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/ / 61 / / heri dicebamus / / / / mondoperaio 2/2009 >>>> heri dicebamus Questo saggio, che comparve su Mondoperaio del maggio 1985, riproduce la relazione di Bobbio al convegno sul tema “Quale riformismo” organizzato dal PSI a Bologna alla fine di febbraio dello stesso anno. Abbiamo chiesto di commentarlo a Michele Salvati, che in questi anni è stato fra i più tenaci sostenitori della prospettiva di un partito riformista in Italia. P rima di rispondere alla domanda che mi è stata posta, “perché siamo riformisti”, mi pare si debba rispondere a una domanda pregiudiziale: in che senso di riformismo pos- siamo dirci riformisti. Questa domanda pregiudiziale nasce prima di tutto dall’osser- vazione che anche “riformismo”, come tutti gli “ismi” politici (e filosofici) è un termine dai mille significati; in secondo luo- go, e soprattutto, dalla constatazione che, pur nell’ambito del- la medesima tradizione, che è quella del pensiero e della pras- si socialista, il riformismo di cui parliamo oggi non è proba- bilmente quello di cui parlavano i nostri padri. Mi riferisco, naturalmente, al riformismo socialista, che è quello che c’interessa. Ogni secolo ha avuto i suoi riformato- ri, religiosi, politici, economici. Il concetto di riforma è entra- to prepotentemente nella storia europea nella sua dimensione religiosa, prima ancora che nella sua dimensione politica. I principi riformatori del Settecento furono fautori di riforme politiche che erano riforme che venivano imposte dall’alto. Quando noi parliamo di riformismo ci riferiamo a riforme poli- tiche o economiche o sociali, non comunque religiose, e diamo per sottinteso che si tratti di riforme provenienti dal basso. Il riformismo socialista ha preso l’avvio e ha derivato il pro- prio significato storico dalla contrapposizione alla tradizione rivoluzionaria del movimento operaio. Affinché diventasse chiara questa contrapposizione occorreva che fosse penetrata nella coscienza europea l’idea di rivoluzione, intesa come rot- tura violenta e benefica di un ordine precedente, idea che non era emersa con nettezza prima della rivoluzione francese. La tradizione rivoluzionaria del movimento operaio si è identifi- cata in gran parte ma non esclusivamente con la storia del mar- xismo, o per lo meno con la interpretazione più diffusa e for- se anche più conseguente del pensiero di Marx, in un primo tempo, col leninismo in un secondo tempo. Ho detto “non esclusivamente” perché c’è pur stato un marxismo riformista, anche se bisogna riconoscere che l’apertura della via riformi- stica ha spesso avuto per conseguenza il graduale abbandono delle premesse marxiste. A ogni modo, se di un marxismo riformista è lecito parlare, leninismo e riformismo sono due termini fra di loro inconiu- gabili: parlare di leninismo riformista sarebbe come parlare di un circolo quadrato. Chi ritiene che il leninismo sia la natura- le conseguenza, in sede pratica e non soltanto teorica, del mar- xismo, è fuori dalla logica e dalla pratica del riformismo. RIiformisti e rivoluzionari Tra tutte le distinzioni di dottrine, o di correnti e di pratiche che si possono fare entro la storia del movimento operaio, quella storicamente più incisiva e più risolutiva, la distinzione che tutte le altre ingloba, è appunto la distinzione fra l’ala riformista e l’ala rivoluzionaria, anche se in concreto la distin- zione non è così netta, perché i rivoluzionari hanno spesso accettato, se non altro come fase preliminare, la fase delle riforme e i riformisti mai escluso del tutto in ultima istanza lo sbocco rivoluzionario. La ragione per cui si può coniugare senza contraddirsi il concetto di riforma con quello di rivolu- zione dipende dal fatto che per “rivoluzione” s’intendono, sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio più tecnico delle scienze sociali, due cose diverse. S’intende tanto la causa, la rottura violenta di un ordine costi- tuito, quanto l’effetto, la trasformazione radicale di un deter- minato assetto sociale. Non è detto che la rivoluzione come causa abbia la rivoluzione come effetto. Quale riformismo >>>> Norberto Bobbio

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Questo saggio, che comparve su Mondoperaiodel maggio 1985, riproduce la relazione di Bobbio al convegno sul tema “Qualeriformismo” organizzato dal PSI a Bolognaalla fine di febbraio dello stesso anno.Abbiamo chiesto di commentarlo a MicheleSalvati, che in questi anni è stato fra i piùtenaci sostenitori della prospettiva di un partito riformista in Italia.

Prima di rispondere alla domanda che mi è stata posta,“perché siamo riformisti”, mi pare si debba rispondere a

una domanda pregiudiziale: in che senso di riformismo pos-siamo dirci riformisti.Questa domanda pregiudiziale nasce prima di tutto dall’osser-vazione che anche “riformismo”, come tutti gli “ismi” politici(e filosofici) è un termine dai mille significati; in secondo luo-go, e soprattutto, dalla constatazione che, pur nell’ambito del-la medesima tradizione, che è quella del pensiero e della pras-si socialista, il riformismo di cui parliamo oggi non è proba-bilmente quello di cui parlavano i nostri padri.Mi riferisco, naturalmente, al riformismo socialista, che èquello che c’interessa. Ogni secolo ha avuto i suoi riformato-ri, religiosi, politici, economici. Il concetto di riforma è entra-to prepotentemente nella storia europea nella sua dimensionereligiosa, prima ancora che nella sua dimensione politica.I principi riformatori del Settecento furono fautori di riformepolitiche che erano riforme che venivano imposte dall’alto.Quando noi parliamo di riformismo ci riferiamo a riforme poli-tiche o economiche o sociali, non comunque religiose, e diamoper sottinteso che si tratti di riforme provenienti dal basso.Il riformismo socialista ha preso l’avvio e ha derivato il pro-prio significato storico dalla contrapposizione alla tradizionerivoluzionaria del movimento operaio. Affinché diventassechiara questa contrapposizione occorreva che fosse penetrata

nella coscienza europea l’idea di rivoluzione, intesa come rot-tura violenta e benefica di un ordine precedente, idea che nonera emersa con nettezza prima della rivoluzione francese. Latradizione rivoluzionaria del movimento operaio si è identifi-cata in gran parte ma non esclusivamente con la storia del mar-xismo, o per lo meno con la interpretazione più diffusa e for-se anche più conseguente del pensiero di Marx, in un primotempo, col leninismo in un secondo tempo. Ho detto “nonesclusivamente” perché c’è pur stato un marxismo riformista,anche se bisogna riconoscere che l’apertura della via riformi-stica ha spesso avuto per conseguenza il graduale abbandonodelle premesse marxiste.A ogni modo, se di un marxismo riformista è lecito parlare,leninismo e riformismo sono due termini fra di loro inconiu-gabili: parlare di leninismo riformista sarebbe come parlare diun circolo quadrato. Chi ritiene che il leninismo sia la natura-le conseguenza, in sede pratica e non soltanto teorica, del mar-xismo, è fuori dalla logica e dalla pratica del riformismo.

