Quand al dialét l'era 'l pan di povret

71
pag - 1

description

PremessaI racconti di questo volume, non sempre corrispondono a fatti realmente accaduti. Alcuni sono frutto della fantasia e del “sentito dire”. Altri ancora veramenti accaduti, sono conditi con un po’ di umorismo personale, tra il serio e il faceto, per stimolarne la lettura.Così dicasi per i nomi e soprannomi dei personaggi. Chiedo scusa se mai qualcuno si identifica in essi. Il mio intento e solo quello di raccontare il contenuto di un segmento dell’anello che tiene unito il presente al passato nella Bassa Reggiana. Ciò che è accaduto nei cinquant’anni a partire dal primo quarto dopo il 1900.Sergio Subazzoli

Transcript of Quand al dialét l'era 'l pan di povret

Page 1: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 1

Page 2: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 2

PREMESSA

I racconti di questo volume, non sempre corrispondono a fatti realmente

accaduti. Alcuni sono frutto della fantasia e del “sentito dire”. Altri ancora

veramenti accaduti, sono conditi con un po’ di umorismo personale, tra il

serio e il faceto, per stimolarne la lettura.

Così dicasi per i nomi e soprannomi dei personaggi. Chiedo scusa se mai

qualcuno si identifica in essi. Il mio intento e solo quello di raccontare il con-

tenuto di un segmento dell’anello che tiene unito il presente al passato nella

Bassa Reggiana. Ciò che è accaduto nei cinquant’anni a partire dal primo

quarto dopo il 1900.

L’autore

Page 3: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 3

Ho conosciuto Sergio Subazzoli nel 1995, qualche mese dopo la mia elezione a sindaco di Novellara. Già in quel primo incontro compresi che in Sergio c’era un fuoco interiore che ardeva e anelava a testimoniare e tramandare frammenti di memoria, tradizioni, passioni, conoscenze e abilità intellettive e manuali e, ancor più, a favorire un modo di stare insieme che l’individualismo d’oggi è lungi dall’incoraggiare, stimolare, rendere autentico. Successivamen-te parlammo di progetti, interventi per ravvivare San Bernardino e accennò all’intenzione di pubblicare un libretto di poesie dialettali che aveva scritto.In Sergio Subazzoli ho conosciuto una persona ricca di valori, entusiasmo, generosità, voglia di fare, umanità. Ho scoperto una persona straordinariamen-te modesta e di grande cultura. Un uomo dotato di una straordinaria abilità manuale che esprime arte e con un cuore, carico di sentimenti e passioni, che rendono i suoi scritti lievi, sensibili, delicati.Ho trovato in Sergio Subazzoli un amico e insieme condividiamo la respon-sabilità e il privilegio di essere al servizio della nostra comunità. Sergio sente molto il ruolo di consigliere comunale e lo interpreta bene, con dedizione, rispetto e la pazienza di uno che non si sente arrivato, anche se è un sicuro riferimento per tanti di noi. Alcuni dei progetti che avevamo pensato si sono realizzati:l’atelier artistico, la scuola di scultura, la pubblicazione di questo libretto; altri sono ancora da condurre in porto.Il lavoro non ti spaventa e le capacità non ti difettano. Perciò caro Sergio, complimenti per questo bel volumetto e grazie per il tuo saper volare alto, anche se il brevetto di pilota l’anagrafe (ma solo quella) non ti consente di rinnovarlo.Con affetto, amicizia e stima,

Sergio CalzariSindaco di Novellara

Page 4: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 4

I sentimenti dell’uomo nella poesia

E’ una parola che sta in poco posto ma racchiude un valore immenso, in quanto ha la capacità di rappresentare i sentimenti dell’uomo.Il poeta è colui che attraverso i suoi componimenti sa esprimere vicende o ricordi vissuti di sé dei suoi stati d’animo e anche delle persone a lui più vicine e care.Leggendo così per caso alcune poesia di Subazzoli, tipico cittadino Novellarese, posso definirlo un poeta autodidatta, attraverso la sua semplicità, verità e naturalezza ha saputo rielaborare i ricordi della sua giovinezza di miseria e di povertà, ma anche di vita contemporanea caotica e rumoreggiante.Traspare nei suoi versi una profonda ricchezza di valori umani e di stati d’animo in cui oggi non ci riconosciamo, perché sono svaniti, sono cambiati i tempi e i modi di pensare, prevale l’indifferenza, il potere e l’egoismo ed è scomparso il buon senso. Il poeta nella raccolta delle sue opere ha preso in esame i ritratti dei personaggi conosciuti dai Novellaresi, ma sopratutto dai S.Bernardinesi, per il loro aspetto fisi-co, dette macchiette o per l’attività che svolgono, tipico l’ambulante o al scarpolein, oppure quadri riguardanti certe casate familiari numerose o benestanti.Descrive i loro profili e i loro comportamenti in modo così verosimile che le rende riconoscibili a tutti quelli che hanno avuto l’occasione di conoscerle anche solo per sentito dire. I miei complimenti e auguri.Sergio scriva ancora.

Ins. Maria Codeluppi Rosselli

*** *** ***

Bene ha detto Bolondi: uomo semplice, curioso sempre di sapere, buono, amante della natura e della vita.Scultore naif ma uomo del suo tempo e poeta.Un vero poeta, ho trovato versi in un suo plico, degni di stare in un volume di Leo-pardi. Non li conoscevo, credevo di sapere tutto di lui, invece ho avuto la conferma di quanto poco si conoscono gli uomini.Sono felice e onorato di conoscere Subazzoli, qui nel silenzio del mio giardino, mentre leggo le sue poesie dialettali, veri peana d’un tempo passato, sento aleggiare attorno il suo pensiero, il suo desiderio di lasciare agli uomini, l’Orma del suo passo terreno, il suo amore per tutto quanto lo circonda e, mi pare di vederlo, a spalle insaccate scivolare via timido e silenzioso.Leggere le poesie di Sergio fa bene al cuore.

prof. Vito Guatteri

Page 5: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 5

Ringraziamenti

Agli autori dei disegni compresi in questo volume

Sara Bendin

Adriana Pecoraro

Valerio Paglia

Lorenzo Davoli

Marco Portioli

Denis Riccardi

Mario Pavesi

Agli sponsors

Tutto per l’inballo - S.Giacomo Guastalla

Bonetti pubblicità di Bonetti Lorenzo e C. snc (RE)

Palmieri & C. Arredamenti - Novellara

Poliglass di Pavarini Domenico - Novellara

Page 6: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 6

I putèi cech ed ier e d’incoo

Pogee su du cavalèt e d’i’asi,lighee come salam da cap a pee col fasie infrucee in dal portinfant.Da comodena e da parapètdoo scrani spaiedi ed fianch -al lèt,cun al bochél e-l basiotper i bisògn d’la not.I s’in sempr-arcmandee:Se a vrii ch’in d-venten mea goben,chi resten drét e mea sgavlee,da la testa ai pee fasei per ben....Adès,per tgnir avirt al gambi bennot e dé un panolen,per al cul e al brusor de schina,pomata e vaselina,per al fiee cativun digestive per mea cucer tantun bel purgant.Però saveri alimenters’fà sensa fascerie sensa tgniri a lèt,i cumimcen prest a-ndere va vea tant difèt .Rispèt a-lorascapés cl’è ammei adès:S’à prés torner putèll-am tornaré-n-der ben listès.

Poggiati su due cavalletti con un piano formato da delle tavole di legno, fasciati dal collo fino alla punta dei piedi, come mummie, con delle apposite striscie o lembi di stoffa, poi infilati nel porta infante. Due comodine e due sedie spagliate poste di fianco al letto fungevano da arredo e da protezione con sopra i triangoli di stoffa di canapa (tripins) e sotto il pitale e la bacinella per i bisogni fisiologici. Gli anziani, alle giovani madri, raccomandavano sempre di fasciarli per bene da “capo a piedi”, come ingessati, per scongiurare al nascituro il pericolo di diventare gibboso, o che gli arti si svergolassero.Ora, per tenere la gambine divaricate, notte e giorno un morbido pannolino, per il rossore della pelle pomata o vaselina, se ha l’alito cattivo un digestivo, quand’è stitico, un blando purgantino. Saperli alimentare correttamente crescono robusti senza peri-coli di deformazioni, non si fasciano più (era una credenza errata dovuta a carenza vitaminica), possono stare eretti e tentare di camminare presto . Rispetto ad allora, si capisce che è migliore l’attuale metodo e conoscenza. Personalmente se potessi ritornare giovane, riaccetterei in cambio, tale sacrificio subito.

Proverbio: Brot in fasa, bel in piasa.

Page 7: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 7

Richin al straser

Filastrocca che usava recitare a voce alta quando arrivava in prossimità delle case, per attirare l’attenzione soprattutto della “resdora”: Passafini , passaforti, passanastri, filiforti coloratii, fazzoletti da naso, da culo, da notte ....donne, donne ghe-l cinciaiolooo.

Al gleva semper per tot ‘na bona parola al scarseva, al zugheva, al canteva, o-al cunteva ‘na fola. Però naseva un dòbi che-l-feva penser; che-l so reder, o ‘l-fer rederrecitee per mester , Dio sol sa col cagh doveva coster .A la matena-l partiva prest, as deva da fer,per vender, cumprer, barater,ma-l dop mesdé, pian pianen,al cambieva umor, per aver abuseeed trop quarten ‘d-ven.In dal sot sira al torneva indre zaquee a pansa in su, sul cianfrusagli catedi su.Quacee la facia da un capèl ‘d-paia,quasi al svergognés come-l fos ‘na canaia:Sighevel, pensevel, dormivel ?,ma !, sol lo e-l Pedretereni saieven dal soo inferen ! .Forse-l fogheva i ricord d’un brot spavent,quand per dover vers la Patria,in dal stès momentla pers una gamba e per poch anch un occ.Decoree con un tetolquater paroli e promès ‘na pension:“na vera miseria ‘d-soportasion“.Forse-l penseva a la so cavalenach-la steva impee apene apena,impicheda-l stanghi dai finiment;l’era tresta e megra stleda, senseter anca lee la gheva a dos quel,la feva tri pas dentr-a-un quadrèl.Al dover ubidiensa vers al padron, pian pianen istintiva con un dietrofrontla torneva vers cà , pò las fermeva davanti-l porton,silensiosa pasiinta cun i’occ strechcome s-la fos in meditasion,squasand sol la còva ,per smarir i moscon . Per al ripos, la speteva-l so turen :la speteva Richin cas liberes dai penser, o dai fom dal ven,dòp finalment al gh-deva la molae per le vreva dir zaqueres in d’la paieda in dal so stalen.

Epigramma dello straccivendolo. Chi potrà mai capire cosa costasse a costui, il ridere e il suo far ridere.

Page 8: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 8

Enrico lo straccivendolo L’aveva sempre una buona parola, scherzava, rideva e giocherellava con tutti. Ma da un esame di coscienza faceva pensare che il suo sorriso e il suo far ridere reci-tati per professione sicuramente avevano un costo, visto che affogava poi il tutto con parecchi “quartini” di vino. Al mattino di buon’ora si dava da fare per vendere barattare o comprare, al pomeriggio invece, al rientro, si distendeva supino, sugli stracci raccolti, nascondendosi la faccia con un vecchio e logoro cappello di paglia. Piangeva, pensava o dormiva ?, Solo lui e il Padreterno sapevano. Forse riaffiorava alla mente il ricordo di un brutto momento quando per dovere verso la patria perse una gamba e per poco anche un’occhio, liquidato poi con un titolo a quattro parole e la promessa di una pensione adeguata. Forse pensava anche alla sua cavallina che nel trainare il carretto si reggeva in piedi appena appena appesa alle stanghe dai finimenti, perchè era triste, magra e malandata, sicuramente affetta da un qualcosa che durante il cammino, la obbligava a fare quattro passi in un mattone, (In lingua Italiana tale espressione ha poco senso, però in dialetto è tipico e molto espressiva, soprattutto per raccontare, anche in modo folkloristico, di chi accorcia il passo).Fedele ed ubbidiente al padrone, al pomeriggio, alla solita ora, partiva istintivamente con un dietro front e si avviava verso casa. Giuntaci poi, si fermava davanti al portone della stalla, silenziosa e paziente, con gli occhi chiusi, come fosse in meditazione, agitando solamente la coda ogni tanto per liberarsi dagli insetti parassiti. Aspettava che Enrico si liberasse da i pensieri ,o dai fumi del vino per poter finalmente entrare nel suo ricovero per il meritato riposo, sul giaciglio di paglia.

Page 9: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 9

Al carsedi in dal caradon

Cun la còv-alveda la pans-adree tèra la bava in spicolon,ste povri vachiniseguiven in silensial so padron,cun in man un soghète in cletr-un baston.Davanti al tirevacome-l-vrés strangleria cul indree lo alcuntinuev-a ciaméri.Sul-let dal car,ch’al feva da berca,sè e nò al gheva tre spani d’erba.Doo carsedi profondii gneven scolpidiin mesa a la melma,come un tember:un marchio ed-la fadigain dal caradon.Incora impresiin di ricorded la memoria,perchè cosi veried chi ha lavore i campsensa creer storia,festa e bondé cun poch o gninta volti anch content,cun ‘na mis-ra pega,da l’alvéda a la caschéda.

