e ammontava a settemila per-sone che praticassero nello stesso posto per un determinato periodo di tempo, come avevamo fatto nei nostri primi esperimenti. Sembrava logico continuare con la finestra temporale di dieci minuti che aveva-mo stabilito per l’invio delle intenzioni. “Gli esperimenti dell’Orga-nizzazione per la Meditazione sono proseguiti per un minimo di otto giorni” mi informò Gary, “dovresti fare lo stesso.”

Prima di parlare a Gary, avevo scritto a un mio contatto all’Orga-nizzazione per la Meditazione, che aveva partecipato a molti studi, per chiedergli qualche consiglio amichevole e informale. “La prima diffi-coltà di questo tipo di ricerca è il reperimento delle fonti per i dati” mi rispose all’inizio di luglio, “dati affidabili su misure interpretabili sono difficili da reperire. La maggior parte delle statistiche governative è, alla meglio, un report mensile e decisamente vecchio” mi spiegò, “ma c’è qualcuno che si occupa di analisi degli eventi dei conflitti e forse puoi attingere ai loro database.” Mi passò i nomi di alcuni possibili contatti.

A quel punto avevo messo insieme il mio dream team informale di “saggi anziani”, come li chiamavo: Gary Schwartz; Jessica Utts, una docente di statistica della California University di Irvine; il dottor Roger Nelson, prima docente a Princeton e ora direttore del Pro-getto di Coscienza Globale (Global Consciousness Project); Robert Jahn e Brenda Dunne, del progetto PEAR di Princeton.

Per capire se un effetto è maggiore o minore del previsto, spesso gli esperti di statistica si servono del metodo grafico per individua-re una tendenza – ossia una tecnica per individuare un andamento tendenziale di fondo o uno scarto da questo presunto andamen-to – in una precisa finestra temporale. Jessica Utts, esperta di ana-lisi statistica nella ricerca sulla coscienza, decise di elaborare una previsione dei probabili livelli medi di violenza nei mesi successivi all’esperimento, posto che le azioni di guerra proseguissero come nei due anni precedenti. Se avessimo rilevato una grossa differenza, avremmo avuto una chiara indicazione del fatto che il nostro invio di pensieri aveva funzionato.

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Decidemmo che lo studio sarebbe durato una settimana, da do-menica a domenica, e sarebbe cominciato il 14 di settembre per finire il 21, Giornata internazionale della Pace. Trattandosi di un esperimento pilota, all’inizio pensammo di limitare il numero dei partecipanti, per evitare che il sito si bloccasse anche questa volta. Siccome le cose si stavano muovendo in fretta ed ero sicura che trovare un obiettivo sarebbe stato facile, decisi però di sfidare il de-stino e di suscitare l’interesse della mia community annunciando l’evento già a luglio.

Perché quest’attività potesse essere considerata un vero e proprio esperimento e non un semplice gesto di buone intenzioni, doveva-mo trovare qualcosa di quasi impossibile in guerra: una conta molto precisa delle perdite. Tale requisito eliminava immediatamente aree dell’Africa e del Medio Oriente e, di fatto, la maggior parte delle zone di conflitto della Terra. Avevo bisogno anche di un obiettivo abbastanza sconosciuto perché nessuno del mondo occidentale stes-se già pregando in suo favore, in modo da aumentare la probabilità che i cambiamenti fossero attribuibili al nostro invio di intenzioni e non a una moltitudine di altri fattori. Ciò con cui avevamo a che fare era così indefinito che dovevamo controllare qualsiasi imprevisto, inclusa la possibilità di una “contaminazione” di intenzioni mandate da altri che pregassero per il nostro obiettivo prima di noi: questo infatti ci avrebbe impedito di sostenere che i cambiamenti erano determinati dalla sola influenza mentale dei partecipanti. Dopo tut-to, nel primo esperimento di Konstantin si era verificata una certa “contaminazione” di pensiero quando i partecipanti erano riusciti ad accedere al sito troppo presto.

Jessica Utts voleva utilizzare qualche annualità di dati settima-nali sulle violenze, cominciando dai due anni precedenti il nostro esperimento per finire qualche mese dopo, in modo da avere una buona base statistica con cui eseguire i confronti. Ciò significava che stavamo cercando una guerra in cui qualcuno avesse tenuto un conto preciso dei decessi, li contasse da anni e fosse disponibile a rivelarci il numero effettivo.

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Per tutta l’estate chiamai e mandai email a ogni organizzazione per la pace del mondo mi venisse suggerita. Chiamai il Dipar-timento per la Pace e le ricerche sui conflitti dell’Università di Uppsala, in Svezia. Contattai lo United States Institute of Pea-ce di Washington. Telefonai a centri per la pace e la gestione dei conflitti di tre università. Tutti i dipartimenti avevano buone idee ma pochi dati a disposizione. Qualcuno mi fece il nome di Joshua Goldstein, che per un mese aveva registrato i caduti della guerra in Israele, e poi di un docente di Harvard di nome Doug Bond, che aveva ideato un sistema per raccogliere statistiche sulle vittime delle due guerre degli Stati Uniti in Medio Oriente, ma non riu-scii a mettermi in contatto con nessuno dei due. Jason Campbell, della Brookings Institution, un’organizzazione pubblica non profit di Washington, era un’eccellente fonte di dati sui caduti in Iraq, ma le sue relazioni riportavano solo dati mensili, mentre io avevo bisogno di cifre giornaliere o settimanali.

Il Worldwide Incidents Tracking System del governo degli Stati Uniti, un sistema che teneva conto praticamente di tutti i decessi legati ad azioni terroristiche nel mondo, offriva informa-zioni solo fino a marzo. Avremmo dovuto aspettare circa otto mesi dopo l’esperimento prima di scoprire se avevamo avuto un qualche impatto. Quando decisi di chiamare l’organizzazione per ottenere qualche dato più recente, scoprii che il sito non aveva né un nu-mero di telefono né altre informazioni di contatto e nemmeno comparivano sul web o sugli elenchi telefonici. Telefonai allora al Dipartimento di Stato a Washington e nessuno sembrava aver mai sentito parlare dell’organizzazione. Mi passarono un dipartimento dopo l’altro, finché finii in linea con il Centro antiterrorismo, una specie di unità super segreta del Dipartimento di Stato. La perso-na all’altro capo del telefono sembrava sorpresa del fatto che fossi riuscita a mettermi in contatto con loro e rifiutò di dirmi chi era, ma si mostrò comunque estremamente interessata all’uso che in-tendevo fare delle informazioni relative a due anni di decessi nelle guerre dell’Iraq e dell’Afghanistan e al motivo per cui l’attività ter-

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roristica m’incuriosiva tanto. Dopo pochi minuti non mi disse più nient’altro e cominciò a informarsi su di me e sul mio numero di previdenza sociale.

Iraq Body Count, un sito che tutti i giorni pubblica un buon re-soconto delle morti legate alla guerra in Iraq, era gestito da volontari che, come mi scrissero, erano già fin troppo impegnati “solo a docu-mentare il massacro giornaliero”.

Stavo cominciando ad agitarmi parecchio. A quel punto era già fine agosto, al nostro esperimento mancavano 19 giorni e non avevo ancora un obiettivo plausibile, situazione particolarmente stressante perché si erano già iscritte seimila persone per partecipare. In quel momento non avevo ancora pubblicizzato granché l’evento, perché non ero ancora sicura che il sito avrebbe retto a un grande traffico e avevo pensato di restare sotto i ventimila partecipanti, ma in rete la notizia del progetto era già diventata virale. Parecchie importanti organizzazioni – come Gaiam, H20m, l’Association for Global New Thought, le persone che avevano collaborato al film What the Bleep Do We Know!? e il suo sito ufficiale Oneness, la Brahma Kumaris, Intent.com – avevano parlato dell’esperimento ai loro gruppi e tutti i giorni si iscrivevano centinaia di persone nuove. Mi chiesi come avevo potuto pensare che trovare la mia guerra perfetta e ben docu-mentata sarebbe stato facile.

