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Cristiani nel mondo Anno XIX - n. 2 - Marzo/Aprile/Maggio 2004 Sped. in abb. post. comma 20/c art. 2 Legge 662/96 - Filiale di Roma Il dialogo interreligioso Il dialogo interreligioso

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Anno XIX - n. 2 - Marzo/Aprile/Maggio 2004

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Indice

3 EditorialeP. Gian Giacomo Rotelli s.j. / «Il mondo non ha bisogno di muri, ma di ponti»

Forum4 Andrea Riccardi / Pace e sicurezza: il dialogo tra le religioni

Confronti13 P. Thomas Michel s.j. / Le sorprese del dialogo17 Adnane Mokrani / Per una missione interreligiosa

Oltre il fatto21 Mikaela Hillestrom / Immigrato: il fratello tanto temuto

Vie dello spirito25 Francesco Riccardi (a cura di) / Un’esperienza mistica islamica: il movimento sufi

Frammenti di utopia29 Giampiero Marzi / Iran: restaurare una chiesa per restaurare un dialogo

Note di lettura31 Alla confluenza dei due mari - Un cristiano incontra l’Islam

CRISTIANI NEL MONDO - Periodico della Comunità di Vita Cristiana d’ItaliaVia di San Saba, 17 - 00153 Roma

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Due numeri fa, Cristiani nel Mondo riportava in copertina un’imma-gine di due mani che si stringono al di sopra di un muro. Volevamoillustrare la frase del Papa così pertinente e incisiva: il mondo non habisogno di muri, ma di ponti.Il giorno di Pasqua, stante anche il peggioramento della situazioneinternazionale, il Papa è tornato a chiedere che «i figli di Abramo»,cioè ebrei, cristiani e musulmani, cooperino per arrestare il montaredella violenza e aprire percorsi di dialogo e, in prospettiva, di pace.Dedichiamo questo numero al dialogo interreligioso. Non perché nonsiano state già dette tante cose in proposito. Ma vogliamo dare il no-stro piccolo apporto nella convinzione che non abbiamo mai a suffi-cienza sgretolato le basi dei muri che continuano a ricostruirsi in noi,che cioè non abbiamo mai a sufficienza conosciuto l’altro, liberando-ci dalle varie forme di pregiudizio o di giudizi sommari che ci abita-no facilmente, e mai a sufficienza abbiamo ridotto le sorgenti dellenostre paure.Umilmente siamo chiamati a divenire sempre più adulti nella fede,cioè liberi da ogni affetto disordinato verso i nostri contro gli altri,“indifferenti”, profondi (per quanto possibile) conoscitori del nostrotempo («sapete discernere l’aspetto della terra e del cielo, come maiquesto tempo non sapete giudicarlo?», Lc 12,56), ricchi dello Spiritodel Risorto, cioè dello Spirito dell’amore («se amate quelli che vi ama-no, che merito ne avete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Amateinvece i vostri nemici… e sarete figli dell’Altissimo» Lc 6,32-35).Figli del Padre, cioè fratelli.

E D I T O R I A L E

«Il mondo non ha bisognodi muri, ma di ponti»

di p. Gian Giacomo Rotelli

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Secolarismo o ripresa religiosa?La cultura del Novecento ha spesso guar-dato alle religioni come ad un fenomenoresiduale, se non in via di scomparsa. IlNovecento è stato il secolo più secolariz-zato della storia. Implicitamente si preve-deva che il ruolo delle religioni sarebbediminuito nella vita sociale e in quellapersonale. Ad Occidente la secolarizza-zione avrebbe drasticamente ridotto l’in-flusso della fede sui comportamenti; adOriente la forzata e persecutoria laicizza-zione della vita civile, dovuta alla politi-ca comunista in materia religiosa, quelladi uno Stato ateo, avrebbe spazzato viail vissuto religioso dalla società. Non sitrattava solo di una prospettiva europeama, in un certo senso, di una visionemondiale: quello che avveniva in Europasarebbe successo anche negli altri conti-nenti con la diffusione della modernità.Più modernità, meno religione…Eppure questa previsione lineare non siè verificata. Proprio negli ultimi decennidel Novecento ci sono stati chiari segnalidi indirizzo contrario. Non voglio qui en-trare nella discussione sugli Stati Unitid’America, dove la vita religiosa non ap-

pariva già da tempo in contrasto con lamodernizzazione. Ma segnali sono arri-vati dal mondo musulmano. La grandeopinione pubblica si è accorta della for-za dell’islam a partire dalla rivoluzionedi Khomeini nel 1978, quando è stato ro-vesciato l’impero di Reza Palhevi cheaveva condotto una decisa modernizza-zione dell’Iran. La stampa occidentale fusconcertata. Quella di sinistra parlò diuna vera rivoluzione seppure fosse con-dotta dal clero. Le radici del ruolo pub-blico dell’islam partivano dal riformismomusulmano dei primi decenni del Nove-cento e, in particolare, dai Fratelli Musul-mani nati in Egitto nel 1928 da HasanBanna, messi fuori legge da Nasser nel1954 e all’origine dell’assassinio di Sadatnel 1981. Lo shiismo iraniano, con la suavisione dolorista della vita umana e dellareligione, era divenuto un elemento di ri-voluzione sociale. Mi limito a citare l’in-tellettuale iraniano e shiita, Alì Shariati,il quale aveva frequentato gli ambientimarxisti parigini e formulato una speciedi teologia della liberazione shiita, tantoinfluente su Khomeini.In realtà l’islam diviene, in alcune parti

F O R U M

Pace e sicurezza:il dialogo tra le religioni

Le religioni portano alla guerra o alla pace? È difficile parlare di guerre solo perla religione, ma è faticoso negare il ruolo della religione nei conflitti sociali earmati. Il mondo contemporaneo, a tutti i livelli, è una realtà di convivenza tracomunità religiose diverse. Perché questa convivenza non sia un mero accidenteo un terreno scivoloso e conflittuale è necessaria l’arte del dialogo che è anchearte dell’incontro umano.

di Andrea Riccardi

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del mondo, specie in quello degli esclusio degli umiliati, una specie di ideologiadel riscatto e della contrapposizione al-l’Occidente. L’islam riesce laddove ilmarxismo terzomondiale ha fallito: dive-nire l’anima della rivolta dei dannati dellaterra, per usare l’espressione dell’antille-se, Franz Fanon, prestato alla rivoluzio-ne algerina. È questa una realtà i cui ef-fetti sono ancora visibili, non solo nel-l’organizzazione di Al Qaeda, ma anchein vari paesi musulmani e perfino nellavita degli immigrati a contatto con le so-cietà occidentali.Sarebbe un errore limitare la ripresa reli-giosa al solo islam. Negli stessi anni, inIsraele, si verificava la ripresa dei partitireligiosi, che tanta influenza avrebberoavuto su questo paese. In America Lati-na si era sviluppata la teologia della libe-razione che, con una peculiare attenzio-ne al marxismo, faceva del cristianesimoun elemento per la rivoluzione sociale.In Africa, tra gli anni Ottanta e gli anniNovanta, i leader religiosi, in particolarei vescovi cattolici o anglicani (si pensi alpremio Nobel, Desmond Tutu), diveniva-no protagonisti della transizione, a con-fronto con classi dirigenti corrotte o de-legittimate. In Europa, Giovanni Paolo II,eletto papa nel 1978 in un cattolicesimoin grave difficoltà, riaffermava l’orgogliodi essere cristiani, anzi faceva del cristia-nesimo una base per la resistenza al po-tere comunista in Polonia, all’origine diSolidarnosc e delle spinte che hanno con-tribuito all’89. La tesi di papa Wojtyla eraquella che il cristianesimo doveva essereuna forza sociale in Italia e in Europa,uscendo da un atteggiamento rassegnatoe affascinato dalla crisi. Negli anni suc-cessivi sarebbe emerso un volto più fortedel cristianesimo europeo: ancor oggi, no-nostante la secolarizzazione, si può dire

che in Italia il cristianesimo è ancora unareligione di popolo.Un giovane islamologo francese, GillesKepel, nel 1991, pubblicava un libro daltitolo significativo: La rivincita di Dio.Cristiani, ebrei e musulmani alla ricon-quista del mondo. Aveva iniziato i suoistudi con un lavoro sui movimenti isla-misti egiziani per proseguire poi ad inda-gare sulle reislamizzazione dal basso de-gli immigrati musulmani. La sua tesi erache la rinascita religiosa non si limitasseall’islam, ma coinvolgesse gli altri mondireligiosi. È la rivincita di Dio, che torna inpubblico, definisce le identità dei gruppi,rianima la vita dei credenti, ebrei, cristia-ni e musulmani. Certo le espressioni e letemperature dei vari movimenti di rina-scita sono differenti. Si va dagli islamisti,ai gruppi religiosi israeliani, alla ebraiciz-zazione delle comunità istraelitiche, aimovimenti neoprotestanti o pentecostali(dove l’entusiasmo religioso è protagoni-sta), o ai movimenti cattolici (e qui vor-rei sottolineare come l’Italia, nel quadroeuropeo, è la patria dei nuovi movimenticattolici prima e dopo il Vaticano II). Na-turalmente non si può confondere questeespressioni così varie, ma si deve coglie-re un orientamento profondo della sto-ria, che rimette in discussione il dogmadella fine della religione sotto la spintadella modernità.Gilles Kepel conclude il suo libro sulla“rivincita di Dio”: «[…] è la logica delconflitto che porta lo sviluppo in paralle-lo di movimenti che hanno l’ambizionedi riconquistare il mondo». Ma qualeconflitto? Ovviamente la ripresa del reli-gioso porta ad un atteggiamento piùidentitario da parte dei credenti, quindipiù conflittuale. Ma c’è un conflitto –vorrei dire – benefico, perché legato aforti convinzioni; c’è conflitto al contra-

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rio preoccupante perché diviene lesivodell’altrui libertà, se non peggio. Si co-mincia a diffondere, nel linguaggio cor-rente, il termine di “fondamentalismo”,fino ad ora riservato al laboratorio deglistudiosi e ormai divenuto un insulto traragazzi. È noto come l’espressione vengadal protestantesimo americano che, all’i-nizio del Novecento, visse una reazioneal liberalismo teologico imperante. TheFundamentals fu un’opera che voleva ri-badire i capisaldi della fede e, nel 1920,si propose di chiamare “fondamentalisti”proprio i difensori del protestantesimocontro il modernismo religioso.

