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12 FEBBRAIO 2014 P O L I T I C A S O C I E T À C U LT U R A RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ARES RIFORMISMO E SOLIDARIETÀ Poste Italiane SpA - spedizione in abbonamento postale - 70% Roma Aut. n. C/RM/61/2011 Presentazione Economia e welfare: il futuro comincia adesso! Vanni Petrelli Quadro macroeconomico Crisi finanziaria, sviluppo malato e malessere sociale. Rischi e sfide della nuova economia dell’esclusione e della diseguaglianza: le difficili eredità del passato Lucio Lamberti Welfare state: nuovi bisogni e compatibilità finanziarie La sanità italiana in un quadro di prospettiva Federico Spandonaro Assetti previdenziali ed assistenza integrativa Mauro Nori Gli attori del cambiamento Tiziano Treu Un quadro di prospettiva Strategie di crescita tra limiti e possibilità Pier Paolo Baretta 2014 punto di svolta della fase economica I vincoli e le potenzialità della finanza Pubblica Stefano Fassina La politica industriale Claudio De Vincenti

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FEBBRAIO 2014

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RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ARES RIFORMISMO E SOLIDARIETÀPoste

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PresentazioneEconomia e welfare: il futuro comincia adesso!Vanni Petrelli

Quadro macroeconomicoCrisi finanziaria, sviluppo malato e malessere sociale.Rischi e sfide della nuova economia dell’esclusione e della diseguaglianza: le difficili eredità del passatoLucio Lamberti

Welfare state: nuovi bisogni e compatibilità finanziarieLa sanità italiana in un quadro di prospettivaFederico Spandonaro

Assetti previdenziali ed assistenza integrativaMauro Nori

Gli attori del cambiamentoTiziano Treu

Un quadro di prospettiva Strategie di crescita tra limiti e possibilitàPier Paolo Baretta

2014 punto di svolta della fase economicaI vincoli e le potenzialità della finanza PubblicaStefano Fassina

La politica industrialeClaudio De Vincenti

RES

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RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ARES RIFORMISMO E SOLIDARIETÀ

ReS - I quaderni di AReSASSOCIAZIONE PER IL RIFORMISMO E LA SOLIDARIETÀ

Rivista trimestrale - Anno V - n. 12

Direttore:Pier Paolo Baretta

Direttore responsabile:Vanni Petrelli

Direzione e redazione:Via XX Settembre, 40 - 00187 Roma

Proprietà:AReS

Sito internet:www.associazioneares.it

E-mail:[email protected]

Twitter@AssocAReS

Pubblicità:Massimiliano [email protected]. 3498662896

Progetto Grafico:Giulio Sansonetti

Impaginazione:Mino Onorati

Stampa:3ESSE srl - ViaBasilicata, 29 (zona PIP) - 70029 Santeramo in Colle (BA)Tel. +39 080.3032229 - www.3esse.net - [email protected]

Registrazione del Tribunale di Roma n. 294/2010 del 22 giugno 2010

Prezzo:8,00 euro

Arretrati:- i precedenti numeri della rivista sono disponibili in formato pdf sul sito www.associazioneares.it.- il cartaceo si può richiedere scrivendo a [email protected], al costo di 8 euro (più le spese di spedizione).

Hanno collaborato a questo numero: Claudio De Vincenti, Stefano Fassina, Lucio Lamberti, Mauro Nori, Federico Spandonaro, Tiziano Treu.

Questo numero è stato chiuso in tipografia il giorno 28 Febbraio 2014Realizzato con carta Oikos riciclata ecologica della cartiera Fedrigoni

ACID FREE

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Res - I quaderni di AReS N. 12 - FEBBRAIO 2014

INDICE

Presentazione 5 Economia e welfare: il futuro comincia adesso! Vanni Petrelli

7 Quadro macroeconomico Crisi finanziaria, sviluppo malato e malessere sociale. Rischi e sfide della nuova economia dell’esclusione e della diseguaglianza: le difficili eredità del passato Lucio Lamberti

49 Welfare state: nuovi bisogni e compatibilità finanziarie

51 La sanità italiana in un quadro di prospettiva Federico Spandonaro

56 Assetti previdenziali ed assistenza integrativa Mauro Nori

62 Gli attori del cambiamento Tiziano Treu

ReS - I quaderni di AReSASSOCIAZIONE PER IL RIFORMISMO E LA SOLIDARIETÀ

Rivista trimestrale - Anno V - n. 12

Direttore:Pier Paolo Baretta

Direttore responsabile:Vanni Petrelli

Direzione e redazione:Via XX Settembre, 40 - 00187 Roma

Proprietà:AReS

Sito internet:www.associazioneares.it

E-mail:[email protected]

Twitter@AssocAReS

Pubblicità:Massimiliano [email protected]. 3498662896

Progetto Grafico:Giulio Sansonetti

Impaginazione:Mino Onorati

Stampa:3ESSE srl - ViaBasilicata, 29 (zona PIP) - 70029 Santeramo in Colle (BA)Tel. +39 080.3032229 - www.3esse.net - [email protected]

Registrazione del Tribunale di Roma n. 294/2010 del 22 giugno 2010

Prezzo:8,00 euro

Arretrati:- i precedenti numeri della rivista sono disponibili in formato pdf sul sito www.associazioneares.it.- il cartaceo si può richiedere scrivendo a [email protected], al costo di 8 euro (più le spese di spedizione).

Hanno collaborato a questo numero: Claudio De Vincenti, Stefano Fassina, Lucio Lamberti, Mauro Nori, Federico Spandonaro, Tiziano Treu.

Questo numero è stato chiuso in tipografia il giorno 28 Febbraio 2014Realizzato con carta Oikos riciclata ecologica della cartiera Fedrigoni

ACID FREE 67 Un quadro di prospettiva Strategie di crescita tra limiti e possibilità Pier Paolo Baretta

73 Grafici e tabelle

35 2014 punto di svolta della fase economica

37 I vincoli e le potenzialità della finanza Pubblica Stefano Fassina

42 La politica industriale Claudio De Vincenti

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PRESENTAZIONE

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ECONOMIA E WELFARE: IL FUTURO COMINCIA ADESSO!

Vanni Petrelli

Il 2014 rappresenterà davvero il punto di svolta per l’economia nazio-nale? Quali saranno le politiche eco-nomiche italiane? Come conciliare i nuovi bisogni con le disponibilità fi-nanziarie? Esiste un welfare “perfetto”? Le risposte a queste domande han-no animato due Seminari organizzati dall’Associazione AReS-Riformismo e Solidarietà, presieduta dall’onorevole Pd Pier Paolo Baretta, sottosegreta-rio all’Economia. Nel corso del primo evento (“2014 punto di svolta della fase economica”) sono stati affrontati i temi delle prospettive della finanza pubblica, dell’economia finanziaria e della politica industriale. Dagli inter-venti dei relatori (Stefano Fassina, Lu-cio Lamberti, Claudio De Vincenti e lo stesso Baretta) è emerso come il 2014 sia considerato davvero l’anno dell’in-versione di tendenza, dopo la profon-da crisi degli ultimi anni. Ma perché ripresa ci sia davvero è necessario ave-re la consapevolezza che è necessario cambiare le regole del mercato e della finanza, senza imbrigliarle ma permet-tendo loro di operare per un obietti-

vo utile a tutti, vale a dire la crescita. Inoltre anche a sinistra bisogna avere il coraggio di parlare di capitalismo (anzi, di “capitalismi”, come ha detto Baretta). Ma attenzione: tutto ciò sarà perfettamente inutile (forse addirittura controproducente) se non c’è una pro-spettiva di uguaglianza e di giustizia sociale. Nel secondo seminario (“Welfare Sta-te: nuovi bisogni e compatibilità fi-nanziarie”) è emerso come il privato stia assumendo un ruolo sempre più rilevante nelle politiche di welfare, con la previdenza complementare o il fre-quente ricorso a lavoratrici badanti per accudire gli anziani. I relatori (Tiziano Treu, Federico Spandonaro e Mauro Nori e poi Lamberti e Baretta) hanno puntato l’indice sugli squilibri sociali relativi ad uno sviluppo non regolato, con il rischio di esclusioni e di disu-guaglianze. E sono stati sfatati alcuni luoghi comuni, primo tra tutti quello relativo alle presunte lacune del siste-ma sanitario nazionale, nonostante i ripetuti e drastici tagli ai quali è stata sottoposta la sanità pubblica italiana.

PRESENTAZIONE

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Abbiamo deciso di dedicare questo numero di Res interamente agli atti dei due Seminari non solo per allargare la platea di chi vuole documentarsi ed in-formarsi su temi così attuali ed impor-tanti, ma anche per lasciare una trac-cia, tracciare il solco, lanciare qualche input. Ce lo impongono sia la fase che stiamo vivendo che lo stesso Statuto di AReS! Il momento storico-politico che stiamo attraversando è delicato ed ha

l’onere e l’onore di disegnare il futu-ro prossimo, un futuro che “comincia adesso” e che vede non solo la politica ma tutto il mondo sociale protagoni-sta. Ebbene, in questa nuova fase ci siamo anche noi, e intendiamo dire la nostra attraverso il sito (www.asso-ciazioneares.it) e questa rivista, che di AReS costituiscono una sorta di think tank. Buona lettura!

Ps: Per facilitare la lettura sono stati accorpati i testi del prof. Lamberti e dell’on Baretta, intervenuti ad entrambi i seminari. Inoltre è stato inserita un’appendice contenente tabelle e grafici utili per l’approfondimento dei temi trattati. Sul sito AReS sono disponibili le slides utilizzate dai relatori nel corso dei seminari.

Roma, 8 ottobre 2013Villa Piccolomini, via Aurelia Antica 164

Seminario “2014 punto di svolta della fase economica”“L’economia finanziaria”Dott. Lucio Lamberti - Economista“I vincoli e le potenzialità della finanza Pubblica”On. Stefano FassinaViceministro dell’Economia“La politica industriale”On. Claudio De VincentiSottosegretario al ministero dello Sviluppo economicoConclusioniOn. Pier Paolo BarettaSottosegretario al ministero dell’Eco-nomia, Presidente associazione AReS

Roma, 5 novembre 2013Villa Piccolomini, via Aurelia Antica 164

Seminario “Welfare state: nuovi bisogni e compatibilità finanziarie”IntroduzioneOn. Pier Paolo Baretta“Welfare e sostenibilità, una visione globale”Dott. Lucio Lamberti “La sanità italiana in un quadro di prospettiva”Prof. Federico Spandonaro - Docente di economia e management sanitario pres-so l’Università “Tor Vergata” di Roma“Assetti previdenziali ed assistenza integrativa”Dott. Mauro Nori - Direttore generale Inps ConclusioniProf. Tiziano Treu

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CRISI FINANZIARIA, SVILUPPO MALATO E MALESSERE SOCIALE

Lucio LambertiEconomista

Quadro macroeconomico

RISCHI E SFIDE DELLA NUOVA ECONOMIA DELL’ESCLUSIONE E DELLA DISEGUAGLIANZA: LE DIFFICILI EREDITÀ DEL PASSATO

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1. Doping finanziario e competizio-ne sociale.

Il modello di crescita globale dell’ulti-mo ventennio si è basato su due grandi leve di stimolo del ciclo economico, una finanziaria e una più propriamente economica e geopolitica:• Trasferimento tra generazioni degli

oneri e dei rischi (Debito, consumo, deregolamentazione, mercato trans-nazionale dei capitali)

• Riorganizzazione internazionale del lavoro e competizione tra modelli sociali, con motore unico di selezio-ne il mercato globale dei consumato-ri e del capitale.

Il trasferimento tra generazioni degli oneri e dei rischi, attraverso il mercato finanziario, ha consentito un’illusio-ne di ricchezza e benessere collettivo, e comportamenti di consumo e spesa conseguentemente non sostenibili.

La leva principale è stata la crescente tolleranza al debito sia delle istituzio-ni che dei prenditori di capitali. Con strumenti sempre più sofisticati, che di fatto hanno reso impalpabile la sen-sazione di rischio, e hanno consentito la crescita a livelli mai sperimentati in passato dei livelli del debito, sen-za l’attivazione di anticorpi. L’effetto doping che questo ha generato sui mercati è stato notevole, paragonabi-le solo in parte a quanto avvenuto a cavallo della crisi del ‘29, anche per il carattere globale della crisi. L’apertura senza precedenti dei mercati dei ca-pitali ha uniformato i comportamenti di aree culturalmente molto distanti, e ha ingigantito ovunque le dimensioni dell’industria finanziaria. La riorganizzazione internazionale del lavoro e la competizione tra mo-delli sociali, hanno tratto invece origi-ne dalla globalizzazione dei mercati e

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dalla delocalizzazione delle produzio-ni, senza regole.Chiunque ha potuto esportare ovun-que, produrre dove le condizioni erano più favorevoli al capitale. Per il consu-matore il prezzo è diventata l’unica di-scriminante, cosi come per l’imprendi-tore il costo del lavoro e la tassazione. Il primo effetto è stato di apparente crescita e benessere per tutti: merce a più basso costo, capitali meglio remu-nerati, esplosione dei profitti; e l’illu-sione è stata che questo nuovo ordine potesse avere effetti positivi per tutti. Ma se la discriminante dei comporta-menti è solo il prezzo e il lavoro diven-ta uno dei tanti fattori da contrattare senza alcuna valutazione dell’impatto sociale e ambientale, la competizione tra aree spinge al ribasso le richieste e gli squilibri indotti sui sistemi occiden-tali (basati sul consenso e la mobilità tra classi) diventano dirompenti, scar-dinando conquiste sociali di conviven-za civile conquistate con fatica in anni di confronto e sperimentazione.Oggi questo modello di crescita è in crisi. La crisi finanziaria esplosa nel 2007, ancora più che mai attuale, è stata solo una punta dell’iceberg dei fenomeni che potremo fronteggiare, un avvertimento sui potenziali rischi connessi alla difficile eredità finanzia-ria ed economica con cui le generazio-ni attuali e future dovranno convivere. Molti di queste pillole avvelenate non

hanno soluzione autoctona o tradi-zionale possibile, né facili scappatoie, come vedremo, ma richiedono coordi-namento internazionale, pragmatismo, determinazione e coraggio.Altrettanto esplosiva e rischiosa è l’e-redità sociale: la nuova economia della diseguaglianza e dell’esclusione ha reso molto più simili i paesi occidentali ai modelli dei paesi emergenti, con effetti critici per la tenuta dei modelli demo-cratici e sociali dei paesi occidentali, tantopiù ora che la penuria di risorse finanziarie per il welfare agisce da vin-colo implicito per le politiche future di riequilibrio e sostegno. La nuova economia di mercato è funzionale agli interessi di una ridotta elite mentre le condizioni di vita, di lavoro e di reddi-to della stragrande maggioranza della popolazione peggiorano rapidamente, con effetti negativi anche per le pro-spettive di crescita. Gli anni di maggio-re prosperità dei paesi occidentali non a caso coincidono con fasi di maggiore equità e mobilità sociale. Per l’Italia la sfida è particolarmente difficile, perché le eredità di sistema si accompagnano a debolezze specifiche (demografiche, imprenditoriali, finan-ziarie) e a frizioni istituzionali crescen-ti, che ingabbiano le risorse, escludo-no i giovani e rischiano di impoverire strutturalmente il paese. Sono debolez-ze tipiche di un sistema purtroppo de-cadente che non riesce a pensare e ad

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investire sul proprio futuro con corag-gio. Esauritasi la spinta propulsiva del dopoguerra, della ricostruzione e della imprenditoria spontanea il rischio è di risvegliarsi troppo tardi, avendo dilapi-dato i tanti vantaggi competitivi e fat-tori di forza che pure conserva. Ma se questo è il movimento inerziale, la conclusione non è scritta, anzi. Bi-sogna avere il coraggio di ricominciare a fare politica industriale per liberare le risorse, e rimettere mano al modello sociale; non per distribuire demagogi-camente risorse che non ci sono, ma per favorire la giustizia nelle risorse scarse, riscoprire risorse e voglia di ri-scatto, valorizzare il lavoro e far rien-trare nel gioco sociale i giovani. La comprensione della complessità dei problemi e della loro dimensione è un passaggio importante per evitare illu-sioni: non esistono scorciatoie facili, ci sarà un prezzo elevato da pagare per ritornare in equilibrio, e per questo, la gestione del consenso e la chiarez-za degli obiettivi saranno sempre più necessari.

2. Le eredità finanziarie: il debito cumulato e la sua sostenibilità

Un primo ineludibile problema eredi-tato è come riportare il debito accu-mulato negli scorsi venti anni a livelli sostenibili.

La creazione di strumenti finanziari di debito è un meccanismo efficace di tra-sferimento di risorse tra individui per consentirne l’uso efficiente nel sistema produttivo, o per consentire l’anticipo di consumi che potranno essere distri-buiti nel corso della vita con la crescita delle capacità di rimborso (si pensi ai mutui). Le banche commerciali, con i meccanismi di deposito e prestito, e i mercati finanziari con l’intermediazio-ne del debito, trasformano le risorse finanziarie nel semilavorato adatto per chi le utilizza, ne gestiscono e distri-buiscono i rischi, rendono efficiente e poco costoso il contatto tra operatori. Il sistema finanziario svolge quindi in teoria un ruolo positivo di facilitatore della crescita e dello sviluppo. Anche lo Stato si pone come interlo-cutore di risorse, ma questa volta tra generazioni generiche. Il debito per-mette di investire risorse per i biso-gni della convivenza sociale e per il mantenimento del ciclo economico o lo sviluppo di lungo termine. Il costo sarà pagato in parte dalle generazioni future, secondo modelli futuri di di-stribuzione degli oneri, ma, almeno in teoria, il vantaggio è la creazione delle migliori condizioni per lo sviluppo fu-turo delle stesse generazioni.Che parte del debito dei singoli non venga ripagata perché la famiglia, la impresa ha ‘esagerato’ nella richiesta di risorse o non ha avuto successo nel-

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la attività economica è un fenomeno inevitabile; ma anche il fallimento è un evento insito e digerito dal sistema se il volume di risorse trasferito non è eccessivo, ed è gestito con meccanismi trasparenti ed ‘economici’ dagli inter-mediari finanziari. Che parte del debito Statale diventi strutturale e non più solo ciclico, con una sorta di tassazione finanziaria co-stante per le generazioni, è anch’esso un fenomeno pressoché ineludibile e accettato di funzionamento dei sistemi attuali purché le dialettiche di control-lo dei conflitti d’interesse ne limitino l’ammontare e responsabilizzino l’uso.In teoria il sistema finanziario/politico dovrebbe avere in sé anticorpi (costo del debito crescente in base al rischio, meccanismi assicurativi, segmentazio-ne delle risorse disponibili in base al rischio, autorità di controllo) che limi-tano entro valori gestibili e ragionevoli la crescita del debito. Ma cosa succede quando il debito di-venta eccessivo per opacità o ineffi-cienza di questi anticorpi? Diventa un vincolo opprimente, una palla al piede economica per il lievitare del servizio del debito, mina i rapporti sociali; e quando assume dimensioni totali ele-vate il rischio sistemico può persino travolgere i sistemi economici e sociali. Nel 2007/2008 lo spettro di un nuovo ’29, è stato fin troppo ‘realistico’ per non riconoscerne l’attualità e perico-

losità. La crisi è stata indotta dalla fi-nanza stessa e dall’abdicazione di parte del ruolo di controllo e indirizzo delle autorità, avvenuta come conseguen-za di una eccessiva espansione della liquidità e dei prezzi delle attività. La trasformazione dei contratti di debi-to in titoli standardizzati scambiabili sul mercato ha ridotto gli incentivi al monitoraggio dei debitori. Il passaggio da contrattazioni bilaterali basate su relazioni durevoli a scambi di prodot-ti finanziari in condizione di relativa anonimità e di elevata concorrenza tra intermediari ha indotto una sottova-lutazione generale del rischio. Infine, il fatto che le attività reali siano state poste a garanzia dei debiti, ha indot-to i singoli investitori a scegliere livelli di liquidità troppo bassi. Lasciato a se stesso il debito degli intermediari ten-de sempre ad essere troppo elevato nelle espansioni e troppo basso nelle recessioni. Il fenomeno è esacerbato dall’azzardo morale, cioè dal fatto che, se le istituzioni finanziarie hanno fidu-cia di essere salvate dai governi o dalle banche centrali, possono permettersi di correre rischi maggiori.Come misurare il grado di tolleranza accettabile per un sistema economi-co? Il modo più tradizionale e diffuso in letteratura per misurare l’intensità di debito presente nelle economie è paragonarlo con il prodotto interno lordo. Non si tratta di grandezze per-

