“Qualcosa di immane”

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“QUALCOSA DI IMMANE” L’ARTE E LA GRANDE GUERRA SILVY edizioni

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“Qualcosa di immane”l’arte e la grande guerra

SILVY edizioni

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ISBN 978-88-97634-05-8

E 68,00

Tra i molti modi in cui si può definire la Grande guerra vi è anche “la guerra delle avanguardie”. Il periodo che ne pre-cede lo scoppio vede il radicale mutamento dello statuto sociale degli artisti e apre l’epoca dei movimenti organizzati e dei manifesti. Espressionismo, Cubismo, Futurismo, Vor-ticismo, e la complessa galassia delle avanguardie russe definiscono le proprie poetiche prima del 1914 e in questa stagione hanno le proprie radici Dadaismo e Surrealismo.

Molti degli esponenti delle avanguardie si arruolarono en-tusiasticamente e molti di loro caddero nelle trincee della vecchia Europa. Ma soprattutto dipinsero e raccontarono la guerra con i linguaggi delle arti figurative, dando luogo a una produzione artistica che non ha l’eguale in nessun altro conflitto.

“Qualcosa di immane” racconta la Grande guerra attraver-so un imponente apparato iconografico. Il punto di partenza sono i pittori che in qualche modo hanno presagito e raffi-gurato l’apocalisse che si stava preparando. Sezioni speci-fiche riguardano i futuristi italiani, l’avanguardia russa e il corpo dei Kriegsmaler. Infine una serie di blocchi tematici: i ritratti e gli autoritratti, la vita al fronte, le trincee e i com-battimenti, i paesaggi, i feriti, i prigionieri e i profughi.

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“Qualcosa di immane”l’arte e la grande guerra

MASSIMO LIBARDI FERNANDO ORLANDI MAURIZIO SCUDIERO

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SOMMARIO

ROBERT MUSIL CAMERATI, COLLABORATE! 7

PRESENTAZIONE 9

MASSIMO LIBARDI E FERNANDO ORLANDI L’APOCALISSE DEL MODERNO: LE TRASFORMAZIONI CULTURALI DELLA GRANDE GUERRA 11 Gli oscuri fermenti del nuovo secolo 11 I sismografi della fine del mondo 14 L’entusiasmo della mobilitazione 24 Il disinganno e l’orrore 37 Esperienza e guerra 43

NICOLETTA DACREMA ANCORA GUERRA, ANCORA PROPAGANDA 54 MASSIMO LIBARDI E FERNANDO ORLANDI I KRIEGSMALER 73 Guerra e pittura 73 I Kriegsmaler 77 I temi 83 Le mostre 86

FLOAREA VîRBAN L’AVANGUARDIA RUSSA E LA GRANDE GUERRA SUL FRONTE ARTISTICO: LE DONNE IN PRIMA LINEA 91 Dal modernismo all’avanguardia 94 Le esposizioni e i gruppi artistici prima della guerra 96 Lo spirito di guerra nel periodo antebellico 101 Tempi di guerra 104 L’impatto della guerra sull’Avanguardia 105 Il tema della guerra 107 Natal’ya Goncharova e le immagini mistiche della Guerra 109 Voina di Ol’ga Rozanova 127 Guerra universale 138 Sulla guerra si allunga l’ombra della Rivoluzione 151 ANTONELLA GARGANO TEMPO DI GUERRA: IL COLORE E LE FORME DELLA BATTAGLIA 153

MAURIZIO SCUDIERO I FUTURISTI ALLA GUERRA 165 Le premesse teoriche. Il pensiero futurista e la guerra 165 Intermezzo. La guerra Italo-Turca, le Guerre Balcaniche e le “parole in libertà” 171 La guerra... La neutralità... L’interventismo 178 La Guerra… Dalla teoria alla pratica: i futuristi al fronte 208 Dopo “Dosso Casina”. La guerra letteraria: cronache da L’Italia futurista 224 La guerra futurista. Finale in pittura 255

APPARATI 262

BIOGRAFIE DEGLI ARTISTI 273

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PRESENTAZIONE

Tra i molti modi in cui si può definire la Grande guerra vi è anche “la guerra delle avanguardie”. Il periodo che ne precede lo scoppio vede il radicale mutamento dello statuto sociale degli artisti e apre l’epoca dei movimenti organizzati e dei manifesti. Espressionismo, Cubismo, Futurismo, Vorticismo, e la complessa galassia delle avanguardie russe definiscono le proprie poetiche prima del 1914 e in questa stagione hanno le proprie radici Dadaismo e Surrealismo.

Molti degli esponenti delle avanguardie si arruolerrano entusiasticamente e molti di loro caddero nelle trincee della vecchia Europa. Ma soprattutto dipinsero e raccontarono la guerra con i linguaggi delle arti figurative, dando luogo a una produzione artistica che non ha l’eguale in nessun altro conflitto.

Il volume racconta questa vicenda seguendo due percorsi paralleli. Il primo è quello saggistico: si inizia descrivendo l’atmosfera culturale del primo decennio del Novecento e poi si analizza la struttura della macchina della propaganda. Le parti successive prendono in esame alcune esperienze particolarmente significative. Si tratta dell’attività del corpo dei Kriegsmaler austro-ungarici, degli espressionisti tedeschi, dei futuristi italiani, e delle avanguardie russe.

Il secondo percorso racconta il conflitto attraverso blocchi di immagini. Il punto di partenza sono i pittori che in qualche modo hanno presagito e raffigurato l’apocalisse che si stava preparando, in particolare Ludwig Maidner, cui segue una sezione dedicata all’interventismo e alla mobilitazione. Successivamente è la volta di alcuni lavori che tentano di concettualizzare o simboleggiare la guerra.

La propaganda e le riviste di guerra sono documentate nella sezione successiva, con una attenzione particolare rivolta a pubblicazioni quali la Tiroler Soldaten-Zeitung, Kriegszeit e Blast.

Sezioni specifiche riguardano i futuristi italiani, l’avanguardia russa (con i lavori di Natal’ya Goncharova e Ol’ga Rozanova, che anticipano i libri d’arte dei decenni successivi) e il corpo dei Kriegsmaler.

Il percorso ora procede per temi: i ritratti e gli autoritratti, la vita al fronte, la rappresentazione delle trincee e dei combattimenti, l’aspetto industriale e tecnico della guerra, i paesaggi, i feriti, i prigionieri, i profughi. Le ultime immagini raffigurano la fine, la distruzione e la morte.

Il volume si conclude con una selezione di tavole parolibere tratta da L’Italia futurista (1916-1917).

Gli autori

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2. Alfred Kubin, La torcia della morte, 19143. Albin Egger-Lienz, La danza della morte

1809, 1916

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L’APOCALISSE DEL MODERNO: LE TRASFORMAZIONI CULTURALI DELLA GRANDE GUERRA

MASSIMO LIBARDI E FERNANDO ORLANDI

La mobilitazione, che lacerò il mondo e il pensiero in maniera tale che fino a oggi non hanno potuto essere ricuciti, è anche la conclusione del romanzo. [...] Che ci fu la guerra, e non poteva non esserci è la somma di tutte le correnti, gli influssi e i movimenti

contrastanti che illustro.1

GLI OSCURI FERMENTI DEL NUOvO SECOLOForse il modo migliore per raccontare come la Grande guerra abbia lacerato il mondo è cominciare dalla grande esposizione universale di Parigi inaugurata il 14 aprile del 1900. Più delle altre che a partire dal 1798 si erano svolte in Europa o negli Stati Uniti, l’esposizione di Parigi celebrava, al passaggio del secolo, lo splendore della civiltà europea.2

L’Europa era il centro del mondo, il centro della modernità trionfante e, come avevano scritto gli organizzatori, l’esposizione aveva il proposito di “inaugurare

1 Robert Musil, Diari, Torino, Einaudi, 1980, p. 1567.

2 In realtà quella del 1789 si chiamava “esposizione nazionale dell’industria”. La prima “esposizione universale” fu quella di Londra del 1851.

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4. Xenien-Almanach auf das Jahr 1915 [Der Kriegs-Almanach 1914], Lipsia, Xenien-Verlag, 1914. In antiporta è riportato l’opera di Egger-Lienz (tav. 5)

5. Albin Egger-Lienz, La danza della morte 1809, c. 1914

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degnamente il XX secolo e celebrare in tal modo la nuova tappa seguita dal cammino progressivo della civiltà contemporanea”.3 Qualche decennio prima il filosofo Hermann Lotze definiva le esposizioni universali “le vere feste del nostro tempo”.4 L’Europa era anche il centro dell’Occidente, termine che aveva perso una connotazione puramente geografica, per indicare piuttosto “la dimensione territoriale della modernità”.5

Ma cos’era la modernità? Per gli europei della svolta del secolo si identificava con l’idea di un progresso senza fine, con la civiltà industriale, con il dominio dell’uomo sulle macchine, con un continuo mutamento degli stili di vita, un benessere crescente, la vita nelle metropoli. L’uomo europeo si percepiva come l’artefice della società più ricca, potente, colta che mai la storia avesse costruito. Questo era anche il mondo della belle époque, dell’operetta, della gioia di vivere, di una vita spensierata e spumeggiante che sembrava non dovesse avere mai fine.