I fondamentalismiQui vorrei sottolineare – come per un in-ciso – che la nostra cultura europea sot-tovaluta la forza della galassia religiosaneoprotestante che in un secolo, il XX, èpassata da nessun fedele a mezzo miliar-do di credenti, forti negli Stati Uniti, co-me sappiamo, ma capaci di insidiare leposizioni cattoliche in America Latina,rilevanti in Africa anche in politica. Ineoprotestanti o pentecostali, senza nes-suna organizzazione unitaria, vivono ilcarattere caldo e personale dell’esperien-za religiosa in una visione di contrappo-sizione all’islam o al cattolicesimo.Dal neoprotestantesimo il termine fon-damentalista si è esteso alle dissidenzecristiane, come i Testimoni di Geova, al-l’islamismo, ai Fratelli Musulmani o alkhomeinismo, al fervore ebraico degliultraortodossi o dei sionisti religiosi, si-no ad arrivare ai movimenti cattolici piùintegrali o a quelli ortodossi (ma si do-vrebbe anche parlare dell’induismo spe-cie nell’attuale situazione del paese). Ilfondamentalismo è tutt’altro che il tradi-zionalismo o il ritorno al passato. I mo-vimenti fondamentalisti si caratterizzano

per l’opposizione alle interpretazioni mo-derniste, liberali, dialoghiste della religio-ne, ma anche per la spinta al rinnova-mento della vita religiosa, della pratica,con l’uso di strumenti moderni per la dif-fusione delle idee religiose. Il fondamen-talismo è un fenomeno talmente com-plesso e trasversale che non può essereridotto all’una e all’altra esperienza; ep-pure caratterizza il nostro tempo ricco econtraddittorio, in cui le religioni tornanoad essere protagoniste della vita socialee pubblica. È il ritorno del Medio Evo? Il termine “ri-torno” è quanto mai ambiguo. Spessocon espressioni tradizionali si diconorealtà nuove. Lo Stato teocratico apparedifficile da restaurare, come si vede an-che dalle convulsioni dell’Iran contem-poraneo. Lo Stato musulmano più teo-cratico ed esclusivista non è recente, manasce con la riforma wahbita nel Sette-cento che giunge al potere in Arabia Sau-dita nel 1932. Del resto la rinascita reli-giosa è contraddittoriamente accompa-gnata dalla fine della DC in Italia o dallacrisi dei partiti di ispirazione cristiana.Niente è scontato e lineare, anche intempi come i nostri dove la comunica-zione esige la semplificazione. Tuttavia ildogma del “declino della religione” èsmentito. Le religioni hanno un ruolopubblico e vitale. Eppure il “ritorno dellareligione” non cancella la secolarizzazio-ne. Di questo tutti dobbiamo tener con-to: le religioni non sono una realtà di po-co conto nel vissuto degli uomini e delledonne del nostro tempo e nei grandiorientamenti dei popoli.Infatti, proprio la globalizzazione favori-sce un ritorno al religioso. Effetto stranodi un fenomeno che, di per sé, dovrebbeportare al cosmopolitismo, all’omologa-zione dei comportamenti se non all’in-

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differenza e alla secolarizzazione. Inrealtà, la globalizzazione impone una ri-definizione a tutte le identità di gruppo,statuali, etniche, nazionali, culturali e re-ligiose. Infatti l’uomo della globalizza-zione è quell’«uomo spaesato» di cuiparla lo scrittore di origine bulgara, To-dorov. Negli anni Novanta tutte le iden-tità sono obbligate a ridefinirsi con unprocesso grandioso di cui ci siamo accor-ti solo in parte. Le globalizzazioni delpassato, come la conquista dell’AmericaLatina o l’islamizzazione dell’Africa o lacolonizzazione, non erano state così ra-pide ed intense. La fine del comunismo,l’estensione del mercato, il crollo del Ter-zo Mondo, le nuove comunicazioni, l’im-pero mondiale dei media, quello che in-somma l’americano Benjamin Barberchiama McWorld, ripropongono la do-manda «chi siamo» ai gruppi e alle istitu-zioni.«[…] l’identità si definisce – scrive que-sto autore – per opposizione all’altro, lostraniero, e la politica si riduce all’esclu-sione o al risentimento. Essa promuovela comunità ma a spese della tolleranzae della reciprocità e crea un mondo incui l’appartenenza è ancora più impor-tante che il potere dei cittadini e dove gliscopi collettivi imposti dai dirigenti cari-smatici rimpiazzano le decisioni che ven-gono dalla deliberazione democratica».Le religioni sono chiamate naturalmentea rifondare le identità: fossero quelle deipopoli in lotta nella ex Iugoslavia, fosseroquelle dei gruppi immigrati. Jean LoupArselle osserva giustamente: «la messain atto di politiche di liberalizzazione suscala mondiale non si traduce affatto, co-me ci si sarebbe potuto aspettare, in untrionfo dell’individualismo, ma al con-trario nella proliferazione di identità col-lettive». Del resto, nel noto volume di Sa-

muel Huntington, Lo scontro delle civiltà,edito proprio nel 1993 (e che ha avuto ungrande successo tra gli islamisti confer-mati nella convinzione dell’incompatibi-lità delle civiltà), si nota il ruolo fonda-mentale della religione per definire unaciviltà. Le identità, quelle religiose, quel-le fondamentaliste, quelle etniche, sem-brano forti, più forti, talvolta conflittuali.«A dire il vero – conclude lo scrittore fran-co-libanese Amin Maalouf – se affermia-mo con tanta rabbia le nostre differenze,è proprio perché siamo sempre meno dif-ferenti. Perché nonostante i nostri con-flitti, le nostre inimicizie secolari, ognigiorno che passa riduce un po’ di più lenostre differenze e accresce un po’ di piùle nostre affinità».Non solo siamo affini e simili, ma anchevicini. Infatti, nella realtà contemporanea,si sono create convivenze inedite. Bastapensare al ruolo dell’immigrazione inEuropa che fa vivere cospicue minoran-ze musulmane in paesi di tradizione cri-stiana e di legislazione laica. Sul Medi-terraneo, fino al Novecento, si viveva as-sieme tra diverse comunità religiose sullesponde della riva Sud: lì, nel quadro delloStato musulmano, in particolare dell’im-pero ottomano, vivevano insieme musul-mani, cristiani di varie confessioni edebrei. Con il sistema dei millet, venivagarantita una convivenza che assicuravaautonomia alle religioni-nazioni. Questosistema è entrato in crisi con i vari nazio-nalismi e le pressioni dell’Occidente finoalla prima guerra mondiale. Poi, con lanascita dello Stato d’Israele e con un vi-rulento antisemitismo musulmano, gliebrei hanno lasciato la riva Sud del Me-diterraneo e si sono concentrati nel nuo-vo Stato; i cristiani, da parte loro, hannocominciato ad emigrare in Occidente. Èentrato in crisi un sistema di convivenza

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tra comunità religiose che, tra difficoltà,era durato un millennio. Gerusalemme,frutto di questa realtà, permane oggi co-me il monumento di questa crisi.Ma oggi la convivenza tra cristiani, mu-sulmani ed ebrei si riproduce sulla rivaNord del Mediterraneo e in Europa, nonnel quadro di uno Stato religioso, ma lai-co. Chi avrebbe detto, trent’anni fa, chealtre religioni sarebbero state così cono-sciute nel nostro mondo? Il musulmanoappariva esotico. Convivere spinge a ri-pensare le proprie identità, magari infunzione di distinzione se non di polemi-ca. Spesso le nostre identità – aggiungelo storico inglese Eric Hosbawn – non so-no pelle, ma magliette. Eppure, per que-ste magliette, ci si sente estranei, nemici,mentre talvolta ci si combatte. Siamo sudi un crinale pericoloso di scontro di ci-viltà? Le religioni introducono una gravetensione dalle città alla vita internazio-nale?

Le guerre di religioneIn tanti conflitti, tuttora aperti, si può ve-dere l’ombra o il richiamo al nome delDio: dall’11 settembre alla guerra medio-rientale, insensata se non fosse reale, chedura da mezzo secolo. Lungo il bacinomediterraneo non manca lo sfondo reli-gioso in tanti conflitti. I Balcani conosco-no il conflitto tra serbi e albanesi musul-mani (laddove le motivazioni religiosestanno dalla parte dei serbo-ortodossimeno tra i kossovari). In Bosnia il con-flitto ha condotto a una reislamizzazionedei bosniaci nello scontro con i serbi enel confronto con i cattolici croati. Inol-tre l’islam ritorna come riferimento inmolti conflitti tra correligionari. Avvienenelle società arabe a partire dall’Algeria,un tempo cuore di un nazionalismo ara-bo laico: i movimenti islamisti dai molti

volti attaccano il potere costituito. Maanche lontano dal Mediterraneo nonmancano conflitti con sfondo religioso:tra azeri e armeni, tra russi e ceceni. Nel-l’Est asiatico la motivazione religiosa siritrova nei conflitti delle Filippine e inquelli – come ad Aceh – dell’Indonesia.II discorso potrebbe continuare. Torna ladomanda: le religioni portano alla guerrao alla pace?Si parla apertamente di guerra di religio-ne. Lo si è fatto, ad esempio, nel lungoconflitto libanese. Dopo l’11 settembre siparla di più di religione e si prova a spie-gare tanto con le religioni. Ci si trova difronte un primo registro di intellettualiche ribadisce l’inevitabile deriva violen-ta delle religioni monoteistiche con la lo-ro pretesa esclusivistica della verità.Dieu est-il fanatique? – si è chiesto JeanDaniel in un bel saggio sull’incapacitàreligiosa di credere. Ataturk, tanti anniprima, ma da par suo, insisteva conDumézil sul bisogno di un insegnamentodi storia delle religioni a Istanbul, dicen-do: «[…] una religione che fa credere aifedeli che è la sola non può che renderefanatici». Barbara Spinelli ci spiega chesolo la laicità consente la convivenza pa-cifica tra le religioni, che altrimenti sa-rebbero giunte al conflitto.Guerra di religione come destino inevita-bile o pace in nome di Dio? È difficileparlare di guerre solo per la religione, maè faticoso negare il ruolo della religionenei conflitti sociali e armati. Capire le re-ligioni e il loro ruolo oggi non vuol direfarsi prendere dall’ossessione del deter-minismo delle origini delle religioni, co-me è avvenuto spesso quando si parla esi scrive di religioni e violenza. Improv-visati esperti (perché l’opinione pubblicane sa talmente poco che si possono ri-schiare tante affermazioni) parlano delle

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religioni solamente rifacendosi alle origi-ni, magari a colpi di citazioni di versettiscritturistici. Ma le religioni sono anchevita, storia e contemporaneità. Non esi-ste identità – come ricorda Amin Maa-louf – che viva solo di tradizione, ma ne-cessariamente sente la forza della con-temporaneità, talvolta più prendentedelle radici, anche se spesso spiegata conil linguaggio della tradizione.I governi e le diplomazie si sono accortida tempo del valore geopolitico della re-ligione nei conflitti e si debbono attrez-zare. L’attenzione all’uso politico dellereligioni era una tradizione di tutte le di-plomazie “imperiali”, a partire da quellafrancese (pur della repubblica laica) sinoa quella russo-sovietica (la quale, neglianni comunisti, ha attribuito una grandeimportanza al ruolo internazionale dellereligioni). È incredibile che, al terminedel secolo più secolarizzato della storia(almeno per l’Occidente, ma non solo),le religioni si trovano ad esercitare ungrande ruolo. Lo si vede anche nelle pe-riferie delle nostre città, nel mondo degliimmigrati, sugli scenari del mondo.

