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Questa fu l’origine della birra. Da allora essa fece ridere le ragazze, diede il buon umore agli uomini, l’allegria ai saggi e per i matti fu fonte di mille follie(Kalevala)

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“Questa fu l’origine della birra. Da allora essa fece ridere le ragazze,

diede il buon umore agli uomini, l’allegria ai saggi

e per i matti fu fonte di mille follie” (Kalevala)

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Antonino Pavone

LA BIRRAStoria, leggenda e tecnologia

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Un esordio spumeggiante

“Osmotar prese sei chicchi d’orzo, sette bacche di luppolo e otto boccali d’acqua, mise la caldaia sul fuoco e la fece bolli-re per una lunga giornata d’estate, poi la versò in un recipiente nuovo di betulla. Si mise a rimescolare la birra, ma quella non faceva la schiuma. Osmotar si rivolse a Kalevatar per aiuto e Kalevatar inviò un’ape laboriosa in un’isola lontana dove una fanciulla dormiva sotto un albero ricco di pomi e l’ape ritornò col miele, Osmotar lo mescolò alla birra e questa fece la schiu-ma, tanto abbondante che il liquido crebbe di volume e si sparse sul pavimento. Osmotar si disperava, pensando che la birra non fosse riuscita bene, perché continuava a traboccare sul pavimen-to. Ma il pettirosso da un albero e la ghiandaia dal tetto le dissero che la birra andava benissimo, soltanto era necessario tenerla in cantina, chiusa in un barile di quercia. E così Osmotar fece”.

Questa è l’origine della bionda bevanda secondo il Kalevala, poema epico finlandese dal quale la favola è tratta e che con-clude: “Da allora la birra fece ridere le ragazze, diede il buon umore agli uomini, l’allegria ai saggi e per i matti fu fonte di mille follie”.

Fin qui la leggenda. La Storia, ovviamente, racconta le cose in maniera differente.

E ci narra di una vicenda antica quanto l’uomo, che si perde forse nella notte dei tempi, ma che diventa rintracciabile, a non voler andare più indietro, da almeno dodici millenni in qua. Ov-vero al periodo a cui risalgono alcune granaglie ritrovate dagli archeologi nelle rovine dei più antichi agglomerati urbani (ad esempio, in Palestina).

Secondo molti studiosi, l’orzo fu il primo cereale ad esser coltivato. Dall’orzo alla birra il passo è breve a livello concet-

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tuale, ma sicuramente abbisognò di un certo sforzo da parte dall’uomo ed ancor più, probabilmente, dell’aiuto provvidenzia-le del Caso.

È verosimile che la faccenda sia andata così. Quando il no-stro avo troglodita diventò agricoltore ed imparò a maneggiare coscientemente le tecniche di coltivazione, si pose il problema della conservazione del raccolto e dell’immagazzinamento delle eccedenze per le inevitabili annate di magra.

Per evitare che il prodotto deperisse prima dell’impiego e per sottrarlo all’attacco di roditori ed altri animaletti dannosi, ad un certo punto decise di tenerlo immerso in acqua.

I cereali ammollati, si sa, fermentano. Qualcuno assaggiò l’acqua di governo così alterata, dovette trovarla di suo gusto e, sentendosene rinvigorito nel corpo ed allietato nell’animo, la introdusse nella propria comunità. Successivi miglioramenti (come la bollitura), affinamenti (come il filtraggio) e perfezio-namenti (come l’aromatizzazione) consentirono di codificare in breve un vero e proprio ciclo produttivo, seppur elementare.

Stabilire dove ciò sia avvenuto la prima volta, è impresa de-stinata al fallimento. La fermentazione è una reazione spontanea naturale e i suoi effetti (meno, le cause) sono d’immediata per-cezione. E di bevande alcoliche ne esistono e ne sono sempre esistite in ogni angolo del mondo. Logico pensare, quindi, che qualcosa di simile al vino di cereali sia stato prodotto più o meno contemporaneamente presso popoli e culture differenti.

Certo è che i primi luoghi in cui si abbia notizia sicura e documentata dell’abitudine di produrre e consumare birra in ma-niera consapevole e continuativa siano l’Egitto e soprattutto la Mesopotamia. È da qui che cominceremo il nostro viaggio.

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La culla mediorientale

Il primo popolo birrofilo della storia è dunque quello dei Su-meri, che abitò la Mesopotamia quattro-cinque millenni prima di Cristo. Una tavoletta assira cita esplicitamente la birra ed il mestiere del birraio. Un’altra, coeva, ricorda donazioni votive di birra e bestiame. Nella terra “in mezzo ai fiumi”, in realtà, di schiumosa bevanda ne scorse parecchia fin dall’inizio, tanto da farci sospettare che, insieme al Tigri ed all’Eufrate, in Caldea ci fosse un terzo fiume: di birra.

Al mercato di Babilonia, la capitale più famosa di quell’an-golo di mondo, già si smerciavano birre rosse, chiare e scure, forti, blande, d’orzo (sikaru) e d’altri cereali (come la kurunnu a base di spelta o farro). Aromatizzate, come la niud allo zuc-chero di datteri, e persino miscelate fra loro. In tutto oltre venti tipi, con quattro però a spadroneggiare. Ne conosciamo persino i nomi: bi-se-bar, una birra d’orzo dozzinale, bi-gig, scura di scarso pregio, bi-gig-dug-ga, scura di qualità superiore, e bi-kal, la migliore.

Un celebre brano della letteratura sumerica riporta la tenzone tra l’agricoltore Dumuzi e un pastore per ottenere la mano del-la bella Innin: il primo offre “birra di prima qualità” e “birra dolce” contro latte giallo e latte cagliato del rivale. La spunterà.

