Quaderno scrittura 2014

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Quaderno del seminario di descrizionenel viaggio da Carpi a Cracovia dell’aprile 2014

Mi aspettavo tutto, ma non il sole

1-6 apr i le 2014

Un treno per AuschwitzObiettivo MemoriaQuesto quaderno è stato realizzato nell’ambito del progetto Un treno per Auschwitz promosso dalla Fondazione ex Campo Fossoli e giunto quest’anno alla decima edizione. Il viaggio in Polonia, nei luoghi simbolo dello sterminio, è il momento più coinvolgente e intenso del progetto che prevede per insegnanti e studenti incontri di formazione e al rientro l’elaborazione dell’esperienza attraverso diversi linguaggi artistici ed espressivi. Con Obiettivo Memoria la Fondazione ex Campo Fossoli si propone di dare agli studenti l’opportunità di attingere alle potenzialità espressive della scrittura, della fotografia e dell’audiovisivo per dare forma ai loro pensieri ed emozioni. E questo grazie alla collaborazione di artisti che seguono e lavorano direttamente coi ragazzi.

Un treno per Auschwitz è realizzato dalla Fondazione ex Campo Fossoli in collaborazione con la provincia di Modena, i comuni di Carpi, Castelfranco Emilia, Finale Emilia, Mirandola, Modena, Pavullo, Sassuolo e Vignola e grazie al contributo delle Fondazioni Cassa di Risparmio di Carpi, Modena, Mirandola e Vignola.

Mi aspettavo tutto, tranne il soleQuaderno del seminario di descrizione nel viaggio da Carpi a Cracovia dell’aprile 2014

descrittoriCecilia CaliumiLaura SighicelliCecilia FerrariSofia ZiniLuigi CiampiSilvia ArtoniAnna LodiSimona CapristoTsehay CasariniNicole Bonvicini

a cura di Paolo Nori

Per informazioniFondazione FossoliVia G . Rovighi 5741012 Carpi (Mo)Te lefono 059 688 272Fax 059 688 483fondazione .fossoli@carpidiem .itw w w.fondazionefossoli.org

© Fondazione Fossoli

D. Figli?R. Due. D. Che età?R. Il bambino ha due anni e mezzo, la bambina uno e mezzo. D. Viene naturalmente spontaneo di chiedere come... il padre di due figli...

come può sparare a dei bambini?R. Non avevo ancora la bambina. A quell’epoca avevo solo il piccolo. D. Ah, già... Come può sparare a dei bambini?R. Non so. È una di quelle cose che capitano.

[Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità, Torino, Einaudi 2003, p. 173, traduzione di Roberto Ballabeni]

domenica 30 marzo 2014

È così difficile scrivere quando si ha qualcosa da dire.Io ho qualcosa da dire. Essenziale. Essenzialmente nulla.Quanto tempo. Quanta fatica. Fatica disumana. Inutile per

me. No.Inizio da qui.Come posso dimenticare? Come posso partire vuota se vuota

mai sono stata?Ti odio. Tu persona. Tu umano. Non puoi pretendermi vuota.Sei giorni. Sono sei. Sarò in grado di annullarmi totalmente?Ci sono. Sono viva. Tienimi la mani. Strappo pagina dopo

pagina. Nonostante tutto sono vuota.Sono sempre stata vuota.Le pagine sono vuote. Ho scordato di scrivere. [Tsehay]

Lunedì 31 marzo

Domani si parte. Non ho ancora realizzato. Non ho né il tempo né la voglia di realizzare ciò. Provo una sensazione strana. È come se tutto d’un tratto non volessi più partire. Vorrei rimandare la partenza perché forse non è il momento adatto per partire. Lascerei troppe cose in sospeso e non apprezzerei fino in fondo l’esperienza. Per non pensare troppo a queste cose mi tengo occupata, così vado in centro, chiamo i miei amici per salutarli, parlo con i miei genitori, mi faccio una doccia interminabile e solo a fine giornata mi ritrovo a compattare i vestiti, le emozioni, la paura, la felicità, l’ansia e la tristezza dentro una minuscola valigia.

Domani si parte. Domani. Si. Parte. [Cecilia F.]

So davvero cosa aspettarmi? Come possono le aspettative legate a qualcosa che non si è mai vissuto non essere basate sul pregiudizio? Il pregiudizio è prezioso nella misura in cui davanti all’inaspettato è lì presente, e ti permette di non sentirti totalmente spiazzata, inconsapevole. Nello scrivere questo diario, mi rendo conto che il pregiudizio è legato all’uso stesso delle parole. Perché quando si descrive qualcosa, si è implicitamente costretti a definirlo, a mettere un confine tra questo e il resto. Quindi forse a limitarlo? È proprio il problema che sorge quando si tiene un diario di viaggio come questo.

Perché scrivendo di Auschwitz non posso che tentare di dare forma a qualcosa con cui sono già entrata in contatto senza mai

averne avuto esperienza diretta. Tra i confini entro i quali mi muoverò ci saranno le cose che già so – o che credo di sapere – e ciò che mi apparirà davanti sarà filtrato dalla mia soggettività, quindi anche dai miei pregiudizi.

È anche vero che un diario di viaggio può concedersi il lusso della ripetizione, proprio perché chi lo scrive non può cadere nella paura di scrivere cose che qualcuno ha già scritto, o di pensare quelle che qualcuno ha già pensato. Perché se così fosse non sarebbe più il diario del proprio sentire, ma una sorta di esercizio di stile, un continuo lambiccarsi il cervello nello sforzo di scrivere qualcosa di inedito e di originale su Auschwitz, di mostrare a chi legge che si ha una personalità, che tutti gli anni passati a parlare della Shoah non hanno sortito alcun effetto se non quello di essere stuzzicati all’idea di tentare l’impresa di scrivere qualcosa di originale. Sarebbe piuttosto insulso da parte mia no?

[Sofia]

Durante il viaggio è stato impossibile scrivere. Anche volendo, aprendo l’agenda e impugnando la biro, qualcosa improvvisamente sopraggiungeva e mi faceva smettere.

A volte era inquietudine, a volte un battuta scherzosa, a volte il timore di essere banale.

Era proprio la paura, insita dentro di me, che mi faceva buttare la penna.

Ancora cosa fosse non lo so. C’era troppo da dire? Troppo da pensare? Troppo da sopportare? Pensavo di non potercela fare. Così decisi di lasciare scorrere, di guardare, ascoltare, toccare e annotare. Avrei rielaborato tutto a casa.

Ora che lo sto facendo so che ho sbagliato.Sulla propria scrivania tutto è diverso. Gli occhi che avevo ad Auschwitz o a Birkenau non li ho

più. La pelle con cui ho toccato i muri ha cambiato cellule. Ho perso gli odori; ho perso le folate di vento che scompigliavano i capelli; ho perso le lacrime; ho perso i visi dei miei compagni.

Ciò che farò sarà raccontare il mio ricordo, quello che è rimasto inciso, che ancora non ha perso i contorni o è svanito. Ciò che ancora c’è, incastrato tra il cuore e il petto, e continua a pulsarmi dentro

[Cecilia C.]

La paura di non poter scegliere, presumo.Stanchi si era, presumo.Con occhi stanchi, stanchi. Dico.

La paura dei cambiamenti.[Tsehay]

Martedì 1 aprile

E questo? Cos’è? È questo?Nulla è fermo. Tutto cambia.Tutto è normale. Eppure ecco che senti. Il fiato immobile

del tenero grido degli alberi.Ora sono stata. Sguardo fisso sulla mobilità palese degli

oggetti. Poi mi sono distratta. Di nuovo.Dove c’era la vita. Dove la vita c’era. Perché mi dà l’idea.

Lontana.Trasferita si. Perché scappasse. Pianse. Bianca. Caduta.

Tutti. Spesso.Fare. Sicuro?Disperato. Calpestare. Senti ma non vedi. Senti e vedi.Strade. Lungo la strada. Pesante.Uno con uno e due? È cosi che funziona?Notte fresca. Buia. Dici ma a me sembra luce. Non

ricordavi ma dovevi morire li, capisci?Solo tristi solo tristi solo tristi. Ti ascolterei ma sei finita.Ecco, sei cosi terribile. Quando tu ricordi solo. Le persone

ti cantano.Foto, foto mi dai solo fotografie sciolte nel buio. E

quest’urlo silenzioso che costantemente picchia le mie dita.Affinché tu possa stare bene. Dico zitti. Zitti vi dico.Meglio non credere. E poi smettila di mangiarti le unghie.

