Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

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1 Umberto Nobile Quello che ho visto nella Russia sovietica Introduzione Questo libro è stato scritto per rispondere alle innumerevoli domande che da ogni parte mi sono state rivolte sulla Russia sovietica. La curiosità attorno a quel paese è stata acuita dalla guerra. Il successo dell'esercito rosso è giunto talmente imprevisto e la forza di resistenza di cui han dato prova i popoli sovietici è stata talmente sorprendente, che è sorto in tutti il desiderio di saper qualche cosa di certo attorno alla loro vita. L'ignoranza in proposito era così vasta e profonda che mi son sentito più volte ripetere le domande più strane, ad esempio se in Russia esistesse o pur no una moneta come mezzo di scambio. Il libro, che non ha nessuna tendenza politica, vuol esporre in maniera obiettiva e spassionata le varie osservazioni da me falle durante i cinque anni e mezzo di soggiorno nella Russia sovietica, tra il principio del 1926 e la fine. del 1936, nel decennio, cioè, che vide operare in quel paese le più grandi trasformazioni sociali ed economiche e che, senza dubbio, fu il più decisivo per lo sviluppo e il consolidamento del regime comunista. Lo scopo principale del libro è quello, dunque, di contribuire alla conoscenza dell'Unione Sovietica. Questo lavoro di informazione è quanto mai necessario dopo tutte le deformazioni e diffamazioni della stampa nazi-fascista. La gente vuole soprattutto che le sia spiegato il segreto del successo militare sovietico. Era stato con tanta sicumera assicurato che, al primo urto bellico, al primo rovescio militare, le masse sovietiche, intolleranti del giogo bolscevico, si sarebbero sbarazzate di esso, la leggenda del colosso dai piedi di argilla aveva fatto talmente presa negli animi, che si è rimasti stupefatti a vedere che il crollo non avveniva nemmeno quando le armate tedesche erano alle porte di Mosca o sulle pendici del Caucaso. Da' qui è sorta un'insaziabile curiosità sulla Russia comunista. * * * Nel libro ho raccontato le cose così come le osservai, senza darmi alcun pensiero del come potrebbero essere interpretate. Ma l'obiettività da sola non basterebbe a dar valore al libro, se non fosse accompagnata anche da un'altra qualità: l'esattezza delle informazioni. Migliaia di persone hanno visitato l'Unione Sovietica e vi hanno soggiornato, taluna anche a lungo. Ma sulle altre io ho avuto il vantaggio di essermi trovato in contatto quotidiano con i giovani bolscevichi, senza che vi fosse alcuna prevenzione da parte loro verso di me, e tanto meno mia verso di loro. Dopo anni di questa vita in comune posso ben arrogarmi la pretesa di aver compreso qualche cosa dello spirito che li animava. * * * Un avvertimento va dato. Non mi sono occupato di questioni politiche e sociali, se non come se ne può occupare un uomo medio del mio tempo, che vuoi comprendere il mondo in cui vive e che questo mondo desidera si muova verso un ordine che elimini le ingiustizie sociali presenti e, soprattutto, elimini la guerra fra i popoli. Sono convinto che per l'umanità l'avvento di un ordine mondiale sia- una necessità impellente. In

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Un’interessante testimonianza di un cittadino italiano vissuto in URSS dal 1931 al 1936.Il cittadino di cui si parla è Umberto Nobile, ingegnere ed aviatore napoletano della Règia aeronautica italiana,grande nome legato all’epopea dei dirigibili; ed è proprio in veste di direttore tecnico di un’impresa sovietica di costruzioni aerostatiche, che venne invitato a trasferirsi in URSS a inizio anni ’30.Vi era già stato prima, nel 1926, in occasione della preparazione di una spedizione polare.Nel 1945 dopo la vittoria dell’URSS nella grande guerra patriottica, visto il grande interesse del pubblico italiano,colse l’occasione per pubblicare i suoi ricordi di vita vissuta nel paese dei soviet; a differenza di Anna Louise Strong, non lo visitò in lungo e in largo,la Strong era una giornalista,Nobile un tecnico di base a Mosca.Rimase perlopiù nella capitale,abitando un appartamento vicino alla Lubianca,sede della GPU,ma ebbe modo di sperimentare molti aspetti della vita dei sovietici di quegli anni,le loro aspettative,il loro entusiasmo,soprattutto dei giovani.Potè vivere e respirare il progresso culturale,il fermento sociale a dispetto del generale livello di povertà ,poiché erano quelli gli anni del primo piano quinquennale e dell’apice della collettivizzazione,precismaente gli anni della carestia,la quale durò fino ad inizio del 1934,e la cui fine coincise con un repentino miglioramento del tenore di vita dei cittadini.Nobile era un cattolico osservante,ma non era mai stato troppo amato dal regime fascista e aveva in Italo Balbo un fiero avversario - per questioni sia politiche che tecniche,Balbo era, in aviazione, del partito della sostentazione aerodinamica (aeroplani),Nobile invece di quella aerostatica (dirigibili) – e nel dopoguerra finì col candidarsi come indipendente nelle file del partito comunista venendo eletto al parlamento italiano.Sicuramente di mentalità aperta e non ostile ai bolscevichi,le sue simpatie comuniste maturarono vedendo con i propri occhi i successi del socialismo sovietico,in contrasto con le brutture del regime oppressivo mussoliniano che portò il nostro paese alla tragedia della seconda guerra mondiale,guerra che avrebbe potuto cancellare secoli di progresso umano,se non fosse stato proprio per l’eroica resistenza del popolo sovietico.

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Umberto Nobile

Quello che ho visto nella Russia sovietica

Introduzione

Questo libro è stato scritto per rispondere alle innumerevoli domande che da ogni parte mi sono

state rivolte sulla Russia sovietica.

La curiosità attorno a quel paese è stata acuita dalla guerra. Il successo dell'esercito rosso è giunto

talmente imprevisto e la forza di resistenza di cui han dato prova i popoli sovietici è stata talmente

sorprendente, che è sorto in tutti il desiderio di saper qualche cosa di certo attorno alla loro vita.

L'ignoranza in proposito era così vasta e profonda che mi son sentito più volte ripetere le domande

più strane, ad esempio se in Russia esistesse o pur no una moneta come mezzo di scambio.

Il libro, che non ha nessuna tendenza politica, vuol esporre in maniera obiettiva e spassionata le

varie osservazioni da me falle durante i cinque anni e mezzo di soggiorno nella Russia sovietica, tra

il principio del 1926 e la fine. del 1936, nel decennio, cioè, che vide operare in quel paese le più

grandi trasformazioni sociali ed economiche e che, senza dubbio, fu il più decisivo per lo sviluppo e

il consolidamento del regime comunista.

Lo scopo principale del libro è quello, dunque, di contribuire alla conoscenza dell'Unione Sovietica.

Questo lavoro di informazione è quanto mai necessario dopo tutte le deformazioni e diffamazioni

della stampa nazi-fascista. La gente vuole soprattutto che le sia spiegato il segreto del successo

militare sovietico. Era stato con tanta sicumera assicurato che, al primo urto bellico, al primo

rovescio militare, le masse sovietiche, intolleranti del giogo bolscevico, si sarebbero sbarazzate di

esso, la leggenda del colosso dai piedi di argilla aveva fatto talmente presa negli animi, che si è

rimasti stupefatti a vedere che il crollo non avveniva nemmeno quando le armate tedesche erano

alle porte di Mosca o sulle pendici del Caucaso.

Da' qui è sorta un'insaziabile curiosità sulla Russia comunista.

* * *

Nel libro ho raccontato le cose così come le osservai, senza darmi alcun pensiero del come

potrebbero essere interpretate. Ma l'obiettività da sola non basterebbe a dar valore al libro, se non

fosse accompagnata anche da un'altra qualità: l'esattezza delle informazioni.

Migliaia di persone hanno visitato l'Unione Sovietica e vi hanno soggiornato, taluna anche a lungo.

Ma sulle altre io ho avuto il vantaggio di essermi trovato in contatto quotidiano con i giovani

bolscevichi, senza che vi fosse alcuna prevenzione da parte loro verso di me, e tanto meno mia

verso di loro. Dopo anni di questa vita in comune posso ben arrogarmi la pretesa di aver compreso

qualche cosa dello spirito che li animava.

* * *

Un avvertimento va dato. Non mi sono occupato di questioni politiche e sociali, se non come se ne

può occupare un uomo medio del mio tempo, che vuoi comprendere il mondo in cui vive e che

questo mondo desidera si muova verso un ordine che elimini le ingiustizie sociali presenti e,

soprattutto, elimini la guerra fra i popoli.

Sono convinto che per l'umanità l'avvento di un ordine mondiale sia- una necessità impellente. In

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questo seguo l'opinione degli uomini di pen¬siero anglosassoni che ritengono urgente un'opera di

adattamento delle comunità umane alle nuove condizioni create dalle scoperte scientifiche e dalle

invenzioni del secolo scorso e di quello attuale. Senza questo adattamento l'uomo è destinato a

soccombere.

La Russia più di qualunque altro paese al mondo sembra preparata per la concezione di un ordine

mondiale, giacchè è l'unico grande paese dove convivono pacificamente fra loro un gran numero di

popoli, di differenti nazionalità, lingue e costumi, in un sistema politico che fa appello alla unione

dei lavoratori di tutto il mondo, che è, praticamente, quanto dire l'unione di tutti gli uomini.

Ma vi è un'altra ragione di attrazione per la Russia sovietica, e consiste nel fatto che vi si trova in

atto un grandioso esperimento di economia sociale, dove la spinta del profitto individuale è stata

abolita e sostituita dal motivo del dovere da compiere verso la collettività e se stesso. Ad un si fratto

sistema, che costituisce un ordine sociale superiore, non può non volgersi con la simpatia più

profonda lo sguardo di tutti gli uomini di buona volontà, che riconoscono che l'ordine economico

dell'intero mondo si va lentamente muovendo, attraverso terribili crisi, verso la meta che la Russia

bolscevica persegue con tanta ostinazione e tanta risolutezza.

* * *

Per quanto possa sembrare paradossale, la obiettività raggiunta nelle mie osservazioni è dovuta

anche alla profonda simpatia che ho per l'Unione Sovietica: Quel mondo è così profondamente

diverso dal nostro, che chi si avvicini ad esso, fosse pure senza preconcetti politici, ma senza una

fondamentale simpatia, nulla può intenderne.

Abbarbicati come siamo alle nostre secolari tradizioni, ci sentiamo naturalmente ostili ad accettare

abitudini di vita completamente nuove. Al conservatore istintivo, che è nel fondo dell'animo di

ciascuno di noi, ripugna dover rinunziare di botto ad abitudini inveterate; e si è perciò, non solo

diffidenti, ma avversi al nuovo ambiente.

Con tale disposizione di spirito ogni obiettivi là di osservazione e di giudizio necessariamente vien

meno.

La simpatia che mi lega all'Unione Sovietica è di lunga data. Essa ebbe origine nel 1926, quando

per la prima volta mi recai in Russia per la preparazione di una spedizione polare. Il mio destino ha

voluto che all'Unione Sovietica fossero collegate due grandi vicende della mia vita: l'impresa del

Norge, che non avrebbe potuto effettuarsi senza l'aiuto porto con tanta larghezza dal Governo

sovietico, e quella dell'Italia, che vide accorrere i Russi al soccorso dei naufraghi con una prontezza,

uno slancio, di cui non si riscontra altro esempio nella storia delle spedizioni artiche.

Quando, sperduti alcuni miei compagni ed io nelle solitudini ghiacciate del deserto polare, la radio

ci portò la notizia del generoso accorrere dei Russi al nostro salvataggio, con due rompighiacci, il

Krassin ed il Malighin, la gratitudine traboccò dal nostro cuore. In quella circostanza memorabile,

raccolte dal fondo di una bussola magnetica poche gocce di alcool, brindammo all'Unione

Sovietica. La censura fascista soppresse nel mio libro l'accenno a quel brindisi augurale levatosi dai

ghiacci polari, ma non poteva certo sopprimere nel mio cuore il sentimento di gratitudine che

l'aveva ispirato; sentimento che si fece ancora più forte quando, due anni dopo, i Russi mi

invitarono a recarmi da loro a lavorare, proprio nel periodo più triste della mia vita, allorché il

vivere nel mio paese mi era divenuto estremamente penoso.

Tutti questi motivi di gratitudine, aggiungendosi ai motivi di attrazione intellettuale già accennati

avanti, servono a spiegare il sentimento che mi animava e mi anima verso l'Unione Sovietica.

Questo sentimento mi ha reso più facile, come dicevo avanti, di comprendere la vita che mi si

svolgeva attorno durante il soggiorno in Russia, ma non si creda con ciò che esso mi velasse gli

occhi impedendomi di vedere i difetti del sistema. Li vedevo chiaramente, ma non ne esageravo

l'importanza, e soprattutto non perdevo di vista, fermandomi a considerate questo o quel particolare,

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l'insieme del quadro grandioso che innanzi a me si svolgeva.

Lo scoppio della guerra fra la Germania e l'Unione Sovietica mi trovò in America, a Chicago.

Sapendosi del mio soggiorno in Russia, era naturale che giornalisti ed altri si rivolgessero a me per

conoscere la mia opinione sulla sorte della guerra.

Era quello il tempo in cui generalmente, in America ed altrove, si facevano le previsioni più

pessimistiche. I giornalisti, i diplomatici, gli informatori militari dei vari paesi avevano data per

certa la insufficienza della preparazione bellica sovietica. Lindbergh, di ritorno da un viaggio in

Russia, aveva proclamato nei circoli londinesi che sull'aviazione sovietica non vi era da fare alcun

assegnamento. Conseguenza di queste false informazioni fu l'opinione generalmente diffusa che la

Russia sarebbe stata presto messa fuori combattimento, anche più presto di quanto era avvenuto per

la Francia. Se la Francia, col suo poderoso esercito, il «primo del mondo », non aveva potuto

reggere all'urto ('ella terribile macchina bellica tedesca, come avrebbe potuto farlo l'Unione

Sovietica ? L'aspettativa del crollo militare sovietico era generale, anche da parte di chi avrebbe

dovuto esser meglio informato degli altri sulle cose di Russia. Un giornalista americano, W.

Stoneman, che aveva vissuto per alcuni anni a Mosca, nel luglio 1941 telegrafava da Londra al

Chicago Daily News che «i circoli militari londinesi si aspettavano che l'esercito sovietico potesse

reggere ai tedeschi un mese o poco più ! »

* * *

Io non fui di questo avviso. Certo non avevo la pretesa di esser informato sulla consistenza della

preparazione militare sovietica meglio dei servizi di informazione dei paesi dell'Asse o

dell'Intelligence service. Tutt'altro. Anzi, bisogna dire che durante il mio soggiorno nell’U.R.S.S .,

di proposito, non mi ero mai impicciato di cose militari. Non avevo mai messo piede in una officina

o in un ufficio militare, mai chiesto la minima informazione. Tutto ciò che sapevo di quella

preparazione era quello che potevano dirmi le parate del 1 maggio e del 7 novembre, quando sulla

Piazza Rossa sfilavano i carri armati e nel cielo volteggiavano centinaia di aeroplani. Ciò

nonostante, la mia convinzione era assoluta. I sovietici avrebbero tenuto duro. Si sarebbero fatti

uccidere a centinaia di migliaia, ma non avrebbero ceduto.

Ad un giornalista, direttore di un giornale locale in lingua tedesca, che mi chiedeva la mia opinione,

dichiarai che la guerra sarebbe stata lunga e sanguinosissima. Il giornalista tedesco rise di cuore. «

In sette o, al massimo, otto settimane, la Russia sarà schiacciata », mi assicurò nel modo più

categorico.

Il medesimo giornalista, incontrandomi un anno dopo, ebbe a dire: « Lei è stata una delle quattro o

cinque persone in tutto il mondo che han previsto la resistenza russa ».

Poteva aver esagerato; ma certamente dovevano essere assai poche le persone che avevano avuto in

quel tempo fiducia nella capacità dell'Unione Sovietica a resistere all'invasione germanica.

* * *

Su che cosa, dunque, era fondata la mia opinione ?

Sulla conoscenza che avevo della gioventù sovietica, del suo spirito di abnegazione, dell'entusiasmo

con il quale essa lavorava alla creazione di un nuovo ordine mondiale. Questo entusiasmo era

illimitato, irrefrenabile, contagioso. Costituiva il fenomeno più saliente della vita sovietica.

È vero che durante il mio lungo soggiorno in Russia alcune cose avevo osservato che mi avevano

ripugnato; è vero anche che il sistema aveva taluni difetti, che non avevo mancato di rilevare,tanto

più che essi incidevano gravemente sulla efficienza del lavoro a me affidato. Ma non avevo mai

commesso l'errore di generalizzare, di credere che in qualunque altro ambiente quei difetti si

facessero sentire nella stessa misura. Né avevo limitato le mie osservazioni alla vita tecnica del

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paese. Certamente questa era interessante. Interessante era lo sforzo che si faceva per

industrializzare il paese e renderlo indipendente dai paesi capitalistici. Ma di fronte alla creazione di

un nuovo ordine sociale quello sforzo, pur grandioso come era, passava per me in seconda linea. Mi

inte-ressavano assai più le varie manifestazioni della vita culturale, le nuove abitudini, le nuove

istituzioni. Le seguivo specialmente attraverso il teatro ed il cinema, di cui più che ogni altra mi

attirava la produzione che prendeva a soggetto i problemi attuali della vita sovietica. In questa vita

vi erano cose che mi esaltavano, tentativi di realizzazione che mi commovevano. Vi erano altresì

cose che mi indignavano, che provocavano la mia critica. Ma di tutte queste varie impressioni

quella che contava era la impressione risultante, l'impressione che portavo con me tutte le volte che

lasciavo la Russia per un viaggio in Italia, impressione che si delineava ed accentuava non appena,

valicato il confine, venivo a contatto col mondo che avevo lasciato da tempo. Nel contrasto le

impressioni si facevano più chiare, meglio definite, più evidenti. La Russia da lontano mi appariva,

quale effettivamente era, come un immenso cantiere, dove con lena, senza un attimo di riposo,

senza alcuna indulgenza per il vizio, milioni di persone lavoravano, con fede ed entusiasmo senza

pari, ad un grande compito. Al confronto della piccola vita quotidiana dei popoli dell'Europa

occidentale, la vita del popolo russo mi appariva quasi eroica. I suoi giovani avevano il senso di

partecipare ad un'opera grandiosa di creazione. Essi discutevano problemi di carattere universale.

Respiravano un'atmosfera ardente di idee. La loro vita individuale si trovava enormemente

arricchita da una intensa partecipazione alla vita collettiva. Per la gioventù sovietica, da anni

abituata alla lotta, una lotta titanica nella quale era guidata da uomini devoti ad un'idea fino al

fanatismo, cambiare armi ed obiettivi era cosa facile.Essa avrebbe difeso con accanimento il proprio

paese; si sarebbe fatta uccidere, ma non avrebbe ceduto. Mosca, il cuore del mondo sovietico, non

poteva cadere nelle mani dei nazisti; nè poteva cadere Stalingrado, che prendeva nome dal capo.

Furono per me facili previsioni: Mosca non cadde, nè cadde Stalingrado.

L'esser stato capace di sollevare questo entusiasmo è stato il successo più grande del partito

comunista sovietico. Senza quell'entusiasmo, in un regime economico dove l'iniziativa individuale

per nuove imprese non era eccitata dalla sete di guadagni, come nei paesi capitalistici, si sarebbe

avuto un fallimento completo del gigantesco esperimento.

* * *

Da alcune osservazioni contenute in questo libro risulta che la libertà individuale, entro i limiti

imposti dalla costituzione sovietica (che vieta lo sfruttamento del lavoro altrui a proprio beneficio),

era garantita, anzi, in certi casi, era perfino eccessiva.

Era anche garantita ai cittadini la libertà di parola, ed infatti la critica di carattere tecnico o

amministrativo era ammessa senza alcuna restrizione, anzi costituiva, come si vedrà dal mio libro,

un dovere dei cittadini. Vi era anche, nel seno del partito, la libertà di esprimere il proprio pensiero

politico, per cui avevano libero gioco le varie tendenze di sinistra o di destra. Ma restava tuttavia

una limitazione importante: non era lecito discutere le risoluzioni adottate dalla maggioranza del

partito stesso, nè potevasi all'infuori di esso esercitare alcuna critica politica. Tanto meno, poi,

potevano venir discussi i principi stessi della costituzione sovietica.

Questa restrizione della libertà di parola, di cui del resto si hanno esempi anche nei paesi

anglosassoni, è certamente cosa grave. Essa può ammettersi in casi di guerra, o in periodi

eccezionali di crisi, ma non può essere la norma permanente di una società civile. A lungo andare

una tale soppressione della discussione politica porta ad un isterilirsi delle forze di propulsione delle

comunità umane. La libertà di esprimere il proprio pensiero deve essere assoluta: la sola limitazione

ammissibile è per i casi in cui di tale libertà ci si voglia servire per tentare di sopprimere la libertà

stessa, o quando si voglia farne uso per minare le basi costitutive della comunità.

La limitazione della libertà di parola e di stampa in tempi normali di pace é una grave iattura. Ma

non si deve, forse, tener conto che la gigantesca opera compiuta dai sovietici si iniziò nel caos

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creato nel 1917 dalla disfatta militare e dovette proseguire fra le invasioni straniere, la carestia e

l'ostilità di tutto il mondo capitalistico ? I trenta anni di regime sovietico non possono, forse, essere

riguardati come trent'anni di guerra ? Churchill stesso lo riconobbe, or non è molto, in un discorso

ai Comuni.

Ma alcuni segni di ripristino della libertà intellettuale erano già evidenti prima di questa guerra. Vi

erano scrittori, come Zoscenko, che potevano metter impunemente in ridicolo le debolezze del

regime sovietico; e vi erano filmi dove si faceva una gaia caricatura dei dirigenti comunisti.

* * *

Il mio libro si riferisce alla Russia sovietica quale la conobbi prima della guerra, di quella Russia di

cui H. G. Wells, uno dei più autorevoli rappresentanti del pensiero moderno anglosassone,

concludendo una sua aspra critica, diceva che, « nonostante tutto, essa tiene in alto la bandiera della

collettività mondiale e rimane, nello spettacolo del genere umano, come qualche cosa di splendido e

pieno di speranze ».

Dalla guerra la Russia sovietica emerge più forte, più rispettata, più temuta che mai. Ma quali sono

le trasformazioni che colà, come in tutte le altre parti del mondo, avverranno per effetto della guerra

?

Nessuno può dirlo. La guerra ha precipitato l'umanità in un caos tremendo, non solo materiale, ma

morale ed intellettuale. La guerra moderna è una terribile distruttrice. Tutto essa corrompe e guasta,

e niente risolve. Non solo barriere di confini, ma odi profondi, implacabili separano i popoli della

terra. Miserie, carestie, migrazioni forzate di milioni di persone, crudeltà di ogni sorta sono lo

strascico della terribile calamità abbattutasi sul genere umano.

I popoli, decimati, affamati, demoralizzati, disorientati, aspettano qualche cosa che dia loro una

nuova speranza, attendono che da qualche angolo della terra si levi l'annunzio di nuove idee

costruttrici.

Di dove partirà il movimento che porterà alla liberazione finale dell'umanità dall'orrendo cataclisma

che è la guerra moderna? di dove partiranno le voci che guideranno gli uomini a realizzare sulla

terra l'ideale di fratellanza annunciato da Cristo or sono duemila anni?

Roma, ottobre 1945

UMBERTO NOBILE

Samocritica

NELL'AGOSTO 1931 presi parte alla spedizione del rompighiaccio Maliguin. Quando ne tornai,

nel settembre, mi fermai alcune settimane a Mosca, ospite del Governo Sovietico, essendo stato

richiesto, fra l'altro, di dare un parere su un progetto aeronautico che alcuni giovani ingegneri russi

avevano studiato. Alloggiavo al Grand Hòtel, presso la piazza Rossa, che divenne presto una delle

mie passeggiate preferite.

Questa piazza, lunga più di un chilometro, è certamente una delle più affascinanti che abbia visto

nelle mie peregrinazioni attraverso il mondo. La vista che se ne aveva entrandovi dal lato

dell'albergo era imponente: nel fondo spiccava la mole portentosa della cattedrale di San Basilio;

alla destra, lungo tutta la piazza, l'alta muraglia merlata del. Kremlino, dietro la quale si ergevano le

numerose guglie e la cupo I risplendente d'oro; ai piedi della muraglia, severo, solenne nella sua

geometrica semplicità, il mausoleo di Lenin. Nelle chiare e fredde giornate di quel settembre la

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piazza era particolarmente bella al tramonto quando il sole illuminava, indorandole, le cupole verdi

della basilica. Una volta la mia immaginazione fu colpita dall'aspetto che aveva assunto il

mausoleo. Il sole, basso sull'orizzonte, l'investiva di lato, riflettendosi sulle cupe lastre di marmo e

suscitandovi come un incendio. Sembrava che il mausoleo fiammeggiasse come un rogo.

La solennità di questo singolare monu¬mento era accresciuta dai due soldati che, rigidi sull'attenti,

immobili come statue, vi montavano permanentemente la guardia. Spesso una lunga fila di persone

si snodava serpeggiando per la piazza, aspettando in silenzio, per delle ore, che la porta si aprisse

per entrarvi. Una volta vi entrai anch'io. L'interno era altrettanto semplice ed austero come l'esterno:

lisce pareti di marmo rosso e nero, senza alcuna decorazione. Si discendeva giù nella cripta, ed in

silenzio, lentamente, si girava attorno all'urna di cristallo che conteneva il corpo imbalsamato. Non

era lecito fermarsi, ma i visitatori, pur procedendo, tenevano fisso lo sguardo sulla caratteristica

testa, dal volto cereo, affinato, la barbetta a punta. Terminato il giro dell'urna, si usciva dal lato

opposto a quello per cui si era entrati.

Uno spettacolo impressionante nella sua semplicità. Erano persone che venivano da tutte le parti

dell'Unione Sovietica a rendere omaggio al grande rivoluzionario. In seguito, durante il mio lungo

soggiorno in Russia, dovevo apprendere che questa venerazione era di tutti. Anche persone delle

vecchie generazioni, manifestamente ostili al regime sovietico, quando parlavano di Lenin,

esprimevano il più profondo rispetto.

Un giorno, dunque, attraversavo la piazza Rossa, accompagnato dalla guida che mi era stata data,

una signora ebrea, nata in Siberia da ricca famiglia di mercanti: parlava in italiano, non bene, ma in

modo da farsi capire. Giunti in prossimità del museo storico russo, la mia attenzione fu richiamata

da una donna che parlava concitatamente con altre persone, quasi gridando. La sentii pronunziare il

nome di Stalin. Incuriosito domandai che cosa dicesse : « Inveisce contro Stalin», rispose la mia

interprete. «E può farlo impunemente?» osservai. «Ma non vedete che è una contadina ? », replicò

ridendo la signora. « Chi volete che le dia fastidio per quello che dice ?».

Restai sorpreso da queste parole. I giornalisti, in Italia ed altrove, ci avevano sempre dipinto la

Russia come un paese, dove regnasse il più assoluto terrore, dove la gente non osasse dire la

minima cosa contro il governo, non dico in pubblico, ma nemmeno nel segreto della propria casa.

Ed ecco invece che nel centro di Mosca era possibile insolentire contro Stalin stesso. È vero che si

trattava di una contadina: ma che sarebbe accaduto di una contadina italiana che, a piazza Venezia,

si fosse messa a vituperare ad alta voce Mussolini ?

Ma non fu l'unico episodio di tal genere. Alcuni giorni dopo mi trovavo nella sala di lettura

dell'albergo ad aspettare qualcuno. Nella sala vi erano parecchie altre persone. In un angolo un

ragazzo di quindici o sedici anni se ne stava seduto con un giornale fra le mani. Ad un tratto,

rivolgendosi alla mia interprete, disse qualche cosa ad alta voce. Fra i due si intavolò una

discussione. Il ragazzo parlava vivacemente, con decisione. « Di che parla ? », domandai. « Critica

il piano quinquennale », rispose la signora. « Dice che è la causa per cui si soffrono ora tante

privazioni ».

Il ragazzo aveva ragione. L'esecuzione del piano quinquennale imponeva al popolo russo sacrifici

molto duri. Tutte le risorse, tutte le energie del paese erano assorbite dal grandioso programma di

industrializzazione cui Stalin aveva posto mano. In quel tempo, nelle strade di Mosca, la gente

appariva assai mal vestita, e vi era certo anche scarsezza di alimenti, se nelle vetrine di taluni negozi

si vedevano, in bella mostra,rotonde forme di formaggio colorate in rosso, del tipo che da noi

chiamano olandese, che non era formaggio, ma legno. Questo curioso particolare allora mi colpì,

ma non avrei mai pensato che precisamente la stessa cosa avrei rivisto undici anni dopo nelle

vetrine degli eleganti negozi di salumeria berlinesi. Ma, se i sacrifici imposti al popolo russo

dovessero dare i frutti che Stalin si aspettava, si è visto nella guerra attuale. Certo l'umanità deve

anche alle dure privazioni sofferte allora dai russi se si è potuta salvare dalla barbarie nazista.

I due episodi che ho riferito mi colpirono profondamente. Non bisogna dimenticare che venivo, non

da un paese libero come l'Inghilterra o la Svizzera, ma dall'Italia dove, ormai, da otto anni

imperversava il terrore fascista, e dove se, talvolta, due amici si arrischiavano a parlar male del

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regime fra di loro, tacevano di botto all'avvicinarsi di una terza persona, fosse pure amica.

Tornai in Russia il primo maggio del 1932, e da allora vi rimasi fino al Natale del 1936. Quasi

cinque anni di vita sovietica che costituiscono una delle esperienze più memorabili della mia vita

agitata. Ebbi così la ventura di assistere da vicino, ed in qualche modo partecipare con lo spirito, a

quel formidabile processo rivoluzionario che poneva le basi di una nuova società umana. Fui

testimone della profonda trasformazione che la rivoluzione andava operando nella enorme massa

della popolazione sovietica. Questa massa, che per secoli era stata inerte, passiva, subiva ora un tale

rimescolamento da mettere in libertà tutte le immense energie latenti in essa. Il talento naturale, così

grande nei russi, era stato risvegliato, lo spirito di iniziativa stimolato. L'intero paese era in un

fermento enorme. I giovani russi mangiavano e vestivano male, è verissimo, ma in compenso la loro

vita intellettuale aveva un ritmo ed una ampiezza sconosciuti alle altre gioventù europee. Essi

discutevano di grandi problemi, interessanti l'intera umanità, ed agivano per la loro soluzione. Al

sentir vantare le comodità materiali di cui si godeva in altre parti del mondo sorridevano con

disprezzo: a suo tempo quelle comodità le avrebbero acquistate anch'essi, ma ora avevano altro a

che pensare. Nell'atmosfera ardente in cui si muovevano, le necessità dello spirito avevano preso il

sopravvento su quelle materiali. Strano paradosso di un regime le cui norme di vita si dicevano

fondate su una filosofia materialistica.

Questo fervore di attività, questa vita spirituale così intensa, era certamente una delle ragioni del

fascino che la Russia esercitava sullo straniero che vi dimorasse a lungo, che avesse occasione di

stare a contatto dei giovani e che fosse capace di intendere la vita che gli si svolgeva attorno.

Qui, senza distinzione di razze, di colore, di nazionalità, tutti lavoravano alacremente a mettere le

fondamenta di una nuova, rivoluzionaria forma di convivenza sociale. Ci si sentiva ringiovanire. Si

tornava con la mente agli ideali di giustizia e fratellanza umana che ci avevano appassionato fin da i

primissimi anni della giovinezza quando il nostro poeta cantava « ell'è un'idea ful¬gente di giustizia

e di pietà ! ». Quegli ideali generosi erano, allora, stati tacciati e più tardi scherniti. Ma ecco che qui

in Russia si lottava aspramente perchè divenissero una realtà vivente.

Di estate, talvolta, mi recavo in vacanza in Italia. Appena oltrepassata la stazione di Niegoroloie e

messo piede in Polonia, lo sguardo era rallegrato dalla vista delle persone ben vestite e dei buffet

dei ristoranti rigurgitanti di ogni ben di Dio, ma non era più l'atmosfera pura ed ardente di Mosca.

In Germania, poi, lo spettacolo delle strade di Berlino, con i tanti segni di corruzione, mi disgustava

profondamente, contrapponendosi alla modestia, alla decenza della folla affaccendata che, a guisa

di fiumana, si riversava lungo i marciapiedi delle strade di Mosca.

Fuori di Russia, la gente si preoccupava solo di cose personali, ed io sentivo come restringersi

l'orizzonte del mio spirito. Il mio cerchio intellettuale, man mano che mi avvicinavo all'Italia, si

andava sempre più impiccolendo, dandomi come la sensazione di una crescente asfissia. Giunto a

Roma, esso si trovava circoscritto dalle pareti domestiche: nulla più interessava, nulla poteva

interessare, all'infuori della propria famiglia.

* * *

A promuovere quella profonda trasformazione delle popolazioni sovietiche da una massa amorfa,

inerte, ad una massa attiva, in pieno fermento, carica di energie, penso che abbia avuto gran parte la

politica della samocritica.

Certo sarebbe stupido pretendere che in quel periodo di costruzione rivoluzionaria fosse lecito al

privato cittadino discutere le idee fondamentali della politica sovietica o le direttive che venivano

dagli organi centrali del partito. Quelle idee, o diciamo pure quei dogmi, erano il presupposto stesso

della rivoluzione, rappresentavano quasi la carta costituzionale dello stato sovietico e si comprende

perciò che non ne fosse consentita la discussione. Ma era pienamente consentito discutere il modo

con cui quelle idee o direttive dovevano esser tradotte in pratica. Anzi la discussione era imposta

come dovere di ogni cittadino. In questo, per l'appunto, consisteva la politica della samocritica:

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autocritica, diremmo noi. In tutti gli uffici, in tutte le aziende, in tutte le istituzioni sovietiche,

qualunque fossero, da un laboratorio scientifico ad un'officina, da un ente pubblico ad una bottega,

da un teatro ad un ristorante, da un ospedale ad una farmacia, avevan luogo periodiche riunioni,

presiedute dai capi, dove si discutevano liberamente le varie questioni attinenti al servizio. Tutti gli

interessati a quel dato servizio vi prendevano parte. In questo modo anche il più modesto dei

collaboratori aveva la possibilità di rilevare errori, discutere programmi e suggerire idee o nuovi

metodi di lavoro. Queste riunioni cui si dava il nome di soviescianie o sobranie si tenevano quasi

giornalmente. Io stesso vi ho preso parte innumerevoli volte. Generalmente non veniva posto alcun

limite di tempo e perciò, di solito, duravano a lungo, spesso troppo a lungo. Il più delle volte si

tenevano di sera ed allora si protraevano fino alle più tarde ore della notte, senza che fossero

interrotte nemmeno all'arrivo dell'immancabile tè, che veniva portato in giro insieme a fettine di pan

di segala ricoperte di caviale.

Non è a dire, però, che il sistema non presentasse inconvenienti. La critica era spesso eccessiva,

talvolta anche fatta da persone che non avevano alcuna competenza a discutere degli argomenti da

esaminare o che, se pure competenti, non li avevano studiati preventivamente. Spesso anche il

timore delle critiche , paralizzava l'opera dei capi, o comunque ne diminuiva il senso di

responsabilità, spesso le conclusioni erano affrettate, prese senza una ponderazione sufficiente, e

perciò errate, specialmente nel caso abbastanza frequente che i capi non sapessero guidare

proficuamente la discussione o valutarne i risultati. Conseguenza inevitabile era un cambiar

frequente di programmi, di idee, di progetti. Si capisce, perciò, che nel mio proprio campo tecnico

assai spesso fossi intollerante di un tal sistema di critica così contrario alle abitudini dei paesi aventi

un'organizzazione tecnica già ben progredita, dove, scelta la persona capace di dirigere un'azienda o

una qualsiasi istituzione, la si lascia libera, entro i limiti fissati alle sue attribuzioni, di svolgere

sotto la sua responsabilità il compito che le è assegnato, e dove, anche quando sia prescritto di

ascoltare il giudizio di particolari organi consultivi, questo avviene limitatamente a questioni di

particolare importanza e seguendo norme ben definite. Un sistema di critica non disciplinato, quasi

da dilettanti, esteso a tutta l'opera quotidiana sarebbe stato per noi un inutile, anzi dannoso

impaccio. Ma questo non era il caso della Russia. In Russia era quasi tutto da fare di sana pianta.

Non vi erano abbastanza operai qualificati, nè ingegneri, nè amministratori provetti,nè soprattutto

capi sufficientemente preparati al loro compito. In quel tempo i quadri dell'industria erano ancora da

formare e, a conti fatti, si doveva riconoscere che quel sistema di disordinate discussioni in cui

spesso consisteva la samocritica era ancora, nelle condizioni della Russia, il miglior mezzo per

permetterne la formazione. Quella critica, sia pure eccessiva, di tutto ciò che formava l'oggetto del

lavoro quotidiano, permetteva alle persone più capaci di farsi avanti, e consentiva agli organi

centrali del governo di controllare l'operato dei capi comunisti prescelti a dirigere le varie aziende,

controllo indispensabile, data l'impossibilità di trovare in quel tempo un sufficiente numero di capi

sperimentati in cui si potesse aver fiducia. Ma è probabile che, una volta formati i quadri, a quel

sistema di critica convenisse sostituirne un altro più razionale ed efficace.

Ma sarebbe, a mio avviso, sminuire l'importanza dell'istituto della samocritica, considerarlo solo dal

punto di vista della sua immediata utilità pratica nello sviluppo delle varie attività della vita

sovietica. Che, nonostante i suoi gravi difetti, contribuisse al miglioramento della produzione è

certo, ma di gran lunga maggiore era, io credo, la sua importanza come mezzo di educazione

politica. Questo abituarsi del comune cittadino ad esaminare tutto e dare il suo parere su tutto,

questo abituarsi a ricercare le deficienze di un programma di lavoro o del modo come esso era

messo in esecuzione, costituiva davvero uno stimolo enorme di tutte le intelligenze. Lo spirito di

iniziativa ne risultava eccitato, la stessa dignità individuale accresciuta. Ecco un altro dei paradossi

della rivoluzione sovietica che pochi, credo, hanno rilevato. La propaganda ostile ci rappresentava

la Russia come un paese dove ogni iniziativa individuale fosse repressa, dove l'individuo fosse

ridotto a poco meno di uno schiavo in balìa di un tirannico potere statale, mentre invece la mia

esperienza di cinque anni mi portò alla conclusione che in Russia, almeno nel campo della

produzione, veniva lasciato al singolo individuo una libertà di scelta, di iniziativa, di critica, che in

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molti casi, a me straniero, pareva eccessiva, e lo era infatti. Tanto meno poi si può parlare di

abbassamento della dignità personale, se perfino lo sguattero della cucina di un albergo, o il

facchino che lustrava i pavimenti delle camere, poteva, nelle periodiche riunioni di servizio,

liberamente discutere di piani di lavoro e del modo come attuarli.Negli altri paesi ad un inserviente

si fissano il compito da eseguire ed il salario e basta .

In Russia nessuno poteva criticare i principii direttivi della politica sovietica, questo è verissimo.

Ma chiunque poteva libera¬mente rivolgersi alla Pravda o all'Izvestia per denunziare un sopruso od

un inconve¬niente. Nell'Italia fascista, per contrapposto, l'insincerità, la menzogna erano elevate a

regola di vita, e sotto il pretesto che costituisse una forma larvata di antifascismo ogni critica, anche

la più innocua, veniva soffocata, specialmente quando minacciava di ledere gli illeciti interessi di

qualcun delle cricche dominanti. Ricordo il caso tipico di un giornale di Roma, per giunta

ultrafascista, il quale venne sequestrato pei aver pubblicato alcune lettere di privati cittadini che

criticavano la progettata riforma del servizio auto-tramviario !

Che cosa sia oggi divenuto di quella politica della samocritica non so, ma qualunque trasformazione

abbia subito, sta il fatto che essa contribuì alla pienezza di vita dello gioventù sovietica. I giovani

russi erano chiamati a partecipare con tutte le loro forze alla costruzione della nuova società.

Ciascuno aveva la sensazione di essere non già uno strumento cieco, ma un artefice consapevole di

essa.