Una delle persone con cui ero in contatto mi consigliò di limitare la ricerca a certe aree dello Sri Lanka, dove da venticinque anni infu-riava una sanguinosa guerra civile. Con tutti gli obiettivi puntati sul terrorismo islamico e sul Medio Oriente, questa parte di mondo era stata perlopiù dimenticata dall’America. Poteva costituire il perfetto obiettivo vergine. Potevo essere certa che stava attraendo ben poche preghiere dall’Occidente.

Dopo aver scritto senza successo ad altre quattro organizzazioni con sistemi di registrazione dati, stavo per annullare l’esperimento quando un mio contatto di Uppsala mi consigliò di cercare la Foun-dation for Coexistence (FCE), a Colombo, in Sri Lanka, organiz-zazione per la pace di quel Paese, che era stata tra le prime a dotarsi

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di un sistema di raccolta dati e teneva conto da anni dei decessi. Dal momento che controllano in continuazione entrambe le aree del Paese per ottenere le percentuali di decessi e di episodi di violenza e inseriscono giornalmente le informazioni in un database, pensai che sarebbe stato facile per loro fornirci i dati delle morti dei due anni precedenti al nostro esperimento e poi resoconti regolari dopo la settimana di intenzioni. Seguii così una serie di indizi che dalla Brandeis University di Boston mi portò alla Manchester University in Gran Bretagna e, infine, a Madhawa “Mads” Palihapitaya, diret-tore dello sviluppo al Massachusetts Office of Dispute Resolution di Boston e rappresentante dell’FCE negli Stati Uniti, che mi indiriz-zò all’ex direttore dell’organizzazione, il dottor Kumar Rupesinghe, noto attivista per la pace. Rupesinghe è il Gandhi dello Sri Lanka, un ex editore che contribuì a fondare e ora guida l’FCE. Sotto la sua direzione l’FCE aveva prodotto un modello per la risoluzione della guerriglia e la coesistenza tra le Tigri per la Liberazione della patria tamil, meglio conosciute come Tigri tamil o LTTE, forze ribelli ben addestrate ed equipaggiate, e i singalesi della comunità principale. Affrontando le cause di malcontento di entrambe le parti, l’FCE aveva contribuito a ridurre la violenza nella provincia orientale dello Sri Lanka e, di conseguenza, Rupesinghe aveva cercato di convin-cere organizzazioni e governi di tutto il mondo a sviluppare pro-grammi simili, per individuare focolai di allerta, costruire coalizioni e condividere il peso degli avvenimenti nelle guerre civili.

Nonostante i primi progressi, ancora non si vedeva la fine delle violenze né della guerra.4 Le Tigri si erano risvegliate per reagire alle discriminazioni contro i tamil attuate dalla maggior parte della popolazione e da venticinque anni sostenevano una campagna per creare uno Stato tamil indipendente nel nord-est. In quel quarto di secolo le Tigri erano diventate una macchina militare ben avviata, segnando alcuni primati nell’attività terroristica: sono stati infatti la prima organizzazione a inventare e a utilizzare regolarmente la cintura esplosiva; la prima a reclutare con la forza bambini per le attività terroristiche; i primi a scegliere donne come attentatrici sui-

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cide. Nel periodo del nostro Esperimento sulla Pace, avevano già superato i trecento attacchi suicidi, il numero più alto in assoluto per qualsiasi organizzazione, e realizzato i più audaci omicidi a sfondo terroristico: le loro vittime comprendevano due leader mondiali, il Primo Ministro indiano Rajiv Gandhi e il presidente dello Sri Lan-ka Ranasinghe Premadasa, e un tentativo fallito su un terzo, l’allora presidente dello Sri Lanka Chandrika Kumaratunga, che comun-que perse l’occhio destro. Dieci mesi prima il nostro esperimento, cercando di uccidere il ministro Douglas Devananda, una donna di nome Sujatha Vagawanam aveva fatto esplodere una bomba nasco-sta nel reggiseno e, anche se l’attentato non era andato a buon fine, era stato registrato dal telefono di qualcuno e caricato su YouTube.

Negli anni le trattative per il cessate il fuoco si erano interrotte quattro volte, dopodiché il governo del Paese aveva rinunciato de-cidendo semplicemente di estirpare l’organizzazione con qualsiasi mezzo necessario. Al massimo del loro potere, i tamil erano arrivati a controllare tre quarti del territorio; al momento del nostro esperi-mento le forze governative avevano riconquistato la zona orientale, dove permanevano però le violenze, e i tamil avevano bloccato l’in-tero nord del Paese, dove mantenevano la propria roccaforte, scac-ciando più di 300.000 persone. Nel corso del lungo conflitto erano rimasti uccisi circa 340.000 individui, e mezzo milione attualmente viveva nei campi profughi. Il dicembre precedente, sia la Human Ri-ght Watch sia Amnesty International avevano implorato il consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite di porre fine alle violenze sui civili di entrambe le parti.

Quando gli descrissi il nostro progetto, Rupesinghe fu ben felice di condividere con noi i suoi dati senza farci pagare nulla. Quello stesso mese, infatti, l’FCE aveva avviato un’iniziativa porta a porta contro la violenza, che si sarebbe conclusa con una cerimonia con luci accese nella Giornata internazionale della Pace, la sera dopo il nostro esperimento. “Chiederemo a tutto il Paese di alzare nelle case una bandiera con il simbolo della nostra campagna, poi di accendere una lampada e pregare o meditare per cinque minuti” mi scrisse, “la

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sera ci saranno veglie pubbliche in tutto il Paese, con candele e lam-pade.” Stava contattando vescovi cattolici, leader cristiani, monaci buddisti, maestri indù e imam musulmani perché facessero lo stesso e guidassero i propri fedeli nella preghiera. “Siccome sarà domenica e i cristiani andranno in chiesa, stiamo chiedendo loro di suonare una campana” mi spiegò, “a tutte le religioni sarà chiesto di suo-nare le campane secondo le proprie usanze.” Mi pregò di chiedere ai nostri partecipanti di seguire il loro esempio e di accendere una candela quella domenica conclusiva.

Non riuscivo a credere a una tale sincronicità: le nostre due cam-pagne finivano lo stesso giorno. “Mi sembra un’ispirazione divina” gli risposi.

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Capitolo 7

Pensare alla pace

Adesso avevo bisogno di un altro piccolo intervento divino, sotto forma di un nuovo sito internet.

L’ultima grande difficoltà era capire come tenere l’esperimento via web. La precedente piattaforma aveva rappresentato un’eccel-lente soluzione a basso costo per gli esperimenti più piccoli e an-che il primo tentativo di sfruttare la potenza di più server, ma non ero sicura che l’attuale configurazione fosse sufficiente a gestire un esperimento di questa portata. Come in precedenza, decidemmo di condurre l’esperimento su una piattaforma diversa dal nostro sito internet principale, per avere abbastanza potenza da gestire i nume-ri. Mesi prima c’era stato presentato Jim Walsh, proprietario di una grande azienda, che si era generosamente offerto di pagare un server con prestazioni più elevate.

Jim aveva in mente un webmaster particolare per creare il sito e gestire l’evento e gli inviammo tutte le specifiche di cui avevamo bisogno; ci rispose però che, nonostante il server fosse disponibile, il collega non poteva offrire l’hosting. Eravamo bloccati senza sito e un buon webmaster. Non potevamo proprio permetterci di sborsare migliaia di dollari per il team che ci aveva aiutato per i primi esperi-menti con le foglie e i semi.

Eravamo arrivati al 4 settembre e mancavano dieci giorni alla data fatidica. Mi trovavo di nuovo di fronte alla prospettiva di cancellare

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l’evento, quando mi ricordai che a un raduno quella stessa estate mi erano stati presentati Sameer Mehta e i suoi colleghi, esperti web designer di una società di servizi media che operava dall’India ed era gestita da Tani Dhamija, nostra conoscente del Regno Unito. Provai con loro e mi misi in contatto con Joy Banerjee e Sameer. Quando spiegai loro la mia posizione, si offrirono generosamente di mettermi a disposizione il tempo della loro azienda per allestire l’esperimento ospitandolo sulla loro piattaforma, che era abbastanza potente da gestire migliaia di visitatori. Non potevo crederci. Questa volta l’esperimento non ci sarebbe costato assolutamente niente.

