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Quæstiones disputatæ Collana di Studi a cura della Associazione Italiana di Filosofia della Religione 2

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Quæstiones disputatæ

Collana di Studi a cura dellaAssociazione Italiana di Filosofia della Religione

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Associazione Italiana di Filosofia della Religione (AIFR)

c/o Dip. di Filosofia – Università degli Studi di Salerno Via Ponte Don Melillo, 84084 Fisciano (SA)

tel. 089962450 – fax 089962442 c/c bancoposta n.29331162

in internet: http://www.aifr.it

per informazioni sui fascicoli della collana Quæstiones disputatæ e le altre attività della Associazione: [email protected]

Questo volume è stampato con il parziale contributodel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Salerno.

Nichilismo e questione del senso

Da Nietzsche a Derrida

ARACNE

Copyright © MMVARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 a/b00173 Roma

(06) 93781065fax (06) 72678427

ISBN 88–548–0103-5

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: giugno 2005

Indice

PREFAZIONE 7 Hagar Spano Friedrich Nietzsche. Tra finis christianismi e questione del senso 11

Edoardo Simonotti Il problema del nulla nel pensiero metafisico-religioso di Max Scheler 41

Claudio Belloni Franz Rosenzweig. Le tenebre e la stella 61

Pierfrancesco Stagi Filosofia dello spirito vivente. Nichilismo e domanda di senso nel giovane Heidegger 83

Stefano Santasilia L’agonia del sentire: Miguel De Unamuno 107

Paolo Diego Bubbio La scelta del senso. Gabriel Marcel e l’attraversamento del nichilismo 125

Claudio Bonaldi Hans Jonas e il nichilismo: alla ricerca di un paradigma antignostico 149

Antonio Valentini Nichilismo e tragedia. la questione del senso tra Lukács e Pareyson 165

Claudio Tarditi Decostruire la decostruzione. Différance, verità e nichilismo in Jacques Derrida 193

POSTFAZIONE di Marco Ravera 217

PREFAZIONE

Il presente volume è il risultato di una sollecitazione al dibattito che si è sprigionata da un gruppo di giovani studiosi legati alla Associazione Italiana di Filosofia della Religione (AIFR). Esso costituisce uno specimen esemplare di quel di-battito nell’agorà della nostra cultura italiana e europea che l’Associazione si prefigge di promuovere e sviluppare. Qui il tema toccato è forse uno dei più radicali che l’intelligenza umana abbia sollevato nel corso dei secoli e della cultura oc-cidentale; ma probabilmente esso affiora anche in altri conte-sti culturali. È il tema del nichilismo, che si ripercuote in quasi tutte le sue formulazioni, come si può evincere anche dai saggi qui raccolti, sulla questione del senso. Il tema è af-frontato dalle varie angolature prescelte dagli autori, scavan-do dentro la teorizzazione di un singolo filosofo, nell’arco di tempo che definisce la contemporaneità e che va da Nie-tzsche a Derrida. Questa carrellata teoretico-filosofica si conclude con una sorta di Streitschrift di Marco Ravera, che riprende, a mo’ di postfazione, la questione del nichilismo e la discute con piglio critico-polemico sulla scorta della rifles-sione di Luigi Pareyson, dietro la quale si profila l’ombra lunga della filosofia di Schelling.

Ma perché riproporre alla discussione la questione del ni-chilismo? Essa beninteso è diventata così corrente, direi qua-si abusata, nella letteratura filosofica da imporsi come nozio-ne dell’opinare medio; essa quindi viene accolta nella opi-nione pubblica della nostra cultura quasi senza l’aculeo, aporetico e tragico insieme, che l’accompagna. Nondimeno la sua riproposizione è motivata da dure ragioni specifiche. La prima è quella di operare un discernimento nella nozione

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stessa di nichilismo, la quale ricorre e viene utilizzata secon-do accezioni plurime molto distanti tra loro; esse dunque e-sprimono un impianto teorico di volta in volta bisognoso di giustificazione appropriata e distintiva. Perché la nozione stessa di nulla (nihil) su cui si impernia l’approccio del nichi-lismo ha un contenuto semantico molteplice, e dunque essa si presenta come una nozione plurivoca. In effetti la nozione di nulla è costituita da una negazione, e invero da una negazio-ne radicale che coinvolge la stessa realtà su cui opera la ne-gazione, così da togliere sì la realtà in questione ma senza che venga meno la realtà stessa del negativo. È come se, mi si passi un’analogia matematica ripresa dalla categoria delle grandezze negative (cfr. la discussione kantiana in proposi-to), un segno negativo fosse messo davanti a un reale (una grandezza); esso denota insieme la negazione di quella gran-dezza (quel reale) e l’affermazione di una grandezza (di un reale) distinta. Ora a seconda del reale su cui si esercita la negazione io ottengo un nulla nozionalmente differente. E su questo terreno assai infido su cui opera il linguaggio (la ra-gione logica) e il pensare (la ragione metafisica) sono possi-bili approcci notevolmente differenti alla questione del nichi-lismo, oltre naturalmente a dare spazio ai sofismi più com-plicati perché più inesplicabili, almeno in apparenza. Ecco perché vale la pena rifare i conti con la questione del nichili-smo. Di fatto sono almeno quattro le tipologie di nichilismo che sono in gioco nel dibattito contemporaneo, così come viene lumeggiato nei saggi di questo volume.

La prima tipologia è di impianto ontologico. Essa assume il nulla come non-essere, ossia come negazione dell’essere. Nella sua ottica una contraddizione viene tradotta in un’an-titesi, se non addirittura in un’antinomia. È l’antico sentiero percorso dallo gnosticismo; esso trova sempre di nuovo cultori del nulla disposti a inoltrarvisi. La seconda tipologia pensa il nulla come contingenza, come defettività assoluta della ragion d’essere. Ciò che non ha in sé la ragione del proprio essere è come quel reale che esercita bensì un atto d’essere, ma soltanto in quanto lo riceve da altro; e quindi

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«pende nel momento stesso in cui dipende» (Michelstaedter). È questo un nichilismo che si sporge sull’abisso della fini-tezza, e da questa abissale nullità desume la desertificazione assiologia del reale nonché l’assenza tanto del divino quanto di qualsiasi ragione di senso dell’esistere. La terza tipologia pensa il nulla come male radicale, vale a dire come negazio-ne assoluta (e perciò senza residui ontologici di alcuna sorta) del senso e del positivo assiologico. Qui l’abisso che si profi-la è quello del male, che quasi fosse un “buco nero” implosi-vi assorbe in sé, negandola, qualsiasi positività di senso. Si tratta sicuramente di una versione radicale, incline a una on-tologia negativa, del celebre motivo di cui Kant ha discusso nel suo scritto sulla religione. Infine la quarta tipologia si co-stituisce sulla base di una riflessione sulla libertà. Qui il nulla è attivato dall’esercizio della libertà, la quale è negazione di qualsiasi motivazione (o condizione antecedente) che la de-termini nel suo esercizio indifferente. Ma anche su questo crinale di una libertà che si esercita nell’indifferenza, e dun-que nella negazione di una motivazione determinante, si può aprire l’abisso del male, dello stigma del negativo impresso nella produzione attuata dalla determinazione della libertà. Peraltro tale determinazione può altresì imprimere lo stigma del bene e del positivo, e allora saremmo prospicienti all’altro versante del crinale della libertà che configura il mondo del divino (Schelling).

Come si può agevolmente rilevare, ciascuna di queste di-rezioni perseguite dal nichilismo tocca prima o poi, lo si vo-glia o meno, il problema della religione. E è questa la secon-da ragione che ci induce a riprendere e a rimettere in discus-sione la questione del nichilismo. Essa in effetti ha delle immediate ripercussioni, da qualsiasi angolatura la si affron-ti, sulla questione del senso. Questa, se anche si affaccia me-ramente in obliquo nella tematizzazione del nichilismo, risul-ta sempre intrinsecamente correlata a ciò che è oggetto dell’atto di negazione in cui si condensa il topos più proprio di quella tematizzazione. Anche se poi è vero che la questio-ne del senso riceva un’attenzione piuttosto sottodimensionata

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nella filosofia del nichilismo e nel dibattito che da essa si sviluppa. Peraltro la nozione di senso è una di quelle nozioni che pertengono all’asse centrale di una filosofia della reli-gione. Perché il senso è come la materia stessa distillata dall’esperire religioso. È chiaro allora perché e in che senso questo volume si inquadra nella serie Quaestiones disputatae promossa e curata dall’AIFR. La sua tematica in effetti attie-ne a uno di quei nodi problematici che formano l’asse di di-scussione della filosofia della religione.

Sergio Sorrentino Presidente AIFR

Hagar Spano

Friedrich Nietzsche. Tra finis christianismi e questione del senso

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Rm. 12,9

La presenza pressoché costante di Nietzsche nel quadro della cultura filosofica, teologica e letteraria dello scorso se-colo e la perdurevole influenza esercitata dalla sua riflessione hanno contribuito a conferire al filosofo sassone e al suo pensiero un carattere di eccezionale attualità. Il fatto non può risultare privo di interesse considerando che egli aveva pla-smato la propria identità di individuo, primaché di intellet-tuale, facendo perno proprio sulla natura radicalmente inat-tuale del proprio messaggio. E tuttavia Nietzsche deve essere stato senz’altro consapevole del destino di notorietà che lo avrebbe atteso, e che almeno in principio sarebbe stato for-temente amplificato dal tragico epilogo della sua complicata vicenda umana, se prima di inabissarsi nel mistero della de-menza non mancherà di affidare alle pagine di Ecce Homo il timore che in un futuro non troppo lontano la sua controversa e singolare figura di penseur de l’irrespect potrà nondimeno essere canonizzata1. Timore che risulterebbe in realtà infon-dato se lo si intendesse in modo distratto, se si ignorasse cioè il fatto che la “canonizzazione” alla quale propriamente egli si riferisce perlopiù riguarda la possibilità – a un tempo lieta e spaventevole – della complessiva attualizzazione del suo pensiero2. Un pensiero al quale, come il Nostro sovente asse-risce, «si confà unicamente il giorno seguente al domani»3.