Da questo sentire erano tuttavia escluse le moltitudini: gran parte della popolazione era analfabeta e la vita nelle campagne seguiva ancora ritmi naturali e antiche costumanze. Fu proprio la Grande guerra a mettere a contatto le masse europee con la tecnica e la complessità dell’organizzazione: il conflitto rappresenò per milioni di uomini “un corso accelerato e violento di modernità” impartito “in situazioni estreme di sradicamento e di minaccia per la vita, di sofferenza e di dolore”, una “dolorosa gestazione del moderno”, di cui la guerra “era insieme figlia e potente generatrice”.6 L’ingresso nella modernità coincide dunque con l’apprendistato bellico.

Ma se manteniamo lo sguardo sulle metropoli europee, paradossalmente è proprio in questo periodo che viene coniata l’espressione fin de siécle, che porta con sé la percezione di un inarrestabile tramonto. L’espressione nata in Francia nel 1888 allude a un secolo moribondo e però, se da un lato introduce all’idea pessimistica della fine, dall’altro riempie il secolo che sta per giungere di attese e speranze. Il nuovo secolo era atteso come una svolta epocale ricca di promesse: chi avrebbe immaginato che in un solo quindicennio questa civiltà europea, “il mondo di ieri”, sarebbe crollata dando vita a uno dei peggiori periodi di barbarie che il continente abbia mai visto?

Forse dobbiamo allora chiederci quanto questa rappresentazione della modernità e l’ottimismo dell’Ottocento che si proiettava sul secolo a venire cogliessero l’intera realtà. Uno sguardo più attento rivela, celato sotto le apparenti certezze, un sotterraneo magma incandescente, destinato prima o poi ad aprirsi un varco verso la superficie e a straripare. Da questo punto di vista alcuni avvenimenti rivestirono un valore paradigmatico.

Proprio all’inizio del secolo tre imponenti terremoti rivelarono tutta la fragilità del sogno di potenza dell’uomo. Il 14 aprile 1906 la città di San Francisco fu completamente rasa al suolo: nonostante il numero limitato dei morti (circa 500) l’opinione pubblica mondiale rimase impressionata dalla vastità della distruzione. In agosto fu la volta di Valparaiso in Cile (circa 20.000 morti), ma l’evento più sconvolgente fu il terremoto che il 28 dicembre 1908 cancellò le città di Messina e Reggio Calabria, provocando quasi centomila vittime. L’effetto sull’opinione pubblica fu enorme, la catastrofe ebbe un eco vastissimo: Elias Canetti ricorda il “Terremoto di Messina” come una delle “attrazioni” del Wurstelprater, una sezione del Prater, di Vienna.7 Max Beckmann subito dopo la catastrofe dipinge un olio dal titolo Scene dalla distruzione di Messina (tav. 6).

3 Citato in Emilio Gentile, L’ apocalisse della modernità. La Grande guerra per l’uomo nuovo, Milano, Mondadori, 2008, p. 25.

4 Citato in Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, Torino, Einaudi, 1986, p. 264.

5 Gentile, L’ apocalisse, p. 35.6 Antonio Gibelli, L’officina della guerra,

Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 10 e 19.

7 Elias Canetti, Il frutto del fuoco, Milano, Adelphi, 1999, p. 71.

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5La natura, che l’uomo credeva di andare assoggettando tramite la scienza e

l’industria, dimostrava di essere del tutto estranea e riottosa al progetto di dominio. Così la relazione al Senato del Regno: Il senso di fragilità e di fine del mondo che accompagnò questi avvenimenti fu fortemente rinforzato dal passaggio, nel maggio 1910, della cometa di Halley che provocò scene di panico collettivo. La gente si rinchiuse in casa per paura dei gas velenosi che si credeva si trovassero nella sua coda, vi fu la corsa a comprare maschere antigas e gli imbonitori da fiera fecero i soldi con le “pillole anticometa”. Altri si diedero alla disperazione o a preghiere collettive; molti la notte del 18 maggio si allontanarono dalle città per aspettare la “catastrofe finale”. Una testimonianza di questo clima si trova in una poesia di Georg Heym: “Gli uomini fanno ressa nelle strade,/Scrutando in cielo il segno minaccioso/Delle comete dal naso di fuoco,/Che sfiorano le torri frastagliate”. L’arrivo della cometa porta “malanno e carestia [che] entran strisciando”, dentro i letti “si voltolano e gemono gli infermi”,

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6. Max Beckmann, Scene dalla distruzione di Messina, 1909

7. Max Beckmann, L’affondamento del Titanic, 1912-13

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“il tempo è morto e vuoto dei suoi venti”; “impietriscono i mari”; “gli alberi non conoscono stagioni,/restano eternamente senza vita”.8

Infine, due anni dopo, il 14 aprile del 1912 con l’affondamento del Titanic nel freddo Mare del Nord, al largo delle coste inglesi, colava a picco la fiducia assoluta nella tecnologia e nei valori che avevano dominato lo spirito della belle époque (tav. 7). La natura riprendeva la sua rivincita e dopo di allora “nulla fu come prima”. Il naufragio provocò nelle coscienze europee uno shock enorme e venne ad assumere un ruolo paradigmatico, su cui sono stati scritti quasi seimila libri e girati sei film.

Sotto la fragile patina positivista e ottimista questi avvenimenti facevano intravvedere un ribollente mondo di emozioni, di tensioni e paure. Robert Musil nell’Uomo senza qualità, un’opera cardine per conoscere le correnti intellettuali del primo Novecento, così descrive questo lento eclissarsi dell’ottimismo che aveva accompagnato la svolta del secolo: ci si trovò di fronte ad una insoddisfazione non meglio definibile, “una misteriosa malattia del giorno […] i tempi erano cambiati, come una giornata che comincia sfolgorante d’azzurro e poi va pian piano velandosi”.9

I SISMOGRAFI DELLA FINE DEL MONDOLa percezione di queste faglie e fratture nell’ordinata superficie della modernità aveva tuttavia avuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo i suoi acuti sismografi in intellettuali, scrittori, poeti, artisti.

8 Georg Heym, “Gli uomini fanno ressa nelle strade…”, in Id., Umbra vitae, Torino, Einaudi, 1982, pp. 79-81.

9 Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1972, p. 53.

10 Georg Heym, “La Morgue”, in Id. Umbra vitae, p. 89.

11 Georg Heym, Dichtungen und Schriften, vol. 3, Amburgo, Ellermann, 1964, p. 89; vedi anche p. 164.

12 Idem, p. 173.

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7Per molti di loro il mondo della sicurezza borghese aveva prodotto un

profondo senso di noia. Scrive Heym: “Partimmo cinti al pari di giganti/Ferrosonanti al pari di Golia./Ed ora abbiamo topi e vermi erranti/Sulla carne per triste compagnia.//[...] Cosa trovammo agli angoli del cielo?/Un vuoto nulla.”10 “Un vuoto nulla” è ciò che resta all’uomo. Tutto piuttosto che essere prigionieri di questo nulla: “Anch’io posso dire: ‘Se solo ci fosse una guerra, mi sentirei guarito’. Ogni giorno è uguale all’altro. Nessuna grande gioia, nessun grande dolore. Di tanto in tanto, qualche amoretto. È tutto così noioso”.11 Ancora nel giugno 1911 scriveva su Aktion: “La nostra malattia è una noia senza fine. […] La nostra malattia è vivere alla fine di un giorno, durante una sera in cui l’aria è così soffocante, che è difficile sopportare le esalazioni della putrefazione del mondo. […] La guerra è scomparsa dal mondo, e la pace eterna ne ha raccolto miseramente l’eternità”.12

La metropoli per il poeta tedesco che morirà nel 1913, non è più il mondo splendido e luccicante della modernità: nelle sue città troneggiano i demoni, “i

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8. Mikalojus Čiurlionis, Fulmini, 19099. Ludwig Meidner, Paesaggio apocalittico,

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demoni dell’industrialismo e quelli della guerra, per la quale l’industrialismo lavora: la città moderna e la guerra moderna nascono dallo stesso grembo”,13 il grembo dell’industria che ha plasmato la città contemporanea.