Sameer e il suo team crearono un sito a parte e una pagina di iscrizione, apportando però una modifica sostanziale: per minimiz-zare i problemi ai singoli computer e aumentare la possibilità di partecipazione, le pagine sarebbero cambiate automaticamente nelle varie fasi dell’esperimento. Così nessuno sarebbe riuscito ad acce-dere al sito in anticipo, come era successo nel primo Esperimento sull’Acqua di Konstantin.

Arrivato finalmente il 14 settembre, un tecnico della società si mise a disposizione per aiutare chiunque avesse problemi a entrare nella homepage. Come stabilito, nei dieci minuti dell’esperimento sarebbe-ro stati trasmessi i nostri “Reiki Chants”. La maggioranza dei parte-cipanti, me compresa, riuscì a collegarsi. Ero felicissima di vedere le pagine cambiare al momento giusto, prima di tutto per rivelare l’obiet-tivo, completo di una mappa dello Sri Lanka che, come evidenziato, “era piagato da uno dei conflitti più sanguinosi in corso sul Pianeta”.

Cinque minuti dopo la pagina cambiò di nuovo passando alla nostra intenzione, rappresentata da una foto di tre ragazzi abbrac-ciati di circa dieci anni, un tamil, un musulmano e un sikh, ritratti vicini all’immagine di una splendida cascata, il simbolo perfetto del-la pace ritrovata.

Chiedemmo ai partecipanti di restare concentrati sulla seguen-te intenzione: “riportare la pace e la cooperazione nella regione del Wanni dello Sri Lanka e ridurre le violenze legate alla guerra almeno del 10 per cento”. Avevo quantificato la nostra richiesta soprattutto

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dopo quanto era accaduto con l’Esperimento di Germinazione, che aveva dimostrato come a una richiesta più dettagliata corrisponda un risultato migliore.

Tutto sembrava funzionare alla perfezione ma, dopo il primo giorno, scoprii che, per la quantità stessa degli utenti che cercava-no di accedere al sito, qualche migliaio di persone aveva riscontrato difficoltà. Si erano infatti iscritti in più di 15.000 e, alla fine, solo 11.468 riuscirono a partecipare. Le migliaia di persone che non era-no riuscite a effettuare il login si unirono comunque dopo aver rice-vuto l’URL dai tecnici della piattaforma. Furono presenti persone di oltre sessantacinque Paesi e di ogni continente, tranne l’Antartide; i gruppi più corposi provenivano da Stati Uniti, Canada, Regno Uni-to, Olanda, Sudafrica, Germania, Australia, Belgio, Spagna e Mes-sico, con qualche iscritto anche da destinazioni più remote, come Trinidad, Mongolia, Nepal, Guadalupe, Indonesia, Mali, Repubbli-ca Dominicana ed Ecuador. Raggiungemmo quasi il doppio della radice quadrata dell’1 per cento della popolazione mondiale. Dal momento che anche questa volta il numero di richieste era superiore alla capacità del server, chiedemmo che fosse potenziata, soprattutto per il weekend conclusivo.

Il primo riscontro sugli effetti del nostro tentativo fu allarmante. La settimana dopo, infatti, lessi alcuni rapporti preliminari e i primi dati raccolti da Hemantha Bandara dell’FCE sul tasso di decessi nella settimana del nostro esperimento, che indicavano che proprio in quei sette giorni gli episodi di violenza erano decisamente au-mentati, raggiungendo i livelli più alti in assoluto nella finestra tem-porale dei due anni presi in considerazione. I livelli di violenza nel nord del Paese si erano innalzati proprio all’inizio dei nostri otto giorni di invio di pensieri. Si era verificata un’improvvisa impennata di attacchi e omicidi, determinata in particolare dal governo dello Sri Lanka, che aveva condotto un’intensa campagna bellica di terra,

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aria e mare per stanare le Tigri tamil dalle loro ultime roccaforti nel nord dell’isola. La marina governativa affondò due navi tamil in una battaglia scoppiata al largo delle coste nord-orientali e, in un’altra offensiva di tre ore lungo la costa nord-occidentale, uccise venticinque oppositori. Le truppe ufficiali cinsero d’assedio anche la roccaforte dei ribelli nel distretto di Kilinochchi, con le conseguenti perdite di diciannove ribelli e tre soldati. Sull’altro fronte le Tigri respinsero un’offensiva dell’esercito1 nella regione occidentale del Wanni e, dopo una battaglia di ore, affermarono di aver abbattuto venticinque soldati.

Con l’aumento dell’attività dell’esercito,2 il numero di morti e fe-riti ebbe una forte impennata: negli otto giorni dell’esperimento, ci furono 461 decessi e 312 feriti gravi, rispetto ai 142 decessi e ai 38 feriti della settimana prima.

Il governo annunciò che non avrebbe accettato negoziati né of-ferto un cessate il fuoco finché le Tigri non avessero deposto le armi: era determinato a scacciare una volta per tutte le Tigri dalla loro ultima roccaforte. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad abbandonare il distretto di Wanni perché la loro incolumità non era garantita. I nuovi bombardamenti costrinsero più di 113.000 perso-ne ad abbandonare le proprie case. L’ONU fece appello a entrambe le parti perché smettessero di uccidere i civili. Tutto sembrava molto più di una semplice coincidenza.

Oh mio Dio, continuavo a pensare. Siamo stati noi a provocare tutto questo?

Poco tempo dopo la conclusione dell’esperimento, però, stando ai dati settimanali fornitici dall’FCE, il numero di morti e feriti scese moltissimo. Il tasso di decessi all’improvviso calò del 74 per cento e quello di feriti del 48 per cento. Nel breve termine la riduzione percen-tuale dei decessi relativa al periodo immediatamente successivo all’e-sperimento non era particolarmente significativa paragonata ai tredici giorni precedenti. La media degli omicidi, infatti, tornava praticamente la stessa delle due settimane prima dell’esperimento e il numero di feri-ti restava del 43 per cento inferiore a quello dei mesi prima dell’evento.

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Ecco il quadro immediato. In ogni caso, perché i nostri dati fosse-ro significativi, dovevamo prendere in considerazione un periodo di tempo più ampio, prima e dopo l’esperimento. Confrontando i dati con gli avvenimenti dei due anni precedenti e con quelli del mese o dei due mesi successivi, avremmo scoperto se avevamo innescato qualche cambiamento significativo anche sul lungo termine: avrem-mo verificato cioè se la percentuale degli episodi di violenza avrebbe continuato a ridursi oppure se avevamo già ottenuto il massimo ri-sultato possibile. Volevamo inoltre capire se l’effetto dell’intenzione perdurava oppure era limitato all’immediato. Avrebbe influenzato l’esito della guerra nel distretto di Wanni? L’unico modo per saperlo era prendersi una pausa e osservare per un po’, fornendo a Jessica Utts le statistiche settimanali di Hemantha e i dati dei decessi delle province orientali e occidentali registrati nei due anni precedenti.

Con le statistiche dell’FCE, Jessica riuscì a elaborare un model-lo che prevedeva i probabili livelli medi di violenza attesi nei mesi successivi all’invio delle intenzioni, posto che le azioni di guer-ra restassero le stesse. Usammo poi i dati delle settimane seguenti all’esperimento per confrontare le stime di ciò che sarebbe dovuto accadere con quello che era successo davvero. Jessica preparò un’a-nalisi preliminare degli eventi del periodo considerato (detti anche “serie storica”), fino alla settimana conclusasi con il 14 settembre, avvalendosi di un modello autoregressivo integrato a media mobile (ARIMA, Autoregressive Integrated Moving Average), modello che aiuta a comprendere meglio il materiale a disposizione e a elaborare previsioni per il futuro con dati che, come i nostri, non sono lineari ma presentano fluttuazioni e diverse anomalie.