La birra ebbe un rilievo sociale assoluto presso i Sumeri ed i loro successori (Assiri, Accadi, Hurriti). Ad ogni individuo della comunità ne spettava, in base al censo, una certa quantità e di una certo valore: era insomma uno status symbol. La commer-cializzazione della bevanda era strettamente controllata dallo stato, che ne certificava la qualità apponendo contrassegni, con i sigilli reali ed i simboli dell’orzo, sulle anfore destinate alla conservazione dei cereali e del prodotto finito.

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L’ingerenza dell’autorità centrale aveva una duplice finalità. La prima era di tipo fiscale e mirava a riempire le casse del prin-cipe tramite il gettito d’un’imposta. La seconda, di gran lunga più importante, era di politica sociale e di razionalizzazione del-le risorse: i cereali servivano primariamente per ricavarne pane e farinacei e, ad ogni raccolto, solo una volta che fosse stata pienamente soddisfatta questa esigenza si poteva stabilire se e quanto, dei cereali residui, si potesse destinare a una produzione comunque voluttuaria come la birra. In un’epoca flagellata da continue carestie era impensabile abbandonare il mercato a se stesso.

La vendita al pubblico avveniva in apposite taverne, gestite dalle donne. Le leggi imponevano criteri e controlli assai rigidi ed il celebre codice di Hammurabi (1792-50 a. C.) prescriveva pene severissime per gli esercenti non autorizzati e la morte per i sofisticatori, mediante annegamento nello stesso liquido da essi adulterato.

La produzione era anch’essa regolamentata dai dettami del “Mosè babilonese”, si svolgeva nelle cantine regie e vi presiede-va una sorta di funzionario, il mastro birraio (gal-bi-sag). Questi selezionava i cereali migliori, li inumidiva facendoli germinare, li metteva ad asciugare al sole e quando erano secchi li faceva macinare ed impastare ottenendo dei panetti. Appena questi era-no lievitati spontaneamente, li infornava ad alta temperatura, di modo che presentassero una crosta superficiale dura e un inter-no molliccio e semicrudo. Quindi li sbriciolava e li cuoceva in abbondante acqua dentro calderoni di coccio, filtrava il liquido ottenuto, lo aromatizzava (con salvia, rosmarino, cannella ed al-tro), lo metteva nelle giare ed apponeva i sigilli di garanzia. Il “pane liquido” era già bell’e pronto.

È sorprendente come le fasi della produzione di tanti millen-

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ni fa (maltizzazione, macinatura, lievitazione, cottura, filtraggio ed aromatizzazione) siano sostanzialmente identiche a quelle attuali.

Con la birra si onoravano le divinità, come Ishtar, vergine libidinosa che si diceva traesse la sua potenza dalla mistica be-vanda, e come Marduk, nume irascibile da ammansire a forza di libagioni votive. Se ne dispensava larghissimamente nelle cele-brazioni, religiose e laiche, e durante le processioni. In occasioni come queste, era prevista la distribuzione a fedeli e sudditi, gra-tuita e senza badare al risparmio.

I matrimoni reali e le nuove in-coronazioni venivano inaugurate tra oceani di spuma e generose donazio-ni, ai templi, d’anfore d’orzo e giare birrarie. La solita provvidenziale tavo-letta d’argilla c’informa che “la birra scorreva a fiumi”, alla mensa dell’as-siro Assurbanipal, citato da Erodoto e ricordato col nome di Sardanapalo come uno dei massimi gaudenti della storia, tanto che, quando Alessandro Magno volle fermarsi sulla sua tomba a rendergli onore, rimase impressiona-to dall’epigrafe ivi incisa: “Qui giace Sardanapalo, che non rifiutò mai nulla ai suoi sensi, visse molto in breve tem-po. O passeggero, bevi, mangia, godi in tutti i modi, perché il resto è nulla”.

L’abluzione lustrale con birra era un rito sacro e augurale ricorrente, una specie di battesimo pagano con lo

Sardanapalo, stele, VII sec. A. C.

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scopo di trasmettere al neonato vigoria e capacità fecondatrice. Anche durante i funerali, ovvero all’estremità opposta dell’esi-stenza terrena, si consumava birra in onore del defunto, in una liturgia consolatoria più che propiziatoria (considerata l’atmo-sfera tutt’altro che idilliaca dell’Aldilà mesopotamico).

Aldilà nel quale compì un periglioso viaggio Gilgamesh, l’Ercole sumerico protagonista dell’omonima Epopea, cui la birra donò forza, saggezza e persino chiaroveggenza:

“Egli bevve della se-bar-bi-sag,la bevve sette voltee il suo animo si sciolse.Parlò con voce forte,il suo corpo s’empì di benesseree il suo viso s’illuminò “Dalla Mesopotamia il culto della birra si irradiò in tutto il

Medioriente. Ne furono influenzati anche gli Ebrei, il cui patriarca Abra-

mo peraltro, secondo la tradizione, era originario del centro su-merico di Ur. I sacri testi citano spesso una “bevanda inebriante diversa dal vino” (Profeti, Isaia ecc) e nessuno dubita, sensa-tamente, che si tratti della birra. Il “popolo eletto” ne consuma abitualmente nelle allegre celebrazioni del Purim (a febbraio-marzo, in coincidenza col carnevale ebraico) e, per sette giorni insieme a pane non lievitato, nella festa degli Azzimi, come rito commemorativo dell’esodo dall’Egitto.