Così il “dio della città” sta seduto “sopra un blocco di case”, “gli cingono la fronte i venti neri,/E guarda irato ove laggiù, sperduti,/Si confondono gli ultimi quartieri.//Accende il rosso ventre, a Bal, la sera,/E le grandi città stanno in ginocchi/A lui d’intorno. Innumeri rintocchi/Salgon dalla marea di torri nera.// [...] Denso/Di ciminiere e fabbriche a lui sale/Il fumo, come nuvola d’incenso”.14

Per il pittore Franz Marc l’Europa, “vecchia e invecchiata”, ha bisogno di un sacrificio di sangue per rinascere. L’Europa ha perso la sua spiritualità: le scienze hanno divinizzato il mondo e sostituito Dio con l’uomo, sono “fatali a tutto ciò che oggi è ancora sacro e noto e necessario”.15 Come la spiritualità così è malata la politica e l’arte. Il traguardo segreto della guerra non è dunque una vittoria territoriale, ma “la distruzione delle catene, la formazione di un nuovo tipo umano, la vittoria spirituale dell’uomo europeo”. 16

La tesi del declino spirituale dell’Occidente è un tema ricorrente nel dibattito del periodo. Nel 1918 esce il primo volume di un libro che avrà un grande successo, Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, pubblicato nell’estate di quell’anno, ma “già finito nella sua stesura quando scoppiò la grande guerra”. Spengler dà una visione organicistica delle civiltà per le quali descrive una morfologia naturale desunta dalle teorie di Goethe che stabilisce per ognuna un ciclo che si conclude con l’ineluttabile tramonto. È al tramonto, secondo il filosofo tedesco, è giunto anche l’Occidente, il cui suolo è ormai “metafisicamente esaurito”. 17

Spengler fu ritenuto un profeta e raggiunse una grande notorietà. In realtà chi aveva lucidamente profetizzato l’avvento imminente di un’epoca di distruzioni e

13 Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. 3, Torino, Einaudi, 1971, p. 1223.

14 Georg Heym, “Il dio della città”, in Id., Umbra vitae, p. 55.

15 Franz Marc, “Il tipo superiore”, in Id., Scritti: 1910-1915, Firenze, Hopeful Monster, 1987, p. 102.

16 Idem, p. 99.17 Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente,

Milano, Longanesi, 1978, p. 7 e p.17.

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cataclismi era stato il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (Thomas Mann in una lettera chiama Spengler “l’astuta scimmia” di Nietzsche). L’idea di una “barbarie ventura” e di una vicina catastrofe, ne attraversa l’intera opera. Già nella terza delle Considerazioni inattuali, intitolata Schopenauer come educatore e scritta nel 1874, così descrive la nuova atmosfera intellettuale: “Le acque della religione si ritirano, si

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10. Ludwig Meidner, Paesaggio apocalittico, 1913

11. Ludwig Meidner, Visione apocalittica, 1912

12. Ernst Barlach, Il vendicatore, 1914

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ritirano lasciando acquitrini e paludi; di nuovo le nazioni si dividono nella massima ostilità e bramano dilaniarsi. Le scienze, esercitate senza alcuna misura e nel più cieco laisser faire, sminuzzano e dissolvono ogni salda credenza; i ceti e gli stati civili vengono travolti da un’economia del denaro enormemente spregevole. Mai il mondo fu più mondo, più povero di amore e di bontà”. Sta sopraggiungendo una nuova barbarie “preparata anche dall’arte e dalla scienza”: “vi sono certo forze, forze enormi ma selvagge, primordiali e del tutto impietose. In angosciosa attesa si guarda a esse come al crogiuolo della cucina di una strega: da un momento all’altro può esserci un sussulto o un lampo ad annunciare apparizioni tremende”.18

E di questo tremendum si fa profeta il filosofo: “Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato”. Queste parole ne fecero il nume tutelare di tutti i rivolgimenti attesi o sperati all’inizio del secolo:19 “Tutta la nostra cultura europea è come se andasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole arrivare alla fine”.20 E questa fine è la guerra. Così riferendosi all’ultima parte dell’Also sprach Zarathustra, afferma: “Quando lo pubblicherò dopo alcuni decenni di crisi mondiali – intendo: GUERRE – sarà allora la sua vera ora”.21

Le rappresentazioni di un futuro agli antipodi delle promesse trionfali della civiltà occidentale si trova in tutte le letterature europee. Lo scrittore inglese Herbert George Wells nel romanzo La macchina del tempo (1895) racconta di un viaggiatore che giunge nell’anno 802.701. La terra è abitata da due razze, entrambe discendenti dagli esseri umani di oggi, ma profondamente decadute. La prima è quella degli Eloi, miti e gracili creature dal colorito roseo e dall’aspetto delicato, che vestono abiti leggiadri e passano il tempo a giocare e divertirsi. Sembrano esseri invidiabili, gli Eloi: ma a conoscerli meglio ci si accorge che la loro intelligenza è limitata, il loro linguaggio è in grado di esprimere soltanto emozioni elementari, e la loro

18 Friedrich Nietszche, Schopenauer come educatore, Milano, Adelphi, 1992. Vedi anche Umano troppo umano, Milano, Adelphi, 1967, pp. 249-250; e La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1977, pp. 255-256.

19 Id., Ecce homo, Milano, Adelphi, 1969, pp. 135 e 120.

20 Id., L’anticristo, Milano, Adelphi, 1977, pp. 466-467.

21 Id., Epistolario, Milano, Adelphi, 1980, p. 334.

22 Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Milano, Rizzoli, 1988, p. 219.

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capacità di provvedere a se stessi molto ristretta; essi si cibano esclusivamente di frutta, e abitano costruzioni evidentemente ereditate da una precedente civiltà più evoluta. Appena scende la sera, gli Eloi hanno paura, perché dalle viscere della terra emergono i Morlocchi, esseri biancastri scimmieschi e mollicci, che trascorrono la vita affaccendati a produrre beni materiali nelle loro fabbriche sotterranee, uscendone soltanto per catturare gli Eloi, di cui si cibano. Questi ultimi sono dunque ridotti alla condizione di bestiame brado a disposizione dei ributtanti Morlocchi. Come ci viene spiegato dall’autore medesimo, le due razze discendono rispettivamente dalla classe borghese e dalla classe proletaria, e se i secondi sono giunti ad un livello di totale abbruttimento, i primi non sono certo da meglio, nella loro semi-idiozia.

Una raccolta di visioni apocalittiche che sembrano anticipare la catastrofe si trova nel Libro rosso di Gustav Jung. Come scrive in Ricordi, sogni, riflessioni, dopo la rottura con Freud:

Si scatenò un flusso incessante di fantasie, e feci del mio meglio per non perdere la testa […] Ero inerme di fronte a un mondo estraneo dove tutto appariva difficile e incomprensibile […] Le tempeste si susseguivano, e che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta. Per altri hanno rappresentato la rovina: così per Nietzsche, Hölderlin, e molti altri… Nel reggere a questi assalti dell’inconscio ero sostenuto dal saldo convincimento di obbedire a una volontà superiore.22

Il primo di questi episodi si manifestò nell’ottobre del 1913 nel corso di un viaggio in treno verso Sciaffusa durante il quale ebbe “una visione apocalittica in cui scorse un’alluvione di melma, macerie e morti invadere la terra dalla Russia fino alle Alpi”. Lo scoppio della Prima guerra mondiale confermò a Jung l’intuizione che le

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13. Ludwig Meidner, Paesaggio apocalittico, 1916

14. Ludwig Meidner, Città in fiamme, 1913

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proprie inquietanti derive psichiche non erano casuali ed isolate ma rispecchiavano l’angoscia collettiva di un mondo che stava sprofondando nell’abisso. Alcune di queste visioni ricordano quelle descritte da Hermann Hesse in Demian pubblicato nel 1919:

Questo mondo, com’è oggi, vuole morire, vuole andare a morire e ci riuscirà […] Sappiamo che il nostro mondo è marcio, ma questo non sarebbe ancora un valido motivo per predirne il tramonto o qualcosa del genere. Da parecchi anni però faccio sogni dai quali concludo o intuisco, come vuoi, che il crollo del vecchio mondo è vicino. [...] Il mondo vuole rinnovarsi. C’è odore di morte. Non viene niente di nuovo senza la morte. […] Ci sarà la guerra. [...] Ci sarà forse una grande guerra, una guerra molto grande. Ma anche questo sarà soltanto l’inizio. Comincia il nuovo e il nuovo per coloro che sono legati al vecchio sarà terribile.23

È soprattutto il mondo austriaco a intercettare queste tensioni, trasformate poi nell’abusata formula della “gaia apocalisse”, che tuttavia resta uno degli ossimori più felici e indicativi del clima culturale viennese; di un impero che muore a tempo di valzer e che rimanda alla leggenda del Titanic la cui orchestra in impeccabile frac nero continuò a suonare fino alla fine; o nella definizione di Vienna come della “stazione sperimentale della fine del mondo” coniata da Karl Kraus.