Le impronte delle ruote sulla carraiaCoda in alto, pancia a terra, lingua fuori penzoloni, quelle povere bovine, seguivano in silenzio il loro padrone col canapo in una mano e nell’altra il bastone davanti a loro, aizzandole, a ritroso, con un movimento di trazione quasi volesse strangolarle. Le ruote sprofondavano nel fango fino all’assale. Nonostante trasportasse una minima quantità d’erba, il letto del carro che faceva da barca, lasciava dietro di sè, due solchi profondi come segno del marchio della fatica sulla carraia del povero lavoratore dei campi mal retribuito, che in alcuni momenti, sembrava persino felice del duro lavoro, giorno dopo giorno dall’alba al tramonto.

Proverbio: L’è ammei averegh al breghi ròti in dal cul, che al cul ròt in dal breghi.

Page 10: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 10

Page 11: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 11

Al scarpolen -’d-na volta

Pogee a la rinfusain -d’na casètasul portapach ‘d la biciclètala lesna, la pegla,col spegh, al coram e di toch ed pèl,i ciold, al pe-d-fèr e-l martèl;un brev artigian,ch’al loteva per viver, p’r-un toch ed pan.Al justeva i sandei,al feva-l-scherpi, al soleva i troclon,l’er’un artesta ed còi bon da bon!,l’era svelt e sicur,cun al man l’era espert, al c-saieva fer:come-l fus ‘dree zugher.Noeter intoren al mirevene ascolteven i proverbi, al sirudèlie al notessji: sia bròti che bèli.L’andeva da tòti in ogni cà,come feva-l barber al straser,al sert al frera, al marangon al polarol, e al marser,jeren i nost’r’orghen d’informasion,perchè ai temp d’alora....al giornel e la radioa gh-l’eva sol un quelch-don.

Il calzolaio di una voltaLa lesina la pece e tanti altri attrezzi, come lo spago il cuoio, pezzetti di pelle, i chiodi il piede di ferro e un martello adagiati alla rinfusa, in un’apposita cassetta appoggiata sul portapacchi della bicicletta. Gran brava persona, un vero artigiano,che lottava giorno dopo giorno, per vivere, per un pezzo di pane. Aggiustava sandali, faceva le scarpe, risuolava gli zoccoli e lo sapeva fare con mano esperta come stesse giocando, mentre noi tutt’intorno incuriositi guardavamo e ascoltavamo le sirudelle (specie di cantilene di detti popolari in rima e non sempre), i proverbi dei vecchi e le ultime notizie, sia brutte che belle. Andava da tutti, in tutte le case. Così facevano lo straccivendolo il pollivendolo, e l’ambulante di stoffe. In mancanza della radio, dei giornali e della televisione, erano gli unici organi d’informazione.

Page 12: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 12

Page 13: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 13

L’arlòi dal contaden

(Da un racconto fattomi dal sig. Umberto Sala)

A s’era servitor a cà d’un contadenc’al gheva un somaren che quand l’era mesdé, al-s-meteva a ragnere dop al so segnel, andev-na cà a disner.A dir la veriteea mesdé in punt, an-ch-siom pò mei andee,ma a sentir la gent l’era tant inteligentche col chi d-zeven lormè-l tuleva tut per bon: a s’era sol al servitor.Un bel gioren è sucès che, tira e bestirapasee-’n’ora dop ed cl’etra, è sopragiunt la sirae-’n-s’è mia sentii mesdé.Un schers acsè, a me nò vè somaron,t’al ve po a fer al to padron !Quand sun rivee a càormai s-ghevdeva piò;i’ho unt i moss al “ pèndol”e g’ho carghee la molac-n-un manegh ‘d-palpignan,a sun andee a usta,acsè, un tant al bras,ma-sved c’à gò ciapee,l’ha cumincee a ragnercativ come un daneeE’ arive-l-padron, l’ha vru saver c-sè steee-l marés rimprovereee det dal mat per còl ch’i’ho fat,alora-a-g-ho rispost: com-l’ha sonee mesdéal n’era mia in dal contrat!.

L’orologio del contadinoLavoravo come servitore a casa d’un contadino che possedeve un somaro che quand’era mezzogiorno si metteva a ragliare dopo di che si andava a pranzo. Ad onor del vero a mezzogiorno proprio non ci siamo mai andati, ma a parer suo era così intelligente che non osavo contraddirlo, tanto ero solamente il servitore.....Un giorno eravamo nei campi ed è successo che passarono le ore e giunse inesorabil-mente sera senza sentire quel “mezzogiorno”. “Uno scherzo così non dovevi farlo caro il mio somarone, lo fai poi al tuo padrone”. Quando arrivammo a casa ormai non ci si vedeva più. Sono andato nel suo ripostiglio con un salice in mano, poi ho cominciato a bastonare avanti e indietro simulando la carica della molla dell’orologio per rinnovargli la memoria, oleandogli gli ingranaggi. Si vede che ho fatto centro, ha cominciato a ragliare come un dannato, dopo di che si è presentato il titolare a chiedermi spiegazioni, e a rimproverarmi. Mi qualificò come matto, allora vuotai il sacco e gli risposi che come s’era comportato non era scritto nel contratto.

Proverbio: An ghè badilas ch’al nè gabia-l soo mandgas.

Page 14: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 14

Page 15: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 15

La gòsaUn gioren imprecisee,l’acua la tèra e l’aria ‘an forme-l mond, ian cumincee, i sin cree, è nee la véta....S-l’è stee per ches, n-al saròm mai.Tut è precis, fedel, immobil, pasient:a speter c-pasa-l temp e creer d’ievent:un fiol, un frut, un fiorda doner con amor:acsè è ste decis.S’ral propria stee un ches?S-a stacòm ‘na foia o-l-frut da un ram,cla gòsa cas-formacome una lacrima,in dò l’òm tot vea,chi sà sl’è dolor gioia o-’d-nostalgea?l’è come priver una meder dal frut d’un at d’amor,alora el un chez?o el c’mè is-dizen, i predicator:un segn dal Creator.Per quant temp as spol ster sensa saver?e al trop saver vinel dabòn per nozer?.Curiosità: degh c-am piasrè ander insèma un pianeta talment luntan, anch di milion d’an, per oserver l’ariv d’jimmagini riflèsi da la “tèra”ai temp di dinosauri, di noster antenati, per vèder com’er’n-al dòni e i’òm, o, se eren tut un e si magnev’n-i pòm: ma gher’n-i pòm?, o, ela una fola!E’ tut perfèt, tut fat ben, è mai posebil che un gioren qualsiasi, un’atim dòp ed la véta ach sea più gnint?, perchè alora tanta precision!; dòp, vedròmia dabon i dinosauri?, intant a cumincc a spereregh!.

La gocciaUn giorno imprecisato, l’acqua, la terra e l’aria, si sono creati; hanno incominciato a formare il mondo, ed è nata la vita: se fu un caso, non lo sapremo mai.Tutto è preciso, immobile, pazientemente fedele in attesa che passi il tempo, che si creino eventi: un figlio, un frutto, un fiore da donare con amore, così fu deciso.Sarà proprio stato un caso?, se togliamo da un ramo una foglia o un frutto, la goccia che si formerà come una lacrima, sarà di gioia, di dolore o di nastalgia? Sarebbe come privare una mamma dal frutto d’un atto d’amore!.Allora il pensiero è sempre sulla casualità, o sarà come dicono i predicatori, un segno del Creatore? Per quanto tempo dovremo restare all’oscuro di tutto, senza sapere e il troppo sapere verrà poi veramente per nuocere?Curiosità: quanto mi piacerebbe arrivare in un attimo su di un pianeta distante milioni di anni luce per osservare l’arrivo delle immagini riflesse dalla terra quando ancora vivevano i dinosauri; i nostri antenati, com’erano le donne e gli uomini, o se erano tutt’uno e se mangiavano le mele: ma c’erano le mele? O è soltanto una bufala?Tutto a proposito, tutto è perfetto, è mai possibile che un giorno qualsiasi per noi, un’attimo dopo sia buio completo, non esista più vita? Perché allora tanta precisio-ne?. Che sia l’opportunità di rivedere poi i dinosauri? Personalmente, incomincio a sperare!...

Proverbio:Chi vive sperando,muore...cantando?

Page 16: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 16

Page 17: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 17

S’a fus-ste un’om

I’ho vest ‘na baionètaed cò da un sciop,una ghegna da mel laveee do man sporchidenter a una divisa nigra.I’ho vest una facia d’Angelopersonera dal fèr punteecuntr-a-la pansaal sètim mes ed gravidansa:D’istinto i’ho reagie sun sbalsee inséma-un carper saltergh-ados:ma sun armes a bras avirtiimmobile,paralisee.Nisun l’immaginaquant i’ho desidereecul moment lèèser ste un’om !Fin d’alora l’era già me sorèlae-l vintidu ‘d’luila cumpés i’an.Ma, s’à fus-ste un’om,s’rel ste listèsal so complean?

Page 18: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 18

Page 19: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 19

Se fossi stato uomo

Ho visto una baionettainnestata a un fucile,imbracciato dauna faccia da lavativocon due mani sporchedentro una divisa nera.Ho visto un viso d’Angeloprigioniera del ferro premutocontro il grembo al settimo mesedi gravidanza.D’istinto scattaie salii su un carroper saltargli addosso,ma rimasi immobilea braccia apertecome paralizzato.Nessuno immagina quanto avrei volutoessere stato un’uomoin quel momento.Fin d’allora era gia mia sorellae il ventidue Luglio è il suo compleanno.Ma se fossi stato un uomosarebbe stato ugualmenteil suo compleanno?

Questo racconto purtroppo è realmente accaduto. Era l’anno 1944 ai primi di mag-gio, non avevo ancora compiuto dieci anni. Facevo parte di una famiglia numerosa di poveri contadini della Bassa Reggiana, per l’esattezza diciannove in tutto. Sedici presenti tra donne bambini e la nonna vecchia, l’unico uomo mio padre. Dei miei zii, al fronte in guerra chissà dove, non avevamo notizie.Una mattina sentimmo arrivare nel cortile di casa nostra, il carrozzone delle brigate nere in cerca di partigiani. Quando bussarono, si decise di mandare avanti mia madre essendo incinta al settimo mese speranzosi di clemenza, visto il suo stato. Fu un miracolo che non le abbiano sparato o affondata la baionetta nella pancia, come era loro abitudine, lo fu anche perchè ero ancora un bambino, altrimenti le cose sarebbero andate diversamente.Questo racconto è la pura verità di vita vissuta che ha lasciato un segno profondo nel mio io e che ancora a distanza di sessant’anni, sembra stato ieri. Conservo tutt’ora un odio spietato verso quegli individui.

Page 20: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 20

La lunga notte del 23/04/1945

Al man in elta pezi c-mel sel,i pee deschelsai-sfurmigheven dal mel,i-occ, eren stòff, ma spalancheee cunt-ra-la gola un sciop puntee.Al lus ‘d-na candela al feva da spècc in d’la cros uncineda e cuntr-a l’elmèt. -O te, o me al va melament ! -,l’è ste-l-mee penser per tota la notfisand al tognèt armee fin ai dent.C-n- un scat fulmineo, g’ho branche-l- canalòs:“Da perzoner sun d-ventee carcerier”e j’ho spetee impasient col s-ciop in man,c-pasa la not e ch’a riva al d-man.Spunteva l’elba quand s’è senti in dal cortilun stridor d-freno, fermer un motorciocher dal sportèli, di pas svelt sensa cadensa,che in d’la pista, in-n’eren nè tedesch ne fasesta,a l’improvis da un megafono t-gnu strech in manun c-sè-r-cmandeva in perfèt Italian:-Tedeschi e fasisti arrendetevi, siete circondati-,min sun res cunt dal perecol scapeement-r-a termeva emosioneecontent finalment e sicured vèder al sol anch ed-man,quand è gnu in cà i valoros Partigian.

“Questo racconto è veramente accaduto a mio papà la notte del 23-04-1945, quando i nazifascisti ci fecero evacuare tutti di notte da casa nostra, in mezzo ai campi spa-randoci poi alle spalle, trattenendo solo lui come ostaggio. Dal suo racconto l’incubo finì all’alba quando arrivarono fortunatamente i valorosi Partigiani ed arrestarono il maggiore che teneva in ostaggio mio padre, che poi divenne suo prigioniero approf-fittando del fatto che tutti gli altri si erano addormentati ubriachi e radunati in un’altra sala attigua. La paura che arrivassero dei loro rinforzi passò, quando, dopo un’attimo di smarrimento ebbe la certezza che fortunatamente erano arrivati i liberatori”.