Com’è noto il Novecento ha prepotentemente sottratto Nietzsche dal clima di disinteresse che salvo rarissime ecce-zioni lo aveva circondato negli anni antecedenti al tracollo psichico e che, come si evince dal suo epistolario, era per lui

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motivo di serio struggimento. Ma di fronte a certune derive di questa perdurevole Renaissance occorre pur domandarsi se l’ampia risonanza di cui la pagina nietzschiana ha goduto negli ultimi decenni e di cui gode ancora oggi non sia anche valsa a generare gravi incomprensioni di carattere storiogra-fico e teoretico. Del resto già nel 1894 Lou Andreas-Salomé denunciava così le prime avvisaglie del nascente culto: «Da quando la ristretta e dispersa schiera dei suoi consueti lettori, che sapevano leggerlo veramente, è diventata una vasta schiera di seguaci; da quando ampie cerchie si sono impa-dronite di lui, gli è capitata la sorte che minaccia ogni scritto-re di aforismi: alcune singole idee, isolate dal contesto e per-ciò interpretabili a piacere, sono state ridotte a motti e parole d’ordine di tutte le tendenze, risuonano nella battaglia delle idee, nei dibattiti di parte da cui Nietzsche era completamen-te estraneo»4.

Le incomprensioni riguardanti il pensiero nietzschiano si affollano in misura non trascurabile sul delicato terreno della critica religiosa. E del suo costante e controverso confronto con il cristianesimo si sono infatti occupati autorevoli inter-preti, molti dei quali succedutisi nel solco di una tendenza storiografica inaugurata da Ernst Benz5 nei primi anni della recezione dell’opus nietzschiano e fiorita in via definitiva at-torno alla metà del secolo scorso. Anche in considerazione di questi numerosi studi non può sorprendere che una analisi abbastanza attenta della Rezeptionsgeschichte degli scritti di Nietzsche nel quadro della cultura novecentesca documenti, assieme alla sua straordinaria incidenza sul piano filosofico e letterario (ma anche politico e artistico), la robusta influenza esercitata sul dibattito teologico. Influenza che da Kalthoff a Barth, da Bonhoeffer a Mounier, da Marcel a Jüngel, non dimenticando Altizer e gli esponenti della teologia radicale, ha inevitabilmente condizionato l’originaria intelligenza del-la sua teoresi.

E tuttavia molti interrogativi continuano a accompagnare l’interpretazione degli scritti nietzschiani. Non possiamo qui ricostruire la storia della loro ricezione, per la quale riman-

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diamo il lettore a una vastissima letteratura critica, ma alme-no sollevare alcuni dubbi sulla opzione autenticamente reli-giosa che, largamente presente al loro interno, è stata spesso trascurata dagli interpreti. A cominciare naturalmente dalla lettura, per tanti versi penetrante ma fuorviante per altri, pro-posta da Martin Heidegger. Pur avendo infatti documentato il rilievo concretamente filosofico e non solo lirico o retorico della filosofia nietzschiana, egli ha nondimeno mancato di cogliere il significato complessivo di un tema, quello della “morte di Dio”, che in essa ha una funzione di preminenza. E che di fatto alimenta la rumorosa interrogazione di carattere soteriologico, la vibrante domanda di senso, in cui si risolve l’intero itinerario umano e intellettuale di Nietzsche.

1. Heidegger come problema? Il peso della interpretazione heideggeriana sulle vicende

della Nietzsche-Forschung è eccezionale6. Ma non soltanto perché Heidegger ha contribuito in un momento storicamente decisivo a ricollocare sul piano precipuamente teoretico una riflessione che nel tumultuoso clima politico della Germania degli anni Venti andava rivelandosi straordinariamente vul-nerabile a strumentalizzazioni di ogni genere7. E neanche perché il costante confronto con il filosofo sassone, che per Heidegger ha evidentemente costituito «un difficile problema ermeneutico»8, deve avergli senz’altro consentito di chiarire alcuni nodi aporetici della propria riflessione. Diversamente, l’incidenza della lettura heideggeriana è rimarchevole in quanto essa ha saputo imprimere una determinata direzione alla ricerca sui testi nietzschiani – quella che ha legato il no-me di Nietzsche al compimento della metafisica occidentale – e ne ha parimenti privilegiato alcuni luoghi rispetto a altri (il Nachlaß degli anni Ottanta, con particolare riferimento agli appunti destinati al piano della Volontà di potenza) 9. E tuttavia se è vero che, come Heidegger suggerisce, occorre accostare Nietzsche a Aristotele, occorre ravvisare cioè nella

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pagina nietzschiana una preoccupazione anzitutto ontologica e riconoscervi pertanto l’impronta della tradizione metafisica occidentale, è altrettanto verosimile che, come pure notava Martin Buber in Gottesfinsternis, una interpretazione come quella di Heidegger tenda inevitabilmente a soffocare alcuni aspetti indicativi del testo nietzschiano a vantaggio di altri.

Com’è noto la lettura che l’autore di Messkirch propone della filosofia nietzschiana si deposita perlopiù nei due densi volumi del Nietzsche10, pubblicati nel 1961 ma risalenti al periodo 1936-1946 e riconducibili in larga parte all’attività didattica svolta in cinque semestri presso l’Università di Fri-burgo in Brisgovia. In queste pagine, è stato a ragione notato, la genealogia heideggeriana si traduce sostanzialmente «in un abbozzo di filosofia della storia: dall’idea platonica del Bene al concetto scolastico di Dio, dal sub-jectum cartesiano sino al Wille nietzschiano è una medesima concezione dell’essere che si afferma […]. Nietzsche è la verità del pla-tonismo come della moderna metafisica della soggettività perché è la più compiuta espressione dell’abbandono dell’essere, dell’oblio dell’essere per l’ente»11. Nietzsche rappresenta cioè la Vollendung della metafisica occidentale non tanto, o comunque non solo, perché «eredita il pensiero del passato e lo perfeziona, lo completa, ma in quanto è la verità [stessa] del pensiero passato […]. È la verità del pen-siero del passato perché ne disvela la legge nascosta»12.

Nel Nietzsche così come, in forma riassuntiva, in quel celebre brano sul Nietzsches Wort “Gott ist tot” contenuto in Holzwege (1950), Heidegger fornisce in realtà alcuni indizi metodologici di estremo interesse. Egli premette infatti che il proposito di «prendere sul serio Nietzsche come pensatore»13 può essere realizzato soltanto mediante una riflessione com-plessiva sulla sua metafisica, laddove con ciò non si intende prediligere una parte specifica del suo pensiero rispetto alle altre (etica, gnoseologia, ecc.) ma coglierne vieppiù l’essenza stessa. Essenza che è principalmente “onto-logica”, nel senso della rappresentazione dell’ente in quanto ente, e perciò “me-tafisica”, riconducibile cioè a quella Seinsvergessenheit che è

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caratteristica della tradizione filosofica occidentale (la quale ha bensì pensato l’ente rispetto al suo essere ma non la verità di quest’ultimo). Queste considerazioni iniziali ci consentono di riconoscere il nesso che almeno nei propositi intercorre tra l’indagine della teoresi nietzschiana che Heidegger compie a partire dalla seconda metà degli anni Trenta e le pagine della sua Hauptschrift, Essere e tempo. Come egli ribadirà infatti anche nella Lettera sull’umanismo (1946) è «nell’ambito di quella esperienza di pensiero in base alla quale fu pensato Sein und Zeit»14 che matura la sua personale comprensione della filosofia nietzschiana. E tuttavia proprio ciò rappresenta forse il limite maggiore della sua lettura, giacché la teoresi di Nietzsche, lungi dall’essere accolta sulla base esclusiva delle problematiche che essa solleva, si configura vieppiù come il laboratorio all’interno del quale la Fundamentalontologie heideggeriana trova applicazione15. E un esempio di quanto andiamo dicendo è costituito proprio dalla analisi che Hei-degger pratica del tema della “morte di Dio”.