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fettamente omogenee, anche perché il PIL non ha dimensione finanziaria ma di contabilità generale economica. La leva finanziaria di un paese dovrebbe essere paragonata allo stock di risorse finanziarie/economiche disponibili.La leva sul PIL, tuttavia, è un indica-tore disponibile ed efficace, di faci-le comprensione, ed è ormai entrata nell’uso corrente sia dai legislatori che dagli operatori finanziari: in senso lato esprime per un paese quanti anni di “prodotto interno” sono necessari per ripagare il debito, nell’ipotesi molto esemplificativa che tutte le risorse cre-ate siano dedicate solo a questo, siano correttamente censite, ed abbiano va-lenza finanziaria. In condizioni nor-mali il Debito Totale stimato di una economia (debito statale, delle impre-se, delle famiglie) si mantiene entro limiti non troppo distanti dal PIL di ri-ferimento. Oggi questo non è più vero per tutti i paesi sviluppati. Negli Stati Uniti, il processo di creazio-ne di debito è stato straordinariamente ampio ed accelerato. L’accumulazione è cominciata nel dopoguerra, ma è di-ventata esplosiva dagli anni Ottanta in poi, quando è passata da poco più di 1 a oltre 3.5 volte il Prodotto Lordo do-mestico. Non è un problema solo americano, ma di tutto il sistema finanziario glo-bale, e in particolare dei paesi svilup-pati. Se si considerano i Paesi del G7

complessivamente, la leva finanziaria rispetto al GDP è superiore alle 4 vol-te. Il debito ha raggiunto nel 2012 la somma stratosferica di 140 trilioni di dollari.Il motore nella creazione del debito è stato diverso nelle varie aree geografi-che. Tipicamente nelle economie an-glosassoni il principale attore è stato soprattutto privato. Le famiglie hanno fatto ampio ricorso all’intermediazio-ne per mantenere alta la propensione al consumo, grazie alla diffusione di strumenti di credito al consumo, car-tolarizzazioni, mutui opaci, che hanno consentito di sedimentare una tolle-ranza inusuale a livelli di indebitamen-to estremamente elevati rispetto al reddito prodotto e alle capacità preve-dibili di rimborso e servizio del debito.In altre il principale attore è stato lo Stato che ha agito da redistributore di ricchezza (come in Italia). In altre an-cora il sistema finanziario, o un mix di tutti gli attori. Qualunque sia stata l’origine, con la crisi bancaria lo Stato è dovuto subentrare per evitare il col-lasso finanziario, assumendo in prima persona il rischio sistemico del debito come debitore o come garante. E’ di-ventato cosi il principale emittente di nuovo debito e principale acquirente di debito, trasferendo alle prossime ge-nerazioni le incognite sulla risoluzione del problema.A titolo di esempio, il debito Federale

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USA è più che raddoppiato negli ultimi quattro anni salendo ad oltre 12 trilioni di dollari, e trasformando l’America nel più grande paese debitore in termini assoluti. In Europa il tasso medio d’in-debitamento è ormai stabilmente ben al di sopra del 60% previsto dai trattati. Come si è finanziato tutta questa mon-tagna di debiti pubblici e privati? In parte riempiendo i bilanci delle Ban-che Centrali, che hanno assunto cosi in modo crescente in modo diretto il rischio sistemico; le dimensioni sono impressionanti. Quasi otto volte i valo-ri di impegno di inizio 2000. Le banche centrali hanno inoltre so-stenuto il debito agendo su due leve: il costo del debito (con tassi che sono ormai a zero in tutti i principali paesi sviluppati) e l’abbondanza di moneta. Da anni ormai le banche centrali pre-stano a tassi vicini allo zero moneta alle banche, cosi permettendo la tra-smissione di un regime artificiale di prezzi sul mercato dei capitali a tutto il sistema finanziario; una sorta di tas-sa occulta permanente per il risparmio finanziario a favore del debitore, con bassissimi premi al rischio per il cre-dito e persino tassi negativi in termini nominali.Allo stesso tempo si lascia una quanti-tà di moneta elevatissima nel sistema per spingere gli operatori ad utilizzarli. La base monetaria lasciata nel sistema dalla sola Fed è triplicata dal 2009. Fe-

nomeni altrettanto ampi si sono verifi-cati in tutti i principali paesi. Il paradosso è che tutta questa ‘arma-ta finanziaria’ è servita a mantenere a galla il sistema evitando il crollo delle istituzioni finanziarie dopo il caso Leh-man, a finanziare i debitori, a creare ricchezza finanziaria, ma con molta difficoltà, e ben poco si trasferisce al sistema reale. In Europa ad esempio i prestiti alle imprese sono diminuiti nel periodo. In molte banche, anche in Italia, si è assistito ad un processo di sostituzione nei bilanci del rischio di credito verso il sistema produttivo agli impieghi finanziari. Si è creato una nuova bolla finanziaria, una nuova il-lusione di ricchezza, che questa volta è però appannaggio di molti meno. Fattore ancora più critico, queste misu-re, nate come straordinarie e strumen-tali, rischiano di diventare permanenti e condizionare, distorcere i sistemi in modo profondo, alimentando nuovi rischi. L’eccesso strutturale di moneta, rischia di minarne il valore simbolico e di ri-serva di valore per gli scambi, già di per se complesso e instabile nei sistemi moderni perché dematerializzata e pri-va di riferimenti reali; la tempistica e la qualità degli effetti destabilizzanti non è facile da prevedere anche perché inter-vengono frizioni strutturali e elementi psicologici che influiscono sulla velocità della moneta e sulla sua utilizzabilità.

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Tuttavia, anche se nel breve sono ecces-sivi i timori d’iperinflazione e instabilità negli scambi già vissuti nel periodo buio tedesco, nel medio i nodi strutturali sono estremamente rischiosi. L’assuefazione al metadone finanziario di stato, rischia di ampliare e sclerotiz-zare una economia settoriale della fi-nanza assistita e favorita. Con una pro-lungata redistribuzione tra risparmio e debito, e tra settori produttivi e settore finanziario, che rischia di creare nuo-vi azzardi, nuove bolle disabituando al risparmio e all’impegno nella attività reale.E infine il gigantismo dei mercati e del-le istituzioni, la sovranazionalità degli attori, la complessità degli scambi e l’o-pacità degli strumenti; tutti fattori che svuotano di capacità di controllo e in-dirizzo le autorità nazionali e federali. Oggi vengono scambiate azioni sul mercato azionario USA per un contro-valore pari a oltre 200 volte il prodotto lordo del paese. Le banche hanno continuato a cresce-re dimensionalmente, in un processo di consolidamento senza confini; oggi siamo abituati alle grandi dimensioni e le consideriamo quasi un fatto natura-le connaturato ai mercati. Tuttavia è un fenomeno recente e ancora inesplorato.Il risultato è un sistema bancario di grande rilevanza per la stabilità del Pa-ese; gli strumenti tradizionali di con-trollo e indirizzo diventano obsoleti.

Non solo grandi dimensioni comples-sive del sistema finanziario, ma gi-gantismo e concentrazione in poche banche. Negli anni 70 le 5 maggiori banche controllavano in USA il 17% del mercato. Questa proporzione sale oltre il 52% oggi. Fenomeni simili di consolidamento e concentrazione si sono realizzati in tutti i principali paesi. Alcuni istituti di credito sono diventati troppo gran-di per essere lasciati fallire, perché il loro fallimento metterebbe a rischio la tenuta stessa del sistema. Tale status garantisce loro uno speciale vantaggio competitivo, dagli effetti fortemente distorsivi. Ma soprattutto rende ina-deguate le tradizionali leve di controllo nazionale.L’industria del risparmio gestito ha cre-ato operatori in grado di incidere sulla stabilità di un paese per le dimensioni degli asset gestiti, la concentrazione e l’uso diffuso di moltiplicatori. 6 La cre-scita in particolare dell’industria degli hedge fund, ovvero fondi che possono lavorare in leva e che attuano strategie complesse che implicano anche l’uso sistematico di vendite allo scoperto, ha stravolto le logiche tradizionali dei mercati finanziari creando un potente e costante elemento di amplificazione e rottura dei cicli. Ma soprattutto esiste oggi una sovra-struttura finanziaria, una economia ‘derivata’ e impalpabile che sfugge

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completamente anche al solo censi-mento finanziario. Questa ‘sovrastrut-tura finanziaria’ ha assunto dimensioni gigantesche, non regolamentate e so-vranazionali. Ed ha continuato a cre-scere anche dopo la crisi. Il mercato dei derivati ha raggiunto dimensioni stimate vicine ai 700 miliardi di dol-lari, pari a multipli del prodotto lordo globale, ed è controllato da pochissime banche con rischi sistemici enormi.Con il mercato dei derivati si è di fatto creato un mondo ‘virtuale’ degli scam-bi, il cui legame con le attività reali sot-tostanti è sempre piu’ labile. Eppure su questo mercato, pari a svariati multipli le attività reali sottostanti, controllato da pochi operatori che spesso sfuggo-no al controllo delle autorità nazionali, si gioca spesso la stabilità e l’andamen-to di paesi, materie prime, singoli ope-ratori. E il valore dei beni. La domanda e offerta reale del bene finiscono per essere uno dei tanti elementi di deter-minazione del prezzo, non necessaria-mente il piu’ importante. Contano le strategie, le decisioni, gli umori di chi ha leve del risparmio.

3. Sovracapacità produttiva globale, bassa crescita, arresto della globa-lizzazione e rischi di politiche isola-zioniste.

Altra eredità difficile, è la sovraccapa-

cità produttiva globale che si è creata nel periodo di crescita ‘dopata’ in molti settori, e il rischio conseguente di refla-zione per eccesso di offerta. Questo fenomeno unito al vincolo finanziario potrebbero comportare un periodo prolungato di crescita inferiore al trend di lungo periodo; il che vuol dire mino-ri risorse aggiuntive in media per tutti. La crisi del modello si accompagna ad un rallentamento prolungato del com-mercio internazionale, alla re-localiz-zazione per aree geografiche delle atti-vità produttive. In questo contesto la vulnerabilità di molti Paesi emergenti o emersi, come Brasile, India, Argentina, potrebbe es-sere un fenomeno tutt’altro che episo-dico; il faticoso benessere conquistato in pochi anni da molti paesi potrebbe essere rapidamente perso per il rallen-tamento globale, la minore domanda di materie prime/semilavorati o il ridi-mensionamento competitivo dei costi dei Paesi sviluppati. Si sono così moltiplicate le aree di po-tenziale crisi regionale (Europa dell’Est, Area Euro, Paesi Emergenti produttori di materie prime, India, Cina) i cui ef-fetti sarebbero difficili da stimare.La potenziale trasmissibilità e perico-losità di shock regionali è diventata molto più ampia che in passato non solo per la apertura dei mercati finan-ziari, e la velocità degli effetti imitativi, ma soprattutto per la oggettiva minore

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disponibilità di leve di mitigazione e contrasto pubblico. Oggi sia le banche centrali che i governi hanno ridotto il loro armamentario sistemico (tassi di interesse a zero, massa monetaria alta, debiti pubblici elevati, etc) e sarebbe-ro deboli rispetto ad una nuova crisi post-Lehman. In questo contesto di repentino cam-biamento aumentano le tentazioni di svalutazione competitiva, guerre com-merciali, valutarie, e nazionalismi eco-nomici.

4. L’esclusione nel lavoro.

Il lavoro è oggi una variabile dipenden-te disponibile, abbondante e sostituibi-le. I guadagni si trasferiscono al reddito di capitale in modo strutturale, la com-petizione tra modelli sociali spinge al ribasso tutele e remunerazioni del la-voro.La delocalizzazione industriale negli USA si è trasformata in una forzata obsolescenza di milioni di lavoratori manifatturieri, con desertificazione di intere aree a vocazione industriale.Il costo sociale dell’esclusione non vie-ne fatturato alle imprese, anzi il carico fiscale in molti paesi sfavorisce il lavo-ro, nonostante i salari diminuiscano continuamente in termini reali.E’ un fenomeno globale, comune ormai a tutti i paesi sviluppati.

Grazie al basso costo del lavoro, ai bas-si tassi d’interesse, all’ottimizzazione fiscale nella competizione fiscale tra paesi, le grandi imprese sovranazionali hanno raggiunto livelli elevatissimi di redditività.La crescita esponenziale dei profit-ti non si traduce in nuovi posti di la-voro, anzi; il tasso di disoccupazione rilevato dagli istituti statistici dà una misura solo sommaria del fenomeno di crisi del mercato del lavoro nei pa-esi occidentali; non considera la quota di popolazione emarginata, sfiduciata, esclusa dai processi produttivi. Sia negli USA che in Europa, la quota di residenti che partecipano al sistema lavorativo è la più bassa da almeno un ventennio. Inoltre, tra coloro che lavo-rano è aumentata la quota dei sottooc-cupati ovvero coloro che sono costretti ad accettare forme parziali e precarie di lavoro non volontariamente. La glo-balizzazione sta spingendo verso for-me di organizzazione del lavoro simili a quelle dei paesi emergenti.Del resto era un fenomeno inevitabile in mancanza di regole condivise prece-denti all’apertura dei mercati. Se la va-riabile di decisione unica per il consu-matore è il prezzo, e per il produttore il costo di produzione, il lavoro diventa un fattore variabile da minimizzare nei costi e nella flessibilità di utilizzo. Nella prima fase si è ridotto la quota di lavo-ro nei sistemi più costosi e rigidi’ per

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impiegare dove costava di meno, non era sindacalizzato ed era gravato da una contribuzione solidale più bassa. Il costo era il trasferimento del know how, l’integrazione dei processi e il tra-sporto dei risultati. Nella seconda fase si sta uniformando i sistemi evoluti ai nuovi standard, riportando le produ-zioni verso i mercati di sbocco ma alle nuove condizioni di lavoro.Per chi esce dal mondo del lavoro, ri-entrare diventa sempre più complesso perché la disponibilità di risorse a bas-so costo, flessibili e con elevata scola-rizzazione, sposta sul pubblico il costo della riqualificazione e reintegrazione sociale. Anche negli USA paese stori-camente flessibile e aperto, nonostante la maggiore disponibilità culturale al cambiamento e alla mobilità, la massa di disoccupati persistenti è aumenta-ta sensibilmente, sedimentandosi su livelli quattro volte superiori a quella d’inizio secolo (Oltre 4 milioni, pari al 35% dei disoccupati).Nel sud dell’Europa si sommano au-mento della fiscalità, peggioramento del welfare, alta disoccupazione, a sot-tooccupazione e precarietà come fat-tori permanenti di caratterizzazione del rapporto di lavoro. Oltre l’80% delle nuove assunzioni in Italia negli ultimi tre anni sono avvenute con contratti a termine. Non a caso è ripresa la emi-grazione soprattutto giovanile.Ad eccezione della Germania, in Eu-

ropa si assiste ad una paradossale cre-scente esclusione della forza lavorativa giovane, che priva i sistemi sociali e produttivi di linfa vitale e ricambio. Il fenomeno è diventato particolar-mente preoccupante nei paesi dell’area mediterranea, dove un’intera genera-zione rischia di essere esclusa. Oltre il 50% dei giovani in Spagna sono disoc-cupati. In Italia la quota è raddoppiata in pochissimi anni. Anche in questo caso, il fenomeno as-sume valenza ancora più drammatica se si considera il dato di partecipazio-ne effettiva al mondo del lavoro. Oltre il 70% dei giovani italiani non cerca o non trova lavoro.Nel sistema lavorativo attuale, questo è un handicap sociale fortissimo con conseguenze strutturali difficilmente prevedibili se non si pone presto ri-medio. Si rischia di perdere un’intera generazione, perché non più appetibi-le o adatta al sistema produttivo, con-dannandola ad un precariato assistito e fragile. A meno di politiche coraggiose che ne incoraggino presto lo spirito imprenditoriale, o ne facilitino l’assor-bimento in tempi brevi nel ciclo pro-duttivo.Il lavoro dovrà rientrare nelle priorità delle azioni di governo se non voglia-mo che sia minato l’equilibrio sociale o si sfibri il tessuto democratico dei paesi sviluppati. Bisogna inoltre cominciare ad intro-

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durre il concetto del costo complessivo del lavoro, tenuto conto dell’impatto sociale e dei costi pubblici di impianto. Dopo anni di depauperazione sociale, in alcuni Paesi esportatori di materie prime questo tipo di dibattito ha por-tato a principi di responsabilità territo-riale per le imprese nella fase di trat-tativa per lo sfruttamento delle risorse del territorio. Per evitare i fenomeni di desertificazione e disagio sociale che lo sfruttamento di aree poi abbandonate comportava per il Paese.In questo caso le risorse sono diverse, si parla di risparmio finanziario, know how (costo di formazione delle impre-se), brand, beni immateriali, ma il con-cetto è simile. Impiantare un’impresa, trasformare le risorse del paese in pro-duzione, ha un impatto sociale positivo che va incentivato e favorito. Ma deve esservi consapevolezza dell’impatto della dismissione e relocalizzazione non pianificata e spesata socialmente. Questo effetto era trascurabile in un mondo chiuso e definito; in un mon-do globalizzato ed aperto è sempre più cruciale.

5. La difficile eredità sociale: pola-rizzazione della ricchezza e calcifi-cazione sociale.

Il modello attuale di sviluppo riporta per alcuni aspetti la lancetta sociale in-

dietro di quasi due secoli con una cre-scente concentrazione della ricchezza in pochi soggetti verso un oligopolio aristocratico del capitale. Grande as-sente nei paesi sviluppati la media bor-ghesia, sempre più emarginata e svuo-tata di capacità contrattuale e forza politica, con conseguenze strutturali nelle capacità di mobilità sociale, me-diazione politica e radicamento terri-toriale dei sistemi nazionali.La decisione politica di apertura dei mercati e competizione globale, no-nostante il carattere rivoluzionario dei cambiamenti indotti, non ha avuto come contraltare politiche di compen-sazione e redistribuzione, come ne-gli anni del dopoguerra o in anni più recenti in Germania con la caduta del muro di Berlino, ma ha lasciato agli individui e alle imprese i fenomeni di riaggiustamento in un nuovo darwi-nismo sociale internazionale; rispetto al dopoguerra l’elemento nuovo in-trodotto che ha accelerato i fenomeni è stato la liberalizzazione e sofistica-zione del mercato dei capitali e delle imprese, che svincola oggi il capitale dall’origine della creazione di ricchezza in una sorta di sovrastato immateriale, e la conseguente oggettiva difficoltà dei governi nazionali ad agire senza rischi di esclusione e marginalizzazione dai mercati internazionali. Se guardiamo il paese occidentale guida, gli USA, la quota di reddito dell’1% della popola-

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zione è salita oggi ai livelli più alti da inizio del Novecento.La concentrazione non è stato il frut-to di un benessere diffuso ma il risul-tato di una colossale redistribuzione verso l’alto dei profitti. Dagli anni Ot-tanta allo scoppio della crisi vi è stato un costante travaso da tutte le fasce di reddito verso il primo quintile del-la popolazione, e tra questi solo il pri-mo percentile ha visto quadruplicare il reddito medio lordo.Con la crisi del 2007, nonostante alcu-ne politiche redistributive, il processo è ripreso con maggiore ampiezza favori-to dai meccanismi di salvataggio siste-mico, provocando i primi fenomeni di rigetto e malessere istituzionale (qual-che anno fa hanno fatto scalpore le ma-nifestazioni di disagio sociale verso il sistema finanziario, note con lo slogan Occupy Wall street).Ma non è solo un fenomeno ameri-cano, anzi. La tendenza alla concen-trazione della ricchezza ha valenze globali, grazie alla sempre maggiore indipendenza delle imprese, che sfug-gono si sistemi di contribuzione fiscale nazionali. E le aristocrazie che si sono create hanno comportamenti simili, quale che sia la latitudine. Gli stessi valori culturali, status symbol, gusti, circoli sportivi e formativi. Un’identità sovranazionale di successo. Non a caso il settore del lusso è l’unico che assiste ad un incremento costante dei volumi

a margini altissimi, con una bassissima elasticità al prezzo. In molti paesi emergenti la crescita indotta con la globalizzazione si è ac-compagnata ad una profonda mutazio-ne sociale parallela. Emblematico è il caso della Cina.Anche in Italia si è assistito, seppur in misura minore, ad un fenomeno di concentrazione della ricchezza soprat-tutto dagli inizi del 2000. Il fenomeno è generalmente sottostimato non solo per la difficoltà comparativa dovuta alla quota rilevante di economia som-mersa, ma anche per il fenomeno nuo-vo della mobilità residenziale fiscale del primo percentile in ambito euro-peo. Tuttavia i dati ufficiali, pur parzia-li, sono eloquenti.Il fenomeno della polarizzazione trae alimento anche dalla nuova organizza-zione del lavoro, dalla contaminazione dei modelli e dalla progressiva vertica-lizzazione e ineguaglianza dei salari. Nella cultura anglosassone si è sempre considerato normale un sistema re-tributivo fortemente premiante delle figure di top management per impo-stazione culturale e imprenditoriale. Nell’economia della public company il top management era la figura più vici-na all’imprenditore, assumendosi l’o-nere della decisione e della rappresen-tanza e rischiando in prima persona con il licenziamento l’insuccesso. Il fallimento dell’impresa era il falli-

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mento del suo Capitano, che aveva a cuore non solo il profitto momenta-neo ma la sostenibilità dell’impresa nel tempo, la protezione degli interessi di tutti gli stakeholders compresi i lavora-tori.Tuttavia, questo ‘premio imprendi-toriale’ con la riduzione della forza contrattuale del lavoro e l’affermarsi della nuova cultura dell’esclusione, ha assunto dimensioni parossistiche mai sperimentate in precedenza, e spesso senza neanche il legame con il risultato imprenditoriale o la sanzione in caso d’insuccesso.Uno degli effetti di questa nuova cultu-ra d’impresa è che il top management delle stesse public company s’identifica sempre più con gli interessi finanziari di breve termine e di ottimizzazione del ‘capitale’ che con gli interessi so-stanziali di lungo periodo; il radica-mento sul territorio, la sostenibilità nel tempo, la difesa della pluralità degli interessi escono dai modelli espliciti o impliciti di valutazione, perché gli Sta-ti nazionali hanno abdicato. Le paghe sono legate ai risultati di breve periodo, Il manager deve ottimizzare il risultato di un immateriale capitale di controllo sempre più libero dagli stessi interessi di azienda, mettendo in competizione sistemi fiscali, sistemi retributivi, fatto-ri compresa l’azienda stessa; non è più espressione della cultura calvinista del lavoro ma di una nuova cultura del ca-

pitale irresponsabile. Ed è sempre più ampiamente remunerato per questo, facendo parte egli stesso della aristo-crazia del reddito. Una conseguenza di questo è che la crescita dei salari del top management non è stata più connessa né a fattori in-terni di distribuzione del reddito (vedi il paragone con i salari medi), né con la ricchezza creata dalle imprese, o dal Paese nel suo complesso.Un’analisi ingenua potrebbe associare questa distorsione ad una sorta di pre-mio per la conoscenza, per la merito-crazia, magari eccessivo ma comunque funzionale allo sviluppo di impresa. Sarebbe un errore concettuale. Il vero fattore discriminante è il binomio tra capitale e altri fattori della produzione.Distinguendo in base al livello d’istru-zione, si nota come non vi sia sostan-ziale differenza di trend retributivo tra manodopera ad elevata e bassa scola-rizzazione. La mancata partecipazione alla distribuzione dei guadagni di pro-duttività è simile. Anzi. La apertura dei mercati ha reso più debole la capacità contrattuale proprio delle maestranze a maggiore scolarizzazione che si ri-trovano a competere improvvisamente con situazioni di estrema mobilità ed eccesso di offerta. Con la competizione tra sistemi, il mo-dello di disparità salariale tra lavoratori e management si è ormai diffuso anche in culture del lavoro tradizionalmente

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meno conflittuali, o nei Paesi emergen-ti di nuova industrializzazione. I top manager hanno retribuzioni sempre più simili in valore assoluto, ma que-sto crea disparità notevoli con i Paesi di riferimento. A differenza di quanto si pensa comunemente in Europa, Spa-gna e Italia sono i Paesi che hanno un dislivello più alto tra paghe del top ma-nagement e salari medi d’impresa. Guardando la progressione dei dati, colpisce l’uniformità, profondità e ac-celerazione dei fenomeni di polarizza-zione e concentrazione della ricchezza, e la calcificazione dei sistemi sociali. La permeabilità tra classi sociali e di red-dito, alla base del successo economico e democratico nei paesi occidentali del secolo scorso, sta diminuendo no-tevolmente con la concentrazione dei redditi. In questa osmosi tra modelli i paesi occidentali stanno scivolando verso modelli sociali cristallizzati tipici dei Paesi emergenti.Tra i paesi occidentali Regno Unito, Italia e USA sono sorprendentemente già oggi tra i più rigidi; in questi Pae-si la probabilità di far parte dell’élite di un paese per un ‘basso quintile’ sono estremamente basse.Il paradosso è che nella società dell’in-formazione diffusa e di internet, il si-stema educativo e l’accesso esclusivo alle informazioni diventa la più potente barriera all’entrata e alla mobilità. Una forma di società aristocratica non me-

ritocratica tanto più fragile e pericolo-sa per il tipo di problemi che dovremo affrontare, perché genera radicalizza-zione dei conflitti, impoverimento cul-turale e disagio sociale.