La lunga notte del 23/04/1945Le mani in alto eran di piombo coi piedi ignudi dolenti e intorpiditi. Era ormai notte e un foro nero puntato su di me, sempre pronto a sparger morte, mentre un vetro tondo portato da un mostro con una divisa sanguinaria, facevami specchio del lume riflesso da una candela agli occhi stanchi e impauriti. La lunga attesa m’improvvisò serpe, poi colpii da prigionier fui poi guardiano, poi venne l’alba. Ruppesi il silenzio dal rombo di un motore e tremavo di paura seppur col “freddo ferro” stretto fra le mani.Fui libero poi finalmente, grazie all’arrivo dei valorosi Partigiani.Era l’alba del 23-aprile-1945

Page 21: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 21

Page 22: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 22

Don Luciano Pavesi

Dal gran c’l’era povrèt, ma povrèt cmè l’ai, al parlev-in dialèt, in italian quasi mai. Nee in dal mantuan ma visuu in d-l’arzan, per lò-l-noster badil al s-ciameva pala, cmè dis-n a S.Roch e còi ed Guastala. La mèsa, ben o mel, al la d-zev-in laten,a la so manera,Don Luciano Paves prior d-S.Bernardene d’la Maestee d’la Rivera.Onest come al sol, semplice a la bona;bon ed dir e bon d-fer de dmander e scrocher,bon d-pergher ed-doner,a la cesa a-i povrèt e a j-inferm’in un lèt.S-al ciameven “don melta”per la còpa-e-i-caii ch’al ghev’in dal man,an vreva mea dir ch’al fus un melnètt,l’andev-a test’elta, l’era piu che pulii,sincer s-cèt e perfètt.(In dal so ches valeva al proverbi: non è l’abito che fa il monaco).Al soo guardaroba, l’era ed sol do vesti:una nova p’r-al festi e p’r-i gior-important;una vècia per l’ort e p’r-al-lavor di camp,che a forsa ed pèsisu pèsi, la pareva una quert’imbutidae la steva impee da per lee, come un’armadura antiga.Però còi ch’entreva per vèder la cesa,s’incanteven tot quant, dal gran cl’era bèla, pulida-ordineda,pina d’afresch,de sculturi, di queder ed dipint di noster sant.L’insèm ed l’altari, meraviglios, pregee,ed mermel d-Verona, finement progetee,un mocc ‘d-candelabri, intaiee e doree,al coro masécc, tot fat in nose un’orghen a mantice, antigh, cun tanti voz.Lo l-d-zeva semper “pan al pan e ven al ven”.D’zòm cl’era grès, poch rafineeperò al Pret al la saieva fer,c’mè-l-sajeva c’mes-feva a predicher,anch se a sembrevach’el fés più fadiga can-nè a lavorer.

Non è un proverbio.Mentre celebrava la S.Messa, si voltava verso i fedeli, e conoscendoli bene, diceva: Elvira di fior, Elvira dal buter, fem al piaser ed taser.

Page 23: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 23

Don Luciano Pavesi

Talmente era povero, (povrèt c’mè l’ai) si pensava che parlasse in dialetto appunto per quello. In italiano, difficilmente lo si sentiva dialogare. Nativo del Mantovano, visse nel Reggiano. Quello che per noi si chiama badile, per lui è la pala, come dicono a Guastalla e dintorni perché ne risentono già, per ragioni di vicinato, della cadenza Mantovana. Il rito della Santa Messa, in un modo tutto suo, la celebrava in latino. Don Luciano Pavesi, priore di S.Bernardino e della Maestà della tenuta Riviera. One-sto come il sole, semplice, alla buona, conscio del dire e nel fare, coraggioso nel chiedere e nell’elemosinare per poi donarlo ai poveri e ai bisognosi. Se bonariamente fu chiamato “don melta”, per le ragadi e i calli che abbondavano nelle sue mani e i vestiti sdrucidi, non voleva assolutamente dire che fosse una persona inaffidabile o sporcacciona, tutt’altro. Per questo poteva andarne fiero e a testa alta ovunque e dovunque. Era più che pulito, schietto, sincero e perfetto. Nel suo caso vale proprio il proverbio “non è l’abito che fa il monaco”. Il suo guardaroba, constava di sole due tonache: una nuova per le feste, i funerali e per i giorni più importanti, l’altra, per l’orto e per i lavori dei campi, che a forza di toppe su toppe, sembrava una coperta imbottita se non fosse stata nera. Si reggeva in piedi da sola, come un’armatura antica. Però chi entrava per visitare la chiesa, rimaneva incantato, talmente era bella ordinata pulita e per la buona conoscenza artistica nella scelta delle sculture sacre, dei dipinti e degli affreschi murali, inerenti i nostri Santi. L’insieme dell’altare maggiore era in marmo pregiato, finemente progettato e costruito dalla ditta Adani di Correggio nel secondo quarto del secolo in corso.I candelabri sapientemente intagliati e dorati; il coro in noce massiccio, un organo a mantice con tante voci. Diceva sempre “pane al pane e vino al vino”, in modo grossolano, apparentemente poco raffinato, però sull’operato non vi erano dubbi, anche se sembrava che si affaticasse meno a lavorare che ad officiare la S.Messa.

Page 24: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 24

L’om e i sentiment.

Al mond, al cambia, continuamente come al stagion, cambia anch la gent,preval l’egoismo, e sparès al bon sens.Còi svinant e-i colega, l’è semp’r-una bega,per i’amigh e-i parent, an ghè più temp;nison più canta, as-siòm semp’r-in-ascolt;cronaca, percentueli, publiciteee musica, semper più fort col volòm tut alsee.Ho semper savu che:”La musica è l’arte dei suoni coi qualisi esprimono i diversi sentimenti dell’uomo”.Come las sent, lè un martler da protesta,oh!, l’è un dìret sacrosant,ma fort acsè, lam-fà mel a i’orècc,o sunia mè gnu trop vècc!Al noti musicheli, in s-pianten mea in dal servèlcome un ciold in dal lègn cun un martèl.Per còl c-pol capir la me ment,a mè d-mand: in do ini stè sentiment,e la melodea;do paroli ben mési l’è vera, chi fan poesea,ma, poesea, a la fa anch do, déti ben:-Andee a cagher!-cun cal mod lè’d-protester.Al breghi s-cianchi in di snocc,anfibi e stivai anch d’istee,i cavii coloree,i’anèi e i’urcinin di lobi, in dal cul e in dal boghi dal neze in do sdòm di bez, insèm ai tatuagg,adès ch’i van ‘d-moda, lasòmi paser,dato che al mond al nè spol: nè fermer nè cambier.Quand a g-n’ho pin al scatli,a smadòn’in silensi e me sfogh da per mèe pò pens ai mirachei.I mirachei, ien cosi impensedi,come: Pio c-sangona, Maria c’la sigaun gob cas sdresa, o un plee cun la riga.Se a la fin a sun treste inveci ‘d reder am vin da sigher,l’invit ed prèma, g-al tor’n-a r-nòver.

Proverbio:Al buzèi, i gan al gambi curti.

Page 25: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 25

Page 26: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 26

Il mondo cambia continuamente come le stagioni come noi, “gente”; prevale l’egoismo e scompare il buon senso. Coi vicini di casa si è spesso in disaccordo, nascono delle beghe, per gli amici e i parenti non c’è ormai più tempo; nessuno più canta, siamo spesso in ascolto di percentuali, cronaca, pubblicità, poi musica sempre più forte a tutto volume. E’ risaputo che la musica è l’arte dei suoni coi quali si esprimono i di-versi sentimenti dell’uomo. Come la si ascolta ora è un martellare continuo, a guisa di protesta. Sarebbe un sacrosanto diritto di espressione, in tal caso, ma così forte mi dolgono le orecchie, a meno che non sia io così noioso, perchè troppo vecchio. Credo però che le note musicali non si debbano conficcare nel cervello come un chiodo nel legno col martello. Nei miei limiti mi chiedo: ma dove sono i sentimenti e la melodia? Due paroline messe furbescamente, potrebbero anche diventare poesia; ma anche due ben dette a volte non guastano: “andate a cagare col vostro modo di protestare”.I pantaloni lacerati, gli anfibi o gli stivaletti anche d’estate, i capelli variegati, anelli e orecchini ovunque, come alberi di Natale assieme ai tatuaggi ora che vanno di moda. Lasciamo perdere, visto che il mondo non si può nè cambiare nè fermare. Quando sono saturo, brontolo da solo, mi sfogo in un “fai da tè”, poi penso ai miracoli. Sono dei fatti e delle fantasie impensate, come per esempio le stigmati di Padre Pio, la Madonnina che lacrima, il sangue di S.Gennaro che si liquefà, un gibboso che si rad-drizza, o,..... un calvo con la riga al centro. Se poi alla fine della carellata non riesco a vincere il malcontento, invece di arrabbiarmi, li rimando dove ho detto prima e buonanotte suonatore, tanto, l’alba del “domani”, arriva lo stesso.

Page 27: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 27

Al molen abandonee

La montagna l’ha donee-l sasper fer la mola,al bosch al lègn pregee,l’hom al l’ha costruie-l fiom al l’ha ospitee.pover al me vècc molen abandonee !L’acua ,come un arciamla cuntenua incòra come alorala so corsa silensiosa,ma l’hom al t’ha dét basta.guai a te stet mov !e te fedel, te spètcal t-toga vea al baston dal rod.Dop d’aver dee la posibilitee‘d-nutrires a diversi generasion,dop èser stee anch tant sfrutee,vin a cateret sol un quelch viandantper scaper via spaventeedal trop silensi rot din tant in tantda un quelch scricchiolio,come un veliero a la deriva.M-ricord incòral’enorme roda girercome controcorent,quasi la vres fer la cunta d-l’acua ‘ch-pasa,come fa-l pastor col pègri,quasi la vrés risalir al fiòm,come fa i salmon.Come s-l’inalsès al cel al peliin segn-d-salot per grasia ricevuda.Te resistii al buferiai teremot, a la solitodin,resest incòra vecchio mioe te sree ricompenseee porte in una piasao in un museo ed ‘na quelch siteecome paladino e pioniered’un’antiga civiltee.

Page 28: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 28

Page 29: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 29

Il mulino abbandonato

La montagna,ha donato il sasso per far la macina,il bosco,il legno pregiato,l’uomo lo ha costruitoe il fiume lo ha ospitato.Povero il mio vecchio mulino abbandonato.L’acqua,come un richiamo continua ancoracome allora la sua corsa silenziosa,ma l’uomo ti ha detto basta,guai a te se ti muovie te fedele sei li che aspetti ancorache ti tolga i bastoni dalle ruote.Dopo aver dato la possibilitàdi nutrirsi a diverse generazionie dopo essere anche statotanto sfruttato,viene a trovarti qualche girovagoper scappare poi,dopo poco,spaventato dal troppo silenzio,rotto solamente da qualche scricchioliocome fa un veliero alla deriva.Mi ricordo ancora l’enorme ruotagirare come controcorrente,quasi volesse risalire il fiumecome fanno i salmoni,quasi volesse far la conta dell’acqua che passa,come fanno i pastori con le pecore,come se innalzasse al cielo le palein segno di salutoper grazia ricevuta.Hai resistito alle bufere,ai terremoti e alla solitudine,resisti ancora vecchio mioe ne sarai ricompensatoe portato su una piazza,o in un museo di una qualsiasi città,come paladino e pionieredi un’antica civiltà.

Page 30: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 30

Al mondeni ‘d S.Vitoria(acua ris e la so storia)

(Dopo trent’anni, le mondine di S.Vittoria sono tornate a visitare le località dove erano state a lavorare e a sgobbare nelle risaie piemontesi. Il 7- Maggio 1989, alle sei in punto sono partite con un pulmann dal piazzale antistante la Coop. della frazione, alla volta di S.Germano, Salasco, Selve, Capriasco, passando dalla stazione ferroviaria di Olcenengo, proseguendo poi per fare visita e accendere una candelina votiva alla” Madonna della Fontana”. Appena partite, era già atmosfera d’allora sulla corriera: con i canti tradizionali e con le imitazioni dei personaggi più significativi che si misero in luce a quei tempi. Arrivati sul posto, cappelli di paglia in testa, proprio come allora, aggiustati con una sola mossa, segno evidente di una precedente esperienza vissuta, golf sui fianchi annodati sul davanti e a chi i fianchi erano scomparsi da tempo, sulle spalle con le maniche annodate sotto il mento, a mò di cravatta. Poi con la fantasia, l’immaginazione e la memoria sono scese metaforicamente in acqua. Facevo parte anch’io della bella comitiva, e quello che seguirà nel racconto non sempre in rima, è stata la mia impressione ,sentendo i loro discorsi e osservandone le mosse, gli sguardi, le impressioni e la mimica, che nemmeno i veri attori possiedono.