Nelle pagine di Holzwege dedicate a questo specifico ar-gomento egli rileva a ragione che esso ha una genesi remota nella prospettiva degli scritti nietzschiani. E pertanto risale alle annotazioni scritte dal Sassone al tempo de La nascita della tragedia, formulando su questa base un paragone con l’analoga espressione usata da Hegel in Glauben und Wissen (1802). La formula hegeliana e quella nietzschiana non han-no il medesimo significato – osserva Heidegger – ma tra esse sussiste nondimeno «una connessione fondamentale, che si radica nell’essenza di ogni metafisica»16. E tuttavia, poiché il tema del confronto tra Nietzsche e Hegel non viene esplicato, Heidegger anzi passa all’analisi del noto aforisma 125 de La gaia scienza che pure viene interpretato in chiave esclusiva-mente metafisica, si è indotti a supporre che la “connessione fondamentale” di cui egli parla e che accomunerebbe le due distinte formulazioni in questione debba essere riconosciuta nel fatto che ambedue afferiscono alla destituzione, idealisti-ca nel caso di Hegel e nichilistica in quello nietzschiano, del mondo sovrasensibile. È infatti attraverso tale destituzione

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che Heidegger è solito spiegare l’argomento della “morte di Dio”. Di conseguenza, dall’analisi dell’af. 125 de La gaia scienza, egli ricava coerentemente le seguenti conclusioni:

Da questo passo risulta chiaro che l’affermazione di

Nietzsche circa la morte di Dio riguarda il Dio cristiano. Ma è altrettanto certo, e da tener presente fin d’ora, che le espressioni “Dio” e “Dio cristiano” sono usate nel pensie-ro di Nietzsche per indicare il mondo sovrasensibile in generale. “Dio” è il termine per designare il mondo delle idee e degli ideali.17 La lettura heideggeriana di questo brano è estremamente

lucida. E tuttavia non si comprende la natura del passaggio dall’accezione genuinamente religiosa (e non ontoteologica) a quella metafisica della nozione di Dio, oscillazione che for-se tradisce l’equivalenza che per Nietzsche caratterizzerebbe fede in Dio e fede nella verità. Beninteso, una chiave di lettu-ra di questo tipo coglie senz’altro un aspetto importante della riflessione del Sassone, quello che propriamente sottende alla pars destruens di tale pensiero e che, pur presente allo stato embrionale nelle pubblicazioni giovanili, emergerà con mag-giore vigore negli scritti del cosiddetto Nietzsche “mediano” (1878-1882). Nondimeno, come avremo modo di vedere nel confronto diretto con i testi, ne organizza una comprensione solo parziale. Avendo infatti qualificato preliminarmente la “morte di Dio” con la perdita di forza normativa del mondo ultrasensibile delle idee e degli ideali, Heidegger ha buon gioco nell’asserire che all’uomo non resta più nulla a cui egli «possa attenersi e secondo cui possa regolarsi»18. È anzi pro-prio la constatazione del dilagare di questo “nulla”, del fatto cioè che l’indesiderato ospite ormai steht vor der Tür

19 e vi batta minacciosamente, ciò che la sentenza del folle intende denunciare. Si capisce conseguentemente perché alla base della interpretazione heideggeriana vi sia uno schema erme-neutico di questo tipo: il tema della “morte di Dio” suggeri-sce l’analisi del fenomeno del nichilismo, che per Heidegger

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lungi dall’essere un carattere dell’epoca attuale è piuttosto il “movimento fondamentale” della storia occidentale – la sua interna logica – avente un fondamento essenziale nella tradi-zione metafisica che è dimentica della verità dell’essere. L’interrogazione sul nichilismo, che ruota sulla definizione che di esso fornisce lo stesso Nietzsche in una nota del 1887 destinata al piano del Wille zur Macht in cui fa riferimento alla trasvalutazione di tutti i valori, richiama l’analisi di que-sti stessi valori e per il loro tramite della nozione di “volontà di potenza” (ciò che li pone). Quest’ultima nozione, rileva Heidegger, è un plesso cruciale della filosofia definitiva di Nietzsche, la quale di conseguenza può essere definita come una metafisica (nella sconveniente accezione heideggeriana) della volontà di potenza. Tuttavia il nesso che lega questa importante nozione della filosofia del Nietzsche maturo e quei valori della cui trasvalutazione è artefice il nichilismo è individuato attraverso un’ampia indagine del concetto di vo-lontà che, ancorché assai convincente, non tiene però conto del retroterra schopenhaueriano della teoresi nietzschiana. Di conseguenza, dalla analisi e definizione della “volontà di po-tenza” come ciò che pone i valori (intesi come condizioni di conservazione-accrescimento del vivente), emerge solo con difficoltà un carattere peculiare della riflessione del Sassone. Si tratta del costante sforzo teoretico che egli compie in tutti gli scritti degli anni Ottanta nel tentativo di superare quel “pessimismo della debolezza” che ascriverà all’antico mae-stro Schopenhauer – e al cristianesimo come décadence – e che nell’aforisma 370 de La gaia scienza verrà contrapposto a un dionisiaco «pessimismo dell’avvenire»20. Di fatto nella costante e sofferta intenzione di individuare alternative, di rifondare dalle ceneri di quanto dissolto, si identifica una tendenza peculiare della filosofia matura di Nietzsche il cui tratto saliente, come Karl Löwith ha asserito riferendosi all’annuncio della “morte di Dio”, lungi dal coincidere con l’annuncio stesso corrisponde vieppiù al tentativo di supera-re il nichilismo che vi si cela21.

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Ma ciò che più conta è che alla fine del complesso itine-rario argomentativo attraverso cui Heidegger configura una ricognizione generale sulla filosofia nietzschiana inquadran-done in maniera sistematica i temi centrali e segnalandone la natura essenzialmente metafisica, viene ancora da chiedersi: che ne è del “Dio cristiano”? Di quel «Dio sconosciuto»22 che in maniera suggestiva Nietzsche invoca all’inizio e alla fine della propria tormentata vicenda umana e intellettuale e che soltanto attraverso una coraggiosa manovra ermeneutica potremmo identificare col “mondo ultrasensibile delle idee”.

Dunque Heidegger ha documentato il rilievo filosofico della riflessione nietzschiana, individuandone un elemento decisivo nella critica a cui il Sassone sottopone la fede meta-fisica nella verità, e ne ha offerto in pari tempo una penetran-te interpretazione di insieme di impianto genealogico e non puramente storiografico. Sulla base di essa egli perverrà alla considerazione secondo cui l’essenza del nichilismo (e della metafisica, che è fondamentalmente nichilistica) risiede nel fatto che nell’apparire stesso dell’ente come tale, ne è nulla dell’essere e della sua verità. E Nietzsche, che resta un pen-satore metafisico nella misura in cui anche nell’architettura noetica di una metafisica della volontà di potenza l’essere è pensato come valore (e dunque non è lasciato-essere nel suo sorgere e dischiudersi di fronte all’uomo), ha bensì intuito con prontezza «alcuni tratti del nichilismo, ma li ha spiegati nichilisticamente»23. Nello stesso modo cioè in cui la metafi-sica non può che comprendere metafisicamente la propria essenza, che riposa nell’elemento della Seinsvergessenheit, così Nietzsche in qualità di «primo grande profeta e teorico del nichilismo»24 non ha potuto che comprendere nichilisti-camente questo fenomeno configurandone bensì una Ver-windung, attraverso la trasvalutazione dei valori, ma non un autentico superamento (Überwindung). E tuttavia, di contro a pur importanti meriti, Heidegger ha il demerito di tenere in scarsa considerazione quei plessi problematici che, non im-mediatamente riconducibili alla Seinsfrage, si rivelano pur tuttavia come aspetti peculiari della teoresi nietzschiana.

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Intorno al tema del Tod Gottes la lettura heideggeriana è precipuamente orientata all’aforisma 125 de La gaia scienza, benché questo stesso tema sia abbondantemente presente lungo tutto l’arco della produzione nietzschiana ancorché in forme assai differenti. Ma nelle pagine di Holzwege dedicate in maniera specifica a questo argomento nonché nel saggio sulla figura di Zarathustra raccolto in Vorträge und Aufsätze ricorre talora anche una diversa, e più esaustiva, riflessione sull’argomento. A margine della ricostruzione ontologico-fondamentale della filosofia nietzschiana, e in un senso che come rileva Karl Jaspers sarebbe stato fruttuoso sviluppare, in riferimento all’af. 125 in queste pagine Heidegger trova infatti il modo di tematizzare altresì: a) la radicale estraneità del folle accorso al mercato rispetto a coloro i quali già vi si trovano; b) la non corrispondenza tra l’annuncio della morte di Dio e «un atteggiamento di negazione e di astio, quasi si-gnificasse: “Non c’è alcun Dio”»25, bensì di sdegno. E infine egli può osservare che c) per la folla che riceve il tremendo annuncio, Dio è diventato non-credibile soltanto nella misura in cui essi non sono più in grado di cercarlo. Per contro, e lo si tenga in considerazione, è nota l’espressione con la quale esordisce il “folle”: «Cerco Dio! Cerco Dio!»26. Alla luce di questi rilievi non sorprende che in un significativo luogo del noto Humanismusbrief, replicando al proprio interlocutore in merito alla possibilità di conferire nuovamente un senso al vocabolo “umanismo”, conferimento che per Heidegger può attuarsi soltanto attraverso una preliminare rideterminazione (una Wiederbestimmung) del senso stesso, egli affermerà tra l’altro: «Poiché ci si rifà al detto di Nietzsche sulla “morte di Dio”, si dichiara tale posizione ateismo. Che cosa c’è infatti di più logico del fatto che chi ha esperito la “morte di Dio” sia un senza-Dio?»27. Beninteso, il quadro teoretico in cui si situeranno queste considerazioni sull’ateismo nietzschiano è quello di una severa critica rivolta all’essenza (metafisica) dell’umanismo correntemente inteso. Lungi dall’occuparsi in modo specifico di Nietzsche, in queste battute Heidegger è piuttosto interessato a rimarcare il carattere esiziale di tutti

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quei fraintendimenti del pensiero che, alimentati «con l’aiuto della logica tanto invocata e della ratio»28, logica che si sot-trae al compito di interrogarsi sull’essenza del lovgo"allo stesso modo in cui la metafisica rinuncia a indagare la verità dell’essere, ostacolano l’interrogazione avviata nelle pagine di Sein und Zeit. E tuttavia, seppur in controluce, da queste righe emerge anche uno specifico rilievo intorno alla natura “problematica” dell’ateismo nietzschiano. Rilievo che merita di essere tenuto in considerazione. 2. « O große Not ! Gott selbst ist tot »

Un attento confronto con la complessiva produzione filo-sofica di Nietzsche consente di verificare che il tema della “morte di Dio” non viene sviluppato in maniera uniforme. Esso appare non meno di trenta volte nei suoi scritti, ricor-rendo sin dai primi saggi filosofici e riaffiorando in forma sempre rinnovata attraverso le differenti stagioni della sua tormentata maturazione intellettuale. È di fatto lungo questo cammino che l’argomento acquisisce le molteplici sfumature di significato che ne rendono particolarmente difficile una determinazione univoca.