RIiformisti e rivoluzionariTra tutte le distinzioni di dottrine, o di correnti e di praticheche si possono fare entro la storia del movimento operaio,quella storicamente più incisiva e più risolutiva, la distinzioneche tutte le altre ingloba, è appunto la distinzione fra l’alariformista e l’ala rivoluzionaria, anche se in concreto la distin-zione non è così netta, perché i rivoluzionari hanno spessoaccettato, se non altro come fase preliminare, la fase delleriforme e i riformisti mai escluso del tutto in ultima istanza losbocco rivoluzionario. La ragione per cui si può coniugaresenza contraddirsi il concetto di riforma con quello di rivolu-zione dipende dal fatto che per “rivoluzione” s’intendono, sianel linguaggio comune sia nel linguaggio più tecnico dellescienze sociali, due cose diverse.S’intende tanto la causa, la rottura violenta di un ordine costi-tuito, quanto l’effetto, la trasformazione radicale di un deter-minato assetto sociale. Non è detto che la rivoluzione comecausa abbia la rivoluzione come effetto.

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Così come non è detto che la rivoluzione come effetto siaprodotta da una rivoluzione come causa. I riformatori han-no sempre avuto la convinzione (o l’illusione) che un pro-cesso prolungato di riforme fosse in grado di evitare larivoluzione, hanno in altre parole creduto che si potesseavere la rivoluzione come effetto senza ricorrere alla rivo-luzione come causa.

Le due antitesiLa distinzione fra l’ala riformistica e l’ala rivoluzionaria delmovimento operaio è stata indubbiamente rilevante nella sto-ria passata.Ma è altrettanto rilevante anche oggi? Il criterio di distinzionetra riformisti e rivoluzionari è da ricercare, come si sa, non tan-to nei contenuti, nei programmi, e meno ancora nei fini ultimi(anche i riformisti hanno sempre ritenuto che il fine ultimo delmovimento fosse il socialismo, cioè una forma di società radi-calmente diversa da quella dominata dall’economia capitali-stica) quanto nella strategia.Rispetto alla strategia queste due ali hanno sempre rappresen-tato una vera e propria alternativa, che si può riassumere inqueste due antitesi; legalità-violenza, gradualità-globalità(rispetto ai risultati). Ora questa alternativa è, nei partiti disinistra europea, inesistente. Non è detto che sia del tuttoscomparsa, ma le frange rivoluzionarie nei paesi democraticisono sempre più gruppi marginali, che hanno così scarsa rile-vanza politica da non poter più essere considerati come unavera e propria alternativa. (La sinistra estrema oggi si è rifu-giata o nel terrorismo, che è l’espressione di un rivoluzionari-smo esasperato o disperato, e almeno sino ad oggi improdutti-vo, oppure nel suo contrario, vale a dire nel pacifismo,anch’esso politicamente, almeno sino ad ora, improduttivo, enell’ecologismo, in parte controrivoluzionario, dei verdi).Scomparsa la contrapposizione, o ridotta ai minimi termini, trariformatori e rivoluzionari, il riformismo non può più esseredefinito in funzione del suo opposto.Ma se non può più essere definito in funzione del suo opposto,perché l’opposto è venuto meno, deve essere ridefinito, cioèdeve essere definito e quindi compreso, se si vuol compren-derlo, in altro modo. Quale?Ecco la prima domanda che in un discorso analitico occorreporsi, per evitare di giungere alla conclusione che, essendovenuto meno uno dei corni dell’antitesi, debba venir menonecessariamente anche l’altro.

Regimi democraticiSul venir meno della tradizionale alternativa nei regimi demo-cratici consolidati, ed io m’illudo che il nostro appartenga aquesta categoria, occorre spendere qualche parola, anzituttoper suffragare con dati di fatto la stessa affermazione, insecondo luogo per cercare di capire perché si sia esteso l’arcodi consenso alle idee e alla prassi riformistiche e si sia andataal contrario sempre più restringendo l’area delle idee e dellaprassi rivoluzionarie.Per quel che riguarda i dati di fatto, una prima constataziones’impone: il riferimento al leninismo, che era obbligatorio sinoa che il nome ufficiale della dottrina dei partiti comunisti era“marxismo-leninismo”, è scomparso dalle dichiarazioni delpartito comunista italiano e dai discorsi dei suoi dirigenti. Perconverso, sono aumentate in questi ultimi anni, da parte deglistessi dirigenti, professioni di fede democratica e conseguen-temente riformistica.In una intervista all’Espresso Lama esprime la proprio ade-sione puramente e semplicemente a una politica social-demo-cratica, affermando tra l’altro: “Se si vuole affermare il pro-prio ruolo di forza riformista – si, riformista – bisogna mette-re nel proprio programma i contenuti della riforma e fare bat-taglia”. In un dibattito su Mondoperaio, intitolato, guarda

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caso, “Quale riformismo?”, Napolitano afferma che “la vec-chia contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari non ha piùsenso attuale nella sinistra italiana, se guardiamo ai due parti-ti storici”. Ancor più recentemente, in una intervista sul Cor-riere della sera dell’11 febbraio, afferma che l’approdo delPci è il grande riformismo europeo.Se poi, al di là di queste prove di fatto, si vuol prendere inconsiderazione la ragione per cui vi fu un tempo che il rifor-mismo aveva in genere nella sinistra una cattiva stampa eveniva equiparato a opportunismo, ed ora, nei nostri paesi,ha una cattiva stampa il rivoluzionarismo, tacciato di estre-mismo velleitario, irrealistico, catastrofico, inconcludente, èproprio dalla natura e dalle condizioni stesse di sviluppodella democrazia, e dalle condizioni intrinseche a una socie-tà democratica, che dobbiamo prendere le mosse. Natural-mente dobbiamo prima metterci d’accordo sul significato dadare a “democrazia”. Ma ormai credo che, a differenza diquel che avveniva non molti anni fa quando la parola“democrazia” era un vaso vuoto che ciascuno riempivacome voleva, nel dibattito attuale ci sia un certo consenso,non importa se implicito o esplicito, sull’accettazione diquella che io ho chiamato la definizione minima di demo-crazia, sulla democrazia intesa come un insieme di regoledel gioco, su una concezione procedurale di democrazia (enon sostanziale).