I’arsnein priv ed geometreai feven da cornis intorn-a l’acuacon i soo incros a fantasea.Acua a vesta d’occ, a volti crèspa pr-al ventch-andeva a sira, noios e insistent.Acua a spècc da fer baler la vèciapr-i ragg d’un sol sfaceee un cel pulii, da vèd-gh’inà ‘n’eternitee.Al silensi tot intoren, la monotonea,l’era ròt di tant in tant, da un quelch oslenche spaventee-’l voleva vea.Sòt-una frunt rugosa, i’occ mès sareeper mett’r-a fogh la vésta, col guerda fés, come incantee,i v-deven tut c’mè alora: l’identichit ed-la so storia:col ch’an ghera d-nans a iocc, g-al zunteva la memoria.Zò in d-l’acua fin ai snocc, sfondee i pee in dal pantan,coi vistii tachee a-i galon e-l puidi ai dii dal man.I segn dal zov portee ados,i’eren in pert ricompensee, l’era-l fil c-tgneva lighee,cun l’atmosfera di filosCun do cantedi in mès a l’eraquater selt tree-insèm dop senaandev-na lèt col cor in pace, a durmir fin a mateina,tant provee da la strachisia, as-sareva i’occ subètmentr-i laber per so cunt, i ridev’n-in dal stès tempperchè-l cor l’era content.Finii-l dé,finii-l lavor,a spuseven sè d-sudor,dòp lavee, sol ed savon:cun l’orgòi da «Vitorjin» tut onest e breva gent:an-n’hom mei spusee-’d-coion !

Page 31: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 31

Page 32: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 32

Le mondine di S.Vittoria

(acqua riso e la sua storia)

Gli argini privi di geometria, fungevano da cornice attorno all’acqua incrociandosi a fantasia. Acqua a vista d’occhio a volte increspata dal vento proveniente da est verso ovest, noioso e insistente.Lo specchio d’acqua faceva ballare la vista colpita dai raggi diretti d’un sole sfacciato in un cielo limpido che permetteva di vedere fino all’eternità.Il silenzio tutt’intorno, la monotonia, erano rotti di tanto in tanto dal frullio d’ali di qualche uccello che spaventato volava via. Sotto una fronte rugosa e gli occhi semi-chiusi per mettere a fuoco la vista come incantati,riuscivano a rivedere tutto ciò che vedevano allora rievocandone la sua storia. Quello che non c’era davanti agli occhi, glielo aggiungeva la fantasia e la memoria.Sprofondati in acqua fino alle ginocchia, i piedi stretti dalla melma, le gonne appiccicate alle cosce e le piaghe alle estremità degli arti. I segni lasciati dal giogo in parte erano momentaneamente dimenticati dai bei ricordi, dall’amicizia vera, dal dialogo sincero nel dopo lavoro, e il bene che ci volevamo ci teneva stretti e uniti l’uno all’altra. (tucc a ùna), detto Vittoriese. Dopo due canzoni, due canti improvvisati e quattro salti in mezzo all’aia, dopo cena, andavamo a letto con il cuore in pace tranquilli fino all’alba del giorno dopo, gli occhi per la stanchezza si chiudevano subito, mentre sulla bocca rimaneva il sorriso permanente.Finito il lavoro col finire della giornata potevamo puzzare sì di sudore, dopo lavati forse anche di sapone, ma dopo aver svolto il nostro lavoro sinceramente eravamo sicure e sicuri di non puzzare di coglione.(Questo termine diffuso sopratutto nell’area Vittoriese,veniva usato dagli operai e dalle mondine come vanto per essere stati fieri, abili e volenterosi nello svolgere il proprio dovere. E’ un pò difficile spiegarne il significato in italiano e mi avvalgo del proverbio che dice: a buon intenditor poche parole.

Page 33: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 33

Al mond di furub

Al mond lè bel perchè lè tond:sol.. c’lè fat p’r’i furub.E s’ì fòsen tuti furub ?,ster mea mel che a ghe s-rà semper:“al furub di furube al coion di furub”.E sì fòsen tot coion ?l’è listèss, ghe s-rà semper:“Al più furub di coione al più coion di coion”.In conclusion:Sensa i furub an-spol ster,an spré gnan governer;ma gnan sensa coion:se nò i furubin s-ren nison,in saren c-sà fer !.

Un proverbi al dis:Se tut i coion i portesen i lampion,“ Gesù Maria” che iluminasion.A Novalera i lampionien fisee in d’iocc di portegh,atach ai palon.L’hani fat per vèder i furub ?No no,l’han dovu fer forsa, per mancansa ‘d-coion!.

Il mondo dei furbi

Il mondo è bello perché è tondo ( lo ripetiamo spesso), solamente che è fatto per i furbi. E se fossimo tutti furbi ? Non preoccuparti che ci sarà sempre: “Il furbo dei furbi e il coglione dei furbi”.E se fossimo tutti coglioni ? E’ la stessa cosa, vi saranno sempre: il piu furbo dei coglioni e il più coglione dei coglioni.Concludendo: senza i furbi non non ci sarebbe ragione d’essere, non si potrebbe vivere e nemmeno governare, e... neanche senza coglioni, sennò i furbi non sareb-bero nessuno e non saprebbero come o cosa fare.

Page 34: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 34

L’Avtun

Adio istee, adio vegetasion,cun al cheld finesun’etra stagion.Caschen al foiiinzalidi dal temp;alseri e snèli,l’ul’t-m alit ed vental-li-unés al sorèli,tant proverbieliad ogni ocasioned cambier diresion.Al so balèt,la so libertee,lè ste-l temp impiegheed river a tèra,com’ha fat l’an prèma‘na so sorèla.ogni cambiament dal temp,l’efèt tra la lus dal sole-l scur d’la notcreen semper un’emosione per un’anim dispost a contempler, l’è semper un’amirasion rinoveda,da ringrasier.

Addio estate, addio vegetazione, termina col caldo un’altra stagione. Cadono le foglie ingiallite dal tempo e lacerate dal vento;leggere e snelle l’ultimo alitar di vento, le unisce alle sorelle, tanto proverbiali nel mutar direzione. ad ogni occasione. Il loro balletto e la libertà, è proporzionale al tempo impiegato per raggiungere il suolo. Ogni mutare del tempo, il variare dalla luce del sole e il buio della notte, creano sempre delle emozioni, per chi è attento e, se è un’animo disposto a contemplare, è sempre un’emozione rinnovata da ringraziare.

Page 35: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 35

Dal Carobi a la Stasion

Stréda bianca, un fos d’impert,rivi verdie sev de spen.Un pàlon d’la luz un magazen,ogni tant un punt,un cespòli ‘d’rasie un nèi d’ozlen. Adèss:Strèsia nigra cun gnint d’impert...Vista da l’elta la dà l’impresiond’un naster a lutto stéz su la frasion.

Dal Carrobbio alla Stazione

Strada bianca ghiaiata fiancheggiata dai fossi, con le rive verdi e le siepi di biancospino.Un palo della luce il mucchio di ghiaia, ogni tanto un ponte (per accedere alle abita-zioni) un cespuglio di rovi e un nido di uccelli. Ora: striscia nera con niente di fianco.Vista dall’alto da l’impressione d’un nastro a lutto steso sulla Frazione, dalla Cascina al Carrobbio facendo croce alla Stazione.

Proverbio: Per S.Bernarden, ogni nèial g’ha-l so ozlen.

Page 36: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 36

Page 37: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 37

Nadalèt (il guaritore)

Quand a steven al Stalon,in d’la cort ghev’n-un svinant ch’al s-ritgniv-un medgon. Ed nòm Nadalèt, al cureva -’l-storti, al guariva i’artrosi,al sfogh ‘d-S.Antòni e-l-vachi, cun al caghèt.Prem ‘d-cumincer a deres da fer,per garantir la guarigion: al doveva magner, e feres pagher.La veritee l’era: l’hom semper savuu,guariva sol: i foraster, o i sconosuu.Un giorn-in d’la stala, g’hom avu-n problema:al tor, i mansoo el vachi, i gheven tot al caghète arésen ciamee Nadalèt, as siòm ritgnu fortunee:l’ha fat più prest a river lè, che dir ‘d’sè.La magnee e d-bu fin cl’à vru, c’mè dai pat dal contrat,pò l’hom paghee e l’ha fat al so fat.-Ste por tranqueii, dè piò o dè meno,che tut s’r-à finii tra un per ed giornedi.Fegh ed’jimpach ed’jinfus, di decot dal papeni, ma tòti al mateni!.Oh !, a marcmand: an tirer mea d-madònie impiee un lus in d’la nècia ‘d S.Antòni-.Dop c’l’ha finii al s’nè andee, cun al calès e-l cavalenda un’etra famea ed-contaden.La nona saggia, la s’è mésa-l-lavor,la voiee su l-mandghi col cor gros dal dolor,cun un penser cal g-rosgheva-l-màgon,per capir al motiv e sercher ‘na ragion:S’ral stee-l bevron, o è stee l’erba fresca,o-l fen vècc opure i malghèt ?Scaduu-l-temp c’l’eva dee, è nee tanti sospèt:vot propria che-l-ven al files e-l-fus mea bon,o al salam arans o quel d’avariee, vest che l’efèt al nè ghè stee ?La nona alora sensa penser,la ciapee S.Antòni e sbatu in dal sorcher.-Dat mò una mosa e dat da fer !,sit cheghen in d’la ghégnaal compit l’è too, sat-voo feri fermer.Sl’è vera c’mì disen, “ch’ed-tanti rasi spol fern-un fas”,te, dal sorcher, at fines ed sicur in mès-a la mase finiré anch al timor e-l dolorse at dimostress che at-tse tè-l protetor-..Cantand e sc-ifland, felice e beato, cun la pansa pina,al partiva spèss col so caval e la birucina,da una pert o cletra, garantii a limon,al cateva semper da miner a mèsa un quelch donal noster mèdgon.

Proverbio:Chi si accontenta godee le critiche non ode.

Page 38: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 38

Natale Meglioli il guaritore

Quando abitavamo nel podere Stallone, un nostro vicino di casa, di nome Natale, si riteneva uno stregone, un guaritore. Curava le distorsioni, guariva chi era affetto da artrosi (così prometteva), lo sfogo di S.Antonio e soprattutto il bestiame affetto da diarrea. Perché la guarigione avvenisse, prima di iniziare i suoi riti doveva mangiare a sazietà tutto quello che chiedeva, infine, essere pagato in anticipo. La verità era, e l’abbiamo sempre saputo che guarivano sempre i forestieri e gli sconosciuti. Un giorno nella stalla, sorse un problema con il bestiame, era tutto affetto da diarrea. Chiamammo immediadamente il nostro stregone, che fu più svelto ad arrivare che a dir di sì. Si mise subito a ta-vola, presentandogli il menù e poscia che fu satollo, pre-tese il compenso in denaro e si mise immediatamente al lavoro (questo è vero) e ci ritenemmo fortunati. Terminata la procedura, ci rassicurò che nel giro di un paio di giorni tutto si sarebbe normalizzato, a patto che somministrassi-mo ai bovini delle tisane e degli infusi con delle erbe medicamentose che ci fornì personalmente, nonché degli impacchi da applicare in un certo posto tutte la mattine, la promessa di non bestemmiare assolutamen-te, ed accendere infine una luce votiva nella nicchia di S.Antonio. Finito il lavoro, svegliò il cavallo che dormiva su tre gambe, salì sul calesse e andò a sollevar lo spirito ad un’altra famiglia, tonta come noi, poco distante. La nonna saggia, si rim-boccò le maniche e si mise immediatamente al lavoro, col cuore gonfio dalla preoccupazione, cercando nella memoria una possibile causa di tale dispepsia. Sarà stato il pastone di cereali, o l’erba troppo fresca, o il fieno vecchio o i culmi del mais giovane (malghèt)?, chiedeva a se stessa. Passati i due giorni, l’effetto mancato fece crescere forti dubbi sul menù consumato: poteva essere incompatibile al suo palato, perché sinceramente, se hanno la muffa i soldi, non fa niente, però se c’é l’ha il salame, o il pane, ti fan sentire in colpa. La vecchia, in preda alla disperazione andò nel corridoio della stalla, prese la foto del protettore e la gettò nel canalino di scolo poi apostrofò: “datti mò una mossa e datti da fare, se vuoi che non ti caghino sulla faccia prima o poi”. Se è vero che di tanti rovi se ne può fare un fascio, tè di sicuro dal sorcher, finisci in mezzo alla merda nella concimaia. Così finirebbe l’incubo assieme al dolore, se tu dimostrassi che sei il vero protettore. Cantando e fischiettando, felice e beato, con la pancia piena, il nostro guaritore, non passava giorno senza che non dovesse partire, col calesse e la sua cavalla e da una parte o dall’altra, (garantito a limone, non so perchè si dica così, ma si dice), trovava sempre qualche pollo da spennare e da “menar il can per l’aia”.