L’espressionista Alfred Kubin ne L’altra parte (1907) narra di un misterioso mago e ipnotizzatore, Claus Patera, che fonda in un luogo imprecisato dell’Asia centrale il “Regno del Sogno”. Perla, la capitale, costruita con case corrose e malfamate della vecchia Europa, ricorda Praga. È circondata da un’enorme muraglia che la difende dal progresso: attraverso l’unica porta che si apre in essa non può passare nulla che non sia già stato usato. La natura è avvolta in un perenne grigiore e gli abitanti vivono un’esistenza nevrastenica e priva di futuro: “il cielo che vi si stendeva sopra

23 Hermann Hesse, Demian, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 329, 349, 369, 357-377.

24 Alfred Kubin, L’altra parte, Milano, Adelphi, 1965, p. 51.

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14 era eternamente fosco; il sole non splendeva mai, mai si vedevano, di notte, la luna o le stelle”.24 Ovunque aleggia un senso di mistero che si manifesta attraverso sintomi inquietanti e bizzarri.

Nella seconda parte della narrazione si assiste a un inarrestabile procedere verso la decadenza e il crollo: nevrosi di massa, carestia, disgregazione degli oggetti, mutamenti climatici, invasione delle acque paludose, scorrerie degli animali. La

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15. George Grosz, Metropoli [Sguardo sulla metropoli], 1916-17

16. George Grosz, Dedicato a Oskar Panizza, 1917-18

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distruzione del regno di Patera, per un fenomeno di “putrefazione organica”, è una anticipazione del crollo della Duplice Monarchia e si inserisce a pieno titolo nella letteratura mitteleuropea della crisi che descrive il vecchio mondo non come una Heimat perduta, ma come una realtà soffocante e intimamente morta.

Temi analoghi, sia pure con una coloritura del tutto particolare, si trovano nella letteratura russa a cavallo della svolta del secolo – una delle più straordinarie epoche letterarie – che si concluderà con la fine tragica di tutti i suoi protagonisti.25 Si tratta di una generazione di poeti e di scrittori “che percepiva in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese e l’approssimarsi della tempesta”. Una generazione, ha osservato Angelo Maria Ripellino, “pervasa dal disperato presagio della vicina catastrofe, dall’ansia febbrile del crollo del vecchio mondo”, i cui esponenti “vivevano in un’aura di fanatismo, ansiosi di teofanie, di miracoli, di apocalissi”.26

Sono soprattutto i simbolisti a dare voce all’insoddisfazione del presente e alla predizione di una apocalisse prossima ventura: Aleksandr Blok nel Mondo terribile, Fedor Sologub, Andrei Belyi, Valerii Bryusov descrivono il mondo della grande città come un inferno, in cui l’uomo contemporaneo si trova esiliato. La realtà è immobile, pietrificata, l’uomo è intorpidito, solo un gesto estremo, la liberazione delle forze elementari, barbariche, del popolo russo può salvare una civiltà in decomposizione, già in preda della catastrofe.

25 Roman Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Milano, SE, 2004.

26 Angelo Maria Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, pp. 128 e 131.

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17. Otto Dix, Guerriero morente, 191318. Franz Marc, Forme in lotta [Forme

astratte 1], 1914

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Di queste atmosfere è impregnato il gruppo degli Sciti, nato nel 1917 e che interpretava “il grande sconvolgimento come catarsi dell’umanità e trasfigurazione del globo terracqueo”.27 Il richiamo è al popolo barbaro degli sciti evocato contro il decadente occidente europeo. Lo scitismo rappresenta un confuso miscuglio di messianesimo, slavofilia, socialismo rivoluzionario. Ad esso aderirono personalità tra loro molto diverse come Belyi, Blok, Remizov, Mandel’shtam, Oreshin, Esenin.

A differenza che nel resto dell’Europa, in Russia la ricerca letteraria si colora di temi religiosi e teologici. Il simbolismo, interessato all’occultismo e alle teorie antropososofiche e teosofiche, intrecciò un serrato dialogo con filosofi quali Vladimir Solov’ev, Dimitri Merezhkovskii, Pavel Florenskii. I simbolisti considerano l’aspetto religioso “la forza spirituale centrale. Anzi accentratrice, che non riguarda solo la vita dell’individuo, bensì quella della società, della comunità, della collettività. A questa rivalutazione della religione e dell’elemento religioso si collega spesso anche l’idea di un rivolgimento rivoluzionario, la speranza apocalittica in una società nuova e in un uomo nuovo”.28

Benché in genere apolitici, gli scrittori legati al simbolismo videro nella rivoluzione del 1905 la conferma di una catastrofe imminente che avrebbe partorito un nuovo mondo. In Russia, forse più che la Grande guerra,29 fu la rivoluzione ad essere il punto di coagulo delle attese messianiche: così “gli sciti”, in un tragico equivoco, videro nei bolscevichi i nuovi barbari giunti a rinnovare la razza e la spiritualità russe.

L’ENTUSIASMO DELLA MOBILITAZIONECiò che non era visibile prima della guerra, se non a pochi che sapevano intravvedere le crepe nascoste dell’apparentemente compatto spirito europeo, ai diagnostici della “crisi spirituale” del “grande organismo europeo”,30 diventò chiaro a molti durante e dopo la guerra. La guerra che nelle speranze dei più doveva finire per Natale,

27 Idem, p. 170.28 Julia Scherrer, “La ricerca filosofico-religiosa

in Russia all’inizio del XX secolo”, in Efim Etkind et al. (a cura di), Storia della Letteratura Russa, vol. 3, Il Novecento, t. 1, Torino, Einaudi, 1989, p. 201.

29 Michail Heller, “La letteratura della prima guerra mondiale”, in Idem, pp. 721-731.

30 Musil, Diari, p. 861.31 Franz Marc, I cento aforismi. La seconda

vista, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 45.32 Hesse, Demian, p. 385 e anche p. 233.33 Marc, La seconda vista, p. 41.

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18distrusse completamente il vecchio mondo. Essa fu dunque una vera apocalisse, una “rivelazione” come suona il suo senso letterale.

Lo scoppio della guerra fu percepito da molti come una necessità, la virulenta malattia attraverso cui il mondo deve passare per potersi rigenerare, “il purgatorio della vecchia, della invecchiata e peccatrice Europa”.31 La violenza fu paragonata alle doglie del parto, metafora che compare ossessivamente insieme a quella della malattia e della febbre.

Sia in Franz Marc che in Hermann Hesse compare la metafora dell’uovo cosmico. Nei sogni di Emil Sinclair, il protagonista di Demian, ”un uccello gigantesco lottava per uscire dall’uovo e l’uovo era il mondo e il mondo doveva andare in frantumi”,32 mentre Marc parla dell’uovo cosmico con la tenerezza di ciò che sta per venire alla luce: “Chi è nobile e leale allontana la massa indisciplinata dalla culla del tenero uovo cosmico”.33 In entrambi i casi è la culla del nuovo, simbolo di renovatio.

Dallo scontro armato ci si aspettava un nuovo ordine sociale esattamente come, nell’Apocalisse di San Giovanni, la nuova Gerusalemme risorge dalle ceneri del mondo. Si auspicava la purificazione dell’Europa, il tramonto di tutti gli antichi poteri e di una società che non poteva essere trasformata solo con l’arte. Gli anni che precedono la Grande guerra sono anche gli anni in cui nascono le prime

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avanguardie. Al centro dei manifesti degli espressionisti e dei futuristi c’è la volontà di rigenerare la società attraverso l’arte. L’obiettivo polemico era la società borghese, ritenuta ormai intimamente vuota. Scrive Musil:

Lo spirito era affare d’una minoranza europea appartenente all’opposizione. […] La nostra poesia è stata una poesia che operava sul rovescio della medaglia, una poesia delle eccezioni nella regola, e spesso persino di eccezioni delle eccezioni. Nei suoi massimi esponenti. E appunto perciò essa era, a suo modo, animata da quel medesimo spirito battagliero e conquistatore che noi avvertiamo nella sua forma primigenia, meravigliati e felici, in noi e intorno a noi.34

La guerra, nelle parole dello scrittore austriaco, è dunque la realizzazione politica della tensione al nuovo, alla rigenerazione della società propugnata dalle avanguardie, molti esponenti delle quali aderirono entusiasticamente al conflitto.