Società democraticaNon dico di essere del tutto tranquillo su questo riconosci-mento. Mi danno da pensare alcune recenti polemiche comequella rovente, all’interno del fronte comunista, tra Tronti eVeca, anche se una polemica di questo genere sarebbe statasoltanto alcuni anni fa impensabile. Mi dà da pensare un’usci-ta come quella di Asor Rosa su Repubblica, quando parla diquella “idiozia” del contrattualismo.Ahi, ahi! L’idea del contratto sociale, vale a dire l’idea che ildiritto di comandare e di farsi obbedire è legittimo solo quan-do è fondato su una delega da parte dei destinatari del coman-do, è l’abc della democrazia moderna.Se il contrattualismo è un’idiozia, le democrazia è il più idiotaregime del mondo. (Il contrattualismo come idiozia fa il paiocon il famigerato “cretinismo parlamentare”, che ebbe effettinefasti anche sul modo di pensare e di agire della sinistra).Dalla democrazia dobbiamo prendere le mosse perché non sipuò accettare la democrazia, anche nel suo significato minimo(minimo ma non per questo povero), senza accettare una ben

precisa concezione della società e della storia che è assoluta-mente incompatibile con ogni progetto di trasformazione radi-cale della società e con ogni visione finalistica e totalizzantedel corso storico, progetto e visione che sono propri del rivo-luzionario.

Stato e societàIl pensiero rivoluzionario è intrinsecamente legato all’idea diun’età di lunga e inarrestabile decadenza che non può essereriscattata se non da un rovesciamento totale nella direzione delcorso storico. (Da questo punto di vista il rivoluzionario e ilcontrorivoluzionario hanno la stessa concezione della storia,ed è perciò che spesso gli estremi si toccano: con la differen-za che per il controrivoluzionario il capovolgimento consistenel grande ritorno, mentre per il rivoluzionario consiste in unsalto verso l’avvenire ignoto ma certo).Tutt’al contrario la democrazia moderna, la quale è nata dalprocesso di emancipazione della società civile dallo Statocome sistema di dominio, ed è stata continuamente guidatadalla convinzione di fondo secondo cui, per usare la famosaespressione di Thomas Paine, la società è buona e lo Stato ècattivo, e pertanto la società deve essere lasciata libera diespandersi e lo Stato ha il compito limitato (limitato ma essen-ziale) di regolarne il movimento.Accettare la democrazia allora significa accettare: a) il plura-lismo dei gruppi, al limite considerando lo Stato come uno deigruppi il cui compito è quello di mediare i conflitti fra i grup-pi parziali, di assidersi come arbitro tra di loro, e talora addi-rittura come una parte o controparte nella contrattazione fragruppi; b) il conflitto fra individui e fra gruppi non solo comeineliminabile ma addirittura come fattore di progresso e quin-di benefico; c) attraverso la pluralità dei gruppi e il loro per-manente conflitto, l’espandersi della domanda sociale cui ilgoverno deve dare una risposta sotto forma di decisioni collet-tive vincolanti.Ammettere queste caratteristiche della società democraticavuol dire ammettere che la società democratica è in continuatrasformazione, anche indipendentemente, al di sotto o al disopra, del sistema politico.La democrazia è dinamica, il dispotismo è statico. Tanto èvero che in questi quarant’anni di democrazia reale, anchese imperfettissima, il nostro paese ha conosciuto e continuaa conoscere la più grande trasformazione della sua storia,una trasformazione che fra l’altro è avvenuta durante l’ege-monia di un partito che non ha mai scritto sul suo frontone

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la parola “riformismo”, e senza un processo rivoluzionario(qui intendo “rivoluzione” come causa), anzi attraverso ilrispetto più o meno costante, con qualche scivolone, maalmeno sinora non mortale, delle regole fondamentali di unademocrazia liberale.

Il post-modernoUna seconda ragione del venir meno del fascino della rivolu-zione sta in questa duplice constatazione: da un lato, le grandirivoluzioni (qui intendo la rivoluzione come effetto) che han-no trasformato profondamente la società moderna e ci spingo-no volenti o nolenti verso una nuova fase di sviluppo storicoche ha già ricevuto il nome suggestivo del tutto vacuo di post-moderno, dalla rivoluzione industriale a quella attuale tecno-logica, non sono state rivoluzioni politiche nel senso propriodella parola; d’altro canto, la grande rivoluzione politica delnostro tempo, la rivoluzione russa, ha sì trasformato profonda-mente un immenso paese e lo ha fatto diventare l’altra grandepotenza da cui dipende nel bene e nel male il nostro destino dipigmei nella terra dei giganti, ma ha dato origine a un sistemapolitico e sociale che nessuno al di qua della cortina di ferro (eho ragione di credere pochi anche al di là) è disposto ad accet-tare come modello.A questo punto, fatta la constatazione che la democrazia inte-sa come un insieme di regole del gioco che debbono servire arisolvere i conflitti pacificamente esclude la rottura rivoluzio-naria, e quindi ha già sconfitto uno dei tradizionali nemici delriformismo senza bisogno di combatterlo, ci si trova di frontea un’ulteriore domanda: se una società democratica in conti-nua trasformazione, se pure graduale, per effetto della libertàdi cui godono i suoi soggetti principali, i singoli individui e igruppi d’interesse, spesso ad onta, stavo per dire a insaputa,del potere politico, non metta in difficoltà anche una politicariformatrice così com’è stata intesa dal riformismo tradiziona-le (sia di quello che propugna le riforme dall’alto sia di quelloche le fa avanzare dal basso).Il riformismo socialista ha condiviso con il movimento rivolu-zionario una certa sopravalutazione dell’elemento politico sulsociale, la convinzione che l’azione politica sia il massimo fat-tore di cambiamento sociale.

Azione politica e cambiamento socialeSiamo ancora sicuri che azione politica e cambiamentosociale siano strettamente connessi l’uno con l’altro e che il