La pace in nome di DioCome affrontare questo fenomeno? Biso-gna riconoscerlo: c’è un deficit di cultu-ra. Spesso sembra di non avere i mezzi,se non la contrapposizione dei nostriprincipi e della nostra visione del mondoa quelle posizioni che appaiono turbati-ve del vivere insieme. Ma la logica dellacontrapposizione è ben accetta specie al-le identità deboli e fondamentaliste: lerafforza. In realtà l’antico mondo dellaconvivenza tra religioni conosceva il dia-logo e la disputa: si pensi quella tra mu-sulmani e cristiani in Medio Oriente al-l’origine di una vasta letteratura.C’è però un fatto altamente positivo: nel

Novecento i mondi religiosi hanno com-preso di non poter vivere a prescinderedall’esistenza degli altri. Per l’islam, ebreie cristiani sono le comunità del Libro, lacui fede è stata perfezionata dal profetaMuhammed. In una certa misura hannouno statuto teologico nella fede islamicaanche se di secondo piano. Si resta col-piti dal fatto che la Chiesa cattolica, pro-prio nel cuore del Novecento, con il Vati-cano II, si sia interrogata sullo statutodell’altro da un punto di vista religioso.Il Concilio, conclusosi nel 1965, parlaesplicitamente di dialogo con ebrei, mu-sulmani, religioni orientali.Tuttavia il dialogo tra le religioni, primadel Vaticano II, era apparso già una ne-cessità a figure di grande rilievo come l’i-slamista francese, Louis Massignon, e ilsindaco di Firenze, Giorgio La Pira. Que-sti aveva promosso nel capoluogo tosca-no incontri tra esponenti di comunità re-ligiose. Per lui il Mediterraneo doveva es-sere il lago del dialogo, mentre i conflitti(di cui sottolineava anche il fondo reli-gioso) andavano affrontati mediante ildialogo. Qualcosa di più riservato era av-venuto in Italia alla Fondazione Cini nel1955, in un incontro tra italiani e rappre-sentanti musulmani su Occidente e islam(di cui Guido Piovene ha fatto una sinte-si). Le iniziative di La Pira avevano avu-to la capacità di connettere due temi es-senziali ancor oggi: la pace e il dialogotra le religioni. Ed egli aveva avuto intui-zioni chiaroveggenti sul ruolo delle reli-gioni per l’armonia e la pace, a partiredal Medio Oriente.Giovanni Paolo II, eletto papa nel 1978,portatore di un messaggio radicato nell’i-dentità cristiana, tutt’altro che relativista,ha sorpreso l’opinione pubblica quandoha ripreso con forza la via del dialogoche, di fronte alle difficoltà, aveva cono-

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sciuto notevoli battute d’arresto. Eranole difficoltà di un islam che aveva ritro-vato l’orgoglio di sé. Giovanni Paolo IInel 1986 ha compiuto al prima visita diun papa ad una sinagoga, quella di Ro-ma (e non si dirà abbastanza il senso diquesta città, capitale del cattolicesimo,luogo di incontri ecumenici, ma anchepatria della più antica comunità ebraicaoccidentale, tanto da avere un proprio ri-to). Il papa parla anche ai giovani musul-mani in Marocco e, nel 2001, visita lamoschea degli Omayaddi a Damasco. Mail fatto più significativo è un altro, nonbilaterale ma multilaterale: l’incontro trale religioni ad Assisi, nel 1986, per pre-gare per la pace.L’immagine del papa, con i vescovi orto-dossi, i pastori protestanti, i rabbini, ileader musulmani, i rappresentanti bud-disti, induisti, delle religioni tradizionali,sik e via dicendo, riuniti ad Assisi nel1986, è forse la più grande icona religio-sa del Novecento. Siamo a tre anni dallacaduta del Muro di Berlino. GiovanniPaolo II, in un mondo che credeva allaforza della secolarizzazione, afferma chele religioni hanno una forza di pace chescaturisce dal profondo del loro messag-gio. I leader religiosi raccolti sembranoconsentire con questa affermazione. Lereligioni, pur nelle loro radicali differen-ze sulla verità della fede, sui comporta-menti morali, sulla preghiera, riconosco-no nella pace un valore primario. L’im-magine di Assisi non è quella dellaconfusione o dell’indifferenza: con i lorodiversi abiti religiosi, variopinti – perchél’uomo è anche un animale cerimoniale –mostrano identità religiose assai diffe-renti. Eppure non sono gli uni contro glialtri, ma insieme.Non si trattava di un atto relativistico,non fosse perché l’iniziativa proveniva

del più grande leader cristiano, promoto-re della rinascita religiosa. Il dialogo nonha di mira l’unificazione delle religioni(come volevano gli studiosi di storia dellereligioni) né l’identificazione di una ve-rità comune. Assisi era l’immagine dellostare gli uni con gli altri. Il mondo con-temporaneo, a tutti i livelli, è una realtàdi convivenza tra comunità religiose di-verse. Perché questa convivenza non siaun mero accidente o un terreno scivolo-so e conflittuale è necessario il dialogo.Il dialogo è la via che crea della comples-sa società contemporanea una civiltà del-la convivenza. Il dialogo è conoscenzamutua a livello iniziale, ma può divenireanche uno scambio profondo a livellospirituale. Chi sono i soggetti del dialogo?C’è un dialogo tra la gente di cultura etra i leader religiosi. E qui esiste un gran-de problema di rappresentatività perquelle comunità che non hanno una lorogerarchia come le Chiese cristiane, peresempio l’islam che, nella sua versionesunnita maggioritaria, è a base laica. C’èanche il dialogo tra la gente semplice:tra i ragazzi, sulla strada, a scuola, nellavita, nella conoscenza mutua. Il dialogonon mira a convertire o a soggiogare. Maindubbiamente trasforma una vicinanzacasuale tra diversi nella civiltà del con-vivere.Permettetemi di farvi sentire qualche frasedell’appello firmato nel 1998, a Bucarest,da un’imponente assemblea di leaders diChiese e di Religioni mondiali: «Nessunodio, nessun conflitto, può resistere allapreghiera, al perdono e all’amore. Perquesto chiediamo perdono e perdoniamo.Per questo abbiamo vissuto in questigiorni una scuola di dialogo. La medici-na del dialogo permette di guarire tanteincomprensioni e conflitti tra i popoli ele religioni. Il dialogo svela che la guerra

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e le incomprensioni non sono invincibi-li. Niente è perduto con il dialogo. Tuttoè possibile con la pace!»Il dialogo tra le religioni non inaugura unfronte delle religioni contro la laicità.Vorrei dire che la laicità, il nostro umane-simo laico della Costituzione, è profon-damente connesso al dialogo tra le reli-gioni. Quello che unisce, credenti di tut-te le religioni e non credenti, è l’esserecittadini – laici nel senso greco della pa-rola – di uno Stato. La laicità italiana,quella della Costituzione, non è statauna posizione antireligiosa o una religio-ne dell’essere laico, ma un terreno in cuile comunità religiose si ritrovano nelsenso di una comune appartenenza na-zionale. Giovanni Paolo II ha recente-mente dichiarato: «in una società plura-lista, la laicità è un luogo di comunica-zione tra le diverse tradizioni spirituali ela nazione».Ma in che misura il dialogo tra le religio-ni interessa lo Stato? Non ha questo soloil compito costituzionale di stabilire rap-porti bilaterali con le comunità religiose?Il ministro Pisanu, nell’ottobre 2003, hainvitato leader religiosi e politici europeianche per discutere del dialogo interreli-gioso come fattore di coesione sociale edi pace nel Mediterraneo. Non è lo Statoche si fa teologo o promotore di dialogo,ma che riconosce il valore del dialogo trale religioni, tanto da promuovere unaCarta europea per il dialogo tra le religio-ni e per la coesione sociale. In realtà unoStato (e ancor più l’Unione) è profonda-mente interessato allo sviluppo di untessuto di convivenza sorretto dal dialo-go, mentre – almeno per noi – non puònon guardare con preoccupazione lo svi-luppo di comunità separate, insomma diun comunitarismo sul modello libanese,in cui si riduca sempre più quello che

unisce e si spinga lo Stato a una media-zione estenuante tra le comunità.Dialogo è espressione profonda della no-stra civiltà e della nostra democrazia. Ildialogo presuppone quella libertà reli-giosa, che è un bene primario della so-cietà democratica. I ministri dell’Internoe della Giustizia dell’Unione hanno ac-colto la Carta, dove si legge «la loro vo-lontà di sostenere il dialogo quale stru-mento di pace e di coesione sociale inEuropa e ai confini di quest’ultima». Gliattori del dialogo sono le comunità reli-giose, ma lo Stato e l’Unione non posso-no restare indifferenti se sul loro territo-rio si sviluppa un tessuto di mutua atten-zione o invece le comunità si rinserranoin un comunitarismo ostile oppure indif-ferente all’altro.Umanesimo laico e umanesimo religio-so: di questo noi abbiamo bisogno in so-cietà in cui spesso la maggioranza nonsono i credenti o i non credenti, ma gen-te che ha perso il gusto e il senso dei va-lori. Vincenzo Paglia, in un libro, Letteraa un amico che non crede, ha affermatoche la via del dialogo è una via amoris:«in questa via […] tutti possiamo ritro-varci, credenti in Dio e credenti solo reli-giosi, credenti laici e non credenti affat-to. Ovviamente, non ci ritroviamo percaso, ma per scelta […]». È una scelta –egli insiste –, perché invece «l’istinto ètirare dritti per la propria via […]». Sì,l’istinto esistenziale, politico, sociale ètirar dritti per la propria via, presi daipropri problemi o dagli interessi del pro-prio gruppo. Quasi non si avesse biso-gno dell’altro, che è diverso. È un’auto-referenzialità pericolosa.Oggi gente di cultura e di fede diversaconvive nelle stesse città. Oggi, talvoltaa motivo della diversità di fede, ci siguarda con ostilità, se non ci si combat-

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te. In realtà nessuno oggi si può pensareprotetto dalle proprie frontiere, dai pro-pri muri. I flussi di popolazione, i pro-cessi di globalizzazione, lo stesso mon-do della comunicazione, ci fanno viverecon gli altri, con altri così diversi, talvol-ta lontani o che vengono da lontano.Tutti siamo immersi nella complessità enella molteplicità. Le giovani generazio-ni crescono su di un orizzonte segnatodalla complessità e dalla molteplicità. Ti-rar dritti per la propria via, chiudersi nelproprio mondo, negare l’esistenza del-l’altro, spesso è segno di inadeguatezza.Di fronte a una vita tanto complessa, lereligioni rispondono a una domanda:quella di un’anima per la propria vita,un’anima per il mondo. Quando le reli-gioni pregano per i governanti mostranodi avere il senso dell’intera comunità. Hascritto Abraham Yeshoua, uno scrittorelaico israeliano: «Se credi in qualcosa, inrealtà offri la tua fede al mondo intero».In ogni religione, pur nei diversi sistemi,c’è la convinzione del significato genera-le e universale della propria fede.Grandi potenzialità si manifestano quan-do le comunità religiose imboccano lavia del dialogo. Il dialogo è quella «con-cordia ragionevole tra le religioni», di cuiscrive il Cusano nel De pace fidei dopo laconquista turca di Costantinopoli e difronte al progetto di una crociata occi-dentale. Il suo sogno è quello di un con-cilio celeste delle religioni: ragionare in-sieme su pace e fede di fronte a Dio. Èl’idea del dialogo. Ma quel concilio deldialogo non si deve fare in cielo, ma su

questa terra, sia in momenti eccezionalie simbolici, che nella vita quotidiana enel tessuto sociale. Dal Corano viene unasuggestione sul dialogo, come gara a faril bene. Vi si legge: «A ciascuno di voiabbiamo assegnato una regola e una via,mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbefatto di voi una Comunità Unica, ma ciòha fatto per provarvi in quel che vi ha da-to. Gareggiate dunque nelle opere buone,ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli viinformerà su quelle cose per le quali orasiete in discordia».La diversità è il grande ostacolo? Rinun-ziare alla diversità vuol dire cadere nelrelativismo, che rende tutto uguale,scambiabile, sradicato. C’è un valore del-le differenze religiose. Cusano aggiunge:«Forse, lasciando una certa diversità, cre-scerà anche la devozione». Pluralismonon significa assenza di convinzioni ve-re, ma nemmeno estraneità. Quando sivive vicini e si è diversi, si deve parlare:è il dialogo.Frequentare le grandi tradizioni religiose,coglierne la spiritualità, non è perdere ilproprio cammino. Anzi è far crescere ilrispetto e cogliere come la complessitàdel mondo è popolata di pensieri, di amo-re, di fede. Non è riserva da poco per ilfuturo del mondo. Ma per questo è ne-cessario praticare a tutti i livelli l’arte deldialogo. È arte della profondità spiritua-le, del confronto con i problemi odierni,ma è anche arte dell’incontro umano. In-fatti – come afferma lo scrittore brasilia-no Vinicio de Moraes – «caro amico, lavita è l’arte dell’incontro».