Ma un altro aspetto da non trascurare è dato dal fatto che il tema del Tod Gottes esprime una precisa “identità noetica”, ricorrente in Nietzsche come negli autori che lo precedono. Si diceva che nell’interpretazione di carattere ontologico che Heidegger fornisce della pagina nietzschiana, e segnatamente del tema della morte di Dio, non manca certo un riferimento a Hegel e all’analoga formulazione che nel 1802 questi affi-da alle pagine conclusive di Glauben und Wissen. Ebbene, nel quadro della ricostruzione “genealogica” della tradizione metafisica occidentale, heideggerianamente intesa come un lungo succedersi di incomprensioni nel segno della dimenti-canza dell’essere, la teoresi nietzschiana si configura come l’orizzonte a partire dal quale è dato di comprendere tutta la

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riflessione precedente, ossia di disvelarne l’interna logica. E pertanto proprio «in quanto l’essere dell’ente è stato pensato come nisus, appetitus et repraesentatio»29, a partire dal Wille nietzschiano vengono contestualizzati da Heidegger l’ego cogito (quale ego volo) o la monade leibniziana (che è ens percipiens et appetens) o ancora la deduzione kantiana delle categorie – che nella pretesa di oggettiva validità risponde a giudizio di Heidegger a una medesima volontà di dominio (sull’ens). In questa prospettiva di carattere genealogico la teoresi di Hegel non riflette il compimento della metafisica, ma solo l’inizio di tale compimento, ché «nella assolutezza dello spirito hegeliano, che è unità di sapere e volere, ciò che prevale è il sapere, il rappresentare, non già il volere»30.

E però, benché Heidegger non prenda in considerazione questo aspetto, è evidente che di là da pur penetranti analisi di natura precipuamente onto-logica altrettanto degno di nota è il fatto che la dialettica della filosofia hegeliana, incentrata sulla autoalienazione dell’Assoluto e sulla sua realizzazione come Spirito mediante l’assunzione in sé del negativo (la cui rappresentazione simbolica è data appunto dalla “morte di Dio”), coincide sostanzialmente con la dottrina cristiana dell’Incarnazione. La dottrina secondo cui, alienandosi nell’uomo e diventando «simile agli uomini» (Fil. 2,7), Dio muore come l’uomo per essere con l’uomo. Secondo Hegel infatti è proprio accogliendo questa idea dell’autoalienazione di Dio che quella cristiana si configura come “religione asso-luta”. E in Glauben und Wissen egli non mancherà perciò di significare il sentimento che Dio stesso è morto, sentimento sul quale riposa la religione dei moderni, come una forma specifica di Entäusserung dell’Assoluto, vale a dire come il momento negativo nella dialettica della vita divina.

Si ricorderà parimenti che, in una significativa nota che accompagna la celebre Rede des toten Christus vom Weltge-bäude herab, daß kein Gott sei del 1796, discorso in cui in forma onirica Jean Paul intese ritrarre l’anima nichilistica della modernità, egli confessa nondimeno: «Se mai un giorno il mio cuore fosse infelice e spento, al punto tale che ogni

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sentimento che afferma l’esistenza di Dio vi fosse distrutto, allora, grazie a questo mio scritto, mi riscuoterei – ed esso mi risanerebbe e mi restituirebbe quei sentimenti»31. E se a ciò aggiungiamo che il tema della “morte di Dio” era largamente diffuso anche in ambito liturgico, si pensi a titolo di esempio al celebre Lied intitolato O Traurigkeit, O Herzeleid! che il pastore evangelico Johannes von Rist compose attorno al 1641 sulla base di alcune strofe scritte alcuni anni prima da Friedrich von Spee, si comprende che la particolare identità noetica di cui andiamo dicendo, la quale sottende alle diverse rielaborazioni dell’argomento del Tod Gottes, suggerisce la collocazione di tutti gli autori menzionati in una prospettiva autenticamente cristiana. O meglio, nel clima caratteristico della religiosità protestante. È noto infatti che Lutero per primo attirò l’attenzione su quel carattere del dogma della Incarnazione secondo cui nella persona di Cristo vi è reale compenetrazione (communicatio idiomatum) tra la natura umana e quella divina. Sicché, se le proprietà dell’una val-gono anche per l’altra e se dunque l’immortalità non afferi-sce solo alla natura divina del Salvatore ma anche a quella umana, la morte interesserà conseguentemente non solo l’umanità di Cristo ma anche la sua divinità.

È questa la ragione per la quale nella seconda strofa del proprio Lied Rist scrive: «O große Not! Gott selbst ist tot»32, sottolineando cioè il fatto che è Dio stesso e non già la sua umanità a morire in croce («Am Kreuz ist er gestorben»). 3. Sulla “morte di dio”. Un mutamento di paradigma

Nel discusso, e discutibile, Gospel of Christian Atheism (1960) Thomas Altizer asserisce che «se vi è una chiara via d’accesso al ventesimo secolo, essa consiste nel passare at-traverso la morte di Dio, attraverso il crollo di ogni significa-to o realtà posta al di là della radicale immanenza recente-mente scoperta dall’uomo moderno: un’immanenza che dis-solve perfino il ricordo o l’ombra della trascendenza»33.

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Queste considerazioni formulate dal teologo statunitense at-testano in modo estremamente indicativo la straordinaria (e trasversale) incidenza esercitata dalla lettura heideggeriana di Nietzsche. Nel significare infatti la “morte di Dio” nel senso precipuo della perdita della trascendenza, Altizer pare ricol-legarsi alla lettura heideggeriana secondo cui tale evento è espressione della nostra civiltà europea, la cui metafisica ha inteso Dio come sommo valore e successivamente scoperto di poterne fare anche a meno; si è cioè accorta «di non aver bisogno di un ente immutabile trascendente»34. E tuttavia, come abbiamo già avuto modo di premettere, benché per molti versi appropriata, una simile interpretazione dell’argomento nietzschiano del Tod Gottes manca di com-prenderne il significato complessivo.

Più efficace ci sembra a tal proposito la lettura suggerita da alcuni altri interpreti, Norbert Schiffers o Bernhard Welte per esempio, che se riconoscono senz’altro la perspicuità del-la lettura onto-logica suggerita da Heidegger la ricollocano nondimeno in una più ampia cornice ermeneutica. La nie-tzschiana “morte di Dio” esprime infatti almeno tre distinti significati che intrecciandosi problematicamente ne rendono estremamente ardua un’esatta identificazione. Propriamente tale annuncio afferisce: a) alla destituzione del Dio della me-tafisica; b) a quella del Dio dei moralisti; c) alla morte del Dio cristiano vero e proprio. Il che equivale a dire che la rappresentazione di Dio che ci è stata tramandata dalla tradi-zione filosofica e religiosa occidentale viene superata per mezzo di una critica del suo fondamento metafisico, morale e religioso. Come infatti ammonisce Zarathustra: «Quando gli dèi muoiono, muoiono sempre di morti di molte specie»35.

In Nietzsche l’annuncio della morte di Dio assume un si-gnificato estremamente problematico. Se è infatti vero che egli è il pensatore della “maledizione” del cristianesimo, di un’avversione che matura attorno alla metà degli anni Settan-ta e si deposita con rinnovato vigore nelle pagine degli ultimi scritti, nei quali «un’agitazione febbrile e una passionalità sporadica affollano sempre più le righe»36, è del resto altresì

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chiaro che per il filosofo sassone, lungi dal delinearsi quella condizione di sereno disinteresse verso la questione religiosa che generalmente accompagna le più consuete espressioni di ateismo, «la negazione di Dio e del cristianesimo è un dram-ma, una sofferenza, un problema costante e centrale, una ve-ra e propria ossessione»37. L’annuncio della morte di Dio, un fattore determinante per la comprensione del rapporto tra Nietzsche e il cristianesimo, attraversa l’intera produzione del Nostro e costituisce di conseguenza un vettore oltremodo significativo della sua maturazione intellettuale e spirituale. Maturazione che conoscerà almeno tre fasi distinte, durante le quali diversa si rivelerà di fatto l’intelligenza nietzschiana di tale tema: v’è un momento iniziale, per così dire inattuale, in cui la sua teoresi è notoriamente condizionata dalle personalità di Schopenhauer e Wagner e si configura in via principale come una Kulturkritik di impianto estetico; solo successivamente, durante il “periodo illuministico” (quando il Nostro maturerà una più convinta e articolata critica di carattere genealogico della morale e della religione, sulla base del presupposto secondo cui esse derivano perlopiù da «un errore nell’interpretazione di determinati processi naturali, una confusione dell’intelletto»38), l’argomento della morte di Dio si caricherà di un significato più pregnante e comunque ancora plurivoco; infine il periodo di redazione dello Zarathustra e degli scritti correlati, che coincide con la vera e propria pars costruens della filosofia di Nietzsche, conferirà al tema del Tod Gottes una più chiara fisionomia proiettandolo sullo sfondo degli argomenti portanti della ri-flessione matura: la volontà di potenza, l’eterno ritorno e il superuomo.