Piangi, piangi ti dico.Mille luci.Smarrita.La gente si annoia. Io mi ammazzo di estrema agonia.[Tsehay]

Aspettativa. Alla stazione di Carpi questa è la sensazione che aleggia nell’aria. 600 ragazzi che in realtà non sanno quello che li aspetta davvero. Lo si nota nelle facce di ognuno di noi. Siamo pronti? Non so se si può essere pronti per Auschwitz. Comunque, dopo essere partiti, chilometro dopo chilometro, inizio a realizzare che lo sto facendo davvero, e ne sono orgogliosa. Sono orgogliosa di poter fare questa esperienza, volevo farla e ora sono qui. Per conoscere.

[Nicole]

È normale che ogni minuto che passa io abbia questa sensazione di mancanza? Persino l’idea di dormire mi irrita e mi da l’impressione di perdere tempo.Eppure il viaggio in treno fatica a configurarsi,almeno per me,come qualcosa di diverso dall’attesa.

Sono qui con i miei compagni di viaggio ad aspettare. Ai momenti insieme si alternano quelli in cui ciascuno si prende i propri spazi, si alza per uscire,va curiosando per gli altri scompartimenti, guarda fuori dal finestrino,a volte quasi tenta di uscire da quella calma piatta che non dovrebbe essere agli inizi di un viaggio come questo.Eppure.

Il paesaggio fuori dal finestrino è cambiato,ora molti boschi dalle betulle secche e slanciate ci appaiono davanti.Eppure a me pare sempre di aspettare. Ma aspettare cosa? Che mi venga un’idea geniale su come tutto questo potrebbe dare origine a una riflessione profonda?

No, non ce la faccio. Cerco di aggirarmi furtivamente per il corridoio stretto cercando un posto isolato dove affacciarmi.Uno dei ricordi più belli che ho della tratta Brennero-Cracovia è proprio l’aria sferzante che mi investe quando mi affaccio al finestrino con il treno a tutta velocità. Potente sedativo per l’ansia...e sostituto quasi passabile della nicotina.

C’è quasi allegria nell’aria. Fuori dallo scompartimento risa e schiamazzi. La familiarità e il calore che va instaurandosi tra noi mi impedisce di scivolare nell’apatia propria dei miei viaggi in treno. I miei occhi cercano di nutrirsi delle immagini che corrono fuori dal finestrino veloci, senza dare loro il tempo di metterle in fila. È come scorrere velocemente le pagine di un libro che non si è mai letto ma di cui si conosce il finale,raccontato però da qualcun altro. Io conosco la destinazione, ma è come se non la conoscessi. Mi è ignota come tutto ciò di cui ho sentito parlare ma che non ho mai messo a fuoco,come tutti i luoghi che conosco così bene da non saperne niente.

Quando arriverò a Cracovia forse mi staccherò da queste pause inutili che la mia mente si prende per cercare di capire in che direzione cercare, in che direzione andare. Ora aspetto.

[Sofia]

Mi sveglio quella mattina all’alba con il saluto di mia mamma: «Ciao piccola, divertiti e fai la brava!». Solite parole da anni, che risento quando ogni anno la sua piccola di

ormai 18 anni parte per una gita, un viaggio, o comunque giornate fuori casa.

Parole però che mi rende felice risentirle perchè capisco che mi vuole bene e che le mancherò.

Dopo aver riascoltato con gioia quelle parole, mi riaddormento, mi sveglio con il suono del cellulare, e con un’altra sorpresa: le mie amiche mi aspettano per una colazione assieme prima della mia partenza. Colazione, chiacchiere, chiacchiere, e poi ci salutiamo.

Ultimi preparativi completati. L’arrivo in stazione è un momento particolare. Il piazzale

della stazione di Carpi è pieno di ragazzi di Modena, Sassuolo, Finale Emilia, Carpi, Mirandola, e molte altre scuole.

Tanti sono i ragazzi che partono per questo viaggio per visitare quei luoghi, come tanti sono stati gli ebrei che sono partiti da quella stessa stazione decine di anni fa, con un’idea diversa però: loro quei luoghi non sapevano se li avrebbero mai più rivisti.

Dopo la cerimonia e i saluti siamo quindi partiti per questa nuova esperienza.

Tutte le persone che sono già state a visitare quei luoghi hanno detto che è un’esperienza molto bella ma anche molto toccante, un’esperienza che ti cambierà.

Io per ora questo non posso ancora affermarlo ma non posso fare altro che fidarmi di queste parole.

Saliti sul treno quindi inizia la grande avventura del viaggio.

Carrozza 3 scompartimento 1.le prime ore sul treno italiano.Ancora non mi rendo perfettamente conto a cosa sto

andando incontro, ma provo ad immaginarmi come loro potevano vivere questo estenuante viaggio, per noi solo 24 ore, per loro 6 giorni.

Queste 24 ore per me non passavano mai. Sento voci provenire dal corridoio di quel lungo treno mentre guardo dal finestrino il paesaggio che mi offre la natura, sento il profumo della natura che mi calma e mi rasserena.

Poi mi trovo a pensare a come dovevano passare loro quei giorni quando per me già 24 ore sono infinite, quando non avevano letti su cui dormire, cibo per sfamarsi e acqua per idratarsi.

E quindi non mi lamento di questo viaggio perché io sono FORTUNATA, io torno a casa tra sei giorni, io ho un letto, cibo, acqua e divertimenti per passare il tempo.

Guardo fuori quando la luna è ormai alta e vedo un cielo stupendo, che a Carpi non c’è! Libero da palazzi che impediscono la visuale e pieno di grandi stelle che brillano nel cielo.

Con questa immagine mi addormento così quella notte a tarda ora, o almeno provo a dormire.

[Laura]Sono sul treno da un po’, ed oramai mi sono abituata al

suo sciabordio, anche se è difficile scrivere con i sussulti. Sto bene, tutto sommato non sono neanche troppo sfatta. Non me lo aspettavo. Ho fame, forse più per noia che altro. Ad ogni modo mi piace, il treno, mi piace il viaggio. E mi piace non sapere cosa troverò là. E per la verità mi piace anche essere un po’ scomoda, in questi seggiolini stretti.

Abbiamo appena cambiato treno, ma non è cambiato niente. Qui dormiremo, ed è bello dormire in viaggio -ho pensato- ti dà l’idea di non perdere tempo. Certo, ti perdi una parte del panorama, ed è un peccato. Le scritte sono sfumate verso il tedesco, non capisco niente. Vedo però. Ci sono le montagne alte che incombono, una presenza imponente che non mi fa paura. Mi piacciono le montagne. Mi piacciono, severe ed impervie, ‘che quando arrivi sulla cima e guardi giù, tutti quei puntini, insomma, ti senti grande. E non te ne frega niente del vento che ti prende a schiaffi.

Gli alberi fitti si diradano, e rimane solo neve, bianca e pura. Le cime mi attraggono. Voglio salire, in alto, salire. Fino a quando più in alto non c’è niente.

[Anna]

È sera, ormai saremo in viaggio da dieci ore.Sono stanca o forse no.Mi sento strana, do la colpa alla stanchezza ma so bene

che è colpa delle mille emozioni e pensieri che mi continuano a vagare per la testa. Tutto il giorno ho rimandato l’incontro con questo diario quasi come se avessi dimenticato tutte le parole all’istante, quasi come se non avessi più inchiostro...

Durante questo viaggio in treno mi sono resa conta che il mondo è pieno di colori e mi è bastato unicamente guardare fuori dal finestrino. Mi sono ricordata che noi possiamo scegliere, abbiamo il privilegio di avere in mano le redini della nostra vita.

Al giorno d’oggi si è abituati a mille comodità: il letto, la colazione pronta tutte le mattine,i cellulari, internet, i pasti sempre pronti e caldi. Dobbiamo stare su un treno ventiquattro

ore insieme a tantissimi sconosciuti dentro a cuccette a dir poco minuscole che a quanto pare devono ospitare sei ragazzi ciascuna senza ovviamente contare bagagli come valigioni, borsine e borsette!