Questa gioventù era allegra, entusiasta, pur in mezzo a gravi preoccupazioni, pur dovendo

sopportare condizioni di vita durissime. Dalle mie finestre, all'angolo della Lubianca, vedevo

passare, nelle gran¬di ricorrenze della rivoluzione, il primo maggio, il sette novembre, cortei

intermi¬nabili di giovani che si dirigevano verso la piazza Rossa. Nelle soste del corteo essi

scherzavano, cantavano, ballavano, davano sfogo, decentemente, alla loro esuberanza di vita. Alla

fine del 1936, quando tornai in Italia, riassumendo le mie esperienze di cinque anni di vita sovietica,

espressi agli amici il mio pensiero su quella gioventù con queste parole: « se una guerra scoppiasse,

l'Eu¬ropa farà i conti con essa».

Ed ho avuto ragione.

Kremlioskaia Balnitza

ALLA fine del febbraio 1933 improvvisa¬mente mi ammalai. Un insospettato attacco di

appendicite, da me trattato come una banale indisposizione viscerale, condusse alla perforazione

della appendice e ad un inizio di peritonite.

A casa mi trovavo solo. Trascorsi la notte delirando per l'alta febbre. La mat¬tina seguente, appena

venne Niura, la mia domestica di quel tempo, feci telefonare per un medico.

Questi giunse dopo qualche ora. Era dell'ospedale del Kremlino. Visto di che si trattava, concluse

che non era affar suo. Avrebbe fatto venire un chirurgo.

Il chirurgo arrivò. Visitatomi scosse la testa, ed in russo, credendo che non com¬prendessi nulla,

annunziò a Niura che il caso era molto grave. Bisognava operare subito. Ma difficilmente sarei

sopravvissuto all'operazione. Andò via dicendo che avrebbe fatto venire il chirurgo primario

dell'ospedale. Così nel pomeriggio di quel giorno feci conoscenza col dott. Oc'kin.Oc'kin mi riuscì

subito simpatico. Era un uomo sulla quarantina. Faccia aperta, biondo, con gli occhi azzurri.

Vestiva bene, quasi con eleganza.

Mi visitò anche lui; poi sorridendo mi disse: « Faremo subito l'operazione ». E telefonò all'ospedale

per far venire l'autoambulanza.Ebbi appena il tempo di mettere un po' in ordine le mie cose con

l'aiuto degli ingegneri italiani, che frattanto eran venuti a casa. Ad uno di essi consegnai una lettera

per mia moglie e diedi istruzioni su ciò che vi era da fare nel caso che non fossi uscito vivo

dall'ospedale.

Giunta l'auto-ambulanza, fui adagiato su una barella e trasportato. Ricordo Niura sulla porta che mi

guardava costernata ed i vicini di casa nel cortile, che, in silenzio, facevano ala al passaggio.

Pochi minuti di tragitto e fummo al¬l'ospedale. Nell'entrarvi ebbi subito l'impressione di trovarmi in

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un ospedale mo¬dello, dove tutto era nitido e ben ordinato. Mi trasportarono nella camera

assegnatami, dove un medico venne a radere la parte che doveva essere operata. Poi, rimesso sulla

lettiga, fui portato nella sala operatoria.

Una gran sala, tutta bianca, illuminata a giorno. Vidi nel centro, attorno al tavolo operatorio, quattro

persone in fila, rivestite di camici di un biancore immacolato, con le mani inguantate, tese in alto.

Fui disteso sul tavolo. Poi qualcuno mi coprì la testa con qualche cosa. Sentii come una pioggia di

etere sul volto, ed ebbi l'impressione di sprofondare ed essere dolcemente assorbito in un abisso. E

fu tutto: non avvertii più nulla.

Quando riaprii gli occhi, vidi davanti a me le figure di Feldmann, il capo della Dirigiablestroi, e del

dottor Sander, il no¬stro medico. Ricordo di aver domandato loro « come stavano », ma le palpebre

erano pesanti e richiusi di nuovo gli occhi. Nè vidi più alcuno. Più tardi nella notte mi accorsi che

una piccola donna bruna mi teneva per le mani. Capii che non mi era consentito di muovermi.

* * *

L'operazione era stata grave. Alcuni giorni dopo Oc'kin mi parlò di un flemmo¬ne che si era

formato. Aperto l'addome sul davanti, l'aveva trovato pieno di pus, e subito si era deciso ad operare

un secondo taglio di dietro per fare il drenaggio. Terminata l'operazione, egli e gli altri chirurghi

conclusero che non sarei sopravvissuto. L'operazione era stata fatta troppo tardi.

I giornalisti, specie quelli americani, che si erano subito precipitati all'ospedale a chiedere notizie,

non vollero sentire altro. Era un annunzio sensazionale da comunicare subito ai loro giornali. Si

affrettarono a telegrafare in Europa ed in America che ero moribondo; ma uno di essi, per far più

presto ed esser certo di giungere prima degli altri a dar la notizia della mia morte imminente,

telegrafò addirittura che questa era già avvenuta. Così, qualche settimana più tardi, ebbi la

soddisfazione di leggere il mio necrologio in un giornale degli Stati Uniti.

Il contenuto non era spiacevole.

* * *

Rimasi una settimana fra vita e morte. Nei primi tre o quattro giorni, quando da un momento

all'altro si aspettava la fine, fu un accorrere al mio capezzale di amici, conoscenti, autorità, che

venivano ammessi liberamente, in qualunque ora, a darmi l'estremo saluto. Poi, visto che non

morivo, per alcuni giorni non si fece entrare più nessuno nella mia camera, all'infuori dei medici e

delle infermiere.

Fui curato, assistito, come non avrei potuto esserlo in nessuna altra parte del mondo. Medici,

infermiere, tutti si prodi¬garono attorno a me per tirarmi fuori di pericolo ed affrettare la mia

guarigione. Non fui lasciato solo un minuto, nè di giorno, nè di notte.

Mattina e sera, per molti giorni di se¬guito, si riunirono attorno al mio letto a consulto i migliori

chirurghi e medici di Mosca. Fra gli altri venne anche il medico di Gorki, il dottor Levin, che poi

nel 1938 fu processato insieme a Tukacewski e fucilato.

L'ospedale era attrezzatissimo. Gli ap¬parati medici di primissimo ordine e tenuti in modo perfetto.

Le sale, i corridoi, eran belli, ariosi, lucidi, eleganti. Le cure vi erano meticolose; ogni due o tre

giorni veniva un medico a prelevare il sangue per farne l'analisi. Al più piccolo disturbo ac¬correva

uno specialista. Così divenni fami¬liare con tutti i medici del reparto: il dottor Niesnievic, polacco,

il dottor Pogliaccik, il dottor Kotlaroff, il dottor Kantor, il dottore Ginsburg. Più simpatici di tutti

erano Oc'kin, che mi aveva operato, ed il professore Rosanof, quello stesso che ave¬va operato

Lenin.

Attorno al mio capezzale si alternavano due infermiere, siestrì (sorelle), come dicevano in Russia.

Gentili, premurose, affettuose come potrebbero essere delle persone di famiglia. Si chiamavano

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Veda e Elisa¬betta. Tutte e due erano maritate. Ad Eli¬sabetta ed a suo marito mi legai poi con

affettuosa amicizia.

La disciplina nell'ospedale era rigorosa e l'ordine assoluto. I visitatori erano ammessi solo in una

data ora del pomeriggio, tre volte la settimana. Prima di entrare si faceva loro obbligo di indossare

un camice, fresco di bucato, chiuso fino al collo.

La camera che occupavo era posta in uno degli angoli dell'edificio, tutta linda, tinta di verde in

basso, e bianco in alto. Dal mio letto vedevo un po' di cielo e la cupola di una chiesa vicina.

La mia giornata passava regolarmente. Tutto era stabilito ed eseguito con grande puntualità. Alle

sette del mattino comin¬ciavano le pulizie; la bocca, le mani, il volto, spesso gran parte del corpo

con acqua ed aceto aromatico. Quando fu possibile, il bagno. Seguiva la colazione con cascia, pane

bruscato, burro, caffè latte, caviale, marmellata. Poi veniva il barbiere. Alle dieci la medicazione.

Per il pranzo come per la cena mi veniva presentata una lunga li¬sta di vivande, da scegliere.

Alle cinque del pomeriggio veniva a visitarmi il sole, e dopo tanti mesi che non l'avevo visto, era

proprio una gioia sentirsi avvolto dai suoi raggi dorati.

Ai primi di aprile, dopo più di un mese trascorso all'ospedale, mi ero talmente abituato alla vita

tranquilla che vi si conduceva, che pensavo perfino con dispiacere al giorno in cui ne sarei uscito.

Avveniva come su un piroscafo, verso la fine di un viaggio, quando, avendo finito di conoscere un

po' tutti a bordo, dispiace di separar¬sene. Qui, all'ospedale, ormai conoscevo uno per uno medici,

infermieri, inservienti. Conoscevo anche molti ammalati e scam¬biavo visite con loro.

Non mancavano trattenimenti. Anzitutto il « Club », una sala, situata giusto in fac¬cia alla scala,

dove i convalescenti si riu¬nivano, mattina e sera, per giocare a scac¬chi o a carte. Poi, al quinto

piano, il Solarium, da cui si godeva la vista del cielo e delle guglie del Kremlino. Sdraiati

como¬damente su divani, vi si poteva leggere ed ascoltare la radio, ma spesso vi incontravo

ammalati che l'odiavano quanto me e si affrettavano a chiuderla. Nei rari giorni in cui vi era sole, o

in cui almeno non pio¬veva nè tirava vento forte, era lecito re¬carsi a passeggiare per un'ora sulla

terrazza. Là incontravo di solito un signore che parlava molte. lingue, ed un po' anche l'ita¬Iiano. Si

chiamava Abramof. Aveva fatto l'editore di Gorki, e perciò era stato molte volte in Italia. Con

Abramof facevamo lun¬ghe chiacchierate. Era un veterano dell'ospe¬dale, dove si trovava da

quattro mesi, e perciò era informato di tutto, e mi rac¬contava di questo o quell'ammalato, di questo

o quel caso straordinario. Faceva grandi elogi di Oc'kin, di cui diceva non esservi l'eguale per la

prontezza di deci¬sione nell'atto di operare.

Interessanti erano anche i miei compagni di scacchi. Uno di essi, operato di otite, bravo giocatore,

mi divertiva molto perchè, sapendo di avere una bella mano, la faceva volteggiare con gesti eleganti

sulla scacchiera nel muovere i pezzi. Di un altro, assai sim¬patico, con le mani grosse ed i capelli

arruffati, seppi che era un professore «ros¬so », come si diceva in Russia. Insegnava economia o

qualche cosa di simile all'univer¬sità; ma, quindici anni prima, non era stato altro che un semplice

operaio meccanico.

Le mie conoscenze erano sparse tra il secondo piano, dove mi trovavo io, ed il quarto, dove riuscivo

a salire anche senza ascensore. Fra gli altri, due bambini, l'uno di otto anni, che passava il suo

tempo a giocare, l'altro di undici, che non faceva altro che leggere. La camera numero 75 era

occupata da due donne. Di faccia a me vi eran, poi, due giovani, all'uno dei quali avevano amputato

una gamba congelata, all'altro un piede. Li vedevo continuamente in giro, gioviali, pieni di buon

umore, simpaticissimi.

Tutti i ricoverati erano membri impor¬tanti del partito comunista o, comunque, avevano acquistato

benemerenze pubbliche. Nessuno straniero era stato mai ammesso prima di me.

Un mese e mezzo dopo di esservi entrato lasciai l'ospedale. Ero guarito. Qualche giorno prima il

professore Rosanof, venuto a visitarmi per l'ultima volta, aveva esaminato le ferite che si

cicatrizzavano, e colpendomi con la mano sul ventre, aveva detto in russo: « Adesso ci si può

ballare sopra». Poi aveva aggiunto in francese:

«Vous étes un cas très intéressant ». Gli domandai perchè, ed egli rispose: «Parce que vous étiez

déjà un peu mort». E se ne era andato sorridente ed allegro, come sempre.

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Lasciai l'ospedale del Kremlino portando con me un ricordo incancellabile delle cure che così

amorevolmente e sapientemente mi erano state prodigate. Quell'ospedale di eccezione non aveva

forse l'eguale in tutta Europa e nemmeno in America per la perfezione dell'assistenza medica, ma

era certo unico al mondo per il modo affettuoso con cui medici ed infermieri assistevano gli

ammalati, pur non avendo alcun interesse materiale a farlo.

* * *

A Mosca ebbi occasione di visitare altri ospedali, dove erano stati ricoverati alcuni miei amici russi.

Non avevano il lusso dell'ospedale del Kremlino; però anch'essi erano ben attrezzati. L'assistenza,

del tutto gratuita, era quanto di meglio si poteva desiderare.

L'organizzazione dei servizi medici nell'Unione Sovietica è certamente una delle

più progredite del mondo. Specialmente mi parve che fossero organizzati bene gli am-bulatori per il

pronto soccorso. Ebbi ma¬niera di constatarlo di persona, una volta che in casa mia De Martino, un

tecnico venuto con me in Russia, fu colto da un improvviso malore. Tutti attorno rimanem¬mo

spaventati. Corsi a prendere acqua da spruzzargli sul volto, ma un amico russo pensò che la miglior

cosa fosse di telefo¬nare al più vicino posto di pronto soccorso (ve ne erano molti distribuiti nei

vari quar¬tieri della città). Cinque minuti dopo giun¬geva in casa il dottore: una donna, prov¬vista

di tutto ciò che poteva occorrere. De Martino, nel frattempo, si era riavuto; ma la medichessa, ad

ogni buon fine, gli fece un'iniezione di qualche cosa. Mentre stava per andar via, le domandai cosa

ci fosse da pagare. « Nulla», fu la risposta.

* * *

Vi erano in Mosca pronto-soccorsi perfino per le bestie, anch'essi gratuiti.

Ne visitai uno, e dovetti riconoscere che era più pulito e meglio arredato di taluni, da me incontrati

girando per il mondo, destinati non già a bestie ma ad esseri umani.

Partinaia cistka

QUANDO uscii dall'ospedale, trovai che il Constructor Biurò della Dirigiablestroi, men¬tre io ero

ammalato, si era trasferito alla galleria della Petrovka, una delle principali strade del Centro di

Mosca. Ivi rimase durante tutta l'estate.

Si accedeva agli uffici da un ballatoio che correva tutto intorno lungo i quattro lati interni. Dall'alto,

attraverso il lucer¬naio, il sole avvampava. L'estate a Mosca dura poche settimane ed è di solito

assai bella, specialmente nelle notti quasi com¬pletamente chiare fra giugno e luglio. In quel breve

periodo può fare molto caldo. Il sole, tanto sospirato durante i lunghi mesi invernali, finiva con

l'essere perfino fastidioso in quell'ultimo piano della galleria della Petrovka.

Una sera, nell'uscire dall'ufficio per recarmi a casa nel mio piccolo appartamento all'angolo della

Lubianca, passando davanti al quadro degli ordini di servizio appeso alla parete presso l'uscita, vi

scorsi un avviso piuttosto appariscente. Mi fermai a leggere quel poco che mi riusciva di

interpretare. Vi era una lista di nomi a me noti: ingegneri con i quali da oltre un anno avevo

dimestichezza: Paliniska, Matunin, Faxermann, ecc. A turno ciascuno di essi aveva ricoperta la

carica di mio sostituto, qualche cosa come vice direttore o forse un po' di più. In russo si diceva «

samiestitel». Era sempre scelto fra i membri del partito. Formalmente era subordinato a me, ma, in

pratica, per le cose amministrative di cui più particolarmente si occupava, prendeva istruzioni

diretta-mentre dal capo dell'organizzazione, che naturalmente era comunista anche lui.

A fianco di ciascun nome compariva una data. Seguivano parole che non comprendevo. Il russo

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riesce tremendamente difficile per un italiano. Perciò non è da meravigliarsi che, sebbene avessi già

trascorso due anni nell'Unione Sovietica, non balbettassi allora che poche parole di quella bella

lingua. Si aggiunga che le difficoltà ad essa intrinseche venivano accresciute con l'abitudine, invalsa

dopo la rivoluzione, di comporre nuovi vocaboli mettendo insieme le radici di varie parole. Per

decifrare completamente l'avviso, dovetti ricorrere alla mia segretaria. Si chiamava Mèla Savin, una

ragazza assai intelligente e svelta, che quando mi faceva da interprete aveva l'abilità di tradurre

quasi parola per parola ciò che si diceva, senza che chi parlava dovesse per questo interrompersi.

Mèla mi spiegò che si trattava della cistka del partito, epurazione, diremmo noi altri, ma io

preferirei la traduzione letterale della parola russa che in italiano suona « pulizia». Anche nelle case

meglio ordinate, dove si cerca di mantenere accuratamente pulita ogni cosa, è inevitabile che alla

fine un po' di sudiciume si accumuli qua e là. Di tanto in tanto bisogna pur decidersi a fare una

pulizia più a fondo. In Russia la ripulitura a fondo del partito comunista si faceva anche essa di

tanto in tanto, tutte le volte che Stalin lo credeva necessario.

Fin qui nulla di straordinario. Ma straordinario, e per me una sorprendente novità, era che questa

epurazione si facesse in pubblico. Proprio così: in pubblico. Mèla mi spiegò che da alcuni giorni

una commissione inviata dagli organi dirigenti del partito si era installata presso la Dirigiablestroi

per prendere in esame e discutere pubblicamente l'operato dei comunisti che lavoravano presso di

noi. Questi comunisti, nella nostra come nelle altre aziende, non erano molti, ma ne costituivano,

direi, lo stato maggiore, occupando i posti di più grande responsabilità. Commissioni analoghe, mi

diceva la segretaria, eseguivano un analogo lavoro di revisione presso tutte le organizzazioni,

officine ed uffici dell'Unione Sovietica.

« Posso assistere ad una di queste riunioni ?». «Ma certo », rispose Mèla. «L'accompagnerò io

stessa». Che fossi curioso di vedere come procedesse in pratica questa « cistka » si comprende; ma,

a dir il vero, la mia curiosità era acuita dal fatto che conoscevo personalmente i comunisti di cui

dovevano essere discusse pubblicamente le buone e le male fatte.

Sembrandomi strano, però, che uno, come me, non comunista e per giunta straniero, potesse venir

ammesso ad una riunione di carattere, direi, così intimo, volli farmi confermare dalla direzione

stessa della Dirigiablestroi il permesso di intervenirvi. Mi recai dal sostituto del capo. Si chiamava

Matson. Era stato, dicevano, un pezzo grosso della G.P.U., , da cui proveniva, preceduto dalla fama

di essere persona molto energica. « Tavarisch Matson (era il modo comune con cui ci si soleva

indirizzare alle persone in Russia), Tavarisch Matson, credete che possa intervenire alla riunione di

domani per la cistka del partito ? ». « Senza dubbio », rispose, «ne avete il pieno diritto. Qualunque

cittadino può assistere e prendervi parte, anche se non abbia nulla da fare col partito o con la nostra

organizzazione ». «Anche uno straniero ? ». « Si, anche uno straniero ».

Me ne andai soddisfatto. L'indomani, dopo il lavoro, nell'ora stabilita, mi recai nella sala delle

riunioni. Era la più spaziosa delle camere disponibili in quell'ultimo piano della galleria della

Petrovka. Quando entrai era già gremita. Vi erano tutti i giovani ingegneri con i quali già da oltre un

anno avevo consuetudine di lavoro e molte altre persone che vedevo per la prima

volta. Gentilmente mi fecero passare avanti. Due sedie vennero offerte, in una delle prime file, a me

ed alla segretaria. Ma la sala era talmente assiepata di persone che molte dovettero rimanere in

piedi.

Avanti a noi, dietro un lungo tavolo sopraelevato sul pavimento, siedevano i

membri della commissione: tutti volti sconosciuti. Ad un lato del tavolo, alla nostra sinistra, era una

specie di podio, sul quale, invitatovi dal presidente della commissione, salì Paliniska.

Conoscevo Paliniska da un anno e mezzo. Era stato mio sostituto per parecchi mesi.

Sulla trentina, alto, magro, ossuto, i capelli biondi, gli occhi chiari: un vero russo.

Non aveva, forse, una grande intelligenza, e nemmeno, credo, una adeguata preparazione per il

posto che aveva ricoperto, ma in compenso era semplice, diritto, schietto. Parlava sempre cori un

tono pacato di voce; un Paliniska eccitato, nervoso, non avrei saputo immaginarmelo.

Anche ora Paliniska era tranquillo. Senza enfasi, senza gesticolare, prese ad esporre

tutto quanto aveva fatto negli ultimi due anni. Parlò dei vari uffici tenuti, dei vari incarichi

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disimpegnati, delle difficoltà superate. Mentre egli parlava, Mèla mi andava man mano traducendo,

senza darsi alcun pensiero se il suo cicaleccio infastidisse o pur no i vicini, i quali pazientemente

tolleravano, con quella indulgenza che è così caratteristica dei russi.

Quando Paliniska ebbe finita la sua esposizione, il Presidente si rivolse all'assemblea: vi era alcuno

che volesse fare osservazioni, critiche o accuse contro il compagno Paliniska ? Altro se ve ne erano!

Qua e là nella sala si levarono in alto delle mani. Una dopo l'altra le persone parlarono, dal posto

stesso dove si trovavano. Taluni si limitavano a porre delle domande: « perchè il compagno

Paliniska in tale occasione aveva fatto così piuttosto che colà ? »; oppure, « perchè aveva omesso di

fare la tal cosa ? ». Altri contestavano degli errori; altri, più severi, formulavano accuse di cattiva

volontà o addirittura di inettitudine. Le critiche investivano non solo l'attività pubblica di Paliniska

come membro del partito, non solo la sua attività amministrativa o tecnica, ma la sua stessa vita

privata, familiare. L'intero procedimento mi dava l'impressione come di un tribunale popolare. Mi

colpiva, fra l'altro, la franchezza delle accuse, la mancanza di acrimonia con cui venivano espresse

e, ad un tempo, la calma con cui erano accolte dall'imputato, anche quando, come sembrava a me,

fossero eccessivamente personali. Tutta la vita privata e pubblica di Paliniska veniva messa allo

scoperto; tutte le sue azioni discusse e non solo le azioni ma talvolta anche l'inazione, la passività, la

mancanza di iniziativa. E probabile che non tutte le accuse fossero giuste, come ad esempio quella

di essere stato troppo indulgente con il proprio padre che, dalla discussione, risultò essere un

contadino refrattario alle idee comuniste. Ma Paliniska aveva modo di discolparsi, replicando.

Le accuse, le contestazioni, le repliche si protrassero a lungo, forse un'ora, forse più, e di tutto la

commissione prese nota. Dopo si passò alla parte del procedimento che direi più piacevole, quando

il presidente domandò ai presenti se vi fosse alcuno che volesse parlare in favore di Paliniska.

Anche stavolta si levarono in alto delle mani qua e là, nella sala. Paliniska venne difeso e le sue

benemerenze enunciate, dopo di che egli abbandonò il podio e un altro venne chiamato al suo posto.

Nell'uscire dalla sala domandai a Mèla: « Ebbene, quali sono state le conclusioni ? ».

« Non vi sono ancora conclusioni, rispose. La Commissione deciderà in altra sede, dopo che avrà

confrontato i fatti risultati dalla discussione di oggi con i rapporti e le segnalazioni dei vari organi

del partito, compresa la G.P.U. Forse dovrà indagare su qualcuno dei fatti. Soltanto dopo deciderà!

». « Ed in che cosa potrà consistere questa decisione ?».« Dipende », disse Mèla, « da ciò che in

definitiva sarà risultato sulla condotta pubblica e privata di Paliniska. Potrà essere riconfermato

membro del partito, oppure sospeso per un determinato tempo, od anche retrocesso a candidato. O

forse, anche, potrebbe essere rimosso dalla carica attuale. Se vi fossero contro di lui risultanze gravi

potrebbe essere espulso dal partito ».

Povero Paliniska! Fare il comunista in Russia non era così comodo come fare il fascista in Italia.

Alcuni anni fa vidi a Chicago un film molto divertente, edito dall'Unione Sovietica stessa, dove si

faceva una gustosa satira del capo comunista di un piccolo centro industriale russo. Ecco una cosa

che non sarebbe mai potuta avvenire nell'Italia fascista, e tanto meno poi nella Germania nazista,

dove ogni capo, grande o piccolo, era tabù!

Nel periodo eroico della costruzione in Russia, l'appartenere al partito non era niente affatto un

comodo espediente per procacciarsi cariche, ricchezze, onori. Non si trovavano perciò molti,

all'infuori dei giovanissimi, che aspirassero ad entrarvi. Avevo, fra i miei amici, un ebreo, piccolo,

grassotto, dalla bella faccia paffuta, rosea, gli occhi celesti. Era il marito di Elisabetta Simeovna,

ch'era stata mia infermiera all'ospedale. Occupava un posto amministrativo in una organizzazione

attinente a non so più quale industria di metalli. Era molto intelligente, e credo che facesse assai

bene il suo lavoro, a giudicare dallo stipendio che gli veniva corrisposto. Non apparteneva al partito,

ma era comunista convinto ed entusiasta, sempre pronto ad esaltare la immensa opera di

ricostruzione cui il partito aveva posto mano. Un giorno gli domandai: « Come mai, Abramo

Jacovic (così si chiamava), con tutto questo vostro entusiasmo, non siete entrato nel partito ? ». « Ci

ho pensato tante volte, mi disse, da anni, ma non ho saputo mai decidermi a farne domanda. Certo

se lo avessi fatto, a quest'ora avrei un posto di maggiore importanza di quello attuale. Ma non me la

son sentita di perdere la mia libertà. t una vita di duri sagrifici. Non si è mai padroni del proprio

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tempo. Se mi piacesse farlo, oggi stesso potrei abbandonare il posto che ho e cercarmene un altro,

trattando liberamente le condizioni del mio salario; potrei, se me ne venisse la voglia, lasciare

Mosca ed andare a stabilirmi a Leningrado o dove più mi piacesse. Non dovrei dar conto a nessuno.

Ma, se fossi membro del partito, tutto sarebbe diverso. Mi assegnerebbero un posto, e dovrei

restarci, volente o nolente. Mi si potrebbe all'improvviso ordinare di partire, questa sera stessa, ad

esempio, per Arcangelo, o per gli Urali, o per qualunque altro posto dove si credesse più utile la mia

opera. Dovrei ubbidire, senza fiatare. No, in verità, non me la sento ».

Abramo jacovic aveva ragione. In Russia chi voleva esser libero di scegliere l'occupazione e la

residenza più confacentiglisi, chi voleva disporre liberamente dei suoi periodi di riposo, chi voleva

vivere senza grattacapi, ed in santa pace, doveva rinunziare ad entrare nel partito. Del resto nessuno

lo sollecitava a farlo. Il partito costituiva una infima minoranza della nazione, una vera e propria

élite di persone, alle quali, se pure talvolta eran concessi piccoli privilegi, come a soldati, d'altra

parte veniva imposta una ben dura disciplina. Non si entra volontariamente in una milizia, in tempo

di guerra, se non si ha voglia di combattere e rischiare la vita; né si diventa sacerdoti, se non si ha

fede. Questo non vuol dire, però che non vi siano talvolta soldati traditori da punire o sacerdoti

indegni da espellere.

Aspetti della vita culturale

NEI sei anni che sono stato nell'Unione Sovietica ebbi occasione di parlare in pubblico una dozzina

di volte, senza contare alcune lezioni date in un istituto universitario di Mosca.

Una conferenza in Russia, qualunque ne fosse il tema, tecnico, letterario, artistico, era sempre una

cosa molto seria. Già il pubblico stesso cominciava con l'essere differente da quello che è di solito

negli altri paesi. L'enorme maggioranza erano giovani usciti allor allora dall'officina o -dal

laboratorio, vestiti alla buona, senza cravatta, spesso una blusa al posto della camicia, od una

tolstovka al posto della giacca. Non avrei potuto distinguere, almeno nei primi anni che mi trovavo

in Russia, un operaio da un ingegnere. Guai a giudicare dall'aspetto esteriore: vi eran da prendere

granchi solenni.

Poi c'era questo, che, mentre parlavate, tutti vi tenevano gli occhi addosso, né si lasciavano sfuggire

una sola parola di quello che dicevate. Di persone venute per sbadigliare non ve ne era neppure una.

Ed infine, e questa era la cosa più grave, la conferenza non durava un'ora, ma due o tre, spesso

anche di più, praticamente tutta la serata. Si andava ad una conferenza come da noi si va ad un

teatro.

Ricordo la prima che tenni a Mosca nel gennaio 1926, per invito dell' Ossoaviachim, una grande

associazione che si interessava di aviazione ed altre cose. Mi avevano invitato a parlare della

spedizione polare che allora andavo preparando, e per la quale appunto era andato a Mosca a

conferire con Litvinoff. La sala era gremitissima.

Mentre parlavo mi accorsi che, di tanto in tanto, qualcuno degli ascoltatori scriveva qualche cosa su

un pezzo di carta che, ripiegato in quattro, passava poi a qualcuno della fila avanti. Così di fila in

fila il biglietto arrivava ad una delle persone sedute avanti a me, che, ricevutolo, si alzava e

discretamente veniva a deporlo sul tavolo dietro il quale io parlavo.

Così vidi accumularmisi davanti una quarantina, forse, di tali biglietti. Che cosa contenessero non

sapevo immaginarmelo, ma la spiegazione l'ebbi quando, terminato che ebbi di parlare, Leteisen, il

giovane ingegnere russo che aveva tradotto brano a brano il mio discorso, mi disse:

« Ora faremo una pausa di alcuni minuti per prendere un bicchiere di tè. Dopo potrete rispondere

alle questioni».

Risposi a queste come meglio potevo. Le domande erano le più svariate. La maggior parte

rivelavano la competenza delle persone che le avevano fatte. La discussione durò un'ora, forse più.

Di conferenze, dopo quella prima, ne feci in Russia, come dicevo, molte altre: alla Società di

Ingegneri delle Comunicazioni, alla Società Geografica, al Club Dzerzhinskij, alla Università e

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perfino al Club degli inventori di Mosca. Il procedimento era sempre lo stesso: la conferenza, un

intervallo di alcuni minuti, e poi la pubblica discussione. E' chiaro che con questo sistema sarebbe

stato arrischiato presentarsi insufficientemente preparato davanti ad un uditorio di giovani russi. La

conferenza occupava, come dicevo avanti, praticamente l'intera serata, ma una volta alla M.A.I. a

Mosca, nel 1931, non avendo esaurito l'argomento, mi obbligarono a tornare per altre due sere di

seguito.

I bigliettini contenenti le questioni erano sempre in gran numero: talvolta così grande che alla fine

mi trovavo obbligato a dare risposte evasive e laconiche per potermi sbrigare. Spesso le domande

erano ingenue o uscivano fuori del tema o diventavano generiche; talvolta, anche, eran di carattere

personale, spesso anche divertenti. Ricordo una volta un biglietto che diceva: « Vi fascist ? ». Siete

fascista ?

* * *

L'avidità di sapere di questi giovani russi era veramente grande: una sete di conoscenza che non

aveva riscontro in nessun altro paese del mondo.

Nei primi mesi del mio soggiorno a Mosca, ogni qualvolta visitavo una fabbrica o un laboratorio

scientifico, terminata la visita, venivo sottoposto ad un fuoco di fila di domande: un vero e proprio

interrogatorio che aveva luogo nell'ufficio di uno dei capi della Azienda. Mi si domandava : « Come

fate questo in Italia ? e perchè ? e come ?»; e poi ancora: « Che pensate della nostra fabbrica ? quali

difetti vi trovate ? come credete si possano eliminare ? ». Insomma, sembrava, per così dire, che si

volesse estrarre dal mio cervello tutto ciò che vi era contenuto e che a loro potesse tornare utile.

Devo confessare che in nessun altro paese ho avuto tante occasioni, come in Russia, di misurare la

povertà delle mie conoscenze.

Con questi sistemi è chiaro che i Russi, in tutto ciò che si riferiva a scienza o tecnica, finivano

coll'essere al corrente di quello che si faceva all'estero assai più che noi si immaginasse. Le

informazioni che a loro

affluivano da tutte le parti del mondo sotto forma di libri, riviste, rapporti delle varie missioni

inviate all'estero, erano copiosissime. Nel mio ristretto campo, quando giunsi la prima volta in

Russia, ebbi la sorpresa di trovarvi tradotti e pubblicati la maggior parte dei miei studi. Credevo di

poter dir loro cose nuove ed invece già le conoscevano da un pezzo.

* * *

La diffusione dei libri in Russia è veramente enorme. Fin dalla mia prima visita a Leningrado, pur

in mezzo al desolante squallore che allora si notava nelle strade della bellissima città (si era alla fine

del 1925), venni colpito dal gran numero di librerie. A Mosca, poi, non si percorrevano cinquecento

metri senza imbattersi in una di esse. Ve ne era una grandissima a Kuznietskij Most, dove si

potevano comprare libri inglesi, francesi, italiani, tedeschi, a prezzi relativamente bassi. Quasi, poi,

a spiegare il perchè di questo gran numero di librerie, era cosa assai frequente, andando in autobus,

in tram o nel metro, imbattersi in giovani con un libro fra le mani, assorti nella lettura.

Si potrebbe pensare che questa grande quantità di libri messa a disposizione dei giovani russi si

riferisse quasi tutta a questioni tecniche, o sociali, o di propaganda politica. No: vi erano anche

classici della letteratura di tutto il mondo. Nel 1935, il giorno del mio compleanno, un amico russo,

l'ingegnere Gamber, venne ad offrirmi in dono l'Eneide tradotta e commentata in russo, in una bella

edizione « Academia » del 1933. Apparteneva ad una collezione che portava il titolo: Pamiatniki

mirovoi literaturi. Un'altra volta lo stesso amico mi disse : « Umberto Vikientievic, ho comprato

oggi un libro che vi interesserà», e me lo mostrò. Era un classico italiano del cinquecento, uno dei

minori, che, a dir la verità, non avevo mai sentito nominare, nonostante mi vantassi di essere stato a

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mio tempo fra i migliori allievi del miglior liceo di Napoli. Vi era ben ragione di arrossire davanti

ad un giovane russo che ora si accingeva a leggere la prosa di quel classico tradotta nella sua

propria lingua!

Ma i classici stranieri venivano non solo tradotti in russo, ma anche messi a disposizione degli

studiosi nelle loro lingue originali, in edizioni decorose, rilegate, ed a buon mercato. Io stesso ebbi

così occasione di acquistare alcuni classici francesi ed inglesi che ignoravo.

Questo, cui ho accennato, è un aspetto della società sovietica assai poco conosciuto, che certo

sorprenderà molto. Noi ci saremmo immaginato che questa ardente gioventù, tutta protesa nel suo

formidabile sforzo verso l'avvenire, avesse rinnegato completamente il passato. Ma in realtà il culto

per i classici in Russia è oggi vivo come, ed in un certo senso, anche più che altrove. Nei teatri di

Mosca tutti gli anni si davano centinaia di rappresentazioni di tragedie e commedie di Shakespeare,

di drammi di Schiller, di commedie di Goldoni, di fiabe di Carlo Gozzi. Quanti romani a Roma

hanno assistito ad una rappresentazione di «Re Lear » o della «Dodicesima notte» o dei «

Masnadieri » o della « Locandiera » o della «Principessa Turandot » ? A Mosca praticamente tutti, e

molti, forse, anche più di una volta. E con quanta cura queste opere classiche venivano interpretate!

La messa in scena, la recitazione, erano il risultato di studi e di prove che spesso duravano degli

anni. Gli artisti, avendo col loro salario fisso assicurato il necessario per vivere, potevano dedicarsi

completamente alla loro arte. Onde si raggiungeva tale perfezione che lo straniero, anche se non

avesse capito una sola parola di ciò che gli attori dicevano, era ugualmente avvinto dalla bellezza

dello spettacolo. Ho assistito io stesso, in queste condizioni, ad una rappresentazione del «Re Lear.

», data in lingua yiddish. Un esperto inglese, che vi assistette anche lui, dichiarò che in Inghilterra,

nel teatro shakespeariano, non si era mai raggiunta un'interpretazione così eccellente.

* * *

In Russia si aveva veramente quella che si chiama « uguaglianza di opportunità» per tutti. Non vi

erano privilegi di nascita (*). Ogni bambino aveva la stessa possibilità di accedere ai gradi più alti

dell'istruzione, in qualunque famiglia fosse nato, anche la più povera. Il figliolo del fattorino di

ufficio o di una donna di servizio aveva davanti a sé aperte le medesime strade che il figliolo di uno

scrittore o di un medico, per citare a caso qualcuna delle categorie sociali che, guadagnando più

delle altre, avevano anche la possibilità di disporre di più danaro per l'educazione dei propri figli.

Certo, i ragazzi di queste famiglie più agiate potevano vesti re meglio, e forse anche mangiare

meglio degli altri; ma non avevano maggiori facilitazioni dei ragazzi di famiglie povere

nell'accedere agli istituti di educazione superiore. Il solo vero grande privilegio, che poteva dar

luogo a differenziazioni sociali, era in realtà il talento naturale del bambino. Se questo talento

esisteva, sarebbe stato ben difficile che, col sistema di educazione vigente nell'Unione Sovietica,

rimanesse soffocato e non avesse la possibilità di svilupparsi.

(*) Devo qui ricordare che per alcuni anni in Russia fu vietato ai figli dell'antica borghesia ed

aristocrazia l'accesso alle Università. Ma qu7sta aberrazione ebbe termine, mentre mi trovavo

ancora in Russia. Se ricordo bene, fu la Krúpskaja, la vedova di Lenin, che molto si adoperò per far

abolire questo ingiusto divieto.

Questo mi fa tornare in mente un'osservazione fatta tante volte: quanti intelletti di prim'ordine,

quanti grandi talenti artistici rimangono nascosti o soffocati mancando I oro l'occasione di rivelarsi

e svilupparsi! Centinaia di genii come Platone, Aristotile, Dante, Michelangelo, Shakespeare,

Galilei, Einstein conterebbe oggi in più l'umanità se tutti i bambini nascendo avessero goduto delle

stesse possibilità di istruirsi e di sviluppare i propri talenti naturali. Il problema di dare a qualunque

fanciullo, dovunque sia nato, in un tugurio o in un palazzo, in un remoto villaggio sperduto fra le

montagne o in una grande città, l'opportunità di accedere alle fonti del sapere, indipendentemente

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dalle circostanze materiali della propria nascita, è certamente uno dei più importanti che si

presentino nella ricostruzione del mondo. La messe, per ogni generazione, di nuove scoperte

scientifiche, di nuove invenzioni, di nuove grandi opere d'arte, ne sarebbe enormemente accresciuta.

Si pensi, ad esempio, quale splendido contributo darebbero al progresso della civiltà umana i

settecento milioni di cinesi e indiani, oggi oppressi dalla miseria e dalla ignoranza, quando fosse

data ai loro bambini la possibilità di una conveniente educazione! Fra essi devono certo esistere allo

stato potenziale moltissimi grandi scienziati, artisti e filosofi.

* * *

A giudicare dalla cultura tecnica media dei molti giovani ingegneri posti alla mia dipendenza,

l'insegnamento tecnico universitario in Russia non era, allora, all'altezza delle Università europee.

Mi impressionava, però, il fatto che qualunque giovane, indipendentemente dalle condizioni

finanziarie dei genitori, fosse in grado di accedere alle università. L'insegnamento vi era gratuito;

anzi, era lo Stato a corrispondere allo studente una piccola somma di denaro, chiamata stipendium,

sufficiente a far fronte alle sue spese. In Russia, negli anni che vi sono stato io, ogni operaio che ne

avesse avuta la capacità poteva, dunque, diventare ingegnere. Lo Stato provvedeva a fornirgliene i

mezzi. Anzi, questa facilità era così eccessiva da causare talvolta seri inconvenienti al lavoro. Ad

esempio, nelle officine impiantate per le nostre costruzioni, i migliori nostri operai spesso ci

lasciavano per andare all'università, né era facile rimpiazzarli, perchè in quel tempo i bravi

meccanici scarseggiavano. Questo fatto, insieme all'altro che molti operai si licenziavano per andare

a cercare altrove migliori condizioni di lavoro, costituiva uno degli ostacoli più gravi alla

formazione di maestranze stabili esperte, ed incideva gravemente sul rendimento delle officine.

Giacchè, contrariamente a quello che si credeva in Europa, in Russia gli operai erano perfettamente

liberi di cercarsi lavoro dove meglio loro aggradisse, a meno che fossero stati membri del partito.

Si presentava, dunque, in Russia un problema nuovo: quello di mettere un limite al continuo esodo

di operai da una data officina, pur senza ledere sostanzialmente il diritto che ciascun operaio aveva

di migliorare le proprie condizioni.