secondo dipenda esclusivamente dal primo? Una domandadi questo genere, a me pare opportuna, estende il nostrodibattito a un campo sinora poco esplorato, e rispetto altema del convegno ancora più pregiudiziale di quello che hopercorso sino ad ora. Si tratta di sapere, in altre parole, se ilriformismo sia, non solo ancora chiaramente definibile, dalmomento che è venuta meno la sua antitesi storica, maanche possibile, almeno nel senso in cui è sempre stato inte-so all’interno della sinistra, come riformismo politico, comeazione o insieme di azioni prolungantisi nel tempo indiriz-zate al cambiamento in base a progetti a lunga o breve sca-denza (in base a cioè a un programma massimo o a un pro-gramma minimo).Mi pare difficile negare che in Italia tutti i progetti a lungo,medio, breve termine, siano miseramente falliti. Quanti sono iprogetti elaborati dalla sinistra storica, comunisti e socialisti,che sono rimasti lettera morta, dopo aver costituito oggetto ditrattenimento intellettuale in convegni, seminari, tavole roton-de, dibattiti su riviste e giornali, e altre tali logomachie?Chi di noi è senza peccato scagli la prima pietra. L’intellettua-le propone e il politico dispone: non perché disdegni il lavorodell’intellettuale, ma molto spesso perché non sa che farsene,consapevole com’è che la sua azione è principalmente quelladi tappare falle per evitare di andare a picco piuttosto che quel-la di pilotare la nave verso mete meravigliose. Credo che ilbuon politico abbia ormai appreso che la nave che egli dirigein una società democratica, con tutti i vincoli che le regoledemocratiche gl’impongono, è un battello di piccolo cabotag-gio che se si avventurasse in alto mare rischierebbe di esseresquassato alla prima tempesta.Con questo non voglio dire che una politica riformatrice non siapossibile. Dico che non si può darla per scontata. Il che fra l’al-tro aumenta l’impegno e la responsabilità di chi si considerariformista e si pone correttamente il problema: quale riformismo.Non voglio dire neppure che in Italia non siano state fatteriforme mediante l’azione politica, dalla riforma della scuolaunica alla riforma del diritto di famiglia, dall’istituzione deldivorzio alla depenalizzazione dell’aborto.Ma sono tutte quante riforme che sono state proposte e attua-te a pezzi, di volta in volta, senza un piano generale, senza chesi possa dire siano state il prodotto di un partito del riformi-smo. Paradossalmente ci sono state riforme senza riformismo,voglio dire senza un progetto riformatore. E se progetti rifor-matori ci sono stati, questi non hanno prodotto riforme.Riflettendo in grande sulla storia del nostro tempo e non limitan-dosi ad annotazioni in margine o a piè di pagina circa gli avveni-

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menti che cadono sotto i nostri occhi di cronisti (quali siamo spes-so costretti ad essere sotto l’assalto quotidiano degli imprenditoridelle comunicazioni di massa e dei loro agenti), vien fatto diosservare che vi sono almeno due cause di mutamento sociale chenon dipendono direttamente dal potere politico.Queste sono, anzitutto, il mutamento dei costumi che avvienesotto la spinta di cambiamenti d’idee, di condizioni economi-che, di regole di comportamento sociale e morale; in secondoluogo, il progresso tecnico. Si tratta di due mutamenti chesono indubbiamente connessi tra loro, anche se non è del tut-to chiara la loro interdipendenza. Per quel che riguarda ilmutamento del costume, basti pensare alle profonde trasfor-mazioni che sono avvenute nei paesi economicamente svilup-pati, e nelle classi che di questo sviluppo hanno tratto i mag-giori vantaggi, nei rapporti tra i sessi.Mi è accaduto spesso di dire che l’unica rivoluzione del nostrotempo (rivoluzione come effetto), almeno nei paesi più avan-zati economicamente, è stata la rivoluzione femminile.Ma è stata una rivoluzione che è avvenuta al di fuori della sfera diinfluenza del potere politico, il quale si è limitato nella più favo-revole delle ipotesi a ratificare e a legalizzare una serie di cam-biamenti avvenuti nei rapporti familiari in seguito al mutamentodi norme etiche e, beninteso, di condizioni di lavoro, a loro voltaeffetto di mutamenti nella sfera delle tecniche di produzione.Quale enorme influenza abbia esercitato sui rapporti sessualila scoperta e la diffusione dei contraccettivi, è inutile sottoli-neare tanto è smaccatamente evidente.

L’uomo strumentoIl mutamento più sconvolgente di fronte al quale ci troviamooggi è indubbiamente quello prodotto dal progresso tecnico,cioè dall’invenzione di macchine sempre più perfette chesostituiscono il lavoro dell’uomo.Gli antichi per giustificare la schiavitù, ovvero la riduzionedell’uomo a strumento, a macchina, erano costretti a ricor-rere allo specioso argomento secondo cui vi sono degliuomini schiavi per natura. In sostanza essi dovevano spie-gare perché un lavoro brutale, da macchina dovesse farlol’uomo (che secondo la classica definizione aristotelica eraun animale razionale e come tale diverso da tutti gli altrianimali). Ora il lavoro degli uomini-macchina lo potrannofare sempre più delle vere e proprie macchine. Dopo la ridu-zione dell’uomo a macchina il progresso tecnico di questiultimi anni ci fa assistere al processo inverso dell’elevazio-ne della macchina a uomo.

Tutto questo avviene indipendentemente, ripeto all’insaputa,del potere politico. Furono Saint Simon e i saint-simoniani iprimi ad affermare che la vera e grande trasformazione dellasocietà avvenuta alla fine del secolo XVIII era stata il prodot-to non già di una rivoluzione politica, com’era stata la rivolu-zione francese, ma della rivoluzione industriale, i cui creatorierano stati gli scienziati e non i politici.La grande trasformazione che sta cambiando la nostra attualesocietà, e che prepara la società cosiddetta post-industriale, èl’effetto non di riforme politiche ma di scoperte scientifiche edi mirabolanti applicazioni tecniche.Alla fine del secolo anche Marx credeva che l’umanità fosseentrata nell’era delle grandi rivoluzioni sociali e politiche, eche dopo la rivoluzione borghese una nuova rivoluzioneavrebbe fatto passare l’umanità dal regno delle necessità alregno delle libertà.Allargando ulteriormente lo sguardo a ciò che è cambiato dalsecolo scorso ad oggi, occorre ancora osservare che dalla finedel Settecento sino allo scoppio della prima guerra mondialela filosofia della storia era orientata verso l’idea che la specieumana fosse perfettibile, e questo processo verso la perfezio-ne o meglio verso il perfezionamento fosse inarrestabile o irre-versibile.

Il mito del progressoEra in altre parole dominata da una concezione progressivadella storia, cioè dall’idea che l’umanità fosse, per usare leparole di Kant, “in costante progresso verso il meglio” (da sot-tolineare il “costante”). Il mito del progresso è caduto: rinvioal recente libro di Gennaro Sasso, Tramonto di un mito, che lodocumenta a cominciare da Nietzsche e da Spengler. Oggi nonesiste più una filosofia della storia se per filosofia della storias’intende una risposta positiva alla domanda se la storia uma-na abbia un senso e quale esso sia. Affinché si possa dare unsenso alla storia bisogna ritenere che la storia abbia una metaprestabilita (la libertà, l’eguaglianza, l’unità del genere uma-no?) e questa meta prestabilita sia destinata a essere immanca-bilmente raggiunta. Oggi non vi è più alcun filosofo tantotemerario da pensare che la storia umana abbia una meta pre-stabilita e che questa meta, posto che ci sia, sia raggiungibile.Caduta è forse definitivamente ogni concezione teleologicadella storia. La storia va verso… Verso dove? La pace univer-sale oppure la guerra onnidistruttiva? La secolarizzazioneintegrale oppure la rinascita dello spirito religioso? (Dio èmorto oppure è più vivo che mai?). La libertà di tutti o la

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schiavitù universale sotto nuove e mai viste forme di dispoti-smo, come quella fantasticata da Orwell? Insomma, la storia èin costante progresso verso il meglio? E se fosse invece incostante regresso verso il peggio?Che il riformismo del secolo scorso fosse strettamente con-nesso a una concezione progressiva della storia è indubitabile.Una visione come quella dell’uomo d’oggi, più problematica,meno sicura di sé, non dico che lo vanifichi, ma certo lo ren-de meno baldanzoso. Senza contare che l’idea del progresso èstata sempre connessa ad una concezione eurocentrica dellastoria: la crisi dell’idea del progresso va di pari passo con lacrisi dell’eurocentrismo.Nell’idea di progresso il riformismo ha avuto uno dei suoi piùpotenti alleati. Caduto il mito o, per dirla con Sorel, l’illusio-ne del progresso (ma Sorel era un rivoluzionario o credeva diesserlo), anche il riformismo si trova di fronte a un compitonon solo più difficile ma anche dagli incerti risultati.