Nessuno usa il telefono per paura di scaricarlo in quanto abbiamo una presa della corrente ogni dodici persone ovvero ogni due scompartimenti. Lo so non sembra ma è dura per davvero per una “generazione viziata” come noi. Tutte le mie compagne sono andate a letto, ormai sono le 23:00 ma io non ho sonno, non voglio dormire... penso che avrò tanto tempo per farlo più avanti, adesso è l’ultimo dei miei pensieri; non so se sia il termine più appropriato ma ora, in questo preciso momento, ho voglia di vivere e dormire mi sembra la cosa più stupida del mondo. Sono nel vagone delle conferenze seduta per terra insieme a tanti studenti ad ascoltare un gradevolissimo e coinvolgente concerto. Non conosco nessuno eppure non mi sento sola... è strano detto da una persona come me ma davvero mi sento come se fossi a casa in questo vagone, dopo questa lunga angosciante (in certi momenti) giornata finalmente sto bene. Ma non voglio essere fraintesa, io assolutamente non mi sento parte di un gruppo...

Mi sento parte di qualcosa di più, di qualcosa che nemmeno io riesco a spiegare a me stessa, di qualcosa che ora mentre scrivo mi fa scappare dei sorrisi veri.

P.S. lo so che ho scritto di essere stanca, di stare male, di stare bene, ecc... Ma davvero bisogna trovarsi in queste situazioni per capire che tutte queste emozioni hanno la capacità di accavallarsi l’una all’altra provocando mille sensazioni differenti. E ora mi abbandono a questo concerto, bisogna che anche io contribuisca a tenere il tempo battendo le mani.

«Siamo ribelli... in lotta per un mondo di fratelli!» Cisco.[Simona]

Ho ancora dei chiari flash di questo viaggio che riappaiono ad intermittenza nella mia mente.

Mi vedo sdraiata sul sedile, in un momento in cui lo scompartimento era vuoto: il suo tessuto blu a quadratini neri era sgualcito a causa degli innumerevoli viaggiatori che come me lo avevano usato prima che il treno venisse dismesso. Tentavo di scrivere - ero partita con tutte le più buone intenzioni- poi mi sono persa. Guardavo il paesaggio fuori dal finestrino e ascoltavo il ritmo regolare del treno. I piccoli villaggi austriaci delle valli Alpine mi scorrevano davanti come fasci di luce, anonimi.

Mi sentivo come in un limbo, una condizione di momentanea assenza lunga 22 ore o poco più.

Riflettevo su dove stavo andando e su quanto tempo avevo aspettato per andarci. Sono arrivata a pensare che fosse tutta la vita che aspettavo questo viaggio: sin da piccola, quando mio padre mi raccontava della guerra e del nonno partigiano, e mi diceva che «sono successe delle cose brutte», io ho capito che quelle cose brutte le dovevo vedere, che non le potevo ignorare.

A questo punto, non potevo sapere come avrei reagito, se questo bagaglio di aspettative si sarebbe riempito di certezze o meno: avevamo appena passato il confine con l’Austria e il viaggio era ancora lungo davanti a noi.

I miei compagni urlavano fuori dal finestrino, gioivano nel sentire sul viso intorpidito dal calore del treno la sferzata di vento pungente, velocissimo.

Decido di unirmi a loro: il freddo avrebbe sgombrato la mia mente, mi avrebbe fatto più leggera.

[Cecilia C.]

Siamo in viaggio. Siamo in tanti. Siamo sorridenti. Siamo impazienti.

Sono serena, sono in attesa, sono ottimista.Guardo fuori dal finestrino i campi e le case scivolare davanti

ai miei occhi.Nella cuccetta accanto alla nostra ci sono i musicisti e Cisco.

La loro musica addolcisce questo viaggio tremendo, polveroso, interminabile.

[Cecilia F.]

Mercoledì 2 aprile

Le 24 ore in treno credo siano al centro di questa esperienza. Il viaggio. Il viaggio è stato lungo e pesante da un lato, a causa della notte freddissima. Questo mi ha fatto pensare... Se è stato pesante per noi, non immagino come lo fosse per i deportati. Dall’altro lato questo viaggio è passato veramente in fretta, tra la musica di Cisco, le risate con gli altri ragazzi e un buon libro tra le mani.

Il pomeriggio passato a Cracovia è passato tranquillo. Cracovia mi piace molto come città, con il castello che si affaccia sul fiume. È strano pensare che qui vicino è dove ha avuto luogo una delle stragi di vite umane peggiori della storia. È proprio particolare questa idea di contrasto: Cracovia è bellissima, ma se ci rifletto un attimo, fa un po’ paura.

[Nicole]

Sono in albergo, abbiamo poco tempo per noi. Arrivati stamattina, pranzo in centro e poi qui in hotel. Sono finita a mangiare in una mensa polacca, frequentata da gente del posto. Non c’erano sorrisi per me, mangiare e via. Quasi un caso strano, turista impavido. Niente acqua, poco tempo. Mangiare e via. E poi in albergo. Alla conferenza c’ero solo io oggi pomeriggio, il tipo è arrivato con tre quarti d’ora di ritardo, il tipico italiano sulla cinquantina, capelli alle spalle, look giovane. Leggermente abbronzato in Polonia, dove gli inverni sono a meno venti. Strano tipo, conferenza interessante. Ed è questo che ho notato, abbiamo qualcosa da dire. Gli italiani sono confusi, di corsa, in ritardo, eterni giovincelli. Ma hanno qualcosa da dire. I polacchi sono composti, seri, puntuali. Ti guardano male, sorridono poco. Le donne sono per lo più magre, niente incedere da bambola, stanno nell’ombra, impegnate. Gli uomini ridono poco. Gente composta, i polacchi. Non gesticolano, parlano piano. Non cantano, non saltano, non corrono. Non fanno movimenti bruschi, sono armonici, in linea con se stessi, punti che si congiungono, linee rette. Se salgono lo fanno in un lento crescendo - niente sconvolgimenti, prego! Hanno nomi improbabili, almeno per noi, un’accozzaglia di consonanti, e k e j, che non prendi fiato quando li pronunci, niente pause. Campioni di apnea. Quei nomi che leggi un attimo e quello dopo non li sai più, sei da capo. Per lo più impronunciabili. E lodo, davvero, le guide, ci riportano nomi e cognomi, e li sanno a memoria, brave, ma io non li conosco, non sono abituata, e allora è come se non me li dicessero, che tanto non me li ricordo. Siamo sguaiati noi. Troppo felici, troppo arrabbiati.

[Anna]

Non sappiamo osservare o essere critici. Riesci a descrivere con esattezza qualcosa che hai sotto agli occhi tutti i giorni? Guardo il mondo attraverso l’inchiostro delle parole, descrivo, spiego, ricordo. Ma può essere la memoria uno strumento realmente affidabile? Non siamo che animali impulsivi alla continua ricerca della felicità. L’uomo riesce a percepirla solo attraverso il ricordo del passato o la speranza del futuro. È difficile non cederle e riuscire a contrastare la sua volontà. È più semplice trasformare un ricordo in uno spiraglio di comprensione o non curarsi di ciò che è stato. Molte volte è più semplice far finta che non sia successo niente: voltarsi piuttosto che bruciarsi gli occhi, restare piuttosto che partire. Vedo in questo viaggio la voglia di imparare e di provare, per una volta, a raccontare realmente ogni singolo pensiero ed ogni singola emozione. Voglio celarmi in una condizione di infinita purezza

e mettere per iscritto in modo unico ed irripetibile ciò che milioni di penne hanno già disegnato.

[Silvia]

Ore 7:00Mi sveglio quella mattina leggendo il messaggio ricevuto

la notte con il benvenuto in Polonia.Guardo fuori dal finestrino e noto un paesaggio

rudimentale, che mi riporta con la mente ai paesaggi di 70 anni fa. Non sono più abituata a vedere questa natura a Carpi. Vivendo in città, sempre in città, mi sono abituata ai suoi ritmi. Vedendo quei luoghi però mi rendo conto della bellezza della campagna, isolata da tutti, sola con i tuoi pensieri, le giornate da dedicare al relax, scrittura, lettura, film, passeggiate. Un sogno.

Ore 10:00Cracovia stiamo arrivando.[Laura]

Dopo aver passato la notte più lunga e intensa degli ultimi tempi, finalmente alle 11 siamo arrivati alla stazione di Cracovia. Potrei dilungarmi molto di più sulla notte in quanto tutti sanno che porta consigli. I lettini nelle cuccette traballavano e si alternavano momenti di viaggio e di sosta; nel mio scompartimento abbiamo dormicchiato due o tre orette massimo ma poi abbiamo sentito il bisogno di abbassare il finestrino e fissare il continuo cambiamento del panorama. Ma non è stato possibile: tutto era nero, malinconico...si riuscivano a scrutare solo le infinite lucine dei lampioni che creavano quasi un’atmosfera spettrale.