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Il modo in cui vivo oggila mia vocazione religiosaQualcuno ha detto che «ogni buona teo-logia è autobiografia». Se la teologia è unariflessione sulla nostra fede e le sue im-plicazioni, allora la vicenda personale sucome Dio ha agito e agisce nella vita diciascuno di noi è il punto di partenza del-la comprensione teologica. Vorrei condi-videre con voi il desiderio spirituale cheha informato la mia relazione con Dionella preghiera e nell’azione degli ultimitrent’anni. È il desiderio di una compren-sione e di un amore più grandi tra cristia-ni e musulmani, unito al mio intento dicontribuirvi. Come prete cattolico, oggi posso consi-derarmi frutto del dialogo interreligioso.Il modo in cui vivo la mia vocazione reli-giosa è il risultato dei molti anni trascorsia condividere la vita dei musulmani e ascoprirne la ricchezza spirituale. Da loroho imparato e mi sono lasciato sfidare.Ma ho anche colto l’occasione per testi-moniare la mia fede in ciò che Dio hacompiuto per tutti nella persona di GesùCristo e per spiegare ciò che significa,per me, essere discepoli di Cristo.Insegno da circa trent’anni e come do-

cente mi dedico soprattutto a far cono-scere l’islam ai cristiani e la fede cristia-na ai musulmani. Ho operato soprattuttonel sud-est asiatico, in Paesi come l’Indo-nesia, le Filippine, la Malaysia, ma ripe-tutamente anche in Turchia. Negli ultimianni, il mio apostolato mi ha condotto ol-tre i confini dell’incontro con i musulma-ni, sospingendomi verso il dialogo conebrei, indù, buddhisti, taoisti e seguacidelle religioni indigene. Quando riflettosulla mia vita fino ad ora, vedo che Diomi ha continuamente formato e trasfor-mato con la sua grazia. Così che oggi so-no diverso da com’ero all’inizio del mioviaggio interreligioso.

Se c’è vero dialogo, nessuna delle dueparti coinvolte rimane come prima Sono consapevole che quando tengo deicorsi sull’islam o parlo dei musulmani,quello che dico e il modo in cui lo dico èdiverso da quanto direbbe chi non havissuto la mia esperienza di conoscenzadella comunità musulmana dal di den-tro. Se sento denigrare o sminuire in mo-do disonesto l’islam, mi ritrovo a reagireemotivamente e con spontaneità. Pro-prio perché sono in gioco persone che

C O N F R O N T I

Le sorprese del dialogo

di p. Thomas Michel s.j.

Padre Thomas Michel è un sacerdote gesuita nord americano, che ha iniziato lasua vita sacerdotale in una diocesi dell’Indonesia, il paese con la maggiore pre-senza musulmana del mondo. Ha lavorato per più di trent’anni in paesi musul-mani, insegnando anche in diverse università islamiche. Ora è responsabile delSegretariato per il dialogo interreligioso nella Curia Generalizia della Compa-gnia di Gesù, dopo aver ricoperto un incarico analogo in Vaticano. Proponiamouna sua testimonianza sul dialogo con i musulmani.

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amo e che hanno mostrato amore neimiei confronti. Se i musulmani sono in-sultati, mi sento insultato anch’io. Quan-do si rallegrano perché è successo qual-cosa di buono, voglio condividere la lorogioia. Quando fanno qualcosa di sbaglia-to verso loro stessi o verso gli altri, neprovo vergogna.Se c’è vero dialogo, nessuna delle dueparti coinvolte rimane come prima. Quan-do osservo come Dio ha arricchito la miavita e reso più profonda la mia fede peressere stato in dialogo con gli altri, misento incoraggiato e animato nella spe-ranza. Precisamente perché lo stesso Spi-rito Santo che è stato tanto attivo nellamia vita, è all’opera nelle vite dei mieiamici di altre fedi e utilizza i nostri in-contri per toccare e cambiare anche le lo-ro vite.Il più delle volte, noi non vediamo coinostri occhi gli esiti di questa azione.Operiamo sorretti da una speranza che,dopotutto, è un atto di fiducia in Dio, in-visibilmente attivo in questo mondo. MaDio sa che abbiamo bisogno di incorag-giamento e di tanto in tanto ci offre deifeedback per tener viva la speranza. Piùo meno quattro anni fa, ho ricevuto unadi queste conferme da Said Khorrashahri,un pio musulmano iraniano, esperto inrecitazione del Corano.Ero andato in Iran per rappresentare ilVaticano in una cerimonia a carattere na-zionale. Durante la mia permanenza,Said, laureato in lingua inglese, mi erastato affiancato come interprete. Siamostati insieme per oltre due settimane e leopportunità per parlare di ogni genere diargomenti sono state molte. Si parlavadella vita in Iran e a Roma, di sport, dipolitica, di musica, delle nostre speranzee desideri personali. Naturalmente anchedi ciò che è più profondo nelle nostre vi-

te: la fede. Comunicavamo in modo mol-to profondo e onesto e spesso ho avverti-to la presenza del Signore. Dopo il miorientro a Roma, Said mi ha scritto unalunga lettera in cui diceva che non avreb-be mai immaginato che Dio potesse ri-correre a un prete cattolico come stru-mento per cambiare radicalmente – ren-dendolo più profondo – il suo sguardosulla vita, sulla fede e sulle sue relazionicon gli altri. Mi sono reso conto che nonero stato l’unico a riconoscere l’attivapresenza di Dio in quel nostro incontro.Anche il buon musulmano aveva avver-tito che Dio era con noi e che «i nostricuori ci ardevano in petto» per l’azionedella grazia divina.Un altro esempio è il dialogo avuto conalcune donne musulmane che non homai incontrato. Per molti anni ho avutol’esperienza, inusuale per un prete catto-lico, di vivere e insegnare in varie cittàdella Turchia dove ero l’unico cristiano.In quei contesti incontravo i miei studen-ti musulmani non solo nelle classi, maanche in moschee, case private – la miae quelle di amici – e spazi pubblici comeil mercato, l’ufficio postale e le librerie.Stavo insegnando introduzione alla teo-logia cristiana nella facoltà di teologia diSelcuk (nella provincia turca di Konya),città del caro sufi santo e poeta Mevlana,Jalal al Din Rumi. Avevo un piccolo ap-partamento nel quartiere popolare vicinoall’università ed ero conosciuto e ben ac-cetto come il rahip, termine coranico chedesigna i monaci cristiani. Un pomerig-gio, ritornai a casa per incontrare unapersona seduta sugli scalini di fronte almio appartamento che mi aspettava. Midisse che sua moglie era stata lì prima,ma aveva trovato la porta chiusa. Rispo-si: «Generalmente chiudo a chiave quan-do non sono in casa». Ed egli: «Non è

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proprio necessario, perché le donne delvicinato non permetterebbero a uno sco-nosciuto di entrare».Ho capito che il chiudere a chiave venivaletto come un segno di sfiducia nei con-fronti dei vicini. Da allora non l’ho maipiù chiusa per tutto il periodo passato aKonya. Spesso, tornando dall’Università,trovavo che qualcuno aveva lasciato unpiatto di riso e un uovo e una melanza-na. Un giorno tornando dal lavoro hotrovato i miei vestiti lavati, il pavimentopulito, le lenzuola cambiate, le camiciestirate. Non ho mai conosciuto la perso-na o le persone che mi facevano quel ser-vizio, ma presumibilmente erano le don-ne del vicinato.Andò avanti così per sei mesi. Terminatoil semestre, lasciai Konya per Roma. Adun signore che mi fermò per augurarmiun buon viaggio, chiesi di poter incon-trare le donne che in tutti quei mesi sierano premurate per me, per ringraziarle

delle loro attenzioni. Mi rispose: «Nondevi incontrarle. Non l’hanno fatto perte, l’hanno fatto per Dio e Dio, che vedetutto, le ricompenserà. Il Corano insegnache i monaci sono una delle ragioni percui i cristiani restano la comunità piùstrettamente in amicizia con i musulma-ni. Quindi è un atto di culto, ibadah, trat-tarli con gentilezza». Questa persona e ledonne che hanno onorato Dio con la loroospitalità non erano esperti in scienze re-ligiose, eppure mi hanno insegnato quan-to sia importante la connessione tra l’a-more di Dio e il generoso servizio allostraniero in mezzo a noi. Queste donneche hanno compendiato per me il discor-so della montagna di Gesù, hanno fattovero dialogo, insegnandomi, con i fattipiù che con le parole, un aspetto chiavedella vita islamica.Mi chiedo: gli incontri con i credenti epraticanti musulmani hanno arricchito lamia vita di fede? La risposta è decisa-

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mente affermativa. Dio ha usato questiincontri per rendermi un cristiano mi-gliore? Di nuovo la risposta è affermati-va. Essi sono stati una grande grazia.Questa convinzione mi dà speranza per-ché se Dio ha lavorato così potentemen-te nella mia vita negli incontri con i mu-sulmani, posso con fiducia pensare chelo stesso Spirito divino abbia lavorato trai fratelli musulmani nei loro incontri conme. Più volte dei musulmani mi hannoconfidato quanto sia stato significativoavere tra loro un cristiano credente. Essisono rimasti musulmani, io rimango cri-stiano, ma nessuno di noi è rimasto lostesso.

Il protagonista dell’incontro interreli-gioso resta sempre lo Spirito di Dio I benefici del dialogo come condivisionedi vita non si limitano ad un vicendevolearricchimento, ma aiutano a superarepregiudizi, caricature e stereotipi tra-mandati di generazione in generazione erafforzati dai media. Il dialogo offre aicredenti un’opportunità di esaminare in-sieme quanto può portare l’esclusivismo,lo sciovinismo, l’odio, la violenza che ro-vinano l’identità e la condotta religiosa.Nel dialogo diventa anche chiaro quantosono più vicini i credenti di tutte le feditra loro che non coloro che promuovonouna dottrina di mercato, competitivo,consumistico, materialistico.Alcuni cristiani vorrebbero ridurre il be-neficio del dialogo a una migliore cono-scenza della fede altrui e respingere lapossibilità di un qualsiasi vicendevolearricchimento, come se mancasse qual-cosa alla fede cristiana. Nella sua prima

visita pastorale il Papa ha invitato i cri-stiani di Ankara a «considerare ogni gior-no le profonde radici di fede in Dio che ivostri concittadini musulmani hanno edi dedurne motivo di collaborazione invista dell’umano progresso e dell’emula-zione nel fare il bene». Nulla di questosuppone perdere fiducia nella bellezza enella verità della nostra fede. Ancora piùchiaramente parlando ai musulmani aBruxelles, il Papa esortava «tutti i creden-ti cristiani e musulmani a conoscersi me-glio, a impegnarsi nel dialogo per trovarestili di vita pacifici e arricchirsi vicende-volmente». E insisteva: «Questa mutuaemulazione può recare grande beneficioa tutta la società specialmente a coloroche hanno più bisogno di giustizia, con-solazione e speranza; in una parola di ra-gioni per vivere».Il protagonista dell’incontro interreligio-so resta sempre lo Spirito di Dio.Ho parlato della mia esperienza persona-le solo a titolo d’esempio. Ogni gesuita,ogni cristiano, che, in minor o maggiormisura, si è coinvolto nel dialogo puòraccontare esperienze simili. La mia si èsvolta soprattutto tra i musulmani; altripotrebbero offrire testimonianze del tut-to analoghe sulla presenza attiva di Diosperimentata durante il dialogo conbuddhisti, indù, ebrei o seguaci del cre-do baha’i (movimento religioso sorto neldiciannovesimo secolo e oggi diffuso intutto il mondo con circa cinque milionidi aderenti - ndr). Il punto è che quando apriamo realmen-te noi stessi a Dio, dialogando gli uni congli altri, lo Spirito Santo si fa carico diquell’incontro e ne assume la guida.