È dunque ne La nascita della tragedia e negli appunti che precedono e accompagnano la redazione di questo scritto che si attestano le primissime considerazioni sul tema. Invero qui Nietzsche non si riferisce esplicitamente al Dio cristiano, nulla lascia pertanto intendere che egli voglia proclamarne la morte in uno dei sensi – metafisico, morale o religioso – menzionati in precedenza. Viceversa egli fa riferimento al

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noto motto plutarcheo, contenuto nel De defectu oraculorum e citato anche da Pascal, secondo cui «il grande Pan è mor-to», nonché alla “credenza degli antichi germani” secondo la quale «tutti gli Dèi devono morire» (5[115,116]1870/71). In questo modo Nietzsche intende riservare alla religione una critica che, benché ancora assai generica, fa nondimeno leva su due temi che in misura differente ricorreranno anche nella riflessione matura documentando perciò una insospettabile continuità teoretica. La morte di Pan indica infatti in chiave nietzschiana null’altro che il tramonto del pensiero tragico a opera di quello razionalistico di tipo socratico-euripideo; e la contrapposizione latente tra monoteismo e politeismo, veico-lata inizialmente dal ricupero dell’antica credenza germanica secondo cui tutti gli dèi devono morire, sarà ripresa in forma ampliata nelle pagine di molti degli scritti successivi, da La gaia Scienza alla Genealogia della morale, riaffiorando in maniera particolarmente suggestiva nello Zarathustra39. Qui infatti il Sassone, preoccupato precipuamente dalla domanda di senso dell’uomo e dal problema della sofferenza umana (problema che ispirerà costantemente la sua critica di ogni teleologismo morale e delle falsificazioni operate dalla teo-dicea), riconoscerà che il politeismo antico esprime in modo più autentico il senso del divino nella misura in cui una mol-teplicità di dèi è espressione più fedele della complessità e profondità dell’esistenza umana40.

E tuttavia è proprio negli scritti dei primi anni Ottanta, e in particolar modo ne La gaia scienza, vale a dire in quel saggio che ha un ruolo centrale nell’opera nietzschiana «non soltanto nel senso esteriore di occupare una posizione me-diana entro la sua produzione letteraria, ma anche nel signifi-cato più sottile di inserirsi tra i suoi scritti come un magico momento di equilibrio»41, che emerge una più chiara intelli-genza dell’evento deicida. Del resto in questi scritti la dia-gnosi della morte di Dio si accompagna vieppiù all’analisi delle sue possibili cause. Già in Aurora infatti Nietzsche ha registrato, in un senso che forse risente del condizionamento intellettuale esercitato dall’amico Franz Overbeck e che di

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fatto si ripresenterà anche in Al di là del bene e del male e ne La genealogia della morale, il fenomeno della progressiva “semplificazione” della religione (che va riducendosi a «un morbido moralismo»42) e del suo graduale ma inarrestabile “svuotamento” in una modernità in cui è sempre più diffusa una mentalità di carattere scientifico. È dunque ne La gaia scienza, ossia nello scritto che ospita in nuce la quasi totalità degli argomenti nietzschiani dell’ultimo periodo e che nei contenuti si presenta come complementare rispetto allo Zara-thustra (del cui Prologo anticipa pure un primo abbozzo), che prende forma in modo più soddisfacente la complessiva fenomenologia nietzschiana del Tod Gottes. Ma il luogo di questo scritto che probabilmente occorre interrogare al fine di analizzare l’ateismo nietzschiano e il significato autentico dell’annuncio della “morte di Dio”, piuttosto che il celebre aforisma 125, è quello contrassegnato dal numero 343. Esso si colloca in apertura del libro quinto, il libro intitolato Noi senza paura che fu aggiunto ai primi quattro soltanto nella seconda edizione (1887) assieme a una nuova Prefazione e alle Canzoni del principe Vogelfrei. Esso ritrae il mutato clima spirituale nel quale doveva versare il filosofo sassone negli anni che hanno di poco preceduto il crollo psichico.

L’aforisma 343, che pure è dallo Heidegger di Holzwege interpretato con esclusivo riferimento alla destituzione della sfera sovrasensibile, compendia a nostro modo di vedere tut-te le sfumature di significato che si depositano nel tema nie-tzschiano del Tod Gottes: quella metafisica, quella morale e quella religiosa. Dopo aver definito la morte di Dio come «il più grande avvenimento recente»43, e averne individuato un primo senso nel fatto che «la fede nel Dio cristiano è divenu-ta inaccettabile», Nietzsche opera infatti alcune significative precisazioni: a) coloro che sono abbastanza diffidenti e ac-corti per questo spettacolo, avranno l’impressione che «un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro il vecchio mondo dovrà sembrare […] più antico»44; b) questo evento, che si sottrae alla capacità di comprensione dei più «perché possa

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dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso», produce conseguenze più estese nella misura in cui coinvolge «tutto ciò che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito e in essa aveva trovato il suo appoggio»45; c) alla notizia della “morte di Dio” invero «ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora: il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, di attesa»46.

Se la prima di queste tre istanze sembra suffragare l’interpretazione heideggeriana, le successive due conferi-scono alla pagina nietzschiana un significato ulteriore. Se è vero infatti che Nietzsche utilizza, qui e altrove47, la metafora platonica del sole e fa altresì riferimento a una antica e pro-fonda fiducia andata smarrita, riferendosi presumibilmente alla fede di carattere metafisico nella verità; se è inoltre evi-dente che, come nell’af. 108 de La gaia scienza dove è in questione la deriva del “nichilismo incompiuto”, il Nostro parla nuovamente il linguaggio metaforico del grande filoso-fo ateniese per asserire che la morte di Dio non impedirà ai più di continuare a additarne ancora per millenni l’ombra nelle caverne; e se è chiaro infine che la formula secondo cui «il mondo dovrà sembrare più antico» a null’altro sembra alludere che al ritorno a uno stadio (pre-platonico e quindi tragico) di affermazione della vita, giacché dal punto di vista di Nietzsche attorno al Dio plato-cristiano «la miseria del mondo viene ridotta a menzogna, perché il mondo “vero”, divino, smentisce la tragedia del mondo»48; ebbene, se pure la pagina nietzschiana autorizza tutte queste letture di tenore per così dire heideggeriano, è parimenti legittimo supporre che in essa si celi un significato più complesso. Del resto lo stesso Nietzsche, nell’af. 346 intitolato significativamente Il nostro interrogativo e volto a mettere in questione quel «mondo in cui siamo stati fino a oggi di casa con le nostre venerazioni»49, affermerà poco dopo: «Che siamo noi allora? Se volessimo semplicemente, con una espressione più anti-quata, chiamarci atei o miscredenti o anche immoralisti, sa-remmo ancora assai lontani dal ritenerci qualificati con que-

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ste parole: noi siamo tutte e tre le cose in uno stadio troppo avanzato perché si comprenda […] in che stato d’animo ci si sia venuti a trovare»50. E in un celebre luogo di Al di là del bene e del male, che necessiterebbe essere tenuto in conside-razione come monito nella lettura delle opere nietzschiane, egli confesserà: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera […]. Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e, più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continua-mente una maschera»51. Il che, come pure è stato osservato, può senz’altro significare: «Non prendetemi alla lettera; può darsi anzi che quello che io penso sia l’opposto di quello che dico»52, nel senso che per il filosofo dello Zarathustra, come è noto, «ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni o-pinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una ma-schera»53.

Dunque è legittimo ritenere che accanto a un significato ontologico, come è quello segnalato da Martin Heidegger, se ne possano rilevare almeno altri due: l’uno, a nostro parere il più fecondo, afferisce alla dimensione morale; l’altro evoca uno scenario più autenticamente religioso. Beninteso, nel Tod Gottes nietzschiano la dimensione morale e quella più propriamente religiosa non emergono in maniera distinta ma si intrecciano tra loro rendendo complicata l’intelligenza del problema. E un valido esempio di ciò è costituito proprio dall’aforisma 343, dove queste due dimensioni si depositano accanto alla istanza propriamente ontologica. Qui Nietzsche dubita del fatto che coloro i quali hanno assistito all’evento della morte di Dio siano capaci di comprenderne appieno la portata e soggiunge che, «sepolta questa fede»54, dovrà crol-lare tutto ciò che su di essa era stato costruito. Ma se ci do-mandiamo cosa era cresciuto dentro questa fede e «in essa aveva trovato il suo appoggio»55, Nietzsche non ha dubbi: «Tutta la nostra morale europea»56. E non dev’essere un fatto del tutto accidentale questo, che nei paragrafi che fanno se-guito ai due brani che ne La gaia scienza tematizzano in ma-niera esplicita la morte di Dio, vale a dire il 125 e il 343, il Sassone si occupa prevalentemente della morale cristiana57 e

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di quel dannoso «istinto della debolezza»58 che nel quadro noetico della Genealogie verrà poi ricondotto alla “morale degli schiavi”. È propriamente nell’af. 345 che, sulla scorta della distinzione tra pensatori che avvertono in maniera di-staccata i propri problemi e pensatori che viceversa li vivono personalmente così da trovare in essi il proprio destino, egli ammette chiaramente quale sia per lui il problema autentico: «Com’è, allora, che non ho ancora incontrato nessuno, nep-pure nei libri, che si mettesse come persona in questa posi-zione di fronte alla morale, che sentisse nella morale un pro-blema, e questo problema come sua personale angustia, tor-mento, voluttà, passione?»59. E nell’af. 292 si fa strada in questo senso un messaggio straordinariamente significativo nella misura in cui, dopo aver qualificato la morale come una alchimia alla rovescia per il fatto che essa compromette tutto quanto ha valore (ma questo tema era già stato efficacemente riassunto nell’af. 130 intitolato Una decisione rischiosa), egli asserisce: «Non verrebbe voglia di dire, oggi, riguardo alla morale, come Meister Eckhart: “Prego Dio che mi liberi d’Iddio!”?»60.