* * *

Il sentire così spesso di operai che volevano diventare ingegneri mi faceva riflettere alla possibilità

che giungesse in Russia un momento in cui nessuno più avrebbe voluto far l'operaio.

Fortunatamente, nel mondo moderno, le macchine si vanno sempre più sostituendo all'uomo, specie

nei lavori di carattere puramente materiale, e si potrebbe anche pensare che un bel giorno gli operai

si riducano a pochissimi, e quei pochissimi siano così altamente qualificati da potersi comprendere

nella categoria degli ingegneri. Resterebbero pur sempre, però, da compiere certi lavori che non

richiedono uno sforzo di intelligenza, come avviene, ad esempio, nelle costruzioni in serie, dove

spesso un operaio ripete continuamente, come un automa, lo stesso movimento migliaia di volte.

Resterebbero altresì dei lavori penosi o sudici, come, ad esempio, il raccogliere spazzature o il

pulire luoghi immondi. Con la tendenza che vi è in Russia a elevarsi, potrebbe ben venire il tempo

in cui non si trovi più alcuno che voglia compiere quei lavori. Ed allora come si provvederebbe ?

L'unica soluzione possibile a tale problema sarebbe quella di istituire per tutti i giovani, maschi e

femmine, un servizio obbligatorio del lavoro, paragonabile a quello militare. Questa idea non è

nuova. E' stata già, almeno in parte, attuata durante la guerra, e non v'è alcuna ragione perchè non si

possa estendere anche al tempo di pace.

* * *

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In Russia, praticamente, non esisteva disoccupazione. Si potrà, forse, pensare che ciò fosse effetto

dei piani quinquennali. Certo, questi davan luogo a programmi enormi di lavoro, per i quali faceva

bisogno utilizzare l'opera di tutti, tanto più che il rendimento medio di lavoro di un lavoratore russo

era, in quei tempi, inferiore a quello di un lavoratore occidentale. Ma, a parte i piani quinquennali,

la disoccupazione poteva considerarsi un fenomeno definitivamente scomparso. Con un regime di

economia diretta e pianificata dallo Stato, si potevano sempre regolare produzione ed orari di lavoro

in maniera da evitarla.

Dal momento, dunque, che tutti, lavorando, potevano procacciarsi da vivere, si può in certo modo

ritenere che in Russia una delle quattro libertà della Carta Atlantica, quella dal bisogno, fosse già

realizzata. Con ciò non voglio dire che vi fosse abbondanza. Tutt'altro. Vi era scarsezza di

moltissime cose; e moltissime comodità, che pure erano di uso comune in occidente, mancavano del

tutto. Ma si guadagnava abbastanza da poter soddisfare i bisogni elementari della esistenza, e, quel

che è meglio, anche se si mangiava male e si vestiva peggio, non mancava la possibilità di istruirsi e

di progredire intellettualmente.

Avendo tutti un'occupazione, ed essendo assicurato a tutti il minimo indispensabile per l'esistenza,

non poteva accadere che una famiglia si trovasse nella dura necessità di dover mettere a lavorare un

figliuolo prima del tempo, troncandone così l'educazione. Alle spese di questa, provvedeva, per la

maggior parte, lo Stato.

* * *

Il diritto, anzi il dovere di un lavoratore sovietico di migliorare la propria « qualifica », si trovava

spesso in contrasto con l'interesse del lavoro collettivo. Ricordo un caso tipico capitatomi. Un

giorno si presentò da me un giovane ingegnere, che già da due anni trovavasi adibito alle

lavorazioni aerostatiche e che in quel lavoro aveva acquistato sufficiente esperienza, a domandarmi

di essere trasferito in un reparto di lavorazioni metalliche, per le quali non aveva alcuna

preparazione. Gli feci osservare il danno che ne sarebbe derivato al nostro lavoro, dovendosi

provvedere a sostituirlo nel reparto dove allora lavorava con un altro ingegnere privo di esperienza,

mentre egli stesso nel nuovo reparto, per molto tempo, non avrebbe potuto dare alcun rendimento,

perchè nuovo alla materia. « Appunto per questo mi rispose — desidero cambiare. Voglio imparare

altre cose. Voglio migliorare la mia qualifica».

Le mie obbiezioni non valsero a nulla. Le regole sovietiche gli davano il diritto di ottenere il

cambiamento che aveva richiesto e l'ottenne.

Di casi simili ne occorsero parecchi. In generale una delle difficoltà più gravi che incontrai nel mio

lavoro fu, come ho già accennato avanti, per l'appunto questa: che non potevo fare assegnamento

sulla collaborazione stabile dell'uno o dell'altro ingegnere, di questo o quell'operaio. Da un giorno

all'altro essi potevano abbandonare i nostri uffici od officine per andare a lavorare in un altro posto

che a loro piacesse di più. Questa abitudine costituiva, senza dubbio, l'ostacolo più forte alla

formazione di una tradizione tecnica, pure così necessaria in certi generi di lavoro.

* * *

Le conferenze di tre ore con le conseguenti discussioni, gli operai che volevano diventare ingegneri,

gli ingegneri che volevano migliorare la loro qualifica, il gran numero di librerie, i libri stampati e

venduti a milioni di copie, le interminabili file ai botteghini dei teatri per assistere alla

rappresentazione di commedie e tragedie classiche, le file alle edicole dei giornali, erano tutti aspetti

di un solo fenomeno: l'inesauribile, immensa avidità dei giovani sovietici di apprendere, di sapere.

Quando io ripenso a questi giovani, avidi di libri e di informazioni, ammiratori assai più che non si

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pensi delle grandi opere e dei grandi uomini del passato, mi piace soprattutto ricordarli nell'atto in

cui, nei giorni di vacanza, con i piedi ricoperti da soprascarpe di tela per non insudiciare i

pavimenti, e rispettosi di tutte le regole stabilite per la cura delle opere d'arte, visitavano i musei di

pittura e di scultura, ascoltando attentamente le illustrazioni che intelligenti esperti andavano loro

facendo di quelle opere.

Magazzini

AL primo sentirlo sembrerà strano, ma è un fatto che in Russia, mentre vi ero io, anche nel tempo

della peggiore carestia, non esisteva per le merci alcun mercato clandestino. Ed era naturale, perchè

tutto il commercio si trovava nelle mani dello Stato. Il solo mercato nero possibile era quello della

valuta, e questo, infatti, esisteva.

La moneta sovietica, il rublo, non era esportabile, nè si poteva dall'estero introdurre nel territorio

russo. Anche in questo campo, come in tanti altri, la Russia sovietica ha, dunque, anticipato un

fenomeno che, più tardi, è accaduto altrove, specialmente in Germania ed in Italia.

Ma, nonostante il divieto di esportazione ed il rigore che si usava alle frontiere per farlo osservare,

una certa quantità di rubli riusciva a passare il confine e veniva venduta alla borsa nera di Varsavia

o di Harbin. Qui essi venivano comprati per conto degli addetti alle varie ambasciate, legazioni e

consolati residenti nell'Unione Sovietica, e trasportati a Mosca a mezzo dei corrieri diplomatici. Il

prezzo che così si pagava per il rublo era enormemente inferiore a quello che si sarebbe dovuto

pagare alla Banca di Stato a Mosca. Basti dire che questa, in cambio di un dollaro, dava meno di

due rubli, esattamente 1.94, mentre a Varsavia per un dollaro si ricevevano da quaranta a cinquanta

rubli, ed anche più. Per una lira italiana si avevano due o tre rubli, mentre il cambio ufficiale era di

circa dieci lire per rublo. A Harbin i cambi erano anche più vantaggiosi.

Ma il valore reale di acquisto del rublo in Russia non corrispondeva affatto al cambio della borsa

nera; era superiore, e di molto. Onde avveniva che, per ogni dollaro convertito in rubli nella

proporzione che ho detto, gli stranieri ricevessero nei magazzini di Mosca assai più di quello che

con un dollaro avrebbero potuto comprare in qualunque altro magazzino di Europa o di America.

Questo spiega perchè in quei tempi, i primi anni del mio soggiorno

in Russia, i diplomatici, ed anche i giornalisti, riuscissero a vivere con grande larghezza, spendendo

somme irrisorie non solo per mantenersi, ma anche per fare acquisti di cose pregevoli nei magazzini

di antiquari, che abbondavano in tutte le grandi città sovietiche.

Per farsi un'idea di quanto realmente fosse basso il costo della vita in Russia per uno straniero che

cambiasse la propria valuta al mercato nero (e questo lo facevano in generale tutti gli stranieri che,

al contrario di me, non avevano fonti di guadagno in rubli), farò qualche esempio concreto: un

pranzo al Club Dzerzhinskij dove, qualunque forestiero poteva essere ammesso, costava, al cambio

di due rubli per lira, appena settantacinque centesimi; alla Casa degli Scienziati una lira; in un

ristorante di lusso sette od otto lire. Una poltrona di prima fila al Teatro dell'Opera costava nove

lire; un libro di quattrocento pagine con numerose incisioni, di carta abbastanza buona e rilegato in

tela, cinque lire; un paio di galoches mezza lira; un abito in lana, di discreta qualità, sessanta o

settanta lire; un disco di grammofono da venticinque a cinquanta centesimi. Una corsa in taxi, a

Mosca, veniva a costare una o due lire al massimo. La benzina si pagava da dieci a quindici

centesimi al litro. Il salario mensile di una donna di servizio si aggirava dalle dieci alle venti lire.

Il fatto di poter acquistare il rublo alla borsa nera a prezzo tanto inferiore a quello ufficiale farebbe

pensare che fosse in corso un processo di inflazione della moneta sovietica. Credo che una tale

conclusione sarebbe erronea. Lo Stato Sovietico controllava la propria moneta nel modo più

completo, fissandone l'emissione in relazione alla produzione prevista per i piani quinquennali. Il

valore di acquisto del rublo era regolato dallo Stato, ed esclusivamente dallo Stato, giacchè in

ultima analisi era esso che fissava sia i prezzi delle merci che i salari. Dal 1931 al 1936 vidi i prezzi

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salire, ma in corrispondenza aumentarono anche i salari.

Se il cambio del rublo fatto alla borsa nera era eccessivamente vantaggioso, il contrario si poteva

dire del cambio ufficiale. Con cento lire italiane si ricevevano alla Banca di Stato dieci rubli circa.

A questo cambio una poltrona all'Opera sarebbe costata quasi duecento lire, prezzo molto caro,

perchè all'Opera di Roma, in quel tempo, non se ne spendevano più di cinquanta o sessanta. Per

questa ragione i turisti che, non essendo iniziati ai misteri della borsa nera, cambiavano la loro

valuta al tasso ufficiale, trovavano che Mosca era la città più cara di Europa.

Ma a rendere molto meno costoso il soggiorno in Russia degli stranieri che visitassero il paese, o di

quelli che per il loro ufficio vi dovessero permanere a lungo, senza avere una fonte di guadagno in

rubli, come i diplomatici ed i giornalisti, provvedevano due grandi organizzazioni create dal

Governo Sovietico, l'Inturist e il Torgsin.

L'Inturist, di cui fino a pochi anni fa noi di Roma abbiamo veduto un'agenzia a piazza di Spagna,

serviva, come si sa, a regolare il viaggio ed il soggiorno nell'U.R.S.S. degli stranieri che avevano

chiesto ed ottenuto il permesso di visitare l'Unione Sovietica. La parola derivava da innostrannii

turism, turismo straniero. I turisti pagavano in anticipo, nella propria valuta, presso le agenzie di

quell'organizzazione tutte le spese di viaggio e di soggiorno in Russia. Restavano solo le piccole

spese accessorie del viaggio, alle quali provvedevano, in Russia, cambiando la loro moneta al

cambio ufficiale.

Per gli stranieri residenti in Russia che, non guadagnando con il proprio lavoro rubli, dovevano per

vivere cambiare sul posto la propria moneta, era stata creata un'altra grande organizzazione, il

Torgsin, parola derivata da Torgovlia s'innostranzami, commercio con gli stranieri.

Quest'organizzazione aveva magazzini, alberghi e ristoranti sparsi in tutta l'Unione Sovietica. I suoi

magazzini erano ricchissimi. Vi si trovava di tutto, anche generi importati dall'estero. I prezzi erano

fatti in rubli, ed erano bassi, ma bisognava pagarli in una valuta straniera al cambio fissato

ufficialmente. A conti fatti la roba vi costava parecchio meno che in qualunque altra città europea.

Chiunque poteva accedere ai magazzini del Torgsin. Essi erano frequentati più specialmente da

stranieri, diplomatici, giornalisti e turisti, ma vi potevano liberamente fare le proprie spese anche i

cittadini sovietici che possedessero valuta straniera. Questa, in alcuni casi, perveniva loro da parenti

all'estero; ma, più comunemente, era procurata, in cambio di rubli, da conoscenti stranieri in Russia.

Ma, a parte questa via illegale, ai cittadini sovietici che volessero fare spese nei magazzini del

Torgsin un'altra via, legalissima, era aperta : quella di portare a vendere ai magazzini stessi i loro

oggetti d'oro e di argento. A questo scopo vi era, in quei magazzini, un apposito reparto ai cui

sportelli i cittadini sovietici affluivano con i loro oggetti preziosi. Un impiegato riceveva gli oggetti,

li pesava, li stimava, ed in cambio dava buoni in rubli, validi per acquistare merci in qualsiasi

magazzino del Torgsin, in qualunque città dell'Unione.

La funzione di quest'organizzazione, come del resto anche dell'Inturist, era, dunque, di raccogliere

le valute estere ed i metalli preziosi di cui lo Stato Sovietico aveva bisogno per il commercio estero.

Questo bisogno si fece maggiormente sentire nei primi anni dell'industrializzazione sovietica,

quando occorreva acquistare in Europa e in America grandi quantità di macchinario. Ma con

l'attuazione dei piani quinquennali l'importazione di macchine andò sempre più diminuendo, mentre

d'altra parte andò aumentando la produzione dell'oro sovietico. In conseguenza, l'importanza dei

magazzini del Torgsin, quali centri di raccolta di valute straniere e di oro, andò rapidamente

scemando, tanto che, alla fine, non ve ne fu più bisogno e vennero soppressi. Nel settembre 1936,

quando partii dalla Russia, essi erano scomparsi da un pezzo, ma in quello stesso anno l'Unione

Sovietica era già al secondo posto nella produzione mondiale dell'oro, e si avviava ad occupare il

primo.

Con l'abolizione del Torgsin la richiesta di valute estere alla borsa nera di Mosca diminuì

grandemente, e corrispondentemente crebbe il costo del rublo e con esso il costo della vita per gli

stranieri, specialmente diplomatici e giornalisti. Al posto dei magazzini soppressi, altri, non meno

grandi e sontuosi, ne sorsero, dove i cittadini sovietici poterono comprare, pagando rubli di carta,

Page 22: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

22

quasi tutte le cose che prima ricercavano nei magazzini del Torgsin. Essi, perciò, non ebbero alcuna

ragione di dolersi della scomparsa di quei magazzini, che danneggiò solo gli stranieri.

* * *

A parte gli speciali magazzini dei quali ho parlato finora, i magazzini in Russia si dividevano in due

grandi categorie: magazzini chiusi, ai quali potevano accedere solo i dipendenti di una data azienda,

e magazzini liberi, aperti indistintamente a tutti. Questi ultimi, come già dissi, andarono sempre più

crescendo di importanza e di numero.

Si intende che tutti i magazzini, di qualunque tipo fossero, erano di gestione collettiva, a forma

statale o parastatale o cooperativa. Magazzini privati in Russia non esistevano, e mancava, perciò,

l'occasione di indignarsi per le speculazioni esose che, altrove, così spesso vi si fanno a danno dei

consumatori, nei tempi di crisi. Tutto il commercio interno era, direttamente od indirettamente,

controllato dallo Stato. L'ultimo magazzino privato che vidi nell'U.R. S.S. fu a Leningrado, nel

1926, ed era un piccolo negozio di gioielleria tenuto da un ebreo, alla ex Perspectiva Newski. Dopo,

non ne ho visti altri.

I magazzini chiusi erano su per giù tanti quante le aziende esistenti: così, ad esempio, vi erano i

magazzini della G.P.U. molto ben forniti, quelli della Flotta Aerea Civile, quelli della

Dirigiablestroi, ecc. Essi venivano gestiti dalle aziende stesse ai cui dipendenti dovevano servire. In

sostanza funzionavano, ad un dipresso, come le nostre cooperative di consumo. I prezzi vi erano

molto più bassi che nei magazzini liberi.

All'inizio, nel 1931, vi erano magazzini speciali chiusi anche per i diplomatici ed i giornalisti; ma

l'anno dopo vennero soppressi. Rimasero aperti ancora per qualche tempo quelli che servivano per

gli specialisti tecnici stranieri, ma anch'essi, qualche anno più tardi, vennero aboliti. Questi

magazzini, insieme con quelli del Torgsin, costituivano per gli stranieri un privilegio, che

giustamente si fece scomparire quando, con il crescere di numero e l'arricchirsi di merci dei

magazzini ordinari, gli stranieri poterono acquistare in questi le cose di cui abbisognavano, sia pure

pagando più di quanto usavano pagare una volta.

* * *

Esistevano in Russia, ed erano assai numerosi, anche i cosiddetti magazzini di commissione. A

Mosca, nel centro, non vi era strada importante dove non se ne incontrassero uno o due. Ve ne

erano di modesti e di ricchissimi. Ad essi la vecchia aristocrazia zarista e la borghesia dei tempi

andati portavano a vendere, quando si trovavano nella penosa condizione di doverlo fare, oggetti

artistici, tappeti, quadri, mobili antichi, antiche stoffe, merletti, porcellane, ecc. Stabilito con i

dirigenti del magazzino il valore approssimativo delle cose da vendere, queste venivano lasciate in

deposito, in attesa di chi le comprasse. A vendita effettuata il magazzino, che era naturalmente

anche esso di emanazione statale, prelevava sul ricavato una parte per sè, generalmente il 3o per

cento, e rimetteva il rimanente della somma al proprietario dell'oggetto venduto.

Questi magazzini, specialmente nei primi anni, erano molto frequentati dagli stranieri, che spesso,

servendosi dei rubli comprati alla borsa nera, vi acquistavano a poco prezzo cose di grande pregio.

L'importanza di questi magazzini andò scemando col generale progredire dell'economia sovietica.

Nei primissimi anni del mio soggiorno in Russia essi rigurgitavano di oggetti di ogni specie, anche

di gran valore. Ma non era più così nel 1935 e nel 1936. I segni della loro diminuita importanza già

allora erano evidenti. Dovettero a ciò contribuire non solo la minor disponibilità di cose da vendere,

ma anche il miglioramento nelle condizioni economiche dei singoli, anche di quelli appartenenti a

famiglie dell'antica aristocrazia o borghesia.

La guerra ultima con i suoi terribili sconvolgimenti economici ha, purtroppo, fra le altre sciagure,

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23

obbligato, anche qui da noi, in Italia, talune categorie di persone a vendere le cose ritenute non

indispensabili per procurarsi il danaro necessario a far fronte ai bisogni elementari dell'esistenza.

Sono le categorie a proventi fissi, che hanno visto giorno per giorno ridursi sempre più il potere di

acquisto della lira. Ma tra il fenomeno che aveva luogo in Russia ed il fenomeno che si presenta

oggi da noi vi è, tuttavia, una grande differenza. In Russia le vendite nei magazzini di commissione

non rappresentavano un passaggio di ricchezza da una categoria all'altra di cittadini. Tutt'al più di

queste vendite si avvantaggiava lo Stato. Da noi, invece, le categorie di cittadini che dicevo sopra,

certo tra le più degne ed oneste, si vanno impoverendo a beneficio non dello Stato ma di una classe

di speculatori, grossi e piccini, che scandalosamente si vanno arricchendo

in mezzo al generale depauperamento.

* * *

Ma nonostante tutto il grande progresso da me notato, nei magazzini di Mosca mancavano tante

cose, che pur sono di uso comune negli altri paesi del mondo. Faceva soprattutto difetto la qualità; e

non vi era nessuna possibilità di scelta. Bisognava contentarsi di quello che c'era. Certo la libertà

concessa nei paesi capitalistici a singoli individui di creare con un proprio capitale nuove intraprese

industriali ha il vantaggio di spingere automaticamente alla creazione di prodotti industriali che

soddisfano ai bisogni della collettività. Si guardi, ad esempio, al meraviglioso progresso realizzato

con tale sistema nella ricca America. Sotto l'impulso della concorrenza e mossi dal desiderio di forti

guadagni gli industriali americani cercano di andare incontro ai gusti del pubblico per

accaparrarsene la clientela. L'americano che deve comprare un'automobile, un refrigeratore, una

radio, una macchina per lavare, un rasoio, delle lamette per radersi ha la scelta fra diecine di

prodotti similari. Le ditte costruttrici fanno a gara per cercare di accontentarlo in tutte le sue

esigenze, in tutti i suoi desideri. Talvolta sono essi stessi ad eccitarle. Il risultato è una fioritura di

mille comodità, sempre più perfezionate, sempre più a buon mercato, che finora mancano

nell'Unione Sovietica, dove i capi di aziende non devono aguzzare l'intelligenza per trovare qualche

cosa di nuovo e di meglio, o a prezzo più basso, per mantenere o conquistarsi un mercato. Da

questo derivava la esasperante uniformità di vestiario che tutti i visitatori dell' U. R. S. S. potevano

notare nelle strade di Mosca negli anni che precedettero la guerra. Ma rappresenta, forse, questo

risultato negativo un argomento contro il sistema sovietico ?

E' difficile sostenerlo. Non si vede alcun motivo serio perchè non si possa riuscire a stimolare la

immaginativa inventrice degli uomini in qualche altra maniera che non sia quella di prospettargli la

possibilità di grandi guadagni, lasciandolo libero di sfruttare più o meno a suo talento il lavoro

altrui. In Russia al mio tempo esistevano inventori di professione, le cui proposte venivano prese in

considerazione, anche troppo facilmente. Non è dunque la fantasia inventrice che può venir meno.

Si tratta solo di disciplinarla. Il problema è esclusivamente un problema di tecnica. Se in Russia non

si producevano le mille comodità che abbondano nei paesi capitalistici, questo, forse, provava

soltanto che vi erano problemi di maggior importanza da risolvere. Non si poteva pensare a

occuparsi dell'estetica del vestiario, allorquando si doveva pensare a creare l'industria pesante.

Ma, quando anche non si riuscisse ad ottenere da un sistema quale è il sovietico tutti i vantaggi

materiali di un sistema di libere intraprese industriali, resterebbe pur sempre la sua superiorità etica.

Di progresso materiale l'uomo ne ha realizzato fin troppo. Quello che gli occorre è mettersi a pari

col progresso morale. Si pensi a tutta la rete di loschi interessi, di azioni criminose, di inganni, di

frodi, che fioriscono là dove si lascia libero campo alla speculazione individuale. Ne ebbi un

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esempio impressionante nel 194o in America, apprendendo che nei dintorni di Chicago era stato

scoperto uno stabilimento industriale, dove si fabbricavano arnesi per ladri. Il colmo era che quella

ditta si serviva della pubblicità per diffondere i suoi prodotti fra i suoi singolari clienti. La Chicago

Tribune documentò questo fatto pubblicando un'intera pagina di fotografie di cotesti avvisi

pubblicitari, dove si decantava la bontà degli ultimi arnesi ideati per scassinare una cassaforte!

Carestia ed abbondanza

La bellezza di Mosca è che a pochi chilometri dall'abitato già comincia la foresta. Questa mi

attraeva sempre molto. Una sera di estate, che faceva molto caldo, proposi a mia figlia di andare a

dormire all'aperto.Caricammo sull'automobile una tenda, di recente portata da Berlino, alcune

coperte, un velo contro i moscerini che di estate infestano la campagna di Mosca, alcune provviste

per mangiare, e partimmo: io, mia figlia, Amabile e tre cani. Amabile era una giovane tedesca,

piccola, rotonda, dai capelli rosso oro, che da molti anni stava con noi in Italia. Aveva

accompagnato mia figlia a Mosca a passarvi le vacanze estive. I cani erano Titina, quella che era

stata due volte al Polo, e due sue figliuole, Totoska e Ziganka, ambedue moscovite. Totoska,

poverina, morì sei anni dopo in America; Ziganka, battezzata così, perchè nera, da Polia, una delle

mie donne di servizio russe che l'avevano vista nascere, vive tuttora con noi a Roma.

Ce ne andammo lungo la strada che porta a Nisgnii Novgorod, quella stessa che al tempo degli zar

veniva percorsa dagli esiliati che si recavano in Siberia. Era di quelle che più amavo per la grande

distesa di boschi e di foreste che la fiancheggiavano, e che si vedevano nereggiare all'orizzonte,non

appena fuori della città. Nella luce ancor viva del tramonto oltrepassammo un accampamento di

zingari. Alcuni chilometri più avanti, trovato un posto adatto al margine della foresta, ci fermammo.

Piantata la tenda, distendemmo il velo per proteggerci dai moscerini, e con foglie e rami secchi

accendemmo un bel fuoco per riscaldare le vivande. Dopo cena, mentre mia figlia ed Amabile si

trattenevano presso il fuoco a parlottare, io, stanco, mi ritirai a dormire.Avevo appena preso sonno,

quando fui risvegliato da mia figlia: « Papà, alzati; c'è un lupo ». Ero talmente insonnolito che mi

seccava di levarmi. « Tenete vivo il fuoco » risposi. «Il lupo non si avvicinerà». E mi rivoltai

dall'altro lato.Ma quelli che alle due ragazze erano sembrati ululati si ripetettero; anzi alla loro

fantasia eccitata parvero anche più vicini.Mia figlia entrò di nuovo a chiamarmi. Allora mi

rassegnai ad alzarmi, ed uscii fuori.

Nella notte regnava un silenzio profondo; non si sentiva che il crepitio dei rami secchi che

bruciavano. Ma capii che ormai, con il pensiero del lupo, Maria non avrebbe dormito, nè mi

avrebbe lasciato dormire; e perciò accolsi il suo savio suggerimento di tornarcene a casa. Così, alle

due di notte, rientrammo, mogi mogi, nel nostro appartamentino alla Miasnitzkaja.

Quando il giorno dopo raccontai ai giovani ingegneri russi del mio ufficio l'avventura notturna del

lupo, essi risero. « Ma, signor (*), non può essere. Se vi fossero lupi nei dintorni di Mosca, i

cacciatori lo saprebbero. Sarà stata una vacca o, forse anche, il fischio di una locomotiva lontana».

Quando riferii questo a mia figlia, essa protestò vivacemente. Si era proprio trattato di un lupo.

***

Fallito in modo così miserevole il primo esperimento di dormire nella foresta, per qual che

settimana non vi pensammo più. Ma un giorno, vigilia di quello di vacanza ( allora in Russia alla

settimana di cinque giorni che avevo trovato nel 1931, era stata sostituita quella di sei), si unirono a

noi due nostri amici, Elisabetta Simeovna e suo

(*) Cosi erano saliti indirizzarsi a me i Russi; ma vi era perfino taluno (un portiere di

Dolgabrudnaja) che mi chiamava addirittura: « Tavarisch signor » !

Page 25: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

25

marito Abramo, per una seconda spedizione che fu preparata con ogni cura, perchè intendevamo

passare nella foresta due giornate consecutive. Anche questa volta ci dirigemmo lungo la strada di

Nisgnii Novgorod. Raggiunta la foresta prescelta, ad una ventina di chilometri dall'abitato, v i ci

inoltrammo con la nostra Fiat, senza darci troppo pensiero delle inevitabili ammaccature che

sarebbero capitate ai parafanghi.

Sostammo, per attendarci, in uno spiazzo che si apriva nel folto degli alberi. A breve distanza era

uno stagno di acqua dove l'indomani avremmo potuto lavarci.

Non posso affermare che sull'erba, per quanto soffice fosse, dormissi così comodamente come nel

mio letto a casa; ma, certo, la libertà che si godeva in quella solitudine, a così breve distanza dalla

capitale, era cosa molto piacevole. La mattina ci risvegliammo al cinguettio degli uccelli. Preso il

caffè (in Russia, anche allora, se ne poteva comprare a pochissimo prezzo), ci recammo allo stagno,

in parte ricoperto dalle larghe foglie delle piante che vi crescevano nel fondo.

Dopo il bagno Abramo Jacovic mi propose di andare al villaggio più vicino a comprare del latte.

Acconsentii, e, mentre le donne scomparivano fra gli alberi per raccogliere fragole, io ed Abramo,

in automobile, ci recammo al villaggio.

Ci indicarono un casolare dove avremmo trovato una donna che possedeva una vacca. Abramo vi

entrò a comprare il latte, ma dopo qualche minuto tornò a mani vuote dicendo: « Tolko sa klieb ».

Soltanto se le dessimo in cambio del pane».Ma non avevamo pane da dare e così dovemmo

rinunziare al latte.

* * *

In quel tempo, dunque, nelle campagne attorno a Mosca i contadini erano tornati al sistema del

baratto. La carestia durava ancora, in quell'anno 1933, ed i contadini, od almeno quelli di essi che

non avevano la tessera di razionamento,' non sapevano che farsi di una carta moneta con cui non

riuscivano ad acquistare le cose di cui avevano bisogno. Venivano in città a barattare i loro scarsi

prodotti, e di solito chiedevano in cambio del pane. Le mie domestiche lo sapevano bene. Bastava

che si recassero all'angolo della strada per trovare chi desse loro latte invece del pane che le nostre

tessere ci procuravano in misura abbondante.

Vi eran, dunque, domestiche in Russia ? Ma certo che ve ne erano. Le poche famiglie russe che io

conoscevo avevano quasi tutte al loro servizio una donna che, fosse pure soltanto per alcune ore al

giorno, aiutava nelle faccende di casa. Non differivano da quelle di altri paesi, se non forse per una

certa maggior dignità con cui si presentavano ed agivano. Avevano le loro associazioni, e,

naturalmente, tenevano spesso riunioni per discutere dei loro interessi. Si chiamavano « lavoratrici

domestiche », damascnaie rabotnizi. Si corrispondeva loro un salario variabile da trenta a sessanta

rubli, a seconda del servizio che prestavano.

La mia domestica, in quel tempo, era una giovane greca, un po' zoppicante, occhi e capelli

nerissimi, di carattere molto duro. Sbrigava le faccende di casa alla perfezione. La sua cucina era

eccellente, purchè non intervenissi io a correggerla. I suoi « borsh », una delle zuppe tipiche russe,

erano squisiti, specialmente se vi si aggiungeva una cucchiaiata di crema acida, la smetana; e certo

fa melanconia ricordarsene ai tempi di oggi, qui in Italia. Benchè le lasciassi completa libertà e non

esercitassi alcun controllo, tuttavia Nastia conteneva la spesa giornaliera in limiti modesti : quindici

rubli al giorno le bastavano per far da mangiare a cinque persone.

Una spesa giornaliera di tre rubli a testa era veramente poca cosa in proporzione di ciò che

guadagnava in Russia un tecnico straniero. Ma per farsi un'idea più adeguata di ciò che

comunemente rappresentasse una tale spesa, devo ricordare che in quel tempo il salario di un

comunista, membro del partito, per quanto alta fosse la carica che occupasse, non poteva superare i

30o rubli al mese. Tale appunto era il salario dello stesso Stalin. In quell'anno un buon operaio

guadagnava press'a poco altrettanto; ma un operaio, come del resto qualsiasi altro lavoratore o

lavoratrice, prendeva il suo pasto principale, a mezzogiorno, sul posto del lavoro, alla mensa

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'dell'azienda dove lavorava, e per quel pasto pagava meno di un rublo, sessanta o al massimo

settanta copeki. Questo pasto era semplice, servito molto alla buona, spesso anche con poca

proprietà, ma più che sufficiente. Esso consisteva in una zuppa, un piatto di carne con legumi, e tè o

caffè. Spesso vi si aggiungevano paste dolci, le cosiddette pirósg'noie, oppure frutta. La tenuità

della spesa fa comprendere -come fosse possibile ad un fattorino di ufficio, il cui guadagno mensile

non superava novanta o cento rubli, o ad uno studente universitario che riceveva dallo Stato per il

suo mantenimento uno stipendium di settantacinque rubli, sbarcare il lunario. Si tenga poi presente

che in Russia lavoravano e guadagnavano non solo gli uomini, ma anche le donne. Le donne che si

occupassero esclusivamente di faccende domestiche, all'infuori delle donne di servizio, erano

rarissime: la massima parte avevano un lavoro fuori casa e prendevano anch'esse il loro pasto

principale sul posto del lavoro. Ma di ciò che era la vita domestica in Russia e delle sue analogie

con quella americana, parlerò in seguito.

* * *

Nei primi tempi del mio soggiorno in Russia, fino a tutto il 1933 ed anche nel principio del 1934, i

segni della carestia e della generale povertà erano evidenti. I negozi alimentari erano semivuoti.

Nelle vetrine ben poco si vedeva esposto: tutt'al più vi si potevano ammirare, a guisa di

decorazione, forme di formaggio in legno dipinto di rosso. Davanti ai magazzini sostavano

lunghissime file di persone, che talvolta, come ho visto io stesso per l'acquisto di carne o di petrolio,

cominciavano a formarsi la sera avanti. Nel centro di Mosca i mendicanti erano numerosi; uno

specialmente mi è rimasto impresso nella mente che, seduto a terra sul marciapiedi davanti al Gran

Hótel, esibiva una gamba piagata. Nel cortile di casa mia, molte volte, di sera, sorpresi una donna

che furtivamente veniva dal di fuori a cercare qualche cosa da mangiare nei cassoni dove si

riponevano le immondizie e i rifiuti di cucina. Miserevole era lo spettacolo di un piccolo mercato

libero esistente nelle vicinanze dell'Arbàt, una delle piazze più note di Mosca. Vi si vedevano

contadini offrire piccoli pezzi di carne, qualche mezza bottiglia di latte, un po' di verdura.

La gente vestiva poveramente. Camicie non se ne vedevano, e tanto meno cravatte, reputate, non

ingiustamente, cosa del tutto superflua nell'abbigliamento maschile; ed i tipi di vestiario erano così

poco variati, che lo stesso indumento, del medesimo taglio, della medesima stoffa, si poteva veder

riprodotto in centinaia di esemplari addosso alle persone che si incontravano per strada.

Ma già verso la metà del 1934 la situazione cominciò a cambiare. La carestia si attenuò. I segni di

una generale ripresa economica apparvero chiarissimi. Nel mercato libero, in seguito anche ad un

decreto del governo che consentiva ai contadini di possedere qualche animale e coltivare per

proprio conto un orto, vendendone liberamente i prodotti, ricomparvero all'improvviso, con una

certa abbondanza, generi che da un pezzo erano quasi totalmente scomparsi, come il burro e le

uova. Presto non ci fu più bisogno di barattare. La mia domestica trovò a comprare al mercato

libero il latte (in più di quello spettante con la tessera) che occorreva per i bisogni della casa. Le

vetrine dei negozi si riempirono. Le file cominciarono a diminuire.

Nel 1935, e più ancora nel 1936, la situazione era talmente mutata, che della terribile carestia degli

anni precedenti non rimase più che il ricordo. I segni di una crescente prosperità si moltiplicarono.

Le file davanti ai negozi scomparvero quasi totalmente. Molti nuovi e grandi negozi si aprirono al

pubblico, messi su con eleganza e proprietà e serviti da personale in uniforme di tela bianca,

secondo tutte le regole dell'igiene. Questi magazzini rigurgitavano di generi alimentari di ogni sorta.

Caviale rosso e grigio, siomga, balik,, salmone e tante altre varietà di pesci secchi ed affumicati, di

cui la Russia è ricchissima, si allineavano su nitidi banchi di marmo, protetti dalla polvere e dagli

insetti da lucide vetrine. Carni di ogni sorta; formaggi non più di legno, ma veri, e di molte varietà,

chè a Mosca funzionava un istituto superiore universitario, dove italiani insegnavano a fabbricarlo.

Il grande emporio che sorgeva al centro di Mosca era pieno di ogni genere di roba: stoffe, abiti,

biancheria, oggetti casalinghi. La folla vi si pigiava per comprare. Dai tipi di vestiario era

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scomparsa, od almeno si era molto attenuata, quella terribile uniformità che mi aveva colpito

durante i primi anni del mio soggiorno in Russia. Le donne, che nei tempi cattivi avevano fatto

miracoli di eleganza con le poche cose di cui disponevano, erano adesso molto meglio vestite. Nei

ritrovi, a teatro, nelle conferenze, ai concerti, nei caffè, gli uomini, rasati di fresco, apparivano

vestiti con accuratezza, talvolta anche con distinzione. Le camicie erano riapparse, e con esse

perfino le cravatte, cosa che, a dir la verità, fu per me motivo di disappunto piuttosto che di

compiacenza, perchè, in fondo, mi faceva comodo farne a meno.

La trasformazione che, sotto i miei occhi, ebbe luogo in quei tre anni nell'aspetto esteriore di Mosca

fu veramente sorprendente. Nuovi eleganti caffè e ristoranti vennero aperti, taluni di tipo

modernissimo; e ancora nuovi magazzini, sempre più ricchi. Vi furono perfino tentativi, direi, di

superamericanizzazione. Così, ad esempio, quando fu aperto nei pressi della Lubianca un grande

negozio di generi alimentari, dove si poteva ordinare per telefono qualunque cosa si volesse,

indicando l'ora più comoda per il recapito a casa delle cose ordinate. Nè importava informarsi se

quel dato prodotto ci fosse o pur no, perchè, anche se non vi fosse stato in magazzino, sarebbe stato

procurato altrove, a cura del negozio stesso cui veniva dato l'ordine.

I salari

LA propaganda avversaria era solita dipingere l'Unione Sovietica come il paese dell'esasperante

uniformità. Salari tutti uguali, uguali condizioni di vita, nessun incentivo che spingesse il singolo

individuo a far meglio, a progredire, ad elevarsi. Ed in realtà, da principio, così era stato: vi era poca

o nessuna differenza fra la paga di un operaio abile e quella di un principiante, ed in conseguenza

mancava qualsiasi stimolo che muovesse quest'ultimo a migliorare la propria qualifica. Gli uomini

sono ancora troppo ineducati, perchè possano esser spinti ad operare soltanto dal sentimento di un

dovere da compiere. I Bolscevichi, che in un primo tempo avevano creduto il contrario, ammisero

francamente il loro errore, ed ebbero il coraggio di cambiar metodo. Infatti, quando nel 1931 arrivai

a Mosca, trovai che la differenziazione dei salari era già in atto. Stalin, nel suo discorso del 23

giugno di quell'anno, aveva dato la nuova parola d'ordine: fissare il salario a seconda dell'abilità del

lavoratore e del rendimento del suo lavoro. Lo Stato sovietico esigeva dagli operai « duro lavoro,

disciplina e mutua emulazione ».

Questo storico discorso segna una svolta importante nello sviluppo della rivoluzione sovietica. Esso

iniziò una nuova fase del grandioso esperimento. L'applicazione del nuovo principio fu, senza

dubbio, il fattore più importante del successo dei piani quinquennali. L'iniziativa e l'attività della

massa vennero stimolate dalla prospettiva di un maggior guadagno, ma questo, provenendo

esclusivamente dal proprio lavoro, non era affatto in contrasto col principio fondamentale della vita

sovietica, che vieta di arricchirsi a spese del lavoro altrui.

* * *

La gigantesca lotta intrapresa per la creazione dell'industria sovietica era concepita, starei per dire,

in termini quasi militari. Si sentiva dovunque parlare non solo di piani da eseguire, ma anche di

udarnik, gli operai di urto o di assalto, ai quali nelle officine e negli uffici era affidato il compito di

incitare gli altri con l'esempio ad affrettarne l'esecuzione. In compenso questi lavoratori erano

meglio trattati: ricevevano paghe più alte, e di estate, nel periodo di vacanze, ottenevano a titolo di

premio il permesso di recarsi a soggiornare un mese o più in una delle case di riposo del Caucaso o

della Crimea.

Nel 1932 il salario medio mensile di un operaio si aggirava fra i cento e i duecento rubli, somma

che, in relazione ai prezzi di allora, era largamente sufficiente ad assicurare il mantenimento di una

singola persona. Si rammenti che un pasto sostanzioso, preso alla mensa collettiva dell'azienda dove

si lavorava, costava poco più di mezzo rublo e che, per l'alloggio, un operaio pagava pochissimi

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rubli al mese. Sicchè, fra alloggio e vitto, se ne andava per ogni persona una piccola parte del

salario medio mensile.