Sempre Georg Heym nel frammento poetico del 1912 La guerra, la descrive come una forza demoniaca che percorre le città sterili, ruderi di una civiltà pietrificata, distruggendo ogni cosa e preparando così l’avvento del nuovo. Solo che questo nuovo fu qualcosa di spaventoso.

La guerra, seppure a lungo annunciata, giunge all’improvviso e provoca in

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19. Bohumil Kubišta, Artiglieria costale in combattimento con la flotta, 1913

20. Théophile Alexandre Steinlen, La marsigliese, 1915

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ogni nazione profonde manifestazioni di entusiasmo patriottico, che elimina ogni divisione sociale e politica e fa sentire i popoli uniti intorno ai loro capi. “Noi sentiamo”, annota Robert Musil nell’agosto 1914, “di venire serrati e fusi da un’indicibile umiltà, in cui il singolo è ridivenuto un nulla al di là del proprio compito di proteggere la stirpe”.35 “Centinaia di migliaia di persone”, scrive a sua volta il pacifista Stefan Zweig, “sentivano allora come non mai quel che avrebbe dovuto sentire in pace, di appartenere cioè ad una grande unità”.36 Mentre Hesse così descrive quelle giornate:

Tutti gli uomini erano come affratellati. Pensavano alla patria e all’onore. Ma era il volto scoperto del destino quello cui tutti volgevano per un attimo lo sguardo. Giovani uscivano

34 Robert Musil, “La Germania in Europa”, in Mario Schettini (a cura di), La letteratura della Grande guerra, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 152-153.

35 Idem, p. 153.36 Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Milano,

Mondadori, 1979, p. 180.

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21. Adriana Bisi Fabbri, Interventismo, 1915

22. Roberto Marcello Baldessari, Galleria + bandiere alleate, 1918

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dalle caserme, salivano sui treni e su molte facce vidi un segno [...] un segno bello e pieno di dignità che significava amore e morte. Anch’io fui abbracciato da gente mai vista e capii e ricambiai di buon grado. Lo facevano in uno stato d’ebbrezza, non era la volontà del destino, ma l’ebbrezza era sacra e traeva origine dal fatto che tutti avevano gettato quello sguardo breve e impressionante negli occhi del destino.37 37 Hesse, Demian, pp. 381-382.

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Questo sentirsi tutti fratelli è ciò che descrive Gerda Fischel al suo scettico padre: “Tu non immagini quanto amore, quanti sentimenti mai conosciuti fioriscano adesso per tutte le strade! Siamo vissuti come le bestie che la morte un bel giorno distrugge; ma ora è diverso! E una cosa immensa, ti dico! Tutti

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23. Almanacco della guerra, Firenze, Edizioni Lacerba, 1915

24. Filippo Tommaso Marinetti, Zang tumb tumb, Milano, Edizione futuriste di “Poesia”, 1914

25. Filippo Tommaso Marinetti, 8 anime in una bomba, Milano, Edizione futuriste di “Poesia”, 1919

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sono fratelli, neppure la morte è nemica; si ama la propria morte per amore degli altri; oggi per la prima volta si capisce la vita!”.38

In un capitolo del Doctor Faustus, Zeitblom, il vecchio umanista portavoce di Thomas Mann, ricorda “le prime ardenti giornate dell’agosto 1914” a Monaco, il fermento vissuto dalla città, gli entusiasmi popolari, l’ebbrezza della mobilitazione:

Nella nostra Germania, non si può negarlo, essa faceva soprattutto una esaltante impressione di orgoglio storico, accompagnato dalla gioia di mettersi in marcia, di abbandonare la vita quotidiana, di liberarsi da un ristagno nel quale non si sarebbe potuto continuare, in un entusiasmo rivolto all’avvenire, in un appello al dovere virile, in una festa eroica.39

La macchina della mobilitazione si mette in moto dagli uffici di arruolamento delle città, dalle caserme, dalle stazioni ferroviarie, uno dei luoghi che si incontrano più frequentemente nelle testimonianze letterarie. Così Ernst Gläser descrive le banchine della stazione di Friburgo:

Studenti con giacche fantasiose balzarono cantando sul treno. Dai finestrini essi baciavano ragazze che regalavano loro fiori. Signori anziani avevano attaccato bandierine ai loro bastoni e li portavano sulla spalla. Soldati che recavano infilzati mazzi di rose nelle canne dei fucili venivano colmati di doni, come se fosse il loro compleanno. [...] Allegre frotte di ragazze in abiti bianchi correvano verso i soldati e appuntavano loro fiori sul petto. [...] Tutti ridevano, più di tutti i soldati. Andavano in vacanza o ad una sagra?.40

In un saggio del 1918 rimasto incompiuto, La fine della guerra, Musil cerca di descrivere più razionalmente questa esperienza:

Svanì la forma organizzata della vita, che ciascuno aveva intimamente mal sopportato, l’uomo si fuse con l’uomo, la non chiarezza con la non chiarezza, non si conosceva,

38 Musil, L’uomo senza qualità, p. 1280.39 Thomas Mann, Doctor Faustus, Milano,

Mondadori, 1970, p. 361.40 Ernst Gläser, “Classe 1902”, in Schettini, La

letteratura, p. 323. 41 Robert Musil,“Das Ende des Krieges“, in

Idem, Gesammelte Werke, Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt, 1978, p. 1343.

42 Id., Diari, p. 986.43 Jeffrey Verhey, Spirit of 1914.

Militarism,Myth and Mobilization in Germany, Cambridge, Cambridge U. P., 2000. Si veda anche Reinhard Rürup, “Der ‘Geist von 1914’ in Deutschland: Kriegsbegeisterung und Ideologisierung des Kriegs im Ersten Weltkrieg”, in Bernd Hüppauf (a cura di), Ansichten vom Krieg, Königstein/Ts.; Forum Academicum in d. Verl.-Gruppe Athenäum, Hain, Hanstein, 1984.

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grazie a Dio, più alcun partito e ci si augurava di arrivare ben presto a non conoscere più nemmeno l’io e il tu e i rispettivi collegamenti. Era la rivoluzione quale conclusione di una evoluzione che si era arrestata.41

Si tratta di un comportamento che ha spiegazioni complesse. Alcune sue componenti sono comprensibili solo ricorrendo alla psicologia di massa, al magma di emozioni che sempre scorre sotto una sottile crosta di civiltà e ai meccanismi che lo riportano in superficie. Tutte le testimonianze parlano di ubriacatura, di febbre, di estasi. Slogan e parole d’ordine diventano esperienze brucianti: “si sente la nazione in carne e ossa”, scrive Musil. Ci si dissolve “in un accadimento superpersonale”, la “sensazione di vivere qualcosa di grande”, un “altro rapporto con la morte.42 Ciò forse può spiegare come anche uno scrittore raffinato, cosmopolita e appartato come Rainer Maria Rilke precipiti nel magma e scriva i Cinque canti dell’agosto 1914, un’elegia al “Dio di battaglia”, che sceglie l’incendio, che per mezzo della violenza distrugge la cultura d’anteguerra, sterile e sorpassata. In questa orgia di slogan e di mitologie a basso prezzo solo Karl Kraus sembra mantenere il proprio distacco e, lontano dagli entusiasmi, dalle pagine della Fackel denuncia il rapporto di causa-effetto tra la parola e la disponibilità all’azione.

Recentemente un lavoro ridimensiona l’entusiasmo della mobilitazione, comune a tutte le fonti letterarie.43 Jeffrey Verhey riconosce la presenza di questo sentimento tra le classi più elevate e tra gli intellettuali, però osserva – sulla base di dati precisi – come questo non sia stato universale e come l’ubriacatura patriottica che in Germania ha portato all’invio ai giornali di circa un milione di poesie inneggianti alla guerra abbia messo in secondo piano e oscurato le voci dissenzienti.