Il tema è di straordinario interesse. È infatti sulla base di considerazioni di questo genere che alcuni interpreti di Nie-tzsche hanno suggerito un mutamento di paradigma. Costoro hanno inteso la proclamazione della morte di Dio come il modo attraverso il quale si annuncia che Dio stesso si spoglia della propria “epidermide morale” per riapparire per così dire “di là dal bene e dal male”. È del resto lo stesso Nietzsche che, nell’af. 153 de La gaia scienza, fa riferimento a questa «tragedia delle tragedie»61 per asserire che solo un dio poteva sciogliere il nodo della morale stretto nel cuore dell’esistenza. In questo stesso brano egli fa nondimeno dire a quell’immoralista emancipato dai vincoli di una tradizione bimillenaria che è significativamente appellato come homo poeta: «Io stesso ho ora ucciso nel quarto atto tutti gli dèi: per moralità!»62. Alla luce di quanto finora detto parrebbe perciò fondata quella non trascurabile linea ermeneutica, si pensi al Camus de L’homme révolté (1951) il quale asserisce

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che «se [Nietzsche] attacca il cristianesimo in particolare, lo attacca solo in quanto morale»63, che ponendo l’accento sulla dimensione morale ha significato l’ateismo nietzschiano nel senso specifico di una critica del cristianesimo-come-décadence, ossia del cristianesimo come Weltverneinung.

E non sorprende così che molti dei temi prefigurati nelle pagine de La gaia scienza, dalla genesi del cristianesimo sul terreno della morale64 alla radice ebraica della Umwertung dei valori aristocratici65, dalla opzione paolina nella configu-razione del dogma cristiano66 al ruolo della Chiesa67 – temi che hanno un comune denominatore nella critica genealogica di una morale del ressentiment quale secondo Nietzsche è quella cristiana – siano ricuperati all’interno dei lavori dell’ultimo periodo, Genealogia della morale e Anticristo in testa. Lavori segnati da maggiore acredine nei confronti del cristianesimo storico, «il cristianesimo che non ha compreso Cristo»68. E proprio in una densa pagina della Genealogia, dove l’Autore tira le somme del proprio procedimento che è assieme “psicologico” e “filologico”, riaffiora una tematica già affrontata nell’af. 357 de La gaia scienza: «Che cosa, domandiamocelo col massimo rigore, ha veramente trionfato sul Dio cristiano? […] La stessa moralità cristiana»69.

Appare perciò evidente a questo punto che per il filosofo sassone l’ateismo si configura anzitutto come «una sorta di seconda innocenza»70. Non vi sono dunque argomenti che tengano, l’ateismo nietzschiano come notava già Marco Vannini è infatti in nessun modo assimilabile a quel genere di a-teismo simpliciter diffusosi largamente a partire dalla stagione illuministica e alimentato prevalentemente dalla tesi dell’infondatezza storica delle religioni rivelate. Al contrario, esso appare animato da una robusta esigenza di renovatio re-ligiosa e si situa di conseguenza nel solco di certo «ateismo purificatorio della teologia negativa e della grande mistica di ogni tempo, da Eckhart a San Giovanni della Croce: bisogna liberarci di Dio – ovvero dalle immagini esteriori, consolato-rie e alienanti – perché dal profondo della nostra anima sca-turiscano i valori veri, tolta via l’alterità di Dio»71. Non si

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riconoscono di fatto argomenti razionali sullo sfondo della critica nietzschiana, non è mai preso in considerazione l’argomento ontologico e il problema della dimostrabilità dell’esistenza di Dio; semplicemente, «oggi contro il cristia-nesimo decide il nostro gusto, non più le nostre ragioni»72. Di conseguenza, e diventa qui perspicuo il rapporto che nella pagina nietzschiana lega in maniera assai salda la dimensione morale a quella religiosa, «il modello di divinità rappresenta-to dalla metafisica e dalla teologia cristiana perisce a opera di un senso più profondo di Dio che animerebbe la critica atei-stica»73. Del resto non si comprenderebbe altrimenti perché dopo aver determinato la natura dell’evento deicida, nel bra-no della Genealogie in precedenza indicato Nietzsche sog-giunga: «Va crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli…»74.

È difficile infatti non ricondurre queste parole gravide di presagi e fiduciosa attesa all’ultima delle tre istanze contenu-te nel coevo aforisma de La gaia scienza – il 343 – dal quale propriamente abbiamo preso le mosse nella nostra analisi. All’annuncio della morte di Dio, scrive infatti Nietzsche nel 1887, «ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora: il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meravi-glia, di presagio, d’attesa»75. È questo, come rileva Bernhard Welte, un elemento centrale della riflessione nietzschiana, ché «contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi critici cristiani, Nietzsche non ha concepito il progetto di uccidere Dio. L’ha trovato morto nell’anima del suo tempo»76. Conclusione

Decisiva è a nostro parere la distinzione qui solo accen-nata tra una forma di ateismo volgare, caratteristica di coloro che, come Heidegger notava, hanno smesso di “cercare” Dio, e una forma di ateismo per così dire dialettica, la quale non

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esclude la possibilità di un’autentica opzione religiosa: «La morte dell’anima, la notte oscura, la morte di Dio della espe-rienza mistica e del pensiero hegeliano – ovvero quell’ateismo che deriva dalla riflessione della autocoscien-za, che scopre se stessa nel pensiero di Dio e nella rappresen-tazione di lui»77. Se non si tenesse conto di tale distinzione non si comprenderebbe infatti il significato più autentico di alcuni plessi nevralgici della ricca produzione letteraria nie-tzschiana.

Nel celebre af. 125 de La gaia scienza, per esempio, o nel Prologo dello Zarathustra, si impone all’attenzione del lettore una netta e assai suggestiva distinzione tra il volgo e il folle (Zarathustra/Nietzsche). Vale a dire, tra l’enorme massa di miscredenti che affolla rumorosamente il mercato e un soggetto che viceversa si trova in profondo contrasto con le convinzioni correnti e che, come pure è stato osservato, è si-milmente all’idiota della tradizione russa un individuo visita-to da Dio78. Ciò che infatti accomuna il racconto de L’uomo folle, contenuto ne La gaia scienza, e la discesa presso gli uomini del trentenne79 Zarathustra è il fatto che ambedue raccolgono lo scherno dei propri interlocutori; entrambi inol-tre si persuadono di essere in eccessivo anticipo sui tempi. E tuttavia è significativo che, come l’uomo folle intende rivol-gersi a coloro che frequentano il mercato e che di fatto non si sono ancora avveduti del terribile evento, così Zarathustra nella sua discesa tra gli uomini non informa della morte di Dio il primo personaggio in cui si imbatte, il pio eremita. Da questi anzi si separerà – ambedue «ridendo come ridono due fanciulli»80 – e, una volta rimasto solo, parlerà così al proprio cuore: «È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha an-cora sentito dire nella sua foresta, che Dio è morto»81.

Di fatto l’annuncio vero e proprio della morte di Dio82 Zarathustra lo darà appena giunto nella vicina città. E ancora una volta presso il mercato, dove si era radunata «una gran massa di popolo»83. Ma il terzo paragrafo della Vorrede, che contiene il racconto dell’incontro di Zarathustra con le genti che sono lì riunite non già per udire il suo annuncio ma per

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assistere alla esibizione del funambolo, si impone in primo luogo per il profondo simbolismo religioso di cui è intriso. Qui infatti, come pure è stato osservato, Nietzsche sembra esporre con forti accenti lirici quella “potenza del negativo” della quale si diceva in precedenza e che, in modo non trop-po dissimile da Hegel, sembra caratterizzare la sua peculiare forma di religiosità. In queste pagine è propriamente il con-cetto di disprezzo (Verachtung) a fungere da perno della ar-gomentazione: «Io amo gli uomini del grande disprezzo, ché essi sono anche gli uomini della grande venerazione»84; una nozione, quella di Verachtung, che in Nietzsche ricorre assai sovente tradendo un significato del tutto singolare e rivelan-do la propria autentica natura semantica soltanto nel discorso Del cammino del Creatore, dove si legge: «Da solo tu vai sul cammino dell’amante: tu ami te stesso e perciò ti disprezzi, come solo gli amanti sanno disprezzare»85.