Page 39: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 39

Teremot

Ment-r-al bilancer dal pèndol,cun al so tich tach,l’andev-avanti e indreein tòta la soo corsa,detsà o dedlàper chi vers nord l’era voltee,al mur al ghe andee a dreee lo... al s’è fermee.La tera, la saltee e po termeecun un gran boatodal sètim gred d’intensitee.Ados a noet-r-Arzans’è stremnee-l panich,tant spavent e un mucc ed dan.L’ora ? undès e sinquantesee,martedì quendes d’Otòberméla-e-novsent-novantesee.“Pianeta Tèra: cosa t’hòmia fat boia d’un mond vigliach”!Ch’at piesa mea al formai c’mal fòm,o l’aze balsamich,o al noster President Prodio forse-l -Tricolorche in tut al mond is fan onor ?.De mo su “amara Terra”e dagh un taie va a sdaser al calderonin do ghè nisòn...Ch’at vègna mei piò in mentd-rifer-s-un schers acsè!,a l’improvis,c’mè der un sciaf a unda incoo a d-man,sol perchè an s-lamentòm meinoet-r-Arzan.

Page 40: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 40

Terremoto

Mentre il bilancere del pendolo, come un metronomo, con il suo tic tac, andava avanti e indietro in tutta la sua corsa, o destra e sinistra, per chi guardava a Nord, la parete lo ha seguito neutralizzandola e il bilancere s’è fermato.La Terra, ha tremato e saltellato con un gran boato del settimo grado (della scala Mercalli) d’intensità.Addosso a noi Reggiani si è diffuso il panico, tanto spavento e parecchi danni.Erano le undici e cinquantasei di martedì quindici Ottobre 1996.“Pianeta Terra” quale colpa abbiamo ? Non ti piace come facciamo il formaggio o l’aceto balsamico* o il nostro presidente del consiglio prof. Prodi o forse il nostro (per fortuna ancora nostro) Tricolore che in tutto il mondo ci fanno onore ?Ascolta bene amara Terra: è ora di smetterla: dagli un taglio e va da un’altra parte a movimentare il tuo pentolone dove non c’è anima viva.Che non ti venga mai più in mente di ritornare a farci un tale scherzo, all’improvviso; come schiaffeggiare una persona, così dall’oggi al domani, solo perchè siamo tranquilli e non ci lamentiamo mai noi Reggiani.

* Fatto per la prima volta nel Reggiano poi passato ai vicini Modenesi, non so spie-gare il motivo

Page 41: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 41

Al merel e al pètt ròss

Al paseva tut i de stè prèten zo per la streda ed’S.Bernarden, al steva a la man e l’era corèt,però.... a un quelch don al feva dispèt.-Al n’è mea un sgnor s-l’è un ciclesta,ma, an n’è gnan un comunesta.Sè!,da ster che-l punt dal canel, quand al riva,ach pens mè:al mètt a la prova cal cornacc lèment-r-al va vers la stasion, al sorpass po-gh-dagh na lesion!!..,“ Bandiera ròsa” a tla fagh ascoltér,l’è tèra ròsa det-che an spol scaper.-Cul motiv lè s-cifle a brot grògn,al l’ha disguste c’mè s’l’es ciapè un pògn.L’è scatè sui pedei pò l’è tornee in tèsta,l’ha-lvee su-l cul e tiree su la vèstae pò-l g’ha molee un gran scorzon:“‘S’vèd che-l merel l’er-anch-un volpòn”,-tin strèch pettirosso ‘d’S.Bernarden,l’è tua e di to compagn dal Crèmlen.-A stè pov’r òm, a ghè gnu da sigherper la figura che al g’ha fat fér,talment al s-nè tot e inghigneeal g’ha det ‘d’la robasa a lòa tut al Clero e al so Vatican,che i’en sol di leder e dal spèi ed i’American.Cun ste insult grave e immorel,l’ha pers al contròl anca-l-Clerichel.I’abitant ieren fora, eren cors tut in stredae i’han vèst e sentii com-l’er-andéda.Quand in voléda ien rivee in stasiònpolvrent sudorent, an parleva nisòn,stòff sfinii i lanseven c’mè i can,i’en smunte zò, spolvre i vistii guardee in d’i’occe de la man.Perdend la voleda ho imparee ‘na lesion:in fond in fond’l’m’ha insgne ster al mond.Mai piu cun di Pret ‘na competision,perchè ment’r-i povrèt i lavorenlor i magnen i capòn !

Morale:Bandiera ròsa,un bel scorzon,una volèda dal canel a la stasiòn.

Proverbio: Pret in capèla,novitee bèla.

Page 42: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 42

Page 43: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 43

Il merlo e il pettirosso

Passava tutti i giorni quel pretino giovane in bicicletta, per la strada di S.Bernardino. Manteneva la sua destra (fin troppo asseriva un’osservatore), nonostante fosse serio e corretto, a qualcuno faceva dispetto. Se usa la bicicletta per spostarsi, pensava, non è certamente un ricco, però sicuramente non è neanche un comunista e sta dalla parte dei signori. Lo metterò alla prova mentre va verso la stazione e voglio fischiettargli in un orecchio Bandiera Rossa durante il sorpasso, così imparerà anche un pò d’educazione visto che mi incrocia spesso ignorandomi. Si dà il caso che il merlo, fosse anche un volpone più di quanto ci si immaginasse, tantè che quando venne sorpassato a tempo di... marcia, fece uno scatto, balzò in testa poi si alzò sui pedali si scoprì le chiappe, e ...trombò in faccia al malcapitato senza resa al mittente, aggiungendo: è tutta tua e dei tuoi amici del Cremlino, pettirosso di S.Bernardino. La robaccia che gli è stata attribuita Dio solo lo sà. Dalle maledizioni a lui e al suo Vaticano, incolpandolo d’essere una spia al soldo degli Americani. Poi continuarono a rincorrersi in silenzio, mentre gli abitanti del caseggiato vicino, chiamato non so il perchè Borgo Emilio, corsi in strada videro e sentirono tutto dall’a alla z e seppero così dell’accaduto. Il compagno fece brutta figura e se ne offese alquanto, come pure il religioso (clericale), per l’inaspettata sorpresa.Giunti al capolinea in stazione, si fermarono per riposarsi, tutti impolverati perchè la strada non era ancora asfalta-ta, si strinsero la mano senza vinti nè vincitori appena scesi dalle biciclette prima di accingersi ad asciugarsi il sudore che scendeva copiosamente e spolverarsi.Caro il mio pretino La ringrazio per la risposta alla mia presunzione, in fondo in fondo mi ha insegnato le buone maniere per stare al mondo e non farò mai più con un prete una tal competizione, soprattutto in bicicletta, perché io sono indebolito e stressato come tutti i lavoratori, mentre Voi ingrassate e irrobustite a suon di capponi, come faranno sicuramente i vostri prelati in Vaticano.

Page 44: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 44

I bias cas feva la nona. La nona la-s-feva i bias a noeter ragas,-In fond in fond in eren pò eter che i’antenatid’iodieren omogeinizzati.-La biaseva i grosten’d panda ster sduda in dal scranone còi du dii d’na manla-i- pogeva sul grumbialon.Per contenter tot quant,la feva-l-”col longh”...,povrèta,seg-sugheva-l canalòs, cun la testa c’mè-n sambotl’andeva sù e zò,come un ch’an dis mai ‘d-nò.Quanti sacrifési sol p’r-amorsensa mei feres pagher, mai avuu ‘d-pretesi,cun nov ragas e desdot man semper tesi.Provel a immaginerquanta brisa e quant grostenc’nal zunzei e sol un dentl’impasteva, pian pianen.Al tort c’a gheven, l’era sol d’èser povrèt,ma la fam l’è uguela per tut, brut o bèi, pulii o melnèt, sgnor o povrètanch s’a s’eren di brut vilan, di contaden,as sentev’n’orgoglios e as vreven tant ben,e se despès a spuseven de stala, opure ‘d-sudor,an-n’era mea un motiv d-disonor,e sun sicur che nison, propia nison, preva dir c’à spusesen ed coion!

Mia nonna, ci faceva le palline col pane masticato, impastandole con la saliva, per me e gli altri ragazzi , (i miei cugini componenti la stessa famiglia). Dette palline, non erano poi altro che gli antenati degli odierni omogeinizzati. Li mangiavamo volentieri e ci dispiaceva alquanto finirli, sapevamo che erano un nostro prezioso nutrimento. Masticava i pezzi di pane, togliendo dalla bocca, con le sue stesse mani, le palline formatesi e le deponeva nel grembiule steso sulle ginocchia, seduta stante dal suo seggiolone. Masticarne per tutti, faceva il collo lungo (come si usa comunemente dire), perché arrivava al punto di non avere più saliva sufficiente per amalgamare il boccone cosicché era costretta a beccheggiare con la testa e il collo, coi movimenti tipici di chi si ingozza. Tutto questo lo faceva per amore, senza compenso, senza nulla pretendere, purché crescessimo sani e felici. Pensate che rosicchiava il pane con un solo dente canino facendo miracoli poveretta; figuriamoci, a quei tempi con nove ragazzi e diciotto mani tese... Eravamo poveri, sì: brutti villani, e contadini, però ci volevamo infinitamente bene, consci di puzzare di stallatico, ma mai e poi mai di coglione.

Proverbio: Gustand col c’à ghè, as magna c’mè un Re.

Page 45: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 45

Page 46: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 46

Quand-deven l’acua a l’ova

Om, dòni e ragas, tuti quant mobolitee per i’uter cun gambi e brase cun forsa d’volontee. A bilancer al pez dal bazel portee in spala du s-cin pin, o du laton, un din-cò, in spicolone s-doveva fer la spola tra la bòta e la cariola.Pin d’acua per la vida armes-ceda cun fadiga,cun ‘na sapa a forsa ‘d’bras in carera al carias.Chi cucéva la cariola ‘l’gheva anca da pumper,chi tgneva inveci-l zèt, tache ad cò-a-un baston, sòt ed sover ben a pièt, al bagneva tut i plon.L’impègn ‘d’porter da bever:spèsi volti a g-leva-l dòni cun un bel piston pin ‘d-vene ‘na fiasca colma d’acua tgnu quacee e bagnee ben,cun d’l’erba fresca, o dal fene-i ragas un po più cech, davanti ai boo cun un cavècc.Stabiliva al resdor, come e quand fer i lavor,sas droveva serietee, l-risultet l’era scunte;col so motto semper prunt a tu per tu, quand tegh-ser ‘d-frunt:- tùti a tirer al car, tùti a magner al gal- .

Quando si irrorava la vite col verderame,o “poltiglia Bordolese”. Uomini donne e ragazzi, tutti quanti mobilitati a collaborare con braccia e gambe e con tanta forza di volontà. Con un’apposito palo arquato (chiamato bazel) sulle spalle con all’estremità due latte, (contenitori cubici da 20 litri per petrolio lampante o, ocelina o ucelina, era poi una marca di una ditta commerciale petrolifera. All’interno erano stagnati e non arrugginivano e per questo si usavano anche d’inverno, quando si uccideva il maiale, per conservare lo strutto per l’annata, in mancanza dei “tregn”, vasi di terra cotta smaltati con due manici a orecchio. Si faceva la spola avanti e indietro dalla botte al carro (carias: un carro agricolo da cui si smontava il letto soprastante per inserivi l’apposita botte cilindrica, usata sia per il verderame, che per trasportare e spandere il pozzo nero), ferma sulla carraia, dove si teneva continuamente mescolata, di solito, con una zappa e a forza di braccia. Chi spingeva la carriola, aveva anche il compito di pompare la poltiglia, affinché chi usava la canna con l’apposito ugello a ventaglio, potesse irrorare in modo seguente le frasche della vite, soprattutto nei punti in cui si formavano i grappoli. L’impegno di dissetare i lavoranti, toccava alle ragazzine. In due affiancate sorreggevano una grossa sporta di pàvera, (erba palustre), con dentro una fiasca d’acqua e il pistone del vino ben coperti con erba fresca e bagnata per mantenerli freschi (questo sistema era ”niente po pò di meno che”: il principio della borraccia Sahariana: “evaporando, l’acqua, scaldandosi, si porta via le calorie in eccesso; ca-pito i “villani” cosa sapevano ?) Ai maschietti, invece, spettava il compito di tenere a bada le mucche o i buoi, standovi davanti con un bastone in mano. Era obbligo del capofamiglia, dove vigeva, serietà ed obbedienza al comando,stabilire, come e quando fare le cose, assegnandone poi i compiti a chi di dovere, non risparmiando a nessuno il suo motto: “tutti a tirare il carro, tutti a mangiare il gallo”.

Proverbio: S-as près fer d’i’amzederc-va-l cèso sensa magner,i padron i’à faren a cadena,o, i’à faren fer.

Page 47: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 47

Page 48: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 48

Al baraten

Solament ch’a strèca iocc a distansa ed sinquant’an, al vèd incòr river:vistii ed vlù maron,al breghi a la zuava,castòn ‘d’lana fin ai znocc e ai pee un per ‘d troclòn.Al riveva dal carobi, col cavalen per man,al t’gneva-l mèz d’la stredatuta bianca e pina ‘d’nev,come ‘l’fès lo la strazedastè pès d’òm, stè muntaner,cun di sach sul caretenper gniri a barater cun i noster contaden,i frut dal so montagni:di sach pin cun dal castagni,turacc bon e bèi maronpari pez cun dal forment,dal patati o formenton.Tuti i’an, l’era puntuel:un po dòp S.Lucea,un po prèm ‘ch’rivèss Nadel.