6. Le nuove povertà nei Paesi “ricchi”.

Il modello di sviluppo fa emergere inoltre un nuovo esercito di poveri, una sorta di terzo stato delle economie sviluppate.Non è il prodotto di un’immigrazione mal gestita, ma l’espulsione costante dalle classi del benessere. Le leve sono tante e purtroppo concorrenti: perdita del posto di lavoro, eccessivo indebita-mento, riduzione dei salari e del welfa-re, aumento del peso fiscale e del costo della vita.Un indicatore diretto è la richiesta di sussidi alimentari, che in America è aumentata da pochi milioni negli anni settanta, agli oltre 47 di oggi, oltre il 15% della popolazione. Il 60% negli ul-timi cinque anni.Sono dati che in altri tempi ci saremmo aspettati da Paesi in via di sviluppo.Anche in Europa una quota crescente di famiglie non riesce ad avere suffi-ciente reddito per i beni e servizi es-senziali, compresi quelli della salute. Secondo le statistiche europee più re-centi quasi il 20% delle famiglie (il 24% in Italia) percepisce una condizione si-

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mile, con punte vicine al 40% nei paesi dell’Est.In Italia gli ultimi rapporti sul tema sono sempre più allarmanti: Nel 2012 si trovava in condizione di povertà relativa il 12,7% delle famiglie italia-ne (+1,6 punti percentuali rispetto al 2011) e il 15,8% degli individui (+2,2 punti), la situazione peggiore mai re-gistrata dal 1997. La povertà assoluta colpisce il 6,8% delle famiglie e l’8% de-gli individui. I poveri sono praticamen-te raddoppiati in otto anni, dal 2005. Se ci si concentra nel Nord, addirittu-ra sono triplicati. Negli ultimi quattro anni le mense sociali cattoliche hanno visto un aumento di ospiti di quasi il 90%. Anche in questo caso non è un fe-nomeno legato solo alla immigrazione, ma in modo crescente al disagio socia-le degli stessi italiani regolari, coniugati e magari con figli e abitazione regolare.

7. Aspettative di welfare e imprepa-razione alla nuova demografia del benessere

Molti Paesi sviluppati hanno avuto nel secondo dopoguerra un cambiamen-to significativo della piramide demo-grafica, dovuto da un lato all’aumento delle aspettative di vita, dall’altro alla riduzione costante del tasso di natalità complessivo.In Europa ad esempio la aspettativa di

vita è aumenta negli ultimi cinquanta anni di oltre 10 anni, mentre il tasso di fertilità è sceso sotto la soglia di ‘sosti-tuzione’ (1.5). I flussi migratori hanno parzialmente compensato, ma non tanto da riequilibrare la distribuzione per età della popolazione. Italia e Germania sono oggi tra i paesi con l’età media più alta al mondo (ac-canto al Giappone), con valori mediani vicini ai 45 anni. La realtà dei fatti è che l’Europa si avvia a diventare un popolo di ultra-cinquan-tenni, e ad avere una quota significativa di abitanti oltre gli ottanta anni. Anche altre aree, in misura minore, avranno evoluzioni simili.Né l’Europa né le altre aree del mondo sono tuttavia pronte a gestire le impli-cazioni di questa trasformazione. La struttura attuale di welfare e di orga-nizzazione del lavoro è pensata sulla base di una struttura demografica equi-librata per età e carichi contributivi e sta generando eccessivi disequilibri tra risorse cumulate e disponibili e bisogni o attese. Con il rischio di un collasso sociale annunciato e di un conflitto in-sanabile tra generazioni.Alcuni dei principali driver di disequi-librio nel welfare ‘promesso’ sono:• La riduzione della popolazione in età

lavorativa e l’aumento del grado di dipendenza intergenerazionale

• La dinamica del lavoro stessa, che con disoccupazione, sottooccupazio-

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ne e abbassamento dei salari, aumen-ta la fascia di domanda di servizi, e riduce i ‘contribuenti’ naturali

• La crescita per qualità e quantità del-le spese per il welfare, sia per i pro-gressi terapeutici che per la maggiore complessità dei bisogni di intervento in tarda età

• La profonda inadeguatezza dei fondi accantonati per le promesse di welfa-re già maturate; in una idea di trasla-zione e ripartizione degli oneri non più sostenibile.

Il rallentamento della crescita della popolazione in età lavorativa è signi-ficativo a livello globale (oltre la metà negli ultimi venti anni). Nell’area Euro si assiste addirittura ad una riduzione in valori assoluti, destinata ad acuirsi nei prossimi anni. Con la crescita con-testuale della popolazione in età pen-sionabile, il tasso di dipendenza tra ge-nerazioni sta crescendo cosi ovunque in modo significativo.In termini comparativi, l’Europa ha, con il Giappone, la dinamica demogra-fica attuale e inerziale più complessa, frutto anche del successo politico ed economico che le ha consentito livelli di benessere sociale e pace politica mai sperimentata in passato. Se sommiamo alla minore disponibili-tà di forza lavoro, l’utilizzo inefficiente della stesso (disoccupazione, sottooc-cupazione), l’aumento della età media e la nascita di nuove sacche di dipenden-

za sociale, è evidente che il meccani-smo attuale è destinato all’insuccesso. L’Italia è stata una delle prime e più ortodosse nel cambiare le aspettative pensionistiche e depotenziare uno de-gli elementi di frizione tra generazioni. Anche se rimane irrisolta la potenzia-le domanda di cuscinetti sociali per le quote crescenti di popolazione che verosimilmente non riusciranno in età lavorativa ad accumulare risorse suffi-cienti.Ma accanto alla generazione di redditi pensionistici adeguati alla aspettive o quanto meno ai bisogni, l’altro elemen-to dirompente è la promessa di presta-zioni sanitarie adeguate e diffuse. Con l’aumento delle conoscenze il co-sto procapite e totale della salute au-menta più che proporzionalmente nel tempo in tutti i paesi sviluppati. USA ed Europa hanno visto nell’ultimo ventennio lievitare in modo costante la spesa sanitaria dovuta al fenomeno dell’invecchiamento; solo il vincolo di bilancio imposto con la crisi del 2007 ha rallentato la crescita, con politiche generali di controllo della spesa, ma la pressione resta.La domanda inerziale di spesa sanitaria è destinata ad aumentare a meno che gli Stati non disconoscano una delle principali promesse sociali effettuate. La salute sarà uno dei campi sui quali si giocherà la tenuta democratica e il consenso sociale.

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E’ quindi importante che ci si ponga comunque almeno tre domande in-termedie: come rendere più efficiente l’uso delle risorse dedicate, quali sono gli standard minimi accettabili di in-tervento sanitario, e come assicurarsi le risorse per non deludere tale attesa/necessità sociale. Il dato triste comune è che né i paesi sviluppati, né i paesi ‘emersi’, hanno accantonato risorse per il welfare.Lo squilibrio finanziario che la crisi ci consegna è dunque molto più ampio di quanto comunemente immaginato. Non esiste solo un problema di debito pubblico e privato troppo elevato che gonfia le nostre percezioni di ricchez-za, ma anche di prestazioni e servizi promessi sulla base di una promessa di solidarietà generazionale ma non fi-nanziati. Tutti i paesi sviluppati devono affronta-re oggi problematiche enormi di debi-to ‘nascosto’; questo pone ovviamente problemi di significatività delle tradi-zionali logiche di contabilità pubblica e di valutazione del rischio sistemico.Colpisce in particolare l’uniformità del problema; i parametri di sosteni-bilità diventano molto più fragili per paesi tradizionalmente ritenuti stabili finanziariamente come la Germania e gli Usa.

8. Disequilibri indotti europei e fri-zioni istituzionali italiane

In presenza di eredità sistemiche così complesse e sfidanti, che rischiano di minare pace sociale e sviluppo futu-ro, cosa fa l’Europa? Troppo poco e in modo troppo disperso e contradditto-rio. Ancora oggi un gigante industriale e finanziario, un quinto degli scambi globali e la maggiore ricchezza cumu-lata finanziaria al mondo, ma trop-po diviso al suo interno, con rischi di perdita di competitività, autorevolez-za, stabilità dei modelli di convivenza sociale e politica, perché incapace di programmare e investire in un futuro comune, o di proporre modelli e vie alternative di disinnesco della crisi so-ciale annunciata.In un confronto sempre piu’ complesso tra blocchi economici, e in un regime di risorse scarse, la governance comples-sa e contraddittoria (Commissione, Parlamento, Governo Europeo, Consi-glio dei ministri, 27 governi, 23 lingue e elezioni continue) e la unione man-cata delle politiche fiscali e industriali nell’area di libero scambio e di unione monetaria, rischiano di far implodere l’intera struttura sotto il peso della cri-si sociale e dell’acuirsi delle divergen-ze nazionali. Nel primo dopoguerra la costruzione europea è stata un potente stimolo di crescita, sviluppo sociale, sinergia per tutti i paesi aderenti, e iin

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nome di questo successo ha avuto una capacità di attrazione impressionante. Il nobel per la pace alla istituzione, fat-to unico, è il giusto riconoscimento alla capacità di osare dei padri europei.Ma l’Europa dei soli mercati di oggi mostra come detto i suoi limiti: in un’area ormai senza frizioni l’impasse tra interessi nazionali ed europei, in mancanza di un governo unico delle risorse, rischia di rendere strutturale il travaso crescente di capitali, risorse, cervelli verso le aree meglio organiz-zate. Spingendo le aree più deboli alla deflazione salariale, desertificazione industriale e disastro sociale.Dalla nascita dell’Euro il travaso della produzione industriale dalle aree de-boli (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda) al resto d’Europa è impressio-nante.Altrettanto significativo è il travaso co-stante di capitali e risorse, e l’inizio di una sorta di migrazione interna degli intelletti e dei giovani ad elevata sco-larizzazione, con impoverimento delle aree meno organizzate.Del resto in un’unione monetaria im-perfetta, senza correttivi pubblici e politiche di riequilibrio, questo era lo sbocco inevitabile. Il crollo del muro di Berlino, e l’unione tedesca si è accom-pagnata ad uno dei piani più impegna-tivi di riequilibrio industriale europei. L’Europa delle istituzioni adotta politi-che di aggiustamento progressivo, ma

con questo si assume un rischio eco-nomico, politico e istituzionale elevato.Il sintomo più evidente è lo scollamen-to tra opinioni pubbliche e istituzioni comunitarie, giunto ai livelli minimi dalla istituzione delle stesse.Nella fase iniziale la costruzione euro-pea, seppur imperfetta, è stata il moto-re dello sviluppo economico e sociale dell’intera area. Ma oggi rischia di es-sere essa stessa un fattore di amplifica-zione Forse proprio a causa del suo succes-so, l’Europa rischia di implodere per troppa fiducia in se stessa, o per troppo egoismo nazionalista. La perdita di tensione europeista si ac-compagna ad una minore capacità di investire sul futuro, sia industriale che del know how e della conoscenza. Gli indicatori sono tanti. Tra questi uno significativo è la perdita di competiti-vità complessiva non solo verso i nuovi protagonisti dello sviluppo, ma verso gli stessi USA.Se per l’Europa, questo è un momento di crescita bassa, debolezza e reflazio-ne, per l’Italia il momento è ancor più delicato. Con il Portogallo è l’unico pa-ese europeo in cui il prodotto interno lordo procapite è diminuito dall’avvio dell’Euro. L’Italia resta, con la Germania uno dei principali motori industriali europei, ma negli ultimi anni sta assistendo ad un arretramento costante della capaci-

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tà competitiva e ad una progressiva de-sertificazione industriale. Un fenome-no molto più grave di quanto percepito e in costante accelerazione. Perdendo brand, ricerca, fase alta e controllo dei processi di creazione del valore ag-giunto. In questo contesto, il lavoro è parti-colarmente penalizzato dalla politica fiscale e da oneri impropri. Il costo all’impresa è gravato da un cuneo fisca-le pari ad oltre il 47% della retribuzio-ne totale lorda, tra i livelli più altri del mondo, e crescente rispetto agli inizi del 2000.Più in generale il sistema fiscale sfavo-risce le imprese ad elevato contenuto di lavoro. Introdotta nel 1997, l’IRAP grava infatti su una base imponibi-le costituita dal valore aggiunto delle imprese in senso lato ovvero dedotta dalle componenti di remunerazione del capitale (utili e interessi passivi) e del lavoro (retribuzioni lorde ed oneri sociali). In momenti di particolare cri-ticità sociale come l’attuale, è una for-ma paradossale di disincentivo per le imprese che scelgono di continuare ad impiegare manodopera locale. Il paradosso è che da un lato lo Stato sfavorisce indirettamente e indistinta-mente l’impiego del lavoro, dall’altro interviene per mitigare gli effetti di spiazzamento del costo relativo, im-pegnando somme pubbliche crescenti. Ammortizzatori sociali come la Cassa

integrazione guadagni che avrebbe-ro dovuto fungere da ammortizzatori temporanei, diventano uno strumento distorto e strutturale di gestione del lavoro, usato come forma di politica salariale stabile dalle grandi impre-se. L’effetto sul sistema sociale è una distorsione strutturale permanente nell’intervento di solidarietà, con di-sparità nel sostegno alla disoccupazio-ne insostenibili.Le imprese hanno reagito alle frizio-ni del sistema sfruttando al massimo le leve di flessibilità aperte in tema di contrattualistica di lavoro. Negli ulti-mi tre anni, la creazione di nuovi posti di lavoro è quasi esclusivamente (oltre l’80%) in contratti flessibili. Convivo-no anche nella stessa azienda a parità di prestazioni, modelli di lavoro estre-mamente frammentati per salario, ga-ranzie, rigidità, protezioni sindacali. La maggiore flessibilità che è stata un fattore di sblocco in un sistema sovra regolato, ha assunto contorni parossi-stici e rischia di porre un vincolo allo sviluppo sociale attuale e futuro.I giovani sono i primi esclusi. Rispetto ad altri sistemi nazionali, si inseriscono tardi e male, e perdono capacità com-petitiva per il permanere eccessivo in ruoli di supporto e bassa manovalanza. La anarchia contrattuale, e la mancan-za di un disegno genera inoltre nelle al-tre fasce di età competizioni improprie e stress organizzativi costanti.

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Su tutti questi elementi bisognerebbe avere il coraggio di osare, riportando il lavoro al centro del sistema sociale. Uniformando e semplificando le mo-dalità di contatto tra impresa e lavoro, riducendo i costi impropri fiscali, favo-rendo il rapporto stabile, l’inserimento e l’uscita graduale, la sinergia tra gene-razioni. Ad esempio con contratti di la-voro stabili che prevedano una evolu-zione del rapporto anche in termini di orario in base alle esigenze reciproche: entrata parziale e formazione all’inizio, graduale passaggio alla fase di pieno utilizzo, e rilascio graduale nel tempo (per non disperdere know how e ridur-re i costi sociali di reintegrazione). Il Paese nel suo complesso è oggi in af-fanno rispetto ai processi in atto e ne-cessita politiche industriali, coraggiose che liberino risorse: • Investe troppo poco nel suo futuro:

le risorse per la ricerca o per la istru-zione universitaria sono tra le più basse in area OCSE. Non è solo un problema di quantità di risorse. La ricerca privata è inesistente anche per la frammentazione del sistema industriale e quella pubblica viene erogata male per la eccessiva bu-rocratizzazione, frammentazione e lentezza nelle decisioni e erogazioni. La complessità dei meccanismi alza il costo della intermediazione (con-sulenti, formalità, operatori) e riduce la consapevolezza sugli effetti sul ter-

ritorio. • L’inefficienza/inefficacia e frammen-

tazione dei sistemi attuali di accesso al sistema di incentivi e dei meccani-smi di spesa, porta anche ad un siste-matico sottoutilizzo delle risorse di-sponibili. Basti pensare ai 34 miliardi di risorse comunitarie non utilizzate al 31/12/12, disponibili dalla piano 2007/2013 per i programmi europei di convergenza e competitività

• E’ diventato uno dei Paesi in cui fare impresa è piu’ complesso e disincen-tivato. Le esternalità negative sono tante: dalla penalizzazione finanzia-ria nell’accesso al credito (per quan-tità, qualità e costo), alla minore cer-tezza del diritto in tema di rapporti economici, ad un eccessivo peso bu-rocratico. I carichi percepiti sono a volte talmente invasivi da scoraggia-re l’aumento dimensionale o l’impre-sa stessa.

• In molti settori chiave della nuova economia digitale l’Italia ha perso capacità di networking e leadership, confinata a mercato evoluto, ma di sbocco.

• La riconoscibilità come elemento di vantaggio competitivo si sta banaliz-zando o viene utilizzata esternamen-te, con la perdita dei Brand storici e il permanere di una eccessiva par-cellizazione industriale. Perdendo il controllo o i processi a maggiore va-lore aggiunto delle filiere dell’Agroa-

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limentare, del turismo, del lusso • Il livello di competitività complessivo

diminuisce continuamente in tutte le regioni, persino in settori come il tu-rismo, sprecando opportunità stori-che di posizionamento internaziona-le

• Lavorare con controparte la pubblica amministrazione è diventato eccessi-vamente complesso e incerto; i tem-pi di pagamento medi superano di tre volte la media europea, con uno stock di arretrato eccessivo.

Il connubio banca/impresa che è stato alla base del successo di molti distret-ti italiani, con il consolidamento del settore finanziario si è interrotto, pri-vando spesso l’impresa medio/piccola d’interlocutori naturali sul territorio. Lo sviluppo imprenditoriale degli anni settanta, aveva avuto tra i suoi fattori di successo anche un ambiente finan-ziario complessivamente adatto al tipo di sviluppo, con banche di piccole di-mensioni che condividevano l’interes-se alla crescita, avevano una relativa velocità decisionale, erano prossime e avevano un linguaggio accessibile. Nel decennio scorso digitalizzazione e glo-balizzazione hanno cambiato modalità e tempi del fabbisogno di capitale, evi-denziando i punti di debolezza del mo-dello di crescita italiano, mentre con-solidamento e aumento del grado di formalizzazione del sistema bancario (con l’adozione tra l’altro delle regole

di Basilea per la valutazione del rischi di credito) rendeva sempre più diffi-cile il contatto tra impresa ‘nana’ o in crescita italiana e sistema finanziario. Nonostante i tentativi di correggere tale impostazione con organizzazioni territoriali, il sistema bancario questa distanza non ha cessato di ingrandirsi nel tempo.Al tempo stesso l’industria del rispar-mio gestito non riesce a canalizzare le risorse verso il sistema produttivo, e, attraverso un costante travaso del controllo verso gruppi stranieri rischia di perdere sempre più focus sul paese. Resta il controllo della distribuzione dei prodotti finanziari, ma non esiste una finanza per l’impresa adeguata alla struttura industriale del paese. Il rischio è un impoverimento indu-striale crescente, che si accompagna all’impoverimento sociale e politico. L’industrializzazione è ormai nei nu-meri. Dal 2007 al 2012 l’Italia ha perso il 20% della propria produzione indu-striale. Nel solo 2012 i fallimenti e la chiusura di impresa sono stati oltre 12.000 (oltre 45.000 dal 2009). Ma so-prattutto peggiora la qualità dei nume-ri. Molte nuove imprese sono tali solo nel nome, in quanto prodotto impro-prio della trasformazione dei rapporti di lavoro subordinato in rapporti tra partite iva, o finte imprese. Le re loca-lizzazioni produttive nei settori della ricerca e della produzione spesso sono

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il frutto di una competizione al ribasso dei costi di produzione, in fasi del ciclo a basso valore aggiunto.