Alla fine di novembre Jessica preparò un trend quadratico, un modello più complesso che forniva una buona spiegazione statistica della distribuzione generale dei dati fino all’esperimento e un’ipotesi plausibile di ciò che era possibile avvenisse durante e dopo l’esperi-mento. L’analisi rivelò che, in effetti, durante la settimana delle in-tenzioni la violenza aveva raggiunto livelli molto più alti del previsto ma, nelle settimane successive, era scesa ben al di sotto delle stime

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attese. Il numero dei decessi aveva iniziato a crescere dalla settante-sima settimana dei due anni considerati, aumentando in modo co-stante di settimana in settimana, fino a raggiungere il record durante il nostro esperimento per poi ritornare, una settimana dopo, a livelli non più registrati da prima dell’intensificarsi dei combattimenti.

Ovviamente, avrebbe potuto trattarsi di una coincidenza. Dove-vamo infatti considerare l’ipotesi che l’inasprirsi delle violenze nella settimana dell’esperimento avrebbe potuto essere casuale e che il suc-cessivo ridursi fosse la calma che spesso segue una battaglia. Dopo tutto, le dimensioni dell’esercito dello Sri Lanka quell’anno erano au-mentate del 70 per cento, così come quelle della sua flotta navale.

Nei mesi successivi gli eventi presero una piega ancora più stra-ordinaria. Visti dalla prospettiva dei due anni, gli eventi della nostra settimana di settembre si rivelarono fondamentali rispetto all’intero conflitto durato venticinque anni. In quei sette giorni, infatti, l’e-sercito dello Sri Lanka vinse parecchie battaglie strategiche, che gli consentirono di ribaltare le sorti della guerra. Dopo il nostro esperi-mento, l’esercito riuscì a spostare la zona di guerra nel territorio delle Tigri. Nella spietata offensiva delle truppe governative, la guerra si trasformò in un combattimento faccia a faccia.

A gennaio finalmente l’esercito cacciò i separatisti dalla capitale di Kilinochchi. La settimana successiva, le truppe ripresero il con-trollo dello strategico passo dell’Elefante e della città di Mullaitivu, aprendo, per la prima volta dopo nove anni, il passaggio alla peni-sola occidentale di Jaffna, punto in cui il territorio dello Sri Lanka si collega all’istmo nord dell’isola, e liberando il distretto di Wanni, nostro obiettivo. I terroristi tamil rimasti furono schiacciati in un angolino di giungla, nel nord-est, di 330 chilometri quadrati. Dopo tutte le vittorie decisive di settembre e gennaio, l’insolubile guerra civile di venticinque anni giunse a una cruenta conclusione il 16 maggio, nove mesi dopo il nostro esperimento.

Siamo stati noi?Certamente, a settembre, quando cominciammo, i ribelli avevano

ancora il controllo del nord e la fine delle ostilità non era prevedi-

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bile. Anche se ad agosto l’esercito aveva fatto qualche passo avanti, ancora a maggio i commentatori non credevano nella possibilità di un accordo pacifico. Quando notò che le percentuali settimanali più alte di episodi di violenza e che le battaglie più importanti degli interi sei mesi si erano verificate nella settimana del nostro esperi-mento, Jessica commentò con due sole parole: “Strano, eh?”.

Volendo una conferma indipendente del fatto che si trattasse di più di una coincidenza, chiamai Roger Nelson, ideatore del Global Con-sciousness Project e membro del nostro team scientifico. Ex psicologo dell’Università di Princeton, il dottor Nelson era affascinato dalla pos-sibile esistenza di una coscienza collettiva, che poteva essere provata dai dispositivi REG (moderni equivalenti elettronici di uno strumento ide-ato dal gruppo PEAR che lanciava di continuo una monetina, produ-cendo grosso modo la stessa percentuale di teste e croci). Nel 1998 Ro-ger creò un programma centralizzato, in modo che i dispositivi REG, sparsi in cinquanta località del globo e in funzione continua, riversas-sero tramite internet un flusso ininterrotto di dati casuali in un solo grande hub centrale. Dal 1997 Roger confronta quei risultati con gli eventi che suscitano un grande impatto emotivo globale. Analisi con-dotte con metodi statistici standard fanno emergere qualsiasi segnale di “ordine”, ossia frangenti in cui i dati della macchina rivelano una de-viazione rispetto alla normale casualità, e indicano se il momento in cui quest’ordine si è generato corrisponde a un rilevante evento mondiale.

Nei decenni Roger ha confrontato le attività dei dispostivi con centinaia di fatti salienti: la morte di Diana, principessa del Galles; i festeggiamenti per il nuovo millennio; la morte di John F. Kennedy junior e della moglie Carolyn; il tentativo di impeachment di Clin-ton; la tragedia delle Torri gemelle; le elezioni dei presidenti George Bush, Barak Obama e Donald Trump; l’invasione dell’Iraq e la de-posizione del regime di Saddam Hussein. Emozioni forti, positive o negative, anche alle elezioni presidenziali, sembravano produrre uno scostamento dalla casualità, generando una specie di ordine.

Chiesi a Roger di studiare quanto successo ai dispositivi REG durante il nostro esperimento.

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Da diverse analisi emerse che i macchinari avevano registrato un cambiamento nella finestra dei venti minuti di meditazione in tutti gli otto giorni dell’esperimento e che questi dati erano simili a quelli registrati durante le meditazioni di massa condotte nelle aree in cui si desidera abbassare il livello di violenza. Gli effetti, però, erano de-cisamente più evidenti nei dieci minuti concreti dell’esperimento, che corrispondevano al momento esatto in cui inviavamo l’intenzione.

Il risultato dell’Esperimento sulla Pace era convincente, ma non si poteva considerare definitivo. Come qualsiasi scienziato confer-merà, un solo risultato come questo in realtà non prova molto. C’e-rano infatti troppe variabili: l’offensiva del governo dello Sri Lanka, il naturale evolversi del conflitto, l’aumento e poi la riduzione delle violenze. Senza dubbio, tuttavia, la nostra settimana di settembre era stata la più importante in venticinque anni di guerra. L’azione dell’esercito aveva acquisito slancio, consentendogli di rovesciare le sorti dell’intero conflitto.

Siamo stati noi?Risposta breve: chi lo sa?Per dimostrare che le nostre intenzioni avevano influenzato l’e-

sito della guerra in modo determinante dovevamo ripetere l’esperi-mento un certo numero di volte.

Intanto, però, avevo fatto un’importante scoperta. Per la prima volta a metà ottobre decisi di inviare a tutti i partecipanti un sondaggio per raccogliere le loro impressioni sull’esperimento e per controllare se il sito avesse retto, permettendo al pubblico di accedere a tutte le pagine.

Fui spinta a mettere a punto il sondaggio anche dall’esperienza di uno dei partecipanti del primo esperimento, che mi aveva lasciata per-plessa. Un chiropratico di nome Tom, dopo aver partecipato all’espe-rimento con la foglia alla conferenza di Los Angeles, aveva scritto a Gary. Tom sosteneva di vedere l’aura della foglia e di aver notato una luminosità diversa nei punti che erano stati bucati. “Entrai anche in un profondo stato di alterazione. La stanza diventò molto buia e la prima cosa che vidi furono le aure delle altre persone. Vedo aure abba-stanza spesso, ma qui l’intensità era decisamente diversa.”

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All’epoca, visto che l’uomo sosteneva di vedere sempre le aure, diedi poco peso alla cosa, considerandola un’illusione; la sua lettera, però, aveva sollevato un grande quesito che mi era rimasto in testa per mesi. Oltre a influenzare l’obiettivo dell’esperimento, quest’ulti-mo esercitava un qualche effetto anche sul pubblico?

Quando cominciarono ad arrivare le risposte dei partecipanti fu chiaro che alcuni effetti riguardavano anche loro.