Cambiamento e immobilismoProgressismo e riformismo avevano in comune l’idea dellapositività del cambiamento: il cambiamento come tale non èné buono né cattivo, ma se la storia procede costantementeverso il meglio, allora il cambiamento è sempre di segno posi-tivo. Che il cambiamento fosse buono e l’immobilità fosse cat-tiva è stata un’idea entrata prepotentemente nella visione del-la storia nell’età moderna.Gli antichi ritenevano generalmente che il mutamento fos-se cattivo, avevano una visione regressiva della storia.Quando Licurgo diede le leggi a Sparta lasciò la sua cittàe raccomandò ai suoi cittadini di non mutarle sino a chenon fosse tornato, e non tornò più. Sulla base di questogiudizio positivo sul cambiamento, è sempre stata fatta ladistinzione fra il partito dei progressisti e il partito deiconservatori.I conservatori sono coloro che danno un giudizio negativo alcambiamento o per lo meno accettano il cambiamento soltan-to se esso è giustificato da buoni argomenti; i progressisti alcontrario sono coloro che danno un giudizio negativo dellaconservazione e l’accettano solo se è a sua volta giustificata dabuoni argomenti.Ma, oggi, chi sono i maggiori fautori del cambiamento? Nonsono forse proprio i conservatori che considerano lo stato pre-sente del rapporto fra economia e politica nella maggior partedei paesi democratici in cui è avvenuta una progressiva esten-sione dei compiti dello Stato come un male da correggere, e

propongono un ritorno a uno stato precedente alla formazionedello Stato sociale?Mi pare indubbio che oggi i maggiori mutamenti sianoquelli richiesti e già in gran parte attuati in alcuni paesi daineo-liberali che chiedono lo smantellamento dello Stato deiservizi. Sono costoro che, chiedendo una inversione di rot-ta, si presentano come i veri propugnatori del cambiamen-to. Di fronte a questa inversione di rotta non rischiano diapparire nemici del cambiamento proprio i riformatori diun tempo?

La crisi della sinistraScusate se insisto su questo punto. Ma è proprio a questo pun-to che si affaccia con la massima evidenza la crisi della sini-stra. E si capisce: la sinistra è sempre stata o rivoluzionaria oriformista. Dopo aver rinunciato alla rivoluzione si è rifugiatanel riformismo.Ora comincia a sospettare che se per riformismo s’intende ilpartito del cambiamento riformisti sono gli altri. Inutilenasconderselo: assistiamo a un vero e proprio capovolgimen-to della politica cui la sinistra in tutte le sue forme è semprestata fedele, e che ha avuto sempre per risultato un accresci-mento della sfera pubblica rispetto alla sfera privata.Si può negare che il processo di democratizzazione guidatodalla sinistra è sempre andato di pari passo, intenzional-mente o meno, con un allargamento dei compiti dello Sta-to? Oggi la parola d’ordine dei conservatori si può espri-mere tutta quanta in questa due parolette: meno Stato. Sipuò negare che la politica della sinistra abbia avuto pereffetto, sempre e ovunque, “più Stato”? Con questo nonvoglio dire che non vi sia spazio per un riformismo di sini-stra. Voglio dire soltanto che il criterio per distinguereriformatori e conservatori non può più essere quello sem-plicistico, o che per lo meno oggi apparirebbe semplicisti-co, dei partiti socialisti del secolo scorso che si definivanopartiti del cambiamento e del progresso. Ripeto: progressoin che senso, in quale direzione, in nome di che cosa? Mirendo conto che in questa mia riflessione preliminare che ioho concepita unicamente come un’analisi concettuale piùche come proposta, dobbiamo ancora fare un passo avanti.C’è riforma e riforma. E quindi c’è riformismo e riformi-smo. Dove tutti sono riformisti, nessuno è riformista.E allora il problema si sposta alla domanda veramente cru-ciale: quali riforme? Siamo proprio sicuri di sapere qualisono le riforme che vogliamo e quali quelle che non

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vogliamo, quelle che contraddistinguono un partito socia-lista da quelle che non solo non lo contraddistinguono malo contraddicono?

Il concetto di riformaLa risposta a queste domande è tanto più difficile in quantonon mi pare si sia mai riflettuto abbastanza sul concetto stessodi riforma. Siamo sicuri di sapere che cosa s’intende esatta-mente per riforma? Quando parliamo di riforma siamo sicuridi parlarne tutti nello stesso senso? Siamo sicuri di possedereun criterio qualsiasi per definire riformatore un provvedimen-to e per distinguerlo da un provvedimento non di riforma? Epoiché c’è riforma e riforma, siamo proprio sicuri di possede-re un criterio orientativo per distinguere una riforma di destra?Più che una risposta a questa domanda che non sono sicuro dipoter dare (ma che è sicuro?), propongo una ricerca.Si esamini per un certo periodo di tempo – gli ultimi trent’anni,per esempio, dall’inizio del centro-sinistra, che avrebbe inaugu-rato nel nostro paese il periodo delle riforme cui ha dato il pro-prio contributo il partito socialista – quali leggi sono state ema-nate (ed eseguite) che siamo di comune accordo disposti a con-siderare leggi di riforma. Si tratta di una ricerca terra terra,empirica, tanto per cominciare. Ma bisogna pur cominciare da

dati di fatto, che tutti possiamo avere sotto i nostri occhi e suiquali possiamo imbastire un ragionamento non del tutto campa-to in aria. Faccio qualche esempio: la istituzione della scuolamedia unica e l’estensione dell’obbligo scolastico a otto anni; lostatuto dei lavoratori; la riforma del diritto di famiglia; l’intro-duzione del divorzio e il riconoscimento della liceità dell’abor-to se pure entro certi limiti; la chiusura dei manicomi; la libera-lizzazione degli accessi all’università; le elezioni scolastiche; lafine del monopolio statale della radio e della televisione.Naturalmente questo elenco è destinato ad aumentare o aessere corretto, col contributo del gruppo di ricerca. Mi sipotrà obiettare che un elenco di questo genere presuppone giàun criterio di distinzione e quindi un ‘idea di quel che si deb-ba intendere per riforma.Rispondo che un concetto di riforma non si può dare a priori ,e per non involgerci in un circolo vizioso o in un processoall’infinito bisogna cominciare dal senso comune, e soltanto inun secondo tempo l’idea del senso comune può essere conve-nientemente modificata in base ai risultati della ricerca.