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Il viaggio tra Tunisi e Roma dura un’oracirca di volo, ma quello che conta vera-mente è il viaggio mentale, che ha le pro-prie misure. La geografia mentale e im-maginaria, le case dei nostri sogni e incu-bi, influiscono decisivamente sul nostromodo d’essere e di comportarsi. Saltareo attraversare i muri dell’immaginario,vale a dire passare dal cristiano immagi-nario al cristiano concreto (la concretez-za rimane comunque relativa), è il prin-cipale obiettivo – secondo me – del no-stro pellegrinaggio nel cuore del mondocattolico. Il Mediterraneo unisce e separa due mon-di diversi. In modo generale (direi un po’semplicista), i paesi del Maghreb – acausa della geografia e della storia – so-no molto vicini alla cultura occidentale,soprattutto l’élite urbana, ma questa cul-tura è vista spesso nella sua dimensionesecolare à la française, in cui l’aspettoreligioso è negletto per non dire sospet-to. Invece per la gran-maggioranza dellagente maghrebina, l’immaginario classi-co dell’altro (el riconquistador spagnoloo le colon francese) è rimasto intatto. Do-po un lungo percorso d’occidentalizza-zione, generalmente forzata e superficia-le, il rapporto con l’Occidente è rimastoambiguo: l’Occidente odiato e amato,condannato e glorificato, anti-religioso ecristiano assieme.

La vicinanza geografica o un lungo sog-giorno in Occidente non significano ne-cessariamente una conoscenza profondae comprensiva dell’altro, finché i pregiu-dizi e le memorie sono fuori dalla critica.Perciò i pellegrinaggi culturali sono ne-cessari per preparare una nuova genera-zione dialogante. Il dialogo oggi è unmodo basilare per essere universale. Vi-vere nella presupposizione dell’assenzadell’altro è ormai impossibile.Nella prima università islamica dell’Alge-ria (l’Università al-amîr ‘abd al-qâdir perle Scienze Islamiche a Constantina) hostudiato Teologia Islamica e ReligioniComparate. La maggior parte dei profes-sori era egiziana dalle Università ‘AynShams e al-azhar. Il professore del cri-stianesimo era lo stesso che c’insegnavail greco biblico. Il suo insegnamento lin-guistico era ottimo, perché è la sua spe-cializzazione, ma per la religione ha fat-to quello che poteva!A Tunisi ho studiato all’Università al-Zaytûna, di un gran prestigio storico die-tro le spalle. Per mancanza di un dialogoconcreto ho scelto di scavare un po’ nel-la storia. La Biblioteca IBLA (Institut desBelles Lettres Arabes, fondato dai Missio-nari d’Africa), mi offriva l’unico contattodiretto con persone cristiane, un contattoche era in ogni modo molto limitato.Arrivando a Roma grazie ad una borsa di

C O N F R O N T I

Per una missione interreligiosa

di Adnane Mokrani

Questa volta il percorso, il viaggio mentale, è da Tunisi a Roma e a percorrerlo èAdnane Mokrani, un ricercatore musulmano impegnato nel dialogo islamo-cri-stiano, esperto in teologia islamica nella quale è dottore.

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studio dalla «Fondazione Nostra Aetate»,mi sono chiesto: da che parte del cristia-nesimo si può cominciare? Esiste una di-sciplina di cristianologia omologa a quellad’islamologia? Le scienze religiose sonoun mondo molto ampio, si può consacra-re una vita intera all’opera di un teologoo di un esegeta. Dove si può studiare tutto questo? LeUniversità e gli Istituti pontifici a Romasono numerosi, ma da dove possiamocominciare lo studio del cristianesimo?Anche quelli che hanno tempo per co-minciare dall’inizio il percorso accade-mico: baccalaureato, licenza e dottorato,devono fare scelte precise tra: Storia,Teologia, Studi Biblici, Patristica, Spiri-tualità, Missiologia, Studi Ecumenici… enella Teologia, si deve scegliere tra: Dog-matica, Sistematica, Biblica, Patrologia,Cristologia, Pneumologia, Mariologia…basta aprire un Ordo di qualsiasi univer-sità pontifica per vedere l’abbondanzadelle scelte, da cui nasce un certa per-plessità all’inizio, che può essere tempo-ranea, ma rischia qualche volta di causa-

re un rifiuto totale o generare una cono-scenza superficiale. Si può paragonare la mia esperienza ro-mana ad un uomo che esce da un contra-sto di luce ed entra in una camera; all’i-nizio non vede niente, è praticamente uncieco, e comincia pian piano a distingue-re le cose, poi nota che c’è una sedia sucui si può sedere, poi scopre un interrut-tore per accendere la luce, e così vede unlibro interessante accanto alla sedia e co-mincia a leggerlo… e forse aprirebbe lafinestra per scoprire un bellissimo giardi-no nascosto e così via… Ho cominciato come iniziazione con glistudi ecumenici, all’Angelicum, l’Univer-sità S. Tommaso d’Aquino, che mi sem-bravano più vicini al dialogo interreligio-so e danno una vista panoramica ai gran-di temi del cristianesimo. Come seconda fase, ho cominciato unatesi di dottorato al PISAI (Pontificio Isti-tuto di Studi Arabi e d’Islamistica) sullerelazioni islamo-cristiane in Libano dalpunto di vista cristiano, una ricerca sulcampo basata su interviste, che mi ha

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permesso di scoprire un’altra faccia delCristianesimo e della mia identità araba.La scoperta del cristianesimo per me nonè un Ordo universitario oppure una bellabiblioteca pontificia. Certamente i libri ei corsi sono utili e necessari, ma la cosapiù importante è l’incontro umano. È in-credibile e affascinante: incontrare unapersona di un continente diverso, unalingua diversa, una cultura diversa, unareligione diversa… Tutto sembra diversoe insuperabile; nonostante tutto questo,si può non solo comunicarsi ma ancheritrovarsi l’uno nell’altro, scoprire un’u-nità trascendente che costituisce il nu-cleo della nostra umanità e divinità.Prendere il Vangelo o il Catechismo dellaChiesa cattolica, e dire: questo è il cri-stiano, è un modo molto riduttivo e mi-stificante per conoscere il cristiano. C’ètanta diversità e pluralità nel mondoconcreto, non solo tra destra e sinistra,conservatori e riformisti, spirituali e ca-nonici, eretici e ortodossi… ma anche trapersona e persona, tra un paese e l’al-tro… e così si scopre che dietro la classi-ficazione tradizionale delle religioni, c’èun’altra classificazione di religiosità: imodi di vivere e comprendere la propriareligione. Ci sono cristiani che vivono laloro fede in un modo rilevante per me, an-zi mi danno una dimensione più profon-da e un orizzonte più ampio per la miaesperienza religiosa. Invece ci sono altriche mi fanno ricordare alcuni musulma-ni polemici ed esclusivisti. Comunque sidialoga e s’impara da tutti, con gli apertis’impara l’apertura, e con i chiusi s’im-para l’arte della pazienza. Ascoltare pienamente l’altro diverso, an-che quando parla in modo abusivo, è unesame decisivo e una sfida importantis-sima per l’uomo religioso, che mostraconcretamente che si è liberato dall’egoi-

smo sia individuale che collettivo, cheprende spesso forme molto sfumate pernon dire religiose. Il dialogo stesso è unmodo ascetico di purificazione interiore.Non sono mistico per educazione, maconfesso che la mia esperienza romanami ha aiutato a riscoprire la dimensionespirituale della mia religione. Dialogare èun modo per approfondire la nostra reli-giosità, se capiamo la religione comescoperta continua dei volti di Dio nel co-smo e nell’uomo. C’è un’altra dimensione nel dialogo,quella delle categorie mentali. Il discorsodogmatico cristiano non è facile, soprat-tutto nella sua forma filosofica astratta.Come si fa per capire un tema che sem-bra difficile per i cristiani stessi? Cosa micomunica per esempio l’Incarnazione, laTrinità, la Passione, la Crocifissione, laResurrezione, la Redenzione…? C’è unproblema di categorie e di linguaggio,ma non è insuperabile. Ancora secondola mia piccola esperienza, posso sostene-re che si possono creare mezzi di comu-nicazione tramite:– La spiritualità della teologia eucaristi-ca, in altre parole, l’interpretazione sim-bolica della scenografia eucaristica. I te-mi della sofferenza, la morte, la rinascitaspirituale, la speranza… sono temi uma-ni universali, nonostante il linguaggiosimbolico usato per esprimerli, anzi so-no vite ed esperienze esistenziali al di làdella diversità culturale. Capire in questocaso il linguaggio cristiano per un mu-sulmano è possibile. – La dimensione liberatrice del messag-gio cristiano, concernente la giustizia so-ciale e la solidarietà con i poveri, gliemarginati e gli oppressi. Questa dimen-sione rende l’aspetto spirituale più attivoe significativo, soprattutto nei paesi delSud del mondo. Per questo motivo, la

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Teologia della Liberazione, la TeologiaNera, la Teologia della donna ecc… sonostate per me molto utili per discernere undiscorso cristiano comprensibile.Capire e apprezzare il cristianesimo nonsignifica necessariamente essere battez-zato. Ma nel mio caso, il cristianesimo èdiventato ormai una parte della mia for-mazione e del mio bagaglio culturale, sipuò dire anche della mia identità, se ca-piamo l’identità come percorso evolutivocomplesso, che abbraccia quello che ab-biamo ereditato e quello che facciamo eacquistiamo. Una volta superato il primochoc e familiarizzatisi con il nuovo lin-guaggio e i suoi concetti, si può essere an-che creativi in questo spazio simbolico.Una delle grandi sfide davanti al dialogoè l’educazione. Come si fa per insegnareobiettivamente la religione dell’altro?Certamente l’obiettività è relativa, forsec’è bisogno di una soggettività positiva,

un cristiano non può rappresentare l’Islamai suoi correligionari, e lo stesso per unmusulmano che insegna il cristianesimo,senza un minimo di coinvolgimento ecompassione, un certo senso d’adesioneo d’identificazione parziale, oserei dire. In questa linea, il concetto della missio-ne da‘wa prende altre dimensioni, diven-ta una cooperazione per la realizzazioneo l’umanizzazione dell’essere umano el’umanità. Che cosa vuole Dio da noi, in-sieme? E che tipo di uomo vogliamo edu-care? Forse esagero un po’ quando parlodi una missione interreligiosa, questosembra lontano, ma vedo i suoi segni daoggi, nonostante le catastrofi che ci cir-condano. Per salvare la nostra Casa comune, laBarca celeste, è necessario avere il corag-gio di fare un passo decisivo, espressivoe comprensivo verso l’altro, come l’altroci accoglie e c’invita a casa sua.