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Viaggio in Nordeuropa

Le vie del commercio mondiale – soprattutto quelle dello stagno e delle pelli – avevano portato la birra mediterranea a conoscenza delle genti nordeuropee (Galli, Celti, Germani e Scandinavi) già da epoche precedenti alla dominazione romana. La facilità di coltivazione dell’orzo, dell’avena e della segale – resistenti al freddo delle brumose lande nordiche, dove la vite non fruttificava proficuamente – fece sì che l’innamoramento diventasse rovente passione.

Tra quei popoli infanti e bellicosi, la birra era la bevanda del guerriero. Quella che l’inebriava, lo preparava alla battaglia, gli faceva scordare la paura negli assalti e, dopo la pugna, gli rega-lava la gioia e l’oblio. “Madre, portami le mie armi: voglio bere, voglio ubriacarmi con la birra dei combattimenti” reclamava l’eroe finnico Lemminkäinen.

Era anche un simbolo di sovranità, onnipresente: in terra, nelle cerimonie d’incoronazione e, in cielo, nei banchetti degli Asi del Walhalla, Odino in testa, ai quali erano ammessi solo i valorosi caduti armi in pugno. Lo stesso terribile dio del mare Agir era soprannominato rispettosamente dai pirati normanni “il birraio delle onde”.

Quando moriva un capotribù vikingo, un terzo del suo pa-trimonio veniva destinato all’acquisto di birra per il funerale. Le pubbliche esequie erano certo frequentatissime, e non solo perché si beveva gratis. Un cronista arabo del X sec, Ibn Fa-dlan, racconterà dei Vareghi (o Variaghi, Vikinghi di Russia e mercenari a Bisanzio): “Sono così fanatici della birra, da berne giorno e notte. Accade spesso che più d’uno spiri con la coppa in mano”.

La bevanda veniva solitamente offerta agli ospiti in segno

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di amicizia e pace. “Sereni mangiavano i nostri antenati, sereni porgevano al vicino nei gotti, boccali argentati, spumosa birra e dolce vino” (Puškin, Romanzi).

Ammoniva il Kalevala: “Non dobbiamo bere inutilmente la birra: da essa devono nascere dei canti”. La birra quindi non soltanto stimolava, ma addirittura reclamava il bel canto, come s’affrettava a spiegare il poema finnico: “La birra cominciò ad agitarsi nel suo tino in cantina e diceva: «Ora dovrebbe venire qualcuno a bermi, qualcuno ad intonare le mie lodi!»”. Questo “qualcuno” era il runoia, una sorta di aedo lappone, professio-nalmente vocato ad assolvere al secondo compito. Egli promet-teva agli astanti, prima di mettersi all’opera: ”scioglierò il sacco pieno di canti e canterò fino all’aurora per rallegrare la sera, per celebrare lo splendore del giorno e per incantare l’alba, dopo aver mangiato il pane di segale e bevuto la birra d’orzo ”.

I druidi, sacerdoti celtici, preparavano una misteriosa po-zione dai magici poteri mescolando birra con idromele ed aro-matizzandola con erbe ed ingredienti vari, dei quali si cono-scono il finocchio, l’anice e l’assenzio “padre della pazzia”. Una mistura che assicurava chiaroveggenza, forza e coraggio e che ci piace immagina-re sul tipo di quelle rea-lizzate da Panoramix per Obelix, il monumentale compagno d’Asterix, nei fumetti creati da Goscin-ny ed Uderzo.

Per gli Irlandesi, l’in-ventore mitico della birra fu il dio fabbro Goibniu, uno dei tre re-profeti

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dell’isola all’alba dei tempi. Il segreto del processo di fabbri-cazione fu mantenuto a lungo dai Fomori, una strana razza di uomini-uccello abitatori delle foreste, sconfitti poi da un re ar-tista che seppe sottrarglielo. La potenza fomoriana era già un ricordo quando in quelle verdi lande capitò Cessair, nipote di Noè. Narrano le saghe che ella avesse lasciato l’Arca durante il Diluvio (oppure non vi fosse neppure entrata perché ritenuta indegna) e su di una barchetta se ne fosse andata a navigare per conto suo, approdando infine in Irlanda. Cessair aveva portato con sè una buona riserva di birra, ma grande fu la sua sorpresa quando dovette constatare che in quel posto essa era conosciuta, apprezzata ed onorata da millenni! Il sugo della favola, conside-rato che Noè è ritenuto l’inventore mitico del vino, è quello di sottolineare una (presunta) priorità cronologica del fermentato d’orzo su quello d’uva.

I Gallesi la pensavano in maniera diversa sull’origine della bevanda o almeno sul suo affinamento. Secondo loro, a concepi-re la birra di malto, sia pur casualmente, fu un principe di nome Ceraint. Mentre stava bollendo in un calderone mosto di cereali, miele e fiori, irruppe nella radura un cinghiale furioso e schiu-mante rabbia, il quale s’avvicinò alla pignatta e vi fece cadere dentro alcune gocce di saliva. Il liquido prese a fermentare e divenne alcolico. Ceraint lo bevve, se ne inebriò e si sentì forte ed invincibile: i suoi sudditi lo derisero, lo chiamarono da quel momento l’Ubriacone, ma s’affrettarono ad imitarlo riproducen-do la nuova mistura.

Il cinghiale era l’animale sacro a Lugh, un dio saggio e co-raggioso venerato non solo in Britannia bensì nelle Gallie (città, tra cui Lione, gli furono dedicate ovunque), e la bevanda dalla bava della fiera valorizzata, divenne la bevanda dell’immortali-tà. A ricordo dell’evento, durante la festa di Samain del primo

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novembre, data del Capodanno celtico, ci si ingozzava, in un chiaro rito teofagico, di carne di suino castrato, cui si attribui-vano capacità toniche, e si tracannava oscenamente birra a più non posso.