Alla luce di queste considerazioni non sorprende quanto è narrato nel discorso A riposo, contenuto in Zarathustra IV. Si tratta del brano che meglio di ogni altro rivela l’autentico significato del rapporto di prossimità e assieme di “distacco” (nel senso nietzschiano del termine) tra il filosofo sassone e il cristianesimo. Il brano precede l’episodio de L’uomo più brutto, nel quale giunto nel «regno della morte» Zarathustra fa appunto la conoscenza del “più brutto tra gli uomini”, di colui cioè che ha ucciso Dio perché questi scrutava troppo a fondo nel suo cuore e «vedeva con occhi che tutto vedevano – vedeva le profondità e gli abissi dell’uomo, tutta la sua ce-lata bruttezza ontosa»86. Nell’episodio intitolato A riposo si ha infatti il significativo confronto con l’ultimo papa, che è “a riposo” a causa della morte di quel Dio che egli per tutta la vita e «fino alla sua ultima ora»87 aveva amorevolmente servito. Il vecchio papa incontra Zarathustra nella foresta e, avvicinatolo, gli confessa di essere in cerca dell’«ultimo uo-mo devoto», ossia di quel pio anacoreta che Zarathustra ave-va incontrato per primo durante la sua discesa presso gli uo-mini e al quale, come si ricorderà, aveva nondimeno rispar-miato l’annuncio della morte di Dio. Riferendosi al solitario

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che sta vanamente cercando, l’ultimo pontefice ammette con tristezza: «Quando trovai la sua capanna, non c’era già più – c’erano invece due lupi che ululavano per la sua morte»; e soggiunge: «Allora il mio cuore decise ch’io cercassi un al-tro, il più devoto di coloro che non credono in Dio – ch’io cercassi Zarathustra». Queste parole giungono direttamente al cuore di Zarathustra, che inizialmente si era dimostrato diffidente nei confronti del vecchio, e lo convincono a dare ascolto al proprio interlocutore. Il confronto tra i due si rivela eccezionalmente significativo.

L’ultimo Papa ammette di aver conosciuto assai bene il vecchio Dio ormai morto, poiché «un buon servitore sa tutto, e anche certe cose che il suo padrone nasconde a se stesso»88; e riconosce pertanto che questi «era un Dio nascosto, pieno di segretezza. […] Chi lo esalta come un dio dell’amore, non pensa abbastanza nobilmente dell’amore. Non voleva essere anche un giudice, questo dio? Ma colui che ama, ama al di là del premio e della rivalsa»89. Zarathustra rincara così la dose adducendo che «questo Dio era anche oscuro» e, con chiaro riferimento alla rappresentazione che di Lui è maturata nella cornice della cultura filosofica e teologica occidentale, che «troppe cose gli riuscivano male». In forma metaforica egli sottolinea dunque il fatto che questo Dio, sovente incollerito con gli uomini perché lo intendevano male, non parlava tut-tavia con chiarezza («io amo tutto quanto ha uno sguardo chiaro e parla sincero») né faceva in modo di mettere gli uomini in condizione di comprenderlo. Ma il fatto che questo “vasaio incapace” non conoscesse bene la propria arte e se la prendesse ciò nondimeno con i propri vasi e le sue creature, «– ebbene questo fu un peccato contro il buon gusto. Anche nella devozione è buon gusto: fu questo che alla fine disse: “Basta con un dio così ! Meglio nessun dio, meglio costruirsi il destino con le proprie mani, meglio essere un folle, meglio essere noi stessi dio!”».

Quest’ultimo ammonimento, il quale pare compendiare alcuni dei temi di maggiore interesse della riflessione del Nietzsche maturo, dalla Umwertung der Werte al superuomo,

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e assieme dice della vocazione autenticamente religiosa della sua tormentata vicenda umana e intellettuale, provoca la si-gnificativa reazione dell’ultimo papa. Conviene riportarla per intero a conclusione di queste brevi considerazioni.

Che sento mai! – disse a questo punto il vecchio papa

acuendo le orecchie – o Zarathustra, sei più devoto di quanto tu non creda, con questa tua miscredenza! Un qualche dio dentro di te ti convertì al tuo ateismo. Non è la tua stessa devozione che non ti fa più credere in un dio? E la tua onestà estrema finirà per portarti anche al di là del bene e del male! […] Vicino a te, sebbene tu voglia essere più di tutti il senzadio, ho il sentore di un segreto aroma di incenso, dovuto a lunghe benedizioni: sì che ne provo gioia e dolore insieme. Lasciami essere tuo ospite, Zarathustra, per una notte sola! In nessun luogo sulla terra posso trovarmi meglio, ora, che presso di te! 90

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Note 1 Cfr. Ecce Homo [nel seguito: EH], Perché sono un destino, I, in Opere di Friedrich Nietzsche [OFN] VI/3, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Mon-tinari, Adelphi, Milano 1967 s. 2 Beninteso, «attualizzazioni […] che sono da considerare alla stregua di falsificazioni e strumentalizzazioni», così Sossio Giametta che avverte: «Nietzsche è ormai tale e tanta parte dell’odierno dibattito filosofico e cul-turale, che la sua attualità rischia di far dimenticare la sua inattualità»; cfr. Nietzsche e i suoi interpreti. Oltre il nichilismo, Marsilio, Venezia 1995. 3 Cfr. L’Anticristo [AC], Prefazione, in OFN VI/3. 4 Cfr. ANDREAS-SALOMÉ, L., Nietzsche in seinen Werken [1894], trad. it. Roma 1997; ma per gli spunti di carattere biografico, piuttosto che per la critica di taglio sociologico che viene condotta, cfr. anche TÖNNIES, F., Der Nietzsche-Kultus. Eine Kritik [1897], trad. it. Roma 1998. 5 Cfr. BENZ, E., Nietzsches Ideen zur Geschichte des Christentums und der Kirche, in “Zeitschrift für Kirchengeschichte” 56 [1937, 19562]. Tra i suc-cessivi studi merita ricordare il saggio di Karl Jaspers, Nietzsche und das Christentum [1946, 19522] e, dello stesso anno, O. Flake, Nietzsche. Rück-blick auf eine Philosophie; ma cfr. senz’altro anche W. Weymann-Weyhe, Die Entscheidung des Menschen. Nietzsche als geschichtliche Wirklichkeit [1948] e K.-H. Volkmann-Schluck, Leben und Denken. Interpretationen zur Philosophie Nietzsche [1950]. 6 Su questo tema è sempre utile lo studio di PENZO, G., Friedrich Nietzsche nell’interpretazione heideggeriana, Patron, Bologna 19762; ma cfr. anche ID., Friedrich Nietzsche. Il divino come polarità, Bologna 19803 e Storia dell’influenza di Nietzsche nella letteratura e nella filosofia fino all’interpretazione di Heidegger, contenuto in “Concilium” 5/1981. 7 Cfr. BERTRAM, E., Nietzsche. Versuch einer Mythologie, Bonn 1918; BAEUMLER, A., Nietzsche. Der Philosoph und Politiker, Leipzig 1931. 8 Cfr. VITIELLO, V., Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli 1983. 9 Si può evidentemente convenire che «il nichilismo contemporaneo ha principalmente i suoi referenti in Nietzsche e Heidegger, e segnatamente nella interpretazione che Heidegger ha dato di Nietzsche inaugurando il dibattito contemporaneo sul tema», cfr. CASINI, L., Ipotesi sul nichilismo, in BRUNO, R. – PELLECCHIA, F., Nichilismo e redenzione, FrancoAngeli, Milano 2003. 10 Cfr. HEIDEGGER, M., Nietzsche, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1961; trad. it. Milano 19952. 11 Cfr. VITIELLO, V., Utopia del nichilismo, cit., p.91. 12 Ivi, p.90. 13 Cfr. HEIDEGGER, M., Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1950; tr. it. Firenze 19973.

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14 ID., Brief über den Humanismus, Klostermann, Frankfurt a. M. 1949; trad. it. Milano 19983. 15 Assai netto, ma condivisibile per molti versi, è il giudizio di Heribert Boeder secondo il quale Heidegger ha utilizzato Nietzsche «per l’ulteriore ruminazione dei suoi problemi scolastici»; cfr. L’annuncio neotestamenta-rio di fronte alla submodernità, in R.BRUNO - F.PELLECCHIA (edd.), Nichi-lismo e redenzione, FrancoAngeli, Milano 2003, pp. 156-171. 16 Cfr. HEIDEGGER, M., Holzwege, cit., trad. it. p. 198. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 Cfr. NIETZSCHE, F., Aus dem Nachlaß der achtziger Jahre, Werke, Bd.3 [1956], 881 s. 20 Cfr. La gaia scienza [FW], in OFN V/II, af.370; siamo qui al cospetto della nota dialettica tra nichilismo “passivo” e “attivo”. In FW af.349, benché non lo menzioni apertamente, Nietzsche fa sicuramente riferimento a Schopenhauer criticando la volontà di conservazione in nome di quell’istinto basilare della vita costituito dalla “espansione di potenza”. 21 Tra i numerosi saggi di Karl Löwith dedicati a Nietzsche ricordiamo qui Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Stuttgart 19562, trad. it. Roma-Bari 1985 (cfr. in part. il capitolo conclusivo) e Gott, Mensch und Welt in der Metaphysik von Descartes zu Nietzsche, Vanden-hoeck & Ruprecht, Göttingen 1960, trad. it. Napoli 1966. 22 Ci riferiamo qui alla poesia composta nel 1864, intitolata Al Dio ignoto, contenuta nel secondo volume delle Jugendschriften (Verlag Mette), e al celebre Lamento di Arianna composto vent’anni più tardi nell’ottica del progetto dello Zarathustra. A questi luoghi della produzione nietzschiana fanno riferimento, tra gli altri, VANNINI, M., Nietzsche e il cristianesimo, Ed. D’Anna, Messina-Firenze 1986 e in misura più contenuta LÖWITH, K., Nietzsches Vollendung des Atheismus in STEFFEN, H. (Hg.), Nietzsche. Werk und Wirkungen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1974. 23 Cfr. HEIDEGGER, M., Holzwege, cit., trad. it. p. 243. «Eppure, come Nie-tzsche, anche Heidegger coglie certamente alcuni tratti essenziali del ni-chilismo, ma li intende a sua volta nichilisticamente, lasciandosi ancora una volta sfuggire ciò che è sfuggito all’intero corso del pensiero occiden-tale: l’essenza autentica del nichilismo»; cfr. SEVERINO, E., Essenza del nichilismo, nuova ed. ampl., Adelphi, Milano 1995, pp.253 s. Essenza che a giudizio di Severino coincide con l’apertura del mondo come nientità dell’ente, ovvero con «la persuasione che ciò che non è mai stato e non potrà mai essere [tuttavia] sia» 24 Cfr. VOLPI, F., Il Nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1999. Ma la letteratura sull'argomento è vastissima; ci limitiamo qui a segnalare le ricche pagine di RIEDEL, M., Nihilismus, in O.BRUNNER - W.CONZE - R. KOSELLECK (Hg.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politischen Sprache in Deutschland, Klett-Cotta, Stuttgart 1978s., vol.IV, 1978,