Quello che colpisce nel lessico della Grande guerra è l’uso diffuso di una terminologia religiosa. Ad essere descritto in termini religiosi è innanzitutto proprio lo spirito della mobilitazione: “cosa immensa” di cui parla Gerda è la comprensione della vita che l’esperienza della comunanza con tutti gli altri apre. Infatti il momento della

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26. Lacerba, a. 3, n. 20, 15 maggio 191527. Auro D’Alba, Baionette, Milano,

Edizione futuriste di “Poesia”, 191528. Carlo Carrà, Guerrapittura, Milano,

Edizioni futuriste di “Poesia”, 191529. Filippo Tommaso Marinetti, Per la

guerra, sola igiene del mondo, s.d. [ma 1911]

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“distruzione dell’ordine normale”, della vita regolata, è complementare a uno stato di fusione e di unificazione. Esperienza che Musil definisce “sconfinata”, “forza primigenia”, “minuscola scheggia di verità dell’Amore supremo”.44 Giudizio che lo scrittore mantiene inalterato nel tempo, in un progetto di romanzo che risale al 1918 così si esprime: “La ‘grande esperienza’. Rappresentarla senza critica; l’ebbrezza. Qualcosa che avvicina a Dio”.45 E nel coevo frammento La fine della guerra afferma: “Coloro che non erano stati credenti la definirono un’esperienza religiosa, i più chiusi un’esperienza unificante.46 Nel 1919 la chiama “l’alito di un sentimento religioso” che almeno “all’inizio della guerra ha soffiato in tutti i popoli belligeranti”. Altre volte “esperienza affine a quella religiosa” o, decisamente, “esperienza religiosa”. Ancora nel Quaderno 33 (1937-fine 1941 circa) definisce “l’esperienza della mobilitazione del 1914”, “di un misticismo atavico”. 47

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Uno dei termini più usati è quello di “redenzione”: le regioni italiane che ancora fanno parte dell’Impero austro-ungarico sono i “paesi irredenti”. Viene qui tradotta dalla pubblicistica politica quell’attesa spasmodica di un Redentore che attraversava i circoli intellettuali, attesa che, non senza ironia, così descrive Musil:

Infine si persuadevano che il loro secolo era destinato alla sterilità morale e che solo un avvenimento straordinario o un uomo eccezionale lo poteva redimere. Sorse così fra i cosiddetti intellettuali la popolarità del verbo redimere e dei suoi derivati. Erano persuasi che non si poteva andare avanti se non giungeva al più presto un messia. Secondo i casi, doveva essere un messia della medicina che avrebbe redento l’arte clinica dalle ricerche scientifiche durante le quali la gente s’ammala e muore senza soccorso; oppure un messia della poesia, capace di scrivere un dramma che avrebbe riempito i teatri di migliaia di

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44 Musil, “La Germania in Europa”, p. 153.45 Id., Diari, p. 517.46 Id., “Das Ende des Krieges“, p. 134347 Idem, pp. 802, 986, 807 e 1403.

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spettatori, e tuttavia sarebbe stato della più vertiginosa altezza spirituale; e oltre a questa convinzione che ogni singola attività umana potesse essere restituita a se stessa solo grazie a un particolare messia, c’era naturalmente il desiderio semplice e non analizzato di un messia dal pugno di ferro per tutto l’insieme. Così quello precedente alla grande guerra fu un periodo di attesa messianica, e se interi paesi volevano essere redenti non c’era in fondo proprio niente di straordinario.48

Questo atteggiamento di attesa messianica che caratterizza l’inizio del secolo si coagula nell’evento bellico, ma attraversa anche il primo dopoguerra. Di fronte alla disfatta delle attese che lo scoppio della guerra aveva portato con sé, il messianesimo si incarnerà nei grandi movimenti politici del Novecento: il comunismo, il fascismo, 48 Id., L’uomo senza qualità, pp. 504-505.

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34. Giacomo Balla, Sbandieramento + folla, 1915

35. Giacomo Balla, Insidie di guerra, 191536. Giacomo Balla, Manifestazione patriot-

tica, 1915

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il nazismo. Se è abbastanza noto il rapporto tra messianesimo politico e movimenti di estrema sinistra – basti pensare a filosofi come György Lukács, Ernst Bloch, Walter Benjamin –,49 in realtà questo innerva anche i movimenti di estrema destra: del resto il Terzo Reich doveva essere “il Reich Millenario”.

Sicuramente però il termine più usato è quello di apocalisse. Si tratta, come si è visto, di una metafora chiave per comprendere il clima culturale del primo Novecento.

49 Michael Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

50 Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, vol. 1, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2003, p. 15.

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IL DISINGANNO E L’ORRORETra tutte le illusioni che accompagnarono lo scoppio del conflitto mondiale, quella di riuscire a ritrovare nelle trincee il senso della vita autentica fu tra le prime a cadere. Cercando di “dominare con lo sguardo” l’evento bellico, Jünger scrive nel 1919 che era ancora troppo vicino per poterne “cristallizzare lo spirito”, solo una cosa si fa sempre più chiara: “il significato soverchiante della materia. La guerra è culminata nella battaglia di materiali: macchine, ferro e sostanze esplosive costituivano i suoi fattori. L’uomo stesso era considerato un materiale”.50 Poco importa che in questa nuova condizione Jünger vedesse la nascita di un uomo nuovo: dai soldati al fronte il dominio dell’industrializzazione fu percepito come un ulteriore tragico inganno.

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37. Giacomo Balla, Stupendo manifesto guerra, 6 novembre 1914

38. Giacomo Balla, Sventolamento,1915

37Il nuovo mondo uscito dalla guerra è un mondo di cadaveri e di rovine,

“terrificante, pieno di marciumi, terremotato” – descritto dai pittori di guerra. Esemplare di questa esperienza è la tela Stiamo costruendo un nuovo mondo di Paul Nash, che raffigura un paesaggio di chiaro significato simbolico, una delle opere tra le più suggestive e scioccanti che Nash dipinse sul tema della guerra. Il “nuovo mondo” è una landa desolata popolata di alberi morti, spezzati, seccati, sradicati, miseri cadaveri di un mondo violato che, nella rappresentazione di Nash, ha perso ogni connotazione naturalistica. Una allucinante messa in scena, dove la figura umana non compare: solo dolore e distruzione. Un’assenza che, tuttavia, evoca prepotentemente una presenza: gli alberi in parata sembrano infatti uno spettrale esercito di combattenti schierati per l’ultima disfatta, feriti, abbattuti, vinti, simbolo di un’umanità in rovina sulla quale un improbabile sole, luminoso e raggiante, brilla inutilmente, testimone indifferente della tragedia (tav. 272).

Ma è anche l’esperienza dell’inferno descritta dai pittori espressionisti (tav. 227), che così è narrata da Ernst Jünger: “Quando, nel buio, m’imbattevo in qualche sbandato che cercava di ricongiungersi alla propria unità, avevo l’agghiacciante sensazione di non trovarmi di fronte a uomini, ma ad esseri infernali. Si vagava su immensi campi di rovine, come oltre i limiti del mondo conosciuto”.51

Questa trasformazione è stata resa magistralmente da Albin Egger-Lienz in uno dei suoi quadri più famosi, I senzanome 1914 (tav. 54), del 1916. Esposto alla mostra di Bolzano del 1917 (tav. 96), con il titolo Sturm bei Uhnow, successivamente

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la grande tela venne esposta a Innsbruck, con il nuovo nome. Sotto uno spicchio di cielo grigiastro, in un ambiente desolato, piegati avanzano dei soldati. Più che uomini sembrano macchine, un segmento di una massa infinita, i loro visi sono del tutto privi di individualità e di sentimento. Avanzano semplicemente, eseguono un ordine in modo meccanico, non c’è in loro la consapevolezza di un luogo di origine né di una meta. L’azione è colta in un momento qualsiasi e trasmette l’idea di una estensione e di una ripetibilità infinita. Questo aspetto è successivamente riecheggiato nel titolo di un noto romanzo di Ernst Wiechert, Ognuno. Storia d’un senza nome. I senzanome 1914, oltre ad essere forse il quadro più significativo della Prima guerra mondiale, è il risultato maturo di una lunga ricerca di stilizzazione dei combattenti effettuata da Egger-Lienz. I soldati senza nome incarnano ora molti dei tratti dei suoi contadini e impugnano come clave i moschetti, allo stesso modo della falce nei campi. Per questa trasformazione emblematico è il quadro Haspinger anno

51 Ernst Jünger, Tempeste d’acciaio, Roma, Ciarrapico, 1982, p. 151.

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39nove (tav. 58) che mostra un gruppo di contadini armati di forconi e bastoni guidati dal monaco Joachim Simon Haspinger in rivolta contro i bavaresi. Gli stessi corpi dei Senzanome, ora impressionante massa di cadaveri, li ritroviamo nel terribile Finale del 1918 (tav. 323).

Tutte le raffigurazioni delle trincee descrivono uno spazio inumano, folle, privo di punti di riferimento (tavv. 197-200). Una terribile descrizione della vita nelle trincee si trova nel Fuoco, che Henri Barbusse scrisse nel 1916.52 Come molti altri Barbusse, benché in età avanzata, nell’agosto del 1914 si arruolò volontario come soldato semplice, due anni dopo – durante un ricovero in ospedale per curare le ferite riportate in combattimento – cominciò a raccontare senza alcuna retorica la sua terribile esperienza sul fronte occidentale. Qui, come nelle lettere di Oskar

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39. Giacomo Balla, Paesaggio + velo di vedova, 1916.