9. La ricerca di un modello nuovo.

I dati analizzati finora danno una sen-sazione univoca di pericolosità sociale e politica del modello economico glo-bale attuale, e una fragilità particolare per il progetto di costruzione europeo e per il futuro dell’Italia. Questo deve spingerci a livello teorico ad una ri-flessione profonda sui valori minimi di coesione sociale che si considera irri-nunciabili, per la sopravvivenza stessa del modello di rapporti sociali, e a livel-lo pragmatico alla ricerca delle ricette migliori per il superamento della fase attuale. In questo contesto bisogna prepararci a ragionare in modo originale, fattivo, anche fuori dagli schemi. Recuperan-do persino la centralità della politica e della politica industriale come fattore indispensabile di indirizzo delle risorse scarse e di coesione. La globalizzazione non è un elemento naturale di sviluppo, ma un processo che deve essere governato. La libertà finanziaria cieca e il laisser faire sociale non portano ad un benessere diffuso. La deriva di un sistema lasciato a se stesso è l’instabilità politica e sociale, e in ultima analisi il rischio sistemico,

a fatica tamponato con misure straor-dinarie e forse irripetibili nel 2007. Le eredità negative del modello passato vanno superate, ma sarà un processo lungo e non facile. Sarà come detto in primo luogo un processo culturale che avrà bisogno di tutti gli attori sociali e politici, e soprat-tutto di consapevolezza dopo un lun-go ventennio di distrazione sociale. La responsabilità dell’agire economico, finanziario e tecnico, è del resto sem-pre più al centro delle riflessioni della dottrina sociale della Chiesa e di Papa Francesco, dando anche da quel lato una sensazione di urgenza e impre-scindibilità.E bisogna agire con coraggio e chiarez-za. Nel 2011 le probabilità di un disa-stro istituzionale europeo erano alte, persino quotate nei mercati finanziari; in quel momento il default di un Paese europeo avrebbe probabilmente mina-to lo stesso processo d’integrazione eu-ropea. Il ‘baco’ di sistema era la manca-ta previsione di un prestatore di ultima istanza in un sistema in cui i Governi avevano di fatto rinunciato alla sovra-nità monetaria. Il principale merito del Governatore della Banca Centrale Europea è stato nel momento di mas-sima crisi di affermare con chiarezza l’identità comune europea e di imporre misure non ortodosse per la difesa del-le istituzioni finanziarie e dei sistemi finanziari europei. Anche grazie a que-

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sta determinazione oggi si parla di crisi economica, sociale, politica ma le pau-re di crisi sistemica e fallimento sono state ricondotte alla normale dialettica debito/risorse e si è guadagnato tempo prezioso. Si è dato sostanza non solo negativa alla creazione di una moneta unica, ridando spazio a forme ulteriori di integrazione. Ma andrebbe fatto altrettanto e con maggior coraggio nel difendere e so-stenere la costruzione europea, ricor-dando la valenza politica e sociale del progetto. Una costruzione che ha ga-rantito convivenza pacifica e sviluppo per il periodo più lungo mai sperimen-to e che le permetterebbe di difende-re un modello diverso e autoctono di sviluppo e democrazia sociale. Ma che oggi sconta i difetti del mancato pas-saggio dalla unione dei mercati a sog-getto politico; che in questo modo sta accumulando squilibri e diffidenze che potrebbero minarne dal di dentro sta-bilità e futuro.L’Europa deve cominciare a fare un’u-nica politica industriale, sociale e del territorio, per non essere emarginata dai nuovi blocchi e dalle nuove urgen-ze. Tantopiù che demografia, costo dell’energia, problemi istituzionali e frizioni produttive rischiano di minar-ne la capacità competitiva e il controllo delle tecnologie del futuro. Deve fare chiarezza sui valori minimi che ritiene imprescindibili nell’interscambio con

le altre aree, ridurre le competizioni interne fiscali o sociali, che di fatto mi-nano la stabilità sociale complessiva e probabilmente intraprendere definiti-vamente il cammino federalista. In Italia, ancor più che in altri paesi per l’urgenza dei problemi, occorre ritor-nare a fare politica industriale attiva-mente, con determinazione e persino incoscienza politica. Sulle ceneri del disastro.

9.1 Crescita e inclusione

Il ritorno alla crescita è un fattore indi-spensabile al riequilibrio finanziario e alla coesione sociale. Ma deve avvenire in modo più equilibrato e lungimiran-te. La crescita deve accompagnarsi a poli-tiche favorevoli al lavoro e alla coesio-ne sociale:• Riduzione dei costi impropri gravan-

ti sul lavoro• Ricerca di forme diverse di valutazio-

ne della capacità contributiva di im-presa

• Universalizzazione delle misure di supporto sociale (per evitare distor-sioni)

• Semplificazione contrattuale e buro-cratica.

• Incentivazione relativa delle forme stabili di rapporto di lavoro

• Focus sul lavoro giovanile

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Non è tollerabile che una generazione intera sia esclusa dal mondo del lavoro o vi partecipi solo marginalmente. Chi conosce i meccanismi di selezione del lavoro, sa che la gran parte degli esclusi di lungo corso di oggi sono condannati ad una probabile marginalizzazione dal lavoro, a meno di meccanismi nuovi. Le imprese difficilmente investono in formazione e in crescita su risorse che hanno superato i trenta anni. Inoltre il Paese stesso si impoverisce, sottoutiliz-zando energie e capacità sulle quali ha investito in formazione.La struttura demografica del Paese rende urgenti politiche di sostegno delle famiglie, finora latitante, di radi-camento giovanile e di inclusione di energie esterne. L’immigrazione è una forma inevitabile e opportuna di ag-giustamento sociale, che va governata e non temuta. Già oggi la manodopera straniera censita rappresenta circa il 10% del totale occupato, con ritmi di crescita della popolazione non residen-te nell’ultimo decennio pari al 300% circa, inferiore per intensità in Europa solo alla Spagna.

9.2 Semplificazione e riduzione del-le esternalità negative sull’impresa

Lo sviluppo industriale del dopoguer-ra si è realizzato in un contesto dere-golamentato difficilmente replicabile.

Ma la rete attuale di maglie burocrati-che e regolamentari rende oggi estre-mamente difficile intraprendere. Gli stessi interventi esemplificativi hanno mantenuto il peccato originale della complessità e del particolarismo. Le imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, non hanno tanto bisogno di incentivi quanto di chia-rezza e semplicità: procedure sempli-ficate per la nascita e il rapporto con le amministrazioni, sportello unico per le pratiche e per il fisco, riduzione del numero e della complessità dei prelievi fiscali, maggiore certezza giuridica nei rapporti tra privati e con la pubblica amministrazione, semplificazione del-le procedure di mortalità di impresa e riallocazione dei beni ai soci. L’acces-so alle informazioni, l’espletamento continuo delle pratiche, il ricorso ai consulenti ha un costo eccessivo per la piccola impresa non solo finanziario. Il tempo è un valore. In regime di risorse scarse bisogna liberare tutte le ener-gie non utilizzate, eliminando tempi morti, vessazioni inutili, regimi auto-rizzativi senza tempi certi di risposta o chiarezza di graduatoria. Interventi di questo tenore avrebbero un effetto po-sitivo senza costi per il pubblico, anzi liberando risorse pubbliche destinate al controllo. Altrettanto importante per la ripresa è il sistema finanziario, troppo alieno oggi al sistema delle imprese. Vanno

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trovate strade nuove per orientare le risorse disponibili ai settori strategici e alle imprese, e per favorire la nascita d’impresa. Fondi pensione, assicurazione, fonda-zioni, grandi enti ed imprese pubbliche non possono essere esenti da questo sforzo per l’eccezionalità della situa-zione. Va recuperata l’idea del Sistema Paese per liberare le molte risorse in-trappolate o reorientare le quote di ri-schio disponibile oggi parcheggiate su investimenti esteri. Favorendo la nasci-ta di prodotti innovativi al servizio del Paese, l’Italia ha una straordinaria ca-pacità di innovazione ed efficacia nella gestione del debito pubblico; uno sfor-zo simile va effettuato per gli strumenti per il territorio.Va infine disincentivata la disinterme-diazione dal credito delle banche, av-venuta in questi ultimi anni in forma eccessivamente penalizzante per le im-prese e il territorio; e utilizzato ancor piu’ l’impegno delle istituzioni finan-ziarie a controllo pubblico nella mobi-lizzazione del credito diffuso.

9.3 Focalizzazione della politica in-dustriale su settori strategici. Inve-stimento in tecnologia, formazione e ricerca. Welfare come opportunità.

In regime di risorse scarse la politica industriale ha il compito ingrato delle

priorità. Individuare i settori, come il turismo, in cui vi è un vantaggio com-petitivo naturale, o strategici, ed inve-stire con coraggio e determinazione su questi temi. La scelta non deve essere un fatto solo tecnico, ma emergere come priorità nazionale condivisa, per poter sopravvivere ai vari cambi di go-verno. Altrettanta coerenza va ricerca-ta nello stimolo pubblico alla forma-zione, ricerca e sviluppo tecnologico. Per concludere qualche osservazione sulle opportunità del welfare. Affron-tare con decisione i temi del welfare, non solo in una giusta ottica di conte-nimento dei costi, ma anche di efficacia e qualità dei servizi, di benchmarking e controllo di qualità, può seminare la nascita e valorizzazione d’importanti vantaggi competitivi. L’Italia e l’Europa stanno vivendo in anticipo dinamiche demografiche e sociali che rapidamen-te si produrranno nelle altre aree del mondo, Cina e America latina in pri-mis. Con la diffusione delle conoscen-ze mediche e la ‘emersione’ di alcune grandi aree, le aspettative di vita stan-no rapidamente omologandosi verso l’alto.Sviluppare un sistema sanitario, pen-sionistico, assicurativo e più in generale dei servizi del welfare di livello elevato ed efficiente, significa creare poten-ziali infrastrutture e prodotti per la domanda di benessere globale. La po-polazione anziana dei cosiddetti Paesi

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emergenti in termini numerici si avvia a diventare 4 volte più ampia di quella dei Paesi sviluppati. Dovranno svilup-pare l’industria del benessere in loco, o potranno richiedere la prestazione di servizi con brand riconoscibile per la domanda più sofisticata e ricca. L’Italia ha centri di eccellenza che potrebbero essere valorizzati e organizzati in rete in una logica di mercato globale dei servizi. In conclusione la politica non può abdicare, anzi. Deve rilanciare indivi-duando priorità, opportunità e sentieri di crescita meno iniqua. Recuperando strategia e pragmatismo.

Una selezione delle immagini utilizzate nell’intervento è disponibile nella sezione a colori a pagina 73. La presentazione com-pleta è disponibile sul sito www.associa-zioneares.it.Il video completo dell’intervento è dispo-nibile sul canale YouTube “Associazione AReS.

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I VINCOLI E LE POTENZIALITÀDELLA FINANZA PUBBLICA

Stefano FassinaViceministro dell’Economia

Grazie Paolo, e grazie a tutti voi per avermi invitato a questa inizia-tiva davvero utile. Oggi dobbiamo provare a tenere sotto controllo la frustrazione tra la dimen-sione dei problemi che abbiamo di fronte, l’analisi seria di cui abbiamo ap-pena avuto un esempio, e poi l’agenda quotidiana, che comporta discutere di aspetti davvero secondari.Ha ragione Paolo quando dice che questa inversione dell’ordine degli in-terventi è stata provvidenziale, nel senso che l’analisi che è stata fatta è il contesto necessario per provare a fare qualche riflessione. Condivido molto quanto detto finora, e vi assicuro che l’analisi che è stata fatta non è un’ana-lisi che va di moda. L’analisi che va di moda, infatti, racconta la storia fino a un certo punto: i debiti pubblici sono andati fuori controllo, bisogna fare au-sterità, ecc.. Invece c’è stato un raccon-to con uno svolgimento completamen-te diverso, e che sottoscrivo. Noi continuiamo a costruire la politi-ca economica sull’analisi ideologica, di

quelle che sono state le ragioni della crisi. E invece di avvicinarci alla solu-zione temo che come veniva mostrato nei grafici, ci allontaniamo dalla solu-zione, perché non solo non abbiamo corretto nessuno degli squilibri che hanno portato alla rottura, ma gli squi-libri si sono accentuati. L’andamento delle basi monetarie o degli asset delle Banche centrali indi-cano quali sono state le forze che sono riuscite a tenere sotto controllo la si-tuazione, ma gli squilibri reali non si sono attenuati, anzi si sono aggravati, Prima veniva ricordato l’andamen-to della distribuzione della ricchezza, che considero una delle variabili più rilevanti per spiegare la degenerazione della finanza, i mutui subprime, e poi l’esplosione della bolla finanziaria. Qualche giorno fa ho visto un grafico sugli Stati Uniti che descrive la situa-zione degli ultimi 5 anni. Dal mese di novembre 2008 a settembre 2013, quindi in un periodo di 5 anni, il red-dito reale del 99% della popolazione è aumentato dello 0,4%. Il reddito re-

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ale dell’1% più ricco è aumentato del 31,4%. L’indice di Wall Street è aumen-tato del 98,2%. Voi capite bene che è difficile dare una risposta categoricamente positiva alla domanda “siamo a un punto di svolta?”. Perché se uno va oltre quelle che sono le comprensibili sottolineature di dati pur positivi che emergono da questa ultima fase, e va oltre la retorica quotidiana, si rende conto che ci sono degli elementi forti di contraddizione. Il grafico sull’Europa che ci ha mostra-to Lamberti, che ci mostra come il tas-so di disoccupazione, ed in particolare quella giovanile, sia ancora molto alto in tutta l’Eurozona, a mio avviso andreb-be volantinato in Parlamento tra quel-li che continuano a insistere che basta fare qualche riforma strutturale e tenere sotto controllo la finanza pubblica per risolvere i problemi. Purtroppo non è così. I problemi nell’Eu-rozona non sono soltanto sul versante dei Paesi cosiddetti peccatori, tra i quali ci siamo noi, ma anche su quello dei Pa-esi sani. Noi siamo un sistema integrato, e il dramma sul piano politico è che in un Paese che ha un tasso di disoccupa-zione che è tornato a livelli fisiologici, che prende a prestito a tassi di interesse bassissimi (perché i capitali si spostano da quel lato perché dall’altra parte sono più rischiosi), è difficile spiegare all’opi-nione pubblica di quel Paese che siamo sulla rotta sbagliata. La gente risponde di no, che va tut-to bene, perché le famiglie prendono i mutui a zero, le imprese prendono i crediti a zero, la disoccupazione non c’è. Il problema, però, è che ci sono rot-te divergenti. Non si può andare avanti

all’infinito, prima o poi il meccanismo si rompe. Per fortuna Draghi attua una politica monetaria con elementi di ortodossia, che consentono di tenere il coperchio su questa pentola. Però poi gli spread sociali hanno dei riflessi politici signi-ficativi, non si riesce ad avere una pro-spettiva stabile con tassi di disoccupa-zione che vanno oltre il 25%e, come in Spagna, Grecia e Portogallo, oppure con un tasso di disoccupazione giovanile al 40%, come da noi in Italia. La questione è che dovremmo avere più consapevolezza delle dinamiche reali che attraversano il nostro quadro socia-le, politico ed economico, perché se noi non riusciamo a rendere più condivisa questa analisi non riusciamo neanche a cambiare l’agenda di policy. E cambiarla è fondamentale. Io guardo con grande preoccupazione al prossimo appuntamento elettorale europeo, perché per la prima volta si parlerà di Europa. Da noi è sempre sta-to un appuntamento per misurarci su vicende nazionali. Invece questa volta, per la prima volta, si parlerà di Europa, e avranno certamente un vantaggio no-tevole quelle forze politiche che diranno no all’euro e al’Europa. Noi che invece siamo convinti della necessità di andare avanti con l’Europa faremo difficoltà a spiegare la nostra posizione. All’inizio del 2011 fornimmo all’allora ministro Tremonti un nostro piano na-zionale di riforme, alternativo a quello che presentava il governo Berlusconi, e preceduto da un’analisi che metteva in evidenza queste cause profonde della crisi, gli elementi di squilibrio reale e la necessità di affrontare anche questi pro-

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blemi, per riuscire poi a venire fuori dal-la situazione difficile in cui ci troviamo. A me pare che oggi dovremmo poter avere la forza di fare un bilancio di 5 anni di politica economica attuata in eurozona. Premesso che tutti condivi-diamo l’obiettivo che il debito pubblico vada ridotto, nessuno ritiene che si pos-sa fare la crescita con il debito pubblico, e che il suo aumento sia un aspetto irri-levante. Dopo 5 anni di politica economica e di politica di bilancio nell’Eurozona, che ha contribuito significativamente ad ag-gravare le situazioni dell’economia reale in termini di recessione e stagnazione, di aumento della disoccupazione e di chiusura di imprese, il risultato è che nell’Eurozona in media il debito pub-blico è passato dal 65% al 95% del Pil. Un aumento di ben 30 punti percen-tuali. Noi in questi anni abbiamo spesso giustamente denunciato le condizioni sociali e le conseguenze sociali dell’au-sterità. È il fallimento di quella politica ai fini del raggiungimento dell’obiettivo primario al quale era rivolta, e cioè la ri-duzione del debito pubblico, che invece aumenta ovunque. É un rapporto, e se va giù l’economia poi quel rapporto sale, anche se il deficit si riduce. Per tornare al titolo del mio intervento, “I vincoli e le potenzialità della finanza pubblica”, io credo che vada fatta una riflessione che guarda a quella che è sta-ta la politica di bilancio in questi anni, a quella che è stata l’interazione tra la politica di bilancio e l’economia rea-le. La Commissione europea dovrebbe fare una riflessione realista come quella che propone da un paio di anni il Fondo Monetario Internazionale, e cioè rico-

noscere la dimensione dei moltiplicato-ri delle politiche di bilancio, che non è un’eresia, è guardare i numeri. I programmi di bilancio erano stati co-struiti ipotizzando dei moltiplicatori che erano in media 0,5. Se si faceva una manovra di 100 si aveva un effetto ne-gativo di 50. Poi è venuto fuori che questi moltipli-catori erano uno, uno e mezzo, due. E quindi si faceva una manovra di 100 e si aveva un effetto negativo di 200. La conseguenza era che la manovra che si faceva non solo non avvicinava, ma allontanava l’obiettivo, e questo spiega perché nonostante siano state fatte ma-novre pesanti, l’obiettivo è stato allonta-nato. Io credo che tutti vogliano ridurre il de-bito pubblico, e che tutti credono nel-la cultura della stabilità, riconoscendo però che la strada che stiamo percor-rendo non ci porta alla stabilità, non migliora la stabilità ma la peggiora.Di fronte a questi dati è impossibile fare una discussione laica che guardi ai numeri e dice che forse, se voglia-mo raggiungere quell’obiettivo che tutti condividiamo, dobbiamo provare a fare qualcosa di diverso. Dovremmo riuscire a raccontare e a co-struire il consenso, e questo lo devono fare le forze politiche, e non è ovvia-mente compito soltanto del governo. Lo devono fare anche le associazioni come quella che ci ospita stasera, insieme alle forze economiche e sociali. Dobbiamo costruire un’analisi meno ideologica, se vogliamo cominciare a risolvere qual-che problema. Dobbiamo rispettare gli impegni che abbiamo preso, non si può uscire da

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questa situazione con atti unilaterali. E quindi la manovra di finanza pubblica deve confermare il percorso di ridu-zione dell’avanzo primario strutturale, come riportato nei documenti che ab-biamo prodotto. Una manovra che cer-ca di riallocare le risorse affinché ci sia una spesa più efficiente, anche il siste-ma dei prelievi, che sostenga la produ-zione e non la rendita. Una operazione complicata data anche la presenza di interlocutori di governo che continua-no all’insegna di una politica economica demagogica. Dobbiamo fare queste operazioni, e ci proponiamo di fare tutto un elenco di riforme strutturali prioritarie, come quella per il funzionamento delle pub-bliche amministrazioni, le infrastruttu-re, la regolazione di alcuni mercati.. la politica industriale. È quindi necessario invertire quel trend divergente che c’è stato illustrato, e con-centrarci sulle scelte che andrebbero messe al centro della politica economi-ca europea, e che dovremmo provare a mettere al centro dell’agenda europea in occasione della Presidenza italiana dell’unione, che ci sarà a partire dal 1° luglio. La questione dell’unione banca-ria non è un capriccio, è fondamentale per spezzare la catena che oggi tiene insieme il tasso di interesse sui titoli del debito pubblico e i tassi di interesse bancari.È innegabile che sia indispensabile il completamento dell’unione bancaria, che consenta la vigilanza e la risoluzione dei problemi, e quindi permetta al siste-ma bancario di trovare una sua qualche autonomia rispetto alle condizioni della finanza pubblica dei rispettivi Paesi.