Più caro era il vestiario, soprattutto le scarpe, la cui produzione in quegli anni era insufficiente. Un

paio di scarpe, nei magazzini chiusi, costava da cinquanta a sessanta rubli. Nei magazzini liberi si

giungeva a duecento o trecento.

* * *

Dal 1931 al 1936 la produzione, sia dell'industria che dell'agricoltura, crebbe assai rapidamente, ed i

salari aumentarono anche essi, fino a raddoppiarsi; ma i costi del vitto e dell'alloggio non salirono

nella stessa proporzione: essi crebbero in misura molto minore. Sicchè si ebbe un effettivo, grande

miglioramento nel tenore di vita di tutti i lavoratori.

Durante quegli anni la differenziazione dei salari si andò accentuando in modo tale che, già

nell'anno 1934, a fianco dell'operaio che guadagnava centocinquanta rubli al mese si trovava quello

che guadagnava due o tre volte tanto. Ma lo scarto fra il minimo ed il massimo salario crebbe

enormemente dopo che Stakanov, un operaio minatore, ebbe mostrato che si poteva eseguire il

lavoro in modo da accrescere di molto la produzione. Stalin colse al balzo l'occasione offertagli da

questo operaio per promuovere quel gran movimento che prese nome di stacanovismo. Esso

consistette, in sostanza, nell'incitare gli operai a produrre sempre più e sempre meglio, lasciando

che in cambio realizzassero guadagni molto elevati. I lavoratori che seguirono il movimento si

chiamarono stacanovisti. Vi erano stacanovisti che guadagnavano mensilmente fino a duemila o

tremila rubli, cioè otto o dieci volte di più del salario medio di un operaio comune.

Per gli ingegneri ebbe luogo la medesima differenziazione. Nel 1932 i giovani ingegneri russi che

lavoravano alla mia dipendenza avevano salari variabili dai duecento ai trecento rubli mensili;

quattro anni dopo i loro salari partivano da un minimo di duecento cinquanta rubli per giungere a

quattro o cinquecento, e nei posti direttivi anche settecento o ottocento.

Si vede bene dalle cifre che ho dato che in Russia vi era tutt'altro che quella uniformità di salari di

cui blateravano gli avversari dell'Unione Sovietica !

Un minimo per vivere era assicurato a tutti, un minimo tanto più facile ad ottenersi in quanto, com'è

risaputo, in Russia non vi era disoccupazione. Proprio negli anni in cui la disoccupazione più

infieriva in America ed in Europa, nell'Unione Sovietica non vi era neppure un disoccupato. Ma, a

parte il minimo necessario per vivere, la formula che si applicava in Russia non era: « a ciascuno

secondo il suo bisogno », ma piuttosto: « a ciascuno secondo il suo merito ». Fare altrimenti

avrebbe significato incoraggiare la infingardaggine proprio nel momento in cui si richiedeva da tutti

i cittadini il massimo sforzo per la costruzione della nuova società.

La stessa cosa avveniva per le varie categorie di lavoratori intellettuali, ad esempio per i medici.

Questi avevano tutti un impiego stabile presso un ospedale o un istituto medico statale, od una casa

di cura cooperativa che assicurava loro un salario sufficiente per vivere. Ma in più potevano

esercitare la professione privatamente, ed è qui dove avevano libero gioco l'abilità ed il valore

individuali. Vi erano a Mosca medici modesti che guadagnavano tre o quattrocento rubli al mese;

ma vi erano di quelli che ne guadagnavano parecchie migliaia. Né più nè meno di quello che

avviene altrove.

Interessante mi sembrava il modo come venivano rimunerati gli artisti di teatro. Un attore o un

tenore, anche di gran fama, un direttore di orchestra, anche se celebre, una grande ballerina,

ricevevano dal teatro dove erano stabilmente impiegati un salario che variava, naturalmente, a

seconda della bravura dell'artista, ma che tuttavia era sempre relativamente modesto, e, certo, niente

affatto paragonabile con le paghe, spesso assai esagerate, che altrove si corrispondono ad artisti

famosi. Questo permetteva di tenere relativamente bassi prezzi dei biglietti per i teatri, nonostante la

perfezione con la quale gli spettacoli venivano dati. Ma l'artista poteva disporre a suo talento del

tempo che gli rimaneva libero per dare concerti o rappresentazioni presso istituzioni private, con le

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quali poteva liberamente contrattare la somma da pagargli; cosicchè, con questa attività secondaria,

i migliori di essi riuscivano a guadagnare due o tremila rubli al mese.

Una categoria privilegiata mi parve fosse quella degli scrittori e dei giornalisti. Essi guadagnavano

molto. Di un giornalista, mio conoscente, sentii dire che giungesse a guadagnare fino a quattromila

rubli al mese !

Questi grossi guadagni, tanto al disopra della media, eran permessi a tutti, tranne, però, che ai

membri del partito comunista. Per questi, come ho già detto, il massimo salario consentito era, nel

1932, di trecento rubli al mese, comunque importante fosse la carica da essi tenuta. Negli anni

successivi questo minimo, almeno per quanto riguarda gli ingegneri (di cui so più particolarmente

per conoscenza diretta), fu elevato, e presso a poco, io credo, in proporzione dell'aumentato costo

della vita; ma tuttavia i salari massimi dei comunisti furono mantenuti sempre ad un livello assai

basso in confronto di quelli di un operaio stacanovista o di un intellettuale delle categorie citate

sopra. Non era ammissibile che un membro del partito fosse spinto a compiere il proprio dovere dal

desiderio di guadagnare. Una tal cosa sarebbe stata assurda per un partito, che voleva essere, ed era

effettivamente, una élite di costruttori della nuova società, entusiasti e disinteressati. Si ricordi che i

membri del partito comunista costituivano in Russia, in quel tempo, una esigua minoranza, di

appena l'un per cento, della popolazione. Ad essi non era in alcun modo concesso accumulare

denaro, come poteva fare con i propri risparmi qualsiasi bravo operaio o contadino, o qualsiasi

medico primario o scrittore. Questo però non vuol dire che non fosse loro assicurato il modo di

vivere decentemente. Tutt'altro. I miei amici solevano raccontarmi delle cure che si avevano per i

comunisti che tenevano posti di grande responsabilità, perchè potessero attendere tranquillamente al

loro lavoro, liberi da ogni preoccupazione di carattere materiale. Ma in cambio di questa libertà dal

bisogno concessa ai membri del partito, quali sacrifici e quale abnegazione si richiedessero a

ciascun di essi ho già accennato in un'altro capitolo.

In sostanza il partito costituiva una vera e propria milizia. Di essa si aveva la stessa cura materiale

che lo Stato Sovietico prendeva dei soldati dell'esercito rosso, che erano anche essi ben vestiti e ben

nutriti, pur nel tempo della più dura carestia. Ma, precisamente come ai soldati, si richiedeva ai

comunisti disciplina e spirito di sacrificio.

* * *

Tali erano le condizioni economiche in Russia nel tempo che vi fui io.

Certo il periodo che va dal 1932 al 1936 rappresenta nella storia della costruzione socialista russa

un periodo di rapida ascesa in tutti i campi. Mentre negli altri paesi la crisi economica non poteva

ancora dirsi del tutto superata, l'economia sovietica era in pieno sviluppo. Alla fine del 1936 la

produzione industriale rispetto a quella del 1933 era raddoppiata; quella agricola era anch'essa in

piena ascesa. Parallelamente alla produzione anche il tenore di vita delle masse sovietiche era

andato rapidamente innalzandosi.

La stessa città di Mosca, come ho già notato altra volta, subì esteriormente un grande mutamento.

Le strade vennero quasi tutte asfaltate; nuovi grandi edifici furono costruiti, sorsero nuovi quartieri

di abitazione. Divenute all'enorme traffico cittadino insufficienti le linee tranviarie, comparvero i

trolley-bus e fu costruita la metropolitana.

La costruzione di questa ferrovia sotterranea, iniziatasi verso la fine del 1932, ebbe luogo con una

rapidità che solo in America avrebbe potuto esser sorpassata. La sua costruzione mi causò, invero, il

dispiacere di veder demolita la piccola bella chiesa che sorgeva proprio davanti a casa mia, ma

quando vidi ultimate ed aperte all'esercizio le prime linee della metropolitana, dimenticai il mio

disappunto. Vi si accedeva da eleganti stazioni, ciascuna di un tipo architettonico diverso, di uno

stile moderno non privo di decoro artistico. Vi si discendeva su scale mobili che rotolavano

silenziosamente senza interruzione. Le gallerie spaziose, ricche di marmi, sfolgoravano di luce. Qua

e là, si vedevano eleganti chioschi di vendita. Ed una folla alacre, composta, decentemente vestita,

Page 30: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

30

che entrava ed usciva dai modernissimi treni che velocemente giungevano e ripartivano a brevi

intervalli di tempo.

La proprietà

MA esiste la proprietà in Russia ? Ecco una domanda fattami centinaia di volte. Esiste: con grandi

limitazioni, ma esiste.

Il padre di Elisabetta Simeovna possedeva una casa di campagna, una dacia, ed erano tanti quelli

che ne possedevano. Si poteva possedere l'appartamento che si abitava cd ogni sorta di beni mobili,

da un'opera (l'arte ad un'automobile. Si potevano avere depositi di denaro presso la Banca di Stato o

le Casse di risparmio postali. Si potevano possedere titoli di stato, come quelli dei prestiti fatti per

l'esecuzione dei piani quinquennali. E tutte queste cose si potevano, morendo, trasmettere ai propri

figli.Non si poteva possedere la terra, perchè questa era dichiarata proprietà nazionale. Nessuno

poteva accamparvi diritto di proprietà, e ciò sembrava tanto naturale, come è naturale che nessuno

accampi diritti sull'atmosfera di cui abbiamo bisogno per respirare: la terra dà da vivere a tutti gli

umani. Ciò non impediva però che appezzamenti di terreno venissero dati in uso personale ai

contadini delle Kolkose (Kollectivnoie Kasiajstvo).

I depositi presso le banche e gli uffici postali fruttavano interessi, che al mio arrivo nell'U.R.S.S.

erano molto alti: si riceveva il sette per cento, e sui prestiti dei piani quinquennali si era arrivati

perfino al dieci. Dai depositi si potevano liberamente prelevare somme servendosi del sistema degli

assegni.

Il principio fondamentale della vita sovietica è che ognuno lavorando deve dare secondo la propria

capacità e ricevere secondo il proprio lavoro. L'applicazione di tale principio portava ad una grande

differenziazione dei salari, per cui, come ho detto avanti, vi era chi guadagnava novanta rubli

mensili, come il fattorino del mio ufficio, e chi invece ne guadagnava due o tre mila come un

operaio stacanovista.

All'atto pratico, però, le grandi differenze di guadagno venivano attenuate col far variare i prezzi

delle cose di prima necessità a seconda delle categorie stesse. Per l'abitazione, ad esempio, una

camera a Mosca, se assegnata ad un operaio o un ingegnere della Dirigiablestroi, costava sei rubli al

mese; assegnata invece ad un giornalista, ne costava trenta o quaranta. In sostanza, per ciò che

concerneva le cose indispensabili alla vita, esisteva una scala di prezzi variabile con quella dei

salari. Ma tuttavia, a certe categorie come, ad esempio, scrittori, artisti, giornalisti, ecc., rimaneva

pur sempre, sui grandi guadagni che facevano, un largo margine, con cui potevano migliorare il

proprio tenore di vita, oppure risparmiare nel modo che ho detto.

* * *

La regola era: « Chi non lavora non mangia ». Ciò nonostante si potevano avere, e si ebbero

specialmente nei primi tempi, curiose eccezioni.

Un caso di questo genere occorse a Leningrado dove la polizia, una volta, appurò che un certo

cittadino, pur non avendo alcuna occupazione redditizia, viveva con lusso nel suo appartamento. Un

ispettore, mandato al domicilio di quel tale a chiedere spiegazioni, si vide, con suo grande stupore,

aprire la porta da un servo in livrea, che lo introdusse dal padrone di casa. Questi lo ricevette con

grande dignità. Informato di che cosa si volesse da lui, forni le spiegazioni richieste: « Sono un

buon cittadino », disse, « rispettoso delle leggi dello Stato. Quando fu emanato l'ordine di

consegnare tutto l'oro che si possedeva, vi adempii scrupolosamente, ed investii i rubli, che ricevetti

in cambio del mio oro, in prestito del piano quinquennale. La rendita di quel prestito mi fornisce i

mezzi per vivere».

Non vi era nulla da replicare. L'uomo era perfettamente a posto con le leggi sovietiche. Nessuno

poteva disturbarlo, e nessuno lo disturbò.

Page 31: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

31

* * *

Del denaro guadagnato si faceva in Russia l'uso che se ne fa dovunque nel mondo. Una sola

restrizione importante: non si poteva con esso comprare della terra nè impiegarlo in imprese in cui

si sfruttasse a proprio beneficio il lavoro altrui. Così pure non era lecito servirsene per costruire un

fabbricato per abitazioni con l'idea di fittarne gli appartamenti a scopa di speculazione. Nè si

sarebbe potuto adoperarlo a mettere su un'officina dove sarebbero stati assoldati degli operai.

Queste cose erano rigorosamente vietate; ma non era vietato, ad esempio, che un gruppo di medici

ed infermieri mettessero insieme le proprie risorse per fondare una casa di cura.

* * *

Uno scrittore francese di economia, Joseph Dubois, in un libro comparso nel principio del 1932 col

titolo: Une nouvelle Humanité, scriveva a proposito della proprietà in Russia delle cose interessanti,

di cui mi piace riportare qualche brano.

Devo premettere che il Dubois si professa avversario dichiarato del regime sovietico. Infatti in un

punto del libro dichiara: « Personalmente ho per il regime sovietico una profonda avversione a

causa dell'assassinio che ha commesso della libertà individuale ». E più avanti, in un altro punto del

libro: « Vi è tanta differenza fra il nostro regime e quello sovietico, quanta ve ne è tra una

passeggiata sotto un bel sole lungo la Senna e una corsa fatta nel Metro durante le ore di maggior

traffico ».

Eppure la medesima persona che ha scritto tali cose, non certo complimentose per il regime

sovietico, quando parla della proprietà in Russia, si esprime così:

« Sembrerebbe che alla rivoluzione sovietica si possa applicare una definizione celebre, di cui

autore è quel Polibio che, sicuramente, è il più interessante dei quattro storici greci: In tutte le

rivoluzioni la sola cosa che conta è quella di spostare la proprietà: di qui la necessità di

ricominciarle spesso.

« Orbene la rivoluzione sovietica non appena entrata nella frase di Polibio si è affrettata ad uscirne;

essa non ha perseguito, in effetti, una ridistribuzione della proprietà, ma più semplicemente si è

preoccupata di dimostrarne l'inutilità. Una rivoluzione, la quale ha liquidata la proprietà senza

ridistribuirla, ha acquistato per questo stesso fatto un carattere talmente definitivo, che non ha

bisogno più di essere ricominciata ».

Quando si ridistribuisce la proprietà, osserva il Dubois, si crea un nuovo diritto, che in qualche

modo ravviva l'antico. Ma il regime sovietico non ha spostata la proprietà, perchè nessuno si è

impossessato dei beni degli antichi proprietari. Di guisa che, se per caso quel regime un giorno

crollasse, gli antichi possessori non troverebbero installato sulle loro terre di una volta un altro

proprietario, cui potessero rivolgersi per rivendicare l'antica proprietà.

« La virtù sovietica ha potuto realizzare », dice il Dubois, « un caso completo e definitivo di

spodestamento ».

Si aggiunga che sotto il regime sovietico il rendimento delle terre è di gran lunga cresciuto rispetto

a quello che era al tempo degli zar. Con qual diritto potrebbe allora un emigrato russo reclamare la

proprietà di una terra, che non solo non appartiene più a nessuno, ma che per giunta frutta oggi alla

collettività dieci volte più di quanto era capace di farla fruttare lui quando la possedeva ?

« Il regime sovietico », conclude lo scrittore, «è realmente fondato su una virtù ostinata e feroce, di

cui guardiano è il partito comunista. Può darsi che questa constatazione obiettiva non piaccia a

molti; ma bisogna pur farla, perchè non solo è l'espressione della verità, ma il fondamento della

conoscenza, nel senso cartesiano della parola, per tutto ciò che concerne l'U.R.S.S. ».

* * *

Page 32: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

32

Tolta la terra agli antichi proprietari, essa venne affidata alle Kolkhoz, che sono aziende

direttamente gestite dallo Stato. Nel 1933 oltre i 3/4 dell'area totale seminativa dell'U.R.S.S. era

nelle loro mani; oggi dai 3/4 si è passato al 93%, il che vuol dire che la quasi totalità della terra

coltivabile è affidata alle aziende collettive o statali. Le aree a cultura seminativa tecnica, quelle

cioè che servono alla produzione di cotone, lino, semi oleosi e barbabietola, sono, poi, tutte ad

economia socialista. Il progresso realizzato è dimostrato da poche cifre. Nel 1936, quando lasciai la

U.R.S.S., l'area totale seminativa era cresciuta del 3o% circa rispetto a quella dei tempi zaristici

(1913) ed anche la produzione globale era cresciuta, sebbene in misura minore. Ancora più forte,

poi, fu il progresso delle terre a colture tecniche, la cui produzione nel 1938 raggiunse il triplo circa

di quella del 1913.

Le aziende agricole socialiste sono attrezzate modernamente con trattori, macchine trebbiatrici ed

autocarri. Rapido fu il progresso di questa meccanizzazione negli anni del mio soggiorno. I trattori,

che nel 1933 erano quattrocentoventiseimila, si trovavano raddoppiati nel 1936; le trebbiatrici da

venticinquemila passarono ad ottantottomila. L'ascesa continuò negli anni successivi, tanto che nel

1938 i trattori eran triplicati di numero e le trebbiatrici sestuplicate.

A conti fatti non si può mettere in dubbio che il grandioso esperimento sovietico di agricoltura

socializzata sia riuscito, e che esso rappresenti un gran passo verso la modernizzazione del mondo.

Specialmente interessanti sono a questo riguardo le aziende agricole statali, le sovkhoz. Esse

costituiscono delle grandi organizzazioni, progettate scientificamente e dirette con criteri moderni. I

suoi lavoratori sono disciplinati e ben preparati. Un modello se ne ebbe nel « Gigante» del Caucaso,

la più grande azienda granaria del mondo, coprente un'area di oltre cinquemila chilometri quadrati.

Oggi si può dire che tecnicamente l'agricoltura sovietica, sebbene non dia ancora il rendimento che

si dovrebbe aspettarne, rappresenta una delle più progredite del mondo, essendo la più

industrializzata e la più meccanizzata.

Questa ricostruzione dell'agricoltura russa, la sua trasformazione da un'economia quasi medievale

ad una modernissima, non poteva aver luogo senza incontrare ostacoli formidabili, di cui la tenacia

di Stalin ebbe ragione. Vi furono anche periodi di violenza, quando si trattò di vincere la resistenza

opposta dai contadini ricchi, i kulakì. Furono anche commessi errori, soprattutto per l'impazienza e

l'eccesso di zelo dei giovani comunisti incaricati di dirigere la trasformazione. Così, ad esempio,

quando fu dato l'ordine ai kulaki di consegnare il bestiame, che essi preferirono, invece, di uccidere.

Fu questo il periodo di tempo in cui, tra l'altro, i mercati russi si trovarono inondati da una quantità

di pollame a poco prezzo. Ma, riparati gli errori e vinta definitivamente la resistenza dei kulakì, la

nuova economia agricola finì con lo stabilirsi su solide basi.

La famiglia

QUANDO giunsi a Mosca nel 1931, tutto accennava ad una completa disgregazione dell'istituto

familiare. L'esortazione stessa a preferire la mensa comune a quella di famiglia, che appariva scritta

sulle pareti del ristorante della stazione ferroviaria di Niegoroloje, sembrava dare allo straniero, che

entrava nell'U.R.S.S., l'annuncio della scarsa considerazione in cui allora era tenuta in Russia la vita

familiare.

Infatti l'abitudine di prendere il pasto principale della giornata fuori casa era generale. Tutte le

officine, tutti gli uffici erano provvisti di stalovaje, dove a prezzo assai basso si poteva avere il

pranzo. La donna, uscendo la mattina di casa per recarsi al lavoro, non aveva affatto da pensare alla

spesa e alla preparazione del desinare. Tutta la sua fatica culinaria si riduceva a preparare, la sera, il

tè a guisa di cena. All'infuori di questo non doveva provvedere ad altro, perchè, al pari di lei, marito

e figliuoli avrebbero mangiato fuori casa.

Quando si pensa che le nostre donne in Italia occupano molte ore per far la spesa, preparar da

mangiare e rassettare la cucina, si vede subito quale enorme risparmio di tempo e di fatica

rappresentassero per le donne sovietiche le cucine collettive. Ma bisogna aggiungere che in Russia

Page 33: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

33

il lavoro domestico veniva di molto complicato dalla scarsezza di alloggi. In una città

sovrappopolata come Mosca convivevano quasi sempre in un medesimo appartamento più famiglie

con un'unica cucina in comune, e si comprende, perciò, come la donna fosse ben contenta di non

dover allestire il pranzo per i suoi familiari.

La politica sovietica di quel tempo aveva come mira di liberare la donna dalle sue occupazioni

domestiche per darle la possibilità di partecipare con tutte le sue forze alla grande opera di

industrializzazione intrapresa da Stalin. Per questa ragione nelle nuove città industriali non erano

previste cucine individuali, ma collettive. A Dnieprostroi, ad esempio, ve ne era in media una per

ogni trecento persone. La donna, liberata così da questo pesante dovere domestico, poteva dedicare

tutto il suo tempo all'officina e all'ufficio.

Da questo punto di vista l'analogia di quello che avviene in Russia con ciò che succede in America

è grande. Anche in America il desinare del mezzogiorno, il lunch, viene generalmente consumato

sul posto del lavoro. Anche in America la

donna, liberata da buona parte degli usuali lavori domestici (che del resto le vengono resi molto

facili dall'uso dell'elettricità, del telefono e dell'automobile) ha assai più tempo da dedicare alle sue

occupazioni fuori casa.

Ma negli Stati Uniti sono ancora molte le donne che hanno come occupazione principale quella di

badare alla casa ed accudire alla famiglia. Non così in Russia, dove l'uguaglianza dei sessi è

assoluta, e dove non vi sono compiti affidati ad uomini che non possano anche, e spesso con

migliori risultati, venir affidati a donne.

Le donne partecipano alla vita economica, sociale, culturale, politica del paese nella stessa misura

degli uomini. Anzi, vi sono campi dove esse portano un'intelligenza, uno spirito d'iniziativa,

un'energia superiori all'uomo, per cui finiscono con l'esercitarvi un'influenza preponderante. Sono

molte le aziende o imprese, alle quali sono preposte delle donne, che spesso riescono là dove gli

uomini han fallito. Nella Dirigiablestroi più di un reparto era diretto da donne, le quali del resto, in

quella azienda, venivano impiegate perfino in compiti altrove riservati esclusivamente agli uomini,

come, ad esempio, quello di motorista a bordo di dirigibili.

In sostanza era ben raro in Russia trovare una donna che non avesse un lavoro fuori casa e non

potesse, col frutto di quel lavoro, bastare a se stessa. L'indipendenza economica dall'uomo le era

assicurata nel modo più completo.

In tali condizioni di cose è naturale che i vincoli familiari si fossero assai rallentati.

La stessa cosa avviene anche in America, benchè in misura minore che in Russia dove la libertà

reciproca dell'uomo e della donna, che convivono insieme come marito e moglie, è assai più grande,

e dove anche i figliuoli costituiscono un vincolo piuttosto tenue, visto che la maggior parte delle

responsabilità della loro educazione ricade sullo Stato.Uguaglianza assoluta di diritti per l'uomo e la

donna, partecipazione di questa a tutte le attività della vita sociale, riduzione al minimo della vita

familiare in comune, eran tutte cause queste che minavano le basi dell'istituto familiare. Ma oltre

queste, ve ne erano altre più gravi.Anzitutto l'estrema facilità di stabilire e sciogliere un vincolo

matrimoniale. Nessuna cerimonia, nessuna formalità solenne. Una semplice registrazione della

dichiarazione fatta dai due sposi o anche da uno solo di essi. Ma molte volte non aveva luogo

nemmeno tale dichiarazione. Esisteva cioè anche il matrimonio di fatto; bastava che due

convivessero insieme come marito e moglie perchè l'unione fosse legalmente riconosciuta.Il solo

vero vantaggio che il matrimonio registrato presentava su quello non registrato, era che, nel caso di

contestazione a chi spettasse di provvedere agli alimenti di un bambino, il giudice, se il matrimonio

era stato registrato, presumeva senz'altro che il padre del bambino fosse il marito denunziato.

Facilissimo era il divorzio. Se l'unione era registrata bastava la denunzia di uno dei due, fatta anche

a mezzo di una semplice cartolina postale. Se l'unione non era stata registrata, bastava rompere la

convivenza.

Anche in questa estrema facilità di contrarre e sciogliere un vincolo matrimoniale la Russia mi

richiamava in mente l'America. Ma in America, almeno, è obbligatorio andare davanti ad un giudice

che esamina i motivi addotti per il divorzio (*). E vero, però, che spesso questi motivi sono ridicoli,

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e ciò nonostante il divorzio viene accordato lo stesso. Da tal punto di vista è difficile di dire quale

sia, in ultima analisi, il peggiore dei due sistemi.

* * *

Secondo le idee che in quei primi tempi prevalevano in Russia, il bambino essenzialmente

apparteneva alla madre. Il padre

(*) Vedi nota successiva

sembrava non avesse altro dovere che dare il danaro necessario per allevarlo.

La ricerca della paternità era permessa. Spesso, nei casi dubbi, avveniva che i tribunali ripartissero

la somma che si doveva corrispondere per il mantenimento del bambino fra diverse persone. Mi fu

raccontato che una volta l'uomo, che la donna aveva citato quale padre del bambino, non volle

ammettere di esserlo, adducendo il motivo che nello stesso tempo la donna aveva avuto rapporti

anche con altri due uomini. Il giudice interrogò questi, ed avuta la conferma di quanto aveva

asserito il primo, nell'impossibilità di stabilire chi fosse il padre, li condannò tutte e tre a pagare gli

alimenti al bambino, la qual cosa equivaleva ad ammettere che fossero egualmente responsabili

della sua nascita. Una triplice paternità, dunque, la quale però, all'infuori del dover pagare

mensilmente trenta o quaranta rubli che sarebbero stati trattenuti sul salario, non importava, da parte

dei tre uomini, altri obblighi verso la donna e il suo bambino.

* * *

Mosca al mio tempo era sovrappopolata, e probabilmente lo è ancora adesso. Per quanto si

costruissero nuove case, non si riusciva mai a provvederne abbastanza per la popolazione che

andava rapidamente aumentando. Credo che in media non vi fossero disponibili più di tre metri

quadrati di spazio per ogni abitante. Questa ristrettezza costituiva un altro ostacolo allo sviluppo

della vita familiare.

Essa dava luogo a casi curiosi come quello capitato a due coniugi conoscenti di Elisabetta

Simeovna, che abitavano a Mosca. Un giorno essi ricevettero la visita di due amici, marito e moglie,

provenienti dalla Crimea. Il senso dell'ospitalità, come tutti sanno, è vivissimo in Russia. Non vi è

nemmeno bisogno di preavvertire l'amico del vostro arrivo. Vi presentate a casa sua, ed in un modo

o nell'altro egli vi darà alloggio e da mangiare. Nulla di straordinario, dunque, che gli amici di

Elisabetta cedessero ai due ospiti metà della camera dove alloggiavano.

Ma la visita si prolungò. I due venuti dalla Crimea finirono col trovare lavoro a Mosca e con lo

stabilirvisi. La ospitalità da temporanea divenne duratura, e le due coppie, occupando ciascuna metà

della camera, continuarono a vivere insieme indefinitamente.

Col passare del tempo un giorno si scoprì che il marito dell'una coppia si era innamorato della

moglie dell'altra. Che fare ? Da noi sarebbe nato un dramma sanguinoso, ma in Russia certe

situazioni si risolvono più pacificamente, anche se vi siano violente discussioni. In questo caso non

vi fu nemmeno discussione. Le due coppie furono subito d'accordo: si scambiarono fra loro mariti e

mogli, e proseguirono a vivere tranquillamente nella medesima camera.

Questo modo di reagire dei russi, in certe situazioni imbarazzanti, mi fa ricordare di aver assistito

una volta nella strada della Petrovka ad una scena veramente divertente. Due uomini fermi su]

marciapiede discutevano fra loro vivacemente. Ad un tratto l'uno di essi allungò all'altro un calcio

nel sedere. Mi aspettavo che ne sarebbe seguita una zuffa, ma invece l'uomo che aveva ricevuto il

calcio compostamente si allontanò senza nemmeno voltarsi.

Page 35: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

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* * *

Si sbaglierebbe chi da episodi come quello narratomi da Elisabetta o da altri analoghi traesse la

conclusione che in Russia le coppie unite stabilmente fossero rare. Tra i cento ingegneri che

lavoravano con me, tutti quelli che sapevo ammogliati mantenevano, dopo cinque anni, intatta la

loro unione. Si rifletta, per spiegarsi questa stabilità, che nell'Unione Sovietica a far unire insieme

due giovani non poteva generalmente esservi altra ragione che l'attrazione reciproca. Le

considerazioni di carattere economico erano quasi completamente escluse, perchè la donna, avendo

la sua occupazione e potendosi mantenere da sè, non sentiva alcun bisogno di appoggiarsi ad un

uomo. Con ciò non voglio dire, però, che non vi fossero eccezioni a questa regola. Anche in Russia

vi erano donne ambiziose o vanitose che miravano, ad esempio, a sposare un comunista influente od

un ufficiale della G.P.U. per godere di alcuni vantaggi di carattere materiale o anche per conquistare

un maggior prestigio personale. Bisogna riconoscere che, a questo riguardo, tutto il mondo è paese.

La stessa cosa avviene, ad esempio, in America, dove spesso matrimoni e divorzi sono suggeriti alla

donna solo dal desiderio di conseguire una migliore posizione sociale.

* * *

Le condizioni assai spesso precarie della vita in quegli anni, la politica, seguita dal Governo, di

liberare la donna per quanto era possibile dalle occupazioni domestiche, la ristrettezza degli alloggi,

l'enorme facilità del divorziare, eran tutte cause che avevano condotto alla decadenza dell'istituto

familiare.

Vi erano, però, talune famiglie che meglio delle altre avevano resistito alla disgregazione, ed erano

quelle ebraiche.

Un esempio si aveva nella famiglia di Elisabetta Simeovna, nella quale, dopo venti anni di

rivoluzione, i legami familiari permanevano intatti o quasi. Questa famiglia continuava ad abitare

da sola l'appartamento nel quale aveva sempre vissuto; l'unica differenza era che, legalmente

l'appartamento, si trovava ora suddiviso fra i singoli membri della famiglia: una camera per i due

vecchi genitori, un'altra per Elisabetta, un'altra per il fratello con la moglie, ecc.

Nel gennaio 1932 visitai a Mosca una piccola famiglia costituita dal marito — un ingegnere ebreo

— dalla moglie russa e da due bambini, uno di sette anni, l'altro di nove o dieci.

Essa avrebbe potuto esser presa a modello in qualunque altra parte del mondo.

* * *

Vi era in Russia, nel 1931, e durò ancora per qualche anno, una grande diffusione delle operazioni

di aborto, che venivano eseguite in appositi ospedali. Benchè fossero sconsigliate, esse, con certe

limitazioni, erano allora ammesse dalla legge sovietica. Le donne ne parlavano apertamente senza

alcuna reticenza, tanto che una volta una delle ragazze che lavoravano nel mio ufficio mi avvertì

tranquillamente che avrebbe dovuto chiedermi otto giorni di permesso per recarsi a quello scopo

all'ospedale. Dopo mi fu spiegato che la cosa era del tutto normale. Una donna aveva diritto, in quel

caso, di ottenere dall'ufficio dove lavorava i giorni di permesso necessari.

* * *

Contribuiva in quei tempi a minare le basi della famiglia un'altra circostanza. L'educazione dei

bambini, completamente nelle mani dello Stato, scavava spesso un abisso profondo fra genitori e

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figliuoli. I fanciulli, abituati a scuola alla vita in comune e ad agire e parlare secondo i principii

comunisti, tornando a casa, si accorgevano che i loro genitori, ancora delle vecchie generazioni,

parlavano ed agivano diversamente. Ne seguiva che, pur senza alcuna intenzione di far da delatori,

essi riferivano al maestro parole e gesti dei genitori, che suonavano critica ai sistemi ed alle idee

comuniste. Poteva in conseguenza avvenire che i genitori fossero molestati a motivo di ciò che

avevano detto alla presenza dei figliuoli; donde una causa di scissione e di disaccordo. Ma più tardi,

a dir il vero, le critiche dei ragazzi non furono più in alcun modo adoperate contro i parenti, ma solo

considerate come una riprova della bontà dell'educazione che ad essi era stata impartita.

* * *

Tutte le cose cui ho accennato: l'assenza della donna da casa per la maggior parte della giornata, e la

conseguente scarsezza di cure che essa poteva dedicare al marito e ai figliuoli, il solco profondo

scavato fra i genitori e i figliuoli dalla educazione comunista, la facilità estrema di distruggere un

vincolo matrimoniale, e infine lo scarso senso di responsabilità del padre verso il figlio portavano

inevitabilmente ad una grande rilassatezza dei vincoli familiari, minando le basi stesse della

famiglia.Si aggiunga l'ammissione legale dell'aborto, e si avrà il quadro della situazione in cui,

durante i primi anni del mio soggiorno in Russia, si trovava l'istituto familiare.

Poi la politica del Governo cambiò. L'aborto venne proibito con pene severissime, ed il divorzio

reso assai meno facile (*). Meglio di tutto, poi, ebbe inizio una vasta, intensa propaganda, fatta

anche a mezzo del teatro, per richiamare i padri ai loro doveri verso i figliuoli, incitare le mogli ad

occuparsi del benessere dei propri mariti e protestare contro i facili divorzi. Con grande stupore di

noi stranieri vi fu perfino una campagna demografica perchè le donne sovietiche avessero più

bambini.

Il curioso è che di quest'ultima propaganda non sembrava proprio vi fosse bisogno in un paese che,

sotto il regime

(*) Furono aumentate le tasse. Ma un ulteriore passo è stato fatto con la legge del 18 giugno 1944:

secondo cui il divorzio deve essere pronunciato dalle corti giudiziarie dopo pubblica discussione. È

proprio di questi giorni la notizia, diramata da Mosca dall'Associated Press, secondo cui, in

seguito all'applicazione della nuova legge, in sedici mesi il numero dei divorzi è diminuito di due

terzi.

sovietico, aveva veduto la sua popolazione accrescersi di un quarto, e dove in certi distretti rurali

l'aumento annuo aveva raggiunto il 12 %.

Ma la campagna vi fu ed attivissima. Che portasse i suoi frutti me ne accorsi dal differente parlare

di Mèla, la mia colta ed intelligente segretaria, che a ventisei anni si maritava per la terza volta.

Questa volta, essa mi diceva, doveva essere l'ultima, la definitiva. Mèla, fino a poco tempo prima,

mi aveva confessato di non aver voluto bambini perchè, nei tempi duri che correvano, non poteva

assumere la responsabilità di un'altra vita. Ma ora all'improvviso cambiò parere.

Virtù di una propaganda che fra l'altro metteva in mostra, dovunque, fotografie di Stalin nell'atto di

accarezzare una fanciullina, o di prendere fra le braccia un bambino incontrato nel Parco di Cultura

e Riposo.

La religione

GIUNGENDO a Mosca ero talmente convinto che non vi fosse alcuna chiesa cattolica aperta al

culto che non mi presi nemmeno la briga di domandarne. Un giorno, però, conversando con Maria

Andreievna, la mia segretaria di allora, seppi che di chiese ve ne erano due, proprio vicino a casa

mia, dietro la piazza della Lubianka, una francese, l'altra polacca.Alla prima domenica mi ci recai.

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Le trovai gremite. Chiunque, naturalmente, poteva entrarci. Si intende che una parte del pubblico

era di stranieri, ma vi erano anche molti russi.Ricordarsi della domenica non era cosa facile in

Russia, a meno che ci si fosse trovati ad abitare in un villaggio dove i contadini ancora la

rispettassero. Nel 1931 la settimana (così si continuava a chiamare l'intervallo di tempo che correva

tra un giorno e l'altro di riposo) era di cinque giorni appena. Uno di essi era giorno di vacanza

(vicannoi dien), e si faceva variare da azienda ad azienda per evitare una eccessiva calca ai teatri ed

ai cinema, già troppo affollati. Il vicannoi dien coincideva con la domenica ogni trentacinque

giorni,ma nel 1932, quando la settimana fu portata a sei giorni, la coincidenza ebbe luogo soltanto

ogni quarantacinque giorni.

Con 'la settimana così ridotta si era presto perduta ogni abitudine di indicare i giorni con i nomi

tradizionali, il che avrebbe, del resto, creato una inutile confusione. Si diceva semplicemente:

primo, secondo, terzo giorno, ecc. Perciò, vivendo in mezzo ai russi, presto si finiva col non saper

più in che giorno si fosse, e la domenica il più delle volte passava inavvertita, anche quando si era

fatto il proposito di non dimenticarsene.

Per questa ragione Maria, mia figlia, quando giungeva a Mosca a passarvi le vacanze estive,

pensava subito a prepararsi dei grandi cartelli dove scriveva i giorni della settimana: lunedì,

martedì, mercoledì, ecc. Ogni mattina attaccava al muro, in un posto ben in vista, il cartello della

giornata. Così non avrebbe dimenticato di andare a messa, la domenica.

* * *

Le chiese ortodosse a Mosca, la città dalle diecimila cupole, erano moltissime, ma quelle aperte al

pubblico erano assai poche in verità. Ne domandai la ragione ai miei amici russi. Mi fu risposto che,

non dando il Governo alcuna sovvenzione per il mantenimento delle chiese e dei preti, ad esso

dovevano provvedere da soli i fedeli. Questi, pesò, non solo si andavano riducendo di numero, ma,

quel che è peggio, non riuscivano più, in quei tempi di carestia, a dare un obolo che bastasse a

coprire le spese del culto.

Conseguenza inevitabile di questo stato di cose era che molte chiese venivano abbandonate. Se esse

avevano un valore artistico, le si trasformava in musei, altrimenti erano demolite per far posto a

nuove costruzioni, oppure adibite ad usi civili come era accaduto, ad esempio, di una piccola chiesa

all'Arbat dove la Dirigiablestroi custodiva le sue automobili, e con esse anche la mia.

Una chiesa assai bella era quella del Salvatore (Kram Krist Spassitelia) elevata in ricordo della

liberazione della Russia dall'invasione francese. Era la più grande di Mosca e poteva contenere

diecimila persone. Delle sue cinque belle cupole, la maggiore, quella centrale, misurava 102 metri

di altezza. La visitai nel 1926. Sei anni dopo, nel 1931, non la trovai più. Al suo posto si lavorava

per la fondazione del grande palazzo dei Sovieti.

* * *

La curiosità più di una volta mi spinse ad entrare in qualcuna delle chiese ortodosse aperte al culto.

Erano decorate sfarzosamente. Con altrettanto fasto e grande solennità vi avevano luogo le funzioni

religiose. Notai che erano frequentate prevalentemente da persone di mezza età od anziane. Di

giovani se ne vedevano ben pochi, anzi direi, nessuno. Meno raro era il caso di vedervi dei ragazzi

accompagnati dalle madri.

Due di queste chiese sorgevano sulla piazza della Lubianka, una presso le mura cinesi, l'altra

proprio vicino alla casa dove io abitavo, all'angolo della Mjasnitzkaja. Questa si chiamava di S.

Antonio: era piccola, quadrata, con una bella cupola che la sormontava. Dicevano che fosse antica.

Quando la mattina mi alzavo da letto, affacciandomi dalle finestre che davano sul cortile, me la

vedevo davanti agli occhi a pochi metri di distanza. Era la sola bellezza artistica, per così dire, di

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cui potessi godere senza muovermi di casa, giacchè le altre finestre che davano sulla Mjasnitzkaja

non avevano di faccia altro che il massiccio, brutto palazzo della G.P.U. Un giorno la bella cupola

scomparve. La chiesa era stata demolita, per praticare al suo posto un pozzo della ferrovia

sotterranea. Poco dopo scomparve anche l'altra, più grande, sotto le mura cinesi. Al suo posto si

costruì una stazione della Metro.