E proprio in quell’istante è cambiato qualcosa, tutte noi abbiamo iniziato ad aprirci condividendo ricordi propri e personali.

Io ho una mia visione di questo episodio: penso sia stata la paura. La paura di quello che faremo, la paura di quello che vedremo che ci ha spinte a delle sottospecie di “confessioni” che hanno fortificato i nostri legami e ci permetteranno di aiutarci e sostenerci a vicenda nei prossimi giorni.

Il pomeriggio è stato molto tranquillo e divertente. Abbiamo usufruito di un taxi per recarci nel centro di Cracovia. Lo ripeto, come ho già detto, è una bellissima città che non ha nulla da invidiare a tante altre.

O forse sì.

La Polonia è pur sempre la Polonia. Sono passati diversi anni da quel terribile accaduto ma le persone non dimenticano, tendono a non pensarci troppo, ma non dimenticano.

Non deve essere piacevole andare in vacanza e dire: «ciao, io sono di Birkenau»; purtroppo è un argomento sulla bocca di tutti e i pregiudizi non mancano. Eppure coloro che vivono in questa città camminano col sorriso come se niente fosse, sono proprio come noi... credo che sia tutta una questione di abitudine.

[Simona]

Giovedì 3 aprile

I topi mangiano i morti. Siamo sicuri? E i vivi? Aspettano di morire. Aspettano.

Non ci sono parole. Non si perdeva tempo. Non si poteva. Momento della selezione.

Capire mi è difficile. Quando parla trema. Prima di parlare trema. Lei sa, sa i nomi dei colpevoli, gli stessi che le hanno ucciso due nonni.

Gli stessi che hanno ucciso i nostri parenti, amici.L’indifferenza uccide. Ti odio, ti odio. Tu schifoso. Viscido.Non ti parlerò di fiori, di quanto siano meravigliosi, profumati,

perché sono morti.[Tsehay]

Immenso. È la prima cosa che noto quando varco il cancello d’entrata di Birkenau. Birkenau, con le sue rotaie che si interrompono davanti all’entrata, quelle rotaie che simboleggiano la fine di tante vite umane, ci si presenta davanti agli occhi come un’immensa distesa di campi e erba. La guida parla e parla, e finché la nostra guida parla, io non riesco ad apprezzare Birkenau. Io non riesco. La sua freddezza nel raccontare quello che è avvenuto qui mi fa arrabbiare, ed è come se rovinasse tutto.

Allora rimango indietro rispetto al resto del gruppo, e mi fermo. Proprio davanti alla sauna, il posto in cui i prigionieri perdevano la loro identità e venivano ridotti a un numero. Ed è in quel momento che capisco. Birkenau è la vastità, quella vastità in cui ci si perde con i piedi e con la testa; Birkenau è il silenzio, quel silenzio che ti colpisce lo stomaco, il silenzio straziante di vittime innocenti; Birkenau è una macchina di distruzione perfetta elaborata dai tedeschi; Birkenau è il bambino morto troppo presto aggrappato alla madre in una camera a gas; Birkenau è la moglie separata dal proprio marito; Birkenau è l’uomo che uomo non è più.

Ho i brividi e non riesco a esprimere le sensazioni che provo. Sono triste, arrabbiata, incredula, sconvolta al tempo stesso.

Immaginatevi tutto questo, perché Birkenau è molto di più. [Nicole]

Una delle più intense giornate che abbia mai vissuto: la natura e il cielo sorridevano; le betulle, come infiniti obelischi bianchi, si ergevano e, con il loro fruscio, creavano la perfetta colonna sonora; il laghetto per le ceneri rifletteva il cielo sgombro da nuvole e le chiome degli alberi. Il riflesso era interrotto da una rosa ormai appassita, lasciata da qualche visitatore chissà quanto prima di noi.

Quel posto, quella radura dove i prigionieri aspettavano per “farsi la doccia”, quei muri, quegli scheletri di ciminiere, quelle baracche, quelle rovine mi hanno lasciato un calco dentro.

Di Brzezinka sì, ricordo ogni cosa. È impossibile ormai tentare di dimenticare.

Mi ha preso per mano, sulla rotaia. Mi ha portato dentro e mi ha fatto vedere la sua grandezza. Mi ha parlato e guardato negli occhi. Il suo sguardo bruciava dentro il mio mentre mi rivelava i

suoi segreti. Mi ha detto che ho il compito di portarmeli dentro, tutta la

vita, di non scordarmi mai quello che mi ha rivelato.Mi ha detto che mi ha fatto donna. Mi ha detto che mi ha

fatto Uomo. [Scritto di getto, dai gradini del memoriale]La strada che collega la porta della morte alle camere a gasA Birkenau non puoi guardare il cieloNon puoi alzare lo sguardo dalla traccia sconnessaDevi guardare solo dove vai.Sentire il tuo respiroi tuoi piedi inciapare nei sassi.Continuare a camminare.

A Birkenau non puoi guardare il cielo.Che sia sole o neve che ti sbatte in facciatu guarda la stradaguarda la via.

A Birkenau il cielo e la terranon si incontrano all’orizzonte.Il fumo nauseabondo

esce dalle ciminiere fatiscenti,confonde i contorni.

Non ti lascerai distrarre.

La strada è lungaalla fine c’è un cancello nero.Lo varcherai.D’istinto chiuderai gli occhi.

Sentirai le urla.

Davanti al memoriale. Tra le due camere a gas.Quanto pesa la cenere?Grava sui miei capelliAppesantisce il corpoL’aria che respiroLa terra che cammino.

Il vento soffia leggero.Lambisce le orecchie e poi riparte.Non lascia tracce.

Se respiri profondamente sentirai puzza.Se affondi i piedi nella terra la sentirai bagnata.

La vita è leggera se finisce respirando. Chi urla muore per primo.

Sono circondata da morteSono circondata da vita.

Qui le vite scorrono insieme al vento.Quanto pesano su di me?[Cecilia C.]

Dopo il viaggio di quasi un’ora per giungere in quel luogo che fino ad ora avevo solo visto in fotografia. Appena sceso dal autobus notai subito il paesaggio, questa immensa distesa pianeggiante circondato da betulle.

Alla Judenrampe sentii una strana sensazione, che non riesco ben a descrivere, era come se stessimo entrando in un mondo diverso, come se ciò che ho letto sui libri diventasse vivo, più reale.

Il filo spinato, questo è uno di quei simboli che identificano i campi, a mio avviso il più giusto perché in qualsiasi direzione io guardassi vedevo il filo spinato.

Durante la visita la campo una delle cose che mi colpirono e che notai erano le contraddizioni stesse del paesaggio. Mentre ci dirigevamo alle macerie dei Crematori vidi in una parte del campo dei cerbiatti che saltellavano spensierati, quando si accorsero della nostra presenza scapparono. Questa è una delle contraddizioni che notai, contraddizioni tra libertà e prigionia.

Mi immaginai, anche, un deportato che guardava oltre il filo spinato, magari proprio nel punto in cui mi trovavo io, e vedeva le stesse betulle che guardavo anche io e in quel momento si attivò il blocco psicologico che mi accompagnò per l’intera giornata, Spesso per quanto io provassi a immaginare come poteva essere, non ci riuscivo.

[Luigi]

Oggi siamo andati a Birkenau e ammetto che mi ha colpito molto. Mi ha colpito perché è immenso, perché sembra impossibile, perché è assurdo, perché è inspiegabile e perché ho pensato che eravamo dove milioni di individui sono entrati e non ne sono mai usciti. La cosa che mi ha colpito di più è stata una piccola radura in mezzo ad un boschetto dove la terra in alcune zone è ancora bianca a causa delle ceneri delle persone che hanno sostituito la terra. Ho provato una pace immensa e meravigliosa, poi è sopraggiunto il senso di nausea e le lacrime placate dall’abbraccio di un mio amico.

[Cecilia F.]