Un caso di scuola è quello della Spagna, che non avrebbe ragione di avere tassi di interesse così elevati sul debito pub-blico, se non avesse un sistema bancario in difficoltà, che viene caricato soltanto sul bilancio pubblico. C’è una questione che è ancora un tabù, anche se in questo caso è stata segna-lata ormai da un paio d’anni da Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale: la questione dell’inflazione. Noi per fare mezzo pun-to in più di Pil reale dobbiamo sudare sette camicie. Ma se per un periodo ri-uscissimo ad avere un po’ più di infla-zione, Blanchard suggerisce il 4% invece del 2%, sarebbe un grosso aiuto per i debitori. È ovvio che, come ho detto, si tratta di rompere un tabù.Il terzo e penultimo elemento che vedo come molto rilevante è quello della di-namica retributiva in ciascun Paese.Tra gli elementi che hanno portato la Germania ad avere attivi di bilancio commerciale superiori a quelli della Cina in termini di percentuale di Pil, c’è il fatto che a partire dalla seconda metà degli anni 90 le retribuzioni medie dei lavoratori tedeschi sono diminuite in termini reali.Cioè la produttività aumentava, le re-tribuzioni in termini reali diminuivano. Questa è stata una sorta di svalutazio-ne che ha consentito alla Germania di fare molta competitività. Non hanno fatto solo questo ma anche investimenti e riforme. Ma questo elemento è stato molto rilevante. È chiaro che se tu condividi la stessa moneta questo gioco non può essere ge-neralizzato; se tutti cercano di recupe-rare competitività sul partner accanto,

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se tutti cercano di crescere attraverso le esportazioni a scapito di quello accanto, alla fine questo sistema non sta insieme perché ci vuole qualcuno che importa. Fondamentale è coordinare le politiche economiche nazionali dei paesi dell’Eu-rozona facendo in modo che questa sva-lutazione interna, che questa gara a chi svaluta di più il lavoro per conquistare competitività non avvenga, perché se si fa così si deprime la domanda interna di ciascun Paese, le esportazioni non au-mentano.Abbiamo assistito alla rivalutazione del dollaro: gli Stati Uniti non possono es-sere più quello che sono stato per mol-to tempo, fino all’esplosione della crisi, e cioè il consumatore di prima istanza. Ed è difficile pensare che le economie emergenti dei Paesi trainati dalle espor-tazioni improvvisamente si dedichino alle importazioni. Arrivo all’ultimo punto: bisogna punta-re anche sulla domanda interna euro-pea, noi non veniamo fuori da questa situazione se non aumenta. Possiamo fare tutte le riforme strutturali di que-sto mondo, possiamo massacrare il mercato del lavoro nel modo più atro-ce possibile, ma se non aumenta la do-manda interna la dimensione europea è tale che le esportazioni non saranno mai sufficienti a generare una crescita di intensità tale da assorbire la disoccu-pazione. Domanda interna, quindi, vuol dire miglioramento della distribuzione del reddito e della ricchezza: quelli che hanno di meno devono avere un po’ più di reddito, per tornare a consumare. Migliorare la distribuzione del reddito, e quindi l’equità, è variabile macroeco-nomica fondamentale. E poi ci vuole il

sostegno agli investimenti.C’è il Fiscal Compact, c’è il pareggio di bilancio in Costituzione, noi riusciamo a far passare la golden rule a livello na-zionale, però a livello dell’Eurozona ci vogliono sostegni agli investimenti. Non per scavare le buche sulla sabbia per poi ricoprirle, ma per migliorare i contesti competitivi delle nostre imprese attra-verso le reti, le infrastrutture, gli inve-stimenti in ricerca e innovazione, attra-verso investimenti per la formazione, quindi investimenti pubblici produttivi oppure pubblico-privati produttivi. Co-munque misure di sostegno agli investi-menti. Senza interventi correttivi molto significativi io credo che sia complicato non riconoscere l’insostenibilità dell’at-tuale quadro economico dell’Eurozona.E faccio questa affermazione con la con-sapevolezza della rilevanza che ha. Per chiudere: in questi mesi ripeto spes-so questa frase di Keynes, che non è relativa all’economia ma più alla psico-logia sociale, e cioè scriveva che prima o poi sono le idee, non gli interessi co-stituiti, ad essere pericolosi, sia nel bene che nel male. Ecco, io credo che oggi sia prioritaria una battaglia delle idee, e un’associazione come quella che Pier Paolo Baretta presiede ci aiuta molto a fare questa battaglia, e credo anche che ci aiuta a poterla vincere.

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LA POLITICA INDUSTRIALE

Claudio De VincentiSottosegretario al ministero dello Sviluppo economico

Premessa

La crisi finanziaria che ha determinato la più ampia e profonda depressione dal dopoguerra ad oggi ha messo in evidenza i rischi legati ad un eccessivo ruolo e peso della finanza nel sistema. La leva finanziaria, nata per sostenere l’economia reale, si è trasformata in un circuito parallelo in cui la generazione della ricchezza sembrava slegata dalla capacità di produrre servizi e prodotti in grado di garantire i diritti e di soddi-sfare i bisogni reali del cittadino/con-sumatore. La crisi è stata fronteggiata in Europa attraverso una stretta di rigore nella politica di bilancio degli Stati che, in-sieme all’azione di sostegno messa in atto dalla BCE ha ricomposto il quadro rimettendo sotto controllo lo spread. Se la situazione è stata recuperata sul versante del deficit, essa rimane però largamente irrisolta sul versante del ri-entro del debito. Più chiaro che mai in questo senso il segnale che viene dal settore bancario,

che pure avrebbe dovuto immedia-tamente beneficiare del rientro dello spread derivato dal recupero di fiducia conseguente al nuovo indirizzo dato alla politica di bilancio. Viceversa la stretta creditizia per le no-stre imprese ha comunque interessato tutto il 2012 e continua ancora nel 2013. Il credito è scarso e comunque concesso a condizioni che penalizzano le nostre imprese. Le piccole in parti-colare, rispetto a quelle di altri Paesi. Ma il dato maggiormente rilevatore del fatto che la crisi non è meramente monetaria, né finanziaria è quello oc-cupazionale.In tutti i Paesi ad eccezione della Ger-mania e del Belgio, c’è stato un aumen-to netto della disoccupazione dal 2007 al 2013. Per l’Italia il dato della disoc-cupazione ha quasi raggiunto nel 2013 la percentuale del 12%.Per uscire dalla crisi non basta il rigore nella politica di bilancio, ma è neces-saria la crescita. Non solo il fiscal com-pact ma anche un growth compact. Il dato di una crescente disoccupazio-

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ne strutturale nei Paesi avanzati è in-dice di criticità presenti nel meccani-smo della crescita, su cui si è costruito il modello di sviluppo dell’economia globale, con pesanti ripercussioni sui meccanismi di distribuzione dei reddi-ti ed inclusione sociale.Il dato occupazionale è allarmante non solo in Europa ma anche in altri Paesi avanzati, per esempio gli USA.Il perdurare della crisi, l’evidente diffi-coltà degli strumenti ordinari (mano-vra sui tassi e politiche di bilancio) a funzionare come ricetta anticrisi ha di fatto aperto un dibattito a livello mon-diale tra gli economisti e policy maker per capire il fenomeno e proporre delle soluzioni.L’economista premio nobel Michael Spence, presidente della Commissione per la crescita e lo sviluppo costitui-ta dalla Banca Mondiale nel 2006, ha analizzato la composizione settoriale dell’occupazione creata negli USA dal ciclo economico nel periodo 1990-2008. Dai dati emerge il fatto che circa il 98% dei posti di lavoro creati si riferiscono al settore dei beni e servizi non scam-biabili, beni cioè che devono essere consumati necessariamente lì dove sono prodotti, quindi non esportabili. Rientrano in questa categoria la pub-blica amministrazione, la sanità ed il benessere della persona, la distribu-zione, le costruzioni, la ristorazione, il food service e il settore alberghiero. Assai modesto è l’aumento di posti di lavoro nel settore dei beni scambiabi-li, ovvero beni consumabili anche in luoghi diversi da quelli di produzione,

dunque esportabili; quelli cioè esposti alla concorrenza internazionale. Semplificando molto la distinzione tra l’occupazione nei settori scambiabili e non scambiabili di un sistema produt-tivo, essa è assimilabile alla distinzione tra personale direttamente impegnato nelle attività “core business” dell’im-presa e quello indiretto che fornisce i servizi di supporto alla produzione.In questi anni dunque in molte econo-mie avanzate si è incrementata la com-ponente di supporto dell’economia a scapito di quella effettivamente capace di produrre valore aggiunto sul merca-to globale. L’indebolimento della effettiva capa-cità di produrre reddito connesso alla perdita di peso dei settori scambiabili è stata nascosta dalla crescente inciden-za della finanza nell’economia.La crescita che è derivata da questa si-tuazione era in realtà a “debito”, pubbli-co e privato, evidentemente destinata a rivelarsi insostenibile, con la crisi del sistema finanziario mondiale del 2008.Non si tratta del risultato di un falli-mento di mercato. Il dimagrimento dei settori scambiabili avviene sempre in condizioni di aumento della produtti-vità: il mercato reperisce le risorse su scala globale in modo estremamente efficiente; l’inefficienza è sul versante della inclusione sociale.In effetti molti settori scambiabili as-sociano la crescita di produttività alla riduzione di occupati. Questo vale an-che per settori a medio ed alto valore aggiunto, come nel caso dell’auto (me-dio valore aggiunto) e della componen-tistica elettronica: in questi casi è l’ef-

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fetto combinato della delocalizzazione e dell’automazione industriale che ha trasformato queste produzioni labour intensive in “capital intensive”.Un segnale positivo per la sostenibili-tà della crescita viene da quei settori scambiabili che hanno comunque pro-dotto occupazione: si tratta di settori ad alto e altissimo valore aggiunto “skill intensive”. Dai settori con queste caratteristi-che, può venire un contributo ad una crescita sostenibile, con aumento di produttività associato a creazione di redditi da lavoro medio alti, capaci di sostenere la domanda interna.

In Italia

I risultati ottenuti da Spence nel caso degli USA, rimangono validi anche nel caso italiano. Infatti, analizzando la distribuzione dei posti di lavoro crea-ti nel nostro Paese nel periodo 1992 - 2010, si conferma uno sbilanciamento a favore del settore dei beni e servizi non scambiabili.Inoltre, a differenza degli USA, si regi-stra una perdita netta di circa 500.000 posti di lavoro nei settori scambiabili, il tutto in un quadro di produttività “sta-zionaria”.Si registra, per così dire, un processo di “creazione distruttiva”. La produttività complessiva ristagna e c’è una preoc-cupante inversione nella creazione di valore aggiunto tra settori scambiabili e non scambiabili.Dal confronto con gli altri paesi dell’U-nione Europea, risulta evidente una de-bolezza strutturale del quadro compe-

titivo nazionale, preesistente alla crisi. Prendendo in esame pressione fiscale e costo dell’energia emerge una confer-ma, seppur a tinte diverse, di un gene-rale stato di arretramento. Tale debo-lezza si riverbera sulla parte produttiva in modo consistente la dove dal 2001 (dall’ingresso dell’euro) ad oggi la com-petitività e la produttività dell’industria italiana ha avuto un andamento forte-mente polarizzato (polarizzazione che si è accentuata negli anni della crisi): • da un lato, un’industria manifattu-

riera esportatrice che ha fatto inve-stimenti produttivi in tecnologia, in-novazione, capitale umano e mercati, che è rimasta competitiva ed ha avu-to la medesima performance e trend dei migliori competitori (Germania);

• dall’altro, una parte rilevante di indu-stria rivolta in particolare al mercato domestico (appartenente al gruppo dei settori dei beni non scambiabili) che ha investito prevalentemente in asset non produttivi (immobiliare e finanza) e che ha perso via via quote di produzione e produttività.

Il saldo dell’andamento di queste due componenti è purtroppo sensibilmen-te negativo.

La forte polarizzazione, seppur con scostamenti di peso relativo delle due componenti, è presente in tutti i set-tori e comparti, forse con esclusione di quello dell’edilizia e costruzioni, in cui prevale in modo quasi esclusivo la componente negativa.

Il calo di produttività e competitività dell’industria è dovuto nella sostanza

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ad una riduzione degli investimenti produttivi (ricerca, tecnologia, merca-ti, capitale umano) e ad una allocazio-ne degli investimenti verso il mercato immobiliare e finanziario. Contemporaneamente, nel periodo 1993-2012, abbiamo assistito ad una crescita lenta del PIL (una quasi non crescita), l’aumento della disuguaglian-za, ben espresso dall’indice di GINI (ma che trova un’evidenza limpida nel-lo spostamento di quasi un trilione di euro della ricchezza del Paese dal ceto medio, che ha una propensione al con-sumo forte, al ceto più alto, che ha una propensione al consumo molto bassa) e non ultime, le politiche di rientro del debito pubblico hanno ulteriormente congelato la crescita.

Riavviare la crescita su basi real-mente sostenibili

La crisi ed il conseguente tramonto dell’illusione che l’intermediazione finanziaria e la finanza pubblica pos-sano creare magicamente ricchezza, richiamano prepotentemente in cau-sa il ruolo di un’industria competitiva e sostenibile come vero motore della crescita del settore dei beni e servizi scambiabili.Per restituire all’industria questo ruolo, non basta puntare sull’innalzamento dei differenziali competitivi tra le di-verse economie, ma è necessario di-segnare un nuovo modello di crescita sostenibile.Questo nuovo modello deve promuo-vere una trasformazione del sistema produttivo che favorisca la crescita,

all’interno del tessuto sociale, di una nuova “smart middle class”, composta prevalentemente da lavoratori con skill professionali medio alti ed adeguate re-tribuzioni, in grado di garantire l’equi-librio tra produzione di reddito e con-sumo di beni e servizi e di assicurare una crescita economica non a debito, né basata su squilibri socio-economici tra i diversi Paesi, ma realmente auto sostenibile, nel medio-lungo periodo.Si tratta di lavoratori, impegnati in at-tività ad alto valore aggiunto, concen-trate nelle fasi dello sviluppo e della progettazione di nuovi prodotti e ser-vizi, piuttosto che sulla produzione vera e propria, capaci di operare con la flessibilità e la creatività necessarie a mantenere il passo della competizione globale.Se è vero che nella nuova economia della conoscenza non è l’accumulo del capitale a produrre la ricchezza, cioè la crescita, ma l’innovazione, le idee e lo sviluppo delle nuove tecnologie, allora la classe imprenditoriale va affiancata ed integrata da un numero crescente di questi “creatori” ben remunerati ed in grado di esprimere al meglio le proprie potenzialità.Inoltre, il contributo alla domanda ag-gregata di prodotti e servizi, provenien-te da questa nuova classe di lavoratori, è decisivo per sostenere l’occupazione dei lavoratori operanti nei settori non scambiabili. Questi settori sono gli unici in grado di riassorbire nel breve e medio termi-ne le fuoriuscite di occupati a bassa e media qualificazione derivanti dall’au-tomazione e/o delocalizzazione delle

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produzioni nazionali nei settori più tradizionali della manifattura.In estrema sintesi, l’obiettivo di questo nuovo modello è quello di favorire la crescita di una condizione media ac-cessibile, che funzioni come mecca-nismo di redistribuzione efficiente e automaticamente solidale del reddito anche nei confronti di chi non riesce ad accedervi.Azioni di aggiustamento non sono suf-ficienti. È necessario uscire dalla sin-drome “dell’orlo del baratro”, acquisire la consapevolezza che il Paese è sci-volato in fondo e che è necessario uno sforzo straordinario ed anche stru-menti non convenzionali, per costruire in tempi brevi una “rampa” per la risa-lita, rapida e duratura.La centralità dell’industria e del lavoro industriale in questo percorso è fon-damentale, non solo per la vocazione manifatturiera del Paese, ma anche e soprattutto per la trasformazione avve-nuta nel sistema economico mondiale, che ripropone il tema industriale come spina dorsale dello sviluppo dei gran-di paesi, sia di quelli avanzati che dei BRICS.Si tratta del “rinascimento” di una ma-nifattura nuova non più unicamente circoscritta alla produzione, ma che si struttura sull’intero insieme di co-noscenza, ricerca, prodotto, processi, sistemi e servizi (finanche finanziari) e su tale complessità costruisce il proprio sviluppo competitivo, rafforzando nel contempo il circuito di redistribuzione della ricchezza prodotta dalla nuova manifattura, attraverso il sostegno alla domanda aggregata di beni comuni,

prodotti e servizi non scambiabili ge-nerati dal territorio. Per far questo è necessaria una politi-ca industriale “strutturalmente” anti-ciclica nell’ambito della quale imprese e territori possano sviluppare azioni strategiche mirate, di promozione di grandi Progetti-Paese, di domanda pubblica innovativa efficacemente in-tegrate da politiche place based, fina-lizzate a specializzarne, sostenerne ed amplificarne gli effetti sul territorio. Per dare una risposta a questa situazio-ne, è necessario predisporre un pro-gramma d’intervento che, attraverso l’individuazione di driver fondamentali per la crescita, l’utilizzo e, ove necessa-rio, la definizione di strumenti idonei permetta di agire sulle criticità e riav-viare un percorso di crescita realmen-te sostenibile (sostenibile dal punto di vista economico, ambientale e sociale) del sistema produttivo.

I driver della crescita

In questo ultimo ventennio abbiamo assistito ad una serie di cambiamenti epocali che i processi di globalizza-zione, prima, e la crisi internazionale dopo, hanno reso più che mai manife-sti ed a cui bisogna dare risposta ed, in particolare:• industria/ambiente: se negli anni ’80

e inizi ’90 la politica industriale si ba-sava su un trade-off tra industria ed ambiente, oggi ci troviamo a dover compiere delle scelte di politica indu-striale dove la tematica dell’ambiente traina lo sviluppo industriale;

• manifattura avanzata/sviluppo lo-

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cale: Il modello competitivo basato sui distretti industriali, il cui vantag-gio competitivo risiedeva sul matri-monio ben riuscito tra applicazioni industriali tradizionali e i settori dei beni di largo consumo, viene oggi so-stituito dalle filiere produttive allar-gate nazionali e trans-nazionali (ca-tene del valore globali), utilizzando le tecnologie abilitanti, a monte verso il sistema della ricerca e a valle verso il settore dei servizi. Se quindi dobbia-mo rimanere un paese a vocazione manifatturiera, dobbiamo allargare il concetto di industria ad un’acce-zione più moderna, quella che con-sidera l’intera filiera economica, una filiera lunga, che collega più pezzi dell’attività manifatturiera e di quel-la del terziario avanzato, i cui confini non sono determinati dal settore di appartenenza ma dalla innovazione, dalla qualità e dall’appeal dei beni prodotti.

• 1 Governance/20 Governance: in se-guito al processo di decentramento realizzato con la riforma del titolo V della costituzione, occorre delineare un nuovo modello cooperativo tra lo Stato e le Regioni, nuovo modello che, nell’ambito di regole ed azioni condivise, lasci allo Stato il compito di definire le traiettorie di sviluppo del Paese che possano rispondere alle nuove sfide globali della società sostenendole con grandi interventi di innovazione industriale (Big Push) ed alle Regioni quello sinergico di soste-nere uno sviluppo locale diffuso (pla-ce based). In tal senso, solo se lo Stato sarà in grado di dare degli indirizzi

chiari tenendo conto delle indicazio-ni delle Regioni, potrà esercitare la scelta di allocare le risorse in modo giustificato all’interno delle politiche di coesione.

Il programma di politica industriale vuole rappresentare un riferimento co-mune per la definizione di un quadro unitario di azione, a livello nazionale e regionale, per quanto riguarda la scel-ta delle priorità di politica industriale che si prefigge l’obiettivo di rilanciare la crescita e la competitività del nostro sistema produttivo, rispondendo in modo chiaro ai cambiamenti in pre-cedenza evidenziati ed alle sfide della società che l’Europa ha lanciato per lo sviluppo nei prossimi anni.La nostra risposta a queste sfide è stata declinata nell’individuazione di 5 tra-iettorie di sviluppo(driver):• industria integralmente ecologica, • salute e benessere delle persone, • creatività e beni culturali, • agenda digitale italiana- comunità e

fabbrica intelligente,• aerospazio e difesa,in cui le attività di ricerca e innova-zione e lo sviluppo del capitale uma-no, attraverso l’utilizzo e la diffusione delle tecnologie industriali d’interesse strategico nazionale (KETs) sono la precondizione e l’asse portante per la realizzazione ed il successo dei driver stessi. Quindi l’incrocio tra i driver e le KETs rappresenta lo strumento di promo-zione di un nuovo modello di compe-titività sostenibile nel quale interesse pubblico e privato possono convergere sviluppando insieme nuovi mercati ad

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alto valore aggiunto, sia da un punto di vista economico che sociale.Il perseguimento di tali obiettivi neces-sita di un cambiamento strutturale del ruolo dello Stato che deve attivarsi su alcune leve fondamentali tra le quali assumono particolare rilievo: • una domanda pubblica e privata ver-

so consumi coerenti con le traiettorie di sviluppo precedentemente indivi-duate anche attraverso forme avan-zate di procurement innovativo. Il potenziale finanziario della doman-da pubblica di beni e servizi è infatti grandissimo e può rappresentare una straordinaria leva di crescita per le imprese che investono in innovazio-ne tecnologica; allo stesso modo è possibile costruire un nuovo sistema di incentivi e disincentivi al fine di orientare i consumi privati come si è fatto nel caso delle ristrutturazio-ni della case o gli incentivi alle auto a bassa emissione;

• la promozione di alcuni grandi pro-grammi strategici di innovazione in-dustriale che coinvolgano il sistema finanziario anche tramite meccani-smi di condivisione del rischio e la partecipazione di investitori istitu-zionali a partire dalla BEI;

• una nuova regolazione dei mercati attraverso l’introduzione di standard e regole sui prodotti recependo con rapidità le varie direttive europee o anche definendo norme nazionali in grado di anticipare ed orientare la Commissione europea (come è suc-cesso nel caso della normativa sui bioshopper) le buste per la spesa ri-ciclabili;

• una strategia energetica nazionale che consenta un potenziamento in-telligente delle reti, una razionaliz-zazione dell’uso delle risorse, ai fini anche dei risparmi ed incremento dell’efficienza, una diversificazione delle fonti e dei mercati di approvvi-gionamento e ad un potenziamento delle energie rinnovabili;

• una facilitazione nell’accesso al credi-to da parte delle imprese aumentan-do l’offerta di credito per le imprese sane, tramite: una “deregulation” del Mercato del credito, favorendo il credito a medio lungo termine, so-stenendo una fiscalità agevolata su fi-nanziamenti a medio lungo termine;

• nuovi strumenti per il sostegno ai processi di ristrutturazione indu-striale delle imprese, al fine di sal-vaguardare “l’eccellenza” del sistema produttivo nazionale.