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Capitolo 8

L’istante sacro

È come se il mio cervello fosse collegato a un sistema più ampio.Così rispose al sondaggio uno dei partecipanti. E altre migliaia

di persone descrissero un fenomeno simile. Non si trattava di re-soconti entusiastici di partecipanti soddisfatti. Erano descrizioni di niente meno che uno stato di rapimento mistico. Sembrava che il pubblico fosse entrato in una specie di unio mystica, la fase del cam-mino spirituale in cui il singolo sperimenta una fusione completa con l’Assoluto. È il momento in cui, come scrisse Santa Teresa d’Ávi la,1 siamo “avvolti nell’amore divino”, in cui, come spiegò uno scia-mano, “le cose spesso sembrano brillare”, l’attimo in cui, secondo la descrizione del mistico cabalista Isaac d’Acri, la sua “brocca d’acqua” diventa indistinguibile dalla “sorgente che scorre”. I sufi e altri mi-stici islamici, i Kahuna delle Hawaii, i Maori, i Q’ero andini, i nativi americani, saggi come G. I. Gurdjieff e infinite altre culture hanno tutti cercato l’istante, oltre il tempo e lo spazio, in cui il senso di individualità scompare e si esiste in uno stato di unione estatica. Un corso in miracoli lo definisce “l’istante sacro”.2 È, in pratica, un orga-smo spirituale, e sembrava che parecchi dei miei partecipanti l’aves-sero appena sperimentato da soli, seduti davanti ai loro computer.

“Ho avuto la sensazione di essere entrato in un flusso palpabile di energia che mi scorreva lungo le braccia e le mani e che sembrava avere una direzione, una forza e una massa.”

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“Ho sentito una forte corrente attraversarmi il corpo.”“È stato come se tutti fossero connessi alla mia pelle.”“Era come se fossi immerso in un campo magnetico solido.”“Non volevo abbandonare l’esperienza, tanto sembrava profonda.”“La sensazione è sparita poco dopo l’esperimento.”Mi chiesi cosa stesse accadendo. Avevo temporaneamente ipno-

tizzato 15.000 persone oppure partecipare a un’esperienza di gruppo le aveva portate in uno stato di coscienza alterato? Ma la cosa più strana era che i partecipanti erano entrati in quello spazio senza sforzo, legati solo al potere di un pensiero collettivo.

La maggior parte delle descrizioni dell’unio mystica racconta di esperienze avvenute individualmente, piuttosto che in gruppo, nel corso di cerimonie sciamaniche o messe carismatiche, ma non sono rare come si pensa. Alla fine della sua vita, lo psicologo Abraham Maslow3 dedicò la propria attenzione a quelle che definì “esperien-ze di picco”, considerandole un elemento comune della condizione umana e non appannaggio esclusivo della mistica. Dissentiva deci-samente dai resoconti storici che definivano queste esperienze ul-traterrene. “È molto probabile, anzi direi quasi certo” scrisse “che questi resoconti antichi, che parlano di rivelazioni sovrannaturali, descrivessero invece un fatto perfettamente naturale.”

Il parapsicologo dottor Charles Tart definiva questo stato “co-scienza cosmica”, termine coniato dallo psichiatra Richard Maurice Bucke. Tart studiò le caratteristiche tipiche di questo stato in molte culture e, come Maslow, scoprì alcuni tratti comuni. Il santo, il pro-feta, il mistico, il canalizzatore, l’indigeno avevano tutti descritto il momento trascendente in modo simile, con determinate caratteri-stiche ben definite.

La maggior parte delle esperienze mistiche comprende una forte componente fisica,4 un “senso di luce interiore”, come lo definisce Bucke. E nel caso dei partecipanti all’Esperimento sulla Pace si era trattato di una sensazione di energia palpabile. Prima che l’esperi-mento cominciasse, anch’io percepii un’energia forte e quasi insop-portabile che emanava dal computer, come un potente campo di

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forza, ma finché non lessi i sondaggi la consideravo solo una mia fantasia. Parecchi raccontarono di sensazioni fisiche molto forti: for-micolii alle mani, mal di testa, pesantezza o dolore agli arti, emozio-ni amplificate, un’energia potente e quasi contagiosa che sembrava emanare dal computer. Lori di Washougal percepì un senso di aper-tura fisica nel petto. Teresa, di Albuquerque, disse che aveva avuto la sensazione di essere parte di un improvviso aumento di energia, “un po’ come immagino sarebbe trovarsi in un raggio traente di ìStar Trekî. Venivo trascinata da questa gigantesca onda di energia e, allo stesso tempo, facevo anche parte della sorgente di quest’onda.”

I partecipanti descrissero inoltre strane visualizzazioni dettaglia-tissime, simili ad allucinazioni, e anche altre sensazioni, come odori:

“Un biancore luminoso che mi scioccò, portandomi alla consape-volezza.” (Susan, Wolfe Island, Ontario, Canada)

“Una visione della rete di luce che circondava la Terra, con un raggio che ne usciva, diretto allo Sri Lanka.” (Elizabeth, Port Town-send, Washington)

“Soldati di entrambi gli schieramenti deponevano le armi in un mucchio, poi li vedevo coltivare i campi in pace.” (Marianne, Bour-nemouth, Gran Bretagna)

“Un grande gruppo di rifugiati che meditava e parlava con i sol-dati.” (Coril, Pomona, California)

“Una chiara immagine di frecce che andavano avanti e indietro nel buio, poi un’enorme cascata di luce indirizzata allo Sri Lanka.” (Kathleen, Sonoita, Arizona)

“Un leggero profumo di acai, caprifoglio o vaniglia. Non ci sono piante aromatiche né nel mio giardino né in quelli dei vicini.” (Lisa, Las Vegas)

La maggior parte dei partecipanti aveva pianto per l’intera durata degli esperimenti e non, come credevo all’inizio, per empatia con gli abitanti dello Sri Lanka, ma per la potenza della connessione. “Il primo giorno cominciai a singhiozzare” scrisse Diana da New Or-leans, “non di tristezza ma perché la sensazione di essere collegata a tante persone era travolgente. Era POTENTE.”

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“Quest’emozione fortissima” disse Verna da Llanon, nel Galles, “veniva dal potere dell’esperimento in sé, nella fase di Potenziamen-to. Non avevo mai provato niente di simile.”

La gran parte dei partecipanti ebbe la sensazione di non avere il controllo né dell’esperienza né del proprio corpo. L’energia, l’inten-zione in sé e la situazione di gruppo si erano impossessate di loro e li dominavano. Non respiravano più da soli. Nell’occhio della mente apparivano immagini che, come spiegarono, non erano state create da loro. Erano entrati in un “intenso stato di alterazione”, “già predi-sposto e pronto al loro ingresso”, “un canale per un potere spirituale più profondo”, secondo Shyama di New York. In effetti c’era quasi la sensazione di non poter tornare indietro, anche se lo si fosse voluto. “Potevi solo seguire il flusso” disse Lisa da Frisco, in Texas.

“Era come se l’energia mi avesse attraversata. Mi riempì tutta e cercò una via d’uscita” scrisse Geertje di Lierop, in Olanda.

“Era come avere il pilota automatico” raccontò Lars di Braed-strup, in Danimarca. “Io conducevo l’esperimento e l’esperimento ‘conduceva’ me.”

Guardando fuori dall’oblò dell’Apollo 14 sulla strada di ritorno verso la Terra, Edgar Mitchell, la sesta persona ad atterrare sulla Luna, sperimentò un’unio mystica.5 Era cominciata con un travolgente senso di connessione, come se tutti i pianeti e tutte le persone mai vissute fossero collegate da una qualche rete invisibile. Aveva avuto la sensa-zione di essere parte di un enorme campo di forza che univa ogni in-dividuo, con i suoi pensieri e desideri, e ogni forma di materia animata e inanimata: tutto ciò che faceva o pensava avrebbe influenzato il resto del cosmo, e qualsiasi evento accaduto nel cosmo avrebbe avuto lo stesso effetto su di lui. Era una sensazione viscerale, come se si stesse estendendo fisicamente verso i confini più remoti dell’Universo.