40.-41. Giacomo Balla, Lettera a F.T. Marinetti, 17 luglio 1914 (recto e verso)

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Kokoschka o nei taccuini di Otto Dix, prevale la merda, il vomito, la morte, il fango, la pioggia che rende invivibile la trincea, i parassiti che martoriano le carni dei soldati, i lamenti dei feriti agonizzanti sui reticolati (tav. 207). L’uomo nuovo è il mutilato, il reduce, un uomo ferito nel corpo e nell’animo.

I giorni della guerra che segnò il naufragio della civiltà europea, nella visione apocalittica di Karl Kraus sono Gli ultimi giorni dell’umanità:

52 Henri Barbusse, Il fuoco, Milano, Kaos, 2007.

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42. Fortunato Depero, Marcialottare, 191543. Fortunato Depero, Guerra, guerra!,

191544. Kazimir Malevich, Figura orante, 191345. Kazimir Malevich, Morte simultanea

di un uomo in aeroplano e alla ferrovia, 1913

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La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità. La vicenda, che trascorre per cento scene e cento inferni, è impossibile, frastagliata, priva di eroi come quella. Il suo humour è soltanto l’autoaccusa di uno che non è impazzito all’idea di aver superato a mente sana la testimonianza di questi avvenimenti. Oltre a costui, che presenta ai posteri la vergogna di una tale partecipazione, nessun altro ha diritto a questo humour. 53

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ESPERIENZA E GUERRA “Senza voler esagerare”, scrive Robert Musil nel suo primo articolo per la Tiroler Soldaten-Zeitung, “quanto da due anni a questa parte si è vissuto al fronte, anche solo considerato dal punto di vista di un’esperienza mai verificatasi prima, è pur sempre qualcosa di immane”. Tuttavia tutto questo “svanirà per sempre se non lo fissiamo”. Per fare ciò non è necessario produrre “articoli perfetti nella forma”. Poeta è chi “vede le cose come fosse la prima volta; ogni soldato che renda imparzialmente conto di quanto vede, diventa poeta”.54

In queste righe scritte nell’agosto del 1916 sono esposti due aspetti che in seguito diventeranno canonici negli studi sulla trasformazione dell’identità dei combattenti: l’eccezionalità di questa esperienza (Erlebnis) e la difficoltà di trasformarla da esperienza vissuta (Erlebnis, appunto) in esperienza nel senso di crescita (Ehrfahrung). Si tratta di una differenza di non poco conto: Erwin Rommel, mise come sottotitolo al suo libro sulla Grande guerra proprio l’endiadi Erlebnis und Erfahrung, spiegando nella prefazione: “a quasi tutti gli episodi narrati segue un breve commento che consente di trarre gli opportuni insegnamenti dai fatti d’armi illustrati”.55 In questi “insegnamenti”, nel contenuto comunicabile, consiste appunto l’Ehrfahrung.

L’eccezionalità di questa esperienza è stata variamente descritta e sinteticamente può essere definita come l’irruzione del moderno. L’industrializzazione dominò fin da subito l’evento bellico, togliendo spazio ai sogni di eroismo, di altruismo e ricerca del sé con cui una generazione si era avviata al fronte. Il dominio della tecnica si rivelò nei materiali, nell’organizzazione del fronte, nel ruolo assunto dalla propaganda e nella dimensione del macello.

Molti dei quadri dei pittori di guerra ritraggono i mezzi che si affacciavano allora sullo scenario bellico come gli aerei (tavv. 252-261), i treni blindati (tav. 1), le nuove generazioni di cannoni (tavv. 235-241), i gas (tavv. 232-234). La guerra aerea è divenuta in pochi anni una realtà; solo meno di un decennio prima era

53 Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, Milano, Adelphi, 1996, p. 9.

54 Robert Musil, “Camerati, collaborate!”, in Id., La guerra parallela, nuova edizione riveduta e aumentata, Silvy edizioni, 2012. In questo volume alle pp. 7-8.

55 Erwin Rommel, Fanterie all’attacco. Esperienze vissute, Milano, Longanesi, 1972, p. 9.

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46. Marc Chagall, L’addio dei soldati, 191447. Carlo Carrà, Festa patriottica (Manife-

stazione interventista), 1914

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stata descritta in termini fantascientifici in un romanzo di Wells, La guerra nell’aria (1908), una conflitto che reca distruzioni tali da fiaccare tutte le strutture produttive e organizzative degli stati belligeranti, provocando l’anarchia generale e il ritorno alla vita dell’orda.

Lo scenario della guerra era in sintonia con le poetiche dell’avanguardia. Il moderno combattimento industriale caratterizzato da un delirante paesaggio sonoro dominato dalle esplosioni continue dei bombardamenti dell’artiglieria;56 lo stravolgimento del ritmo del giorno e della notte; i colori dei gas; le luci permanenti dei riflettori sui reticolati; le luci accecanti dei i proiettili traccianti e dei razzi di segnalazione; lo sconvolgimento della natura sembravano una demonica realizzazione dei quadri dei futuristi, degli espressionisti e dei cubisti.

La stessa morte perse ogni individualità per assumere le caratteristiche e le procedure di un prodotto industriale: serialità e massificazione della morte si ritrovano nei lavori di artisti quali Otto Dix, Albin Egger-Lienz, Klemens Brosch (tav. 215). L’aspetto mostruoso, non dominabile, della Prima guerra deriva proprio scala, dalle dimensioni del macello, dalla serialità e riproducibilità del massacro che originano dall’organizzazione e dalla tecnica che gli eserciti mutuano dal mondo industriale.

Così, nonostante la vastità degli eventi, “la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile”.57 A questo proposito Theodor Adorno osserva nei Minima moralia come “l’inadeguatezza del corpo alla battaglia dei materiali rendeva impossibile una vera esperienza. Nessuno avrebbe potuto raccontare di quella guerra al modo in cui si era raccontato delle battaglie del generale d’artiglieria Bonaparte”.58

Questo è avvenuto, argomenta Musil in un saggio del 1922, perché “ci sono mancati i concetti per far entrare in noi ciò che abbiamo vissuto. […] Sono almeno dieci anni, non c’è dubbio, che stiamo facendo della storia universale – e di che calibro. Ma non ce ne siamo accorti”. E continua: “eravamo dei cittadini

56 Ernst Jünger, Tempeste d’acciaio, pp. 127-128.

57 Walter Benjamin, “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov”, in Id., Angelus novus, Torino, Einaudi 1962 p. 236; si veda anche Id., “Esperienza e povertà”, in Franco Rella (a cura di), Critica e storia. Materiali su Benjamin, Venezia, Cluev, 1980, pp. 203-208.

58 Theodor W. Adorno, Minima moralia: meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1979, p. 53.

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laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari e roba simile: eppure, in realtà, non abbiamo vissuto (erlebt) proprio nulla”. Ci sono mancati i concetti ordinatori “o, anche, ci sono mancati i sentimenti che con il loro magnetismo, mobilitassero i concetti necessari”. Siamo tornati a casa portando con noi “soltanto un’inquietudine piena di stupore”.59 La guerra è stata dimenticata, anche se ha continuato ad agire nel profondo, perché per comprenderla si doveva essere in grado di modificare il proprio quadro mentale. Scrive in perfetta sintonia

59 Robert Musil, “L’Europa abbandonata a sé stessa”, in Id., Sulla stupidità e altri saggi, Milano, Mondadori, 1986, p. 105, p. 104.

60 Marc, “Nel purgatorio della guerra”, in Id., Scritti: 1910-1915, p. 86.

61 Adorno, Minima moralia, p. 52. 62 Giuseppe Ungaretti, “Veglia”, Cima quattro

il 23 dicembre 1915, in Id., Vita d’un uomo, Milano, Mondadori, 2005, p. 25.

63 George Trakl, “Grodeck”, in Id., Opere poetiche, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1963, pp. 324-325.