* * *

Di « Popi », con la loro lunga zimarra nera, i capelli lunghissimi e la gran barba fluente, se ne

incontravano spesso nelle strade centrali di Mosca, magari sulla stessa piazza Rossa dove, sul

frontone dei fabbricati prospicienti al Kremlino, si leggeva scritto a caratteri cubitali: « La religione

è l'oppio dei popoli». Mi sembrava così strana la loro apparizione in piena capitale comunista, che

mi fermavo a bella posta ad osservare il contegno che avrebbero avuto i passanti nell'incontrarli. Ma

i russi non mostravano nemmeno di accorgersi della loro presenza.

* * *

A Leningrado visitai una volta il museo antireligioso della cattedrale di Sant'Isacco, la bella chiesa

dalla grande cupola dorata, al cui centro oscillava un pendolo che riproduceva la esperienza di

Foucault. Sulle pareti, nelle navate sorrette da colonne di granito, erano in mostra documenti e

fotografie riguardanti alcune strane sette religiose che anche allora pullulavano in Russia,

specialmente nei dintorni di Leningrado. Non notai nulla di indecente. Ma ad Arcangelo, nel 1931,

girando un giorno per la strada principale, lessi su una cantonata scritto in russo: « Museo

antireligioso ». Entrai: una piccola camera a pianterreno con le pareti ricoperte di figure, iscrizioni,

disegni. Mi avvicinai ad uno di questi: un quadro osceno che si riferiva alla Annunciazione, una

cosa bassamente volgare e disgustosa. Nauseato, mi affrettai ad uscire.Mi apparve evidente che il

museo di Arcangelo fosse fatto per un genere di visitatori del tutto diversi da quelli di

Leningrado.Quel giorno stesso, ad Arcangelo, notai una rubizza contadina che passando davanti ad

una chiesa posta fuori mano si faceva il segno della croce.

* * *

A Mosca, nel 1932, una ragazza di venticinque anni che mi faceva da interprete, mi mostrò la

tessera dell'Associazione degli atei. « Perchè ne fate parte ? » domandai. « Che attività vi svolgete ?

». Si strinse nelle spalle. Non lo sapeva nemmeno lei.

* * *

A chi in Russia dirigeva la lotta antireligiosa credo dovesse assai poco importare se un uomo o una

donna delle passate generazioni praticasse l'uno o l'altro culto religioso. Durante gli anni che io fui

in Russia, per quello che mi consta, nessuna persecuzione ebbe luogo contro un cittadino sovietico

per il solo fatto che frequentasse una chiesa. Quello che importava era che nell'educazione dei

bambini (posta quasi completamente nelle mani dello Stato) lo spirito religioso dei genitori non

avesse alcuna influenza. Per questa ragione si può ben dire che le nuove generazioni, quelle che

hanno fatto la guerra, sono cresciute in un'atmosfera di assoluta antireligiosità.

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* * *

Ai membri del partito era, naturalmente, fatto divieto di praticare qualsiasi culto religioso. Ogni

manifestazione di tal genere avrebbe costituito un motivo di indegnità di appartenenza al partito.

Fui molto divertito, una volta; dall'ingenua insistenza con la quale, in un eccesso di zelo

antireligioso, un giovane comunista di mia conoscenza tentò di catechizzarmi. Ciò avvenne a casa

mia, una sera che l'avevo invitato a pranzo insieme ad altri quattro o cinque ingegneri del mio

ufficio. Fu solo dopo qualche occhiataccia rivoltagli dai compagni che si decise a smettere.

* * *

Nel marzo 1933, quando dopo l'operazione di appendicite fui dichiarato spacciato dai medici

dell'Ospedale del Kremlino, Ester Josefovna mi domandò: «Volete un prete ? ».

Il giorno dopo Elisabetta Simeovna, una delle mie infermiere, spalancò la porta della camera, dove

giacevo moribondo, per lasciar passare un'alta, imponente figura di prelato, solennemente rivestito

di paramenti sacri. Era Monsignor Neveu, il vescovo che alloggiava presso l'Ambasciata di Francia,

che veniva ad amministrarmi i sacramenti.

Qualche mese dopo, Elisabetta commentando la visita del vescovo mi disse: « Bila balsciaia

sensazio ». Fu una grande sensazione per tutti, personale ed ammalati, veder entrare un prete

nell'ospedale del Kremlino. Una cosa simile non si era mai vista.

E non si poteva vedere, perché in quell'ospedale eran curati solo i «grandi» comunisti. Fu dunque

un avvenimento memorabile l'entrata di un vescovo in quell'edificio, ma bisogna riconoscere che

nessuna delle cinquecento persone che vi si trovavano si permise di far commenti men che

rispettosi.

* * *

Di una cosa sentivo la mancanza in Russia, ed era il suono delle campane. Forse per chi va esule per

il mondo, avendo vissuto da fanciullo in un piccolo centro od in campagna, non vi è nulla che

riporti il pensiero alla patria ed alle persone care come quella musica sonora che ci ha accompagnati

fin dalla infanzia.

Una sera, al Teatro d'Arte in Mosca, dove si rappresentava un dramma -storico russo, ad un tratto la

scena si aprì davanti ad una cattedrale. Nell'atto in cui lo zar scendeva gli scalini della chiesa, le

campane cominciarono a suonare. Uno scampanio a festa, che andò sempre più crescendo, e che

riempiva gli orecchi ed il cuore. La riproduzione del suono, come tutto il resto della

rappresentazione, era perfetto. Ritornai ad assistere a quello spettacolo soprattutto per riudire il

suono di quelle campane.

Ma una volta a Leningrado, andando lungo la Perspectiva Newski per visitare la fabbrica di

porcellane, fui colpito da un suono familiare. Stavolta eran proprio le campane di una chiesa, ed il

suono metteva come una festa nell'aria e nello spirito.

Cene funerarie

Ho assistito una volta, a Mosca, ad una cremazione. Vi fui invitato da un celebre aviatore, cui dopo

una lunga malattia era morta la moglie.

Mi ci recai insieme con mia figlia e con Elisabetta Simeovna.Raggiunto in automobile il corteo

funerario, proseguimmo a piedi per un chilometro o più. Infine giungemmo all'edificio dove

avrebbe avuto luogo la cremazione: un edificio di forma semplicissima, di pianta quasi quadrata,

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con una gran sala a livello del suolo, nuda, fredda, squallida, rivestita di marmi.In questa sala fu

trasportata la salma, ed ebbe luogo una funzione funebre con suoni, fiori e bandiere. Di là,

attraverso una botola, la salma fu fatta discendere al piano sottostante, dove era il forno.Aperti gli

sportelli di questo, la salma vi venne introdotta. Il gesto mi colpì. Senza volerlo mi richiamava

quello del fornaio che spinge entro il forno una palata di pane.Mentre la cremazione avveniva,

fummo invitati a guardare attraverso uno sportellino di cristallo. Il cadavere, investito dalle fiamme,

si contraeva.Così terminò la macabra cerimonia. Le ceneri sarebbero state poi consegnate alla

famiglia in una cassettina.L'impressione che provai non fu piacevole. Ero andato alla cerimonia con

una certa curiosità, avendone sentito parlare da Elisabetta Simeovna come di uno spettacolo assai

bello. Ma rimasi deluso ; dirò di più, disgustato. La cerimonia mi apparve, come realmente era,

fredda, brutale, direi quasi cinica.

* * *

Al ritorno il marito della morta ci invitò ad andare a casa sua a prendere il tè.

Non ero mai stato ad una cena funeraria. Ne ebbi un esempio.Il marito faceva gli onori di casa. Ci

fece visitare l'appartamento. La camera da letto della morta era stata già disfatta. Ci annunziò che

avrebbe comprato un nuovo letto. « Nuova vita, nuovo letto ».Giunsero man mano gli invitati.

Quando ci furono tutti, il padrone di casa ci invitò a sedere davanti alle due tavole apparecchiate, e

ci esortò a bere e mangiare. Passava da un tavolo all'altro dicendo: « Sgisn sgisn» (Vita, vita !) « Un

po' di allegria! ».Si mangiò e si bevve. Io e mia figlia non prendemmo quasi nulla e ad una certa ora

ce ne andammo. Rimase Elisabetta Simeovna, che poi ci raccontò che il festino era durato fino ad

ora tarda della notte, e che si era continuato a bere e mangiare allegramente.

In questo modo il marito, gli amici e le amiche della povera defunta ne commemorarono la morte !

* * *

Ma di un'altra cena funeraria seppi, interrotta in condizioni drammatiche.

Il caso mi fu raccontato dal dottor Pohl, l'ex ambasciatore di Austria in Russia, direttore di un

giornale in lingua tedesca che allora si pubblicava a Mosca.

In un'officina elettrica, a causa di un corto circuito, due operai eran rimasti fulminati. Il medico

dell'officina, constatatane la morte, aveva redatto il relativo certificato. Dopo di che le due salme

erano state portate al cimitero per la tumulazione. Ora si dava il caso che uno dei due operai

fulminati, venuto da poco tempo dall'America, indossasse nel momento dell'accidente un abito

quasi nuovo.

Un compagno di lavoro pensò (si era allora in Russia in un periodo di estrema scarsezza di

indumenti) che in fondo era un peccato che un così buon vestito fosse messo a marcire sotto terra,

mentre poteva servire a lui a proteggerlo dal freddo. Decise di recarsi al cimitero per portarlo

via.Era una notte rigida d'inverno. Il freddo pungeva. Il camposanto era tutto ricoperto di

neve.Ritrovato il posto dove era stata depositata la cassa funebre, il ladro la forzò. Il cadavere era là,

disteso, rigido. Sollevatone il torso, il ladro tolse la giacca, poi il corpetto. Si accingeva ora a tirar

via i pantaloni, quando ad un tratto, il cadavere fece un movimento, ed aprì gli occhi. Atterrito, il

disgraziato afferrò tutto e scappò via di corsa.Era un caso di morte apparente, di quelli così

frequenti nelle fulminazioni da corrente elettrica. Sotto il morso dell'aria fredda il creduto morto

aveva ripreso i sensi, e si trovava ora nudo, all'aperto, nella notte gelata, disteso in una cassa

funebre !

Si alzò, uscì dal cimitero. Alla prima casa che trovò, si fermò a chiedere in prestito una coperta. Gli

fu data. Vi si avvolse ed a piedi si recò a casa sua, dove la moglie, il fratello di lei e gli amici, si

trovavan riuniti per la rituale cena funeraria.

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Bussò. Venne la moglie ad aprire. A vedere il marito avvolto nella coperta, gettò un grido di terrori,

e richiuse a precipizio la porta, correndo dentro, pallida e tremante, a narrare agli ospiti che lo

spettro del marito era là che voleva entrare. Gli ospiti credettero ad una allucinazione, ma ecco

bussare di nuovo violentemente. Il fratello si decise ad andar lui a vedere di che si trattasse; e così

potette convincersi che non sì trattava di uno spettro, ma di suo cognato in carne ed ossa, che

tornava a casa.

Un particolare raccapricciante. La mattina dopo, si andò al cimitero con la speranza di trovar vivo

anche l'altro fulminato. Ma era già cadavere da alcune ore. Il disgraziato era rinvenuto anche lui, ed

aveva tentato inutilmente di rompere la cassa in cui era chiuso. Fu trovato con la faccia rivolta

all'ingiù, tutto contorto per lo sforzo tremendo che aveva fatto.

* * *

Ebbi la curiosità di sapere se, la giovane moglie di Stalin fosse stata cremata o sepolta.

Era stata inumata, e mi fu un giorno indicato il cimitero dove era seppellita.

Case di lavoro per donne

NELL'AMPIA sala del ristorante del Metropole, sfarzosamente decorata ed illuminata, gli zingari

avevano interrotto i loro canti e le loro danze per andare anch'essi a cenare. La sala era semivuota.

Solo pochi stranieri sedevano qua e là, chè in quel tempo al Metropole bisognava pagare in valuta

forestiera, e perciò il ristorante non poteva essere frequentato da cittadini sovietici. Mi trovavo

seduto ad un tavolo del centro, presso la gran vasca dove guizzavano dei pesci dorati, e dal mio

posto scorgevo il bar, davanti al cui banco alcuni giornalisti americani erano seduti a bere: fra gli

altri Stoneman, il corrispondente del Chicago Daily NEWS, che conoscevo da molti anni.

Ora che il melanconico canto degli zingari si era taciuto, avevo ripreso a conversare con Leteisen, il

giovane ingegnere comunista che il Capo della Flotta Area Civile aveva messo a mia disposizione

come interprete. Venuto a parlarmi del programma della riunione fissata per il pomeriggio del

giorno dopo, si era trattenuto a lungo, ma come al solito aveva rifiutato di cenare con me.

Leteisen mi piaceva molto. Aveva modi gentili e fini. Alto, magro, con due occhi scuri che

guardavano in faccia mentre parlava con tono di voce tranquillo e pacato. Indossava una casacca

militare. Parlava indifferentemente in italiano, francese e inglese. ma conosceva bene anche il

tedesco, e non so più quale lingua orientale. Rispondeva sempre di buon grado a tutte le domande

che gli ponevo sui vari problemi della vita sovietica. Una volta scrisse su un foglio di carta una serie

di idee e di principii comunisti, e me lo diede, ma il giorno dopo mi pregò di restituirglielo.

Quella sera si era finito col discorrere di quelle disgraziate che si vedono in giro per le strade di

Parigi, di Berlino, o di Londra ad allettare i passanti, ma che a Mosca non si vedevano più. Leteisen

mi parlò a lungo della lotta che il partito aveva intrapresa per estirpare il terribile male. Quelle

povere donne venivano avvicinate nella strada ed indotte con la persuasione a lavorare. Vi erano,

per questo, a Mosca appositi stabilimenti, dove esse venivano ricoverate.

Mentre il mio compagno terminava di raccontarmi queste cose, gli zingari rientravano e

riprendevano posto sul palcoscenico in fondo alla sala. Erano una ventina fra uomini e donne, di

tutte le età. Il più vecchio sembrava essere il loro capo. Vestivano i loro pittoreschi costumi

nazionali; le donne con un lungo scialle che ricopriva loro le spalle scendendo lungo i fianchi. Eran

tutti di carnagione molto scura, tranne una ragazza con gli occhi chiari, che dicevano fosse figlia di

un generale zarista.

Sul palcoscenico si disposero a semicerchio, le donne sedute, gli uomini in piedi dietro di loro; poi,

ad un cenno del vecchio, cominciarono a cantare in coro.

Ad un tratto una delle giovani si levò di scatto e con un lieve passo di danza si mise a girare in

tondo, suonando un tamburello con la mano destra e piegando in graziose movenze, al ritmo del

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canto e dei suoni, il corpo alto, snello, flessuoso. Gli altri continuavano a cantare scandendo il ritmo

della danza col battere delle palme delle mani, come per eccitare la giovane danzatrice. Di tanto in

tanto ella si arrestava e si metteva a scuotere le spalle ed il petto, cosi rapidamente da sembrare che

tremasse. Si faceva allora più forte e concitato il batter di mani del coro.

Cessata la danza ci alzammo per uscire. Era già tardi.

Avviandoci alla porta Leteisen domandò: E che farà nella mattinata ? Vuole che la accompagni in

un museo ? ». « No », risposi, «di musei in Italia ne abbiamo tanti. Qui in Russia mi interessano più

le cose vive: Andiamo piuttosto a visitare una di quelle case di lavoro di cui ha parlato ».

Leteisen mi guardò un po' sorpreso. «Le interessa tanto questo argomento ?, mi domandò ». «

Perchè no ? » risposi.

« Bene », disse Leteisen. « Domani alle dieci verrò a prenderla al Grand Hotel ». E ci separammo.

* * *

Fuori faceva freddo. Si era in pieno inverno. Il termometro sulla porta segnava venticinque gradi

sotto zero. Il gelo aveva dipinto su vetri dell'albergo fantastici, meravigliosi arabeschi, quali solo a

Mosca ne ho visti. La grande piazza Sverdlov era tutta ricoperta di neve. A destra, nel fondo, il

teatro dell'Opera era ancora illuminato, e potevasi scorgere chiaramente la quadriga che sovrasta la

facciata. La fontana del Vitali era tutta gelata e quasi scompariva sotto la neve. Ma la nota più

pittoresca era data dai grandi fuochi accesi qua e là per liquefare la neve sulle rotaie del tram.Mosca

d'inverno è veramente bella.

Rialzai il bavero del cappotto, ma il freddo era così pungente che mi costrinse ad abbassare sulle

orecchie il risvolto di pelliccia del berretto di Alaska, ricordo della spedizione del Norge. Mi

inoltrai nella piazza per accostarmi ad uno dei fuochi. Il contrasto fra la bella fiamma rossa ed il

biancore della neve che ricopriva la piazza come una coltre, era impressionante. L'attrazione era

irresistibile. Ne ero come affascinato.Quattro anni più tardi, al tempo del terribile processo in cui fu

implicato anche il dottor Levin, uno dei medici che mi curò all'ospedale del Kremlino, appresi che

Massimo Gorki, di cui il Levin era il medico, amava come me Io spettacolo di quei fuochi accesi

nel mezzo della neve, e restava a lungo a contemplarli, noncurante del mal di petto di cui soffriva.

* * *

La mattina dopo, puntualmente, Leteisen venne a prendermi. Una corsa di pochi minuti e ci

arrestammo davanti ad un grande edificio dall'apparenza modesta. « Occupano tutta questa casa»,

disse il mio compagno.

Bussammo. Una donnetta ci aprì, lasciandoci entrare. L'interno era di aspetto piuttosto povero.

Attraverso una porta, a destra, intravidi alcune donne curve davanti a telai. Sulla parete una tabella

indicava la ripartizione dei locali: al primo piano i laboratori, al secondo i dormitori, al terzo le

cucine e le mense.

Ci venne incontro il direttore, un giovane di aspetto simpatico, vestito assai modestamente. Poi che

Leteisen ebbe spiegato chi ero e lo scopo della visita, egli ci accompagnò nel suo ufficio, ed

invitatici a sedere si disse pronto a dare tutte le informazioni che desideravo.

« Di istituti come questo ne abbiamo a Mosca una settantina, con circa settemila donne. Spesso

vengono a noi spontaneamente, convinte dalle compagne che le hanno precedute. Ma durante la

notte una commissione va in giro per le strade per avvicinarle e persuaderle a venire a lavorare.

Prima della rivoluzione avevamo a Mosca trentamila di queste disgraziate; oggi son ridotte a quattro

o cinquecento ».

« Le considerate come recluse ? », domandai.

« No, sono tenute nella massima libertà. Lavorano sei ore al giorno ed hanno un giorno di riposo

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ogni cinque. La sera possono uscire. Guadagnano 125 rubli al mese, e ne versano a noi per il

mantenimento soltanto 25. Il resto è per loro; possono farne quello che vogliono. Dopo un anno, se

hanno tenuto buona condotta, vengono inviate a lavorare in una fabbrica».

« Capita mai che qualcuna torni alla vita di prima ?»

« No, mai. Del resto, hanno tutti i vantaggi a stare qui a lavorare. Se non lavorassero, dovrebbero

pagare molto di più per l'alloggio e per comprare le cose essenziali per vivere ».

Chiesi delle loro condizioni di salute. « Le curiamo prima di ammetterle. L'assistenza medica è

assai rigorosa. Alcune di esse si maritano anche ed hanno figlioli».

Entriamo a visitare uno dei laboratori. Una lunga fila di telai a cui lavorano a fare calze una

cinquantina di donne. Esprimo il desiderio di parlare con qualcuna di esse. Vicino alla porta è una

ragazza bruna, dalle fattezze un pò rozze, una espressione di sempliciona nel volto. La interrogo. A

tredici anni, rimasta senza genitori, aveva dovuto mendicare. Poi si era data alla mala vita. Qui è

contenta. Le piace di starci, e non ha alcun desiderio di andare a lavorare in fabbrica.

Passo ad interrogare una ragazza bionda, delicata, giovanissima, molto seria in volto, quasi schiva

di parlare. Ha diciotto anni. La madre era una guardiana. Essa l'abbandonò. Ora è felicissima di

stare qui.

Ancora un'altra. Sui venticinque anni, fiorente, dal volto roseo, piena di vita, allegra. Si è maritata

da poco; sta per diventare madre.

Passiamo ad un altro laboratorio. « Ecco un tipo interessante », dice il direttore, indicandomi una

donna di mezza età, con una faccia grossolana e rossastra, lineamenti duri.

Parla. Ha una voce un po' roca. Dice che per diciotto anni ha fatto quella vita, ed era un'ubbriacona.

Anche ora beve, ma poco. E contenta di lavorare.

Oso fare una domanda: « Quando guadagnava allora ? Più o meno di adesso ?» Si mette a ridere.

Interloquiscono le compagne, ridendo anch'esse. « Cinquanta copeki, qualche volta un rublo; spesso

soltanto percosse».

Ringrazio ed usciamo. Nel vestibolo troviamo una ragazza bruna, belloccia, dell'età, forse, di venti

anni. Essa si rivolge piangendo al direttore. Domando la ragione. « E' andata a trovare il suo amico,

ed è rimasta assente per tre giorni. Secondo i regolamenti non può più essere riammessa».

La ragazza è disperata. Fra le lacrime spiega: « Ma come potevo fare ? Egli doveva partire e non ho

potuto lasciarlo ». Mosso a compassione, intervengo presso il direttore pregandolo di essere

indulgente per questa volta. Il direttore, da principio inflessibile, alla fine cede alle preghiere. Ma la

ragazza non crede al perdono e continua a piangere. Poi, quando vede che il direttore scrive su un

foglio l'autorizzazione a rientrare, si acquieta.

Ora appare tutta felice nel volto.

* * *

Ridotto al minimo il numero di queste donne girovaghe, si trovava in Russia ridotta anche la

criminalità che fiorisce attorno ad esse; e penso che soprattutto questa sia la ragione per cui a

Mosca, a Leningrado, non esistevano quartieri dove fossero concentrati i bassifondi sociali, come ve

n'è a Parigi, a Londra, a Berlino, a New York, a Roma. A Mosca non esistevano case malfamate, nè

strade o locali pubblici dove una persona dabbene si dovesse vergognare di entrare. Si poteva girare

di giorno e di notte per qualsiasi strada senza imbattersi in spettacoli disgustosi. Una fanciulla

poteva liberamente andare in giro dovunque, sicura di non essere molestata da alcuno, o di fare

incontri che potessero offendere la sua modestia.

* * *

Una grande decenza era nella fiumana di popolo che continuamente si riversava nelle strade di

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Mosca. E tuttavia, nei primi anni della vita sovietica, vi erano state strane aberrazioni.

Mi raccontavano gli amici russi di aver visto una volta un corteo di donne completamente nude, che

portavano in giro dei cartelli dov'era scritto: «Abbasso il pudore ». « Il pudore è un pregiudizio

borghese ».

Si era perfino costituita una «lega contro il pudore », i cui soci si abbandonarono alle manifestazioni

più grottesche fino a che, un bel giorno, il Governo Sovietico, perduta la pazienza, intervenne per

reprimere energicamente quelle stupide aberrazioni.Ciò non ostante, nell'estate del 1931 i giovani

sovietici, sulle spiagge dei mari e dei fiumi, si bagnavano ancora del tutto nudi.

II primo di questi spettacoli mi fu offerto ad Arcangelo, nel mese di luglio di quell'anno. Sulla

spiaggia, a pochi metri di distanza da me, vidi una donna grassa e brutta togliersi tranquillamente i

panni d'addosso, e poi, completamente nuda, tuffarsi nell'acqua della Dvina.L'estate successiva a

Mosca, ancora una volta fui colpito dalla disinvoltura con cui centinaia di uomini e donne, pur in

separati recinti, si bagnavano nudi nelle acque della Moskova. Quell'esposizione di carni era

certamente fatta senza alcuna apparente sfacciataggine, e forse era causata da mancanza di

indumenti adatti più che voluta espressamente. Ma non per questo era meno ripugnante. Lo

spettacolo mi ricordava molto da vicino quello dei bagni giapponesi dove avevo visto, in

un'indecente promiscuità, uomini, donne, bambini, vecchi, tutti completamente nudi.

Nel 1933 le ultime vestigia di nudità scomparvero anche dalle rive della Moskova . che cosa avesse

provocato il cambiamento non saprei dire; ma certo dovette esservi un ordine dall'alto. Comunque,

da quell'anno in poi, in fatto di castigatezza di costumi, le città russe offrirono uno spettacolo

piuttosto raro nel mondo.

Le donne, in istrada, eran tutte vestite decentemente, senza scollacciature, senza esibizione di

gambe e braccia nude. Esse eran troppo occupate nella grande opera di costruzione sovietica per

tollerare che il loro prestigio di fronte agli uomini venisse abbassato da qualsiasi manifestazione di

civetteria o di inverecondia.

Nell'atmosfera ardente di lavoro, di iniziative, di nuove imprese creata dall'attuazione dei piani

quinquennali, non vi era posto per depravazioni del gusto e degenerazioni intellettuali del genere di

quelle che avevano inspirato le prime manifestazioni contro il pudore. I giovani sovietici, maschi e

femmine, dovevano dedicare tutte le loro forze alla lotta per la industrializzazione. Non era

permessa nè tollerata alcuna indulgenza verso il vizio. Giornali pornografici, libri osceni, film

indecenti, spettacoli teatrali scurrili eran tutte cose sconosciute in Russia, al tempo in cui vi sono

stato io.

I giovani russi nelle strade, nei parchi, nei teatri, nei cinematografi, nei caffè di Mosca si

comportavano con la più grande decenza e la maggiore serietà. I giornalisti che con una visita di

due o tre settimane, credevano di aver scoperto l'Unione Sovietica , raramente si accorgevano di

questo lato pur così caratteristico della nuova Russia, ed ancora più raramente lo mettevano in

rilievo. Ma un osservatore acuto e profondo quale André Gide, che venne a Mosca nel 1936, tornato

in patria, narrando la sua visita al Parco di Cultura e Riposo, scriveva queste parole:

« Non appena varcata la porta ci si sente disorientati. In questa folla di giovani, uomini e donne,

dovunque una grande serietà, un'assoluta decenza: giammai il minimo accenno di scherzo stupido o

volgare, di facezie oscene, di parole o di atti licenziosi, nemmeno di flirt. Si respira dovunque una

aria di fervore gioioso ».

Bies-prisornik

IN un pomeriggio d'estate, qualche mese dopo che mi ero stabilito a Mosca, mentre passavo davanti

all'albergo Metropole, la mia attenzione fu richiamata da un ragazzo, tutto lacero e sporco, che se ne

stava buttato a terra in un cantuccio. Mi fermai a guardarlo. Poteva avere sedici o diciassette anni.

Gli occhi aveva arrossati. Sembrava stanchissimo, come chi abbia compiuto lungo cammino.

Servendomi del pochissimo russo che allora conoscevo, cercai di interrogarlo. Riuscii a capire che

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giungeva a piedi da Leningrado e che non aveva casa, nè parenti, nè amici. Solo. Un ragazzo senza

tetto, un bies-prisornik.

Mi sembrava cosa indegna proseguire tranquillamente per la mia strada senza aver fatto nulla per

quel povero fanciullo che non aveva dove ricoverarsi, mentre io, in una città dove vi era tanto poco

spazio per alloggiare, disponevo da solo di un appartamento di quattro camere. Decisi di condurlo

con me. Avevo delle scarpe da dargli, ed anche qualche indumento. L'avrei fatto ben ripulire e

rifocillare, finchè

Non fossi riuscito a trovargli un'occupazione. Non mi sembrava difficile farlo assumere al servizio

della Dirigiablestroi.

* * *

Mentre cercavo di far intendere al fanciullo il mio proposito, si era formato attorno a noi un piccolo

capannello di persone, che stavano incuriosite ad ascoltare. Sentii che dicevano fra loro qualche

cosa che non comprendevo. Ad un tratto una giovane donna, che faceva parte del gruppo, mi si

avvicinò a dirmi: « These men ask me to tell you that the boy is not worthy of your attention ».

(Questi uomini desiderano che vi dica che il ragazzo non merita la vostra attenzione).

La giovane, una ragazza alta, bionda, dal volto rotondo, usciva proprio allora da una scuola serale di

lingue. Mi spiegò che non vi era nulla di buono da aspettarsi dal fanciullo. Sarebbe stato assai

pericoloso condurlo con me a casa.

Tale fu il mio primo incontro con un bies-prisornik in Russia.

* * *

Quanti erano questi disgraziati ? Un numero enorme. Centinaia di migliaia. Una terribile piaga

sociale, frutto dell'intervento straniero e delle invasioni di Kolciatk, Denikin e Wrangel, ma più

ancora della carestia del 1921, la più tremenda che la storia dell'umanità ricordi.In quella carestia le

popolazioni di intere città e villaggi perirono. La gente si ridusse a cibarsi di fieno, e perfino a

scavare nelle tombe per alimentarsi della carne dei recenti cadaveri. Morirono milioni di persone.

Quello spaventoso flagello ebbe un terribile strascico, che durava ancora dopo undici anni: i bies-

prisornik.

* * *

La loro storia mi era stata rivelata in modo commovente da uno dei più bei film prodotti in Russia

in quegli anni, Il foglio della vita, che avevo visto a Mosca nel 1931. Nella prima parte il film

mostrava questi giovanissimi vagabondi in azione, nella loro vita randagia di ladruncoli dediti ad

ogni sorta di vizi. « Vodka, tabacco e ragazze»: così, cinicamente, uno di essi riassumeva le proprie

aspirazioni. Poi era intervenuta la polizia a dar loro la caccia, ed infine l'opera di redenzione.

Un'opera paziente, umana, commovente di persuasione che aveva a poco a poco mutato l'animo di

quei piccoli, terribili delinquenti.

Liberati dal vizio, molti di quei disgraziati ragazzi si eran trasformati in buoni, spesso esemplari

operai della grandiosa impresa di costruzione sovietica.

* * *

Un esempio vivente dei risultati ottenuti con questa rieducazione dei bies-prisornik l'avevo davanti

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ai miei occhi, senza saperlo, alla Dirigiablestroi, fra i miei ingegneri. L'appresi più tardi. Si

chiamava Biliukof:

un giovane bruno, piccolo di statura ma robusto, intelligentissimo. Uno dei migliori calcolatori

dell'ufficio progetti, anzi il migliore. Faceva parte dei komsomol, la gioventù comunista. Nelle

riunioni che si tenevano nel mio ufficio si era già fatto notare da me per il modo reciso, secco, aspro

con cui esprimeva la sua opinione. Credo che talvolta formulasse anche critiche che mi toccavano

da vicino, ma non gli volevo male per questo. Lo stimavo appunto per la sua franchezza e per la sua

essenziale onestà. Molte volte lo invitai a casa insieme con un altro giovane ingegnere, suo

inseparabile amico, Fiodorof, che aveva però un carattere del tutto opposto: timido e gentile.

* * *

La rieducazione dei bies-prisornik non è che un caso particolare dell'opera di rieducazione che si

faceva in Russia dei criminali comuni.

Alla base del sistema repressivo sovietico era la concezione che essi non fossero dei reietti da

punire, ma piuttosto dei disgraziati che la società aveva il dovere di rieducare al più presto possibile,

ricuperandoli come membri utili della comunità, e perciò venivano trattati con umanità ed aiutati in

tutti i modi a riabilitarsi. Il massimo della prigionia era di dieci anni e mentre essa durava si cercava

di interessare i condannati ai problemi della vita sovietica mediante il cinema ed il teatro. Si

giungeva al punto da conceder loro, come a tutti gli altri operai, un giorno di vacanza ogni

settimana. Venivano impiegati a lavorare in grandi imprese, come, ad esempio, la costruzione del

canale da Leningrado al Mar Bianco e quello da Mosca al Volga, sotto la direzione della G.P.U., la

temutissima organizzazione di polizia politica, che in Russia aveva compiti così vasti e variati.

Molti di quei condannati, liberati alla fine dai lavori e decorati per le benemerenze acquistate,

finirono col conseguire posizioni importanti nella vita sovietica, fornendo con il loro esempio la

prova che l'assetto sociale, allo stesso modo come può formare dei delinquenti, può anche redimerli.

Una specie di mostra, direi così, dei brillanti risultati ottenuti nella rieducazione dei criminali era

offerta da Bòlcevo, una località vicino a Mosca, sorta per iniziativa di Massimo Gorki. Bòlcevo era

una piccola città fondata da ex criminali, ladri ed assassini. Si dirigevano da loro stessi. Avevano

delle officine modello, un circolo, una biblioteca. Si istruivano, facevano dello sport. Nel loro

aspetto esteriore, nel linguaggio, nei modi, nella mentalità nessuna traccia della burrascosa vita

passata.

Nicevò

NICEVÒ è una parola russa che ha molti significati. Domandate ad un amico come sta, ed egli vi

risponde: « Nicevò!» (non c'è male). Gli chiedete che cosa ha fatto, e vi risponde: « Nicevò»: non

ha fatto nulla. Infine vi è un nicevò detto con tono particolare di voce, quasi un po' cantando,

accompagnato talvolta da significative contrazioni del volto o da un lieve scuotere del capo, che

significa press'a poco: «Non importa ». Ma l'equivalente esatto si trova nell'espressione napoletana:

« Non te ne incaricare», cioè non darvi importanza, passaci sopra, non vale la pena di pensarci.

Tutto il temperamento russo è nel nicevò adoperato secondo l'ultimo dei tre significati, un

temperamento che prende filosoficamente il mondo come viene. Esso è agli antipodi di quello

tedesco, che prende tutto sul serio; e, forse, questa è la ragione per cui fra i tedeschi che dimoravano

a Mosca ed i russi non correva buon sangue,mentre invece vi era gran simpatia di questi verso gli

italiani. Ma bisogna dire che di tutti gli stranieri che si trovavano in Russia i tedeschi erano, senza

dubbio, i più brontoloni ed intolleranti.

La disposizione a prendere le cose della vita così come vengono, senza un'eccessiva reazione, è una

virtù che i russi hanno in comune con i napoletani; ma comuni a questi due popoli sono anche taluni

difetti, ad esempio, la mancanza di precisione e di puntualità, che, a dir il vero, però, nei secondi

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non è così esagerata come nei primi.La concezione che i russi hanno del tempo è assai larga. Se

invitate un russo a pranzo per mezzogiorno, è probabile che giunga alle due. Se vi promette di fare

una data cosa « siciàs », cioè subito, potete ragionevolmente aspettarvi che non la farà prima di

domani o dopo domani ; ma se vi dice « domani» siate sicuro che vi toccherà aspettare alcuni

giorni. Non dico, poi, quanti mesi passeranno prima che compia una cosa che abbia promesso di

fare entro una settimana !La spiegazione che mi son data di questa mancanza di puntualità è che il

temperamento artistico dei russi mal si adatta alle pedanterie di una precisione e di una puntualità di

tipo tedesco.La stessa pittoresca imprecisione si nota nel modo di parlare. Infatti per dar calore di

veridicità a ciò che dice, il russo sente il bisogno di aggiungere: « cestniislova», parola d'onore. Se

non rafforza le sue affermazioni con tale intercalare, avete tutto il diritto di dubitare dell'esattezza di

ciò che vi dice.Quando si pensi che da un popolo siffatto, noncurante della puntualità non inclinato

alla precisione, i bolscevichi hanno ottenuto il più grande sforzo di costruzione che la storia

moderna ricordi, ci si rende conto delle enormi difficoltà che han dovuto superare e della

grandiosità del successo riportato.

* * *

Queste qualità del temperamento russo pure, nonostante tutto, cosi simpatico ed attraente —

valgono, forse, a spiegare lo spirito di tolleranza di cui tanto spesso quel popolo dà prova, e di cui si

hanno le manifestazioni più inaspettate.

Una volta mia figlia, trovandosi con me a Mosca, si fece portare da un operaio italiano, che si era

recato a Roma a passarvi le vacanze, dei dischi da grammofono. Fra gli altri capitò anche quello di

« Giovinezza », forse a caso, forse perchè il ritmo di quella vecchia canzone goliardica piaceva a

mia figlia. E, a dir il vero, piaceva anche a me, nonostante le melense parole che vi erano state

aggiunte per farne un inno fascista. E piacque, come ora si vedrà, anche ai russi. Al confine, alla

stazione di Niegorolje, i doganieri sovietici, trovati i dischi nel bagaglio del viaggiatore italiano, ne

vollero, come era prescritto, controllare il contenuto facendoli suonare su un grammofono. Quando

fu la volta di « Giovinezza» l'operaio, seduto in un angolo, stava con l'animo sospeso ad attendere

che cosa avrebbero (letto i doganieri, e già si immaginava, il poveretto, di venir arrestato come un

pericoloso propagandista fascista. Ma non avvenne nulla di tutto questo. Agli agenti sovietici la

canzone piacque, e vollero risentirla. Poi presero a cantarla in coro.

E piacque anche ai miei amici di Mosca, che, comunisti o non comunisti, qualche volta prendevano

in prestito quel disco, insieme ad altri di canzoni napoletane, per farlo sentire agli amici, e che,

appena giungevano in casa mia a passarvi la serata, chiedevano a gran voce che venisse messo sul

grammofono « Giovinezza», senza darsi alcun pensiero della G.P.U., la famosa polizia politica che,

pure, era là a due passi di distanza, proprio di fronte alla mia abitazione. Nella Germania nazista un

fatto analogo avrebbe dato luogo ad una tragedia. In Russia la gente ci si divertiva.

Ma l'esempio più clamoroso di tolleranza russa era, in quel tempo, la libertà che si concedeva a

Pavlow di dire tutto il male che gli piacesse del regime sovietico, senza che ad alcuno venisse in

mente di dargli per questo fastidio.

A Pavlow, fisiologo di fama mondiale, il Governo Sovietico aveva dato tutti i mezzi da lui richiesti

per condurre le sue esperienze di biologia. Fra l'altro aveva fatto costruire secondo le sue

indicazioni un grande istituto nei dintorni di Leningrado, l'Istituto di genetica psicologica.

Pavlow, ad ottanta anni, era rimasto attaccato alle tradizioni del tempo zarista. Andava regolarmente

in chiesa, e non aveva voluto saperne di chiamare al modo nuovo i giorni della settimana. Ma

questo era nulla: il peggio era che si permetteva di insolentire pubblicamente contro il regime

sovietico. Alla presenza stessa dei suoi assistenti comunisti derideva il materialismo dialettico e

affermava, senza che alcuno lo contraddicesse, che fino a quel momento il nuovo regime non aveva

conseguito alcun risultato degno di menzione.Che importanza potevano mai avere gli sfoghi

antibolscevichi di Pavlow, quando egli col suo lavoro continuava a far crescere all'estero il prestigio

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dell'Unione Sovietica ?

Di questo spirito di tolleranza si avevano in Russia questa e cento altre manifestazioni. Io stesso ne

ho ricordate talune nel corso di questo libro. Il contrasto con lo spirito settario, ancora oggi così

vivo perfino in uno dei paesi più liberali e progrediti del mondo, è sconcertante. E' proprio di questi

giorni l'assurdo divieto fatto dalla associazione Daughters of American Revolution ad Hazel Scott,

una pianista famosa negli Stati Uniti, di adoperare per un concerto la « Constitution Hall » di

Washington.

Ragione del diniego: Hazel Scott é una negra !

Segretari ed interpreti

In Russia ogni capo aveva una segretaria o un segretario. Era, dunque, giusto l'avessi anch'io. Però,

a differenza di ciò che sarebbe avvenuto altrove, la segretaria non me la sceglievo da me. Ci

pensava la direzione della Flotta Aerea Civile a trovarmene una. A dirla chiaramente, la mia

segretaria, o segretario che fosse, non era una persona di fiducia mia, ma delle autorità sovietiche

politiche, della G.P.U. forse, cui credo avesse l'obbligo di riferire sulla mia attività e sul mio modo

di pensare. Devo dire che, benchè avessi il sospetto di ciò, anzi la certezza, non me ne meravigliavo,

e tanto meno me ne dolevo. Trovavo assolutamente naturale che, avendo affidato a me un incarico

importante in una posizione esecutiva che mi metteva alla testa di un'organizzazione sovietica

tecnica (posizione che, ritengo, non era stata mai data ad altri specialisti stranieri prima di me), le

autorità sovietiche volessero in qualche modo assicurarsi che mi comportassi nei loro riguardi con

quella lealtà che era doverosa. Non bisogna dimenticare che provenivo da un paese fascista, e che

molti, non conoscendomi intimamente, potevano anche dubitare dei miei sentimenti di simpatia

verso il paese che mi ospitava.