Il senso della misura era infatti sconosciuto ai barbari d’Eu-ropa e Catone, Tacito e Plinio non mancarono di sottolinearlo, storcendo il naso con disprezzo, ma dimenticando volutamente, forse per amor di patria, che quanto a malcostume alimentare e mancanza di galateo – basti pensare alla pratica del vomitorium – nessuno era secondo ai loro civilissimi concittadini romani!

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L’antagonismo britannico

L’Inglese è legato alla “sua” birra da un affetto, diremmo quasi, coniugale. Non rinuncerebbe mai, in ogni angolo del mondo, a questo “inestimabile tesoro del palato” (Poe).

Persino il naufrago più famoso della letteratura mondiale pensa di prodursi da solo, nella sperduta isoletta in cui vivrà quasi trent’anni, qualche pinta di Ale, trasformando in malto il poco orzo in suo possesso. Se rinuncia non è perché, racconta Robinson Crusoe, “mi mancavano numerosi ingredienti inso-stituibili che non avevo alcun modo di procurarmi: i barili per conservarla… il luppolo e il lievito perché fermentasse… oltre a recipienti e caldari di rame per farla bollire”, no, non è per questo. È semmai per la paura di distrarsi, cadendo in mano ai cannibali mentre è intento a prepararla con tutta l’attenzione che merita.

L’esploratore James Cook (1728-79), durante il lungo viag-gio nei mari del Sud, avendo esaurito le riserve, si industria a fabbricarsi a bordo una birra d’abete rosso, che tuttavia, a di-spetto di quanto i più ritengano, non doveva essere una bevanda del tutto di fortuna (intendo, dettata dalla disperazione), se la scrittrice Jane Austen la cita in Emma più volte come argomento di discussione tra alcuni personaggi.

La britannica birromania stimolò, tra le tante, anche l’ironia della rivista letteraria italiana ottocentesca Il Conciliatore. In un articolo intitolato Il termometro della miseria nei vari paesi del mondo, l’autore suggerisce ironicamente un metodo sicuro per capire in che città si trovi ad un ipotetico viaggiatore tanto sven-tato da essersi smarrito in giro per l’Europa: se un mendicante gli chiede un soldo per comprarsi una scodella di polenta, è a Milano; se per comprarsi una crosta di pane bianco, è a Parigi;

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ma se per pagarsi un boccale di birra, allora, “allora può star certo d’essere capitato a Londra” !

Ma facciamo un passo indietro e torniamo al medioevo. L’evangelizzazione delle isole britanniche e l’abbandono

del paganesimo fu privo di conseguenze significative in campo birrario. L’Irlanda diventò cattolicissima, prese ad apprezzare il vino (soprattutto per esigenze liturgiche), ma quanto a ripudiare le tradizioni celtiche della bevanda sacra dei druidi, neanche a parlarne.

Idem per l’Inghilterra, dove i sovrani sassoni provenienti dal Continente avevano introdotto, già prima dell’anno Mille, il ri-tuale germanico della solenne sbronza collettiva. Evocavano i morti in battaglia, uno per uno, e ad ogni nome seguiva un’alzata di calice commemorativa. Quindi passavano ai brindisi d’omag-gio per i guerrieri più valorosi. Poi brindavano ai cavalli più ardi-mentosi e così, di giro in giro, senza sosta finchè tutti crollavano ubriachi. Avrebbero brindato persino ai codardi ed agli eroi nemi-ci, pur di prolungare la bevuta: ogni scusa era buona per trincare!

Quando agli Anglosassoni successero i Normanni, la musica non cambiò. Essendo i nuovi venuti eredi degli Scandinavi, dei quali uno scandalizzato autore mediterraneo scrisse:

“Fanno pazzi beveroni, i Norvegi ed i Lapponi”.

Il consumo di birra fu tuttavia a lungo fortemente classi-sta nell’Arcipelago. Nobili ed ecclesiastici si accaparravano i prodotti migliori (come quelli del Wessex o di Glasgow) che dividevano col popolo minuto soltanto nelle grandi celebrazio-ni, lasciandogli per il resto del tempo una birra ottenuta dalle trebbie, leggera, insipida, facile all’inacidimento. Più tardi, con il decollo dei commerci, “i più agiati borghesi criticavano da

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esperti la quantità di malto contenuto nella birra e l’abilità del birraio” (Scott, Ivanohe).

Nelle città e nei villaggi albionici presero a proliferare le ri-vendite pubbliche, antenate dei moderni pub (da public house). Nel Trecento divennero tanto numerose da sollecitare gli appe-titi dell’erario. Nel 1454 Enrico IV concesse alla Brewers’Com-pany (Corporazione birraria) la prima licenza di fabbricazione.

Anche gli Inglesi ebbero una sorta di “editto sulla purezza”, con due secoli di anticipo rispetto alla Baviera: è il codice di Hywel Dda. Si opposero invece fermamente alla pratica della luppolazione che andava affermandosi sul Continente, tanto da utilizzare, a lungo, vocaboli diversi per distinguere sdegnosa-mente la birra nazionale (Ale), l’unica originale a sentir loro, da quella straniera (Beer).

Sottobicchiere con vignetta antinapoleonica

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Il guanto di sfida era dunque lanciato ai… barbari d’Oltrema-nica. Ed anche in maniera sprezzante, con tipica albagia impe-rialistica. Come risalta dai versi di questa settecentesca poesia:

“ Oh, birra, prodotto felice della nostra Isola,dai vigorosa forza a chi è stanco e rallegri ogni cuore.Sostieni il lavoro e l’arte. Genio della salute, riscaldiogni generoso cuore inglese con liberalità e amore.Noi beviamo allegri, a lunghi sorsi, il tuo fragrante succoe l’acqua… l’acqua lasciamola ai Francesi ”. Amen.