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WELFARE STATE: NUOVI BISOGNI E COMPATIBILITÀ FINANZIARIE

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LA SANITÀ ITALIANA IN UN QUADRO DI PROSPETTIVA

Federico SpandonaroDocente di economia e management sanitario presso l’Università “Tor Vergata” di Roma

Il titolo che mi è stato assegnato è “la sanità italiana in un quadro di prospetti-va”, pertanto proverà a guardare in avan-ti, tralasciando l’analisi congiunturale.Direi che un punto di partenza per il ragionamento può essere l’osservazione che in termini di welfare abbiamo una distribuzione di risorse “europea”. In al-tri termini, se guardiamo la percentuale di risorse dello Stato che viene assegna-ta alle principali voci di welfare, più o meno l’Italia è allineata con gli altri Pa-esi.La percentuale è leggermente più bassa per la Sanita, ma la voce più dissimile, quella sulla quale abbiamo certamente un gap maggiore, è l’istruzione.Complessivamente la distribuzione percentuale delle entrate è, quindi, si-mile, ma le entrate sono proporzionali al PIL, e il PIL in Italia è significativa-mente minore della media dei paesi eu-ropei. Infatti, il PIL procapite italiano, se considerando l’Europa a 27 è vicino alla media, ma rispetto all’Europa a 14 registriamo un gap negativo di circa il 15%, con punte del 30% rispetto ai paesi

più ricchi. Per quanto riguarda la Sanità, il risultato finale è che oggi la spesa sanitaria totale pro-capite è minore di circa un quarto rispetto all’Europa a 14. In termini asso-luti, in Italia ci attestiamo sui 2300 euro, mentre gli altri Paesi superano i 2700 euro. Il gap con un Paese ricco come la Germania, arriva anche a superare il 30%. Altra nota necessaria è che se la spesa pubblica è bassa, la componente privata è ancora più bassa: fino a qualche anno fa, si osservava che quando si riduce-va la spesa pubblica, aumentava quel-la privata, ma negli ultimi anni la crisi ha ridotto la capacità delle famiglie di compensare gli arretramenti del settore pubblico. Più volte è stata denunciata la crescita delle rinunce (al consumo sani-tario) da parte delle famiglie: e di alcune rinunce pagheremo certamente le con-seguenze in futuro.La prima diagnosi sulla sanità italiana recita quindi che spendiamo poco, ma anche che la spesa privata è più debole di quella pubblica: ne segue che non ab-

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biamo “speranza” di poter compensare gli arretramenti pubblici con l’iniziativa delle famiglie. Va anche detto che le politiche sanitarie degli ultimi anni sono state focalizza-te sulla ulteriore riduzione della spesa pubblica: il finanziamento è andato di-minuendo continuamente, e ormai il Fondo Sanitario si è ridotto anche in ter-mini nominali (al netto dell’inflazione la diminuzione è impressionante). Rispetto a quanto fu previsto nel 2008, oggi spendiamo per la Sanità 26 miliardi in meno: una riduzione che in valore (e principalmente in percentuale) è dav-vero enorme; tale arretramento è stato giustificato con l’affermazione che sono notevoli gli sprechi eliminabili. Malgrado il taglio del finanziamento e, nonostante spesso si giudichi male l’o-perato delle Regioni, la “cura” ha funzio-nato dal punto di vista finanziario, per-ché (almeno in Sanità) le Regioni sono riuscite a tenere in piedi i sistemi sani-tari, pur passando da oltre 6 miliardi di disavanzo annuo, a meno di uno. Oggi il problema del disavanzo in Sa-nità praticamente non esiste più, se si tolgono dal computo il Lazio e in parte la Campania: non considerando queste due realtà potremmo dire di avere un sistema sostanzialmente in equilibrio finanziario.Sul piano degli effetti sociali, abbiamo provato a calcolare quante famiglie si si-ano impoverite per sostenere le proprie spese sanitarie, e quante registrano spe-se cosiddette catastrofiche, ovvero rile-vanti rispetto al loro bilancio familiare.Il risultato è che in linea di massima, ec-cetto il Lazio, tutti le altre Regioni in Pia-

no di Rientro sono riuscite a non avere andamenti peggiori del resto del Paese: in altri termini la crisi c’è ma c’è per tutti. Purtroppo questo tipo di analisi ha un limite: gli eventuali “problemi” derivan-ti dalle rinunce li vedremo solo tra 5/10 anni.A ben vedere le Regioni sono riuscite a razionalizzare riorganizzando, ovvero tagliando posti letto negli ospedali, ma anche in larga misura vessando il settore farmaceutico, che è stato quello mag-giormente colpito dai tagli amministra-tivi.Tutto questo sta producendo un risulta-to evidente: la forbice rispetto agli altri Paesi europei si allarga sempre di più: la spesa dell’Europa a 14 continua a salire mentre la nostra scende. D’altra parte spendere poco o tanto non vuol dire nulla di per sé, bisognerebbe infatti calcolare l’efficienza del sistema.E’ diffusa la tesi per cui il nostro sistema sanitario nazionale sia molto inefficien-te: di contro vari studi internazionali so-stengono che noi siamo sempre tra i 4 o 5 paesi più efficienti. Per non adagiarci sugli allori, va nota-to che il risultato dipende in parte da un sistema rozzo di stima, che utilizza indicatori aggregati degli outcome (ad esempio l’aspettativa di vita, e quella italiana è una delle più alte al mondo), ovvero la mortalità evitabile (anch’essa bassissima in Italia).A fronte di outcome positivi e di una spesa molto bassa, la “promozione” del sistema italiano è in effetti dovuta.Ma cambiando i fattori alla base dell’a-nalisi cambia anche il risultato: se invece di parametri di tipo clinico, si usassero

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indicatori di soddisfazione dei pazienti, l’Italia perderebbe vari posti in classifica. Ritengo che abbiamo degli esiti clinici ottimi, anche in termini europei, ma sia-mo carenti dal punto di vista della custo-mer satisfaction. Se è vero che abbiamo 9 milioni di ricoveri l’anno in ospedale, sono forse 900 milioni i contatti con la medicina di base, con la ASL, e le altre forme di assistenza territoriale, dove le inefficienze burocratiche predominano. Abbiamo anche un livello di informatiz-zazione bassissimo, e il livello di forma-zione degli operatori nella gestione del rapporto con il “cliente” è carente.Nonostante questo siamo valutati come uno dei sistemi più efficienti e quindi il risultato va giudicato in ogni caso posi-tivo.L’impressione che ne traggo è che l’esi-genza del contenimento della spesa sia in molti casi un alibi politico. In altri ter-mini: se noi abbiamo davvero tutti que-sti sprechi da eliminare, allora gli altri Paesi europei che spendono molto più di noi, senza avere esiti migliori, come dovrebbero valutarsi?L’alibi (“se eliminiamo gli sprechi il ri-sparmio ottenibile è tale da permettere di continuare sulla strada attuale”) è pro-babilmente funzionale a non ammettere che abbiamo l’esigenza di ripensare le regole di sistema, spinti dalla perdurante crisi economica.Passando alle prospettive, le problema-tiche da affrontare prioritariamente, secondo me, possono essere riassunte in cinque punti: universalismo selettivo, investimenti, perequazione, invecchia-mento/non autosufficienza e politiche industriali.

Sul primo punto, avendo meno risor-se degli altri Paesi, e quindi con una tendenza a posizionarci ad un livello di spesa sanitaria minore degli altri del 30% (visto che il costo dei servizi è più o meno uguale a quello degli altri Paesi … a meno di tagliare gli stipendi dei medici e degli infermieri), o si tagliano i servizi o si riservano a chi è più fragile.Universalismo selettivo vuol dire, ad esempio, che mantenere le esenzioni per patologia, senza considerare il reddito, è iniquo. Non affrontare il tema della rivisitazione dell’assetto universalistico è molto peri-coloso.Ma il sistema collasserà probabilmente prima sugli investimenti: apparente-mente l’Italia investe come gli altri paesi, ma in realtà il dato è mendace. Analizzando i dati riferiti agli investi-menti pubblici e privati, si scopre che in Italia gli investimenti pubblici sfiorano il 40%, contro il 60% circa dei privati: ma il patrimonio sanitario italiano è pro-babilmente per il 90% pubblico, quindi la proporzione di investimenti privati è immensamente più alta.Il sistema collasserà quando le struttu-re saranno obsolescenti, provocando la fuga dei pazienti e anche dei professio-nisti. Ad esempio, l’anno scorso si è lamentato che il super ticket sulla specialistica non avesse dato il gettito sperato: si dimostra così l’attitudine alla preoccupazione fi-nanziaria, ma il dato vero è che se una prestazione specialistica con il ticket costa quanto il prezzo di mercato, la gente non sceglie la struttura pubblica, bensì quella privata, magari perché è più

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comoda e si riducono i tempi d’attesa: questo è “l’inizio della fine” di un sistema pubblico.Passando al tema della perequazione, vorrei dire che l’articolo 119 della Costi-tuzione, stabilendo che la perequazione vada fatta stabilendo il livello essenziale da garantire a tutti, ha generato l’idea dei costi standard.Appare lapalissiano che è molto diffici-le definire quali siano i livelli essenziali: non a caso, di fatto, oggi il costo stan-dard si stabilisce con il vecchio sistema di riparto, ovvero sulla base di una stan-dardizzazione della spesa per l’età della popolazione. In un sistema senza compartecipazione il criterio della sola età potrebbe anche essere accettabile, ma se si passa ad un sistema di universalismo selettivo, il cri-terio del bisogno perde il discrimine es-senzialmente sanitario, divenendo piut-tosto economico.Ad essere precisi, già oggi il sistema di standardizzazione non è equo. Prendia-mo ad esempio la spesa farmaceutica di classe A, ovvero quella garantita a tutti gratuitamente: scopriremo che nelle Re-gioni più ricche una quota rilevante non è a carico del servizio sanitario pubblico, perché la gente provvede privatamen-te. Di contro in Regioni come la Sicilia o la Campania la quota dei servizi pa-gati privatamente è invece quasi nulla: sto dicendo che esiste un elemento so-cio-economico che non è considerato nell’attuale sistema di calcolo dei costi standard, creando una significativa di-storsione equitativa, a cui va data una risposta più convincente.Altro argomento su cui è necessario ra-

gionare è l’invecchiamento. Proiettando nel tempo la demografia, il risultato (ov-vio) è che esplode qualunque spesa. Ma fortunatamente i dati ci dicono che la realtà è ben diversa: per esempio nel 2005 abbiamo scoperto che il numero dei disabili, che nel 2000 era previsto in aumento addirittura di 2 milioni di uni-tà, in realtà non è aumentato.Questo perché l’aspettativa di vita au-menta, e insieme a questa si sposta in avanti anche l’insorgenza delle patologie. L’invecchiamento è un dato puramen-te convenzionale: se si stabilisce che la “vecchiaia” coincide con i 60-65 anni il dato “esplode”, ma facendo l’esercizio inverso, ovvero calcolando quanta parte della popolazione si trova a 10 anni dalla morte (o meglio dall’aspettativa di vita attesa), la curva che ne emerge è quasi costante nei prossimi 30 anni.Il vero problema non è l’invecchiamen-to, ma il cambiamento della struttura dei nuclei familiari. Prima i nuclei familiari erano grandi, adesso sono piccoli e di-sgregati e sta riducendosi la cosiddetta assistenza informale. Il vero problema in prospettiva non è l’invecchiamento anagrafico, quanto la crescita della non autosufficienza.Ma ad oggi la risposta alla non autosuffi-cienza è sostanzialmente privata.Fu fatto un tentativo, nella norma che promuoveva i fondi sanitari integrativi, di incentivare la copertura della non au-tosufficienza: ma l’offerta non è decolla-ta.Peraltro non è vero che in Italia non si spendano soldi per la non autosuffi-cienza: la verità è che si spendono male; l’indennità di accompagnamento è uno

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strumento obsoleto: eroghiamo provvi-denze senza sapere dove vanno a finire, senza controllo sugli esiti, senza nessun accreditamento di chi fornisce l’assisten-za, senza che siano in alcun modo un volano produttivo. La non autosufficienza ha un’eziologia largamente di tipo sanitario, ma mentre la Sanità è in mano alle Regioni, l’inden-nità di accompagnamento è rimasta un istituto nazionale. Anche questa è un’area sulla quale urgo-no decisioni politiche coraggiose.Chiuderei sulla politica industriale: come abbiamo visto alla fine spendiamo relativamente poco, il sistema è efficien-te e ce lo riconoscono tutti. Questo non vuol dire che non ci siano sprechi, ma sono abbastanza fisiologici un sistema complesso. Ovviamente si può sempre migliorare, riallocando meglio le risorse e ottenendone migliori risultati.Ma a livello di sistema, il problema vero non sta negli sprechi, quanto che per ragioni di finanza pubblica, abbiamo ta-gliato dove è facile tagliare, e non dove è meglio.Prendiamo come esempio la farmaceu-tica: quella pro-capite è di almeno il 20% più bassa degli altri Paesi europei, eppu-re si è intervenuti più volte con ulteriori tagli dei prezzi.Sull’altro piatto della bilancia dobbiamo mettere che l’Italia non è più un Paese molto redditizio per le industrie farma-ceutiche, e infatti in 10 anni l’occupazio-ne del settore si è ridotta di oltre 10mila unità.Se si riduce la spesa farmaceutica, con il risultato però di perdere occupati, biso-gnerebbe valutare da un punto di vista

del welfare complessivo della Società italiana, quanto le politiche siano state sagge.L’Italia ha un serissimo problema di cre-scita: e senza crescita la Sanità italiana attuale non sarà comunque sostenibile.Non credo che basti trovare, e tagliare altri sprechi, per far “quadrare i conti”: piuttosto sarà necessario fare scelte di priorità.Quando si operano tagli in settori come la Sanità, bisogna ricordarsi che è uno dei pochi settori industriali che non conosce fasi di declino, protetto dai ci-cli economici, ed anche uno dei pochi settori in cui la concorrenza sul prezzo portata dei Paesi emergenti è ancora bassa. Tra l’altro, una volta la farmaceutica era appannaggio solo di grandi aziende, mentre oggi il biotecnologico è in mano ad aziende medio-piccole, che sono poi quelle tipiche della struttura industriale italiana… quindi anche da questo punto di vista una buona opportunità.Per finire: non rendersi conto che il ri-sanamento della finanza pubblica sta rischiando di massacrare le politiche in-dustriali, e quindi le prospettive di cre-scita, è un gravissimo errore!

Una selezione delle immagini utilizzate nell’intervento è disponibile nella sezione a colori a pagina 85. La presentazione com-pleta è disponibile sul sito www.associa-zioneares.it.Il video completo dell’intervento è dispo-nibile sul canale YouTube “Associazione AReS.

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ASSETTI PREVIDENZIALI ED ASSISTENZA INTEGRATIVA

Nel corso del mio intervento cercherò di dare una chiave di lettura dell’evoluzione dei sistemi previden-ziali un po’ diversa e originale rispetto a quello che ci aspettiamo in genere, attraverso un excursus delle ultime ri-forme previdenziali. Da questo punto di vista, è indispensabile capire di che cosa parliamo, in termini di impatto sulla popolazione e in termini di nu-meri. Attraverso i dati Eurostat del 2009 è possibile fare una comparazio-ne tra tre Stati: l’impatto del sistema di welfare riguarda 22 milioni di assicu-rati in Francia, 32 in Germania, 23 in Italia (17 milioni dei quali sono pen-sionati). Si tratta di dati aggregati che si riferiscono a Inps, Inpdap ed Enpals. La spesa pensionistica del 2009 in Italia è pari al 13,8% del Pil; nel 2013 è un po’ più alta, arriva al 16,2% ma solo per ef-fetto del calo del Pil. La spesa totale per la protezione sociale nel 2009 è legger-mente inferiore in Italia (29,8% del Pil) rispetto a Francia (33,1%) e Germania (31%). Un dato interessante è la spesa dei costi amministrativi nazionali in

relazione alle masse amministrate: in Italia si spende un punto in meno della Germania ed un punto e due in meno della Francia. Se parliamo in termini assoluti, nel 2011 la cifra riferita alla spesa previdenziale ed alla spesa assi-stenziale ha sfiorato i 200 miliardi di euro. Il mio intento è dare una lettura dello sviluppo dei modelli previden-ziali basandomi essenzialmente su due concetti: una interdipendenza qualita-tiva tra sostegno di welfare previden-ziale e modelli di sviluppo economico e un concetto di ibridazione della origi-naria distinzione tra previdenza ed as-sistenza. I modelli di welfare nascono alla fine dell’ottocento e si suddividono in due grandi famiglie: i modelli di tipo assicurativo e quelli di tipo assistenzia-le. Questi ultimi nascono in Inghilter-ra, con Beveridge, e sostanzialmente si basano su un intervento che copre i livelli essenziali di povertà e vengono finanziati attraverso la fiscalità genera-le, attraverso le imposte. I modelli di welfare previdenziale sono di matrice mitteleuropea e nascono secondo uno

Mauro NoriDirettore generale Inps

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schema Bismarck, radicalmente diver-so, perché si tratta di un sistema di tipo assicurativo e quindi viene finanzia-to attraverso contributi procapite che rappresentano dei premi assicurativi. Da questo punto di vista il modello ita-liano è un modello mitteleuropeo e si caratterizza nella sua evoluzione come un modello assicurativo. È un model-lo a capitalizzazione, cioè i premi della produzione alimentano un conto assi-curativo pro capite, che dà origine ad una pensione calcolata con un modello attuariale della capitalizzazione. Noi come Inps ci vantiamo di essere nati nel 1898, ed infatti circa 12 anni fa abbiamo festeggiato il centenario alla presenza del Presidente della Repub-blica. Ma nella sua versione moderna l’Inps è nato durante il periodo fascista, e si caratterizza per il concetto di uni-versalità sul modello assicurativo.Nel dopoguerra, nel 1952 per effetto della straordinaria svalutazione degli attivi patrimoniali dello Stato e quindi anche dei meccanismi previdenziali, avviene il primo elemento di rottura del sistema a capitalizzazione. Una prima riforma del 1952 comporta sostanzial-mente una modifica del calcolo della pensione in cui si abbandona parte del modello di calcolo. La conseguenza è che si abbandona parte della capitaliz-zazione, e quindi si comincia a erodere il meccanismo assicurativo dei modelli previdenziali. Il modello è quindi assi-curativo, perché si trasforma la natura del contributo previdenziale in premio assicurativo; si arriva poi alla riforma previdenziale del 1969 con la legge 153, una delle riforme che ha rappresenta-to un caposaldo del nostro sistema di

welfare. La 153/69, da questo punto di vista, ha sancito la rottura del sistema assicurativo e quindi del sistema di ca-pitalizzazione del nostro sistema pre-videnziale del welfare. Per quel periodo era una legge molto avanzata, e si ca-ratterizzava per alcuni istituti che sono rimasti ancora nel nostro sistema e per l’abbandono di ogni forma di capitaliz-zazione nel calcolo previdenziale. La pensione, cioè, veniva calcolata non in base alla capitalizzazione dei premi assicurativi, ma come logica conti-nuazione delle ultime retribuzioni. C’è l’introduzione della pensione sociale, ovvero la prima forma assistenziale di una pensione di povertà non assisti-ta da contributi assicurativi e quindi completamente svincolata da ogni for-ma attuariale, ma finanziata attraver-so l’intervento della fiscalità generale. Inoltre viene istituita la pensione di anzianità, e quindi la pensione poteva essere presa anche in anticipo rispetto all’età legale. C’è poi l’introduzione del-la perequazione automatica delle pen-sioni, ovvero l’adeguamento attuariale nel tempo della rendita previdenziale, e poi ovviamente l’introduzione della automaticità delle prestazioni. Que-sta riforma previdenziale è importan-te perché in qualche misura anticipa quello che sarà il modello, quindi una sorta di interdipendenza qualitativa previdenziale, degli anni successivi. E alcune caratteristiche di questa rifor-ma previdenziale verranno rafforza-te soprattutto negli anni ’70 ed ’80. A partire dalla metà degli anni 70, infatti, soprattutto nell’ambito della crisi pe-trolifera, l’Italia adotta un sistema di sviluppo competitivo determinato dal-