Il minimo comun denominatoreUna volta compilato l’elenco, con tutte le cautele del caso, occor-rerà porsi una prima domanda: hanno tutti questi provvedimentiun minimo comune denominatore? Se si, qual è? E’evidente chesolo da una risposta a questa domanda possiamo riuscire a dareuna risposta alla domanda in che cosa consiste una riforma, cheè la domanda principale cui siamo obbligati a dare una rispostase vogliamo continuare a parlare di riformismo.Bene, a me pare che in una prima approssimazione tutti i prov-vedimenti che ho citato sopra abbiamo un carattere comune:siano provvedimenti che allargano gli spazi di libertà degliindividui o dei gruppi, e che nella misura in cui allargano que-sto spazio restringono o limitano lo spazio del potere politico.Ma allora sono riforme liberali? Direi che sono prima di tuttoriforme democratiche, intesa la democrazia come l’oppostodell’autocrazia, come quella forma di governo o regime cherealizza tanto più la proprio natura quanto più allarga la liber-tà dei governati e restringe il potere dei governanti, mentre ilregime autocratico è caratterizzato dalla tendenza opposta. Mauna riforma liberale, una riforma democratica, è anche neces-sariamente una riforma socialista?Gli esempi che ho fatto sono tutti quanti di riforme che sono stateo promosse o appoggiate dal partito socialista: di qua la pertinen-za della domanda. Vediamo un po’: la risposta a questa domandadipende dalla risposta a una domanda preliminare: libertà di chi?

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Quando si pone un problema di libertà bisogna sempre porsipreliminarmente due domande: chi è libero e da che cosa èlibero. Non esiste in nessun luogo la libertà di tutti da tutto.Ogni libertà è sempre relativa: se aumenta la libertà diuno, sia un gruppo o un individuo, una categoria o unaclasse, diminuisce la libertà di un altro, sia gruppo, indi-viduo, categoria o classe. La liberazione degli schiavi hadiminuito la libertà dei padroni degli schiavi. Faccio unesempio estremo: la libertà dalla tortura ha diminuito lalibertà dei torturatori.

LIibertà ed eguaglianzaMa l’ideale socialista non è sempre stato, oltre a quello dellalibertà quello dell’eguaglianza? Ebbene: il principio di egua-glianza è proprio quello che serve a distinguere la libertà libe-rale dalla libertà socialista, beninteso del socialismo liberale,che è quello che ci sta a cuore (giacché esiste anche un socia-lismo soltanto egualitario e non anche liberale).In che senso? Considero libertà socialista per eccellenza quel-la libertà che liberando eguaglia ed eguaglia in quanto eliminauna discriminazione: una libertà che non solo è compatibilecon l’eguaglianza ma ne è la condizione.Riprendiamo alcuni dei nostri esempi: i matti liberati dalle istitu-zioni totali non solo sono stati resi liberi ma nello stesso temposono stati resi più eguali agli altri di quanto fossero prima; unariforma del diritto di famiglia che elimina la potestà maritale ren-de più libera la moglie e liberandola la rende eguale al marito; laliberalizzazione degli accessi all’università ha tolto nei riguardidei giovani che avevano fatto le scuole medie superiori una limi-tazione (li ha liberati) e una discriminazione (li ha eguagliati).Questo tentativo di individuare riforme che sono insieme libe-ratrici ed eguagliatrici deriva dalla constatazione che vi sonoriforme liberatrici che non sono eguagliatrici. Come potrebbeessere ogni riforma di tipo neo-liberale che dà mano libera agliimprenditori per sbarazzarsi dai vincoli che provengono dal-l’esistenza di sindacati o di consigli di fabbrica, ma nello stes-so tempo è destinata ad aumentare la distanza fra ricchi epoveri; e vi sono d’altra parte riforme eguagliatrici che nonsono liberatrici, com’è ad esempio ogni riforma che introduceun obbligo scolastico e costringe tutti i ragazzi ad andare ascuola mettendo tutti, ricchi e poveri, sullo stesso piano mamediante una diminuzione di libertà. Richiamo l’attenzionesul tema dell’eguaglianza perché nonostante tutto quello cheoggi si dice sull’eccesso di egualitarismo nelle società di mas-sa, e facendo un esempio concreto che ci riguarda tutti, sul

livellamento delle retribuzioni che sarebbe stato indotto dallelotte sindacali degli ultimi anni, il nostro paese è un paeseancora profondamente inegualitario.Non escludo che certe forma esasperate di eguaglianza delle retri-buzioni siano da correggere, perché altro è l’ideale dell’eguaglian-za, altro l’egualitarismo. Ma è indubbio che una delle grandi mol-le dell’azione sociale in tutti i tempi e in tutte le società sia la per-cezione del trattamento diseguale, della di-scriminazione, in unaparola, perché non saprei come altro chiamarla, dell’ingiustizia.

I grandi idealiTutto quello che ho detto sin qua mi spinge inesorabilmentealla conclusione che il problema di fronte al quale ci troviamoè di dare una risposta non tanto alla domanda Quale riformi-smo? ma alla domanda, su cui si gioca veramente non solo l’i-dentità ma anche il destino della sinistra: Quale socialismo?È mia convinzione, e non solo da oggi, che quel che è in que-stione in questi ultimi anni dopo la degenerazione dello Statonato dalla prima rivoluzione della storia condotta in nome delsocialismo, e dopo l’attacco alle politiche socialdemocraticheda parte delle correnti neo-liberali, non sia tanto il riformismo(anzi, come ho detto, non ci sono mai stati tanti riformisticome ora) quanto il socialismo.Ed è in questione perché, permettetemi di finire con questaperorazione, abbandonando per un momento lo stile analiticoseguito sin qua, sbattuti dal vento impetuoso della crisi delleideologie abbiamo perso la bussola.No, la stella polare del socialismo esiste sempre, esiste oggi piùche mai, soprattutto se si guarda non soltanto ai problemi internidei paesi sviluppati, ma anche ai rapporti fra paesi sviluppati epaesi in via di sviluppo o del tutto sottosviluppati, fra il Nord e ilSud del mondo; questa stella polare si chiama giustizia sociale.Il che vuol dire che un criterio se pure molto generale, da determi-nare di volta in volta, per distinguere il riformismo socialista daaltre forme di riformismo, esiste. Un criterio esiste almeno sino ache vi saranno, e non possiamo negare che vi siano, in Italia e nelmondo, oppressi ed oppressori, prepotenti ed impotenti, i troppoforti e i troppo deboli, coloro che hanno e coloro che non hanno, idiseguali e i “più eguali” degli altri, i discriminatori e i discrimina-ti, gli affamatori e gli affamati, gli armati sino ai denti e gli inermi,i terrorizzatori (che non sono soltanto i terroristi) e i terrorizzati.Un partito socialista ha bisogno per sopravvivere e per guar-dare con fiducia al proprio avvenire di grandi ideali. Ma nonha bisogno d’inventare nulla. Ha bisogno di restare fedele allapropria storia.