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La diffidenza italica

In Italia la birra medioevale era chiamata cervogia e patì a lungo di un’insana antipatia. I motivi son presto detti.

Eccone alcuni.Primo (e principale). La Penisola – l’Enotria degli autori

classici – era titolare d’una vocazione dionisiaca potente, antica e diffusa. Si produceva buon vino pressocchè dappertutto e quel-lo si beveva e si smerciava, costituendo una fonte di reddito per il commercio dei vari stati italiani.

Secondo. Posto che il vino era la bevanda della liturgia cri-stiana, la birra doveva di conseguenza esserlo di quella pagana. Sillogismo fragilissimo, ma radicato. Assumerne era un po’come partecipare in qualche modo ad un rito sacrilego. Da condannare.

Terzo. Tra tutti i cereali nobili l’orzo era forse il meno con-siderato. Non se ne produceva molto di qualità pregiata e la più parte veniva destinata tradizionalmente all’alimentazione equina (il che, con tutto il rispetto per cavalli e somari, lo de-gradava psicologicamente agli occhi degli umani, poco propen-si a considerarsi ad essi assimilati). Aristofane, per dirne una, critica un tizio definendolo “giulivo come un ciuco rimpinzatosi d’orzo” (Le vespe). Anche il malto ricavato da frumento, sega-le, avena non era un granchè valido. La buona birra si importa-va dall’estero e la poca prodotta serviva, tuttalpiù, a foraggiare i forestieri di poche pretese. Centri di consumo, monasteri a parte, furono: le corti longobarde di Alboino a Pavia e della reggente Teodolinda (bavarese di nascita) a Monza; le regge signorili cosmopolite, come quella dei Medici a Firenze e degli Sforza a Milano; la Roma papale, sia per il gran numero di pre-lati stranieri che la frequentavano sia per l’ascesa al triregno di pontefici nordici come Clemente V.

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Quarto. La birra era prediletta dai popoli invasori, quindi era da osteggiare sia nel suo valore simbolico (come emblema di op-pressione) sia nei riflessi pratici che il suo consumo da parte de-gli occupanti importava agli Italiani in termini di spese suppleti-ve, prelievi tributari, requisizioni di materiali e così via. Questo particolare aspetto attraverserà anche i secoli a venire. La birra fu, o sarà intesa, come la bevanda dei “crucchi” (i famosi “cruc-chi ciucchi” dei giochini di parole irriguardosi): Goti, Longo-bardi, Lanzichenecchi, Austroungarici, Tedeschi, giusto per far dei nomi. Quando C. Boito in Senso ha necessità di presentare il personaggio d’un funzionario asburgico, come lo descrive? È ovvio: “puzzolente di birra e di cattivo tabacco”.

Stampa propagandistica austro-ungarica

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Sulla falsariga dell’opinione di Tacito riportata qualche ca-pitolo fa, la birra dovette dunque subire ingiurie tanto pesanti quanto ingenerose. Benchè forse comprensibili considerando che all’epoca il prodotto si presentava in forma tutt’altro che at-traente: di colore indefinibile, assai torbido e spesso e volentieri persino maleodorante!

Cecco Angiolieri, il poeta senese celebre per le sue strofe irriverenti, perennemente a corto di danaro per divertirsi e go-dersela, la definì “fradicia bevagna”, giudicando miserabile il suo stato che l’obbligava a cambiare controvoglia “i vini grechi fini” con “la cervogia” (Rime).

Francesco Redi, nel chilometrico epigramma celebrativo Bacco in Toscana (celebrativo ovviamente del vino) ammoniva con toni quasi intimidatori (tanto più pericolosi in quanto il to-scano era anche un medico affermato):

“Chi la squallida Cervogiaalle labbra sue congiungepresto muore o rado giungeall’età vecchia e barbogia. Beva il Sidro d’Inghilterrachi vuol gir presto sotterra;chi vuol gir presto alla mortele bevande usi del Norte”

Una voce di segno opposto, una tra le poche, fu quella di Luigi Pulci, poeta e gaudente. Nel Morgante maggiore fa dire al gigante Margutte: “Credo nel burro e ne la cervogia…”. Tut-tavia lo stesso autore s’affretta a fargli aggiungere a scanso di equivoci, ristabilendo gerarchie consolidate: “Ma sopra tutto nel buon vino ho fede e credo che sia salvo chi gli crede”. Rag-gelante: prima illude e poi delude!

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Fortunatamente per la birra, i tempi cambiano. Ed anche l’at-teggiamento degli Italiani nei suoi confronti. Se Giordano Bruno è tra i primi ad usare il termine birra anziché cervogia e se per un altro paio di secoli gli scrittori continuano ad ignorarla nelle loro opere – stiamo considerando la letteratura uno specchio dei costumi d’ogn’epoca –, dal Settecento in poi s’inverte la tenden-za, con Goldoni. Per gli autori del verismo e del decadentismo, è normale riferire di combriccole che si ritrovano nei bar ad or-dinare birra (Verga) o di signori che consumano “ogni giorno a pranzo, birra di Vienna o di Monaco” (Fogazzaro, Malombra).

Con De Marchi, Dossi, Oriani, Fardella, Slataper, Svevo la parabola si completa. Del resto, è in pieno Ottocento che sorgo-no le prime vere industrie birrarie italiane. Sia pure, ed anche questo è significativo, soprattutto per iniziativa di imprenditori forestieri o d’origine straniera. Più o meno gli stessi che sono ancora oggi presenti sul mercato.