Sta però il fatto che bastava il contatto con me di qualche mese perchè un nuovo segretario mi si

affezionasse e diventasse devoto. La mia condotta era così aperta e la mia simpatia verso la Russia

così evidente, che ben presto essi si accorgevano non esservi nulla di spiacevole da riferire sul mio

conto, e mi diventavano amici.

Cambiai segretario tre volte.

La mia prima segretaria fu Maria Andréievna, una piccola signora anziana dai capelli grigi, che da

giovane aveva fatto l'attrice con Stanislavski. Le piaceva ricordare con me quei suoi bei tempi. Mi

diceva che aveva appreso a parlare l'italiano per meglio recitare talune parti affidatele. Raccontava

che Stanislavski era molto severo con i suoi attori. Esigeva che recitassero alla perfezione. Era così

meticoloso, che una volta, mentre la sua compagnia si trovava a Berlino, dovendo affidare a Maria

Andreievna una parte di ragazzo, l'obbligò a vestirsi da tale ed a girare per Berlino durante un mese

intero, acciòcchè acquistasse meglio i modi del personaggio che doveva rappresentare.

Maria Andreievna era una cattolica fervente, che frequentava regolarmente la chiesa. Fu proprio

essa ad indicarmi, come ho narrato altrove, dove si trovassero le chiese cattoliche a Mosca. Restò

con me circa un anno. Venne licenziata nell'estate del 1933.

La nuova segretaria entrò in funzione, quando il mio ufficio si trovava al secondo piano della

galleria della Petrovka: una ragazza dai capelli rossicci, graziosa, svelta, intelligentissima. Si

chiamava Mèla. Parlava il francese perfettamente, ma sapeva anche d'inglese, essendo stata per

qualche mese in America con una missione sovietica.

Mèla mostrò subito di essere una segretaria di primo ordine. Quando mi faceva da interprete nei

colloqui con i capi della Dirigiablestroi o con gli ingegneri sovietici miei dipendenti, era di una

sveltezza ed una rapidità sorprendente. Come già ho detto, essa traduceva fedelmente, periodo per

periodo, senza che per questo fosse necessario fare una sosta. Restò con me circa due anni. Alla fine

di questo periodo mi domandò se acconsentivo a lasciarla libera per recarsi a lavorare presso

l'Ambasciata degli Stati Uniti, di recente istituita a Mosca. Dagli americani essa avrebbe ricevuto un

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salario mensile di settantacinque dollari, ed in quel tempo poter disporre di valuta straniera era un

gran vantaggio; potendosi con essa acquistare nei magazzini del Torgsin molte cose che non si

trovavano nei magazzini ordinari.

Andata via Mèla, restai per qualche tempo senza segretario. Potendo ora esprimermi alla men

peggio in lingua russa, un segretario non era più così indispensabile come nei primi tempi, ma

qualcuno che traducesse i miei rapporti era pur necessario, e perciò alla fine chiesi che Mèla fosse

sostituita. Questa volta fu un uomo : Frcek. Matunin, l'ingegnere comunista mio samistitiel, venne a

presentarmelo, dicendomi che, dopo avergli parlato, gli riferissi se mi convenisse o pur no. Era un

giovane cecoslovacco, che parlava correntemente il francese, piccolo, biondo, con gli occhi azzurri

un po' sporgenti. La prima impressione fu sfavorevole, perchè mentre parlava non mi guardava in

faccia. Non mi trattenni dal dirlo a Matunin, che non replicò; ma qualche giorno dopo mi pregò di

ricevere nuovamente il giovane cecoslovacco. Frcek tornò, e questa volta mentre mi parlava stette a

guardarmi ben fisso in volto, sicchè non ebbi più ragione di insistere nel rifiuto. Fu assunto come

mio segretario.

Le prime conversazioni che ebbe con me furono, come mi aspettavo, di carattere, dirò così,

indagatore. Cominciò col raccontarmi di una sua zia, proprietaria una volta di terre in Crimea, che

naturalmente aveva perdute con la rivoluzione. Da questa passò ad altre cose e finalmente finì

coll'insinuare che in Russia non tutto andava bene. Fu l'unico tentativo fatto dal buon Frcek nella

parte di agente provocatore. Era molto intelligente. Si accorse subito che in Russia stavo per

lavorare, e non già per impicciarmi delle cose sovietiche e criticarle, e che, comunque, avevo troppa

simpatia per quel paese, perché non vedessi il bene assai più facilmente che il male. Presto Frcek mi

divenne devotissimo; credo anche che mi si affezionasse, cosi come io mi affezionai a lui. Era un

lavoratore coscienzioso ed infaticabile. Imparò in poco tempo a parlare e leggere l'italiano tanto

bene da poter tradurre in russo un mio libro. Quando lasciai Mosca, egli era alla stazione insieme

con una sua sorella a salutarmi. Conservo di lui il ricordo più grato.

* * *

Di segretari ne ebbi tre soltanto, ma di interpreti, uomini e donne, a bizzeffe, specialmente nei primi

tempi.

La prima interprete, quella che mi accompagnò fin dal 1931 nei miei giri a Mosca e Leningrado, fu

Ester Josefovna, una ebrea, figlia di ricchi mercanti siberiani: una donna di mezza età, assai piccola

di statura, con un gran naso aquilino e due occhietti neri vivaci, che facevano agli angoli mille

piccole grinze. Parlava l'italiano a questo modo: « Lei, vedete, fa freddo e tutti i russi, anche i

poveri, portano il cappotto e voi no. Questo è proprio un guaio. Per piacere, Lei dovete scrivere a

vostra moglie che sto molto male a casa vostra, per via del mangiare e del cappotto e del cappello ».

Ed ancora:

«Quando andrete in Italia, dite alla sua signora che io son tanto amica degli italiani; che se lei verrà

qui, si troverà benissimo. Vi sono tanti curòs (case dì cura), specialmente nel Caucaso. In un anno

certamente guarirà !».

Come si vede, Ester Josefovna aveva ricevuto l'incarico di occuparsi del mio benessere materiale, e

certo essa faceva del suo meglio per rendermi facile e confortevole il soggiorno nell' U.R.S.S. Fu

essa a curare l'arredamento del mio appartamento alla Mjasnitzkaja: mobili antichi, tappeti orientali,

stoviglie fini, e tutto ciò che si poteva avere di meglio a Mosca.

Aveva una particolarità: quella di cambiare continuamente alloggio. Da principio, nel 1931, quando

aveva con sè una sua figliuoletta di tredici anni, abitava una camera tutta per sè, per la quale pagava

soltanto tre rubli al mese. Ma, essendo rimasta sola, dopo che la figlia era partita per raggiungere

alcuni parenti in Argentina, Ester Josefovna passò ad abitare con una coppia di amici, marito e

moglie, pagando per la metà di una camera quaranta rubli. Non restò a lungo in quell'alloggio, e se

ne andò ad abitare insieme con una sua amica, alla quale pagava, per la metà di una camera, venti

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rubli al mese. Quando vi si fu installata mi disse: « Ora posso anche invitarvi a pranzo. Cucinerò i

maccheroni ed anche un pollo ». Le risposi che era meglio lasciare il pollo vivo e fargli mangiare i

maccheroni insieme con noi ; ma non mi diede retta.

* * *

In Russia le lingue che più si studiavano erano il tedesco e l'inglese. Il francese, tanto in voga al

tempo degli zar, specialmente nell'aristocrazia, era ormai quasi caduto in disuso. Tuttavia fra i miei

interpreti ebbi due ragazze che lo parlavano correttamente. L'una era Margherita Miragova, una

bella armena dagli occhi neri ed i capelli ricciuti, di carattere chiuso, riservatissimo. Negli ultimi

anni si ammalò di petto, e dovette essere ricoverata in un sanatorio. L'altra fu Nina, una ragazza

bionda di Mosca, che dopo pochi mesi si licenziò per andare a frequentare una scuola di teatro.

Riuscì così bene che l'anno successivo già recitava con una compagnia di giovani russi in un teatro

di Mosca.

Ma il più caratteristico dei miei interpreti fu Vankowski, un bel signore dalla figura imponente, la

barba a pizzo. Parlava l'italiano.

« Dove l'avete imparato ?» domandai.

« In Italia », rispose. «Vi ho viaggiato per circa due anni. Sono stato a Venezia, a Firenze, a Roma,

a Napoli ».

« Per affari ? ».

« No, per piacere ».

« Eravate, dunque, ricco ? ».

« Sì, ero ricco ».

A questo punto della conversazione non seppi trattenermi dal fare una do-manda indiscreta :

« Avete, dunque, perduta la vostra ricchezza con la rivoluzione. Ve ne rammaricate ? ».

Fino a quel momento il volto di Vankowski era stato serio e grave. Ma a quella domanda inaspettata

si illuminò di un largo, raggiante sorriso.

« No, disse, non ho perduto nulla. I miei amici sì, perdettero tutto e se ne dolsero. Ma io,

fortunatamente, quando scoppiò la rivoluzione, mi ero già mangiato i miei averi. Non avevo più

nulla da perdere ».

Questo Vankowski era un tipo veramente originale e simpatico. Lo invitai una sera a casa insieme

ad una quarantina di altre persone che lavoravano con me, in occasione del compleanno di mia

figlia, Venne, indossando un abito nero a coda, residuo dei tempi in cui aveva dissipato così

felicemente il suo patrimonio. Il contrasto con gli abiti dimessi di tutti gli altri, me compreso, era

stridente. Ma egli non se ne mostrò per niente imbarazzato, nè il suo abito fu oggetto di motteggi da

parte dei giovani ingegneri intervenuti alla piccola festa familiare, come certamente sarebbe

avvenuto da noi.

Un processo a Mosca

No. Non si tratta di uno di quei terribili processi davanti al Tribunale Supremo Sovietico, con

conseguenze da far accapponare la pelle. Questo di cui mi accingo a parlare fu un processo innanzi

a un tribunale ordinario, ed il processato fui proprio io. Me la cavai, si vede, a buon mercato, se

posso oggi parlarne. Ecco come andarono le cose.

Abitavo nel centro di Mosca in un angolo della gran piazza della Lubianca, all'estremità della

Miasnitzkaia, una lunga tortuosa strada fra le più affollate di Mosca, che, più tardi, dopo l'uccisione

di Kirov, fu chiamata Ulitza Kírova.

Per quella strada passava, allora, il tram che poi, qualche anno dopo, venne soppresso, quando al

ciottolato fu sostituito l'asfalto. E qui dirò tra parentesi che l'asfaltatura dell'intera strada, lunga più

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di due chilometri, fu compiuta in soli tre o quattro giorni : cose che avvenivano in Russia, dove si

stava dei mesi, degli anni talvolta, prima di decidersi a fare un lavoro, e poi, all'improvviso, lo si

eseguiva con una rapidità sbalorditiva.

Dunque, vi era, allora, il tram nella Miasnitzkaia, ed una fermata si trovava proprio davanti al

cancello di casa mia, sicchè spesso il passaggio era ingombrato da gruppi di persone che stavano ad

aspettare per montarvi.

Un giorno uscivo dal cortile, conducendo una « Fiat» che avevo portata dall'Italia con l'idea di

guadagnar tempo nei viaggi che frequentemente dovevo fare per recarmi da Mosca a

Dolgabrudnaia, che era il posto dove si costruivano le nostre officine. Idea sbagliata perchè quella

benedetta vettura mi causò una serie innumerevole di noie e di piccole peripezie, che mi fecero

perdere una quantità di tempo, e che sarebbe spassoso raccontare.

Al mio lato, nella vettura, sedeva uno dei miei collaboratori italiani: Nicola de Martino, che poi fece

da testimone al processo.

Uscivo adagio dal cortile e mi ero quasi fermato poco oltre il cancello, quando, facendosi strada fra

le persone che stavano lì ferme in attesa del tram, passò correndo un taxi. L'urto fu inevitabile. La

mia vettura, investita sul davanti, ebbe il paraurti tutto contorto. Cosa spiacevole perchè la vettura

era nuova, ma non mi parve valesse la pena di perdere tempo a reclamare la riparazione del danno

dalla cooperativa cui apparteneva il taxì ; e perciò, senza curarmi di altro, riportai la vettura nel

cortile per distaccare il para-urti e riprendere la strada.

Ma è proprio vero che chi si fa pecora il lupo se lo mangia. Questa volta il lupo si presentò sotto le

spoglie del conducente del taxì: un pezzo di giovane, alto, robusto, le spalle tarchiate. Costui, visto

che non reclamavo, pensò di reclamar lui. Mi si avvicinò, mentre con De Martino staccavo il para-

urti, e mi disse con calma qualche cosa che non capii, perchè allora niente sapevo della lingua russa.

Tuttavia non esitai a rispondergli con altrettanta calma, in lingua italiana, che la colpa invece era

tutta sua. Avremmo continuato per un pezzo il nostro dialogo, senza che l'uno capisse che cosa

diceva l'altro, se, terminato il lavoro, non mi fossi deciso a stringermi nelle spalle e risalire sulla

vettura per riprendere la marcia interrotta.

Ma il mio interlocutore non approvò la mia saggia risoluzione. Seppi, dopo, che protestava per

alcuni graffi riportati dal suo taxi nell'urto. Manifestò la sua opposizione, piantandosi con le gambe

allargate, davanti alla vettura con l'intenzione evidente di non farmi proseguire. Non gli diedi retta e

continuai ad avanzare, facendogli cenno di scostarsi. Si scostò, infatti, ma lo fece solo per andare a

chiudere il cancello. Dovette probabilmente pensare « Questo bursgiui sembra deciso a passare

sopra il mio corpo, ma sul cancello non passerà di certo ».

Il gesto dell'ostinato uomo mi fece perdere la calma olimpica che fin allora avevo conservato.

Ridiscesi dalla vettura, e senza star lì a pensarci due volte, nè tenendo conto dell'evidente

sproporzione fra i miei muscoli e quelli del mio avversario, lo afferrai per le larghe spalle, e con una

certa violenza — non posso negarlo — lo spinsi fuori nella strada, riaprendo il cancello. Sorpreso

dalla rapidità della mia azione, l'omone non oppose alcuna resistenza, il che mi permise di

riprendere il mio posto nella vettura ed andarmene con De Martino per i fatti miei.

Questo incidente mi era uscito affatto di mente, quando alcuni giorni dopo si presentò nel mio

ufficio una guardia con un foglio che mi intimava di presentarmi il tal giorno, alla tal ora, davanti al

tal tribunale, in via tal dei tali, per rispondere del reato di maltrattamenti inflitti ad un cittadino

sovietico. Era il conducente del taxì che si era querelato. Uomo pacifico, avrebbe potuto, volendo,

mettere in moto i suoi pugni, quando io l'avevo afferrato per le spalle, e non so come me la sarei

cavata se l'avesse fatto, ma, fortunatamente per me, aveva preferito ricorrere alla legge per punire la

mia violenza.

Andai al tribunale accompagnato da De Martino e da una signorina che parlava l'inglese. Questa

doveva fare da interprete.

Nell'aula non grande, vi erano alcune file di banchi come in una scuola. Nel fondo, alla sinistra di

chi entrava, un tavolo con tre sedie.

Non vi era nessuno, salvo l'uomo che mi aveva fatto citare. Appena mi vide entrare, s'alzò da

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sedere, e mi venne incontro tutto sorridente a stringermi la mano. Un atto di cavalleria che allora

non apprezzai come si meritava. A me parve che costui avesse una bella faccia tosta a venirmi a

fare dei complimenti dopo avermi rotto il para-urti e causata per giunta la seccatura di quel

processo. Risposi al suo largo e cordiale sorriso con un sorrisetto un po' acidulo. Dopo di che ci

mettemmo a sedere tutti e quattro: io, il querelante, il testimone e l'interprete; ed aspettammo che

comparissero i giudici.

Questi comparvero all'ora stabilita: erano tre, un giudice di professione, che presiedeva, e due

operai che funzionavano da giudici assistenti. Sentirono il querelante, poi me ed infine il testimone:

l'interprete traduceva le nostre dichiarazioni, la mia direttamente, quella di De Martino attraverso la

mia traduzione in inglese. Ma, ahimè, ci accorgemmo che per ogni dieci parole da noi pronunziate

la signorina ne diceva per lo meno cento. Era evidente che, con l'intenzione di giovare alla mia

causa andava colorendo ed abbellendo le nostre deposizioni; ma il risultato fu ben diverso da quello

che essa si riprometteva.

Finiti gli interrogatori, i tre giudici si ritirarono nella camera adiacente. Alcuni minuti dopo

rientrarono a leggere la sentenza. Il giudizio fu quanto mai saggio, anzi direi salomonico addirittura.

Ambedue avevamo torto, avendo ambedue messo in pericolo l'incolumità pubblica. Conclusione:

eravamo condannati io a cento rubli di ammenda, il mio avversario a due mesi di lavori forzati.

Lavoro forzato significava che il condannato sarebbe stato tenuto a fare un certo ammontare di

lavoro il cui salario sarebbe andato a beneficio dell'erario dello Stato. Il giudice presidente,

rivolgendosi a me, aggiunse che avevo quaranta giorni per appellarmi, se volevo, contro la sentenza.

Al mio avversario il diritto di appello non era concesso, la qual cosa mi sembrò giustissima.

Lasciai il tribunale piuttosto mortificato. Non già che mi desse gran pena l'idea di dover pagare

quell'ammenda di cento rubli, che in verità allora non valevano più di trenta o quaranta lire, ma era

questione di giustizia. Ero convinto di aver ragione, e mi meravigliavo che i giudici non se ne

fossero accorti anche loro. Colpa della loquacità dell'interprete ? Può darsi.

Tornato in ufficio dissi alla mia segretaria di prendere nota del termine di tempo per l'appello.

Quando fummo al quarantesimo giorno essa mi avvertì che il termine stava per scadere.

Questa volta, francamente, ero deciso a fare a meno di qualsiasi interprete. Pensai che la miglior

cosa fosse di scrivere un chiaro e succinto rapporto sull'incidente, corredandolo di un certo numero

di schizzi. Poi che l'ebbi preparato, ne feci fare la traduzione in russo. Questa volta non era proprio

possibile essere frainteso.

« Devo andare alla Corte oggi stesso ? ». « Non occorre andare di persona », mi rispose Leteisen,

che era in quel tempo il mio sostituto; « basterà mandare questa dichiarazione a mezzo della

segretaria ».

Due ore dopo la segretaria tornò tutta soddisfatta, ad informarmi che la Corte aveva accolto il mio

appello ed aveva cancellato la sentenza, assolvendomi.

Cosi mi fu risparmiata la vergogna di avere la fedina penale macchiata di una condanna riportata

nell'Unione Sovietica.

Morale ?

Ebbene, una morale, forse, c'è ed è questa: che la giustizia in Russia era molto sbrigativa: niente

formalità superflue, niente discussioni prolisse ed oziose, niente perditempi, niente avvocati ed alla

fine, a giudicare dal mio caso, sembrava facesse giustizia sul serio.

Avvocati a Mosca ve ne erano, senza dubbio, ma bisognava andare a consultarli nei loro studi se si

aveva bisogno di un parere. Ma, grazie a Dio, non venivano ad ingarbugliare le cause davanti ai

giudici.

Gli scacchi in Russia

ALL'ETÀ di nove anni già giocavo a scacchi, e questo basta a spiegare la mia passione per il nobile

gioco. Fin da allora giungevo, perfino, a trascurare il pranzo per terminare una partita iniziata.

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Continuai così fino agli anni di liceo e di università; ma più tardi, preso dalle cose della vita, non

ebbi più tempo da dedicare agli scacchi, e giocai assai raramente. Ripresi in pieno, con la passione

di una volta, molti anni dopo, in Russia.

Non è che in Russia avessi meno da fare che in Italia e potessi perciò dedicare molte ore di tempo

agli scacchi. No, la ragione era un'altra. In Russia si respira, direi, un'atmosfera scacchistica alla

quale è difficile sottrarsi. Si gioca a scacchi dovunque, e giocano a scacchi tutti, uomini, donne,

vecchi, ragazzi. In un'atmosfera simile era ben difficile che non rispuntasse la vecchia passione, e

infatti ripresi a giocare con ardore. Del resto, per chi vive solo, in terra straniera, la compagnia più

facile a procurarsi ed anche la più innocua, è quella di uno scacchista. Potete passare molte ore con

il vostro compagno anche se non capite un'acca della sua lingua, nè lui della vostra.

Le prime partite le giocai fra i ghiacci della Terra Francesco Giuseppe, nel 1931, a bordo del

Malighin. Fra i russi che partecipavano a quella spedizione artica vi erano molti bravi giocatori, ma

il più valente di tutti era Romm, un giornalista che in altri tempi aveva fatto l'istruttore di ginnastica,

un pezzo di uomo, alto, robusto, che era stato in Italia e parlava un po' la nostra lingua. Ma che il

gioco degli scacchi non solo tenesse un posto di onore fra i passatempi dei giovani sovietici, ma

fosse popolarissimo e diffuso dovunque, me ne accorsi solo più tardi, quando, qualche mese dopo,

tornai in Russia per rimanervi alcuni anni.

A Mosca si giocava in pubblico non solo al Parco di Cultura e Riposo, dove un apposito grande

recinto era riservato agli scacchi, ma spesso anche in posti dove uno meno se lo sarebbe aspettato.

Un giorno, entrato in una rimessa di automobili pubbliche, vi trovai due conducenti assorti in una

partita a scacchi. Aspettai che la partita terminasse prima di pregarli di accompagnarmi. In treno, fra

Mosca ed il piccolo villaggio di Dolgabrudnaja dove sorgevano le nostre officine, mi capitava

spesso vedere alcuni dei giovani ingegneri da me dipendenti estrarre dalle tasche una minuscola

scacchiera e mettersi a giocare: la scacchiera era di quelle che nel centro di ogni casa portano un

foro per conficcarvi i pezzi, affinchè essi non cadano nel movimento del veicolo. Una volta mi

accadde perfino veder giocare nella sala di aspetto di un cinematografo del centro di Mosca !

Quando vi entrai, la sala era gremita di pubblico che aspettava l'inizio del nuovo spettacolo, perchè

in Russia anche al cinema i posti son numerati. Lungo le pareti della sala eran disposti dei tavoli

dove si giocava a scacchi. Trovato un compagno, mi misi a giocare anch'io, ma, poco dopo, il

segnale che lo spettacolo s'iniziava venne ad interrompere la partita. La partita mi interessava, ma

mi interessava anche il film, che era uno di quelli dove i Russi, con il grande talento artistico che li

distingue, danno la prova che si può fare dell'arte anche quando si fa propaganda politica, come ad

esempio: « Il foglio della vita », « La corazzata Potemkin », « Le tre canzoni di Lenin ».

La sera, al termine del lavoro, nelle officine e negli uffici della Dirigiablestroi si giocava a scacchi.

Frequenti erano i tornei, frequenti anche le sfide fra i giocatori di un'azienda e quelli di un'altra. Una

volta fui prescelto anche io, con altri cinque, a rappresentare la Dirigiablestroi in un match che

doveva aver luogo fra essa ed un'altra organizzazione aeronautica. I fatti provarono che non

meritavo l'onore della scelta. E' vero che il mio avversario aveva giocato più debolmente di me, e

che le cose eran procedute bene sin quasi alla fine, ma fu proprio allora che, ritenendomi certo della

vittoria, rallentai l'attenzione e commisi degli errori. Perdetti.

* * *

Non so se l'enorme popolarità del gioco degli scacchi in Russia si debba spiegare come effetto di

una speciale inclinazione che i Russi abbiano per esso, o piuttosto come risultato degli sforzi fatti

dal partito comunista per diffonderlo. Forse è vera l'una cosa e l'altra. Il gioco degli scacchi doveva

essere abbastanza conosciuto in Russia anche al tempo degli zar; ma è certo che la sua diffusione fu

voluta da Lenin, che doveva, io ritengo, esser convinto che la pratica di questo gioco influisca

favorevolmente sulla formazione del carattere della gioventù. Il fatto è che il governo centrale

sovietico prendeva un interesse veramente grande a tutte le manifestazioni scacchistiche.

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Nel 1935 si tenne a Mosca un torneo internazionale con l'intervento di molti celebrati maestri.

Ricordo fra gli altri Capablanca, Lasker e Flor. I giocatori russi eran tutti giovanissimi. Alla testa di

essi era Botvinik, un ingegnere di Leningrado di appena venti anni, che riuscì secondo nel torneo

dopo Capablanca, allora campione del mondo.

Il torneo ebbe luogo nelle sale di un palazzo del centro di Mosca, dove di solito si tenevano grandi

manifestazioni culturali o politiche. Si giocava nel grande salone centrale, che all'uopo era stato

diviso in due parti: una per i giocatori, l'altra per il pubblico. Appena un giocatore aveva fatta la sua

mossa, un uomo appositamente incaricato andava a ripeterla su una delle grandi scacchiere attaccate

alla parete, in modo che anche il più lontano spettatore poteva, standosene comodamente seduto,

seguire le varie partite. Il torneo durò molti giorni, e tutti i giorni il salone era gremito di una folla

attenta e silenziosa. Mi par di ricordare che per entrare si pagasse una piccola tassa.

Emozionanti furono le ultime partite. Botvinik nella classifica seguiva molto da vicino Capablanca,

e forti erano le speranze dei russi che egli riuscisse a prendere il primo posto od almeno a

pareggiare. A Capablanca non restava da giocare che una sola partita, precisamente con Botvinik.

Questi invece doveva terminarne anche un'altra con un russo. Di questa partita, sospesa in una

situazione tale da far ritenere più che probabile una patta, era stata rimandata la continuazione a

dopo che fosse terminata la partita Botvinik-Capablanca. Questa circostanza diede occasione ad

alcuni maligni di insinuare che la partita fra i russi fosse stata sospesa di proposito, affinchè, nel

caso che Botvinik fosse riuscito a vincere Capablanca, l'altro russo potesse giocare in modo da far

guadagnare la partita a Botvinik, assicurando così ai Russi il primo posto nel torneo Ma la partita

fra Capablanca ed il campione russo riuscì patta, e quindi non vi fu l'occasione di accertare se la

maligna insinuazione avesse fondamento oppur no. Ma è probabile che l'avesse.

Certa cosa è che il governo sovietico seguiva con estremo interessamento l'andamento del torneo.

Tanto è vero che i risultati di ciascuna partita gli venivano immediatamente comunicati per

telefono.

* * *

A Mosca in tutti i circoli si giocava a scacchi e si tenevano tornei. A stimolare l'emulazione fra i

giocatori molto serviva il sistema della classificazione. I giocatori eran divisi in sette categorie, e

norme precise regolavano il passaggio da una categoria all'altra. Al di sopra della prima categoria vi

erano i « maestri» e più sopra ancora i « grandi maestri». Ad ogni giocatore veniva rilasciata una

tessera con l'indicazione della categoria cui apparteneva.

Nel 1935 venne aperto a Mosca un elegante circolo scacchistico di cui divenni socio. Non solo vi si

giocava, ma vi si discuteva e vi si tenevano conferenze serali su questioni teoriche.

L'ambiente era messo con molto decoro, quasi, direi, con lusso. Vi era anche un bar dove si poteva

prendere l'immancabile dai con panini spalmati di caviale e burro. La segretaria del circolo era una

giovane signora, forte giocatrice.

* * *

Il ricordo degli scacchi in Russia è legato nella mia memoria particolarmente a quello di tre giovani

con i quali ebbi consuetudine di giocare: Borìs Miliukóff, che avevo avuto occasione di conoscere a

Leningrado nella sua qualità di meteorologo dell'Aeronautica Civile, l'ingegnere Gamber e Michail

Ivanovic.

Miliukoff era un giovane di vasta cultura, che parlava molto bene il francese. Uno spilungone

magro, bruno, con i capelli lunghi, spioventi. Non aveva altri parenti che la madre, una vecchia

gentile signora, che parlava molte lingue, ed anche un po' l'italiano, essendo stata in Italia da

giovane. Madre e figlio si amavano molto e vivevano insieme in un piccolo appartamento posto a

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pianterreno, in fondo al cortile di una vecchia casa presso l'Arbat. Miliukoff era appassionato di

libri, e ne comprava sempre. Conosceva uno per uno tutti i buchinisti di Mosca e di Leningrado. Fu

proprio lui che mi fece prendere l'abitudine di passare molte ore dei miei giorni di vacanza visitando

le librerie antiquarie, ed a Mosca, di tali librerie, ve ne erano molte. Miliukoff era riuscito a

formarsi con i suoi risparmi una considerevole biblioteca di libri antichi e moderni, taluni di

edizione assai pregiata o rara. Le due camerette dove egli viveva con la madre ne erano piene

zeppe. Gli alti scaffali che correvano attorno alle pareti ne rigurgitavano, e non vi era angolo che

non ne fosse ingombro. Mi diceva di averne seimila, ma forse eran più.

Miliukoff soleva di tanto in tanto venire a casa mia a giocare a scacchi. Era un forte giocatore, assai

più abile di me. L'ultima volta che venne mi disse che il giorno dopo sarebbe partito per Leningrado

per tenervi una conferenza. Lo pregai di ricercarmi presso i buchinisti di quella città alcuni libri che

non ero riuscito a trovare a Mosca, ed egli promise di tarlo; ma era destinato che non lo vedessi mai

più. Scomparve per sempre.

Aveva detto che si sarebbe trattenuto a Leningrado quattro o cinque giorni; ma un mese trascorse

senza che sentissi più di lui. Finalmente, un giorno, venne la madre da me. La povera signora era in

grande agitazione; mi disse di non sapere nulla di preciso del figliolo. Solo, le era giunta una lettera

con cui una sua amica l'avvertiva che il figliolo era stato arrestato a Leningrado insieme con altri

meteorologhi.

Molte dicerie si sparsero tra i conoscenti a spiegare questo arresto, talune anche assai strane. Si

accennò tra l'altro a un preteso sabotaggio che quei meteorologhi avrebbero fatto, dando

intenzionalmente notizie errate sul tempo che avrebbero provocato dei danni ad un piroscato sulla

Neva. L'indole apparentemente leale di Boris Miliukoff, il suo carattere mite e gentile, non mi

fecero prestar fede a tali dicerie. Più tardi, quando la vecchia signora venne a vedermi, mi parve di

comprendere dai suoi discorsi che il motivo vero dell'arresto fosse da mettere in relazione con la

frequenza assidua del giovane in casa di una signora moscovita, dove pare si cospirasse contro il

regime sovietico. Comunque stessero le cose, fatto è che egli venne condannato a cinque anni di

lavori forzati.

Passarono mesi senza che avessi altre notizie. Poi un giorno mamma Miliukoff ricomparve. Questa

volta aveva un volto sereno. Era stata a visitare il figliolo nel posto dove era detenuto, una colonia

di condannati adibiti ai lavori di costruzione del canale del Volga. « Sta proprio bene, mi diceva la

signora; si è perfino ingrassato. Non porta più i capelli lunghi come una volta; ma non importa. E

non dovete pensare che faccia lavori materiali. Oh, no. Tiene dei corsi agli altri detenuti ».

Rividi spesso la signora Miliukoff. Talvolta andavo io a casa sua a prendere notizie. Più spesso

veniva essa da me. La poverina, rassegnata, continuava a vivere in mezzo ai libri del figliolo

custodendoli amorosamente in attesa del suo ritorno. L'ultima volta che mi vide mi annunziò, tutta

contenta, che presto il figlio sarebbe stato liberato.

Un giorno, impensierito dal fatto che da molto tempo non si faceva più vedere, mandai Amabile a

chiedere notizie. Quando ella bussò alla porta in fondo al cortile, le fu aperto da una donna

sconosciuta.

« La signora Miliukoff? ».

La signora Miliukoff non c'era più. Era morta senza aver potuto vedere il figlio.

I libri erano stati presi in consegna dalla polizia.

Un anno dopo ebbi notizie anche del figliolo. Pare che si fosse ammalato di petto. Era morto poco

dopo la madre.

* * *

Dell'altro mio compagno di scacchi, l'ingegnere Gamber, il ricordo è assai meno triste. Gamber era

un bel giovane elegante, molto intelligente. Nato nei paesi baltici aveva vissuto per alcuni anni a

Varsavia ed a Parigi. Narrandomi del suo soggiorno in questa ultima città, si compiaceva parlarmi

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delle partite da lui giocate al « Cafe de la Régence ».

Sapevo che viveva solo in un piccolo, nitido appartamento di un quartiere nuovo di Mosca. Perciò

restai meravigliato quando un giorno mi accennò ad un suo bambino che viveva lontano da lui. « E

dove è vostra moglie?» domandai. Gamber rimase un momento silenzioso, poi disse: « Vedete,

Umberto Vikientievic, qui in Russia abbiamo distrutta la vecchia morale ma ad essa non ne

abbiamo ancora sostituita un'altra ». Nè aggiunse altro. Più tardi seppi da amici comuni che la

moglie l'aveva abbandonato e se ne era partita col bambino. Casi simili avvenivano allora assai

frequentemente in Russia e non era da meravigliarsene. Le cose cambiarono più tardi.

Del resto l'ingegnere Gamber non rimase a lungo solo. Un bel giorno comparve a casa mia con una

bella, giovane signora siberiana: la sua nuova moglie.

* * *

Nei miei ricordi di Russia il tipo più divertente di scacchista che ebbi a conoscere fu un giovane

scrittore: Michaíl Ivanovic. Di lui non ho mai saputo il nome di famiglia.

Michail Ivanovic mi era stato presentato dal mio segretario Frcek. Era un tipo veramente originale.

Romantico, direi. Come giocatore di scacchi valeva anche meno di me e per giunta era di una

lentezza esasperante. Ma, a parte gli scacchi, la sua compagnia era interessante e piacevole. Soleva

venire da me di sera senza preavvisarmi, e si tratteneva fino all'ora dell'ultima corsa della

metropolitana, che andava a prendere sulla piazza della Lubianca presso la mia casa. Una sera

comparve all'improvviso all'ora di cena. Terminata questa, ci mettemmo a giocare, e seguitammo

per tutta la serata. Michail Ivanovic questa volta non si curava affatto di guardare l'orologio per

vedere se fosse giunta l'ora di andarsene, e la mezzanotte passò senza che mostrasse di

accorgersene. Gli domandai come avrebbe fatto a tornare a casa. Mi rispose che sarebbe andato a

piedi e continuò a giocare. Si fecero così le quattro del mattino. Giunti ad una tale ora, non vi era

altro da fare che aggiustargli alla meglio un letto; ciò che feci. La mattina dopo, giorno di vacanza,

riprendemmo a giuocare. Una vera scorpacciata di scacchi da farne un'indigestione ! Ma nemmeno

la sera, quando già ormai la visita durava da venti quattro ore, il mio ospite accennava a volersene

andare.

Alle otto il telefono squillò. Dall'altro capo della linea una voce femminile domandava: « Scusate,

signor Nobile, Michail Ivanovic è da voi? ». Era la moglie del mio compagno di gioco, che, dopo

aver ricercato dovunque suo marito, rivolgendosi perfino alla polizia, finalmente si era ricordata di

me.

Qualche giorno dopo il mio segretario mi informò che la sera in cui Michail Ivanovic era venuto da

me, aveva litigato con la moglie. Pare che avesse preso l'abitudine di venirsene a casa mia a giocare

a scacchi tutte le volte che succedeva una simile cosa.

In un paese come l'Unione Sovietica, dove il gioco degli scacchi aveva un'importanza così grande

da destare l'interessamento del governo, non può far meraviglia che vi fosse perfino chi ne avesse

fatto oggetto di poesia. Conobbi uno di questi poeti. Era una signora della vecchia aristocrazia: una

contessa o qualche cosa di simile, che, beninteso, non faceva sfoggio alcuno di tal titolo, anzi

cercava di far dimenticare di averlo un giorno posseduto.

Questa signora viveva di poesia scacchistica nel senso che da essa traeva i mezzi materiali per

vivere. Pubblicava i suoi poemi nei giornali, che glieli pagavano. Quanto non so dire, ma è certo

che glieli pagavano, il che prova che trovavano dei lettori.

La signora venne a casa da me e mi concesse l'onore di fare una partita, che ad un certo punto, a sua

richiesta, per ragioni di cavalleria, acconsentii a dichiarare patta. Manifestandole io la mia

meraviglia che gli scacchi potessero ispirare della poesia, ella a sua volta si meravigliò della mia

meraviglia. Mi parlò degli scacchi nella letteratura. Tra l'altro appresi che anche Leone Tolstoi era

stato un appassionato, benchè mediocre giocatore di scacchi.

Nell'Unione Sovietica le relazioni degli scacchi con le belle arti non si limitavano alla poesia. Nel

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Parco di Cultura e di Riposo, il bellissimo parco di Mosca, assistetti una volta ad una partita

veramente singolare dove ogni pezzo era rappresentato da una donna o da un uomo, ciascuno in

appropriati costumi. Lo spettacolo era per me veramente nuovo e piacevole. I due giocatori, dall'alto

di due palchi, dirigevano le mosse di questi scacchi viventi. I movimenti venivano accompagnati da

suoni e danze eseguite dal pezzo mosso. Così si vedeva, ad esempio, una pedina fare, a suon di

musica, una danza nella sua casa prima di passare in un'altra, nella quale si arrestava dopo aver fatto

un altro giro di ballo.

Un pezzo che ne prendeva un altro accompagnava naturalmente la presa con canti di vittoria.

Il leone ed il ladro

NON è il titolo di una favola di Esopo, ma di un fatto realmente avvenuto a Mosca.

In Russia non ho mai visto maltrattare un cavallo (non parlo di asini perchè di asini non ve ne sono)

od altri animali. Gli isvoscik non erano nemmeno provvisti di frusta. Anche gli uccelli erano lasciati

in pace dai fanciulli. Ma che l'amore per le bestie potesse spingersi al punto da tenersi in casa un

giovane leone, questo non l'avrei creduto. Eppure il caso si diede a Mosca proprio al tempo mio. Ne

parlarono i giornali.

La padrona del leone era una giovane donna impiegata allo Zoo, dove probabilmente occupava una

posizione importante, a giudicare dal fatto che le avevano permesso di portarsi a casa uno dei

leoncini, che aveva essa stessa allevato, ed al quale si era particolarmente affezionata.

Il leoncino col tempo era cresciuto. Non era più uno di quei cuccioloni, dal pelo morbido e fine, che

fa tanto piacere prendere fra le braccia, quando si va a visitare un giardino zoologico, ma un vero e

proprio leone che la signora portava a spasso al guinzaglio per le vie di Mosca, e lasciava libero di

girare dall'una all'altra camera del piccolo appartamento che occupava insieme con suo marito.

Ora, un giorno in cui marito e moglie si trovavano fuori casa per le loro faccende, un ladro penetrò

nell'appartamento con l'intenzione di rubarvi. Il poveretto non poteva certo pensare che avrebbe

trovato in casa un leone; si immagini, perciò, il suo spavento nel vedersi venire incontro la belva.

Fu precisamente a questo punto che il ladro scoprì di possedere una agilità da scoiattolo. In un

attimo si trovò, tremante di paura, sull'alto di un armadio che, fortunatamente per lui, si trovava

nell'ingresso della casa. Ai piedi dell'armadio si mise di guardia il leone, risoluto a non lasciarsi

sfuggire il ladro, se per caso si fosse deciso a discendere.

Furono ore di attesa ansiosa, durante le quali il malcapitato non dovette, io penso, cessare un attimo

dall'invocare il Cielo, perchè facesse tornare subito a casa gli inquilini dell'appartamento che era

venuto a svaligiare. Egli non sapeva che un leone, per prendere lo slancio per un salto, ha bisogno

di un certo spazio, che nell'angusto ingresso di quella casa mancava. Se l'avesse saputo, è probabile

che si sarebbe alquanto rincorato.

Alla fine i padroni di casa sopraggiunsero e lo sfortunato ladro, finalmente liberato, potette

discendere dall'armadio ed andarsene per i fatti suoi.

Ebbi la curiosità di conoscere il leone e la sua padrona e stavo sul punto di far loro visita, quando

venni avvertito che era troppo tardi: le autorità sovietiche, saggiamente giudicando che tenere un

leone in casa costituisce un pericolo eccessivo per i ladri, avevano ordinato di riportarlo al giardino

zoologico.

* * *

Come si chiamasse quell'antico direttore di circo equestre al quale il Governo sovietico concedeva

di tenere a casa molte delle sue bestie, non ricordo più, ma era uno assai famoso. Andai a visitarlo

con mia figlia.

Aveva fra l'altro, nella corte della casa, un elefante, ai piedi del quale giaceva accovacciato un

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grosso cane da pastore.