Lo scambiatore di merce

Solamente che chiuda gli occhi a distanza di cinquantanni, lo vedo ancora arrivare con la giacca di velluto marrone,i pantaloni alla zuava, i calzettoni di lana e gli zoccoli di legno.Arrivava dal Carrobbio, tenendo per mano il cavallo battendo la mezzeria della stra-da bianca, tutta innevata, quasi volesse tracciare un sentiero libero dietro di sè per agevolare i nostri spostamenti, sto montanaro, tutto d’un pezzo.Sul carretto portava i frutti della sua montagna, come merce di scambio, con noi della bassa. Si trattava di turaccioli, castagne, marroni; in cambio di mais, frumento di farine varie e patate.Tutti gli anni era puntuale, a cavallo tra S.Lucia e la vigilia del Santo Natale.

Proverbio: Quand al ven an n’è piò most,al castagni-en boni a-rost.

Page 49: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 49

Page 50: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 50

I selta fos

L’era prest quand siòm rivee, ghera incora tut la guasa l’era là stè brota v-ciasa, coi pagn bagn in spicolon la-i-stendeva sul filon:-Delinquent e lazaron !-l’ha cumincee a sbrajer ch’s’er’n-icora adree river,-an ghii gnan un po ‘d’rispètt per i’ansian e per i vècc,a si tut ed jignorant, di balos, di selta fos !-Adèsa basta !, hom rispost:quand a gnii per robèr l’òva, t’gniv in ment d’salter’l- al fos:as vanseva d’romprers l’asa, d’ander zo in dal canalen,e-d-bagneruv come un’oca, da-i sgarlèt fin al còpen.E penser c’la s’arc’mandeva c’mè s’la fùsa roba sua:-ien i’oslen ch’a-v-magna l’ùva,bisògna cas-s-ciflèdi e ch’à fedi un mocc’d-fracas, i me brev e bon ragas!-.S’era gnu al bocaroli, ghev-n-i laber tut rustii,ma -l-tirèli al gneven vodi e noter piò avilii.Al s’à dèt un vecc per ben, testimoni oculer, c’l’era un saggio ed còi fat ben, -Un consèli v’al vòi der,av vin mea al sospèt d’fer per gninto tant casen?Storei, merei e tut i’ozlen, in van mea avanti a pièt !,c-fà da punt ai du confin, ‘d’sov’r-al fos a ghè un’àsa,agh fe-n tai cun al resghin,andee zo fin a metee e pò dop a la gireee d-sicur che-l prèm c’fà-l pas al ghè-r-magn atach al grase d’matena i me putèi impare c’rasa d’ozeiich’av magna l’uva in dal tirèlie i mètt’n-a scher i gramosten in mèz a l’era cun al pèli.-Infati acsè l’è andéda. Dop d’alora an n’hom piò vest la so èra imbandida con i frut d’la nostra vida.E cun l’ùva ‘d’Subazlen, l’han n’ha mei piò fat dal ven,nè dal “sugh” e gnan d’la “saba”, ancor meno di “savor”,ringrasiand al vecc per ben, p’r-al coragg e-l so bon cor.

Quando noi siamo arrivati la vecchia arpia deambulante era ancora intenta a stendere su un’apposito filo teso i panni ad asciugare. “Delinquenti, lazzaroni”, ha cominciato ad inveire, appena ci scorse, non avete pietà nemmeno per i vecchi, ignoranti balordi e salta fossi. Adesso basta rispondemmo.- Quando ritornerete a rubare l’uva ricordatevi di saltare anche voi il fosso, così evite-rete di cadere in acqua per la rottura dell’asse e bagnarvi da capo a piedi-. E pensare che spesso si raccomandava, con falso bonismo,come se si trattasse di roba sua, di fischiare piu forte e fare tanto chiasso se no gli uccelli vi mangiano tutta l’uva. A tutti noi, si erano arrossate e screpolate le labbra, con le ragadi ai bordi della bocca a forza di mettere in atto i suoi consigli, mentre sparivano sempre più i grappoli dalla vite e noi sempre più avviliti. Un bel giorno il saggio, testimone oculare di quanto ci succe-deva, persona di quelle fatte bene, stanco del continuo turlupinio al quale eravamo sottoposti, ci disse: ragazzi voi pensate propri che gli uccelli quando mangiano l’uva stacchino anche le graspe e le portino a seccare sull’aia della dirimpettaia? Allora se

Proverbio: Tanto va la gatta al lardoche ci lascia lo zampino.

Page 51: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 51

volete le prove di tutto ciò, ascoltate quanto vi dico: dovete prendere quell’asse che fa da ponte alle rive sul fosso tra i due confini, tagliate trasversalmente lo spessore fino a metà con il seghetto, poi rigiratela col taglio sotto,in modo che non si veda. Di sicuro domattina saprete chi è il merlo che vi ruba l’uva e poi mette ad essicare i resti sull’aia in bella vista. Infatti così fu e da allora non abbiamo più visto l’aia imbandita coi prodotti dei nostri campi. Con la frutta e l’uva di Subazzoli non solo non ha più fatto il vino, ma nemmeno il sugo, ne il sapore.

Suggerimenti per fare i sughi d’uva, i saporil’aceto balsamico e la saba in casa

Il sugo d’uva, si ottiene schiacciando gli acini per bene, poi con un colino si separano i vinaccioli e le pelli e tutte le impurità. Si porta in ebollizione continuando a schiumare, indi, si aggiunge quel tanto di farina bianca (un cucchiaio da tavola, ogni bicchiere da un quinto di mosto), sufficiente per fare una crema densa che poi solidifica nel raffreddarsi.La saba: Si prende il mosto ottenuto dalla pigiatura, lo si filtra attentamente con un colino fine, o meglio ancora con un canovaccio, poi si fa bollire affinchè due terzi se ne siano evaporati. (Un modo empirico, ma sicuro, per sapere il punto giusto di cottura, usato spesso dalla resdora, consisteva nel versare una goccia di liquido sull’unghia del pollice, se rimaneva unita e non si spandeva, voleva dire che la saba era cotta al punto giusto), il rimanente lo si lascia raffreddare poi si conserva in appositi con-tenitori, meglio se di vetro a chiusura stagna. Un tempo d’inverno, si serviva come secondo piatto, sul pane o con la polenta arrostita e perché no, anche per preparare granite con la neve fresca. Con la saba si preparavano anche bibite dissetanti ag-giungendola in piccole dosi all’acqua fresca.Con lo stesso procedimento della saba si può fare anche l’aceto balsamico. Basta mettere la terza parte rimanente del mosto a riposare, lasciandone depositare i sedimenti, poi si versa in una damigiana e si lascia inacidire possibilmente al caldo. Attenzione però che il livello non superi la metà del contenitore, per permettere una buona ossigenazione, affinchè gli appositi enzimi si sviluppino meglio e trasformino il tutto in acido acetico.Il “sapore” (al savor): Si prendono diverse qualità di frutta comprese le mele cotogne e volendo anche del mosto, poi si fa bollire per diverse ore, anche un giorno addirittura, fino a quando si è ottenuta una marmellata abbastanza solida e consistente. Una cosa molto importante per tutte le operazioni di cottura di detti prodotti: quando si effettuavano dentro ai paioli, o alle pentole di rame, se non erano stagnate, era usanza metterci una chiave di ferro, (di solito quella grossa del portone principale), affinchè neutralizzasse il sapore di rame che contaminava il sugo, la saba, o il “sapore”. Fino a che punto tutto ciò fosse veritiero ed efficace, non sono in grado di provarlo, però funzionava. Di sicuro sò, che usare un bel cucchiaio di bicarbonato di soda come si fa ora, l’effetto è garantito, essendo un buon neutralizzante.

Page 52: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 52

Page 53: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 53

La barberea ‘d’Caméel

Davanti a Bacaran, voltéda vers la stréda, ‘na baraca fata ‘d’lègn, c’l’era vècia e mel andeda, ed dodez meter queder, al sostgneva-l-seo Peder. Entrer’gh’in barberea,as-paseva apena apena, perchè la so portenal’era strèta cas-sà mea.A l’inter’n-un taca pagn, cun d’sòta un porta ombrèli,tre scrani p’r-i client, cun i sedii d’asi: bèli.I cavii cun ‘na granera, in un mucc in dal canton,‘na fnèstra a do anteni, al tècc fat cun di còp bon.Sòta-l spècc do mensoleni cun i’usvéii dal so mester:una broca un caldaren,tut didlent un per ‘d-bicer, d’fianch a lor un lèter ‘d’ven.Da Camèlo ‘d-Pisarola, “Figaròo ‘d’S.Bernarden”.Col cal v’deva al gh-feva gola,l’era leff come un cagnas, al magneva un tant al braspò-l spiantéva du dii in gola.Tra ‘na d’buda e ‘na magneda, l’ocasion per ‘na cantedae in dal mèz anch ‘na piseda.Al spècc fissee al center, l’era tanto fumanent:da ster sdu in d’la poltrona, guardér menter al-toseva,‘l’t’feva gnir un sveniment:‘t’sembrev n’eter cat-guardeva!.Anebiee dai trop quarten,i so occ i feven scur,da i znocc, ander in su, l’era semper insicur,gh’era ‘l-rèscc d’un quelch tàiten:un contròl davanti al spècc l’er’un tèst per zov’n-e vècc.Dòp finii la prestasion cun la bòca pina d’acua as proveva a fer presiòn,se per ches la feva dan, ‘d-tamponev coi dii dal man,perchè alora i cèrot, as-siinsonieven anch ed not.Come tanta gent c’mè lor, tut onest e galantòm,cun l’umor c’và su e zò eren più ed’còl c-pensòm,(pér’l ed còi d’S.Bernarden,schiavisee dal bicer ‘d’ven).Col ‘d’pugners-al nez de spèss,perchè ‘alveven su ‘l-»gombèt»,gnan pensér ch’i fùsen fèss !,Un astèmio per esempi,erel semp’r-acsè perfèt ?

-Tutti mi vogliono, tutti mi chiamano, sono un barbiere di qualitàquand’ho bevuto a sazietà...........-.A imiter i Tajaven (Franco e Ferruccio)cun l’ugola sincerament,al s’la caveva abastansa ben.

Proverbio: L’ezen c’l’ha fam, al-s-contenta d’ogni stram.

Page 54: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 54

Page 55: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 55

Camillo Tondelli barbiere di S.Bernardino

La barberia era ubicata nel piazzale antistante il fabbricato di proprietà della famiglia Baccarani che gestiva contemporaneamente al negozio di generi alimentari, anche l’osteria, punto d’incontro molto importante e considerato a quei tempi, sia dai residenti che dalla gente di passaggio. Era diventato un posto nel quale si doveva per forza fare una tappa, ristorarsi e scambiare quattro chiacchiere in compagnia. S.Bernardino...... era “S.Bernardino”.Detta baracca fatta d’assi di legno, era rivolta ad est verso la strada principale. Era vecchia e malandata, di dodici metri quadri, più o meno, di superficie, cosi sosteneva il sig. Bigi Pietro (“seo Peder”, factotum molto attivo e utile nel borgo).All’interno un piccolo attaccapanni, sotto un porta ombrelli, alcune sedie per i clienti col sedile ligneo, abbastanza belle. I capelli recisi, in un mucchietto nell’angolo assieme alla scopa di saggina, una sola finestra a due ante e il soffitto con tegole vere (còp).Sotto lo specchio, all’interno, due mensoline per i ferri del mestiere, una brocca, un secchio e un paio di bicchieri con le impronte delle dita, con a fianco come guardia del corpo, una bottiglia di buon lambrusco della casa.Camillo Tondelli il Figaro di S.Bernardino, era goloso come un mastino, tutto ciò che vedeva di commestibile, lo tentava, e, a forza di trangugiare, era poi costretto a infilarsi due dita in gola per togliersi il peso dallo stomaco; sicchè tra una mangiata, una bevuta e una romanza, alla fine si faceva anche una bella pisciatina. Lo specchio fissato alla parete interna, di fronte alla poltrona, era talmente offuscato e deformante che a chi si guardava mentre gli tagliava i capelli, gli sorgeva il dubbio di assomigliare a un’altra persona.Annebbiati dai troppi quartini di vino, ad un certo punto, i suoi occhi vedevano malamente e dalle ginocchia in su il resto del corpo diventava insicuro, col rasoio in mano. (Era sorprendente l’abilità e la velocità con la quale affilava la lama del rasoio nel palmo della mano, o sulla coramella, anche quando sembrava inidoneo).Un controllo davanti allo specchio, con la bocca piena d’acqua era un test consiglia-bile per i clienti pazienti; facendo pressione si potevano scorgere eventuali perdite.Se malauguratamente così era, con la punta delle dita o un ferma sangue si com-primeva finche non si fosse coagulato, perchè i cerotti c’erano sì nelle farmacie, ma secondo una nostra mentalità era merce da “americani”.Com’era lui, purtroppo, c’erano anche altre persone, più di quante immaginassimo, tutti galantuomini e onesti, ai quali lo stato d’animo oscillava perché schiavizzati dal bicchiere di vino, (parlo dei S.Bernardinesi) alzando spesso il gomito. Non era neanche da pensare che così facendo fosse gente di poco rispetto, anzi, tutt’altro.Siamo proprio certi che una persona, solo perché è astemia, sia sempre perfetta in tutto?