20 CONFRONTI – Per una missione interreligiosa

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I temi dell’immigrazione e dell’asilo so-no oggi parte del notiziario quotidiano.Troppo spesso sentiamo i mezzi di infor-mazione riferire di drammi di clandestinidisposti a rischiare la propria vita pur diapprodare sulle nostre rive, di varcare leporte dell’Europa. Al di là dei dibattitiche accompagnano il tema in esame, èutile soffermarsi ed analizzare una pro-blematica dai forti connotati sociologicie, soprattutto, umani. Ed è utile capirecome l’Italia e l’Europa lo stanno affron-tando. La legge Bossi-Fini, che modificain senso più restrittivo la Legge Turco-Napolitano sull’immigrazione è stata ap-provata nel luglio 2002. Nel prossimomese di maggio la materia dell’immigra-zione e dell’asilo diventerà di competen-za europea, passando dal terzo pilastro(Giustizia Affari Interni) al primo pila-stro (Comunità Europee). Essa è divisatra una regolamentazione europea anco-ra in divenire e le esperienze dei singoliStati nazionali.

Le convenzioni europeeA partire dagli anni ’80, l’Europa è di-ventata un continente di immigrazione.L’Unione dei Quindici, forte economica-

mente e dal punto di vista tecnico, è de-bole sul versante demografico; i Paesiterzi vicini sono invece deboli sul ver-sante economico e tecnico, ma forti de-mograficamente: per questo motivo, ladipendenza dell’Ue dall’immigrazione èdestinata a crescere. L’Accordo di Schengen sottoscritto il 14giugno 1985, doveva consentire di raffor-zare i controlli alle frontiere esterne, al fi-ne di permettere la libera circolazionedelle merci e delle persone all’internodegli Stati firmatari, e prevedeva sia unamaggiore collaborazione di polizia e giu-diziaria, sia una politica comune in ma-teria di visti. In seguito al primo accordodel 1985, fu elaborata una convenzione,firmata il 19 gennaio 1990 (entrata in vi-gore nel 1995), che comportò l’abolizio-ne delle frontiere interne e la contempo-ranea creazione di una frontiera esternaunica lungo la quale i controlli all’ingressodello Spazio Schengen dovevano confor-marsi a procedure identiche: furono pre-viste norme comuni in materia di visti,diritto d’asilo e controllo alle frontiereesterne.La Convenzione di Dublino, firmata nel1990 (entrata in vigore il 1º settembre

O L T R E I L F A T T O

Immigrato: il fratello tanto temuto

di Mikaela Hillerstrom

I flussi di popolazione, i processi di globalizzazione, ci fanno vivere con gli altri,con altri così diversi, che vengono da lontano. Non possiamo dimenticare chichiede tutela perché è dovuto fuggire da una situazione dove non erano più ga-rantito il rispetto dei diritti umani. Non possiamo dimenticare valori etici ele-mentari che ci comandano di tutelare chi è più debole.

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1997, ma già applicata prima), stabilivadei criteri comuni per determinare qualeStato fosse competente per esaminare ladomanda di asilo, e definiva le norme sul-la responsabilità delle domande di asilo. Il Trattato di Amsterdam del 1997 (entra-to in vigore il 1º maggio 1999) prevede-va l’impegno degli Stati membri ad ela-borare entro cinque anni una politica co-mune in materia di asilo e immigrazione:si stabiliva per la prima volta la compe-tenza della Comunità europea in mate-ria. Di conseguenza passarono al primopilastro (Comunità europee) il rilasciodei visti d’ingresso, l’asilo, l’azione co-mune in materia di immigrazione e lequestioni relative alla libera circolazionedelle persone. Era previsto un periodotransitorio di passaggio dalla fase inter-governativa a quella comunitaria di cin-que anni dall’entrata in vigore del tratta-to (che si concluderà il 30 aprile 2004).Con il vertice di Nizza (dicembre 2000)fu proclamata la Carta Fondamentale deidiritti dell’Unione europea. Essa ha sol-tanto valore dichiarativo e non forza giu-ridica, ma è parte integrante del progettodi Costituzione europea. Essa enunciadiversi principi che, sulla base dell’uni-versalità dei diritti, si applicano anche aicittadini dei Paesi terzi. Assumono parti-colare importanza i diritti sociali, la libe-ra circolazione e la libera dimora. La Car-ta dei diritti fondamentali tutela espres-samente il diritto di asilo, e vieta sia leespulsioni collettive, sia le estradizioniverso uno Stato in cui sussiste un seriorischio di essere sottoposto alla pena dimorte, alla tortura o ad altre pene o trat-tamenti inumani o degradanti.

La legge Bossi-FiniIn Italia, la legge Bossi-Fini «Modifica al-la normativa in materia di immigrazione

e di asilo» del 30 luglio 2002 ha modifi-cato in senso restrittivo la precedente di-sciplina. La Legge Turco-Napolitano «Di-sciplina dell’immigrazione e norme sullacondizione dello straniero» cercava di in-dividuare un punto di equilibrio tra laprogrammazione e la gestione dei flussimigratori, l’accoglienza e l’integrazionedei cittadini stranieri e il contrasto al-l’immigrazione clandestina. Questa nuova legge è stata molto discus-sa, riscuotendo in parte consensi e inparte critiche. In particolare, la duratadel permesso di soggiorno stabilita indue anni, senza che sia possibile il rin-novo per un periodo più lungo e l’au-mento a sei anni del periodo di residen-za per potere ottenere la carta di soggior-no, hanno contribuito ad accrescere laprecarietà e hanno reso più onerosi i ri-congiungimenti familiari, che andrebbe-ro invece percepiti come fonte di mag-giore stabilità ed integrazione, atte aprevenire anche eventuali derive delin-quenziali. L’istituto dello “sponsor” previsto dallalegge Turco-Napolitano, è stato abolito esostituito con il cosiddetto “contratto disoggiorno”. La prestazione di garanzia(“sponsorizzazione”), accolta nei limitidelle quote annuali fissate, prestata me-diante fideiussione o polizza assicurativada depositare presso la questura, riguar-dava l’inserimento nel mercato del lavo-ro, assicurando a tal fine allo straniero unalloggio idoneo, la copertura dei costi disostentamento e l’assistenza sanitaria perla durata del permesso di soggiorno. L’im-migrato otteneva un permesso di soggior-no valido un anno ai fini dell’inserimentonel mercato del lavoro che, dopo averetrovato un’occupazione, veniva modifica-to in permesso per lavoro subordinato.L’interessato, qualora non avesse trovato

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un’occupazione decorso un anno, dovevatornare nel Paese di origine. La prestazio-ne di garanzia veniva effettuata da un cit-tadino italiano o straniero con regolarepermesso di soggiorno, dalle Regioni, da-gli enti locali e dalle associazioni profes-sionali e sindacali, dagli enti e dalle asso-ciazioni del volontariato del settore del-l’immigrazione con necessari requisitiorganizzativi e patrimoniali.Con la nuova legge, il rilascio del per-messo di soggiorno per motivi di lavoroè invece collegato alla stipula di un con-tratto di lavoro, e la durata, non superio-re a due anni, è strettamente legata alcontratto di lavoro. Il datore di lavoro ètenuto a garantire un alloggio ed il paga-mento delle spese di rientro del lavorato-re nel Paese di origine. Il termine per laconcessione della carta di soggiorno(senza scadenza) è stato elevato da cin-que a sei anni.1

La nuova disciplina non tiene conto delrapporto personale tra datore di lavoro elavoratore, e delle legittime perplessità diun datore di lavoro che deve assumereun dipendente senza conoscerlo nemme-no per interposta persona. Anche le as-sociazioni di industriali hanno manife-stato qualche remora rispetto alle nuoveprescrizioni.

Il diritto d’asiloPer quanto attiene più specificatamenteal diritto di asilo, fino agli anni Settantaè prevalso in Europa il sistema di tuteladei rifugiati istituito dopo la SecondaGuerra Mondiale. Oltre alle convenzionidi tutela dei diritti umani, la Convenzio-ne di Ginevra del 1951 sui rifugiati e ilProtocollo del 1967 regolavano lo statusdei rifugiati, prevedendo determinati di-ritti in loro favore, e, soprattutto, la ga-ranzia di non vedersi costretti a tornarein un Paese nel quale esisteva per loro ilrischio di subire persecuzioni. I rifugiati hanno ricevuto in Europa unabuona accoglienza fino alla metà deglianni Ottanta: venivano provvisti di docu-menti per potere viaggiare liberamente,godevano di diritti sociali, del diritto dilavorare e potevano chiedere la riunifica-zione familiare. Alla fine degli anni Ottanta, con i diversiconflitti etnici in atto, si verificò un im-portante movimento di rifugiati in Euro-pa, ed il numero dei possibili richiedentiasilo crebbe in modo drammatico. Allostesso tempo, nei paesi di accoglienza siregistrava ormai una crescente tendenzaprotezionista. Molti Paesi introdusseromisure di controllo dei richiedenti asiloal loro arrivo e per il loro accoglimento.Con gli anni Ottanta e Novanta, si af-

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1 Per ulteriori approfondimenti, vedi Dossier Immigrazione Caritas 2002.

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fermò una tendenza a restringere il dirit-to di asilo con misure volte a ridurre ilnumero di richiedenti asilo e di rifugiati.La Convenzione di Schengen introdusseun sistema di visti per l’ingresso e il tran-sito, con sanzioni per i vettori che tra-sportano passeggeri sprovvisti di docu-menti. L’accesso alla procedura di asilodivenne più onerosa. Il diritto di asilo in Europa, in crisi da cir-ca un decennio, attende una vera comu-nitarizzazione che il Trattato di Amster-dam ha calendarizzato per il 2004, ben-ché sia obbiettivamente arduo trattare suscala comunitaria una materia segnatanei Paesi membri da sensibili differenzegiuridiche sia sul piano interpretativo,sia sul piano dell’individuazione dei cri-teri che danno diritto all’ottenimentodello status di rifugiato.Inoltre, negli anni Novanta, molte perso-ne vittime di guerre civili, ma non di per-secuzioni personali, non rientravano nel-la protezione offerta dagli strumenti diarmonizzazione europea e dalla Conven-zione di Ginevra. Si è creata una catego-ria di persone alle quali non viene rico-nosciuto lo status di rifugiati, ma chenon possono nemmeno essere espulse: ècosì comparsa la figura dei rifugiati uma-nitari, con soggiorno temporaneo, bene-ficiari di un asilo territoriale a discrezio-ne dello Stato di accoglienza, destinataridi provvedimenti caratterizzati da prov-visorietà e discrezionalità. Per quanto attiene alla legislazione italia-na, la Costituzione sancisce all’art. 10comma 3 che lo straniero al quale sia im-pedito nel suo Paese l’effettivo eserciziodelle libertà garantite dalla Costituzione,ha diritto di asilo nel territorio della Re-pubblica, secondo condizioni stabilitedalla legge. Il riferimento alle condizionistabilite dalla legge comprende le norme