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A vevo appena riletto il saggio di Norberto Bobbio, chemi è saltato all’occhio l’editoriale di Ernesto Galli

della Loggia sul Corriere della Sera del 9 marzo: “Il divie-to dai due volti”. Occhiello: “sinistra antiproibizionista”.In questo editoriale Galli si lascia trascinare dalla vis pole-mica contro la sinistra sino a sostenere una tesi poco con-vincente, e che però tocca alcuni dei problemi di cui trattail saggio di Bobbio.Ma come, dice Galli, la sinistra non è forse sempre stata afavore dell’intervento dello Stato? Non è sempre stata afavore dei vincoli che le leggi devono porre contro le mani-festazioni più estreme di libertarismo, contro una libertàindividuale senza limiti? Non è forse questo il senso delladifesa a oltranza che la sinistra fa della nostra Costituzio-ne? Una Costituzione che tutela, protegge, aiuta, promuove(la famiglia, la maternità e l’infanzia, il risparmio, il lavo-ro, le pari opportunità..) e necessariamente lo fa (anche)ponendo divieti e limiti alla libertà individuale: se vogliotutelare il lavoratore, devo limitare la libertà del datore dilavoro di assumerlo e licenziarlo come gli aggrada. Se ècosì, da dove provengono le recenti rivendicazioni dellasinistra per una libertà individuale “dai contorni illimitati,pronta a vedere in ogni limite e in ogni regola un’ingeren-za illegittima dello Stato?”. Dove Galli vuole andare a para-re con la sua polemica, lo si capisce subito: “Dal campodella morale e dei comportamenti sessuali questo atteggia-mento si è esteso via via a quello dei modi e modelli dellagenitorialità, della famiglia, della procreazione, della finedella vita, in un crescendo di ostilità contro la dimensionestessa della proibizione.” Insomma a Galli non va a genioche la sinistra contrasti le sue concezioni neo-tradizionali-ste sui cosiddetti temi “eticamente sensibili” e allora sostie-ne l’esistenza di una contraddizione tra la tutela di valorisociali mediante interventi e divieti dello Stato – tutelaassunta come carattere definitorio della sinistra stessa- e ladistorsione libertaria e individualistica che avrebbe subitoultimamente. Ultimamente? Ma non si ricorda Galli deglianni ’70, del divorzio e dell’aborto?

Sospendiamo per ora la polemica, cui torneremo dopoesserci fatti una bella cura di Norberto Bobbio. Nel saggioche stiamo rileggendo, Bobbio spazia su tanti argomenti,legati ma distinti, e, come maestro di legami e distinzioni,vi spazia magistralmente. Conclude però su un tema cheuna decina d’anni dopo sarebbe stato oggetto del suo librodi maggior successo e che ci riporta anche all’argomentodell’editoriale di Galli della Loggia: che cosa distingue lasinistra dalla destra, ed in particolare, che cosa distingue ilriformismo socialista dagli altri riformismi, dai riformismidi centro o di destra? Prima aveva ricordato che “il rifor-mismo socialista ha condiviso con il movimento rivoluzio-nario una certa sopravvalutazione dell’elemento politicosul sociale, la convinzione che l’azione politica sia il mas-simo fattore del cambiamento sociale”. E poiché la politi-ca ha a che fare con la lotta per il controllo del potere sta-tale, il riformismo socialista ha sempre posto l’accento suicambiamenti che da questo controllo potevano derivare.Socialismo e “accrescimento della sfera pubblica rispetto aquella privata” sono collegati strettamente ed è innegabileche “il processo di democratizzazione guidato dalla sini-stra è sempre andato di pari passo, intenzionalmente omeno, con un allargamento dei compiti dello Stato”: le“due parolette” dei conservatori sono “meno Stato”, quel-le dei socialisti, “più Stato”. D’accordo. Stanno così lecose anche oggi?Per rispondere a questa domanda, per trovare quale sia lavera essenza, il “minimo comun denominatore”, della sini-stra (a dire il vero si tratterebbe del massimo comun deno-minatore, il minimo è il comune multiplo, ma lasciamocorrere), in questo saggio Bobbio propone un piccolo espe-rimento concettuale. Visto che si parla di riformismo,andiamo a vedere le riforme che la sinistra italiana haattuato o almeno ha tentato di attuare durante gli anni delcentrosinistra e poi del pentapartito, tra il 1963 e la metàdegli anni ‘80, il momento in cui Bobbio scrive. Nel sag-gio ne viene fornito un breve elenco che non stiamo ariprodurre. Fatto l’elenco, Bobbio afferma che tutti i prov-

Si fa presto a dire eguaglianza>>>> Michele Salvati

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vedimenti in esso contenuti hanno un carattere comune:“sono provvedimenti che allargano gli spazi di libertà diindividui o gruppi sociali”, dove per libertà Bobbio inten-de qui –mi sembra- sia assenza di impedimenti (“libertàda”, nel significato di Berlin), sia effettiva capacità di fare,allargamento dei propri spazi d’azione, capability, empo-werment, per usare espressioni che Amartya Sen e MarthaNussbaum hanno reso di uso comune. Insomma, quell’am-bigua categoria che è la “libertà di”. E in che cosa si distin-gue questa libertà socialista dalla libertà liberale? Sidistingue perché si accoppia strettamente al principio dieguaglianza. “Il principio di eguaglianza è quello che ser-ve per distinguere la libertà liberale da quella socialista,beninteso del socialismo liberale, giacché esiste un socia-lismo soltanto egualitario e non anche liberale”. E poco più

oltre insiste “Considero libertà socialista per eccellenzaquella che liberando eguaglia, ed eguaglia in quanto elimi-na una discriminazione; una libertà che non solo è compa-tibile con l’eguaglianza, ma ne è la condizione”. Vi sonodunque “riforme liberatrici che non sono eguagliatrici,come potrebbe essere una riforma di tipo neo-liberale chedà mano libera agli imprenditori per sbarazzarsi dai vinco-li che provengono dall’esistenza di sindacati e consigli difabbrica, ma nello stesso tempo è destinata ad aumentare ladistanza tra ricchi e poveri. E d’altra parte vi sono riformeeguagliatrici che non sono liberatrici”. E conclude: “E’indubbio che una delle grandi molle dell’azione sociale intutti i tempi e in tutte le società sia la percezione del trat-tamento diseguale, della discriminazione, in una parola,perché non saprei come altro chiamarla, dell’ingiustizia”.