Vorrei che anche tu fossi riuscito a salvarti. Vorrei che ti fosse stata lasciata l’opportunità di vivere. Vorrei che avessi avuto il tempo per vederti crescere, per vedere il mondo, per imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. Vorrei che avessi avuto il tempo per respirare fino a farti esplodere i polmoni, per sognare, per rischiare, per correre e urlare. Vorrei che avessi avuto il tempo per capire quanto fosse bello il tuo sorriso. Vorrei che avessi avuto il tempo per guardare il mondo attraverso l’arte, per camminare a piedi scalzi sulle rocce, per sdraiarti e respirare, per sentire la brezza che ti accarezza il viso, per fare l’amore, per mangiare il tuo piatto preferito, per litigare e riuscire a fare pace... Vorrei che avessi avuto il tempo per addormentarti piangendo per poi svegliarti con il sorriso, per correre con il vento tra i capelli. So che a te non è stato concesso,ma a me sì. Vorrei spiegarti com’è qua fuori. Vorrei spiegarti come ci si sente quando si è felici, quando si ride fino a sentir male allo stomaco. Vorrei descriverti il profumo della primavera, il sapore del mare, il rumore dei fiumi

che sgorgano quando si sciolgono dal gelo dell’inverno, il rosso del tramonto, l’amore di una madre, le sorprese inaspettate, la luce della luna e delle stelle, la melodia di una canzone, il sorriso di un bambino, l’abbraccio di un amico, il calore del sole sulla pelle, il riposo dopo la fatica. Ma in fondo, chi sono? Cosa potrei spiegarti in confronto a tutto ciò che avresti da raccontare? Che strano animale l’uomo: crea la distruzione e la rende un museo da visitare. Odia se stesso fino a distruggere gli altri. Si lacera l’anima e la divide in mille pezzi per poi non averne abbastanza per riuscire a vivere. Ma ora mi trovo qui e non penso più né al passato né al presente. Sono immersa nel silenzio assordante di questo infinito spazio, colmo di voragini, privo di raziocino. Vorrei poter trasformare questa nullità perché è terribile il senso di impotenza che si prova davanti alla propria indifferenza ed incapacità. Che peccato sarebbe soffocare tutto questo in parole banali e prive di significato. Voglio credere che possa restare impressa la mia ombra, insieme a quella di tante altre persone che mi hanno preceduto e che mi seguiranno. Perciò lascio qui uno spiraglio di luce, una parte di me. Poso su questo freddo ferro la vita, la speranza, la rinascita: profumo di primavera, sapore di vita. Dolce contrasto alla brutalità. Lascio qui oggi un mazzo di fiori. Giace qui per far capire a quest’infinità di anime che non sono morte invano, che non si disperderanno nel vento come urla silenziose. Vivono in ognuno di noi, ogni giorno. Vivono nell’aria che respiriamo e nelle strade che percorriamo. Vivono vivide nelle nostri menti giovani e inesperte. Vivono per far capire al mondo il valore dell’esistenza. Vivono per riuscire a mettere la parola inizio dove prima c’era una fine, per rinascere dove prima c’era la morte e per creare dove prima c’era la distruzione. Forse qualcuno arriverà a odiare anche queste parole, a trovarle banali o prive di significato. Forse molti non capiranno, ma ci voglio provare. Per me, per loro e per tutto ciò che di meraviglioso è rimasto.

[Silvia]

Ore 7:54Siamo in viaggio verso Auschwitz 2 o meglio detto Birkenau.

In pullman è salita con noi anche Eva, la nostra guida, che tra le tante altre cose parla molto bene l’italiano. Ci parla del posto che stiamo per raggiungere, io non riesco a guardarla negli occhi perché sono seduta in fondo ma sento la sua voce, la sento bene e mi suscita malinconia, è una voce consapevole ed il discorso è pieno i sospiri quasi come se ad Eva mancasse l’aria nel raccontare certi fatti.

«L’uno settembre del 39 è iniziata la guerra e la Germania, a differenza della Polonia, di preparava già da tempo a ciò... le è bastato un solo mese per occuparla. E nello stesso settembre del 39 anche i russi la occuparono.» Questo è quello che ci racconta la guida.

Cerca di giustificare sempre il suo paese, difende la sua patria ed è come se si vergognasse, sembra quasi sia mortificata. Ho l’impressione che si sia addossata colpe che in realtà non la riguardano, è come se si sentisse in parte responsabile e io... non capisco... vorrei tanto capire ma non capisco.

Ore 8:20Ci stiamo avvicinando, siamo in piena campagna e non

posso fare altro che perdermi a guardare distese infinite di campi. Penso che in questo momento non riesco a pensare...

Ho paura di stare troppo male.Ho paura di non stare male abbastanza.L’attesa mi rende terribilmente insicura, non ho un

carattere forte e in queste situazioni tendo a farmi da parte, tendo a tirarmi indietro. Quando pensavo a questo viaggio da casa mia sotto le coperte calde del mio letto sembrava più semplice ed ora che sono quasi davanti alla verità mi rendo conto che non è così.

Sono agitata, riesco a sentire i battiti del cuore che mi rimbombano in testa.

Ore 22:30Ho perso le parole.Abbiamo camminato tutto il giorno e abbiamo visto

appena un quarto de campo. Sì, lo sapevo che era un posto gigantesco, lo avevo letto nei libri di scuola ma in realtà non riuscivo a quantificare le reali dimensioni.

Scioccante, è proprio il termine più adatto.I nazisti erano davvero ben organizzati, per loro tutto ciò

sarebbe potuto durare in eterno, per loro era la cosiddetta “soluzione finale”. Illudevano milioni di persone innocenti promettendo, una volta arrivati alla meta, una casa e un lavoro migliori. Ma la verità è che i più deboli non superavano nemmeno il viaggio; e i più forti?! Molti appena arrivati venivano mandati nelle camere a gas ed il resto era costretto a lavorare tutto il giorno e a morire di fame.

Non c’era più un nome, non c’era più un cognome, ognuno era un numero.

Questa è la pura verità.[Simona]

Il Campo delle Betulle, Brzezinka, Birkeanu, si presenta dal cancello come un’enorme distesa erbosa e soleggiata.

Ciò che qui rimane, non cerca di essere diverso da quello che è stato: non ha la concisione di un museo da visitare né pare avere l’intento didattico di un percorso guidato.

In fondo al campo, il bosco di betulle circonda le rovine delle camere a gas, il muschio ricopre i cumuli di pietre ammassati. Così sembrano cosparsi da una patina naturale che li rende più dignitosi, altro da quello che sono stati.

Facendo un’analisi chimica di questo terreno vicino alle rovine e ai laghetti si rileva ancora la presenza di ceneri umane.

Mentre la guida dice cose come queste mi guardo attorno e mi sembra di capire e non capire. È che tutto qui sembra così naturale,così rigoglioso.Sembra che i rami dei salici che accarezzano il filo spinato e i muschi che ricoprono le rovine siano sempre esistiti. È difficile pensare a una convivenza tra ciò che è stato e ciò che è. Proprio qui dove ci troviamo noi, nella fotografia si intravedono bambini con le loro madri a cinquecento metri dalla camera a gas,tutti che aspettano sorridenti.

È per mia natura che cerco di formulare un pensiero che possa ospitare insieme tutti questi particolari così discordanti, i bambini, il muschio sulle pietre, le rovine, i rami di salice sul filo spinato, noi che osserviamo. Ma prima che questo pensiero riesca a concretizzarsi viene interrotto da nuove immagini, da sempre nuove impressioni che rendono questo posto un mosaico difficilmente definibile.

Il laghetto in cui venivano gettate le ceneri è di un colore caldo e terroso, come tutte le strade sterrate di Birkenau. Ciò che colpisce di questo posto è la sua autenticità.

Non c’è nulla che anche solo per rassicurarti ti dia l’impressione di essere a misura d’uomo.

La grande distesa di betulle, le rovine delle baracche ai lati del sentiero principale, la Juden Rampe, le strade terrose e sconnesse, il sole che irraggia ogni cosa di una luminosità innaturale non riescono a creare una descrizione di questo posto che risulti coerente con quanto è successo qui.

C’è caldo e il vento scompiglia i capelli. Sembra quasi di passeggiare. Nulla di ciò che vedi cerca di adeguarsi alla tua capacità di comprensione,e tutto sembra suggerire che Birkenau è bellissima.

Forse è proprio questo il problema. È difficile capire la tragicità di un luogo aspettandotelo in bianco e nero come nelle foto.

Proprio per questo Birkenau è uno schiaffo ad ogni convinzione e ad ogni pretesa di comprensione assoluta, un insieme di elementi che ti devi accontentare di accogliere senza la pretesa di farli tuoi modellandoli in base ai tuoi schemi, alla tua raffigurazione della realtà.