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Le birrerie artigianali

Da qualche decennio in qua, anche in Italia si vanno affermando le c.d birrerie artigianali, aziende in genere di piccole dimensioni, ma appassionate e in molti casi agguerrite, capaci di realizzare un prodotto originale, “unico”, non pastorizzato, spesso non filtrato, privo di con-servanti ed anidride carbonica aggiunta e destinato al consumo fresco, come avviene da sempre nelle patrie storiche del brassaggio.

Ne sono sorte un po’dovunque nel nostro paese e non menzionia-mo le più importanti per due motivi. Il primo è per non far torto alle altre. Il secondo, assai gratificante per chi la birra ama, è che il numero di queste imprese è in continua crescita, in parallelo col livello quali-tativo della produzione.

Per realizzare un birrificio artigianale ci vogliono passione e com-petenza, certo. È tuttavia sul rapporto diretto e fiduciario con il consu-matore che si gioca il presente di queste strutture, la cui conoscenza tra il pubblico si basa spesso su un passa parola assai stimolante, è vero, ma non sempre sufficiente ad affermarsi in un mercato nel quale la concorrenza industriale è, e rimane, comunque molto forte.

Le microbirrerie, sinonimo confidenziale che nulla toglie alla pro-fessionalità delle birrerie artigianali, sono infatti per definizione fuori dalla grande distribuzione, producono in quantità limitate (di norma entro i 5.000 hl/anno), se e quando imbottigliano le loro “creature” si rivolgono soprattutto ai locali del circondario. La vicinanza spaziale e temporale tra produzione e consumo è al tempo stesso il loro limite e la loro forza. Dipende da ogni singola azienda far prevalere il primo o la seconda.

Dalla birrificazione artigianale, che è pur sempre un’attività com-merciale, va distinta la cd. produzione birraria domestica. Ovvero, per usare, il termine straniero appropriato, l’home brewing. In questo caso l’appassionato veste i panni del bricoleur e, giovandosi di appositi kit di fermentazione reperibili sul mercato, prova a trasformarsi in mastro birraio con risultati non sempre oggettivamente esaltanti sul piano dei risultati, ma che tuttavia ne soddisfano – se si è abbastanza “duri” da resistere ai probabili insuccessi iniziali – il legittimo orgoglio di goder-si in esclusiva il frutto del proprio impegno.

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Una Trappista “in maschera” ovvero prodotta altrove o da soggetti diversi, con licenza e persino privi di qualsiasi auto-rizzazione esplicita, semprecchè evochi anche solo nel nome luoghi o procedimenti conventuali, verrà indicata genericamen-te come Birra d’Abbazia (Bières d’Abbay) . Come dire, la ricetta è monastica, la realizzazione… laica.

Binomio birra-seduzione in un’etichetta di Stout

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Le more

La Bock, tipica della Sassonia meridionale, è a bassa fer-mentazione, scura e con riflessi ramati. Il nome deriverebbe dalla città di Einbeck, che i bavaresi storpiarono prendendone in giro gli abitanti, in bock (“becco, montone”). Il gusto è dol-ceamarognolo, ma aromatico e corposo. La spuma compatta. È pressocchè obbligatorio degustarla nel classico boccale di cera-mica con coperchio di peltro.

La Doppelbock è una “doppia Bock” per la gradazione al-colica più elevata. Matura a fine inverno. Profuma di cioccolato e liquerizia. La maggior percentuale di malto impiegata è all’ori-gine del sinonimo “doppio malto”.

La Eisbock deve il nome (”Bock gelata” da eis, in tede-sco, “ghiaccio”) alla particolare tecnica di produzione, inventa-ta secondo la tradizione, nel 1589, dai monaci del convento di San Francesco di Paola, che la battezzarono all’inizio Salvator (o Redentore). La birra si fa congelare durante la preparazione per poi togliere la parte acquosa (che il ghiaccio ha separato dal resto del liquido) aumentandone così la concentrazione alcolica. Ovviamente, quindi, è questa la birra più forte del gruppo delle Bock.

La Stout commercialmente più celebre ha passaporto ir-landese (la Guinness fu fondata nel 1759), ma le cugine inglesi non sono da meno. Ha sapore amaro con venature di dolciastro, aromatico, corposo. Il colore è quasi nero a causa della forte torrefazione del malto. La spuma è cremosa e persistente e, se-condo la legge britannica, non può essere assente pena la perdita della qualifica di stout. Ne esistono anche versioni amabili come la Sweet Stout che utilizza avena, è rinforzata a volte con sal-sa d’ostriche e in passato venne intesa come milk Stout, prima

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che tale dizione venisse proibita per legge in quanto ingannevo-le (nella birra c’era il lattosio, ma neppure una goccia di milk, latte!). Ovvero, al contrario, ancora più robuste, come la Bitter Stout o la Extra Strong. Quest’ultima, miscelata in misura doppia rispetto allo champagne gelato, costituisce il Bismarck, un cocktail famoso ai tempi dello statista prussiano che, pare, l’ideò ed è conosciuto anche come Velluto nero (black velvet).

Una Stout particolare è la Imperial (o Russian) Stout. In origine prodotta a Londra per l’esportazione privilegiata nella Pietroburgo zarista, viene oggi spedita verso altre destinazioni. Ha gusto ricco con sentori di ribes bruciato e gradazione elevata (anche per irrobustirla dilatandone il tempo d’utilizzo).