della Convenzione di Ginevra del ’51, dicui l’Italia è firmataria, e l’adesione allenorme e alle convenzioni internazionali.Il dettato costituzionale, per essere attua-to, necessita dell’adozione di una leggesull’asilo, che non è mai stata approvata!Ad oggi, in Italia, i richiedenti asilo de-vono affrontare un lungo iter burocraticoche dura in genere circa un anno e mez-zo, con gravi carenze nel sistema di ac-coglienza. Inoltre, con la nuova legge, ilricorso avverso il rigetto della domandadi asilo non sospende l’espulsione, pre-giudicando il diritto del richiedente asilodi esercitare un diritto di difesa effettivo.Riguardo gli accordi di riammissione,nella sostanza condivisibili, è auspicabi-le che i casi di richiedenti asilo espulsivadano trattati con molta attenzione, pernon incorrere nel rischio di rimpatriarerichiedenti asilo genuini, ripristinando lasituazione di pericolo dalla quale sonofuggiti e mettendo così, a volte, anche arepentaglio la loro stessa vita.È ormai necessario, ed anche urgenteche il tema dell’asilo, per il carattereumanitario che riveste, trovi una regola-mentazione adatta alla situazione attua-le. Quest’anno, terminato il periodo tran-sitorio di cinque anni previsto dal Tratta-to di Amsterdam, dovrebbe iniziare adelinearsi meglio la nascente politica eu-ropea di immigrazione e asilo: dopodi-ché non si potrà più rinviare l’adozionedi una legge ad hoc che regolamenti inmodo responsabile la delicata materiadel diritto di asilo, in ottemperanza alnostro dettame costituzionale. Non pos-siamo dimenticare chi chiede tutela per-ché è dovuto fuggire da una situazionedove non era più garantito il rispetto deidiritti umani. Non possiamo dimenticarevalori etici elementari che ci comandanodi tutelare chi è più debole.

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Il sufismo è un movimento mistico di ri-nascita interiore sorto in seno all’islam giànei primi secoli; esso propone un cam-mino “unitivo” il cui esito sperato – l’es-sere avvolti dall’amore di Dio – vienecercato ed implorato mediante praticheascetiche di vario genere e veri e propriesercizi spirituali da effettuarsi in luoghiappartati ed in silenzio.Esso dette origine a vari ordini religiosi ca-ratterizzati da regole in parte simili a quel-le degli ordini religiosi cristiani e in senoai quali nacquero notevoli testi mistici.Si tratta sicuramente di un movimentoper vari aspetti controverso: la mistica“unitiva” che propone si presta ad accusedi panteismo e questo ha dato origine apersecuzioni; inoltre, nel suo seno è parti-colarmente valorizzata la mistica e la pre-senza femminile (nella breve antologiache segue si trova un testo di Rabi’a alAdawiyya una delle mistiche sufi) tantoda portare, in alcuni casi, alla possibilitàper le donne di predicare nelle moschee.Alcuni aspetti del movimento sembranonotevolmente interessanti.Ad esempio la poesia mistica, ricca dimetafore ed immagini tratte dall’amoresensuale e sponsale, sembra spiccare nel-l’ambito dell’austero monoteismo islami-co così come l’uso di strumenti musicalinella preghiera.

Questi tratti, penso, potrebbero essere ri-collegati con la valorizzazione della pre-senza femminile nel movimento oppureanche con la poetica preislamica che nefaceva largo uso; questa ipotesi in parti-colare mi sembra particolarmente sugge-stiva: sembrerebbe indicare la possibilitàche il sufismo affondi le proprie radicinell’esperienza di alcuni nuclei che giàin epoca preislamica (l’epoca della gahi-liyya per i musulmani) maturarono unasensibilità almeno monolatrica.Del resto il padre Thomas Michel sj nel

Un’esperienza mistica islamica:il movimento sufi

a cura di Francesco Riccardi

Presentiamo, per una migliore comprensione dell’islam, alcuni testi significatividi spiritualità sufi.

V I E D E L L O S P I R I T O

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volume presentato nella rubrica «Note diLettura» di questo numero, accenna al-l’esistenza di una comunità di asceti chescrivevano dell’amore di Dio nell’Iraqmeridionale già nel II secolo.L’aspetto comunque più saliente, per noicristiani, mi sembra la sensibilità sufi perla figura di Gesù: in verità un’accentua-zione della sensibilità che si trova in tut-to l’Islam che, giova ribadire, accetta econferma definitivamente con la propriarivelazione i profeti e gli inviati della tra-dizione abramitica.I sufi manifestano questa sensibilità in

modo evidente con esempi caratteristici:Hussayn ibn Mansur al Hallaj, martiredel movimento, tradizionalmente chia-mato il «malato di Gesù», dedicò la suavita di asceta alla contemplazione dellafigura del Signore, per lui un profeta ov-viamente, e addirittura la tradizione po-polare narra, deformando un poco i fatti,che morì crocefisso! Similmente un altrogrande sufi, Ibn Arabi, è ricordato perl’espressione significativa: «chi si amma-la di Gesù non può guarire».Di seguito, si propone una piccola sceltadi scritti di grandi mistici dell’Islam.

26 VIE DELLO SPIRITO – Un’esperienza mistica islamica: il movimento sufi

ABOU-BAKRAL-CHIBLI

Compagno di Hallai, riuscì a sfuggire alla pena capitale fingendosi folle. Fu rinchiuso in un ospizio per i pazzi dove accoglieva i visitatori con discorsimolto apprezzati.Anche le sue poesie rivelano il medesimo trasporto d’amore verso l’Unico, l’A-mato sopra tutti, cioè Dio, unico centro della vita e meta finale.

Colui che abitualmenteVive vicino all’AmatoNon sopporta l’esilio.

Lo schiavo d’AmoreNon può rinunciare all’Amato:non ne ha la forza...

Quando i miei occhi non ti vedonoo Amato,è il mio cuore che non cessadi contemplarti.

RABI’ A AL-ADAWIYYA

Nacque quarta figlia (rabi’a vuol dire quarta) da una famiglia poverissimadi Basra (Iraq) e morì all’età di ottant’anni nell’801.Bellissima, si dice di lei che fosse stata venduta come schiava e che il suo pa-drone l’avesse liberata perché l’aveva sorpresa intenta a pregare, avvolta dauna luce splendente.Altri, invece, raccontano che dopo una vita dissoluta, si era convertita sce-gliendo un’esistenza di ascetica povertà.È una delle grandi donne dell’Islam.

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Ella diceva: «Mio Dio, io mi rifugio in te per difendermi da tutto ciò che mi di-strae da te, e da ogni ostacolo che si frappone tra me e te».

Il mio riposo, o fratelli, è nella mia solitudine;il mio amato è sempre alla mia presenza.Non c’è per me corrispettivo al desiderio di lui,e il desiderio di lui nelle creature è la mia prova.Quando contemplavo la sua bontàegli era il mio mihrab1 e la mia qibla.2

Se io morissi non trovando compiacimento,oh la mia pena nel mondo e la mia sventura!O medico dell’anima, o ogni dono,donami un’unione che guarisca la mia anima.O mia gioia, o mia vita per sempre!Da te la mia origine, da te la mia ebbrezza.Ho abbandonato il creato interamente, sperandoChe tu mi unisca a te. Non posso desiderare di più.

1 Il mirab è la nicchia della moschea che indica la direzione (qibla) verso la quale ci si deve volgere per pregare.2 qibla è la direzione della Mecca verso cui si volge il musulmano quando prega.

GIALAL AD-DIN RUMI

Rumi nacque a Balkh, attuale Afghanistan, il 30 Settembre 1207 e morì aKonya (Turchia) nel 1273.Definito come il più grande poeta mistico di tutti i tempi, lasciò due opere fon-damentali: una è il Divan o Canzoniere e l’altra il Masnavi o poema a rimebaciate, in sei volumi, entrambi scritti in lingua persiana.

Oltre i cieli

Limite alcuno non ha questo nostro deserto,pace alcuna non ha questo cuore mio, quest’anima.

Universi su universi han preso immagine e forma:quale dunque di queste immagini è l’immagine nostra?

Se tu vedrai per la strada una testa mozzatache verso la nostra piazza sta rotolando,

chiedile, chiedile, i segreti del cuoree ti dirà il nostro mistero nascosto.

Ah potesse, potesse un uccello volarecon il rutilante collare dell’arcano di Salomone!1

Che dir dovrei dunque? Che cosa sapere? Che questo racconto è storia troppo alta pel nostro limitato potere.

Ma come tenere il silenzio, se ad ogni momentoquesta mente sconvolta mi diventa sconvolta più ancora?

Pernici volano insieme, e falchinell’aria sottile della nostra terra montana,

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in un’aria che è il settimo cielo dell’aria,e al cui apogeo brilla il nostro Saturno.

Non sono i sette cieli sotto al Trono, all’Empireo?Ma oltre l’Empireo e il Trono corre la nostra folle rivoluzione!

Anzi, a che parlare di brame d’Empireo e di Cieli?È verso il giardino d’Unione Perfetta che vola il nostro sentiero!

Lascia questo discorso e più non chiedermi nulla,ché la nostra storia è interrotta, è spezzata,

E ormai Salah ad-Din, l’amico ,2 ti mostreràla bellezza suprema del nostro Imperatore e Sovrano.

1 Salomone nella tradizione islamica, conosceva il linguaggio degli uccelli e aveva altre virtù sovrannaturali. Col suomisterioso sigillo, per esempio, poteva imprigionare i genii in bottiglie e soggiogarli al suo comando e così via. Il moti-vo degli uccelli torna ancora qualche verso dopo quando il poeta dichiara di essere giù oltre i cieli fisici della tradizio-ne, in un’ “aria” che, contrariamente all’aria normale, una delle tante sfere fisiche, è al di là persino del cielo più alto,quello di Saturno, anzi del più alto punto (apogeo) dell’orbita di Saturno. (Come è noto Saturno era il più lontano deipianeti tradizionali, nell’ ultimo cielo.)2 Artigiano doratore (zarkùb) di Konya, morto nel 1259, fu per dieci anni inseparabile compagno ed amico di Gialal ad-Din e suo sostituto come maestro spirituale dei suoi discepoli.

Il giorno della morte

Quando il giorno della morte si muoverà la mia bara,non pensare che il cuore mio sia rimasto nel mondo.

Non piangere per me, non dire “ahimè! ahimè!”Cadresti nella rete del diavolo, ahimè, allora!

Quando vedrai il mio feretro non dire: “è partito lontano!” È proprio quel giorno, per me, giorno d’unione e d’incontro!

E quando mi deporrai nella tomba non dire: “addio, addio!”. Perché la tomba è un velo che cela l’eterna comunione del cielo.

Hai visto lo sprofondamento, contempla la resurrezione:reca forse danno, il tramonto, al sole e alla luna?

A te sembra tramonto mentre invece è un’aurora;la tomba sembra un carcere ma è, all’anima, liberazione.

Qual seme mai sprofondò in seno alla terra che non germinò poi? Perché questo dubbio, allora, per quel seme ch’è l’uomo?

Perché dunque il Giuseppe dell’anima avrebbe paura del pozzo?Chiudi la bocca da questa parte e riaprila dall’altra parte del cosmo, ché il tuo canto trionfale risuoni alto nell’Oltrespazio!