[Sofia]

BirkenauUn luogo di memoria su ciò che è accaduto quasi 70 anni fa...Un luogo simbolo di dolore...Un luogo basato sulla supremazia e sull’imposizione di potere

da parte delle SS...Un luogo simbolo di privazioni, messe in atto su uomini,

donne, anziani e bambini...Un luogo dove è stata compiuta violenza sugli uomini...Proprio su quegli uomini, quando l’unica colpa che avevano

era quella di professare una religione diversa...Una violenza quindi compiuta su uomini uguali ma diversi,

simili ma ebrei, internati politici, rom, sinti, testimoni di Geova...Ad un certo punto della visita, Costantino Di Sante ci ha detto

che questo campo è di 176 ettari a differenza di Auschwitz I che è solo di 7 ettari.

In quel momento mi è venuto naturale pensare a quei 176 ettari come 176 ettari di violenza, 176 ettari di privazioni, 176 ettari di dolore.

Durante la visita più volte mi guardo intorno e vedo ragazzi che ridono e scherzano, parlano tra loro di ciò che li diverte, di quando quella volta in quella discoteca, discorsi così durante una visita di questo tipo. E poi parlano di quanto sono stanchi, «è troppo tempo che camminiamo», «ho male ai piedi», e così continuavano per ore.

[Laura]

Un sassolino. Un sassolino. Un sassolino. Un sassolino.Un sassolino mi basta. Mi dico.Si agita. E allora inizia nuovamente a contare.Un sassolino. Un sassolino.Un sassolino mi basta.Dico. È agitata.Ma i sassolini sono finiti.Ecco. Questo è l’urlo silenzioso che costantemente picchia le mie

mani. Avrei. Anzi. Vorrei. Non saprei.[Tsehay]

Siamo stati a Birkenau, Auschwitz due. È strano. M’aspettavo grandi sensazioni, forse valanghe. Niente. C’erano il sole, ed il vento. A volte s’alzava forte, incazzato, e poi, dopo una breve sfuriata, placato, riposava. La polvere s’alzava in sbuffi. Niente valanghe. Solo la lieve brezza, i sussurri. Museo a sottrazione, non c’è quasi nulla. Delle baracche restano solo i camini. Pietre a terra. Torri di guardia. Filo spinato. Così crudele. È divenuto quasi il simbolo. Costrizione. Prigionia. Dal filo spinato non scappi. T’intrappola, violento, ti strazia. Se ti muovi, penetra più a fondo.

Stiamo passando di fianco ad una chiesa, alte e stretta, è quasi in bilico. È strana questa voglia di elevarsi, come se per raggiungere Dio bisognasse salire al cielo. In fondo è quello che ci hanno sempre detto. Ed è curioso. Qualche centinaio d’anni fa s’ingegnavano per fare chiese sempre più alte, a sfiorare il cielo, a sfiorare Dio. Oggi abbiamo grattacieli alti più di ottocento metri. Ottocento. Bisogna soffermarsi, perché a prima occhiata non si ha l’idea di quanti siano. Beh, oggi abbiamo grattacieli altissimi e chiese che si sono drasticamente abbassate. Oggi che possiamo realmente sfiorare il cielo, oggi che voliamo, oggi costruiamo chiese basse.

[Anna]

Venerdì 4 aprile

Quella mattina fu veramente difficile alzarmi dal comodo letto dell’albergo, dopo la pesante giornata del giorno prima, ma quella mattina avevamo un importante visita da fare, dovevamo visitare Auschwitz, I’Auschwitz madre. Appena arrivati non riuscii a localizzare il campo come invece nell’altro campo. Stavolta eravamo praticamente in città, intorno a noi c’erano chioschi che vendevano cibo o souvenir. Dopo la guida ci condusse all’entrata del campo e poi vidi il campo, l’aspetto era differente dal campo che avevo visto il giorno prima, mi diede l’impressione di essere una piccola città di case uguali. Una volta entrato la cosa che mi stupì era la perfetta geometricità dei blocchi e delle “strade” che l’attraversavamo orizzontalmente e verticalmente.

Le sensazioni che provai in questo campo erano diverse da quelle provate il giorno prima sarà che questo è più un museo la cosa che colpisce sono gli oggetti, sì gli oggetti dei deportati,

montagne di valige, montagne di pettini, montagne di scarpe, montagne di capelli.

Girando tra i vari blocchi passarono vicino a noi un gruppo di ragazzi ebrei che abbracciati l’uno all’altro cantavano, e in quel momento nella mia testa si creò un interrogativo: se fossi io ebreo e visitassi il campo, mi venisse raccontato tutto quello che fu fatto ad altri ebrei come me penso che proverei molto rancore, sì oggi non avrebbe senso perché le persone che fecero tutto questo ormai sono morte però avrei comunque rabbia.

Dopo la visita al campo andammo in un altro luogo, dove una volta c’era Auschwitz III a Monowitz per ricordare un altra persona che merita di essere ricordato Primo Levi, facemmo una piccola cerimonia in suo ricordo dove io ebbi il piacere di leggere un testo tratto da uno dei suoi libri. L’avevo letto più volte prima di averlo poi letto davanti a tutti, ma per quante volte io l’avessi letto capii veramente quello che leggevo quando sentii delle emozioni dentro.

[Luigi]

Il sole è già alto questa mattina in un cielo di un grigio stanco di piovere. L’autobus sta cominciando la sua marcia verso un’altra terra sconosciuta. Fuori qualche fiore sta nascendo timidamente in quella terra arsa dal gelo e qualche libellula si sta innalzando tra le nuvole. La natura si ribella ad un opprimente soffocamento che l’ha costretta a nascondersi così a lungo. Scorgo l’affetto di due innamorati tra i binari arrugginiti... tutto è vita. Ma se tendi l’orecchio, puoi sentir riecheggiare ancora tra i boschi il frastuono del ferro battuto e delle parole soffocate tra i gemiti. Nell’aria si riesce ancora a percepire l’odore acre del sudore e della cenere. Le foglie nascondono i pesanti passi di un crimine imperdonabile. Dov’era Dio quando la morte si stava impossessando di ogni cosa? Dov’era l’uomo? Dov’eravamo noi?

[Silvia]

Di Auschwitz I ricordo cose. Ogni frammento della giornata mi rimanda ad un oggetto, ad un cartello, a un pannello illustrativo del museo.

Si, Auschwitz I è un museo ed è proprio questo l’effetto che mi ha dato.

Dopo la lunga trafila alla biglietteria per ottenere l’auricolare con cui ascoltare la guida, uscendo e percorrendo pochi metri su una strada sterrata, ti si para davanti il cancello. Quel cancello che tutti conosciamo e la cui scritta tutti recitiamo.

Non ero pronta. Non lo aspettavo così vicino. Non me lo aspettavo lì, proprio lì, a due metri dall’ingresso. Alzato lo sguardo, fulmineo il cancello mi ha colpito.

Ma non sembrava vero. Assomigliava ad un cartonato, ad un set cinematografico.

Tutti i visitatori, fermi come noi ad osservare la scritta di ferro e a scattare fotografie da diverse angolazioni, stonavano. Anche noi, 30 ragazzi, stavamo male, un pugno in un occhio. Come davanti alla Gioconda: un dipinto su olio di 70x50cm, con un vetro di plexiglas a coprirlo e innumerevoli turisti che scattano foto come un mitragliatore.

Non hai il tempo di goderne la vista, riflettere sull’enigmatico sorriso e la pienezza dei colori.

Ho provato la medesima sensazione davanti al cancello: un simbolo del genere ha bisogno di una collocazione che gli renda dignità, rispetto. Non si può attraversare l’entrata del campo della morte senza avere il tempo di sentire su di se lo svilimento che quella frase comportava e comporta tutt’ora.

Il lavoro non rende liberi. Il lavoro non è lavoro ad Auschwitz: è perdere le forze, rompersi le ossa e non avere speranza. E se non si ha speranza, anche la libertà non conta più.

Ricordo il muro delle fucilazioni. I barattoli di Zyklon B. Una scarpa femminile, rossa, con un poco di tacco. La protesi di una gamba. Un elenco di prigionieri.

Vorrei ricordare ogni volto di ogni singola fotografia che ho visto: avevano rispetto nello sguardo. Rispetto di uno sguardo.

Auschwitz I mi ha insegnato come un museo sa fare: mi ha dato numeri, tanti numeri, luoghi, date e personaggi. Mi ha dato un dolore apatico - senza pathos - asettico, senza dolore né ferite.