Il direttore del circo mi disse: « Sono molto amici, elefante e cane. Stanno sempre insieme. Provi un

po' a maltrattare il cane e vedrà come l'elefante si infuria ». E me ne diede la prova, fingendo di

voler percuotere il cane con un bastone. L'elefante cominciò ad agitarsi, muovendo furiosamente la

proboscide ed alzando ora l'una ora l'altra delle sue massiccie zampe. Alla fine, per non vederlo

infuriato sul serio, dovemmo smettere di molestare il suo amico.

Le file a Mosca

Le file in Russia, ai magazzini, ai botteghini dei teatri, alle edicole dei giornali, agli sportelli delle

stazioni ferroviarie, alle porte dei musei, al mausoleo di Lenin, erano una delle cose che più mi

impressionavano nei primi tempi che ero a Mosca.

In pieno centro della città, al principio di Kusnictzki-most, dov'era una agenzia di viaggi, si vedeva

nel 1931, ed ancora nel 1932, una fila lunghissima di persone che aspettavano per acquistare i

biglietti ferroviari. In quel tempo un enorme numero di persone viaggiava in Russia, spostandosi da

una città all'altra. Le stazioni ferroviarie erano gremite di viaggiatori di ogni razza, di ogni

nazionalità.

Caratteristiche erano le file ai teatri. I teatri in Russia erano affollatissimi, sempre. Per comprare un

biglietto bisognava a volte andarsi a mettere in fila davanti al botteghino del teatro una settimana

prima dello spettacolo. L'ho fatto io stesso tante volte, ma Ester Josefovna mi aveva detto: « Voi

non avete bisogno di stare in fila; siete straniero; la gente vi lascerà passare avanti». Ed infatti mi

lasciavano passare, non senza però aver bonariamente brontolato.

Ci fu un tempo in cui il .petrolio a Mosca era assai scarso. Una sera, passando per l'Arbat, vidi

ferma davanti ad un negozio una fila di persone, ma il negozio era chiuso. Domandai che facesse

quella gente a quell'ora. Mi dissero che avrebbe passata la notte all'aperto per poter la mattina

seguente comprare il petrolio. Non vi sono che i Russi a esser così pazienti.

Uun giornalista americano, che incontrai a Mosca, raccontava che, essendosi messo una volta in

viaggio, si era procurato una raccomandazione della G.P.U. che lo dispensava dal far la fila nelle

stazioni per acquistare i biglietti di viaggio. Recatosi un giorno, per tale bisogna, alla stazione di

Odessa, o non so quale altra città, venne da un agente della ferrovia, al quale aveva mostrato la

lettera della G.P.U., diretto ad uno sportello davanti al quale sostava una lunga fila di persone.

Avvalendosi del diritto che gli dava la dichiarazione, fece l'atto di passare davanti agli altri; ma

questi protestarono: « Perchè volete passare avanti ? ». « Ne ho il diritto », rispose il giornalista

mostrando la lettera.

« Ma l'abbiamo anche noi una dichiarazione simile », fu la risposta.

Era la fila di quelli che avevano il diritto di non fare la fila !

Ma le file col passar degli anni si andarono diradando, ed in certi periodi scomparvero del tutto,

specialmente davanti ai negozi alimentari.

Dovevo rivederle in Italia, alcuni anni dopo, durante la nostra infelicissima guerra.

* * *

In fatto di file il colmo occorse in casa nostra stessa a Mosca, e si crederebbe ad uno scherzo se non

aggiungessi che al fatterello che sto per raccontare erano presenti mia figlia Maria ed Amabile, una

nostra familiare.

Avevamo in casa tre gattini. Nessuna meraviglia di ciò, perchè mia figlia soleva raccogliere per

istrada tutti i micini che credeva abbandonati.

Orbene un giorno, mentre stavo lavorando, sentii grandi esclamazioni provenire dalla camera

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attigua, che era quella d'ingresso della casa. E mia figlia che chiamava: « Papà, vieni a vedere ».

Accorsi.

Nell'angolo, dove era un cestino pieno di segatura, si vedevano ì tre micini : l'uno di essi nel centro

del cestino nell'atto di soddisfare ad un suo bisogno fisiologico e gli altri due ad aspettare in fila il

loro turno !

Storia di un vagone di burro e di un cesto di mele

Da qualche giorno ero a letto ammalato d'influenza, e proprio quella mattina avevo chiesto un

medico per farmi visitare.

L'indisposizione non era così grave da impedirmi di lavorare, e profittavo perciò del riposo cui ero

obbligato per terminare i calcoli, piuttosto laboriosi, di uno studio che avevo allora per le mani. Mi

aiutava nella bisogna un giovane italiano a nome Roberto, disegnatore del Constructor Biurò della

Dirigiablestroi.

Nàstia (una delle mie donne di servizio) entrò ad avvertirmi che alla porta vi era un uomo che

voleva visitarmi. Pensai che fosse il medico. « Lasciatelo passare», dissi. Si presentò un individuo

alto, magro, vestito abbastanza bene. Mi salutò con effusione: « Sdrastuitie, Umberto Vikientievic.

Kak vi sgiviote ?» (Salute, Umberto di Vincenzo, come state ?).

Sorpreso da tanta cordialità, lo guardai. « Vi doctor ? », (Siete il medico ?) domandai.

L'individuo parve lievemente offeso dalla mia domanda. Prontamente rispose: « Ja, doctor ? Niet. Ja

professor ». (Io dottore ? no; son professore).

Non replicai. Capii che non si trattava del medico che aspettavo. Ma chi mai era costui che si

rivolgeva a me come se fossimo vecchie conoscenze ? Cercavo di ricordare dove e quando l'avessi

conosciuto; ma non riuscivo ad identificare l'individuo.

In casi come questi si è sempre un po' imbarazzati. Come si fa a domandare « Chi siete?» ad uno

che vi saluta così cordialmente come se fosse un vostro amico ? Decisi di aspettare. Il mistero forse

si sarebbe chiarito nel seguito della conversazione.

« Umberto Vikientievic », riprese l'individuo, « giungo dalla Crimea e mi reco a Leningrado. Non

ho voluto, passando per Mosca, mancare di venire a salutarvi. Vi ho portato in regalo un cesto di

mele. Mele grandi così ». E con i pollici e gli indici delle due lunghe mani, riuniti a formare un

cerchio, me ne indicava la grandezza.

Vidi uno spiraglio di luce : Leningrado... professore... Costui probabilmente era qualcuno che avevo

conosciuto in casa del professor Samoilovic a Leningrado; dove mi ero recato qualche tempo

addietro. Feci un tentativo:

« Conoscete a Leningrado il professor Samoilovic ? ».

« Samoilovic ? » fece lo sconosciuto «Kak I Ja scevu v' tomsge samom domie » (E .come ! vivo

nella stessa sua casa).

Mi cominciai a sentire un po' più a mio agio. Era, dunque un professore amico di Samoilovic. Ora

potevo proseguire nella conversazione con minor incertezza. Cominciavo ad orientarmi.

Ma avevo un dubbio da chiarire.

« E come avete fatto a trovare il mio indirizzo ? », domandai.

« Semplicissimo », rispose l'interpellato. « Vi è un chiosco d'informazioni qui vicino, alla

Mjasnitzkaja. Ho domandato di voi, e mi han detto subito dove abitavate ».

Questo chiosco d'informazioni esisteva veramente, ma fino ad allora non ne avevo saputo nulla.

Page 60: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

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La conversazione proseguì : senza entusiasmo da parte mia, perchè avevo fretta di tornare al mio

lavoro, mentre l'individuo, da parte sua, non mostrava alcuna fretta di andarsene.

«Umberto Vikientievic », riprese, «vengo, come vi ho detto, dalla Crimea. Sono stato incaricato di

scortare un vagone di burro a Leningrado, destinato ad esser esportato in Finlandia ».

Sostò un attimo. Poi, come colto da una improvvisa idea:

« Ma, Umberto Vikientievic, certo voi avete bisogno di burro. Ne volete ?

Posso darvene quanto ne volete ed a buon prezzo. Sono proprio felice di potervi esser utile. So bene

quanto sia difficile procurarsene qui a Mosca ».

Infatti, in quei tempi il burro era assai scarso. Se ne trovava a comprare soltanto al Torgsin; però

bisognava pagare in valuta straniera.

Ma di quelle faccende domestiche io non mi interessavo affatto; perciò accolsi l'offerta dello

sconosciuto con una certa freddezza.

Chi invece si entusiasmò fu Roberto, il mio giovane collaboratore, che già, al solo sentir parlare di

vagoni di burro, aveva sgranato tanto di occhi. Ora, all'offerta del professore mi tirò per un braccio.

« Accetti », mi disse sottovoce. «Ne prenderò anche io per casa».

« Bene », dissi all'individuo, « datemene allora due chili ».

« Due chili ? e che ve ne fate di così poco ? Ma prendetene di più, caro Umberto Vikientievic. Vi

prego, non fate complimenti. Dite liberamente. Quanto ve ne occorre ? ».

Così dicendo, cacciava fuori della tasca un taccuino ed un lapis, e se ne stava lì col lapis per aria

aspettando che dicessi una cifra decente.

Finalmente raddoppiai la richiesta precedente. Allora il professore decise lui per me. « No, è troppo

poco. Faremo tredici chili, va bene?» e fece il conto dell'importo.

Concluso, con grande soddisfazione di Roberto, l'affare, bisognava ora vedere se in casa vi fosse

abbastanza denaro per pagare. Chiamai Nastia per domandarle quanti rubli avesse. A sentir tale

richiesta il mio visitatore mi interruppe. « Ma, Umberto Vikientievic, non occorre pagare subito. Lo

farete con vostro comodo. Anzi se vi occorre del denaro, ve ne posso dare io ». E così dicendo

metteva fuori di tasca il portafogli, e taceva finta di metter mano al denaro.

Come si vede, la mia mente era talmente ottenebrata dai troppi calcoli di quella mattina, che lì per lì

non tui nemmeno colpito dalla strana prodigalità di questo sconosciuto che veniva ad offrirmi mele,

burro e perfino danaro !

Ringraziai, rifiutando cortesemente l'offerta.

« Allora », concluse l'individuo, accomiatandosi, « dite alla vostra domestica di accompagnarmi

all'albergo. Le consegnerò il cesto delle mele ed il burro ».

E si avviò all'uscita insieme con Nastia. Riprendemmo i calcoli.

Dopo mezz'ora Nastia tornò indietro infuriata.

« Sapete che ha fatto quell'uomo ? Per la strada mi ha domandato quanto danaro avevo portato con

me. Gli ho risposto che non ne avevo portato affatto. Allora, giunto all'angolo della strada, mi ha

detto: "Aspettatemi qui. Vado a prendere le mele ed il burro, e ve lo porto subito,,. Ho aspettato

finora, ma non è venuto ».

Così avvenne che il tentativo di truffa del simpatico lestofante andasse a vuoto. Ma a dir la verità, la

sola ragione per cui esso non riuscì fu che realmente danaro in casa quel giorno non ve ne era.

LETTERE DALLA RUSSIA

Page 61: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

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Quale testimonianza viva ed immediata delle impressioni riportate sulla vita sovietica, mi è parso

interessante raccogliere qui alcuni brani di lettere da me scritte a casa dalla Russia, lasciandoli nella

forma originaria. Altri brani sono tolti da lettere di mia figlia Maria,- altri da lettere di una nostra

familiare, a nome Amabile.

Notti bianche

Leningrado, r4 luglio 1931. — Queste notti bianche di Leningrado, ora che il tempo è sereno, sono

di una grande bellezza.

Vado spesso la sera tardi a passeggiare lungo la Neva, dove sono quei bei palazzi costruiti da

architetti italiani. In quel punto il fiume è molto largo ed assume un andamento maestoso. Dalla

quiete della notte scende nell'animo una grande serenità.

Leningrado, 22 agosto 1932. — Qui l'estate è finita, e la campagna ingiallisce. A Mosca il caldo

non si sente più; e a Leningrado fa freddo, tanto che sono pentito di non aver portato un cappotto

pesante.

Oggi sono stato a Gkcina. La campagna, pure un po' triste per il giallo del grano, è sempre assai

bella. Vorrei proprio che tu vedessi.

Autunno

Mosca, 21 ottobre 123 2. — Il tempo cattivo non ci impedisce di andar fuori di Mosca, lontano, nei

giorni di vacanza. La campagna è così bella qui, anche ora che l'autunno ha ingiallito molti alberi.

Non sono colori vivi, ma vi è tanta armonia di luci, ed il verde cupo dei pini fa risaltare il giallo oro

degli alberi che il freddo ha intristito.

Mosca d'inverno

Dolgaprudnaja, 3 dicembre 1934. — Qui il freddo è venuto. Ieri erano venti gradi sotto zero.

Dolgaprudnaja, tutta coperta di neve, si è come per incanto trasformata da quella sudicia

pozzanghera che era in un accampamento pittoresco, tutto candido di neve. L'ultimo giorno di

vacanza siamo andati con Amabile ed i cani fino al laghetto. Il cielo era tutto azzurro, ed i boschi

avevano una colorazione straordinaria fra blu, rosa e bianco. Una cosa magnifica, che si può vedere

soltanto in questi paesi nordici, quando fa freddo e l'aria è limpida ed il cielo sereno.

Mosca, 14 dicembre 1933 (da Amabile). -- Come son belle le nostre finestre I Tutti i giorni il

ghiaccio disegna dei fiori sui vetri, e quelli di una camera sono diversi da quelli dell'altra. Oggi, ad

esempio, i vetri della stanza da pranzo sembrano di damasco, con tante foglie grandi messe alla

stessa distanza l'una dall'altra. Nessun pittore le potrebbe fare così. Nello studio tutte stelline e

ramoscelli di stelline. Se Lei, signora, potesse vedere, che bellezza!

Mosca, I gennaio 1936. — Quest'anno in Russia il capodanno è stata festa grande. Il giorno di

vacanza del 3o dicembre è stato soppresso, e si è ufficialmente riconosciuto come giorno di festa il

primo dell'anno. Questo è stato un bene, perchè gli altri anni la gente festeggiava ugualmente

l'arrivo del nuovo anno, ed avendo passato tutta la notte in bagordi, la mattina dopo in ufficio non si

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reggeva in piedi dal sonno. Ora invece tutto è in regola. La notte scorsa si è mangiato, bevuto e

danzato fino alle quattro o cinque di mattina, e quest'oggi i miei ingegneri possono tranquillamente

rimanersene a casa a dormire.

Abbiamo un tempo stranissimo quest'inverno: il più caldo che abbia osservato qui. La temperatura

non è mai scesa al disotto di una dozzina di gradi, mentre l'anno scorso a novembre già avevamo

trenta gradi. Qualche settimana fa vi fu una grande nevicata: non avevo mai visto tanta neve nelle

strade di Mosca, ed era uno spettacolo molto piacevole. Ma stamattina, all'improvviso, la

temperatura si è elevata tanto che si è messo a piovere, e tutta la neve si è disciolta.

Mosca, 4 gennaio 1932. — D'inverno, le finestre a doppie vetrate vengono all'interno chiuse

ermeticamente e suggellate con mastice, salvo una piccola portella, in alto, anche essa a doppi vetri,

che serve a ricambiare l'aria. La neve si accumula avanti, sui davanzali, ed il gelo forma sui vetri

disegni ad arabeschi, assai belli.

Mi piace la notte fermarmi in istrada a contemplare gli uomini che lavorano a spazzar via il grosso

della neve, affinchè non si accumuli eccessivamente. L'ammonticchiano qua e là, e dopo la

squagliano in una specie di forno a carbone. Più bello ancora quando, per liberare i binari del tram,

vi accendono sopra un bel fuoco di legna. La bella fiamma rossa sullo sfondo della neve, nelle

strade tutte bianche e nel freddo pungente della notte, è una cosa gradevolissima. Ieri sera sarei

rimasto ore ed ore a guardare.

Mosca, 21 gennaio 1932. — La mattina in cui arrivai, durante il viaggio dal confine russo a Mosca,

mentre ero nella mia cabina intento a leggere, sentii canticchiare un'aria che somigliava vagamente

a « O' sole mio ». Credetti di aver frainteso, e seguitai a leggere. Ma, dopo alcuni minuti, ecco

affacciarsi alla porta del compartimento un giovanotto bruno, che dopo avermi salutato mi disse di

essere portoghese. « Ma », aggiunse, «il mio cuore è italiano, perchè vi è tanto sole in Italia». Capii

che si era messo a canticchiare per richiamare la mia attenzione, e non essendoci riuscito, si era

fatto coraggio e si era presentato alla porta del mio compartimento.

Il bravo giovane non aveva torto a pensare al sole. Qui da molti giorni non lo si vede più. Peggio

ancora, fa caldo (zero gradi) e la neve è tutta disciolta, sicchè le strade sono ricoperte da una

fanghiglia nerastra.

Mosca, 26 gennaio 1932. — Il tempo è sempre cattivo. La temperatura è attorno allo zero, ma fa

umido, e sembra che faccia freddo. Stasera il cielo pareva volesse rasserenarsi, e sulla grande piazza

Sverdlov volteggiavano in alto stormi immensi di uccelli. Erano migliaia.

Mosca, 2 febbraio 1932. — Continua il freddo e con il freddo la neve. Ormai tutte le strade sono

bianche, e miriadi di aghi di ghiaccio brillano sotto la luce delle lampade elettriche. Così Mosca è

vera mente bella.

Mosca, 3 febbraio 1932. — ... stamattina, quando mi son levato, il sole inondava di luce le strade

avanti alle finestre, e faceva allegria nelle mie camere. Mi sono sentito sollevato. Il cattivo umore

dei giorni scorsi è scomparso d'incanto. Fa freddo: diciotto gradi sotto zero.

Mosca, 3 febbraio 1932. — Alcune settimane di pieno inverno qui a Mosca sarebbero divertenti

anche per te. Gli isvoscik imbacuccati nelle loro pelliccie, con le slitte trainate da questi buoni e

massicci cavalli, le strade ghiacciate, la neve accumulata qua e là, l'aria frizzante, tutto questo è

molto piacevole. Nei tram i vetri sono tutti ricoperti di ghiaccio, fino come polvere, prodotto dalla

condensazione del vapor d'acqua emesso con la respirazione delle persone, sicchè non si riesce a

veder fuori.

A proposito di cavalli, ieri per istrada, mentre parlavo con Ester Josefovna di animali, le osservavo

che gli asini sono molto intelligenti. Essa mi guardò tutta meravigliata (qui asini non se ne vedono),

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e mi disse: «Ma allora perchè li chiamano asini ? ». Risposi che sempre gli uomini chiamano asini

quelli che sono buoni.

Mosca, 6 febbraio 1932. — Il freddo aumenta sempre più. Questa notte alle due era di ventisette

gradi sotto zero.

Stamattina di diciannove gradi. Ma è molto piacevole. Naturalmente ho dovuto mettere un abito

pesante; ma finchè non tira vento non si sente la mancanza di una pelliccia. 11 cappotto è più che

sufficiente.

Oggi si vede perfino un po' di sole. Ma se vedessi che specie di sole ! Si potrebbe anche farne a

meno. Mi diceva stamani Leteisen che vi è un proverbio russo che dice: il sole d'inverno riscalda

male, così come una matrigna riscalda male il figliastro.

Dolgaprudnaja, 9 febbraio 1936. — Oggi il cielo era sereno. L'aria limpidissima e fredda. Nel

pomeriggio siamo andati a sciare. Di lontano i campi di neve apparivano lievemente tinti di azzurro.

Nel cielo strisce di verde...

Mosca, 12 febbraio 1933— Qui nevica che è una bellezza da molti giorni, ma non fa freddo. La

neve è tanta che è difficile giungere con l'automobile fino a Dolgaprudnaja. Ieri fui obbligato ad

abbandonarla presso il lago, e continuare a piedi. Poi sopraggiunse una slitta, sulla quale montai, e

Titina con me. Marianna restò a piedi, ma, seccata, correva avanti al cavallo, abbaiandogli per farlo

fermare.

Il prof. Kaniceff sta bene; soltanto ha una mano un po' bruciacchiata. Ha insistito molto per farmi

conoscere uno scultore che da tempo desiderava fare il mio busto. Alla fine l'ho accontentato, ed

oggi sono andato nel suo studio. Come puoi immaginare, esso non è così grande e luminoso come

quello del nostro Hendrik a Roma (*). In compenso, però vi sono cose divertenti. Ogni tanto il

pavimento, che è di catrame, si screpola, ed attraverso il pezzo che si stacca viene fuori un fungo. E

sono Lunghi buoni a mangiare ! Avresti mai pensato che un fungo potesse riuscire a rompere un

pavimento solido, spesso due o tre centimetri ? Eppure l'ho visto con i miei occhi questa mattina.

Mosca, 21 febbraio 1933. — Di tanto in tanto compare un bel cielo azzurro ed il sole, ed allora è

una festa, specialmente se ci si trova in campagna. Dovresti vedere questi bei boschi inargentati, su

un piano uguale di neve indorata dal sole, che bellezza che sono.

(*) Lo scultore americano Hendrik Cristian Andersen, di origine norvegese, uno dei precursori

dell'idea di unificazione del mondo, che dedicò la sua vita ed i suoi averi ad un nobile progetto per

la fondazione di un centro di coltura mondiale, A World centre, come egli lo chiamò.

Bambini russi

Mosca, 21 gennaio 1932. --- Ieri sera visitai una piccola famiglia russa: marito, moglie e due

bambini, uno di sette anni,l'altro di nove o dieci. I bambini erano nella stanza attigua, già a letto, ma

quando han saputo che io ero là, si son messi a far chiasso perchè volevano conoscermi. Aperta la

porta, il più piccolo, in maniche di camicia, mi è venuto attorno a sgambettare. Il secondo, magro ed

alto, con i capelli rossi, ha pregato la mamma di domandarmi « quale tipo di maschera contro i gas

asfissianti si adopera in Italia ». Sono rimasto a bocca aperta, e gli ho detto di non saperlo; chè anzi,

per quello che ne so io, non se ne adopera nessuna, perchè non ve ne è bisogno, grazie a Dio.

Allora, trionfante, è andato a prendere in qualche posto due maschere e me le ha mostrate. Come

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vedi, qui i ragazzi si occupano di cose molto serie...

Mosca, 24 gennaio 1932. — Ieri sera fui ad un concerto. Dopo, tornai in casa di quella piccola

famiglia russa dove ero già stato due sere prima: un ingegnere ebreo, la moglie russa e due bambini.

La signora, che la volta precedente era rimasta un po' mortificata per non aver avuto nulla da

offrirmi, aveva preparato il tè con biscotti, paste, marmellate, ecc. Sulla tavola la porcellana più fine

che aveva.

Nell'insieme una serata piacevole. Il ragazzo maggiore, di dieci anni, stava a guardarmi con grande

attenzione, e si faceva tradurre tutto ciò che andavo dicendo. Quando, in seguito alle esortazioni

della madre, si decise ad andare a letto, volle prima mostrarmi la sua stanzetta, cioè la piccola

porzione di stanza che egli chiamava la sua stanza. Le pareti erano tutte ricoperte di fogli, illustrati

con soldati e maschere contro i gas asfissianti.

Chiese

Mosca, i o agosto 1933 (da Maria). — Ti dirò subito perchè il giorno 3o non sono andata a messa.

La messa comincia alle undici ed un quarto, ma prima vi è la predica, la confessione, ecc., sicchè la

gente va in chiesa un'ora prima. Quando arrivo io, è già piena zeppa, e devo rimanere in piedi per

un'ora, in un'aria che spesso è irrespirabile. Dopo cinque minuti la testa mi comincia a girare e devo

uscir fuori.

Mosca, 11 agosto 1933 (da Amabile). Maria è rimasta molto addolorata a leggere il rimprovero che

Lei le ha fatto. Lei ha ragione a dire che non bisogna mancare ai propri doveri di cristiano, ma non è

stato per poltroneria se essa per due domeniche non è andata in chiesa. Una volta faceva un caldo

tremendo, ed approfittammo che era giorno di vacanza per il signore, per andare tutti insieme, di

buon mattino, a Nuova Gerusalemme, una chiesa bellissima, che ora è un museo. L'altra volta fu a

causa di un raffreddore che la tenne a letto.

« Deve anche tenere conto, cara Signora, che in quella chiesa, se non si va un paio di ore prima, non

si trova posto, e bisogna starsene in piedi. E col caldo che fa e gli odori che vi sono non è un piacere

».

Mosca, 17 agosto 1933 (da Maria). L'altro ieri, Madonna dell'Assunta, andammo in chiesa. Vi fu

anche la processione. Seguivano il Santissimo tante bambine vestite di bianco con un mantello

rosso ed un nastrino in testa pure rosso. Ognuna portava tra le mani un cuscinetto, e su questo o la

colonna sulla quale fu flagellato Gesù, o la corona di spine, o la croce, o i chiodi ed il martello.

Tutte queste cose erano di legno. Altre bambine gettavano continuamente fiori al Santissimo.

La chiesa era piena nonostante che fosse giorno di lavoro.

Teberdà, 2 settembre 1933 (da Maria). --- Qui di chiese non vi è nemmeno l'ombra. Tutti mi

guardano come una bestia rara, perchè porto una crocetta al collo.

Mosca, 26 ottobre 1933 (da Amabile). — Passando vicino ad una chiesa ortodossa vi sono entrata.

Era molto piccola, ma bella. Accanto ad un tavolino stava un prete, che pregava ad alta voce, anzi

cantava. Quattro o cinque donne gli stavano vicino, facendosi continuamente il segno della croce.

Qui i preti portano un lungo cappotto nero, con maniche molto larghe, che somigliano a quelle di un

kimono giapponese. I capelli sono assai lunghi e scendono giù per le spalle, ed hanno una gran

barba. Al collo portano una catena d'oro, con una gran croce anche d'oro.

Page 65: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

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Teatri

Leningrado, 3 settembre 1931. — Sono a Leningrado da ieri mattina. Il piacere di tornarvi non è

stato così grande come avevo immaginato. Ormai mi sono abituato a Mosca, e desidero tornarvi

presto, anche per poter avere notizie tue.

Ieri fui all'inaugurazione del Congresso sismologico, e naturalmente vi incontrai la signora

Tolmaceff, la figliuola del vecchio Karpinski, il presidente dell'Accademia delle Scienze. Sempre

chiacchierona e piena di vita. Era felice di vedermi. Mi portò in giro proclamando a destra e sinistra

che ero il « suo ragazzo », che mi trovavo sotto la sua protezione materna, ecc., ecc.

Al Congresso sismologico ho trovato tedeschi e francesi, ma nemmeno un italiano: cosa strana,

trattandosi di vulcani e terremoti.

Ieri sera fui a teatro, all'Opera. Spesso vi ero stato invitato, ma ero talmente occupato che avevo

dovuto sempre rifiutare. Ieri sera mi decisi ad accettare e ne fui contento, perchè lo spettacolo era

veramente bello. Si rappresentava il « Principe Igor ». Artisti, orchestra, messa in scena, tutto era

eccellente, ed un pubblico di facce intelligenti. Qui l'Opera non è fatta solo per i ricchi: un operaio

ottiene uno dei migliori posti pagando un rublo o poco più. Noi ne abbiamo pagati sei.

Mosca, II novembre 1932 (da Maria). — E un po' di tempo che non andiamo a teatro, perchè verso

la fine di ottobre quando papà andò a comprare i biglietti, gli dissero che erano stati venduti tutti,

fino al 12 novembre, ed in tutti i teatri di Mosca!

Mosca, 14 novembre 1933 (da Maria).

..abbiamo un nuovo chauffeur; si chiama Sascia. E’ molto servizievole, ma anche un tipo curioso.

Spesso mangia a casa, e quando ha finito va da Amabile in cucina, e comincia : « Amabile,

pascaluista, daite mniè papirosu. Amabile, pasciàluista, daite mniè ciaiu ». (Amabile,per

piacere,datemi delle sigarette.Amabile, per piacere, datemi del tè). Non ci pensa su due volte

quando vuol chiedere qualche cosa.

... In questi giorni vado a teatro molto spesso. Sabato andai ad una rappresentazione di « Madame

Butterfly ». Mi piacque moltissimo. Ho già visto due volte il «Barbiere di Siviglia », una volta

«Faust », « Borls Godunof», e tante altre opere.

Cortei

Mosca, 9 novembre 1933. — Da ieri abbiamo neve e una temperatura di parecchi gradi sotto zero.

Della neve sono contento; essa cade giù tanto fitta da coprire tutte le immondizie che si sono andate

accumulando nel cortile. Per una casa che è proprio nel centro di Mosca, non si dovrebbe tollerare

un cortile così sudicio.

Vi sono stati tre giorni di festa, 6, 7 e 8, per celebrare l'anniversario della rivoluzione di ottobre. La

mattinata del 6, sino alle tre del pomeriggio, fui occupato in una conferenza tecnica, a prepararmi

alla quale avevo dovuto lavorare tutta la notte precedente fino alle cinque del mattino. Il giorno 7

trascorremmo quasi tutta la giornata in casa perchè circolare per le strade era difficilissimo. La

parata che in queste occasioni ha luogo sulla Piazza Rossa richiama sempre interminabili cortei di

persone. Senza esagerare,credo che per le strade vi fossero almeno due milioni di persone. Dalle

nostre finestre si vedeva passare il corteo: uno spettacolo unico al mondo. Abbondavano i cartelloni

con scritte, e poi grandi ritratti di Lenin, Stalin, Kaganovic ed altri capi. La gente era allegra, gaia,

soprattutto i giovani che approfittavano delle soste del corteo per mettersi a danzare.

Page 66: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

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La sera in automobile siamo andati in giro a vedere le luminarie, ma queste non avevano nulla di

straordinario per uno che fin da fanciullo ne ha viste tante nel mezzogiorno d'Italia.

Mosca, 7 novembre 1933 (da Maria). Oggi gran festa: l'anniversario della rivoluzione. Nelle strade

fino alle sei di sera non si può nè camminare, nè andare in giro in automobile. Dalla finestra si

vedono passare migliaia e migliaia di persone, con bandiere, stendardi, ecc. Ognuno vuol avere

qualche cosa di rosso in mano, qualunque essa sia. Proprio in questo momento è passato un gruppo

di gente che portava dei palloncini rossi.

Mense collettive

Mosca, 22 maggio 1932. — Ieri sera tenni una conferenza alla Casa degli scienziati. Mi avevano

avvertito soltanto il giorno prima, e perciò non avevo avuto molto tempo per prepararla. Si protrasse

fino a dopo le undici. Come al solito fu servito il tè, con sandwiches di caviale e siòmga.

Questa degli scienziati è veramente una bella casa, con sale magnifiche, eleganti, tutte messe a

nuovo. Vi è anche una gran sala da pranzo, dove i soci possono avere un buon pasto per due rubli.

Mi sono iscritto anche io. La quota annua è di venticinque rubli.

Nastia si dà gran pena per prepararmi bene da mangiare, e se non fa meglio è perchè nessuno glielo

ha insegnato (prima lavorava in una fabbrica). Non è certo la roba che manca: nel magazzino vi è

tanto da comprare. Del resto per evitarmi il fastidio di portare da casa la colazione, finirò col

decidermi a prendere il pasto di mezzogiorno alla mensa comune degli operai ed ingegneri che è nel

cortile dell'ufficio. Ogni pasto costa appena sessanta copeki, cioè presso a poco la nona parte di

quello che è qui il salario medio giornaliero di un operaio. E vi è ancora chi si ostina a dire che qui

la vita è carissima !

Banchetti

Mosca, 20 ottobre 1932 (da Maria). — Ho trascorso molto piacevolmente il giorno del mio

compleanno. Papà da parecchio tempo desiderava invitare a casa gli ingegneri del suo ufficio, e così

ha scelto questa occasione per farli venire. Immagina che ne ha invitati trenta, ma, per maggior

consolazione di noi che dovevamo fare i preparativi per riceverli, ne sono venuti quaranta. Abbiamo

dovuto comprare posate e bicchieri, perchè quelli che erano in casa non potevano bastare. Per

fortuna costavano assai poco.

Ester Josefovna ha avuto da fare tutto il giorno per preparare da mangiare a tanta gente. Devi sapere

che in Russia, a una persona che inviti a prendere una tazza di tè (lo prendono dalla mattina alla

sera), si intende che darai un mezzo pranzo: prosciutto, salame, caviale, formaggio, storione,

aringhe, pasticcini, frutta e tè. Naturalmente tutta questa roba deve essere abbondantemente

innaffiata da vino e vodka.

Tutti i nostri invitati, appena arrivati, avevano un po' di soggezione, ma la voga e il vino la fecero

presto passare. Mentre si mangiava, ogni cinque minuti si alzava qualcuno a fare un brindisi. Credo

che ne abbiano fatto una cinquantina. Il più bello è che quando si è invitati a bere, bisogna farlo per

forza, altrimenti si offendono. Dopo il pranzo (si può ben chiamarlo così) cominciarono a cantare e

fare balletti russi molto divertenti. Poi presero papà e gli fecero fare « kacciat », cioè dieci o dodici

persone lo sollevarono sulle braccia e lo buttarono parecchie volte in alto (così in alto che papà

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toccava il lume sospeso al soffitto), gridando « urrah ». Toccò anche a me ed a Ester Josefovna, che

strillava come un'aquila. Anche De Martino ebbe la sua parte, ma da principio non riuscivano a

sollevarlo…

I russi sono molto allegri, soprattutto dopo aver bevuto vodka. Diedero fondo a tutte le nostre

provviste di vermut, rum, ecc. E così passammo allegramente la serata.

Mi dimenticavo di dirti che mi portarono un grandissimo mazzo di fiori, molto belli.

Mosca, 18 luglio 1933 (da Amabile). Ieri abbiamo preso parte, in Dolgaprudnaja, ad una piccola

festa tenuta dal personale della «Dirigiablestroi». Saranno stati in tutto una ottantina, fra ingegneri

ed impiegati. Il pranzo non finiva mai. Prima caviale e burro, poi prosciutto, pesce, insalata russa

(ma qui la chiamano insalata italiana 1); poi ancora pesce con balsamella. E, quando sembrava che

fosse finito, si è cominciato da capo con brodo, carne di maiale, dolci, biscotti e fragole. A tavola vi

erano moltissime bottiglie di vino, ma presto furono vuotate. Alle undici ed un quarto si pose

termine al pranzo, perchè era l'ora del treno che doveva ricondurci a Mosca. La strada per giungere

alla stazione era così infangata che bisognava farsi aiutare per camminare. Io ero accompagnata da

un generale così brillo che non si reggeva bene in piedi. Parlava alquanto tedesco, e lungo la strada

non fece che cantare e ridere, e faceva ridere anche gli altri.

Mosca, 3 O luglio 1933. — Giorno di vacanza oggi, ed è tornato il sole, dopo due o tre giornate di

pioggia, quasi fredde. Abbiamo perciò deciso di passare la giornata fuori, in campagna. Amabile,

fin dal mattino presto, ha preparato da mangiare; ma Maria fa la poltrona a letto, ed Elisabetta ed il

marito saranno pronti solo fra un'ora e mezzo. Ho quindi il tempo di scriverti.

Amabile mi ha detto di averti già raccontato della festa a Dolgaprudnaja, ma certamente avrà

omesso alcuni particolari, ad esempio che anch'essa bevve. In sostanza trascorremmo la serata

molto allegramente, e Maria potette avere un'idea di ciò che è un pranzo tipico russo, che, preceduto

com'è da una interminabile serie di antipasti di ogni genere, dura quattro o cinque ore almeno. La

sola cosa che mancava era la vodka, ma in compenso vi erano vini di ogni sorta. Alcuni miei vicini,

mentre mangiavano, bevevano cognac a guisa di vino !

Durante tutto il pranzo vi furono, naturalmente, molti discorsi, e fui costretto a parlare anch'io.

Cominciai in russo, ma mi accorsi che era troppo difficile andare avanti e proseguii in francese,

incoraggiato dal commensale che mi sedeva di fronte e che, mentre parlavo, faceva grandi segni di

consenso, come se capisse tutto ciò che andavo dicendo. Ma dopo, tornando insieme a Mosca, mi

accorsi che di francese non intendeva nulla, e che i segni di approvazione gli erano inspirati soltanto

dalla affettuosa disposizione verso di me suscitata dal vino che aveva bevuto.

Nozze

Mosca, 18 giugno 1934. — Stamattina abbiamo avuto in casa una coppia di sposi. Il fratello di

Barbara è venuto a Mosca da Cascira con la fidanzata per sposarsi. Dopo la chiesa sono venuti a

casa. La sposa vestita di bianco ed inghirlandata; lo sposo con l'abito di festa ed una grande

coccarda all'occhiello della giacca. Li ho trovati nello studio, a sedere sul divano, impalati, seri seri.

Quando li ho salutati, mi hanno appena risposto per la vergogna. Poi Amabile ha preparato la

colezione: sprotti, silodka, della carne avanzata di ieri, vino, tè e biscotti. Li abbiamo lasciati soli

con la madre, con Barbara e la piccola Lina. Dopo il vino hanno cominciato a parlare. Frattanto si

suonava il grammofono, e così ci è stata un po' di allegria. Poi è cominciata la conversazione con

Amabile, e ricordando il

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paese, i nonni ed altro, gli sposi si sono commossi fino alle lagrime. Finito di mangiare, gli sposi

hanno ringraziato e, accompagnati da Amabile, si son messi in automobile per andare dal fotografo,

e di là al giardino zoologico, che sembra li attragga molto. Alle quattro ripartiranno per Cascira.

Mosca, í luglio 1936 (da Amabile). Ieri ci fu lo sposalizio di Barbara (*).

Quando uscii nel pomeriggio, domandai a Margherita se sarebbe andata a festeggiare le nozze della

figlia. Mi rispose di sì. Però, la sera, quando rientrai, trovai che era già a casa. Non mi disse nulla.

Nell'atto di entrare nella piccola stanza sentii chiamarmi: « Tante, tante » (Zia, zia!).

Accesi la luce e mi guardai attorno, ma non vidi nulla. « Chi è ?» domandai ad alta voce.

« Tante, sono io, Barbara, sotto il letto ». « Ma che fai là sotto ? », chiesi. « Alzati ». « Mi vergogno

di uscire ».

Alla fine, cedendo alle mie insistenze, si decise a venir fuori, e mi spiegò l'accaduto.

La mattina insieme col marito si era recata all'ufficio dove si registrano i matrimoni. Avevano fatto

iscrivere i loro nomi,

(*) Barbara era stata una nostra domestica ; al suo posto più tardi venne la madre, Margherita.

Provenivano da Cascira nel Volga. Parlavano, oltre il russo, anche una specie di dialetto tedesco.

poi si eran separati; e Barbara si era recata al lavoro.

Nel pomeriggio, tornata a casa dall'officina aveva trovato il marito a gozzovigliare insieme con gli

amici, per festeggiare le nozze. Erano tutti ubriachi, a tal punto che Barbara, spaventata, era fuggita

e venuta a rifugiarsi a casa, da noi.

Le dissi che doveva tornare dal marito; ma non voleva. Infine, a furia di insistere, riuscii a

persuaderla, e se ne andò, accompagnata dalla madre.

Vodka

Mosca, 14 ottobre 1933 — Di vodka questi russi ne bevono tanta. L'altro ieri, a pranzo del

professore di storia (il marito della cantante del Balsciói Tedtr, di cui ti scrissi) davanti ad ogni

commensale era posta una piccola bottiglia di vodka, di forse un quarto di litro.

La cosa più divertente è quando invitano uno dei commensali a berne. Mettono su un piatto un gran

bicchiere colmo della bevanda, e poi uno di essi, che fa come da presidente (da noi a casa è sempre

il professore Kaniceff a disimpegnare questa parte), intona una canzone :

Cidruska majd seriébrennaja,

na sólotom blúdie postddennaja, kamg cidru pit ? kamú ?

(Calice mio d'argento, posto su un piatto d'oro, chi berrà la coppa ? chi la tracannerà ?)

E designata per nome la vittima, la si fa alzare in piedi, mettendole in mano il piatto, mentre il coro

di tutti i commensali intona il ritornello :

Pèj do dna' Pèj do dna' !

(Bevi fino in fondo, bevi fino in fondo !)

Nè ristanno, fintantochè non si sia vuotato di un fiato tutto il bicchiere. E toccato anche me...

Tempo di carestia a Mosca

Page 69: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

69

Mosca, 3 aprile 1934 (da Amabile). Se lei vedesse, Signora, il mercato ! Non posso tenere in mano

per due minuti il pesce appena comprato, che subito dieci persone mi si affollano attorno a

domandare come lo vendo o se voglio fare a cambio con pane. Certe donne vengono a vendere

pezzi di carne, che fanno vedere sulla mano; è ormai verde, nera, eppure tutti la vogliono comprare.