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Con quest’ultima affermazione di Bobbio sono completa-mente d’accordo: essa coincide con quella di Tocquevillequando osservava sulla Democrazia in America, e cito amemoria, che una volta che il principio di eguaglianza hafatto la sua apparizione nella storia, dalla storia è impos-sibile espellerlo e procede implacabile tra le rovine cheesso stesso produce. Tocqueville parla da nobile dell’An-cien Régime, e si riferisce alla Rivoluzione francese, Bob-bio da socialista liberale, e si riferisce al socialismo rifor-mista del Novecento, ma entrambi hanno in mente lo stes-so fenomeno.

Libertà e fraternità

Con le altre affermazioni riportate più sopra, e in generalecoll’intera parte finale del saggio che stiamo commentando,il mio accordo è minore, anche se amerei credere che lecose fossero così chiare e semplici come Bobbio le descri-ve. Sulle sinergie e i contrasti tra quei due potenti e ambi-gui principi della rivoluzione francese –Liberté ed Egalité-si sono scritte biblioteche, e le cose si fanno ancor più com-plicate quando li si vuol mettere d’accordo con il terzo,Fraternité. Di queste possibili sinergie e dei reali contrastiil saggio che stiamo commentando non dice nulla. Fra un paio di mesi il Saggiatore ripubblicherà una nuovaedizione (ampliata) del vecchio libro che scrissi vent’annifa con Salvatore Veca e Alberto Martinelli nel bicentenariodella Rivoluzione francese, Progetto 89: leggendolo sicapisce perché non si può parlare in modo impressionisti-co –diciamo così- di riforme liberatrici ed eguagliatrici,quelle socialiste, e di riforme solo liberatrici, quelle libe-rali. Che cos’è stato lo Statuto dei lavoratori, una delleprincipali riforme socialiste (e proprio socialista, promos-sa dal PSI: Brodolini e Giugni) che Bobbio menziona nelsuo elenco? Una riforma liberatrice ed uguagliatrice? L’in-tenzione era sicuramente quella di rafforzare la posizionedei sindacati nel conflitto con gli imprenditori e di daremaggiore sicurezza agli operai. Un obiettivo di emancipa-zione ed empowerment, ottenuto però con strumenti nonliberali, interferendo seriamente nella libertà contrattualedelle parti. Obiettivo che poteva essere giustissimo e che,nelle condizioni di allora, io avevo interamente condiviso.Ma se si vuole mantenere quel po’ di senso che le parolehanno, il contenuto liberale di questa riforma mi sembrapiuttosto scarso. Per non parlare poi dei suoi effetti (sicu-

ramente imprevisti e non voluti) che hanno compromessoanche lo spirito egualitario della riforma, oltre a quelloliberale: la divisione in due dei lavoratori, tra garantiti enon garantiti.Più in generale, a me sembra che la ricerca del minimo(sic) comun denominatore di una riforma socialista, e piùin generale del criterio ultimo di distinzione tra sinistra edestra, sia una ricerca destinata all’insuccesso se la simantiene solo sul piano della filosofia politica, come faBobbio. E infatti, alcuni anni dopo, quando Bobbio torne-rà ad affrontare il problema in Destra e Sinistra – il piùpopolare ma anche il meno profondo dei suoi libri - ildenominatore comune, il criterio di distinzione, verràdefinito così: “da un lato il popolo di chi ritiene che gliuomini siano più eguali che diseguali, dall’altra il popolodi chi ritiene che siano più diseguali che eguali” (Donzel-li, prima edizione, 1994, pp. 74-75), una distinzione cheben pochi, a destra sicuramente, ma anche a sinistra, oggiaccetterebbero. Destra e sinistra, e le loro incarnazionipartitiche (tra cui, a sinistra, il socialismo: non eranoancora arrivati i tempi dei socialisti berlusconiani), sonoposizioni che, nei duecento anni in cui hanno polarizzatoil confronto parlamentare e politico nelle democrazie,hanno subito molte oscillazioni storiche e conosciuto mol-te varietà nazionali. Molto all’ingrosso. All’inizio, a par-tire dalla Rivoluzione Francese e per larga parte dell’otto-cento, la sinistra coincideva col liberalismo e con l’oppo-sizione all’Ancien Régime; a partire dalla fine dell’Otto-cento i liberali più radicali si mischiarono in vario modocon i socialisti e quelli più conservatori con i tradizionali-sti. Sicché oggi i due schieramenti avversi sono due con-glomerati, dove quello di destra include istanze liberali inuna versione più conservatrice insieme ai residui del vec-chio tradizionalismo del “Dio-Patria-Famiglia”; quello disinistra include le istanze individualistiche in una versio-ne più radicale con le ultime propaggini dello statalismosocialista. E tutti e due gli schieramenti non sanno chedire di fronte ai drammatici problemi del presente, allascarsità di risorse, al riscaldamento globale, e in genere aiproblemi indotti dalla globalizzazione, problemi inesi-stenti nel contesto degli Stati nazionali in cui le due posi-zioni opposte si sono forgiate. O meglio, quello di sinistraoscilla tra sogni di coordinamento mondiale, in nome diun popolo costituito dall’intera popolazione del pianeta, econcrete istanze di difesa del proprio elettorato nazionale.In questa posizione difensiva la destra si trova più a suo

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agio: la sua componente tradizionalistica ed antimodernanon ha remore nell’invocare misure protezionistiche e farleva sulle paure e lo spaesamento provocati dalla globa-lizzazione e dalla crisi.Di queste questioni ho trattato un po’ più a lungo nellibretto Il partito democratico per la rivoluzione liberale,Feltrinelli 2007. Qui concludo tornando a Galli della Log-gia. Della sinistra Galli fa un ritratto in cui stento a rico-noscere il personaggio raffigurato. Lo statalismo di origi-ne socialista e socialdemocratica esiste, forse è predomi-nante, ma non é l’unico carattere definitorio della sinistra.E semmai lo fosse, non lo sarebbe certo in difesa dei valo-ri neo-tradizionalistici che stanno a cuore a Galli. Lo sta-

talismo della nostra Costituzione è frutto di una conver-genza e di un compromesso: tra i comunisti che volevanol’intervento dello stato e della legge per sostenere i valorisociali e gli interessi da loro difesi, e i democristiani chelo accettavano per difendere, insieme a quelli, i valori tra-dizionali sostenuti dal cattolicesimo. Ma la sinistra, sindalla sua origine, ha una robusta componente individuali-stica e liberale, che rigetta l’intromissione della legge edello Stato su materie di scelta personale. Una componen-te che non è mai stata sopraffatta, neppure nei momenti distatalismo più estremo. Una componente – il socialismoliberale – di cui Norberto Bobbio è stato in Italia l’alfierepiù conseguente.

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