Sono arrivata alla conclusione che quello fosse il mio modo di dare dignità a quelle anime: sono uomini che hanno smesso di essere uomini, sia vittime che assassini. Finché avrò la mia umanità non posso permettermi di cercare di comprendere la loro condizione.

[Cecilia C.]

Il campo di Auschwitz 1 è veramente bello. Mi vergogno a dirlo, ma le costruzioni in mattoni rossi, i vialetti ampi, tutti gli alberi intorno, gli conferiscono un’aria di ordine e di pulizia e di bellezza che non si dovrebbe attribuire ad un campo di concentramento. Alla fine della visita, dopo avere visto con i nostri occhi tutti i luoghi di quell’inferno e dopo avere immaginato la sofferenza che vigeva perpetua nel campo, mi sono incazzata. Non

mi sono arrabbiata, mi sono proprio incazzata. è una cosa più viscerale, è più profonda e si protrae più a lungo della semplice arrabbiatura. Mi sono incazzata perché la gente comune del popolo tedesco (ma non solo) non ha fatto nulla. Ed ho capito che, purtroppo, le persone sono indifferenti, guardano nel loro piccolo mondo, non alzano lo sguardo, sono ipocrite e badano al loro piccolo mondo cercando di arricchirlo il più possibile senza mai pensare alla gente che calpestano per fare ciò. Bene, la storia non insegna niente. Se ogni persona si fosse ribellata non sarebbe successo tutto quello che invece è accaduto. Vero è che molti erano ferventi sostenitori della politica esecutiva nazista, ma tutti i dissidenti? I contrari? Il resto del mondo?

[Cecilia F.]

Ebbene si, è arrivato anche il giorno del temutissimo Auschwitz.

Tutti lo conoscono, tutti ne parlano, tutti sanno moltissime cose su questo posto ma in realtà le persone che lo hanno visto con i loro occhi non sono tante.

Io oggi ho capito che dobbiamo guardare al futuro, perché noi siamo il futuro, ma senza dimenticarci del passato, senza commettere gli stessi sbagli.

Ma i nazisti perché si sentivano tanto superiori? Forse perché erano della così detta “razza ariana”, forse perché erano militarmente più potenti...

Non lo so, io non voglio credere che tutti loro fossero così insensibili e crudeli; io credo nelle persone e nella speranza e di conseguenza mi piace pensare che sì, era pieno di persone “senza cuore”, ma anche di persone pronte ad aiutare il prossimo perché siamo tutti uguali, abbiamo tutti un naso, due occhi e una bocca... abbiamo tutti lo stesso corpo.

La storia ci ricorda le azioni miracolose di Oskar Schindler che riuscì a salvare un notevole numero di ebrei e come lui io sono certa che c’erano persone buone disposte a fare qualcosa, qualsiasi cosa.

Tutto era d’aiuto, anche i piccoli gesti.Per il resto cosa si può dire, Auschwitz è pur sempre

Auschwitz e per comprendere bisogna andarci, bisogna guardare con i propri occhi.

[Simona]

Siamo quindi arrivati. Nella mia immaginazione pensavo a quella famosa scritta «Arbeit macht frei» come una grande

scritta in una grande entrata con un grande prato intorno colorato di bianco in inverno.

Quando invece esco dalla biglietteria, dopo aver preso le audio guide, mi ritrovo in un piccolo cortile e in un angolino la piccola entrata.

Alzo lo sguardo e vedo la famosa scritta.Tutto così limitato rispetto a ciò che la mia immaginazione si

aspettava di vedere e rispetto a quella grande immagine centrale come ripresa in più film...

Ripensando a quel campo mi viene in mente uno strano profumo.

Non c’era il solito profumo della natura, dell’aria, ma è come se la natura stessa volesse incitarci a non dimenticare e per questo emani un profumo diverso, forse un profumo di memoria, di ricordo, di ingiustizia e di dolore!

Anche i suoni mi stupirono.Non si sentiva il solito rumore di auto tipico della città ma

nemmeno il cinguettio degli uccelli tipico della campagna.Momenti di silenzio e momenti dove si sente il brusio delle

voci giovanili...Momenti di serietà e momenti dove risalta la voce di Sofia e

Costantino...Momenti di stanchezza e momenti di profonda emozione.[Laura]

Che poi, dico, scrivere ‘Alcohole’ è senza pudore. Negozi che denunciano subito il loro peccato, in grande, nell’insegna. Che poi, forse, è meglio così, perché tanto si beve lo stesso e allora è meglio dirlo subito, e ci togliamo il pensiero. Evitiamo certi sotterfugi, ne abbiamo lo stesso tanti altri.

Stiamo andando ad Auschwitz, ragazzi. O Oświęcim, come lo chiamano qui. È giorni che ci parlano di numeri grandissimi e vuoti. Era pieno lo sguardo di un tipo severo che ieri ho visto in una foto dell’epoca. In mezzo a quelli felici di momenti di vita normale prime della guerra, c’era ‘sto sguardo fisso, severo, che ancora accusa. E lo noti, là in mezzo, per niente indifferente e, dico, chissà se era così o se s’è impegnato per quella foto. Magari era uno con poca spina dorsale che ha voluto il suo momento di gloria. Ma lo riguardo. Ci penso. Uno sguardo che ha resistito settant’anni non penso lo si possa fingere, ‘che non ci crede nessuno. E mi guardava, lui.

Ora, non è che c’entri molto, ma nella mia testa c’è un casino bestiale. E allora, penso, ‘sta guida non si regge più. Non ho bisogno di sapere quello che posso trovare in

qualunque libro di storia. Quello lo so già. Non voglio sapere che la vita era dura, ma quanto era dura la vita. Ho visto quel carretto, questo voglio vedere, al mattino ci portavano una specie di brodaglia che aveva smesso di provare a sembrare caffè, e la sera serviva a raccogliere i corpi di quelli che non erano riusciti a respirare più.

Ho sentito i canti degli ebrei, questo voglio sentire, il loro dolore ancora così vivo, e si dondolavano insieme, come ubriachi, reggendosi l’un l’altro. La loro litania così lieve che l’ho bevuta, avida.

Abbiamo passato un cimitero, è strano. Grande, dalla strada si vedono le tombe al di là del muretto basso. Tutte hanno fiori, colorate, che lo fanno un grande campo di pietre liete che ha perso tutta la tristezza, o forse è solo più accentuata, così esposta, baciata dal sole pallido.

Ora è appena passata un’ambulanza, ed ha un suono diverso, non l’ho riconosciuta. Ed è strano anche questo, dico, perché le ambulanze bisogna riconoscerle.

[Anna]

Ti terrò. Stretta. Con un filo d’aria.Ti stringerò. Forte. Con le lacrime che scendono ogni santo

giorno.Ti vorrò. Quando vuoi e quando non avrai bisogno. Di me.Ho aperto la porta.Il senso non c’è. La paura si fa avanti.L’ideologia era ormai morte.L’odore non sarà passato. Mi dico.[Tsehay]

Auschwitz 1 è un grande museo. «Il lavoro rende liberi», questa la prima cosa che si nota. Auschwitz 1 con le fotografie dei prigionieri, con le valigie, con gli occhiali, le scarpe, i capelli, con i giocattoli che appartenevano a bambini. La cosa che mi ha colpito di più è stata la baracca dedicata ai prigionieri ebrei morti nel campo. Mi ha colpito più di tutti il libro enorme sopra al quale vi erano scritti i nomi dei 4 milioni di ebrei morti conosciuti. Gli altri 2 milioni non sono stati accertati. Comunque, mentre scorro le pagine di questo libro grande come un’intera stanza, capisco che noi non abbiamo idea della strage che nasconde questo posto, delle vite umane negate.

È evidente che Auschwitz nella sua perfezione nasconde milioni di insidie. Come la casa del comandante Höss, appena fuori dal campo, sembra così bella, così perfetta. Aveva due figli, il comandante Höss. Chissà come sono cresciuti quei due bambini, chissà cosa gli veniva

raccontato. Ecco, credo che la forza del nazismo si trovi proprio nel nascondere le cose, nella simulazione. Ed è grave che nessuno si sia reso conto di tutto questo per 6 anni.