Secondo Maslow, quando si entra totalmente in un’esperienza di picco con ogni particella del proprio essere, si lascia indietro l’essen-

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za corporea. Edgar Mitchell si era trovato in uno spazio dove non esistevano più il qui e ora e lo stesso era accaduto ai partecipanti all’Esperimento sulla Pace: “Come sempre” scrisse un veterano alla fine dei nostri esperimenti, “il tempo sembra fermarsi.”

Migliaia di partecipanti descrissero una simile sensazione di uni-tà palpabile, in cui tutte le cose sembravano “un tutto infinito”, come scrisse una volta William James.6 Avevano provato un profondo senso di unità gli uni con gli altri e con gli abitanti dello Sri Lanka, una sensazione “così intensa che riuscivo quasi a vederli e certamen-te li percepivo” scrisse Marianne di Bournemouth, Gran Bretagna, mentre Gerda di Antwerp, in Belgio, sentì sgorgare un amore em-patico, “un flusso d’energia dalla Terra e da molto, molto più lonta-no, dall’Universo”. Ramiro, dal Texas, ebbe persino l’impressione di essere trascinato in “un’onda di luce”. Filippa di Mariefred, in Svezia, raccontò di essersi “sentita luce che si univa a migliaia di raggi per diventare una grande entità luminosa”. Eoin, da Dublino, disse che era come essere “parte di una mente di gruppo”. Quasi tutti riferi-rono di essersi sentiti sopraffatti da un’ondata di amore empatico, da un profondissimo senso di unità con gli altri o da un’intensa sensa-zione di connessione con gli abitanti dello Sri Lanka.

Maslow descrive nei dettagli anche un altro fenomeno, un sen-so di conoscenza assoluta, “un’intuizione diretta della natura del-la realtà che è autovalidante”, come la definì William James, come se l’individuo avesse avuto accesso a qualche straordinario segreto dell’Universo che, pur appena intravisto, gli lascia il senso della sua perfezione e una certezza permanente sul futuro. Bucke descrisse la propria esperienza mistica come la sensazione “che l’Universo sia costruito e ordinato in modo che tutte le cose cooperino insieme per il bene di ciascuna e delle altre, che il principio fondante del mondo sia ciò che chiamiamo amore e che la felicità di tutti sul lungo ter-mine sia assolutamente certa”. C’è spesso la percezione di Dio, ma più come Assoluto che non sotto forma del dio antropomorfo di alcune religioni organizzate, e una sensazione soggettiva di immor-talità o eternità.

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In Le varie forme dell ’esperienza religiosa, William James descris-se l’esperienza di un sacerdote, il cui momento mistico fu come un confronto faccia a faccia con Dio:

“La mia anima si spalancò come per congiungersi all’Infinito, e i due mondi, quello interiore e quello esteriore, si fusero insieme. La normale percezione delle cose attorno a me svanì. Per il momento, non restava altro che una gioia e un’esaltazione inspiegabili. È im-possibile descrivere con precisione l’esperienza. Era un effetto simile a quello provocato da una grande orchestra, quando le singole note si fondono in un’unica armonia che cresce, lasciando chi le ascolta consapevole solo dell’elevazione della sua anima e quasi travolto dal-le sue stesse emozioni.”

Per Edgar Mitchell questo momento fu come un’accecante epifa-nia di significato, la sensazione che niente avvenisse a caso e potesse turbare questa perfezione; quest’intelligenza naturale dell’Universo, antica di millenni, che aveva forgiato ogni molecola del suo essere, era responsabile anche del suo viaggio. Tutto era perfetto e, all’inter-no di questa perfezione, anche lui aveva il suo posto. Molti parteci-panti provarono lo stesso senso di perfezione e di unione con tutto l’esistente. Clare di Salt Point, New York, scrisse di aver percepito una specie di “forte connessione all’Universo. Niente conflitti. Nien-te dubbi. Completezza nella quiete.” Era, secondo la testimonianza di Geertje di Lierop, in Olanda, un senso di certezza, il sentirsi “in contatto con tutto e a casa”.

Fondamentalmente, l’esperienza era risultata ineffabile, come se la persona avesse raggiunto una dimensione dell’Universo diversa, che non può essere paragonata a niente di più terrestre. Era uno stato di coscienza così differente da qualsiasi altro avessero provato che non avevano le parole per descriverlo, nemmeno con una metafora. Ana di Cheriton, in Virginia, percepì il forte aumento di un’energia amo-revole, che si verificò all’improvviso la sera dell’esperimento, senza che avesse fatto nulla per provocarlo. La stanza sembrava “caricata” di quest’energia d’amore. Più tardi si chiese se si fosse sentita così solo per aver deciso di prendere parte all’esperimento e quell’energia

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fosse “fornita” dalla partecipazione. “Non era davvero analizzabile.” Hielmie di Lierop, in Olanda, ebbe l’impressione di “diventare sem-pre più grande, così grande da non riuscire a descriverlo”.

Stephen di Northampton, negli Stati Uniti, non percepì solo un fortissimo senso di unità con gli altri partecipanti, ma anche una potente connessione all’obiettivo specifico dell’esperimento, molto più intensa, scrisse, “della sensazione di gratificazione per avere fat-to qualcosa di buono; era quasi come se non fossi solo coinvolto fisicamente nel processo, ma come se mi appartenesse, se io facessi parte di lui e lui di me, una sensazione molto profonda e difficile da descrivere, molto più che essere pienamente coinvolto”.

Nel libro Ecstasy: A Way of Knowing [Estasi: una via alla cono-scenza], il sacerdote sociologo Andrew Greeley cita lo psicologo Arnold Ludwig, il quale definisce le caratteristiche di uno stato di coscienza alterato che, secondo Greeley, sono applicabili all’esta-si mistica: alterazioni nel pensiero; diversa percezione del tempo; perdita di controllo; cambiamenti nell’espressione emotiva; cambia-mento dell’immagine corporea; distorsioni nella percezione, tra cui visualizzazioni e allucinazioni; differente attribuzione di significati e valori, specie per quanto riguarda lo stato mistico stesso, vissuto come un momento di comprensione profonda; senso di ineffabile; impressione di ringiovanimento. La maggior parte dei partecipanti all’Esperimento sulla Pace aveva provato quasi tutti, se non tutti, questi stati. Secondo Greeley, chi accedeva a questa dimensione ave-va davvero la percezione di una realtà più grande.7

L’effetto dell’Esperimento sulla Pace sui partecipanti era dovuto a qualcosa di diverso dal potere della suggestione. Era come entrare in una dimensione diversa.

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Capitolo 9

Cervelli mistici

Durante i seminari che cominciai a tenere regolarmente, chi prendeva parte ai gruppi del Potere dell’8, nel momento di invio del-le intenzioni, viveva uno stato di trascendenza identico a chi aveva partecipato al grande Esperimento sulla Pace: la stessa straordinaria connessione fisica, la sensazione di percepire l’essenza della perso-na a cui mandavamo energia di guarigione, gli stessi effetti fisici su chi la riceveva (“formicolio alle mani e ai piedi e calore in tutto il corpo”), le stesse emozioni travolgenti in chi inviava l’intenzione, che percepiva “chiaramente, in modo tangibile, la bellissima, pura energia di dono che veniva dall’intero gruppo”, la stessa impressione di essere più grandi del proprio corpo, gli stessi effetti sul lungo ter-mine (“dopo continuai a provare quelle sensazioni fisiche ed emotive per parecchie ore”), la stessa potente sensazione di “tornare a casa”.

I partecipanti raccontavano del calore insopportabile e del senso di energia, dicevano di aver raggiunto uno stato di meditazione più profondo di quanto avessero mai fatto e di aver provato un senso di connessione con gli altri membri del gruppo più intenso che mai.