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la svalutazione, si vive un periodo di inflazione a doppia cifra, ci sono delle dinamiche che tendono a svalutare gli attivi patrimoniali e a erodere anche i meccanismi di valore del debito pub-blico. È chiaro che in questa situazione il meccanismo di calcolo della pen-sione è di fondamentale importanza, perché se fosse rimasto il modello di capitalizzazione ci sarebbero stati de-gli importi residuali, quindi ridotti. Io non sto facendo una sorta di elegia del metodo di calcolo contributivo, ma dico semplicemente che alcuni modelli previdenziali sono figli del tempo e del periodo a cui si riferiscono, in termi-ni di modello di sviluppo economico. Nel momento stesso in cui l’Italia, ne-gli anni ‘70 e maggiormente negli anni ’80, adotta un modello di svalutazione competitiva, con l’inflazione che viag-gia a doppia cifra, il meccanismo di adeguamento delle pensioni non può che essere di rivalutazione, con la pere-quazione delle pensioni ogni 6 mesi, e con l’aggancio alle dinamiche dei prez-zi e dei salari, con un meccanismo che tende ad avvicinare il calcolo previden-ziale alle ultime retribuzioni perché è una risposta in termini di adeguatezza delle dinamiche previdenziali. Que-sto è un passaggio storico che tende a rafforzare quelle caratteristiche che la legge del 1969 aveva in qualche misura anticipato, frutto del periodo di benes-sere e di sviluppo degli anni ’60. Suc-cessivamente accade che l’Italia, al di là dello sviluppo e dell’incremento del debito pubblico, comincia ad entrare in un sistema di cambi fissi, e quindi ten-denzialmente con lo sviluppo di que-

sto meccanismo, in cui la svalutazione competitiva ad eccezione del 1992, con il governo Amato, non è più un mo-dello di sviluppo economico, si verifica che l’inflazione ritorna sui livelli fisio-logici.In questo momento il sistema previ-denziale, attraverso la riforma Dini Treu, può tornare ad un meccanismo interamente assicurativo. Il primo intervento importante, di una certa significatività dal punto di vista del-la riforma delle pensioni, è quello di Amato del 1992, che però non stra-volge l’impianto del 1969 ma intervie-ne solamente con il fattore correttivo della spesa elevando l’età legale di pen-sionamento, portando l’età delle don-ne da 55 a 60 e l’età di vecchiaia degli uomini da 60 a 65. Inoltre interviene con un intervento drastico, il primo a memoria recente, con un blocco dei prepensionamenti per un anno e mez-zo: siamo in piena crisi economica, con il provvedimento dei prelievi sui conti correnti. Infine Amato interviene con un altro provvedimento sulla riforma delle pensioni, che inizialmente viene sottovalutato ma che forse ha avuto più impatto sul fronte della spesa per-ché interviene sulla perequazione delle pensioni, togliendo la perequazione se-mestrale e agganciando la perequazio-ne non più alle dinamiche miste salari/prezzi ma ad un paniere specifico ag-ganciato ai prezzi. Questo meccanismo ha comportato, lo riferiscono studi più volte confermati, una perdita del pote-re d’acquisto dello stock previdenziale pari a circa il 30%. Ma il vero elemento di rottura, e quindi di recupero del si-

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stema assicurativo, però arriva con la riforma delle pensioni Dini Treu. Due sono stati i grandi interventi sulla pre-videnza: la legge 153 del ’69, che ha spazzato via il modello assicurativo, e quello della Dini Treu, che ha recupe-rato integralmente il modello assicura-tivo sotto il profilo previdenziale, cam-biando completamente il meccanismo previdenziale. Un cambiamento che avviene in accordo con le parti sociali, con una lunga gestazione e addirittura con un evento politico straordinario: il Parlamento si blocca nella votazione della riforma sino a quando non vie-ne esaurito il meccanismo di consen-so delle parti sociali, attraverso anche un referendum. Quindi siamo ogget-tivamente davanti ad una misura di carattere epocale per quanto riguarda la riforma delle pensioni. Le caratteri-stiche essenziali sono il recupero del metodo di calcolo: la nuova riforma, a parte un periodo transitorio, ritorno al metodo di calcolo contributivo, cioè una pensione calcolata sui contributi versati dal lavoratore, ovviamente con dei meccanismi di capitalizzazione, ed introduce un meccanismo importante recuperando un contenuto attuariale della previdenza, rendendo possibile un meccanismo flessibile di prepen-sionamento. Poiché era noto il dato della speranza di vita dal punto di vista dell’universo dei soggetti, e la durata del godimento della pensione con un intervallo di tempo tra 57 anni e 65, era anche possibile calcolare con esattezza il periodo di godimento in termini di anni della pensione, e quindi anche la rendita splittata per tutti gli anni di go-

dimento, quindi un ulteriore elemento di straordinaria novità della riforma. Altro aspetto importante è sicuramen-te la creazione della gestione separata, che ha il merito di aver permesso il recupero in fase contributiva di tutti i nuovi lavoratori, finalmente intercetta-ti. Prima del 1995, infatti, il lavoro ve-niva distinto tra dipendente ed autono-mo, e quindi si perdevano in termini di copertura previdenziale tutti quei nuo-vi lavori che a partire dagli anni ‘90 non potevano essere classificati nella dico-tomia classica tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Sostanzialmente si viene a determinare anche un allarga-mento della platea dei soggetti. Nel ‘97 l’elemento caratterizzante della riforma Prodi è essenzialmente quello della ar-monizzazione del regime previdenzia-le pubblico-privato, avendo inoculato già nel ’97 il germe dell’incorporazione degli enti previdenziali; poiché come diceva qualcuno i processi storici non nascono per caso, nel momento stesso in cui si armonizzano i sistemi di regi-me di calcolo dei sistemi previdenziali, anche gli strumenti organizzativi per erogare contributi necessariamente tendono ad associarsi e ad uniformarsi. Anche Berlusconi e Maroni sono in-tervenuti in maniera organica, in realtà per riforma io intendo quelle riforme epocali, e quelle che negli ultimi anni hanno determinato una rottura sono la 153/69 e la 335/95, le altre li reputo interventi di manutenzione. Le riforme dei sistemi previdenziali si fanno ogni 20-30 anni, negli altri casi si tratta di interventi di manutenzione o di ade-guamento del sistema. L’elemento ca-

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ratterizzante della riforma Berlusconi Maroni fu il cosiddetto scalone, cioè il tentare di portare immediatamente l’età pensionabile, la pensione di an-zianità, a 60 anni, e l’introduzione della possibilità di bonus per i soggetti che avevano raggiunto già l’età pensionabi-le e non andavano in pensione. Questi ultimi potevano permanere al lavoro ricevendo l’importo dei contributi ver-sati dall’azienda in busta paga al netto dell’imposizione fiscale. Per la prima volta si creò il concetto di lavoratore salvaguardato, che poi sotto la Fornero diventò esodato. Nel 2007, con il proto-collo del welfare, Prodi e Damiano ten-dono a correggere alcune asperità del cosiddetto scalone, e quindi si ritorna al concetto di quote, e c’è il tentativo di creare una sorta di bonus per i lavori usuranti. C’è un primo intervento sul-la totalizzazione contributiva, ovvero la possibilità di sommare le contribu-zioni assicurative per avere un’unica pensione nell’ambito delle gestioni che ancora rimangono retaggio del vecchio sistema corporativo. Altra importante riforma, in realtà si tratta di interventi normativi passati quasi sotto silenzio ma di straordinaria efficacia, è opera del ministro dell’Economia, Tremonti e di quello del Lavoro, Sacconi: al di là dell’introduzione della finestra unica, che è diventato una sorta di requisito anagrafico che sposta in avanti di un anno, un anno e mezzo l’età pensio-nabile, una importante innovazione è quella di aver agganciato l’età pen-sionabile alla speranza di vita. E poi si arriva all’attuale sistema previdenziale, in cui gli elementi caratterizzanti sono

tre: l’accorpamento degli enti previden-ziali, ma non ne parlo perché ancora si sta lavorando; l’eliminazione sostan-ziale della pensione di anzianità, con gli aspetti che tutto questo comporta; l’applicazione immediata dal 2012 per tutti i lavoratori in attività, del meto-do contributivo. La riforma Dini Treu, oltre ad aver avuto uno straordinario consenso, come tutte le cose ricevette delle critiche da destra e da sinistra: da destra perché il periodo di transizione, il passaggio dal metodo retributivo al metodo contributivo, veniva conside-rato troppo lungo. E ricevette critiche anche da sinistra, perché recuperan-do solo il metodo attuariale si perde-va l’elemento di solidarietà del sistema previdenziale. La riforma Monti ha ta-gliato la testa, perché dal 2012 tutte le pensioni vengono calcolate con meto-do contributivo, e abbiamo visto come in un sistema di bassa inflazione e di sostanziale stabilità economica, ben possa resistere anche agli elementi di aggressione rispetto all’evoluzione so-ciopolitica. Un altro elemento importante da se-gnalare è la revisione dei coefficienti di trasformazione, che in precedenza era effettuata sulla base di un com-portamento collettivo. Gli organismi deputati, il ministero dell’Economia e l’Istat, calcolavano la variazione del coefficiente di trasformazione, un al-goritmo molto complesso costruito dalla riforma Dini Treu, che prende in esame il concetto della durata at-tuariale del godimento della pensione e il livello di crescita stimato nel tren-tennio, e assegnavano un coefficiente

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matematico su cui il montante accu-mulato dal soggetto veniva moltiplica-to per dare luogo alla rendita. Questo meccanismo attualmente è puramente tecnico: mentre in precedenza l’elabo-razione tecnica doveva prima passare attraverso uno strumento politico, una legge del Parlamento, oggi la rivaluta-zione dei coefficienti di trasformazione avviene in maniera biennale attraverso un procedimento amministrativo di carattere tecnico. Per quanto riguarda le prestazioni sociali, noi nasciamo in Italia con un sistema assicurativo di tipo previdenziale e di tipo attuariale, a differenza del modello anglosassone che basa il suo sistema di welfare sulla tutela esistenziale dei livelli minimi di povertà finanziati attraverso la fiscalità generale. L’evoluzione del modello pre-videnziale, ed il meccanismo di con-fusione che c’è tra un requisito assicu-rativo pensionistico basato su livelli di ripartizione, tende a confondere i due ambiti e a renderli non più attuali. At-tualmente la distinzione tra contributi della produzione è sempre più diffici-le da intercettare per effetto dei nuovi lavori, per effetto delle dinamiche di lavoro. Per esempio se due professio-nisti costituiscono una Srl e fatturano miliardi di euro per consulenze, paga-no pochissimo a livello di contributi perché il calcolo contributivo basato sulle retribuzioni è bassissimo rispetto al valore aggiunto che questo compor-ta; quindi l’imposizione fiscale è asso-lutamente un meccanismo più efficace di intercettazione del meccanismo di finanziamento dei sistemi. Con l’ibri-dazione dei due modelli di riferimen-

to, il modello assistenziale e il modello previdenziale, la distinzione tra requi-sito assicurativo contributivo, come calcolare la pensione, e l’intervento as-sistenziale, come il sostegno della po-vertà, perde il loro significato. In realtà ormai si parla di adeguatezza della pre-stazione previdenziale indipendente-mente dal fatto che sia assistita da con-tributi o dai contributi più l’intervento assistenziale finanziato dalla fiscalità; si perde un po’ il meccanismo ontologico che distingueva una volta i due modelli di welfare. Chiudo con una citazione presa dall’Ecclesiaste: quando la notte si fa più scura il mattino è più vicino.

Una selezione delle immagini utilizzate nell’intervento è disponibile nella sezione a colori a pagina 84. La presentazione com-pleta è disponibile sul sito www.associa-zioneares.it.Il video completo dell’intervento è dispo-nibile sul canale YouTube “Associazione AReS.

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GLI ATTORI DEL CAMBIAMENTO

Mi pare che abbiamo fatto due ore di riflessioni molto intense. Io parto da una domanda che ha fatto Pierpaolo Baretta alla fine. Credo che tutti siamo convinti, già da prima, ma a maggior ragione dopo aver sentito questo dibattito, che siamo in una si-tuazione di rivolgimento epocale. Per-tanto non è più sufficiente fare opera-zioni di aggiustamenti o di tagli. E’ in gioco un cambiamento di paradigma sul versante del tipo di sviluppo da prospettare in avvenire di conseguen-za negli assetti produttivi e del lavoro. L’osservazione non è banale perché al momento non stiamo considerando questa prospettiva ma tutt’altro. La do-manda ulteriore è “chi” fa tutto questo, chi è l’attore del cambiamento. Lo Sta-to nazionale, che ha costruito il model-lo di sviluppo industrialista, capitalista ed il conseguente modello di welfare, non è detto che possa continuare a so-stenerlo. Infatti una domanda ancora più ampia, oggetto di riflessione inter-nazionale è se lo Stato nazionale sia in grado e in che misura di governare i

cambiamenti in atto.I dati che ha mostrato Lamberti fanno pensare che le tendenze macroecono-miche siano tanto uniformi e radicate da non lasciare possibilità alternative. Questa tesi è sostenuta da molti eco-nomisti anche di sinistra, presi da una evidente vena di pessimismo, in parte fondata, ma preoccupante.La finanza che domina le tendenze economiche è sovranazionale, e secon-do alcuni non è controllabile se non ipotizzando un governo della globaliz-zazione, possibilmente democratico. Cosa che nessuno vede vicina, nem-meno papa Francesco.Noi, progressisti europei, che pensia-mo che l’occidente sia in difficoltà ma non ancora in irreversibile declino, ab-biamo finora pensato che esista ancora una varietà di capitalismi, quindi non riteniamo che le forze internazionali creatrici di diseguaglianze, di squilibri, siano incontrastabili, né pensiamo che tendano verso una convergenza inelut-tabile in direzione del liberismo e della diseguaglianza sociale.

Tiziano Treu

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Guardando tutti gli elementi - svilup-po, investimenti, welfare - rileviamo differenze che dipendono ancora dalle istituzioni nazionali. Non so per quan-to ma per ora è così.Ci sono nazioni in Europa, ma anche nel nord america (il Canada non è uguale agli Stati Uniti, ad esempio) che mostrano di avere tipi di sviluppo più equilibrati di altra equità sociale, inve-stimenti più qualitativi e meno schiavi-stici, e tassi di diseguaglianza minori.Questi sono i parametri, altrimenti è inutile parlare del nostro caso specifi-co, se non è possibile fare nulla.Noi crediamo che sia possibile fare, seppure con forti condizionamenti del-le politiche nazionali sui due piani che mi pare tutti riteniamo fondamentali. Anche parlando di welfare, senza dub-bio o si ha un tipo di sviluppo che sia competitivo al livello della sfida attuale (che non vuol dire una crescita Turbo, ma nemmeno la Decrescita), anche solo per mantenersi a galla è necessaria una innovazione fortissima nei sistemi manifatturieri.Stigliz in un suo recente articolo sul “Rinnovamento delle politiche indu-striali” sostiene che le politiche indu-striali oggi devono essere incentrate su istruzione, ricerca ed aziende innovati-ve. Una politica industriale all’altezza, innovativa, è necessaria. Senza questo presupposto non è possibile reggere il pilastro del welfare.Io credo che lo Stato nazionale abbia margini, come la Germania che fa po-litiche di grande investimento, di for-tissima esportazione, di risparmio, di bassi consumi, grazie alle quali scarica su di noi (che siamo vaso di coccio) al-

cune contradddizioni.Proprio noi dobbiamo allargare il cam-po della solita Europa, oppure verrre-mo schiacciati dagli Stati che stanno facendo meglio.Non a caso anche gli economisti “di si-nistra” tedeschi iniziano a sostenere un ritorno all’egoismo nazionale, con po-litiche fortissime ed una Corte Costi-tuzionale che gestisce le scelte chiave con una lettura tutta diretta agli inve-stimenti interni.Venendo a noi, le piste che dovremmo seguire, sia sul versante del modello di sviluppo che su quello del welfare sono conosciute, lo stesso Lamberti ne ha parlato.Investimenti in economia reale e non in finanza, un riequilibrio tra lavoro e profitto, il problema della golden rule, tanto predicata dalla Germania per rie-quilibrare gli stipendi alla produttività. Poi però la Merkel ha seguito politiche esattamente contrarie…Su questo punto abbiamo margini ri-stretti, anche per colpa della nostra politica, che non riesce a fare politi-che di medio periodo, ma anche per-ché siamo ristretti da condizionamenti europei che ci riducono moltissimo lo spazio di manovra.Quindi, io credo che questo sia un punto fondamentale, se non cambiamo queste coordinate noi importiamo sva-lutazione e ci restringiamo perché non possiamo fare altrimenti, come alcuni stati piccoli che si isolano dagli altri come fa la Svizzera.In questo quadro il welfare può contri-buire, ma anche li non basta fare una politica industriale aggressiva e inno-vativa così almeno teniamo la competi-

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tività (come accade in Giappone, dove c’è crescita piatta da quindici anni ma di certo non si muore di fame).Per combattere le diseguaglianze ci vuole la ridistribuzione, benissimo, i titoli sono stati chiari.Redistribuiamo fra salari e profitti, re-distribuiamo il lavoro (già più difficile), quali sono le politiche labour friendly? I servizi alla persona ed i servizi di alta qualità. A partire dalle milioni di ba-danti che abbiamo in Italia.Ho l’impressione che debba anche es-sere ripreso il concetto di redistribu-zione del lavoro nella vita, perché oggi viviamo fino a 90 anni, ed alcuni paesi nordici hanno il 50% di part-time (che non è il vecchio sistema delle 35 ore), si tratta di pensare un sistema in cui in una prima fase si studia e si lavora, in una seconda si lavora intensamen-te (magari con gli straordinari) e poi si torna al part-time.Si tratta di un modello sociale diverso dal nostro, ma è meglio di quello tede-sco in cui alcuni guadagnano moltissi-mo e poi ci sono 8 milioni di mini jobs che guadagnano 600 euro al mese.Non a caso la lotta attuale del partito socialista tedesco è per raggiungere un salario minimo garantito, questo è un altro potentissimo meccanismo di rie-quilibrio rispetto al quale non capisco perché si sia sempre stati contrari.Idem per le pensioni, (sto cercando quale sia il versante del welfare che può servire a riequilibrare le disegua-glianze), l’indice di Gini dell’Italia è fra i peggiori del mondo, con Pier Paolo abbiamo introdotto una correzione in direzione di un riequilibrio.

Mentre la sanità se la cava (Io abbiamo sentito) ed è l’unico sistema universa-listico che abbiamo, tutto il resto dei meccanismi di welfare abbiamo sistemi corporativi e diseguali, (c’è una tabella OCSE che misura la diseguaglianza prima e dopo dell’impatto del welfare, l’Italia è ultima, con un impatto quasi nullo, perché abbiamo pensioni squi-librate, lo stesso metodo contributivo ha ragioni di finanza pubblica e non è solidaristico…).Non esistono solo due sistemi pen-sionistici, quello corporativo e quello statunitense. Esiste il modello nordeu-ropeo, con una fascia universalistica, una di contributivo ed in più il welfa-re sussidiario. Quella potrebbe essere un’altra grossa operazione di riequili-brio, ammesso che si abbiano le spalle per farla.Un altro aspetto preoccupante sono gli ammortizzatori sociali, noi non pos-siamo spendere 10 miliardi l’anno per le casse in deroga e poi non avere più i soldi per i giovani e per le aziende che falliscono ugualmente.Quel tipo di welfare contribuisce alla diseguaglianza quanto i Baroni del Profitto, anche se senza dirlo.Il welfare è centrale, perché abbiamo un modello europeo che si propone come un sistema di sviluppo nuovo, se abbiamo politiche di welfare che possono riequilibrare sul versante dei salari, delle pensioni, degli ammortiz-zatori, ma non si può soltanto ridare al welfare il proprio ruolo di rappre-sentanza. Anzi, cambia la funzione, oggi si parla di welfare come social in-vestment, il che vuol dire che il primo

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pezzo del welfare è la formazione, poi viene l’istruzione continua, poi le poli-tiche della famiglia.Sono tutte forme e strumenti con cui si migliora la qualità della popolazione, una popolazione miserabile non crea sviluppo, se l’80% del guadagno va al 12% della popolazione è ovvio che il si-stema si autosoffoca.Grazie, buona sera.

Il video di questo intervento è on line sul canale youtube di “Associazione AReS”.