La Porter, simile alla Stout (tanto che secondo alcuni ne sarebbe l’antenata), è prodotta con orzo tostato anziché germi-nato. È molto amara, molto scura, molto luppolata. Insomma, è tutta “molto”: non a caso, al tempo della sua invenzione, nel 1772, veniva servita come birra esclusiva in un pub della perife-ria londinese, il Porterhouse (letteralmente “casa del facchino”), frequentato appunto da questa categoria di ruvidi lavoratori, l’unica, secondo gli snob anglosassoni, in grado di reggerla (e perciò ad essi intestata). Pare inoltre che questa “birra del fac-chino” venisse ottenuta mescolando direttamente nel bicchiere tre tipi di birra diversi, per colore, gradazione ed età: normal-mente, una pale e due brown di diversa robustezza. Si sposa a piatti dal gusto altrettanto forte: pesci salati, ostriche, stufati e formaggi dolceamari. Lo scrittore Huysmans, che era francese sì ma di origini fiamminghe, la definì correttamente: “quella birra inglese che, a parte il minor zucchero, sa di succo di liquerizia” (Controcorrente).

La Rauchbier, tedesca, è scura, alcolica, delicatamen-te aromatica. Viene ottenuta da una sorta di orzo affumicato

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(rauch=”fumo”) con legno di faggio invecchiato e su pie-tra (stein) arroventata (donde il sinonimo Steinbier), secondo un’antica ricetta tipica della Franconia.

La Barley Wine (letteralmente “vino d’orzo”) è una birra d’orzo, molto scura, prodotta in Gran Bretagna. La gradazione è molto elevata, come indica l’omaggio onomastico bacchico: considerata la più forte delle Ale, della quale può persino tri-plicare il tenore alcolico, viene in genere venduta in bicchierini e bevuta in inverno per riscaldarsi. Ha gusto fruttato e spuma leggera. Può superare invecchiamenti ventennali.

La Münchner è la birra tedesca a bassa fermentazione, ori-ginaria di Monaco di Baviera. Ha gradazione modesta ed è pre-sente nelle due versioni: Hell , chiara, e Dunkel, scura, quella più tipica, di colore bruno o marrone e con spuma ricca ma poco compatta, sapore dolciastro e rotondo. La Hell è però la regina dell’Oktoberfest, la grande festa popolare che si svolge in città ad inizio autunno.

La Malt Liquour (“liquore di malto”) è una birra america-na di gradazione alcolica elevata. In pratica, è una doppio malto statunitense. Alla versione scura (Dark Hoppy), si affiancano anche tipologie chiare simili alle Light.

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I bicchieri

“Duroy beveva centellinando, assaporava la sua birra e la gustava come cosa preziosa e rara” (G. de Maupassant, Bel-Ami).

Dal calice cretese al corno norrico, dal gotto di legno con le fasce di piombo “schiumante tra le grandi pipe” di Rimbaud al bicchiere di cristallo finissimo griffato, molta acqua, pardon, molta birra è passata sotto i ponti.

Ormai sono le stesse aziende a cercare di imporre l’utiliz-zo del bicchiere personalizzato con il proprio logo distintivo, obbligando o lusingando esercenti ed avventori. Un po’per va-lorizzare al meglio il prodotto e molto per distinguersi dalla con-correnza.

Qualunque sia il bicchiere scelto è comunque necessario che esso sia perfettamente pulito e soprattutto ben sgrassato. Non soltanto per ovvie ragioni di carattere igienico, quanto perché l’eventuale presenza di tracce d’unto sul vetro non consentireb-be il formarsi di una bella schiuma compatta ed abbondante.

Il campionario dei bicchieri da birra è molto vario. Alcune ti-pologie sono comuni ad altre bevande (soprattutto al vino), altre esclusive. Scorriamole in breve:

Altglas. Ha portamento colonnare, vetro sottile, capacità mo-desta. Prende il nome dalla birra a lui più congeniale (ovviamen-te, la Alt).

Bikarr. Bicchierone scandinavo di capacità variabile.Boccale (inglese). Di vetro spesso e liscio. Per Ale e Stout.

Di diversa capacità, tradizionalmente espressa nella scala delle pinte. Per Jack London “non c’è niente di meglio che un boccale di birra per inaugurare una nuova amicizia” (Martin Eden).

Bock. Bicchiere di vetro francese per birra alla spina, fornito

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di coperchio e dal contenuto canonico di 285 ml. Bockeur è un termine dello slang parigino che indica “uno di quei frequenta-tori di birrerie che arrivano al mattino, quando si apre, e se ne vanno la sera, quando si chiude” (Maupassant).

Calice a bolla (balloon). Per birre da meditazione, corpose e robuste. Emisferico, con imboccatura a stringere per valorizzare la schiuma e superficie ampia per favorire lo scambio termico. Ideale per le Trappiste.

Calice a chiudere. Ha i fianchi rastremati per far montare la schiuma fin quasi a traboccare. Per Lager e Pilsener.

Calice a tulipano, dalla bocca svasata. Mantiene bassa la spuma, consentendo il pieno godimento degli elementi olfattivi. Per birre aromatiche, come le Lambic e la Gueuze.

Chimay. Calice campaniforme con l’orlo ripiegato all’in-terno e stelo corto e tozzo, concepito per le Trappiste belghe. Esempio tipico di contenitore suggerito dai produttori.

Colonna conica. Grazie alla larga imboccatura, la schiuma non monta troppo. Mantiene sotto controllo le birre troppo viva-ci (come le danesi).

Coppa. Deprime la spuma, ma esalta l’aroma delle birre mol-to profumate.

Flûte. Ideale per prodotti secchi, dal fine perlage (mai tutta-via troppo spinto come nello champagne: l’eccesso di CO2 sa-rebbe un elemento negativo!). Da servire freddi. Come la bianca Berlinese o certe Lambic aromatizzate.