«E tutto quel che vaga sulla terra perisce e solo resta il Volto del Signore».Corano, Sura 55, 26-2 7

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L’arte come terreno di dialogo tra diver-se culture e religioni: una formula chesuona come una curiosa alchimia, unaiperbole della purezza, in un tempo do-ve il confronto vede sempre più ridotti isuoi spazi a vantaggio di fragili certezzespesso cristallizzate in banali stereotipi.In una società come la nostra che perdea mano a mano i suoi valori, che assisteindifferente allo scadimento delle sueanime critica, politica e culturale, che siimpone nuovi modelli in cui la diversitànon è più considerata un elemento diricchezza e talvolta viene addiritturaosteggiata, anche l’arte, che è il fioredella società e da questa stessa trae ali-mento, di conseguenza si dissolve, si di-sperde, svapora insieme alla nostra sen-sibilità per essa.Perciò, il dialogo interreligioso attraver-so l’arte potrebbe sembrare, ai giorni no-stri, un’idea stravagante e certamente incontrotendenza; in realtà rappresenta adun tempo il recupero ed il confronto del-le essenze più nobili dell’uomo, l’arte ela spiritualità, che, per la loro universa-lità, da sempre costituiscono un idealepunto d’incontro, se non addirittura diunità, delle diverse culture.

La prova della concretezza e dell’effica-cia di questa apparente utopia ci vienefornita dal progetto «Hazrat Maryam»,nato appena due anni fa in seno all’Asso-ciazione culturale internazionale «Ana-stasis» per l’Arte cristiana e oggi vero eproprio laboratorio per il dialogo interre-ligioso.Hazrat Maryam è il nome orientale dellaChiesa di Nostra Signora del Santo Rosa-rio, pregevole esempio di arte latina delXVII secolo nella città-gioiello di Isfhahanin Iran. Il complesso religioso, per le vi-cissitudini del tempo e in conseguenzadegli eventi che hanno interessato l’Irannegli ultimi decenni, oggi versa in unacondizione tale da far temere per la suastabilità.L’Associazione Anastasis, impegnata nel-la valorizzazione dell’arte cristiana, ve-nuta a conoscenza dello stato critico del-la chiesa di Isfhahan, si è immediata-mente fatta promotrice, insieme ai padrigesuiti dell’Istituto «Pedro Arrupe» di Pa-lermo, di un’iniziativa per il recupero edil restauro del prezioso edificio.Il progetto ha avuto agli inizi, come for-se era naturale che fosse, un avvio diffi-cile, dovuto sia alla complessità nel co-

F R A M M E N T I D I U T O P I A

Restaurare una chiesaper restaurare un dialogo

di Giampiero Marzi

L’arte come terreno di dialogo tra diverse culture e religioni: un’apparente utopiache trova invece la sua concretezza nel progetto «Hazrat Maryam» per il recuperoe il restauro della Chiesa di Nostra Signora del Santo Rosario di Isfhahan in Iran. Una iniziativa dell’Associazione Anastasis, tesa alla tutela dell’arte cristiana,che si è rivelata un vero e proprio laboratorio per il dialogo interreligioso.

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30 FRAMMENTI DI UTOPIA – Restaurare una chiesa per restaurare un dialogo

struire una rete di contatti, sia alle diffi-coltà nel reperire le ingenti risorse eco-nomiche necessarie. Col tempo, però, laforza dell’idea ha avuto la sua ragione edoggi può contare sul sostegno fattivo del-la Nunziatura apostolica a Teheran e del-la diocesi armeno-cattolica d’Iran, delleAmbasciate della Repubblica Islamicad’Iran presso la Santa Sede e presso ilQuirinale, e delle autorità diplomatiche eculturali italiane.Il progetto Hazrat Maryam pertanto vaavanti ed è ormai entrato nel vivo dellafase operativa. Vi è già stata una primaazione di fund raising per finanziare gliinterventi di restauro più urgenti e prestopartirà dall’Italia per Isfhahan una mis-sione tecnica al fine di organizzare l’a-pertura del cantiere e mettere sùbito insicurezza la struttura architettonica dellaChiesa.L’équipe tecnica italiana, composta an-che da esperti dell’Istituto Centrale per ilRestauro, si avvarrà della collaborazionedella ICHO, la Iranian Cultural HeritageOrganization, e dei restauratori dell’Uni-versità di Isfhahan.

La Repubblica Islamica d’Iran, erede di-retta della straordinaria civiltà persiana,ha dimostrato, favorendo l’iniziativa diAnastasis, una grande apertura al dialo-go, all’amicizia e al rispetto della nostracultura. È interessante, peraltro, rifletteresul coerente atteggiamento positivo delleautorità iraniane nei confronti del pro-getto Hazrat Maryam, aldilà degli esitidelle ultime elezioni politiche di maggio.La vittoria del partito dei conservatori,infatti, che oggettivamente rappresentaun freno al processo di emancipazionedel paese, non ha mutato il generoso spi-rito di collaborazione dell’Iran per il re-cupero della Chiesa di Nostra Signora delSanto Rosario.La fine dei lavori è prevista tra circa dueanni; allora l’Hazrat Maryam potrà esse-re restituita al culto e la sua memoriaconservata in un piccolo museo. Quelgiorno tornerà a vivere il piccolo tempiocristiano di Isfhahan, ritrovando final-mente la sua funzione di luogo d’incon-tro tra i fedeli e acquistando forse ancheil nuovo ruolo di privilegiata sede per ildialogo interreligioso.

La Chiesa di Nostra Signora del Santo Rosario di Isfhahanallo stato attuale.

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I primi tre capitoli descrivono le tre partifondamentali della religione dei musul-mani: islam, l’affidamento della vita aDio, iman, la fede e ihsan eislah, bontà e rettitudine, cheguidano la vita quotidianadel musulmano. Il quarto capitolo è dedicatoalla tradizione spirituale sufi,che tante analogie ha con ilmonachesimo occidentale, ilquinto racconta la vita delProfeta Muhammad e il pri-mo periodo storico dell’I-slam. Il sesto capitolo toccatemi di grande attualità politi-ca: il risveglio islamico e leorigini del cosiddetto fondamentalismo. Il libro si conclude con la ricerca dellebasi su cui fondate un dialogo efficacecon l’Islam. Essa è compiuta “dall’inter-no” della cultura musulmana, attraversol’analisi degli ideali di giustizia sociale e

dei passi coranici che oggi possono fon-dare idee universali di liberazione.Per mantenere la vivacità e il clima degli

incontri al CIPAX, sono statiinseriti nel testo anche lasintesi del dibattito, presadagli appunti di un parteci-pante e il racconto di un’e-sperienza di Padre Michel inIndonesia.Volendo cogliere fino in fon-do lo spirito del tempo, ciauguriamo che questi scrittipossano far emergere in cia-scuno di noi un’esigenzaprofonda di dialogo, di ri-spetto e di pace con tutti i

popoli e con l’Islam in particolare. Dio èuno solo e ha molti nomi: non può e nondeve essere invocato per giustificareguerre o scontri di civiltà. Crediamo chequesto errore sia già stato pagato troppoduramente nei secoli passati.

N O T E D I L E T T U R A

Alla confluenza dei due mariUn cristiano incontra l’Islam

dalla prefazione di Giorgio Piacentini

I tragici attentati dell’11 settembre hanno innescato una drammatica serie diconseguenze, di cui oggi non conosciamo ancora gli esiti. In tutto il mondo lareazione più umana e costruttiva alla situazione è stata quella di stringersiinsieme a familiari, amici e compagni di strada per cercar di capire, di mettersiin discussione, di aprirsi al dialogo.Questo è avvenuto fin dai primi giorni anche al Centro interconfessionale per lapace (CIPAX) con appuntamenti settimanali di grande intensità e parteci-pazione. Dagli incontri con il gesuita padre Thomas Michel è nato il progetto diquesto libro che vi presentiamo, edito da Icone Edizione.

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Quando si profila un AD-DIO.Se un giorno mi capitasse – e potrebbe essereanche oggi – di essere vittima del terrorismoche sembra voler coinvolgere attualmente tuttigli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che lamia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia,si ricordassero che la mia vita è stata donata aDio e a questo paese. Che essi accettassero chel’unico Signore di ogni vita non potrebbe esse-re estraneo a questa dipartita brutale. Che essipregassero per me: come essere degno di unatale offerta? Che essi sapessero associare que-sta morte a tante altre, ugualmente violente,lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Nonne ha neanche meno. In ogni caso, non hal’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abba-stanza per sapermi complice del male che sem-bra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche diquello che potrebbe colpirmi alla cieca.Venuto il momento, vorrei potere avere quel-l’attimo di lucidità che mi permettesse di chie-dere il perdono di Dio e quello dei miei fratelliin umanità, perdonando con tutto il cuore,nello stesso momento, a chi mi avesse colpito. Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sem-bra importante dichiararlo. Non vedo, infatti,come potrei rallegrarmi del fatto che questo po-polo che io amo venisse indistintamente accu-sato del mio assassinio. Sarebbe pagare unprezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata,forse, “la grazia del martirio”, doverla ad unAlgerino, chiunque sia, soprattutto se egli dicedi agire in fedeltà a ciò che crede essere l’i-slam. So di quale disprezzo hanno potuto esse-re circondati gli Algerini, globalmente presi, econosco anche quali caricature dell’islam inco-raggia certo islamismo. È troppo facile metter-si la coscienza a posto identificando questa viareligiosa con gli integralismi dei suoi estremi-

smi. L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altracosa, sono un corpo e un’anima. L’ho procla-mato abbastanza, mi sembra, in base a quan-to ho visto e appreso per esperienza, ritrovan-do così spesso quel filo conduttore del Vangeloappreso sulle ginocchia di mia madre, la miaprimissima Chiesa, proprio in Algeria, e già al-lora, nel rispetto dei credenti musulmani.La mia morte, evidentemente, sembrerà dareragione a quelli che mi hanno rapidamentetrattato da ingenuo, o da idealista: «Dicaadesso quello che pensa!». Ma queste personedebbono sapere che sarà finalmente liberata lamia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se aDio piace, immergere il mio sguardo in quellodel Padre per contemplare con lui i Suoi figlidell’islam così come li vede lui, tutti illuminatidalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passio-ne, investiti del dono dello Spirito, la cui gioiasegreta sarà sempre di stabilire la comunionee di ristabilire la somiglianza, giocando con ledifferenze.Questa vita perduta, totalmente mia, e total-mente loro, rendo grazie a Dio che sembraaverla voluta interamente per questa gioia, at-traverso e nonostante tutto.In questo GRAZIE in cui tutto è detto ormaidella mia vita, includo anche voi, certo, amicidi ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme amia madre e a mio padre, alle mie sorelle e aimiei fratelli e a loro, centuplo regalato comeera stato promesso! E anche tu, amico dell’ultimo istante, che nonsaprai quello che stai facendo, sì, anche per tevoglio dire questo GRAZIE, e questo AD-DIO,nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato diincontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia,in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Pa-dre di tutti e due. Amen. Insch’Allah.

fr. Christian de Chergé

Insch’AllahNella notte del 26 marzo 1996 sette trappisti dell’abbazia di Tibhirine (in Alge-ria) vengono rapiti. Per due mesi nessuna notizia. Il 21 maggio i fondamentalistiislamici annunziano: «Ai monaci abbiamo tagliato la gola». Il 30 vengono trovatii cadaveri. È una morte annunziata, che questi monaci “attendevano” nella fede,come è testimoniato dal Testamento del priore frère Christian de Chergé.