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Pier Paolo BarettaSottosegretario al ministero dell’Economia, Presidente associazione AReS

Un quadro di prospettiva

STRATEGIE DI CRESCITATRA LIMITI E POSSIBILITÀ

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UN QUADRO DI PROSPETTIVA

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di capitalismi, nello scenario globale.Ma perché bisogna parlarne? Perché quando 5 anni fa circa è scoppiata la grande crisi, tutti, anche coloro che l’a-vevano provocata, hanno detto che da questa crisi saremmo usciti diversi. Poi questa riflessione è stata accantonata, e oggi ho l’impressione che si sta rico-minciando un po’ come prima.Il quadro di riferimento che Lucio Lamberti ci ha prospettato dei dati sul quadro internazionale non è un risul-tato oggettivo, inevitabile, ma è il risul-tato di scelte, di disattenzioni.Stiamo perdendo la grande occasione, drammatica, che la crisi ci ha offerto (perché la crisi è sia dramma che op-portunità)?Questa è una domanda che ci dob-biamo coraggiosamente fare. Perché interroga la politica, e tutta la società a partire da chi è rappresentante di interessi, le associazioni, i sindacati, i think-tank come è di moda chiamrli oggi. Questo però porta a due ulteriori con-siderazioni: la prima è che la discus-sione sulle regole del gioco non è solo burocratica, ma è una discussione fon-damentale, viva, che purtroppo si è un po’ arenata.C’era stata la Commissione Draghi, prima che diventasse presidente della Bce, Claudio De Vincenti ha fatto al-cuni accenni su questo tema, ma c’è problema di ridiscussione delle regole del gioco, della finanza, e quando dico regole non lo dico per ingabbiare il di-battito, assolutamente, ma per liberar-lo, per creare una finanza libera in gra-

Come succede spesso in convegni di questo tipo, ci compiaciamo tutti del buon livello della discussione. E tirarne le fila significa rilanciare i temi e pro-porre degli itinerari per le iniziative successive, già annunciate. Mi limito a tre considerazioni di sce-nario.Sull’onda dei ragionamenti coraggiosi che abbiamo sentito stasera credo che sia interessante, in questa fase parti-colarmente cupa, l’idea di una sorta di scarsa ortodossia rispetto al pensiero tradizionaleAvete sentito delle riflessioni non del tutto ortodosse da chi quotidianamen-te rappresenta l’ortodossia: un autore-vole esponente della finanza in una or-ganizzazione internazionale di rilievo e due esponenti di un Governo.Il che significa che c’è una domanda diffusa alla quale noi proviamo a dare qualche risposta.La prima considerazione è questa: penso che con coraggio bisogna ridi-scutere di più di Sistema; non in chiave ideologica, se ci riusciamo, ma sapen-do che oggi tutti i dati che sono emer-si questa sera dimostrano che c’è una questione aperta su questo tema.Esiste la necessità di liberarsi da un lin-guaggio tradizionale e anche da alcuni tabù che ci trasciniamo dai decenni passati.Il centrosinistra dovrebbe discutere di capitalismo senza l’ottica storico-po-litica che l’ha caratterizzata, quella di essere o “Anti”, oppure (per senso di colpa) finire quasi per vergognarsi di parlarne. Forse bisognerebbe parlare

UN QUADRO DI PROSPETTIVA

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do di lavorare per l’obiettivo, che non è se stessa ma è lo sviluppo, la crescita. E, senza regole, questo non è un ob-biettivo perseguibile.Ma, accanto a questo tema ispiratore, deve esistere una cultura, lo diceva Ste-fano Fassina. C’è bisogno di una forma culturale nuova, forse anche di una cultura della crisi, di una cultura della crescita e delle regole del gioco che sia più metodologica, più coraggiosa.Noi stessi abbiamo un approccio trop-po timido, in questo.La nostra coerenza quotidiana deriva dalla capacità di indicare prospettive di riferimento; c’è una domanda stringen-te in questo ragionamento di nuove re-gole e di nuova cultura: c’è uno spazio per l’Europa?Lucio ha detto non dimenticate che l’Europa è ancora uno dei più grandi punti in gioco globale, ma contem-poraneamente i grafici ci dicono che questo essere un grande mercato, un grande punto di produzione ci sta al-lontanando dai fattori principali.Per molto anni l’Europa si era carat-terizzata per un certo tipo di model-lo economico e di sviluppo, un punto nel mondo nel quale il welfare era una componente dell’equilibrio produttivo e sociale.Tutto il dibattito su modello renano, anglosassone, è rimasto parzialmente incompiuto nel nostro Paese.Condivido molto l’osservazione di Fas-sina, ovvero che le elezioni europee comporteranno una campagna eletto-rale sull’Europa, e dobbiamo viverla nel tentativo di dare risposta.Seconda considerazione. Per molti

anni si è discusso di fattori, e quando si parlava dello sviluppo dell’economia, di settori ed i fattori. Qui emergono dei fattori che hanno degli elementi ine-diti, nuovi. Cito quelli emersi dai due incontri, che io personalmente condi-vido: primo fra tutti la demografia. È totalmente sottovalutato l’impatto che la demografia ha sulla quotidianità del nostro vivere già a breve periodo.Una delle ragioni delle grandi trasmi-grazioni mondiali è legata allo squi-librio demografico che c’è tra diversi paesi, diversi territori; il fatto che noi siamo tra i paesi più vecchi del mondo non è ininfluente rispetto a nostra ca-pacità di scelta.Non è detto che sia un male, potrebbe essere una risorsa, ma allora bisogna pensare ad un welfare in un’altra chia-ve, tuttavia non c’è dubbio che demo-grafia sia un elemento.La diseguaglianza è il secondo elemen-to. La diseguaglianza che si apre fino al punto di provocare espulsioni dal mondo del lavoro e perfino dalla so-cietà: nella globalizzazione tutti stanno un po’ meglio, ma la differenza fra pae-si e tra fasce di reddito si allarga. Ed alla fine c’è qualcuno che resta fuori gioco.Questo è un tema economico, non solo etico, non solo morale.La comunicazione e l’informazione fa sì che la disuguaglianza sia conosciuta e quindi la pressione cui siamo soggetti tutti i giorni aumenta, come pure au-menta la percezione che noi abbiamo di certi fenomeni, come l’immigrazio-ne.Molti movimenti derivano da questo semplice fatto, che oggi è possibile sa-

UN QUADRO DI PROSPETTIVA

P O L I T I C A S O C I E T À C U L T U R A

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pere come si vive nelle altre parti del mondo e si sa che qui si vive meglio che altrove, nonostante noi ci lamentiamo. Questo contribuisce a rendere inarre-stabili alcune spinte.Il che mi porta ad una considerazione, su cui varrebbe la pena ritornare: que-sti elementi, per la dinamica che stanno avendo, così macroscopica, sono fatto-ri di implosione del sistema. Se questi fattori si sommano tra loro e non ven-gono governati, non vengono affronta-ti, faranno implodere il sistema. Non il sistema “giusto”, ma qualunque sistema possiamo immaginare.Se non c’è una prospettiva di ugua-glianza e giustizia sociale ci sarà svilup-po, se no ci sarà uno sviluppo sbagliato, o non ci sarà affatto.Tutte queste premesse generano una conclusione un po’ hard, ma penso di poter rischiare: la giustizia sociale non è una variante buona rispetto alle rego-le del gioco dell’economia. Essa è una delle regole dello sviluppo; ancora più provocatoriamente, se volete, egoismo e solidarietà potrebbero addirittura co-esistere e potenziarsi a vicenda.Se io voglio continuare a star bene nel mio posto, nel mio Paese, la risposta è essere un po’ egoista, ma per star bene io, ho bisogno di essere solidale, di far si che gli altri stiano un po’ meglio, al-trimenti la pressione sarà tale che alla fine staremo male tutti e non governe-remo più il sistema, che finirà per sfal-darsi da solo.Terza e ultima considerazione: allora bisogna buttare un sasso nello stagno. Qual è il sasso? Ce ne sono molti, ne individuo uno alla luce del dibattito di

questa sera: il nuovo ruolo del pubbli-co,delle politiche pubbliche.Una domanda che brucia, molto pro-vocatoria, emersa nelle discussioni, nelle introduzioni e nel dibattito, ri-guarda lo Stato.Ce la farà uno Stato sano, a reggere un sistema di welfare adeguato, dignitoso, a fronte del fatto che aumenta l’età me-dia, e quindi aumentano le prestazioni necessarie?Perché questo introduce il tema del welfare sussidiario, ma introduce an-che un tema molto delicato, cioè la coincidenza tra dimensione universali-sta e dimensione pubblica statale come unico criterio, mentre invece esistono la previdenza complementare, la sani-tà integrativa, le badanti, le baby-sitter. C’è un privato nel welfare che è clamo-roso. Porci la domanda se non conven-ga pensare più coraggiosamente ad un nuovo equilibrio prima che sia il mer-cato a prenderselo in mano tutto, è una domanda vecchia ma che resta sempre attuale, perché anche nella politica c’è una fatica ad arrivare a questa riflessio-ne.Secondo quesito che voglio porre: i fondi pensione italiani hanno fatto bene ad evitare le ondate speculative della prima ora, perché hanno capito che l’obiettivo era la tutela della pen-sione e non la speculazione dell’inve-stimento.Però adesso sono cresciuti, sono adul-ti, ed il problema si pone. Con oltre 21 miliardi già investiti in titoli italiani, al-tri in titoli stranieri; più di 100 miliardi di raccolta e siamo appena al 40% circa delle adesioni, questo settore è un vero

UN QUADRO DI PROSPETTIVA

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e proprio soggetto economico; la que-stione, dunque, di come questo mon-do agisce nei mercati finanziari, senza rinunciare a quella primaria - che resta la tutela della previdenza o della sanità integrativa - è matura.D’altra parte noi abbiamo ancora un grande risparmio privato in Italia, come facciamo a rimetterlo in moto se il risparmio collettivo non dà il buon esempio?È un tema che io lancio alla riflessione.La terza ed ultima osservazione: anche con riferimento al quesito posto in pre-cedenza, la verità è che in una situazio-ne in cui la finanza pubblica è in crisi e la pressione fiscale è ai livelli che cono-sciamo, noi siamo in una trappola.La vita quotidiana che faccio io, insie-me ai miei colleghi, è fatta o di tagli o di tasse. Sulle coperture, bisognerebbe in-vitare il Parlamento a fare una discus-sione (ho insistito, su questo aspetto, anche in aula), non nel momento in cui deve prendere decisioni ma in una se-duta apposita, perché le leggi (ed è giu-sto così, lo prevede l’art. 81 della Costi-tuzione) si fanno solo se c’è copertura finanziaria. Con cosa copri le leggi? Le copri dove trovi i soldi con più facilità: se non puoi mettere le tasse, e non le vuoi mette-re perché sono troppe, devi agire sulle spese.Anche se, forse, un centesimo di au-mento della benzina per tutti è più equo che non altri tipi d’intervento. Ma oggi in Parlamento la parola aumento accise sulla benzina fa scattare una reazione a 360 gradi. La clamorosità è che io sono obbligato per lavoro a leggere quasi

tutti gli emendamenti, bene: gli emen-damenti dei nostri parlamentari sono tutti coperti o con tagli o con accise. Se devo favorire l’industria del mobile, la copro con l’accise sulla benzina. Se devo favorire l’industria dei petrolieri la copro con l’accise sulla birra. Sono solo esempi, ma portano ad errori veri, perché rimanendo su quanto ho appe-na detto, la birra, ad esempio, è un set-tore in espansione in questo momento e noi la ammazziamo.Dopodiché arrivi ad un punto tale per cui rimane solo l’opzione tagli, alla sa-nità, alla previdenza, con l’idea che tut-to sommato ancora oggi resterebbero capitoli di spesa eccessivi.Bisogna uscire da questa trappola: io penso che ci siano alcune cose che possiamo non toccare più. Ma allora bisogna che ragioniamo su quali altri strumenti abbiamo per costruire una soluzione equilibrata. Negli ultimi 4 provvedimenti non abbiamo tagliato la scuola; anche nei tagli lineari che ab-biamo fatto sui ministeri abbiamo tolto quello dell’Istruzione, ed è un bene.Tuttavia o facciamo questa discussio-ne, oppure finiamo per arrovellarci in situazione nella quale facciamo solo danni.

I video di questo intervento sono on line sul canale youtube di “Associazione AReS”.

GRAFICI E TABELLE

GRAFICI E TABELLE

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DEBITO TOTALE USA

debito totale G7 / GDP

Debito totale G7 in trilioni di USD

GDP totale G7 in trilioni di USD

Debito/GDP

DEBITO TOTALE G7 / GDP

Relazione dott. LAMBERTI

Le slides delle relazioni del dott. Lamberti, del dott. Nori e del prof. Spandonaro sono disponibili sul sito www.associazioneares.it (sezione “Documentazione”).

GRAFICI E TABELLE

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VARIAZIONE NEL RAPPORTO DEBITO/REDDITO

DEBITO PUBBLICO G7 / GDP AI LIVELLI DEL DOPOGUERRA

GRAFICI E TABELLE

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PUBLIC DEBT (AS % OF GDP)

TASSI UFFICIALI DI FINANZIAMENTO DELLE BANCHE CENTRALI

AGGREGATO MO_USA/EUROPA/JAPAN/UK/SVIZZERA

TOP 25 EUROPEAN BANKS BASED ON ASSETS

TOTAL ASSETS TO HOME COUNTRY GDP (2010)

GRAFICI E TABELLE

P O L I T I C A S O C I E T À C U L T U R A

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PUBLIC DEBT (AS % OF GDP)

TASSI UFFICIALI DI FINANZIAMENTO DELLE BANCHE CENTRALI

AGGREGATO MO_USA/EUROPA/JAPAN/UK/SVIZZERA

TOP 25 EUROPEAN BANKS BASED ON ASSETS

TOTAL ASSETS TO HOME COUNTRY GDP (2010)

GRAFICI E TABELLE

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TOTALE DERIVATI STIMATI DA BIS (MILIARDI DI DOLLARI)

ANDAMENTO LAVORO IN USA

Profitti delle imprese USA

% di popolazione

con lavoro in USA

LONG TERM UNEMPLOYMENT EU

TASSO DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE IN ITALIATasso di di disoccupazione giovanile in Italia

GRAFICI E TABELLE

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TOTALE DERIVATI STIMATI DA BIS (MILIARDI DI DOLLARI)

ANDAMENTO LAVORO IN USA

Profitti delle imprese USA

% di popolazione

con lavoro in USA

LONG TERM UNEMPLOYMENT EU

TASSO DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE IN ITALIATasso di di disoccupazione giovanile in Italia

GRAFICI E TABELLE

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TOP INCOME SHARES, UNITED STATES, 1913-2012

TOP INCOME SHARES, ITALY, 1974-2009

ASPETTATIVE DI VITA ALLA NASCITA (EU27)

TASSO DI FERTILITÀ (EU27)

GRAFICI E TABELLE

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TOP INCOME SHARES, UNITED STATES, 1913-2012

TOP INCOME SHARES, ITALY, 1974-2009

ASPETTATIVE DI VITA ALLA NASCITA (EU27)

TASSO DI FERTILITÀ (EU27)

GRAFICI E TABELLE

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THE

RELA

TIO

NSH

IP B

ETW

EEN

INCO

ME

INEQ

UA

LITY

AN

D SO

CIA

L M

OBI

LITY

VARIAZIONE DEL PIL UNITARIO DALL’AVVIO DELL’EURO

PERCENTUALE E DIMENSIONI (IN MILIONI) DELLA POPOLAZIONE DI 65 ANNI E PIÙ

GRAFICI E TABELLE

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THE

RELA

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VARIAZIONE DEL PIL UNITARIO DALL’AVVIO DELL’EURO

PERCENTUALE E DIMENSIONI (IN MILIONI) DELLA POPOLAZIONE DI 65 ANNI E PIÙ

GRAFICI E TABELLE

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CONFRONTO SISTEMI PREVIDENZIALI FRANCIA E GERMANIA

LE PRINCIPALI RIFORME PREVIDENZIALI 1992-2008

Spesa pensionistica in rapporto al PIL (%, 2010)

Spesa pensionistica in rapporto al PIL (%, 2010) 10,7% 13,8%12,5%

Popolazione (Mln, 2011)Popolazione (Mln, 2011) 65 6081

Assicurati(Mln, 2010)Assicurati

(Mln, 2010) 22 23*32

Pensionati(Mln, 2010)Pensionati(Mln, 2010) 19 17*25

Spesa totale per la protezione sociale in rapporto al PIL

(%, 2009)

Spesa totale per la protezione sociale in rapporto al PIL

(%, 2009)31% 29,8%33,1%

Dall’analisi comparata delle principali dimensioni dei sistemi previdenziali, si può notare come il modello italiano (incentrato su INPS) sia in grado di gestire efficientemente numeri di assicurati,

pensionati e livelli di spesa assimilabili ai contesti francese e tedesco

Dimensioni

Costi amministrativi in rapporto alla spesa per protezione sociale

(%, 2009)

Costi amministrativi in rapporto alla spesa per protezione sociale

(%, 2009)3,7% 2,7%3,9%

6081

22 23*32

19 25

Confronto sistemi previdenziali Francia e Germania

LE PRINCIPALI RIFORME PREVIDENZIALI LE PRINCIPALI RIFORME PREVIDENZIALI 1992 1992 -- 2008 2008

• AMATO D.lgs.vo 503/92

• DINI - TREU Legge 335/95

• PRODI Legge 447/97

• BERLUSCONI - MARONI Legge 243/04

• PRODI-DAMIANO Legge 247/07

• TREMONTI - SACCONI Legge 122/10

• MONTI - FORNERO Legge 214/11

Relazione dott. NORI

GRAFICI E TABELLE

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CONFRONTO SISTEMI PREVIDENZIALI FRANCIA E GERMANIA

LE PRINCIPALI RIFORME PREVIDENZIALI 1992-2008

Spesa pensionistica in rapporto al PIL (%, 2010)

Spesa pensionistica in rapporto al PIL (%, 2010) 10,7% 13,8%12,5%

Popolazione (Mln, 2011)Popolazione (Mln, 2011) 65 6081

Assicurati(Mln, 2010)Assicurati

(Mln, 2010) 22 23*32

Pensionati(Mln, 2010)Pensionati(Mln, 2010) 19 17*25

Spesa totale per la protezione sociale in rapporto al PIL

(%, 2009)

Spesa totale per la protezione sociale in rapporto al PIL

(%, 2009)31% 29,8%33,1%

Dall’analisi comparata delle principali dimensioni dei sistemi previdenziali, si può notare come il modello italiano (incentrato su INPS) sia in grado di gestire efficientemente numeri di assicurati,

pensionati e livelli di spesa assimilabili ai contesti francese e tedesco

Dimensioni

Costi amministrativi in rapporto alla spesa per protezione sociale

(%, 2009)

Costi amministrativi in rapporto alla spesa per protezione sociale

(%, 2009)3,7% 2,7%3,9%

6081

22 23*32

19 25

Confronto sistemi previdenziali Francia e Germania

LE PRINCIPALI RIFORME PREVIDENZIALI LE PRINCIPALI RIFORME PREVIDENZIALI 1992 1992 -- 2008 2008

• AMATO D.lgs.vo 503/92

• DINI - TREU Legge 335/95

• PRODI Legge 447/97

• BERLUSCONI - MARONI Legge 243/04

• PRODI-DAMIANO Legge 247/07

• TREMONTI - SACCONI Legge 122/10

• MONTI - FORNERO Legge 214/11

Relazione dott. NORI INPS: UN MODELLO DI WELFARE UNICO IN EUROPA

LA SANITÀ ITALIANA IN UN QUADRO DI PROSPETTIVA

Spese dello Stato per funzione, valori in % del PIL anni 2005-2011

INPS: un modello di welfare unico in Europa

19

PensioniPensioni Sostegno Reddito

Sostegno Reddito

Sostegno occupa-zionale

Sostegno occupa-zionale

Sostegno assistenziale

Garanzia reddito

Sostegno assistenziale

Garanzia reddito

CNAV Caisse nationale d’assurance vieillesse

CNAMTSCaisse nationale d’assurance maladie des

travailleurs salariés

UNEDICUnion nationale pour l’emploi dans

l’industrie et le commerce

DRBDeutsche Rentenversicherung Bund

BFABundesagentur für Arbeit

ACOSSAgence centrale des organismes de

sécurité sociale

Raccolta contributiRaccolta contributi

Principali Enti *Paese

DRKBSDeutsche Rentenversicherung

Knappschaft-bahn-See

CNAFCaisse nationale d’allocations familiales

Dipendenti

120.000addetti impiegati presso gli otto

principali Enti preposti alla sicurezza sociale

60.000addetti impiegati presso

i sei principali Enti preposti alla

sicurezza sociale

34.000INPS, INPDAP, ENPALS

Le molteplici attività gestite da INPS rendono il modello di welfare italiano unico rispetto agli altri paesi europei, in cui sovente una pluralità di istituti è preposta a singole funzioni e dove le gestioni previdenziali sono frammentate fra diverse categorie di lavoratori

INPS

Spese dello Stato per funzioneSpese dello Stato per funzioneValori in % del PILValori in % del PILanni 2005 e 2011anni 2005 e 2011

La Sanità italiana in un quadro di prospettiva

2 / 18Seminari ARES - Roma 5.11.2013

Relazione prof. SPANDONARO

GRAFICI E TABELLE

P O L I T I C A S O C I E T À C U L T U R A

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QUALE EQUILIBRIO FRA GOVERNO DELLA SPESA SANITARIA E INVESTIMENTI PER LA SALUTE

Spesa sanitaria totale pro-capite Italia vs. EU14, valori in Euro, anni 2000-2011

Spesa sanitaria totale proSpesa sanitaria totale pro--capitecapiteItalia vs. EU14Italia vs. EU14

Valori in Valori in , anni 2000, anni 2000--20112011

Quale equilibrio fra governo della spesa sanitaria e investimenti per la Salute

7 / 17Meridiano Sanità - Roma 5.11.2014Spesa per investimenti fissi in SanitSpesa per investimenti fissi in SanitààFinanziamento pubblicoFinanziamento pubblico--privatoprivato

Italia vs. EU Italia vs. EU -- Valori %, anno 2011Valori %, anno 2011

Quale equilibrio fra governo della spesa sanitaria e investimenti per la Salute

12 / 17Meridiano Sanità - Roma 5.11.2014

QUALE EQUILIBRIO FRA GOVERNO DELLA SPESA SANITARIA E INVESTIMENTI PER LA SALUTE

Spesa per investimenti fissi in Sanità, finanziamento pubblico-privato, Italia vs. EU,valori in %, anno 2011

GRAFICI E TABELLE

P O L I T I C A S O C I E T À C U L T U R A

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QUALE EQUILIBRIO FRA GOVERNO DELLA SPESA SANITARIA E INVESTIMENTI PER LA SALUTE

Spesa sanitaria totale pro-capite Italia vs. EU14, valori in Euro, anni 2000-2011

Spesa sanitaria totale proSpesa sanitaria totale pro--capitecapiteItalia vs. EU14Italia vs. EU14

Valori in Valori in , anni 2000, anni 2000--20112011

Quale equilibrio fra governo della spesa sanitaria e investimenti per la Salute

7 / 17Meridiano Sanità - Roma 5.11.2014Spesa per investimenti fissi in SanitSpesa per investimenti fissi in SanitààFinanziamento pubblicoFinanziamento pubblico--privatoprivato

Italia vs. EU Italia vs. EU -- Valori %, anno 2011Valori %, anno 2011

Quale equilibrio fra governo della spesa sanitaria e investimenti per la Salute

12 / 17Meridiano Sanità - Roma 5.11.2014

QUALE EQUILIBRIO FRA GOVERNO DELLA SPESA SANITARIA E INVESTIMENTI PER LA SALUTE

Spesa per investimenti fissi in Sanità, finanziamento pubblico-privato, Italia vs. EU,valori in %, anno 2011

LA SANITÀ ITALIANA IN UN QUADRO DI PROSPETTIVA

Spesa sanitaria totale pro-capite per popolazione pesata, valori assoluti (Euro), anno 2011

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200 euro• Socio Sostenitore, con versamento maggiore di 200 euro

RES

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