Qualcuno vende una cipolla, un altro un bicchiere di riso, un altro un piccolo pesce salato, un altro

una pasta dolce. Qualche volta vien da ridere a vedere tanta gente mettersi attorno a quella pasta.

Il più divertente sono le file che fa la gente. Per comprare la carne stanno talvolta in fila fino a

quattrocento persone, due o trecento per il pane, quaranta o cinquanta per i giornali. Bisogna a volte

stare ad aspettare quattro o cinque ore per comprare le patate. Per fortuna a me non occorre fare la

fila; se no, si mangerebbe un giorno sì e tre no.

Mosca, 4 marzo 1934 (da Amabile.) Ho comprato all'Insnab una bella tovaglia di lino, a colori,

ricamata a mano, con sei salviettine, per centoquattordici rubli, che è come se fossero

cinquantacinque lire. Ho comprato pure una gonna pieghettata per Barbara. L'ho pagata diciassette

rubli.

Mosca, 10 maggio 1934 (da Amabile). — Vi sono case dove alloggiano due o tre famiglie.

Gli operai hanno ottocento grammi di pane al giorno, quelli che lavorano pesante; gli altri

quattrocento grammi. Il sopravanzo lo vendono.

Ogni operaio ha dodici chili di patate al mese, più un chilo di gruppi, che è una specie di farina

gialla, e seicento grammi di zucchero. Barbara ha la metà di tutte queste cose.

Si può comprare al mercato libero; ma chi ha il danaro per farlo ? Un operaio guadagna cento o

centocinquanta rubli al mese, e stamattina ho comprato venti uova (fresche, però, bisogna dire) per

sedici rubli, ed un chilo di carne per lo stesso prezzo. Un litro dí latte costa tre rubli, un po' di agli

due rubli, le cipolle cinque rubli al chilo.

Si vedono nella strada molti poveri e storpi. Bambini abbandonati, stracciati, sporchi, si attaccano ai

tram e tante volte cadono sotto. Pochi giorni fa ne ho visto uno morto sotto il tram. Mi ha fatto

piangere, ma d'altra parte pensavo: ha finito di soffrire.

I tram sono sempre tanto affollati. A volte mi schiacciano talmente che mi sembra dover morire,

specialmente adesso col caldo che fa e la puzza del sudore.

Gli uomini bevono vodka con lo stomaco vuoto, e si ubriacano. Li si trova distesi sui marciapiedi

come se fossero morti, e la gente ci sputa sopra.

Una casa di riposo nel Caucaso

Teberdà, 3 i agosto 1933 (da Maria). Partimmo da Mosca il giorno 24. Abbiamo viaggiato bene. I

nostri posti nella vettura letto erano in alto. In basso era un giovanotto, che si è comportato molto

educatamente. Ha aspettato di fuori che Elisabetta ed io fossimo a letto; poi ha chiesto permesso di

entrare e si è messo a dormire. La mattina si è alzato per tempo, assai prima di noi, per lasciarci

libere.

Il viaggio è durato due giorni e mezzo. Abbiamo dovuto cambiar treno due volte. Nelle stazioni

dove il treno si fermava avresti dovuto vedere le centinaia di persone, che aspettavano di trovare un

posto ! Ci han detto che vi eran di quelli che stavano là da due o tre giorni !

A Batalpashinsk prendemmo l'autobus per Teberdà che fa servizio quasi tutti i giorni. Partimmo alle

tre e mezzo. In principio la veduta non era molto bella, ma due ore prima che giungessimo qui

divenne interessante e piacevole : rassomiglia molto alla Svizzera ; solo che questi posti sono assai

selvatici in confronto.

Page 70: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

70

Siamo arrivati ieri sera alle nove. Appena giunte ci condussero in un padiglione isolato a farci

prendere una doccia e cambiare i panni che avevamo addosso. Poi ci accompagnarono in una

camera all'ultimo piano, dove siamo come relegate. Tra poco dovremo recarci dal medico per la

visita. Solo dopo che avranno constatato che siamo sane, l'isolamento cesserà e saremo ammesse

nella Casa.

Teberdà, 4 settembre 1933 (da Maria).

Il posto è molto bello. Siamo a 1300 metri. Nei dintorni molte escursioni: un laghetto a quattro

chilometri, poi una cascata. Siamo nel mezzo dei boschi.

Nelle vicinanze vi sono altri edifizi, adibiti a sanatori. Nel bosco, proprio in mezzo agli alberi, ho

visto dei lettini, con coperte rosse, con qualcuno a riposare e godere dell'aria e del sole.

I medici e le altre persone sono con noi molto gentili. Quando arriva una lettera vengono subito a

portarcela. Uno dei medici (il capo, credo) quando arrivammo non si mostrò affatto premuroso con

noi; ma ora non sa più che fare per renderci gradevole il soggiorno. Mi domanda sempre se il vitto

mi piace o no. Stamattina mi ha detto che, quando vi è il gelato, posso prenderlo anche due volte ed

anche marmellata, se voglio, e le altre cose.

Teberdà, 9 settembre 1933 (da Maria). Vuoi sapere come passiamo la giornata ? Alle sette suona la

campana e bisogna alzarsi. Poi vi è la ginnastica. Alle otto colazione con carne, cetrioli, caffè, ecc.;

ma di mattina non mi riesce proprio mangiare queste cose, ed allora mi danno due uova. All'una il

pranzo, alle quattro e mezzo tè, ed alle otto cena. In conclusione si mangia troppo.

Dopo cena vi sono talvolta concerti di musica e canto, e sono gli stessi ospiti ad organizzarli ed

eseguirli, perchè devi sapere che le centocinquanta persone, che sono qui, quasi tutte sono artisti.

Fra essi i cantanti ed i musicisti abbondano, e ve ne è di famosi, di quelli che in Russia vengono

decorati col titolo di « Artista del popolo ». Uno di essi mi ha detto di conoscere personalmente

Toscanini.

Vi è anche un professore di geografia.

Voli

Mosca, 9 novembre 1934.— E' molto tempo che non ti scrivo; ma devi credere che non ho avuto un

minuto di , calma per farlo, in mezzo a tanti pensieri per portare a termine la costruzione del

dirigibile, e farlo volare. Tutto è andato bene nei primi due voli, sebbene le condizioni del tempo

non fossero favorevoli. Dopo quattro mesi di lavoro intenso, ci siamo ora concesse due giornate di

riposo. Domani si riprenderà il lavoro per portare a termine le esperienze. Sono sicuro che tutto

andrà bene.

Il dirigibile, di forma, è venuto più bello dell'Italia e credo che sarà altrettanto buono. I Russi sono

molto contenti, ed io più di loro avendo visto alla fine il risultato di due anni di lavoro. Abbiamo

fatto anche abbastanza presto. Tolti i mesi durante i quali l'anno scorso non si potè far nulla, fra

progetto, costruzione e montaggio abbiamo impiegato quattordici mesi, meno di quanto

impiegammo in Italia a progettare e costruire l'N1.

A comandare il dirigibile ero io stesso, con un equipaggio del tutto nuovo, che per giunta si trovava

impacciato nei movimenti dai paracadute che, secondo le regole di qui, tutti han dovuto indossare

(ma indossare non è la parola giusta, perchè li portavano sul davanti). Ma tutto andò benissimo.

Volammo per un'ora e quaranta minuti. Quando scendemmo a terra, era già buio, e sul campo non

Page 71: Quello Che Ho Visto Nella Russia Sovietica

71

vi erano proiettori.

L'altro ieri compimmo il secondo volo. Vi era vento forte, ma in compenso anche un bel sole che

rallegrava lo spirito. Questa volta mi sentivo sicuro e tranquillo, anche perchè i paracadute erano

scomparsi (naturalmente nel primo volo io l'avevo categoricamente rifiutato). Volammo bassi su

Mosca, a duecentocinquanta o trecento metri di altezza. La piazza Rossa, il Kremlino, il fiume, la

piazza Sverdlov, la piazza della Lubianca erano magnifiche. Mi apparvero subito le novità edilizie

preparate durante la mia assenza. La piazza della Lubianca si è enormemente ingrandita, e la

piccola strada che a sinistra della nostra casa portava al giardino è divenuta un viale larghissimo.

Mosca dall'alto, sotto il sole, era molto bella, assai più bella di come la vedemmo insieme, quando

la sorvolammo in aeroplano, in quella giornata così grigia di estate.

Mosca, 19 maggio 1935. — Abbiamo fatto un altro bel volo : questa volta lontano, fino ad

Arcangelo sul Mar Bianco dove, come sai, mi imbarcai, quattro anni fa, per il viaggio alla Terra di

Francesco Giuseppe. Arcangelo dall'alto è molto meno brutta che vista da terra. Direi, anzi, che è

bella.

Partimmo da Dolgaprudnaja la sera del giorno 16, alle dieci. Il vento contrario, da quaranta a

cinquanta chilometri all'ora, ci ostacolò il cammino, tanto che arrivammo ad Arcangelo, distante in

linea d'aria da Mosca mille chilometri, soltanto il giorno dopo alle quattordici.

Era ragionevole aspettarsi che al ritorno il vento ci sarebbe stato favorevole, ma manco a farlo

apposta cambiò direzione e ce lo trovammo di nuovo contro. A Dolgaprudnaja giungemmo ieri alle

due del pomeriggio, dopo quaranta ore di volo. Al suolo imperversava un vento a raffiche da dieci a

dodici metri al secondo. Ma all'atterraggio tutto andò perfettamente bene.

Un'ora più tardi ero a casa a Dolgaprudnaja. Amabile aveva preparato da mangiare. Ero stanco

morto (durante il volo avevo potuto chiudere gli occhi solo per una ventina di minuti). Dopo pranzo

mi misi a letto e dormii profondamente.

Il naufragio del « Celiuskin »

Mosca, 17 marzo 1934.— I giornali continuano ad annoiarmi con le interviste per il Celiuskin; ma

io ho ben poco da dir loro. Fortunatamente le condizioni dei novanta naufraghi del Celiuskin sono

molto migliori di quelle in cui ci trovavamo noi. Noi non avevamo quasi nulla. Essi, invece,

riuscirono a sbarcare sui ghiacci tutte le provviste che avevano a bordo, e tutti gli attrezzi. Perciò

non mancano di nulla.

Qui fanno tutto ciò che possono per affrettare il salvataggio. Si son mossi rompighiacci, aeroplani e

perfino dirigibili. Sono perciò convinto che fra un paio di mesi tutti saranno stati salvati.

L'essenziale è di evitare l'errore, tante volte commesso nel caso nostro, di far volare sul pack, a

soccorrere i naufraghi, un aeroplano per volta. Dovrebbero sempre mandarne due di conserva, di

modo che, se l'uno è costretto a discendere, l'altro possa subito informare in qual luogo è disceso,

perchè si vada in suo aiuto.

Mosca, 12 aprile 1934. — Da ieri sono sotto l'impressione delle grandi notizie giunte circa il

salvataggio del Celiusckin: sessanta persone, o presso a poco, salvate in pochissimi giorni,

compreso Schmidt, il capo della spedizione. Sono rimaste sul pack, ancora ventotto persone, ma

saranno presto salvate anch'esse, e così quest'altro grande dramma artico sarà chiuso.

Gli aviatori russi si sono comportati da bravi, come sempre. E gente di fegato e generosa, che non

sta a misurare i rischi. Bisogna anche dire che il Governo sovietico non ha risparmiato alcun mezzo

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per soccorrere le novanta persone rimaste sul pack. Diecine di aeroplani, un rompighiacci come il

Krassin, e perfino due piccoli dirigibili sono stati messi in moto. Questi probabilmente arriveranno

tardi, ma non importa: era giusto mobilitare tutti i mezzi disponibili, anche quelli che hanno poche

probabilità di riuscire. L'aver mandato anche il Krassin prova come si sia pensato a tutto, perfino al

caso che gli aeroplani falliscano o, per circostanze avverse, giungano troppo tardi.

Ti dissi già come, appena giunto a Mosca, fui assalito dai giornalisti, che domandavano le mie

impressioni, specialmente riguardo all'impiego dei dirigibili. Risposi che questi sarebbero giunti sul

posto troppo tardi, quando già i naufraghi sarebbero stati portati a' salvamento dagli aeroplani. La

previsione era facile, ed i fatti son venuti a darmi ragione.

Come puoi immaginarti, in questi giorni rivivo il dramma della spedizione dell'Italia. La bravura di

cui fanno mostra gli aviatori sovietici nel caso del Celiuskin, mi richiama alla mente quella di Penzo

e di Maddalena. Penso con amarezza che se essi avessero avuto attorno un'atmosfera diversa da

quella creata dalla preconcetta ostilità di Balbo, non vi sarebbe stato bisogno di aviatori stranieri e

nemmeno del Krassin. Essi avrebbero portato a termine, da soli, l'impresa di salvare i nove italiani

sperduti fra i ghiacci.

Più specialmente rivivo gli orribili giorni vissuti sulla Città di Milano, dopo che, con una gamba ed

un braccio rotti, vi fui portato dagli aviatori svedesi ad assumervi la direzione delle opere di

soccorso. Schmidt, 1 capo della spedizione del Celiuskin, aveva annunziato che avrebbe lasciato per

ultimo il campo, e qualche giornale scandinavo aveva già pubblicato la notizia, quasi per richiamare

indirettamente alla memoria la mia partenza dal pack. Ma che cosa diranno ora che il Governo

sovietico ha dato ordine di trasportare Schmidt, ammalato, mentre ancora ventotto persone sono sul

pack ?

Mosca, 18 giugno 1934. — Domani arriverannò quelli del Celiuskin, e tutta Mosca è in agitazione.

Vi sarà una folla enorme. Oggi hanno insistito perchè dicessi qualche cosa alla radio.

Mosca, 19 giugno 1934. — I naufraghi del Celiuskin sono giunti. Schmidt è stato accolto in trionfo,

come un eroe.

La pletora di Ingegneri

Al mio arrivo nell'U.R.S.S., nell'agosto 1931, non esisteva nulla che permettesse di iniziare la

costruzione dei dirigibili: nè officine, nè laboratori, nè operai che fossero esperti in questo genere

così speciale e complesso di costruzioni aeronautiche. Ma in compenso si era già pensato ad istruire

un gran numero di ingegneri, tutti giovanissimi, i quali, avendo compiuto studi affrettati,

generalmente non avevano, nè potevano avere, una preparazione teorica sufficiente. Tanto meno,

poi, avevano esperienza pratica, fatta eccezione di pochi ex-operai che costituivano senza dubbio í

migliori elementi tra essi.

È un fatto caratteristico che in quel tempo i capi della Dirigiablestroi fossero assolutamente convinti

che la cosa più importante ed essenziale per costruire dirigibili era di disporre di un gran numero di

codesti giovani ingegneri. Che mancassero poi macchine, materiali, locali, operai, costituiva per

loro una difficoltà secondaria che sì sarebbe superata nel giro di poche settimane. Infatti essi

ammettevano come cosa certa ed indiscutibile che nell'Unione Sovietica i « tempi» potessero

accelerarsi a piacere: se nei paesi capitalistici occorrevano, mettiamo, sei mesi, nell'Unione

Sovietica potevano e dovevano bastare sei settimane.

Di questo eccessivo, non giustificato ottimismo peccavano tutti i giovani ingegneri che lavoravano

con me. Esso era dovuto non tanto alla loro inesperienza tecnica, quanto all'abito mentale, che

avevano acquistato, di ritenere che nell'Unione Sovietica tutto potesse farsi meglio che altrove.

Questo loro « complesso» di superiorità, notato anche da altri, provocava il più delle volte il sorriso

degli stranieri. Ma un osservatore intelligente che fosse andato più in fondo alla cosa, avrebbe

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dovuto finire col considerarlo piuttosto come un segno dell'entusiasmo incondizionato che quei

giovani avevano per il regime politico che li governava. La presunzione nei giovani può talvolta

irritare, ma, alla fine, è preferibile al difetto opposto di non aver alcuna confidenza nelle proprie

forze.

Il numero di giovani ingegneri messi a mia disposizione per collaborare nei progetti di dirigibili era

veramente eccessivo: più che ottanta ! Il curioso era che, contrariamente a quello che avveniva da

noi in Italia, i disegnatori erano assai pochi: in media appena uno per ogni tre ingegneri, e la stessa

proporzione si aveva nelle officine fra questi e gli operai. Per rendersi conto di quanto eccessivo

fosse tal numero di ingegneri, ricordo che nello Stabilimento di Costruzioni Aeronautiche di Roma,

che io ho diretto per nove anni, e dove pur si progettavano, costruivano e collaudavano in media

due o tre dirigibili all'anno, non disponemmo mai più di otto ingegneri in tutto, distribuiti fra

direzione, ufficio progetti, officine, laboratori e cantiere di montaggio. Nella Dirigiablestroi, invece,

gli ingegneri superavano di gran lunga il centinaio. Nel solo Constructor Biurò (Ufficio progetti) ve

ne erano ottanta. Essi erano stati preparati presso un istituto superiore chiamato DUK

(Dirigiablestroi Uccennii Kombinat), che contava ben cinquecento allievi !

Lo stragrande numero d'ingegneri addetti al Constructor Biurò, finiva, come si può immaginare,

coll'essere talvolta di ostacolo anzichè d'aiuto nel lavoro che m'era affidato. Spesso notavo in essi

un eccessivo sentimento individualistico in contrasto coll'interesse del lavoro comune. Ciascuno

aveva nuove idee e faceva pressioni per vederle attuate, con la conseguenza che spesso, senza

volerlo, l'uno intralciava il lavoro dell'altro.

Fra tanta moltitudine di giovani non ne mancavano naturalmente di grande ingegno e di buona

cultura tecnica, e sarebbe stato perciò molto facile operare una rigorosa selezione che permettesse di

utilizzare i migliori, formando con essi un quadro stabile di ingegneri, capaci di dare un indirizzo

serio ai lavori. Ma questa selezione veniva ostacolata vuoi dalla diffidenza che, talvolta, nei capi

comunisti si notava verso gli ingegneri non membri del partito, vuoi dalle piccole gelosie che anche

in Russia, come altrove, si stabilivano fra gli ingegneri stessi. Onde spesso avveniva che la

selezione si operasse perfino alla rovescia coll'allontanamento di qualcuno dei migliori elementi.

Questo fenomeno, insieme con l'eccessiva importanza che in Russia si dava agli ingegneri in

confronto dei tecnici subalterni e degli operai qualificati, costituiva certamente l'impedimento più

grave alla formazione di quella tradizione tecnica che nelle costruzioni aeronautiche, e soprattutto

nel ramo di cui allora mi occupavo, è assolutamente indispensabile.

In generale devo dire che, al tempo del mio soggiorno in Russia, non solo nell'organismo tecnico

cui io ero preposto, ma anche altrove, il numero delle persone addette ad un dato lavoro era molto

superiore a quello che avremmo impiegato noi. Questa pletora si spiega col fatto che, dovendosi

nell'industria sovietica creare tutto, o quasi tutto, di sana pianta, si pensava, mancando lavoratori già

sperimentati, di poter sopperire con il numero alla qualità. Senza dubbio, il fenomeno si è andato

gradualmente eliminando.

Un'altra causa di minor rendimento del personale tecnico russo in confronto del nostro era dovuta al

fatto che molti di quegli ingegneri, pur nell'intento di procacciarsi un maggior guadagno, si

procuravano una occupazione suppletiva, che li distraeva dal loro lavoro principale. Sarebbe stato,

certo, assai più razionale ridurne il numero e trattarli meglio economicamente, assicurando loro una

certa stabilità nell'impiego ed un progressivo miglioramento economico e morale, da far procedere

di pari passo col merito e coll'esperienza personale.

E' curioso notare che, pur essendovi nella Dirigiablestroi, come in tutte le altre aziende industriali

sovietiche, un reparto chiamato di « razionalizzazione », dove un numeroso gruppo di ingegneri

studiavano per l'appunto il modo razionale di organizzare il lavoro, non si diede mai il caso che da

esso venissero rilevati gli inconvenienti cui ho accennato innanzi.

Le riunioni tecniche

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Altrove ho parlato del sistema dell'autocritica mettendone in rilievo i grandi vantaggi. Come già

asserii, questo sistema era senza dubbio necessario nei primordi dell'immensa opera di costruzione

sovietica, quando il governo centrale, o per esso il partito, aveva molte ragioni per non fidarsi delle

capacità tecniche ed amministrative dei capi preposti a questa o quella azienda. Invitando la massa

dei lavoratori a criticare non solo l'organizzazione generale del lavoro, ma anche ogni particolare di

esso, gli organi superiori del regime sovietico si mettevano in condizione di venire informati delle

deficienze, e di poter in conseguenza provvedere ad eliminarle.

Ma anche dissi, parlando di essa, che io stesso, avendo avuto occasione di sperimentare il sistema

nell'ambiente dove lavoravo, avevo constatato che le critiche, spesso esagerate o del tutto infondate,

avevano a volte come risultato di paralizzare l'attività dei capi di buona volontà.

Avendo già messo in evidenza i vantaggi del sistema, mi sembra ora istruttivo esaminarne più da

vicino gli inconvenienti. Dirò, perciò, qualche cosa dell'esperienza che ne feci io stesso.

L'autocritica, come già dissi, si esercitava in quelle riunioni del personale che si chiamavano

soviescianj e o sobratye . Queste riunioni, nella Dirigiablestroi, avevano luogo quasi tutti i giorni, e

duravano a lungo, perchè vi prendevano la parola la maggior parte degli intervenuti e, talvolta,

anche tutti, pur se non avevano cose importanti da dire. Oggetto delle riunioni era quasi sempre

l'esame dei risultati di uno speciale lavoro o di un particolare studio compiuto da questo o quel

gruppo di ingegneri.

Orbene, persone che non conoscevano affatto il soggetto in discussione, o lo conoscevano solo

superficialmente, si alzavano a criticare le idee, od i fatti esposti, con sproloqui talmente lunghi, a

volte, da dar l'impressione che approfittassero dell'occasione, più che per altro, per esercitare le loro

qualità oratorie.

Si aggiunga a questo che spesso il Capo che presiedeva la riunione (quasi sempre un membro del

partito) non aveva competenza specifica dell'argomento, e perciò non era in grado di valutare i vari

pareri espressi e le varie idee sostenute da questo o quell'ingegnere, idee e pareri in contrasto fra di

loro. Ne seguiva che al momento di prendere una decisione il Capo, non sapendo che pesci pigliare,

più spesso, per prudenza, finiva col non decidere alcunchè, col procrastinare, col perdere tempo.

Ecco perchè certe questioni dopo cinque anni non avevano trovato ancora la loro soluzione.

Che la mancanza di dirigenti competenti fosse l'impedimento più grave al compimento della

colossale opera di ricostruzione intrapresa nell'Unione Sovietica, apparve ben presto chiaro a Stalin.

che negli ultimi anni del mio soggiorno in Russia lanciò la nuova parola d'ordine; « Formare i

quadri ».

Onde avvenne che gli inconvenienti da me constatati si andassero gradualmente eliminando.

Il continuo mutare dei capi

A mio avviso una delle ragioni più serie che in quei primi anni ostacolavano una buona

organizzazione di alcune aziende industriali sovietiche era la difficoltà di trovare dei comunisti che

avessero la capacità e la competenza necessarie a dirigerle. Di qui il frequente mutare dei capi, tutte

le volte che si credeva poter addebitare ad essi la mancanza del successo di un piano di lavoro

preparato con eccessivo ottimismo.

Nel caso della Dirigiablestroi la scelta del capo spettava all'Aeroflot che, nel farla, badava più alle

qualità politiche della persona che alle sue doti di amministratore.

Il Capo veniva mutato quasi sempre in conseguenza di ripetute critiche, venute dal basso; che gli

attribuivano la colpa di un insuccesso, le cui cause erano invece molteplici. Questo spiega perchè,

all'annunzio dell'arrivo di un nuovo capo, una ondata di ottimismo si diffondesse in tutta la

Dirigiablestroi. Si attribuivano al nuovo venuto grandi qualità, quasi delle virtù taumaturgiche. In

tutti era la convinzione che in qualche mese tutto sarebbe andato a posto: le deficienze

dell'ordinamento sarebbero state eliminate e le officine e gli hangar sorti come per incanto.

Ocen sdarov, era la frase che sentivo ripetere anche da ingegneri intelligenti all'arrivo di un nuovo

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capo; come per dire: « E una persona assai in gamba ». Tutto, da allora in avanti, sarebbe proceduto

ottimamente.

La prima cura del nuovo capo era quella di preparare un nuovo schema di ordinamento delle varie

parti della Dirigiablestroi, al quale si attribuiva una virtù di toccasana per i mali dell'azienda. Questi

schemi erano caratterizzati dalla molteplicità dei legami e delle interdipendenze stabilite fra le varie

parti dell'organismo, onde assai spesso un medesimo ufficio finiva col dipendere da più capi, ciò

che certo non costituiva la condizione ideale per assicurare un ordinato andamento delle cose e

poter individuare responsabili in caso di disordine.

S'intende che, a simiglianza di quanto avviene anche da noi in casi analoghi, il nuovo ordinamento

metteva sottosopra il precedente anche in ciò che conteneva di buono, ispirandosi il nuovo capo al

concetto che tutto ciò che aveva fatto il predecessore era mal fatto. Se a questo si aggiunge che col

capo venivano generalmente cambiati anche i sottocapi, si può facilmente comprendere quale

confusione nascesse, almeno temporaneamente, ad ogni mutamento di direzione.

Merita di essere ricordato il metodo assolutamente originale con cui si procedeva al cambiamento

del capo. Il provvedimento non veniva mai in forma brusca. Di solito si annunciava ufficialmente

che il Capo aveva bisogno di riposo, e doveva perciò partire per una licenza. Durante la licenza era

provvisoriamente sostituito dal nuovo prescelto, che poi, dopo qualche mese, diventava il capo

effettivo.

Nei primi quattro anni del mio soggiorno in Russia, dal 1931 al 1935, la direzione della

Dirigiablestroi mutò, con il procedimento che ho detto, ben sei volte. Ecco i nomi dei vari capi

succedutisi: Purmal, Feldmann,Matson, Flaxermann, Pauloff, Carchoff, tutte persone eccellenti e

ben intenzionate, che tentarono di fare il meglio che potevano nelle difficili condizioni in cui il loro

lavoro si svolgeva alla Dirigiablestroi, e che, all'infuori di questa organizzazione, certamente ente

avevano acquistato pubbliche benemerenze. Tra essi il solo che avesse una competenza specifica

era il Flaxermann, ma anch'egli non durò a lungo alla direzione della nostra azienda.

I piani di lavoro

Come dicevo, con ogni nuovo capo vi era anche un nuovo piano di lavoro per la costruzione di

dirigibili, officine, hangars, piloni di ormeggio ed accessori. Ma questi piani, pur essendo compilati,

come ho detto avanti, con la collaborazione di qualcuno degli ingegneri comunisti dipendenti, non

avevano, nei primi tempi, alcuna base nelle reali condizioni in cui il lavoro doveva svolgersi.

Ricorderò, per dare un esempio tipico, il piano compilato nel gennaio 1932, nel quale figurava la

cifra, niente di meno, di quattrocentocinque dirigibili di tutti i tipi di cubature, da costruirsi in un

periodo di cinque anni. L'ottimo ingegnere Leteisen, che allora era uno dei sottocapi della

Dirigiablestroi, nel presentarmelo, soggiunse : « Sapete, vi è la coda (« Ocieried», in russo) nel

nostro ufficio. Ogni giorno vengono nuove aziende a chiederci dirigibili per soddisfare i loro

bisogni. Vogliono impiegarli anche per seminare, in certe regioni impervie.

Il programma di produzione che abbiamo preparato basta a mala pena a soddisfare tutte le richieste

che ci sono finora pervenute ».

Lo guardai stupefatto. Gli domandai se avesse un'idea dei mezzi occorrenti per costruire in cinque

anni un così enorme numero di dirigibili, tanto più che si doveva partire dal niente. « Avete fatto un

conto sommario della spesa occorrente ? ». « No », mi rispose. «Lo faccia lei ».

Non era facile fare un tale calcolo su due piedi, ma così, ad occhio e croce, indicai una somma che

ammontava a molte e molte centinaia di milioni di rubli. Leteisen osservò: « Il danaro non conta.

Ne troveremo quanto ne vorremo ». Nè apparve scosso dalla mia riflessione che non si trattava solo

di danaro, ma di ciò che esso rappresentava: impianti di officine, laboratori, hangar, formazione di

operai specializzati, di piloti, di motoristi, ecc., ecc.

È probabile che le mie obbiezioni, ripetute al capo della Dirigiablestroi, che era allora il

simpaticissimo Purmal, dovettero ingenerare qualche dubbio, perchè di quel piano non sentii più

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parlare. Ma il nuovo piano comunicatomi il 24 maggio 1932, poco dopo che ebbi assunto la

direzione tecnica della Dirigiablestroi, se pur non era così sbalorditivo come quello del 1931,

nondimeno era altrettanto irrealizzabile.

Ad un profano le cifre non direbbero gran che; ma per farsi un'idea concreta dell'audacia di quel

programma basti dire che noi in Italia, e la Zeppelin in Germania, che pur disponevamo di

stabilimenti assai bene attrezzati e di maestranze espertissime, non ne avremmo potuto eseguire, nel

medesimo intervallo di tempo, nemmeno la decima o la quindicesima parte.

Quando feci le mie obbiezioni al compagno Purmal egli mi rispose che ciò che era impossibile nei

paesi capitalistici, era perfettamente realizzabile nell'Unione Sovietica, dove i tempi potevano venir

accelerati a piacere.

Questa sicurezza di sè, quest'eccessiva fiducia nelle proprie capacità, che tante volte ebbi occasione

di notare nei giovani ingegneri sovietici, era evidentemente un riflesso dell'atmosfera di entusiasmo

che allora pervadeva tutta la gioventù sovietica nel suo immenso sforzo di costruzione. Di quella

smodata ambizione, che portava a compilare piani così grandiosi, si poteva ben sorridere nel caso

particolare di costruzioni complesse e delicate quali erano quelle dei dirigibili, ma erano pur sempre

la medesima ambizione, il medesimo entusiasmo, il medesimo ottimismo, che in altri campi hanno

condotto la gioventù sovietica alle splendide conquiste dei piani quinquennali di Stalin.

Gli inizi della « Dirigiablestroi »

Certo il compito che s'era proposto la Dirigiablestroi nell'autunno del 1931, quando mi fu proposto

di assumere la direzione delle costruzioni dei dirigibili sovietici, era assai grave, perchè in quel

tempo non esistevano nè officine, nè hangar, nè materiali da costruzione. Vi era tutto da fare, tutto

da organizzare. Tutto ciò di cui si disponeva era costituito da una ottantina di ingegneri che,

coadiuvati da una trentina di disegnatori e lucidatori, lavoravano nel Constructor Biurò. Ma in

questo ufficio mancavano le cose più essenziali per lavorare, tanto che dovetti far venire dei tavoli

da disegno dalla Germania. Mancando perfino la carta, si era costretti a disegnare sul rovescio di

vecchie carte geografiche, cavate fuori chi sa da quale magazzino.

Mancavano anche locali adatti. L'ufficio di costruzioni, nel maggio 1932, era provvisoriamente

allogato in una grossa casa di legno, posta alla periferia di Mosca. Vi occupava due piani: al piano

superiore era una gran sala dove si disegnava e calcolava, in quella inferiore una specie di

primordiale officina, con una o due macchine utensili. Si accedeva all'ufficio progetti attraverso un

lurido cortile ed una scala ancora più sudicia. Ci volle non poco per ottenere il rispetto delle più

rudimentali regole igieniche; ma in questo, come in tante altre cose piccole e grandi, dovevo

assistere ai cambiamenti più profondi durante i cinque anni di soggiorno nell'Unione Sovietica !

Basti accennare all'abitudine di radersi assai raramente che avevano, nei primi tempi, i giovani con

cui lavoravo. La cosa continuò per alcuni anni, ma nel 1935 non so più quale capo sovietico invitò i

giovani ad avere più cura della propria persona. Come per incanto l'aspetto esteriore dei giovani

russi si trasformò, ed i miei ingegneri apparvero accuratamente rasati, se non tutti i giorni, quasi.

* * *

La sede definitiva delle nostre officine e dei nostri uffici doveva sorgere in Dolgaprudnaja, una

località posta a venticinque chilometri da Mosca, dove era uno stagno che le dava il nome. Quando

nell'autunno del 1931 fui condotto a visitare il posto, vi trovai un folto bosco: cinque anni dopo, al

posto del bosco, sorgeva un intero villaggio con una popolazione di forse 2000 abitanti fra ingegneri

ed operai, e le loro famiglie !

Ma prima di giungere a tale risultato, attraverso quante peripezie si dovette passare !

Il nostro Constructor Biurò cambiò sede a Mosca tre volte nel giro di due anni, passando da un

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locale all'altro della periferia, e andando poi a finire in una delle gallerie della Petrovka, in mezzo al

frastuono dei magazzini. Di là venne trasferito a Dolgabrudnaj a, dove già da un anno e mezzo

funzionava un'officina meccanica provvisoria, molto mal messa. In Dolgaprudnaja l'ufficio tecnico

venne installato in una baracca di legno, dove spesso, d'inverno, veniva a mancare il riscaldamento.

La scelta della località di Dolgaprudnaja per impiantarvi le officine, i laboratori, gli hangar e gli

uffici, necessari alla costruzione dei dirigibili, non era stata felice, data la difficoltà di accedervi, e

data anche la natura argillosa del terreno che, quando pioveva, faceva del campo di atterraggio e del

terreno circostante un pantano di melma attaccaticcia, dove ogni passo diventava di una difficoltà

estrema. Da principio, per un anno o due, per recarsi dall'uno all'altro edificio si dovette camminare

su tavole di legno, fino a che queste vennero sostituite da strade.

Dolgaprudnaja si trova a tre o quattro chilometri dalla via di Dimitrov, una delle strade maestre che

si irradiano da Mosca. Lungo questa strada, nei primi anni, non erano ancora disposti quei ripari

marginali che servono a impedire alla neve di accumularsi sulla carreggiata per effetto del vento.

Perciò assai spesso durante l'inverno alcuni tratti della strada si ingombravano talmente di neve, da

rendere impossibile all'automobile di procedervi. Ancora peggio, poi, avveniva quando dalla strada

principale si passava alla stradetta che conduceva alle officine. La neve d'inverno ed il fango dì

estate la rendevano quasi impraticabile.

In tali condizioni è chiaro che la prima cosa da farsi avrebbe dovuto essere una buona strada

d'accesso, per rendere più rapidi e meno costosi i trasporti dei materiali di costruzione. La strada

invece venne costruita da ultimo, nei primi mesi del 1935, quando già erano state costruite le

officine, gli hangar e buona parte degli edifici. La impazienza, direi quasi giovanile, di voler subito

giungere a risultati concreti spiega questo ed altri errori. Noterò qui di passaggio che la costruzione

della strada pare presentasse speciali difficoltà, forse di indole burocratica, a superare le quali

inutilmente si cimentarono i vari capi succedutisi in questo ramo degli impianti. Solo quando

l'impresa fu affidata ad una donna, la strada venne costruita.

Si comprende come la pretesa di voler cominciare subito a costruire dirigibili prima ancora che

fossero costruite officine adeguate, complicò assai il lavoro. Si pensi che nel primo anno si lavorò a

Dolgaprudnaja in una baracca di legno dove erano stati installati alla meglio un paio di vecchi torni

e qualche altra macchina più o meno in ordine. In quella primordiale officina si compì il miracolo di

costruire in qualche mese le parti metalliche di un piccolo dirigibile, ricorrendo a mille ripieghi per

sopperire alla mancanza di macchine e materiali adatti. Si aggiunga che, a causa dell'insufficiente

sistema di riscaldamento, il più delle volte gli operai furon costretti a lavorare con una temperatura

prossima allo zero. Il montaggio, poi, del dirigibile venne eseguito in pieno febbraio, in un hangar

provvisorio, di legno, sprovvisto di ogni attrezzo, e con una temperatura di quindici o venti gradi

sotto zero. Il quadro sarà completo, quando si dirà che in quel tempo gli operai a Dolgaprudnaja

eran costretti a vivere in condizioni assai primitive, mancando alloggi e magazzini alimentari

adeguati, con acqua potabile sudicia ed un pessimo servizio di stalovaia (ristorante). Per questi

motivi era difficile trovare bravi operai che acconsentissero a venire a lavorare con noi.

Eppure l'entusiasmo, il desiderio di realizzare presto qualche cosa, furono tali che, nonostante tutte

le grandi difficoltà alle quali ho accennato, i giovani sovietici, con l'aiuto dei pochi italiani che

avevo condotto con me, giunsero a costruire e montare in appena sei mesi un primo piccolo

dirigibile. A questo seguirono poi altri più grandi man mano che le condizioni andarono

migliorando.

Il fatto è che alla fine del 1936, quando lasciai la Russia, grazie agli sforzi degli ingegneri della

Dirigiablestroi, il cantiere di Dolgaprudnaja si era già assai sviluppato. Vi erano due hangars

metallici, uno grande, l'altro piccolo; molte officine discretamente attrezzate; edifici in muratura per

uffici e alloggi; magazzini alimentari ben forniti, e parecchi chilometri di strada. Per mancanza di

locali i laboratori di esperienza (NIUO) si trovavano ancora a Mosca, e l'istituto superiore, dove

venivano preparati gli ingegneri dirigibilistici (DUK), era tuttora installato a Túcceno.

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Conclusioni di un'esperienza

Quando lasciai l'Unione Sovietica, l'organizzazione della Dirigiablestroi aveva conseguito

miglioramenti decisivi. Di piani di lavoro senza una base reale, come quelli dei primi tempi, non ne

apparivano più. Negli ingegneri che dovevano compilarli alla primitiva faciloneria era subentrato un

senso di realismo, che faceva loro vedere le pratiche difficoltà che potevano intralciare il piano.

Molti dei gravi difetti iniziali dell'organizzazione erano stati eliminati in seguito alle dure

esperienze fatte. Tuttavia non vi era ancora abbastanza disciplina tecnica; nè si era ancora del tutto

formata una « élite» dirigente, sufficientemente competente, che avesse idee chiare su ciò che

dovesse farsi; nè ancora si avevan capi veramente esperti, nei quali i dipendenti potessero avere

piena fiducia, e che a loro volta avessero fiducia nei dipendenti. Soprattutto, poi, mi pareva che vi

fosse ancora un eccessivo feticismo per l'ingegnere, ed assai poca considerazione tecnica per

l'operaio, che non era, come secondo me avrebbe dovuto essere, il collaboratore del progettista o del

costruttore, ma semplicemente un esecutore materiale, che il più delle volte ignorava perfino a che

cosa dovesse servire il pezzo che costruiva. Questo certamente era un errore.

Il successo delle nostre costruzioni di dirigibili in Italia si doveva per l'appunto al fatto che,

attraverso una rigorosa selezione pratica, si era costituito un nucleo di intelligenti operai,

espertissimi e tecnicamente colti, ai quali l'ingegnere progettista lasciava grande libertà di iniziativa

per quanto concerneva minuti particolari di costruzione e di montaggio. In sostanza essi

partecipavano, spesso in misura notevole, al lavoro di creazione del progettista, e perciò lavoravano

con una soddisfazione ed un entusiasmo, che facevano passare in seconda linea la considerazione

del compenso materiale ricevuto. Collaborazione che spiega perchè a dirigere il lavoro di seicento

operai, quanti eran quelli dello Stabilimento di Costruzioni Aeronautiche, bastassero soltanto cinque

o sei ingegneri.

Ma la costruzione dei dirigibili nell'Unione Sovietica, nel periodo iniziale dal 1931 al 1936, si deve

intendere e valutare come una fase sperimentale, la cui importanza consisteva non tanto nel

giungere a risultati costruttivi concreti, che pure vi furono, quanto nel preparare ed allenare i

giovani sovietici. Questi, quando con l'esperienza fatta fossero riusciti ad eliminare i difetti del

sistema, sarebbero giunti indubbiamente a risultati non solo uguali ai nostri, ma anche superiori.

I difetti da me riscontrati, e che ho voluto ricordare più sopra, erano in fondo i difetti naturali della

crescita di un organismo giovanissimo, esuberante di vitalità. Con l'esperienza acquisita furono

certamente eliminati, specialmente dopo che l'ordine di Stalin di procedere alla formazione dei

quadri divenne un fatto compiuto.