Page 56: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 56

Vint’an com’in luntan

I me dzeven da putèll: t’in dev magner di grosten d’pan sat vo ch’riva prest vint’an.Vint’an, in riveven méi,ho cuntee i dè, i mez e i’ane un bel gioren finalmenttra un det e un fat,acsè pian pian,ho cumpii i me vint’an.Dòp ed poch: un’eter vint,ma in mete tempe an min sun mea acortc’l’è stee un tradiment.Vot scomèter, ch’a riv as-santaprèm d’rendrum cuntch’à n’hò già cumpii sinquanta ?... e s’ha fus ande più pian a magner i grosten ‘d’pan !

Vent’anni come sono lontani Mi dicevano da ragazzino, ne devi mangiare dei crostini di pane, se vuoi che arrivino alla svelta e al più presto vent’anni. Infatti i vent’anni non arrivavano mai, facevo la conta dei giorni, dei mesi e degli anni, poi un bel giorno finalmente tra un detto e un fatto, mi sono trovato a compiere i miei vent’anni. Dopo poco altri venti, ma in metà tempo, senza accorgermene, quasi fosse stato un tradimento. Vuoi scommettere, ho pensato, che arrivo a sessanta senza rendermene conto che ne ho già compiuti cinquanta ? Non era meglio che fossi andato più piano a mangiare sti benedetti crostini di pane?

Proverbio: Scampa cavalche l’erba la crès.

Page 57: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 57

Page 58: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 58

La batdura in piasa a Novalera

Che meravea vèder tut ste furmigher a Novalera l’ot ed lui d’l’otantequater per ricorder incòra l’uz dal med’r-el bater,còi mez d’alora e l’esperiensa ed chi-l sà fer.as vèd propia che a ghè la volonteed tut i’abitant , che cun bravurai doben i negosi per la batdurafedeii a la tradision ed i’an pasee.Ghè pin ed gint tanta umaniteegnuda per l’ocasion da la siteea vèder come s’féva dal spighi ‘d’formentsepareregh l’esensa p’r-al noster nutriment.Infati i più ansian ien sodisfat cas sà meai tornen col penser indre in dal tempcun tanta nostalgea,cuntent anch dal progrèss ch’i-à libereed’un lavor dur ,òmil e mel paghee.N’etra categorea ed gint ‘d’meza eteealora ragas,ma al bater l’han pratiche. Per pagher’s i vèsi ,durant l’ora ed la gabanèlai cateven su-l forment c’a ghè-rmagneva in tèra,o dòp d’aver picee i cov un a un cun un bastonprèm ch’i rivèsen insèma-l trabatoi,sperand ed ferla franca cun al milit e c’n-al padronI zoven, al dòni, i vècc e i’amigh in compagneai’en tut content e i sbrasen prèma d’ander vea.Ad red’r-insèm tut quant, pochi volti è capitee ,las pol cunter insèma-i dii ‘d’na man sta raritee,perchè un quelch don ‘d’na cert’eteeadès al rèed, ma alora l’ha anch sighee.La dovu tirer la sèngia al s’è catee a la disperasion...l’era un operaio e al dipendeva spèss dal so padron.

Per la cronaca: In Piasèta, pan frèsch e gnoch frètt per sasiér al pòblich l’apetèt. Per sasierel a còi d’aloral’era compit ‘d’la Resdora ‘d’mèt’r-a coser a la matena,n’oca un nader e ‘na galena.

Proverbio: S’a piov per S.Cassian:più meel, mòst e gran.

Page 59: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 59

Page 60: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 60

Trebbiatura in piazza

Che meraviglia vedere tutto sto formicaio di gente in piazza a Novellara l’otto Luglio 1984, per ricordare ancora l’uso e il modo di trebbiare il grano, con i mezzi d’allora e l’esperienza degli operatori che si sono prestati abilmente.Si è notata anche la volontà non solo degli organizzatori ma anche di tutti, i cittadini e gli esercenti che hanno collaborato addobbando con bravura i negozi affinché la tradizione fosse rispettata fedelmente. C’è tutto esaurito, tutto pieno il paese di gente che con tanta umanità sono è venuta per vedere e rivedere come si separano i chicchi di grano dalle spighe per ricavarne il buon pane, nutrimento essenziale. Infatti i più anziani erano doppiamente soddisfatti; primo perché col pensiero tornando indietro nel tempo, si rivedevano ancor giovani; secondo, perchè si erano liberati d’un lavoro pesante a volte umiliante e spesso mal retribuito. Un’altra categoria di gente di mezza età, allora ragazzini, che però ricordano perfettamente il sacrificio dei loro genitori e anche il loro, perché non stavano a guardare, ma collaboravano al bilancio familiare. Uno degli espedienti, diciamo, per pagarsi i vizi, era quello di raccattare il frumento che si spandeva a terra o sul fienile, magari dopo aver battuto con dei bastoni sulle spighe, di nascosto naturalmente, all’insaputa del milite, se era tempo di guerra, o del Fattore o caporale fiduciario del padrone. Poi si metteva assieme al resto che si riusciva a reperire con la spigolatura nei campi dopo la mietitura. Col ricavato pur essendo estraneo al bilancio familiare, si compravano un paio di scarpe, o degli indumenti per i più grandi ,che poi si passavano ai più piccoli man mano che si cresceva. Raramente restava qualcosa per andare al cinema o a ballare. È successo anche questo, almeno a casa nostra. I giovani, i vecchi, le donne gli amici, prima di congedarsi dalla festa si salutano calorosamente con abbracci sinceri. Contenti come non mai d’essersi ritrovati in un’atmosfera sincera e famigliare perché sono rare purtroppo le occasioni in cui ciò può avvenire. Annualmente direi che si possono contare sulle dita di una mano. Qualche persona di una certa età, ora ha riso in mezzo a tutti nella rievovazione, però ai suoi tempi non era raro che dovesse piangere per le umiliazioni e le ingiustizie subite, dovendo tirare la cinghia, in quanto dipendente, doveva sempre rispondere signor sì, ed accettare il salario con le mani dietro la schiena.

Per la cronaca: pane fresco e gnocco fritto per saziare al pubblico l’appetito, ma per saziarlo allora, agli addetti alla trebbiatura, era compito della resdora, mettere a cuo-cere alla mattina in una capiente pentola, un’oca, un’anitra e una gallina.

Page 61: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 61

Anno 1987, decim aniversari d’la (batdura a l’antiga) in piasa

Ai Quater Castee, per Matilda e Enrico Quertsu un punt un mucc d’imperti castelan, is dan dal bot-da can.A Siena, coi dal cuntredi i garègen coi cavai, is còr’n-adree in piasa e is dan dal gran narvedi.Novalera, l’è negheda per ste gloriada rievocherg-acsè la storia.Per guadagner’s al viver, la pensa più lavore al soo carater: an n’è mei stee còl ed vrer combater.La fà vèder bat’r’al forment in piasapò lag-fà-l pan incòr col manrievocand cun umiltee la storia vera,c’mè-l’ariv dal-rondaneni in primavera;i grasoo freschc in dal parol,al gnoch frét , la sigoleda, legerment saleda,al bacalà fat cun la colache cunter’l-al-per ‘na fola,al cazer cos’r-al formai,al manischelch frer i cavaie i mester più impensee, ma fat tut con serietee.

Per la cronaca: L’idea l’è neda a un grup d’Anvalaren, l’an dòp dal stantesèt; i s’in voje su ‘l-mandghi e p’r-an creer nemigh e aversari, i partii i’han saree in un casèt e st’an ‘s-festègia al decim aniversari.

Anno 1987, decimo anniversario della trebbiatura in piazza

A Quattro Castella, gli abitanti, con quelli delle frazioni limitrofe, si fronteggiano e ga-reggiano a squadre con prove di forza, su un ponte, per ricordare Matilde di Canossa ed Enrico Quarto. A Siena i contradaioli all’interno della piazza, si contendono il Palio con i cavalli, a colpi di frusta, pesantemente. Novellara invece, è negata per questi tipi di rievocazioni storiche. È più propensa a dimostrare cosa e come facevano in passato, a guadagnarsi la pagnotta per vivere, perché come carattere è più incline al lavoro che a combattere. Fa vedere ai partecipanti alle manifestazioni, come si trebbiava il grano, poi fa il pane manualmente e lo cuoce all’istante negli appositi forni, costruiti per l’occasione, con la legna. Rievocandone la storia vera, dal vivo, crea un’emozione come l’arrivo delle rondini che annunciano la primavera. Coi ciccioli freschi nei paioli, il gnocco fritto, la cipollata, il baccalà con la colla, il casaro che fa il formaggio grana Reggiano (perchè è Reggio il suo padrino), ecc.; poi i vecchi mestieri dal fabbro, al maniscalco, al falegname l’impagliatore di sedie e tanti altri.L’idea è nata ad un gruppo di cittadini Novellaresi, apolitici, nel 1978, con grandi sacrifici e tanta forza di volontà riscuotendo un notevole successo, tant’è vero che molti paesi, ora, li imitano. Quest’anno si festeggia il decimo anniversario.

Page 62: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 62

Specialitee Arzani

“Pan fresch persòt, formai grana e lambrosch”. L’è un dét c’l’è vecc,c’mel pan dal còch e spol dir a elta vos,sensa p-cher ed presunsionche d’imiteri an n’è bon nison,in tut al mond ien i migliorper la bontee-el so savor.Al merit, ‘l-và a la tèra,e a tut la nostra gent.La risèta ‘d’ingredient?:Tanta vòia ‘d’fer: “unt ed gòmete al sèt camisi da suder”.Dal cheld dal frèd dal ventd’l’umiditee, ag-nè da per tut,per tuti, un po pron, a seconda dal stagion.Però sol che in d’la tèr-Arzanalas-trasforma in tanta mana.

Pane fresco, prosciutto, formaggio grana Reggiano e lambrusco, è un connubbio che si perde nella memoria dei tempi talmente è vecchio. (In dialetto lo si paragona per la vecchiaia al “pan dal còch”, francamente non conosco il significato). Si può gridare ad alta voce, senza peccare di presunzione: per la bontà la fragranza e i suoi sapori, in tutto il mondo sono unici e i migliori, perché in nessun posto riescono ad imitarli. Il merito in parte va alla terra, il resto, alla nostra gente. La ricetta degli ingredienti? Tanta bravura, e altrettanta voglia di fare usando “Olio di gomito ”e la scelta di sudare le proverbiali “sette camice”. Del caldo. del freddo, del vento, dell’umidità a seconda delle stagioni, c’é n’é per tutti, in ogni luogo; però, solo in questa nostra terra Reggiana si trasformano in tanta manna.

Proverbio:La bòca l’an n’è mai straca,finchè l’an sà ed vaca.

Page 63: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 63

Sòta-l portegh ed la stala

I g’han de tot i contadensòta-l portegh ed la stala,comincer dal mocc dal fenfin a col dal bali ‘d’paia.In dal noster, al Stalon,a sinestra in dal cantonalpéra a l’elbi ed cimentcun al stanghi in spicolon,la birucuna e i filiment,soquant ligam e un quelch soghètcun la zerla e i’arvaroli,sui madon e sui travètdop, i zov e’l-burgagnoli.A bòca-bas alinee,i s-cin da monzer e-i malsaren,al s-cion dal lat ed ram stagneeinséma un stras cun al colen,un mucc ed cunchi mési ben ,che e là una malsarena,d’mèlga, d’erica, o d’sangonenae i forchee piante in dal fen.Al fioròm in un cantoncun la fèra e al rastèl,d’asven la gabia di capone-l cariol per al cazèl.

Sotto il portico della stalla

Si trova un pò di tutto, sotto il portico della stalla di un podere contadino. A cominciare dal mucchio di fieno, fino alla catasta delle balle di paglia. Dove abitavo, alla corte Stallone, a sinistra nell’angolo di fianco all’abbeveratoio in cemento, con le stanghe penzoloni, c’erano il calessino con i finimenti, alcuni legacci per i covoni (ligam), delle funi di canapa (soghèt), il timone per il doppio traino (zerla), e le cinghie dei gioghi (arvaroli che si annodavano dal giogo alle corna dei bovini da tiro, perchè non si disarcionassero). Questi erano tutti appesi a degli appositi tronchi di trave di legno murati sporgenti (madon), o a dei chiodi conficcati a dei travetti che reggevano il soffitto, poi c’erano i gioghi e le museruole metalliche. Rovesciati e allineati su delle panchine, i secchi per la mungitura, gli scovoli per la pulizia, il bidone del latte di rame, o di zinco stagnato, col colino, il tutto coperto da un canovaccio bianco, pulito. Allineate per bene, le conche (mastelli rettangolari di legno per servire l’impasto di sfarinati di cereali e sali minerali sopratutto per le mucche partorienti). In ordine sparso, le diverse scope d’erica, di saggina, o di altri cespugli legnosi spontanei, poi forconi e tridenti conficcati nel fieno, o nell’erba, a secondo delle stagioni. I fiori, i semi e e le foglie caduche del fieno (fio-ròm) in un mucchietto in un angolo, con la falce e il rastrello (non col martello), poi la gabbia con i capponi (il padrone doveva controllarne personalmente la crescita), infine il carretto per trasportare il latte al caseificio.