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pp.371-411; l’agile volumetto antologico cur. di PENZO, G., Il nichilismo da Nietzsche a Sartre, Città Nuova, Roma 19842; MASINI, F., Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia del nichilismo, Bibliopolis, Napoli 1983; la silloge cur. di SCHWAN, A., Denken im Schatten des Nihilismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1975; THIELICKE, H., Der Nihilismus. Entstehung, Wesen, Überwindung, Reichl, Neske, Pfullingen 1951; e GIVONE, S., Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 20015, in part. pp.99-206. 25 Cfr. HEIDEGGER, M., Holzwege, cit., trad. it. p. 245. 26 Cfr. FW af.125. 27 Cfr. HEIDEGGER, M., Brief über den Humanismus, cit., p.39. 28 Ibidem. 29 Cfr. HEIDEGGER, M., Holzwege, cit., trad. it. p. 208 s.; e ID., Nietzsche, cit., pp. 436-57; ma su questo particolare nodo argomentativo cfr. VITIELLO, V., Utopia del nichilismo, cit., p. 89 s. 30 Cfr. VITIELLO, V., Utopia del nichilismo, cit., p. 90; corsivo nostro. 31 Cfr. JEAN PAUL, Rede des toten Christus vom Welgebäude herab, daß kein Gott sei [1796], trad. it. Brescia 1997. 32 Cfr. Evangelisches Gesangbuch, EKG1950; corsivo nostro. 33 Cfr. ALTIZER, TH., The Gospel of Christian Atheism, Westminster Press, Philadelphia 1966, trad. it. Roma 1969. 34 Cfr. SEVERINO, E., Essenza del nichilismo, cit., p.258. 35 Cfr. Così parlò Zarathustra [Z], in OFN VI/1, IV, A riposo. 36 Cfr. TÖNNIES, F., Der Nietzsche-Kultus, cit. 37 Cfr. MAGRIS, A., Nietzsche, Morcelliana, Brescia 2003; cfr. anche le testimonianze veicolate dai due più attendibili profili biografici: ANDREAS-SALOMÉ, L. VON, cit.; JANZ, C.P., Nietzsche Biographie, München-Wien 1978, trad. it. Roma-Bari 1980-81. 38 Cfr. FW af.151. 39 Cfr. Z, III, Degli apostati; ma cfr, anche Z, I, Della virtù che dona e Z, IV, Dell’uomo superiore, dove l’argomento della morte di tutti gli dèi si coniuga con l’avvento del superuomo. 40 Sul politeismo egli si esprime diffusamente anche negli scritti precedenti allo Zarathustra; cfr. ad es. FW af. 143. 41 Cfr. COLLI, G., Nota introduttiva a La gaia scienza, Adelphi, Milano 1977. 42 Cfr. Aurora [M], in OFN V/1, af. 92. 43 Cfr. FW af.343. 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Cfr. ad es. FW af.125. 48 Cfr. SCHIFFERS, N., ‘Dio è morto’ in Nietzsche, in “Concilium” 5/1981. In Al di là del bene e del male e Genealogia della morale nell’opera di

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Nietzsche (Classici Adelphi 1968, rist. in ID., Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 19954) Giorgio Colli rileva giustamente che «il valore della teoria di Nietzsche sta nel rapporto “veritiero” con l’essenza del mondo e nell’esigenza dionisiaca di accettare il dolore, perché questo non può esse-re soppresso che assieme alla vita stessa». 49 Cfr. FW af.346. 50 Ibidem, corsivo nostro. 51 Cfr. Al di là del bene e del male [JGB], in OFN VI/2, af.40; cors. nostro. 52 Cfr. COLLI, G., Scritti su Nietzsche, cit., p.132. 53 Cfr. JGB af.289. Sul rapporto tra contenuto e forma nella pagina nie-tzschiana, ossia tra «what is being said» and «how it is being said», ma anche per quanto attiene al carattere religioso della sua riflessione e alla natura soteriologica dell’interrogazione che essa solleva, si rivela utile il saggio di FRASER, G., Redeeming Nietzsche. On the Piety of Unbelief, Routledge, London-NewYork 2002. Di particolare rilievo da questo punto di vista sono alcune categorie del lessico nietzschiano, come il concetto di disprezzo (Verachtung) ampiamente utilizzato nei suoi scritti ma in un senso del tutto singolare. 54 Cfr. FW af.343. 55 Ibidem. 56 Ibidem. 57 Cfr. ad es. aff.344-349 e 127 s. 58 Cfr. FW af.347. 59 Cfr. FW af.345. 60 Cfr. FW af.292. 61 Cfr. FW af.153. 62 Ibidem, corsivo nostro. 63 Cfr. CAMUS, A., L’homme révolté, Gallimard, Paris 1951, trad. it. Mila-no 1957. 64 Cfr. Genealogia della morale [GM], in OFN VI/2, I/14-16. 65 Cfr. GM, I/7-8 ma anche JGB af.195 e molti altri luoghi della produzio-ne nietzschiana, essendo questo un argomento che ricorre sistematicamen-te nei suoi scritti – non solo nella Genealogia. 66 Cfr. ad es. FW af.139, ma il tema ricorre spesso nell’opera nietzschiana. 67 Cfr. FW aff.350 e 351. 68 Cfr. VITIELLO, V., Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari 1995. 69 Cfr. GM, III/27. 70 Cfr. GM, II/20-22 oppure JGB af.219 71 Cfr. VANNINI, M., op. cit., p.66; corsivo nostro. 72 Cfr. FW af.132. 73 Cfr. MAGRIS, A., op. cit., p.138. 74 Cfr. GM, III/27. 75 Cfr. supra, p.27.

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76 Cfr. CAMUS, A., cit., p.79; cfr. anche WELTE, B., Nietzsches Atheismus und das Christentum [1958], trad. it. Brescia 1994 e dello stesso autore, Das Licht des Nichts. Von der Möglichkeit neuer religiöser Erfahrung [1980], trad. it. Brescia 1983. 77 Cfr. VANNINI, M., op. cit., p.66. 78 Nota è l’incidenza della lettura di Dostoevskij su Nietzsche; cfr. a questo proposito la monografia di SCHUBART, W., Dostojewski und Nietzsche. Symbolik ihres Lebens, Vita Nova, Lüzern 1939; e il saggio di UHL, A., Soffrire per Dio e per l’uomo. Nietzsche e Dostoevskij, in “Concilium” 5/1981. Per quanto riguarda più nello specifico la presenza di Nietzsche e Dostoevskij nella storia del nichilismo, e in particolare alcuni risvolti di carattere filosofico e letterario determinati da questa presenza, cfr. pure CIANCIO, C. – VERCELLONE, F. (edd.), Nietzsche e Dostoevskij. Origini del nichilismo, Trauben, Torino 2001. 79 Come attesta Lc 3,23 è questa l’età nella quale Gesù iniziò la propria predicazione. Il simbolismo religioso che evidentemente affolla le pagine dello Zarathustra merita senz’altro una considerazione non superficiale. 80 Cfr. Z, Prologo, 2; corsivo nostro. 81 Ibidem. 82 E quindi dell’avvento del superuomo, il quale in realtà non si sostituisce a Dio – come potrebbe farlo? – ma più precisamente «va oltre l’uomo di prima». Cfr. HEIDEGGER, M., Holzwege, cit., p.230. È propriamente nel nesso che lega l’annuncio della morte di Dio e quello del superuomo che Bernhard Welte riconosce l’elemento “vitale” della teoresi nietzschiana. 83 Cfr. Z, Prologo, 3. 84 Cfr. Z, Prologo, 4. 85 Cfr. Z, I, Del cammino del creatore; corsivo nostro. Alla luce di una più avvertita considerazione del concetto di “disprezzo” andrebbero ovvia-mente riletti a nostro modo di vedere anche altri luoghi della produzione nietzschiana, come per es. la Prefazione di AC che apparirebbe sotto ben altra luce. 86 Cfr. Z, IV, L’uomo più brutto. 87 Cfr. Z, IV, A riposo. 88 Ibidem. 89 Ibidem. Questo stesso argomento ricorre assai frequentemente negli scritti nietzschiani. Parimenti il tema del “cattivo gusto”, per il quale cfr. per es. FW af.132. 90 Ibidem; corsivo nostro.