Masskrug. È il proverbiale boccale bavarese della capacità standard di un litro (mass). Può essere di vetro, ceramica o pel-tro. Il manico consente di mantenere più a lungo la temperatura di servizio. Per robusti bevitori, è adatto alle Lager ed irrinun-ciabile per la Märzen.

Pint. Bicchiere per birra britannica dal contenuto di una pinta

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(0,568 lt in Inghilterra). È di vetro, peltro, stagno, ottone, argen-to o altro metallo, vile o pregiato, ideale “per essere riempito di birra drogata e calda per la cena” (Brontë, Cime tempestose).

Sconce. Sorta di tazza di grandi proporzioni usata in origine per le sfide goliardiche (sconcing) tra gli studenti di Oxford e Cambridge: vinceva ovviamente chi riusciva a scolarsi più birra tutta d’un fiato.

Seidl. Bicchiere statunitense realizzato in materiale vario e della capacità di circa 50 cl.

Stein. Boccale germanico di terracotta, normalmente munito di coperchio che impedisce l’ossidazione del liquido a contatto diretto con l’aria. Variamente decorato e spesso oggetto di colle-zionismo. Capacità da mezzo a due litri. Non è adatto alle birre che fanno della brillantezza un punto di forza.

Stiefel. Simpatico recipiente di vetro a forma di “stivale” (in tedesco, stiefel). Contiene da 2 a 5 litri e viene usato in Germa-nia per mettere alla prova la capacità e la bravura del bevitore (soprattutto nel non sbavare per il ritorno di schiuma dovuto alla strozzatura del bicchiere).

Yard. Recipiente di vetro alto una yarda (91,35 cm) e ter-minante nel fondo con una sfera, del contenuto di circa 2 litri. Era il classico “bicchiere della staffa”, che si offriva prima del commiato (ovvero quando il cavaliere già aveva messo il pie-de nella staffa ed era pronto a montare in sella per andar via): per l’instabilità della sua forma, non poteva essere appoggiato e dunque andava vuotato in un’unica soluzione!

Weizenebeker. Proprio delle birre bianche con notevole svi-luppo di spuma, che la sua sommità strategicamente rigonfia “a palloncino” riesce a contenere. Ha capacità standard di mezzo litro.

Una segnalazione doverosa riguarda gli ormai famosi, bra-

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mati, sognati (e persino rubacchiati) sottobicchieri: i beermat. In origine erano di sughero per assorbire eventuali scoli di schiuma e di birra. Successivamente furono realizzati in cartoncino viva-mente stampato, spesso con il marchio commerciale della casa produttrice. Da qualche anno sono oggetto di una fiorentissima forma di collezionismo universale.

coppia di stiefel bavaresi

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Appendice: Canzoni… alla spina

Nel caso si volesse organizzare una sorta di festival cano-ro della birra, può tornare utile una selezione di titoli alla nostra bevanda dedicati:

A Pub With No Beer – Dubliners (The)After This Beer – Dayglo AbortionsAhora La Cerveza Me Hace Olvidar – Los CalzonesAlways With A Beer In My Hand – Los FastidiosAndy’s Last Beer – Umphrey’s McgeeBeer – MestBeer – Independents (The)Beer – Endless StruggleBeer – Party Fun Action CommitteeBeer – Reel Big FishBeer ! Metal ! Sex ! – Abigail (Jpn)Beer ‘n Weed – Rapers (The)Beer 2 Minors (Fuck Shit Up) – Fad (The)Beer And A Cigarette – Hanoi RocksBeer And Bones – John Michael MontgomeryBeer And Women – Steve FordeBeer Anthem – Seagal SyndromeBeer Bait And Ammo – Mark ChesnuttBeer Bottles & Hockey Sticks – Bound For Glory & Mi-streatBeer Brigade – Quincy PunxBeer Drinkers and Hell Raisers – ZZ TopBeer Drinkin’Song – Justin McBrideBeer For Breakfast – Get Up KidsBeer For Breakfast – Replacements (The)

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La via della birra

EGITTO MESOPOTAMIA

CRETA

GRECIA

R O M A

IBERIA

I. BRITANNICHE SCANDINAVIA

C E N T R O E U R O P A

MEDITERRANEO NORDOCCIDENTALE

FENICIA

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Indice

5 Un esordio spumeggiante 7 La culla mediorientale11 L’ancella del Faraone14 Il mondo mediterraneo16 Viaggio in Nordeuropa20 La birra monastica24 Il medioevo27 Il primato tedesco30 L’antagonismo britannico34 La diffidenza italica38 Le birre artigianali39 Il soccorso della scienza41 La fermentazione bassa44 Il ciclo produttivo46 Gli ingredienti49 Luppolo & C.51 Bere… per gradi53 Un’ipotesi classificatoria55 Le bionde57 Le rosse61 Le more64 Le bianche e le altre67 Le tipologie commerciali68 Mescita e degustazione72 I bicchieri77 Un mondo di schiuma84 La birra a tavola87 Alla salute!

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91 Una bevanda femmina 97 Parole di birra 99 Glossarietto minimo 101 Appendice: canzoni… alla spina

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Antonino Pavone (Palermo, 1961), è autore di drammi, documentari, sceneggiature e fumetti. Tra le opere pubblica-te, i saggi “Cavalcata Palermo” (1986), “Personalità a tavola” (1998). “Circoli viziosi” (2000), “Bacco diVino” (2001), “Tan-tra” (2001), “Il fior fiore” (2003), “Flash Back, un secolo di ci-nema” (2004), “Il grande libro della luna” (2009) ed il romanzo “Zeugma” (2010).