Stavano cominciando ad agire “come una mente sola”. Durante l’invio dei pensieri di guarigione, immaginavano che il destinatario stesse bene e in salute sotto ogni aspetto, e molti raccontavano di aver visto le stesse immagini degli altri, o comunque qualcosa di no-tevolmente simile. Durante un corso in Olanda, un gruppo mandò

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l’intenzione che i problemi di schiena di una donna di nome Jan si risolvessero. Quasi tutti i membri videro la stessa immagine molto dettagliata, in cui la spina dorsale di Jan si staccava, si sollevava dal corpo e si riempiva di luce.

Di recente, in un seminario in Kuwait, inviando intenzioni a uno del gruppo con asma e febbre da fieno, tre persone videro un’imma-gine identica del ricevente che camminava liberamente in un parco senza essere infastidito dal polline. E in Brasile, Fernanda, che ave-va fatto parte di un gruppo che inviava pensieri a una persona con dolore all’anca sinistra, nella fase dell’intenzione sentì un intenso prurito nello stesso punto del proprio fianco e, nel bel mezzo della notte, si svegliò con un fastidio in quell’area. Il giorno seguente il fastidio era svanito. Più tardi, in mattinata, scoprì che chi aveva ri-cevuto l’intenzione si era svegliato nel medesimo istante e il giorno successivo anche il suo dolore se n’era andato.

Quindi forse gli strani effetti fisici e mentali provati dai mem-bri degli Esperimenti sull’Intenzione e dai gruppi del Potere dell’8 erano causati da uno stato mistico. Per un po’ pensai che i miei par-tecipanti descrivessero semplicemente uno stato di coerenza del cervello raggiunto tramite una profonda meditazione di gruppo, ma abbandonai quasi subito l’idea. Nel caso dell’Esperimento sulla Pace, nessuno condivideva lo stesso spazio. Ognuno delle migliaia di partecipanti era seduto di fronte al proprio computer e quasi tutti erano soli, connessi gli uni agli altri solo dal sito internet.

Avevo il “chi”, il “cosa”, il “quando” e il “dove”, gli elementi es-senziali e basilari nella lista del buon reporter, ma non il “perché” e il “come” i partecipanti entravano in uno stato di coscienza così profondo. Ero consumata dal bisogno di trovare una qualche spie-gazione scientifica. Studi effettuati durante gli stati mistici indicano che il cervello subisce una trasformazione straordinaria.

Eugene d’Aquili dell’Università della Pennsylvania e il suo colle-ga Andrew Newberg, un docente del programma di medicina nucle-are dell’ospedale universitario, hanno dedicato l’intera carriera allo studio della neurobiologia dell’Istante sacro. Come scrive Newberg:

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“Sappiamo che pratiche di meditazione dolci, come la Mindfulness, portano a un miglioramento dell’umore, a un aumento dell’empa-tia e della consapevolezza di sé. Ma l’Illuminazione è un’altra cosa, contraddistinta da un improvviso e intenso cambiamento dello stato di coscienza.”1 D’Aquili e Newberg condussero uno studio di due anni esaminando le onde sonore di monaci tibetani e suore fran-cescane in preghiera con la SPECT, o tomografia a emissione di fotone singolo (Single-Photon Emission Computed Tomography), uno strumento diagnostico per immagini ad alta tecnologia che indivi-dua i movimenti del flusso sanguigno nel cervello. Newberg scoprì che le sensazioni di calma, unità e trascendenza,2 come quelle che si provano durante le esperienze di picco, determinano un improvviso e marcato rallentamento dell’attività dei lobi frontali, corrispondenti alla parte dietro la fronte, e di quelli parietali, posti nell’area poste-riore e alla sommità della testa.

Lo scopo del lobo parietale è orientarci nello spazio fisico, facen-doci capire dove sono l’alto e il basso oppure offrendoci un’idea della larghezza di un passaggio, in modo da riuscire ad attraversarlo. Que-sta parte del cervello è deputata anche a una funzione fondamentale, forse la più importante: ti consente di capire dove finisci tu e dove inizia il resto dell’Universo, grazie agli stimoli neurali costanti che riceve dai vari sensi del corpo, che consentono di distinguere il “sé” dal “non sé”. In tutti gli esperimenti sull’esperienza di picco, New-berg e d’Aquili scoprirono che l’interruttore del “tu/non tu” si abbas-sava repentinamente. “Nel momento in cui i partecipanti provavano una sensazione di unità o di perdita di se stessi” scrive Newberg “re-gistravamo un repentino calo nell’attività del lobo parietale.” Stando ai loro cervelli, i monaci buddisti e le suore francescane avevano dif-ficoltà a individuare il confine tra se stessi e il resto del mondo. “La persona” annotò più tardi Newberg “ha letteralmente la sensazione che il proprio sé si stia dissolvendo.”

Fondamentalmente, i monaci in meditazione e le suore in pre-ghiera sperimentavano un “arresto totale” degli stimoli neurali nei lobi parietali – tanto di destra quanto di sinistra – che induceva in

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loro la sensazione di una mancanza di confini spazio-temporali, una “percezione di spazio infinito e di eternità”, associata alla mancanza di limiti, anche in se stessi. “In effetti” annota Newberg “sparisce del tutto il senso della propria individualità.”

A un’improvvisa riduzione dell’attività dei lobi frontali corri-sponde un pari arresto della logica e della ragione, scrive Newberg. “In genere, i lobi frontali e parietali sono impegnati in un dialogo costante”, ma se l’attività di una delle due aree cambia radicalmente, “il normale stato di coscienza subisce una profonda alterazione”.

Newberg scoprì che nella meditazione attiva, in cui l’obiettivo è un’intensa concentrazione su determinati pensieri o su un partico-lare oggetto, il confine tra il sé e il resto del mondo sfuma, mentre diventa in un certo senso preponderante l’area dell’attenzione. An-che a chi prendeva parte agli Esperimenti sull’Intenzione globali e ai gruppi del Potere dell’8 veniva chiesto di concentrarsi intensamente su un oggetto particolare, ed era possibile che, in qualche modo, l’oggetto assorbisse completamente le menti dei partecipanti.

Il lobo parietale sinistro è soggetto a una diminuzione degli sti-moli neurali, che determina nella persona una minore percezione di sé, mentre il lobo parietale destro, a cui viene dato il comando di concentrarsi più intensamente sull’oggetto dell’attenzione, non rice-ve nessuno stimolo diverso dall’obiettivo.

Il cervello, allora, scrive Newberg, non può far altro che creare una realtà spaziale servendosi dell’oggetto della contemplazione – il de-siderio di portare pace, nel nostro caso – allargandola fino a che “la mente la percepisce come l’unica profondità e ampiezza della realtà” e la persona si sente completamente assorbita in un legame trascenden-tale con l’oggetto dei suoi pensieri. Molti partecipanti avevano infatti raccontato di un senso di unione mistica con lo Sri Lanka.

Newberg dichiara subito che quest’attività cerebrale è il riflesso di un particolare stato di coscienza, e ne costituisce la caratteristica distintiva, non la causa. Lo scienziato prende così le distanze dai materialisti puri, secondo i quali questi stati sono completamente indotti dal cervello, e sottolinea che la sua ricerca “sostiene la possi-

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bilità che esista una mente senza l’ego, una consapevolezza senza il singolo” e che il suo lavoro fornisce un semplice “supporto razionale” a questi concetti spirituali e alla mistica.

Il lavoro di Newberg fu ampliato dalle ricerche di Mario Beau-regard, un neuroscienziato del Dipartimento di Psicologia dell’Uni-versità dell’Arizona, che utilizzò una macchina per la risonanza ma-gnetica funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance Imaging) per analizzare l’attività cerebrale di un gruppo di suore carmelitane durante intense esperienze spirituali. I risultati degli esperimenti dimostrarono chiaramente che in quei momenti si attivavano re-gioni diverse del cervello, legate alle emozioni, alla rappresentazione del corpo nello spazio, alla coscienza di sé, all’immaginario visuale e motorio e persino alla percezione spirituale, generando stati com-pletamente diversi da quelli della normale veglia. C’erano forti in-dizi a sostegno del fatto che, come mi spiegò Mario, nell’esperienza mistica le persone uscissero letteralmente dalla propria mente per entrare in uno stato di coscienza alterato.