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48. Adriana Bisi Fabbri, Partenza dei Volontari Ciclisti e Automobilisti, 1915

49. Anselmo Bucci, Partenza, [1915-1917]50. Partenza dei Volontari Ciclisti Automo-

bilisti, Milano, 21 luglio 1915

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con Musil il pittore Franz Marc: “Ciò che noi soldati stiamo vivendo in questi mesi supera di molto la nostra capacità di pensiero. Ci vorranno anni prima che possiamo considerare questa indicibile guerra come un’azione, come una nostra esperienza”.60 A riprova di questa difficoltà vi è “il lungo intervallo tra le memorie di guerra e la conclusione della pace”. Un intervallo che per Adorno non è casuale, ma “testimonianza della faticosa ricostruzione del ricordo”.61

A questi limiti non soggiace la pittura; gli artisti continuano a lavorare durante la guerra e a rappresentarla. Infatti i pittori come i poeti e gli anonimi estensori di lettere e diari, non avevano bisogno di “concetti ordinatori”, ma si affidavano alle immediate impressioni visive. Ciò vale per le parole in libertà dei futuristi (tavv. 40-42 e 107), come per gli strazianti versi di Giuseppe Ungaretti pubblicati già nel 1916: “Un’intera nottata/Buttato vicino/A un compagno/Massacrato/Con la bocca/Digrignata/Volta al plenilunio”,62 che hanno la visività di un bozzetto. Analoghe descrizioni si trovano nelle Poesie di guerra di Wilfried Owen o nei Calligrammi di Guillaume Apollinaire. La visionarietà dei paesaggi sconvolti dalla guerra ha in Grodeck di George Trakl uno dei vertici:

Risuonano a sera i boschi d’autunno/Di armi mortali, le dorate pianure/E i laghi azzurri, su cui più scuro/Rotola il sole; la notte abbraccia/Morenti guerrieri, il selvaggio lamento/Delle loro bocche fracassate./Ma quiete s’adunano nel folto dei salici/Rosse nubi che abita un adirato,/Sangue versato, frescura lunare./Tutte le strade sfociano in nera putredine.63

Gran parte della produzione dei pittori di guerra segue due generi a suo modo classici: la ritrattistica e la pittura dei paesaggi. Opere realizzate in presa diretta durante le pause dei combattimenti o nelle retrovie, i paesaggi vanno dalla natura incontaminata della guerra di montagna (tavv. 263-267) a quelli devastati della Galizia o del fronte occidentale (tavv. 269, 271), così descritti da Jünger:

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51. Anselmo Bucci, Volontari Ciclisti e Automobilisti, 1915

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Campanili, ridotti a un muro stretto e lungo, con i vani delle finestre attraversati dai riflessi della luna: cumuli di macerie, da cui sbucavano disordinatamente travi e pezzi d’impalcature; alberi isolati e spogli su vaste distese di neve punteggiate dai crateri neri delle esplosioni, fiancheggiavano la strada come un immobile scenario metallico, dietro il quale tutta la malvagità spettrale del paesaggio sembrava tenersi in agguato.64

Un paesaggio demonico: le potenti fotoelettriche trasformavano la notte in giorno, i gas con i loro variegati colori diffondevano vampe di rosso metallico, luci azzurrastre, creavano nubi dai colori improbabili. Orizzonti infuocati cui si aggiungevano le luci violente delle esplosioni e dei razzi illuminanti. Un mondo percorso da inquietanti figure come quelle raffigurate in Prima dell’attacco con i gas (tav. 234) di Jenő Remsey: le maschere antigas che ne coprono la faccia

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rendono questi soldati simili a demoni che sbucano dalla viscere della terra. Una mostruosa progenie sotterranea cui la violenza della guerra ha aperto un varco.

Artificiale e sconosciuto era anche il terribile paesaggio sonoro delle esplosioni che si susseguivano senza tregua descritto dai futuristi nelle tavole parolibere. “Le nostre tavole parolibere – scrive Filippo Tommaso Marinetti nel 1922, nell’introduzione agli Indomabili –, ci distinguono finalmente da Omero, poiché non contengono più la successione narrativa, ma la poliespressione simultanea del mondo. Le parole in libertà sono un nuovo modo di vedere l’universo, una valutazione essenziale dell’universo come somma di forze in moto che s’intersecano al traguardo cosciente del nostro ‘io’ creatore, e vengono simultaneamente notate con tutti i mezzi espressivi che sono a nostra disposizione. […] Dalle nostre parole in libertà nasce il nuovo stile italiano sintetico, veloce, simultaneo, incisivo, il nuovo stile liberato assolutamente da tutti i fronzoli e paludamenti classici, capace di esprimere integralmente la nostra anima di ultra-veloci vincitori di Vittorio Veneto”.65

Un mondo che si contrae in un “brandello di campo”, “un acro di terra”, “un tratto di trincea” o più semplicemente una fetta di cielo.66 È il paesaggio preannunciato dalle poetiche delle avanguardie europee, soprattutto dal cubismo e dal futurismo, la cui estetica si fondava sulla frantumazione delle immagini determinata dall’assenza di un centro percettivo. Stephen Kern ha evidenziato questo aspetto di frantumazione dell’esperienza percettiva priva di un punto di vista centrale, privilegiato, definendo la Grande guerra “la guerra cubista”.67 Forse non è un caso che i cubisti fossero coinvolti nei reparti di camouflage francesi.68

L’altra esperienza è quella di ampi tratti di fronte spopolati, della solitudine della vicinanza a se stessi. Ma è anche l’esperienza dell’estraneità e dell’ostilità della montagna. In questa natura terribile, nel “vuoto della Creazione incompiuta”, l’uomo sente la propria inermità ed estraneità; la natura lo schiaccia, lo stesso respiro dell’uomo, diventato una funzione autonoma, non è più suo, sembra imposto dall’“aria azzurra e crudele [...] come una gravidanza”.69

Ma sono soprattutto i moderni combattimenti che coinvolgono chilometri di fronte e masse di soldati di dimensione fino ad allora impensabile, che si svolgono simultaneamente su piani diversi, senza che il singolo possa dominare – o solo comprendere – cosa sta accadendo, che per essere raccontati richiedono le forme dinamiche e le scomposizioni degli oggetti che erano state al centro delle sperimentazioni artistiche dei primi anni del Novecento.

Il mondo del fronte sembra quello descritto dalle avanguardie: la guerra appare come una iperbolica conferma della loro visione del mondo. Ma col procedere del conflitto a prevalere sono il caos, le mutilazioni, la morte, la distruzione: non più la simbiosi futurista tra uomo e macchina e nemmeno la decostruzione cubista come prodromo a una ricostruzione dell’universo, ma una decomposizione organica senza alcuna redenzione. Nel 1916, Giovanni Tiella, un artista trentino vicino ai futuristi, catturato sul fronte orientale e prigioniero dei russi, scrive:

Le arti del futuro dovranno essere di necessità vitali e non astrazioni paraboliche e iperboliche come le ultime espressioni artistiche prima della guerra: le arti dell’odio, della rabbia, della frenesia. Tutti questi fattori hanno avuto l’espressione più adeguata

64 Jünger, Tempeste d’acciaio, op. cit., pp. 161-162.

65 Filippo Tommaso Marinetti, Gli indomabili, in Id., Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 2001, pp. 922-923.

66 Jünger, Scritti politici, op. cit., vol. 1, p. 59.67 Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La

percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 367.

68 André Mare, Carnets de guerre, 1914–1918, Parigi, Herscher, 1996; più in generale per il rapporto tra camouflage e avanguardie artistiche si veda Tim Newark, Camouflage, Londra, Thames & Hudson, 2007.

69 Robert Musil, Pagine postume pubblicate in vita, Torino, Einaudi, 1981, pp. 36 e 40.

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52. Albin Egger-Lienz, Cartone per “I senzanome 1914”, 1916 53. Albin Egger-Lienz, Anno 1914, 192354. Albin Egger-Lienz, I senzanome 1914,

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a loro nella guerra. Che futurismo! Che astrattismo d’Egitto! Cosa sono queste chiacchiere? La granata che piomba e sconquassa è una forza ben più emotiva delle ragnatele di linee e di colori rattrappiti su 1 m/2 di tela.70

La Prima guerra mondiale è stata un’esperienza così sconvolgente che in qualche modo anche la pittura ammutolisce di fronte al compito immane di raccontare quella devastante trasformazione antropologica. Sono comunque i pittori espressionisti quelli che meglio riescono a raccontare le tempeste emotive degli uomini chiusi nel labirinto senza uscita del fronte e forse più di tutte sono emblematiche le litografie che Otto Dix ha raccolto nella serie di cartelle Der Krieg (ad es. tavv. 153, 194, 197-199, 203, 233, 259, 289, 293, 313, 315).

In corso d’opera alcuni hanno sostenuto che forse destinata a meglio rappresentare la tragedia della Grande guerra avrebbe potuto essere la nuova arte, il cinema. Certamente lo è stata la fotografia, con i giornali che già allora pubblicavano spesso fotografie scattate a dispetto della ferrea censura militare, antesignano dell’odierno utilizzo bulimico delle immagini. In ogni caso, come mostrano alcune esperienze storiche quali le mostre organizzate nel corso della Grande guerra, e come documenta questo volume, anche i pittori sono stati in grado di rappresentare e narrare il conflitto che ha mutato in modo irrevocabile il Novecento.

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70 Giovanni Tiella, “Lettera a Luigi Comai”, 28 giugno 1916, in Laboratorio di storia di Rovereto, La città mondo: Rovereto 1914-1918, Rovereto, Osiride, 1998, p. 358.