Page 64: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 64

Page 65: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 65

L’aluvion a S.Vitoria.

E’ stee dal sinquantun.Trest ricord, d’un november poch fortuneeche-l destin l’ha riserveea i paes-intor’n-a-Pò, compres Santa Vitoria.Chi s’al ricorda a ment e chi-l lèz sui test ‘d’la storia.S’rà stee una punision per canceler al traci ‘d’na civiltee Romana, tra Puii e la Biliana ?La s’rà ben steda ‘na coincidensa strana!al Mer l’era elt, al Po pin a manèta,al Canalas c-n-al Crostel i minaceven ment’r i cucevencun ‘na forsa brutéla per l’enorme presion c’me’na ciurma ‘d’pirata l’ha fat irusion quand l’erzen dal Cròstelin d’la not “misteriosa, “al s’è ròt ai Torion.Santa Vitoria Santa Vitoriate asistii silensiosa e impotente al drammaper la prema volta in d’la storia.T’è rivee l’acua a la gola, s’è sradichee i’elber,a s’è impantanee-l cà.Quand Dio la vruu, è ritornee la calma,e s’è ritiree l’acua, ma d’la fangheglia e-l pantan,agh n’era anca c’l’et’r-an.Cun vos unanime, j’abitant dal paes, j’an dét:che c-siòm nee, vea det che an g’hom d’ander,as voiòm su-l manghi e s-dòm da fer,per onorer la Santa, per canter Vitoria,per cunterel a la storia.

Era l’anno1951, triste ricordo d’un tragico e sfortunato novembre , che il destino riservò al comprensorio dei paesi limitrofi al grande fiume, particolarmente S.Vittoria e ai loro abitanti. Qualcuno, pessimista, pensò addirittura ad una punizione per cancellarne le tracce di una antica civiltà Romana, venuta alla luce recentemente, anche se vi erano testimonianze precedenti, tra Poviglio e la Biliana e la via d’Este. Sicuramente è stata una coincidenza strana, anche meteorologicamente, il fatto di trovarsi contempora-neamente l’alta marea, il Pò di conseguenza alto oltre il livello di guardia e il Crostolo, col Canalazzo suo immissario, riversavano enormi quantità d’acqua piovana, immagazzinando una spinta e una potenza tale, che all’altezza dei Torrioni si ruppe (in modo un pò strano) l’argine, poi con una furia da ciurma piratesca, allagò in poco tempo migliaia di ettari di terreno. S.Vittoria, S.Vittoria, hai assistito silenziosa e impotente al dramma per la prima volta nella tua storia, dall’alto del tuo campanile, quando fosti immersa dall’acqua fino alla gola; hai visto sradicare alberi, infangare e crollare case, restando impotente a test’alta dall’alto della tua nicchia a guardare coi tuoi bei occhioni in silenzio, ascoltando le voci disperate della gente, i lamenti degli animali e il rumore di quella enorme massa d’acqua e fango avanzare e distruggere inesorabilmente. Della stessa fatalità, furono testimoni come tè, gli altri Patroni dei paesi limitrofi. Quando il destino volle, tornò la calma,l’acqua incominciò ad indietreggiare poco a poco, lasciando dietro di sè, disperazione fame e freddo. Ci vollero anni prima che si normalizzassero le attività produttive e si rico-strurissero le case, perché gli abitanti decisero di restare nella loro terra. Con tanta volontà e coraggio, si rimboccarono le maniche ancor prima di chiedere aiuti e solidarietà, per onorare la Santa, per cantare vittoria, per raccontarlo alla storia.

Page 66: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 66

Page 67: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 67

La sòca nostrana

Per aver di malgas as dovevatajerg-al sèmi, plerg-al fòiie fat l’acord cnal padron,eren too, finii ‘d-cater su-l formenton.Dimondi, braciant e partidanti sercheven in d-i’aziendi ed fer ste contrat.In mancansa ed la lègna, alora, a fer fogh, as droveva i malgas.E’ sucès in dal Stansi, a una famea dal postment-r i stacheven vea-l fòi in dal mèz ed na piana‘d-cateer una sòca nostrana tacheda a la rama c’la feva-l vòi.-Mo Mama ! i’an det i putèi g’hom vòia ed tortèi!....,s’a-tulès’n-un giubètg-la logòm denter e la portom sòta-l lèt!--Per l’amor ‘d Dio, ha rispost la meder a-i ragas,an direl gnan sol per schers, sas nacorz al pdron al s-nega i malgas!-La vòia e la fam a chi temp la, is feven sentire, anch s-i saieven ed disobedir,in un det e un fat con un colp perfèt,al dé dop, l’era già al sicur sòta-l soo lèt.- Mama, quand’è c’a tes fee i tortee cnal sufrèt?--Eh i tortee ...agh vrè c’la sòca ch’a vò fat laser là!--alora, l’è gia in do i’hom dét che a cà,as siòm andee a torla ‘na matena ‘d bonora, i’even paura che un quelch-don la fess fora-.L’aj, la sigòla e i pomdor ien in d’l’ort,cnun pistaden ‘d’gras, las-s’rè la so mort;dai mama, as sià cunset cnal gras?--Am cree di penser cnal vostri vòii, oeter ragas:donch tra coser la sòca fer al sufrèt e dop cos-r i torteeagh vol più ‘d-na manèla ‘d chi malgasche a cateri su i san fat tant suder;e dòp st’inveren quand riva-l frèds’a drovia per feruv scalder?.

Page 68: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 68

La zucca nostrana

Per procurarsi i culmi del mais(malgas), si dovevano: tagliare le cime(fiore), le foglie (bràttee), previo accordo col proprietario del podere. Infine dopo la raccolta delle pannocchie, si tagliavano, si facevano le fascine (mannelle) e si potevano portare a casa avendone acquisito il diritto di proprietà.Molti braccianti agricoli a quei tempi e le famiglie di operai cercavano di fare questi accordi con le aziende agricole, o con i contadini del luogo, per procurarsi combu-stibili solidi, in sostituzione della legna, troppo costosa per i loro magri bilanci (più o meno fino agli anni 50-55).E’ successo nell’azienda agricola “Stanze”, a S.Bernardino, ad una famiglia del luogo, mentre appunto staccavano le foglie dai culmi, di trovare nel bel mezzo del campo di mais una rigogliosa zucca nostrana attaccata alla rama.Mamma!, hanno esclamato in coro i figli, abbiamo una voglia matta di tortelli, se nascondessimo la zucca in mezzo ad un indumento e la portassimo sotto il letto, che ne diresti? Per l’amor di Dio, non dirlo neanche per scherzo, se lo venisse a sapere il padrone ci negherebbe i malgas.La voglia di tortelli accompagnata dalla fame di quei tempi, prese il sopravvento e consci della disobbedienza, fu un tutt’uno il detto e il fatto:Con un colpo perfetto, la mattina dopo, la zucca giaceva di già sotto il letto.Passato un pò di tempo, i ragazzi rinnovarono alla mamma quando avrebbe esaudito il loro desiderio.-Eh! rispose, ci vorrebbe quella zucca che abbiamo lasciato in campagna--Allora guarda sotto il tuo letto, il colpo lo facemmo il mattino dopo dell’avvistamento,per la paura che qualcuno notandola, ce la portasse via.Ce li condisci con una battuta di lardo con dentro i pomodori che abbiamo nell’orto?--Mi create parecchi pensieri con le vostre voglie, figli miei. Dunque, tra fare il soffritto, cuocere la zucca poi i tortelli, immaginate quante mannelle di “malgas” ci vorranno?Poi quando arriverà l’inverno e farà freddo, cosa useremo per riscaldarci?

Page 69: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 69

Don Luciano P. e-l pit in loterea

Una festa, una segra sensa loterea,in un paes c-al vel,“l’è una mnèstra sensa sel”.Per l’ocasion al noster pret,l’eva escogitee un sistema segret, suo personel:“fer vinser quèl a ognun, ma-l prem premi a nison”“e, a forsa ed rester lè, un pit, l’era dvente-un piton”.An salteva mai fora, al biglièt dal prem estrat,l’andeva semper-a di distrat; e al don al rideva!,ment’ra-l dzeva un Pater e un’Ave Marea,la perpetua curiosa la ghe dmandeva:perchè adès rédel Perior, propria Lò che-l nè réd mai?-tal see che a réd cun j’Angei, adès tes e dagh un tai.Dòp ed’la mètee dal mes ed Magg,S.Bernarden, l’è-l noster sant,a la mèsa, l’è-l moment ‘d cateres insèm, tut quant.Al gheva prèsia ed finir per dir content che “nison ha vint al “pit”,a un cert punt d’la liturgea al moment ed-deres la manper scambier al sègn ‘d-Pace;l’è steda anca l’ocasion, de scolter la so pepetua:dal scolten l’ha fat un scat, come s-less ciapee un s-ciaf,e,”da la Pace è gnu la guèra”,acsè tra un det e un fat,l’ha sbatu tut quant per tèra:l’eva det chi eva vint al prèm:-s’an n’era mea per mè, al piton al s-rè incòra lè!-.Voltee vers i soo fedei più ignari, che informee:-lèè imposebil! l’ha sbrajee, al preton un po sgarbee:perchè-l biglièt a g-l’ho in cà mè, in d’la supera in dal bufè;- infati al m’è gnu in man, quand i’ho tot i piatda parcier per al disner,ha rispost l’ingenua Clove,e l’ho mess in mèz a chieter, in dal tregn, là sòta-l s-cer-.Dal màdoni, as-siòm sicur, che, al n’ha mea mai tiree,ma, s-l-ha ciamee per nòm, un a un, tut quant i sant, da vuder al calendari cun dent’r-anch S.Antoni, l’è stee perchè in dal stès moment,al cateva armes-cee ai fedei un quelch somari.

Page 70: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 70

Page 71: Quand al dialét l'era 'l pan di povret

pag - 71

Una festa paesana, o una sagra parrocchiale, in un sito piuttosto rinomato, non è al completo se manca di una lotteria; resta per così dire un pò una “minestra insipida”, meno folcloristica. Per tali occasioni, il nostro parroco don Pavesi, era un maestro, fin troppo oserei dire, perchè faceva sì in modo che in tanti potessero vincere qual-che cosa, ma, per il primo premio, finita l’estrazione, il possessore, o era assente, o inesistente. Lo scoprimmo poi in seguito il perché. Dopodiché rideva sotto i baffi e la perpetua notandolo, gli chiedeva lumi, del perché di tale euforismo; rispondeva che rideva con gli Angeli, perché soddisfatto, poi gli intimava ti star zitta. Il venti di Maggio, è il dì del Santo Patrono nostro, a S.Bernardino. Era anche un’opportunità, di ritrovarsi in molti in parrocchia e alla Santa Messa. Fu in una di quelle occasioni che era inquieto e faceva capire d’aver fretta a terminare la liturgia, per poi annunciare ai parrocchiani i nomi dei vincitori dei premi secondari della lotteria, corrispondenti ai numeri che un paio di collaboratori avevano estratto durante la Santa Messa per anticiparne i tempi. L’officiava in un latino stentato, poi man mano che procedeva con l’omelia, si udivano anche parole incomprensibili, personalizzate, forse mantovaniz-zate e bene o male, il “don”, era così. Nel momento in cui ci si scambiava il segno di pace, la perpetua, ne approffittò per annunciargli bisbigliandolo in un orecchio, il nome del vincitore del primo premio,”un bel tacchino”. Vantandosi pure del suo indubbio istinto, trovò un biglietto della lotteria nascosto dentro ad una zuppiera nel buffèt e lo mise immediatamente dentro l’apposito contenitore nascosto nel sottoscala. Altro che segno di pace, sembrava fosse scoppiata la guerra, talmente si era inferocito il don, tant’è vero che buttò per terra ciò che al momento aveva in mano, poi si voltò verso i fedeli, fra l’altro ignari di cio che gli aveva detto la Clove, assicurandoli che non poteva essere vero che il signor Balbi avesse vinto il tacchino. Proprio perché il biglietto vincente lui stesso lo aveva nascosto in cucina. -Infatti rispose la perpetua , lì l’ho trovato e l’ho messo dove ho detto-. Sicuramente non bestemmiò, per carità, però chiamò in causa un’elenco di nomi di santi, in un numero tale da svuotarne il calendario; fra i quali, S.Antonio, perchè a parer suo in quel momento, conscio di chi l’attorniava, per competenza necessitava il suo intervento.