Era possibile che l’ingresso in questo stato fosse favorito dalla musica che facevo ascoltare in tutti i lavori di gruppo e gli esperi-menti? Alcuni studi indicano che ritmi simili a quelli della musica reiki che trasmettevamo possono indurre un’esperienza mistica, alte-rando la normale attività dei lobi temporali.3 Nei miei esperimenti, però, una buona percentuale dei partecipanti non era riuscita a se-guire tutte le fasi dell’esperimento: si erano persi il Potenziamento iniziale, non erano riusciti a sentire la musica o ad accedere a certe pagine del sito. Ma non sembrava che queste circostanze avessero influito in qualche modo sull’esperienza. Significava che l’elemento essenziale, ciò che aveva attivato il meccanismo, era il far parte di un gruppo creato allo scopo di pregare all’unisono.

Perché il pensiero collettivo permetteva di accedere a uno stato di tra-sformazione così estremo?

La meditazione e la preghiera di gruppo certamente fanno nasce-re tra i praticanti un senso di unità, ma non con l’intensità vissuta da chi aveva preso parte all’Esperimento sulla Pace. Cercai di pensare

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ad altre esperienze che potessero indurre un’alterazione profonda analoga, in particolare a quelle in cui le onde cerebrali dei parteci-panti erano state studiate.

Una situazione paragonabile è quella della Chiesa pentecostale, in cui chi partecipa alle funzioni finisce per essere così coinvolto da parlare in lingue diverse. Il movimento pentecostale, nato agli inizi del Novecento e poi ampliatosi con il movimento carismatico, co-stituisce oggi un quarto dell’intero mondo cristiano. I membri della Chiesa pentecostale credono che, parlando in diverse “lingue”, ot-terranno i doni dello Spirito Santo e saranno in grado di guarire gli altri e di fare profezie sul futuro. I membri della Chiesa, parlando di quest’esperienza,4 sostengono che le parole escono attraverso di loro, ma non sono loro a generarle in prima persona. Questo stato è soli-tamente indotto dalla musica e dal canto in un contesto di gruppo, all’interno di una congrega. Per combinazione, Andrew Newberg studiò il cervello di un piccolo gruppo di membri di una Chiesa pentecostale prima e dopo che avevano ricevuto il “dono delle lin-gue”, per capire se la loro configurazione cerebrale fosse simile a quella dei monaci e delle suore durante l’esperienza trascendentale.

Come nei precedenti studi, Newberg scoprì un improvviso calo dell’attività del lobo frontale ma non in quella del lobo parietale, e in effetti i pentecostali descrissero la loro esperienza come una conver-sazione con Dio, in cui non perdevano il senso di sé e continuavano a percepire Dio come qualcosa di distinto.

Newberg utilizzò anche le macchine SPECT e fMRI per stu-diare le onde cerebrali dei medium e dei maestri sufi mentre esegui-vano la Dhikr, una meditazione cantata e in movimento, rilevando una configurazione identica a quella dei monaci e delle suore: una sospensione dell’attività del lobo frontale e parietale, soprattutto sul lato destro del cervello. Stando a Newberg, questo stato consentiva di accedere più facilmente all’immaginazione creativa e a un senso di unità. Inoltre, più si riduceva l’attività del lobo parietale e frontale, più era probabile che i partecipanti vivessero tutte le fasi dell’illumi-nazione. I cambiamenti più profondi si verificavano nei lobi frontali

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di destra, area del cervello associata al pensiero negativo e alle preoc-cupazioni, cosa che potrebbe spiegare perché chi si trova in uno sta-to di illuminazione spesso descrive sensazioni di gioia e benessere.

Oltre alla sensazione di unità, i miei partecipanti avevano anche la forte percezione di aver preso parte a un’attività profonda e signi-ficativa. “Sentivo che era importante fare qualcosa di simile” scrisse Monica di Città del Messico. Alla fine dell’esperimento, erano pieni di speranza, percepivano un senso di “solidarietà umana”, una fine al loro senso di isolamento, sperimentavano “una connessione, una collocazione e uno scopo profondi”, sentivano di far parte di “un grande progetto globale”, di un “impegno” che dovevano prende-re “molto seriamente”, con un “intenso coinvolgimento”. “Sentivo che c’era qualcosa di più grande della mia piccola vita” mi raccontò Barbu da Greenwich, nel Connecticut. “Sentivo l’obbligo di farlo” scrisse Lynne, un medico di Seattle.

Nel suo libro Mysticism [Misticismo], Evelyn Underhill scrive che il misticismo:

“Non è individualistico. Implica, infatti, l’abolizione dell’indivi-dualità, della separazione, di quell’‘Io, me, mio’ che rende l’uomo un soggetto isolato. Nella sua essenza, è un movimento del cuore che cerca di trascendere i limiti della visione individuale per arrendersi alla Realtà ultima: non per un guadagno personale, non per soddi-sfare una curiosità sul trascendente, non per ottenere gioie ultrater-rene, ma solo per seguire un istinto di puro amore.”5

Forse l’opportunità di stabilire un contatto profondo con persone estranee in quella che è fondamentalmente la preghiera moderna crea un profondo senso di completezza nel singolo ed è ciò che in-tendeva Gesù con l’idea di pregare homothumadon. Ci distacchiamo dal nostro stato di individualità per stabilire un legame puro con altri esseri umani: stato familiare quando lo si prova, ma raro nell’epoca moderna. Da un punto di vista neurologico, scrive Newberg, “quan-do l’attività del lobo frontale si riduce all’improvviso e in maniera significativa, logica e ragione si spengono. La percezione ordinaria è sospesa, cosa che permette agli altri centri del cervello di percepire

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il mondo in modi intuitivi e creativi”. “Una diminuzione dell’attività del lobo parietale” aggiunge “consente anche alla persona di provare un’intensa consapevolezza di unità.”

Anche se i risultati dell’Esperimento sulla Pace ci avevano dato molto su cui riflettere, alla fine, a meno di condurre altri studi, cosa che avevo in mente di fare una volta che fosse trascorso un po’ di tempo e avessi potuto raccogliere altre risorse, non erano significa-tivi. Come iniziai a capire, però, la riuscita o meno dell’esperimento mi sembrava sempre meno importante. Forse il successo del test non aveva niente a che fare con l’esito effettivo.

Inviare intenzioni nella veste di gruppo creava quella che poteva essere descritta solo come un’estasi di unità, una sensazione palpabile di essere una cosa sola. Sembrava che attraverso di noi operasse un po-tere cosmico che induceva una sensazione più volte descritta una sorta di ìritorno a casaî. Le risposte dei partecipanti indicavano che l’invio collettivo di pensieri elimina la separazione tra individui, permettendo di entrare in uno stato di “consapevolezza divina”, di pura connes-sione. Molti uscirono profondamente trasformati da quest’esperienza, che rappresentò per loro la possibilità di accedere a una realtà di cui avevano sempre ignorato l’esistenza.

Potevo accettare che le persone fossero toccate, persino cambiate dall’esperimento e che si sentissero collegate agli altri e all’obiettivo, ma poi cominciai a leggere risposte come queste:

“Ho sperimentato guarigioni molto specifiche tutti i giorni.”“Ultimamente mi sono sentito radicato e anche equilibrato. Più

produttivo e deciso.”Non avevo mai pensato che l’esperienza potesse avere effetti resi-

dui. I questionari compilati dai partecipanti sembravano il vero ful-cro della questione e ribaltavano molte certezze della New Age sul potere dell’intenzione, che si basavano sulla concentrazione esclusi-va sull’oggetto del proprio desiderio.

La questione fondamentale non aveva niente a che fare con l’esito dell’esperimento, ma era legata all’atto stesso della partecipazione. Forse pregare insieme come gruppo permette di intravedere il co-

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smo nella sua interezza, esperienza in assoluto più vicina al miraco-lo. E magari questo stato, come la fase di pre-morte, ti cambia per sempre.

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