Il peso di questi due giorni di visita ai campi si è sentito fortemente durante il corteo e la cerimonia a Birkenau. Eravamo 600 ragazzi uniti in un unico respiro, attenti a non disturbare, attenti a non rompere quell’equilibrio. Abbiamo ascoltato le letture di altri ragazzi. Durante la cerimonia si è notato che questa esperienza ha lasciato qualcosa ad ognuno di noi. Lo si è notato grazie al silenzio. Un silenzio fatto di mille parole. Un silenzio che non dimenticherò.

Quel silenzio seguito dall’energia che Cisco ci ha trasmesso con il suo concerto. Divertente, fantastico, coinvolgente. È stato liberatorio dopo due giorni trascorsi a visitare luoghi di dolore e sofferenze. Abbiamo ballato, abbiamo cantato, ci siamo divertiti, tutti insieme.

[Nicole]

Sabato 5 aprile

E così è già ora di tornare a casa. Siamo in treno e ora l’atmosfera che si respira è molto diversa rispetto a quella dell’andata. Infatti ora ci si conosce molto di più, e quindi si pensa solo a passare queste ultime ore nel migliore dei modi, con le persone che hanno reso quest’esperienza ancora più indimenticabile.

Sono stati giorni intensi, faticosi, ho camminato tanto, ho provato continue fitte allo stomaco alla vista di certi luoghi, ho imparato ad apprezzare i brodini polacchi, ho conosciuto persone meravigliose, ho capito di essere stata fortunata ad essere scelta per ‘Un treno per Auschwitz’, e ho capito che Auschwitz non è una storia finita. Auschwitz è nell’uomo bianco che si crede superiore a quello nero, Auschwitz è nell’egoismo di certe persone, Auschwitz è nella discriminazione di alcune razze (marocchini, rumeni, albanesi ecc..), Auschwitz è nel ragazzino che si comporta da bullo. Io ho visto Auschwitz, io ho vissuto Auschwitz. E mi rimane solo una cosa da dire: purtroppo quel che è stato è stato, il passato non si può cancellare. Per questo è necessario non dimenticare. Io, certamente, non dimenticherò.

[Nicole] “Ultimo giorno”, ecco cosa pensai con amarezza quella mattina,

e sì era l’ultimo giorno da trascorre a Cracovia. Il programma di quella mattina era di andare a visitare la Cracovia ebraica, dove una volta c’era il ghetto e dove si era formato un quartiere

ebraico Kazimierz. La visita non fu molto lunga ma rimasi molto affascinato, mi sentivo molto un turista giapponese o cinese avevo sempre il telefono in mano per fare foto, volevo conservare il più possibile di questa magnifica città.

Il pomeriggio era libero, potevamo girare Cracovia. Io e alcuni miei amici oltre ad avere in programma di fare compere, volevamo andare a vedere La Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci, che si trova nel castello vicino anche alla cattedrale di Cracovia, e dovevamo andarci di corsa perché il tempo prima della partenza era poco e io volevo vivere al massimo la città quel pomeriggio, ogni secondo era prezioso per me. Dopo aver visto il quadro percorremmo tutta la via che portava alla piazza del mercato e ogni tanto ci fermavamo in qualche negozio per comprare qualche souvenir, anche se ormai era qualche giorno che ero in Polonia quando dovevo pagare in zloty mi sembrava sempre di spendere tanto, non riuscivo ancora a fare il cambio in testa, ragionavo sempre in euro. Il tempo libero per Cracovia stava terminando.

Dovetti prendere l’autobus per tornare al treno, quel treno che mi avrebbe riportato a casa, di una cosa ero certo mi sarei portato a casa una ricchezza inestimabile e dovrò portarla sempre con me.

Arrivò la partenza da Cracovia, e la salutai dal finestrino per l’ultima volta.

[Luigi]

Oggi abbiamo visitato Cracovia. Non mi è rimasto molto del giro della città. Avevo la testa ancora nel campo di concentramento e allo stesso tempo già proiettata verso casa. Volevo tornare. D’altra parte penso che questo viaggio sia stata una opportunità meravigliosa! A mio parere almeno una volta nella vita ogni persona dovrebbe recarsi in un campo di sterminio o di concentramento per vedere con i propri occhi gli orrori che sono stati compiuti.

[Cecilia F.]

Oggi è già l’ora di partire e ripercorro nella mia mente l’intero viaggio, passo per passo... non tralascio nulla, è come se avessi scattato delle fotografie nella mia mente.

Oltre ai campi di concentramento/sterminio sono rimasta davvero colpita da un fatto. Una volta terminata la visita a Birkenau con grande sorpresa ho visto dei ragazzi più o meno della mia età, o forse più piccoli, andare sullo skateboard o sui roller, ridere e scherzare come se niente fosse, come se non avessero Birkenau alle spalle, come se non esistesse.

Probabilmente loro avendolo sotto gli occhi tutti i giorni non ci fanno più caso, sicuramente saranno abituati.

È stato strano però vederli così tranquilli, così a loro agio mentre io mi sentivo lo stomaco chiuso, mentre io non trovavo le parole per parlare, mentre non facevo altro che pensare...

[Simona]

Nel momento in cui saliamo in pullman con direzione stazione, tutti dormono e mi ritrovo ancora una volta sola con i miei pensieri cercando di capire ciò che ha significato per me questo viaggio e come mi ha cambiato tutto ciò.

Vedendo quei luoghi impari che la vita è preziosa...Impari che tutto ciò che hai è importante...Impari ad apprezzare un foglio e una penna, una maglia e

un paio di scarpe, un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua...Impari che la famiglia è speciale...Impari che bisogna vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo,

come ho sentito dire più volte da mia nonna, forse è una frase di una persona famosa, ma non ho mai approfondito la ricerca...

Impari che il buongiorno al mattino è già un inizio positivo...Impari che al mondo ci sono delle persone che non sono

persone, nemmeno numeri, ma qualcosa di peggio...Impari che nella vita non puoi programmare nulla perché da

un momento all’altro può accadere qualcosa che ti cambia la vita...Impari che quando una persona ti dice «ti voglio bene» non

sono tre semplici parole, ma solo tre parole, dodici lettere, sei consonanti e sei vocali, e soprattutto parole che da un momento all’altro potresti non sentire più!

[Laura]

Auschwitz nasce tra le mura di casa nostra e le piazze delle nostre città, ogni giorno. Nasce quando non riusciamo a vedere l’uguaglianza tra bianchi e neri, eterosessuali e omosessuali, cibo italiano e cibo cinese, uomo e donna. Nasce quando permettiamo un ingiustizia e creiamo dolore. Lo sterminio parte dalle debolezze degli uomini e si alimenta di paura. L’odio si nutre di pregiudizi, idee ed ignoranza. Fa leva sui più insicuri, su coloro che hanno paura di essere sopraffatti o messi da parte. Si insinua nelle nostre menti e come un parassita comincia a crescere. Come un idea che ci appartiene è difficile da distruggere, così continuamente alimentato dalle voragini dell’ignoranza prende forma. È dalle piccole cose, dai gesti quotidiani che nasce un campo di concentramento. Nasce quando le persone condividono un pensiero malato di insicurezza e danno colpe

piuttosto che attribuirsene. Non basta la semplice memoria dei fatti. L’uomo deve capire che finché esiste l’invidia e la competizione l’uguaglianza non può crearsi uno spazio nelle nostre menti.

[Silvia]

È andato bene. Andrà bene.Oggi sono in crisi. Oggi sono in crisi.Oggi sono. Oggi. In crisi. Il sasso. Stanco.Giace.[Tsehay]

Domenica 6 aprile

Mi aspettavo di cambiare, di spaventarmi, di piangere. Mi aspettavo di tornare con un bagaglio pesante e ricco. Sono rimasta delusa nelle mie aspettative e nelle mie stesse convinzioni create dal frastuono di chiacchiere che soffiano quotidianamente nelle nostre orecchie e dalle parole inutilmente proclamate con noncuranza tra le mura di casa nostra. Mi sono sentita inutile. Sono riuscita a tenere le distanze in un modo straordinariamente razionale. Mi è apparso tutto strano ed incomprensibile. Mi sono trovata davanti alla morte, all’odio più profondo e all’assurdità dell’essere umano. Eppure ero immersa nel sapore della vita: sentivo il vento tra i capelli, il calore del sole sulla pelle, il cinguettio degli uccellini. Riuscivo a sentire tutto ciò che la terra mi stava regalando. Improvvisamente ho capito che non era scontato trovarmi lì e che avrei dovuto apprezzarlo in ogni istante fino a che avrei potuto: perché a me è stata concessa l’opportunità di vivere ed è vero, non so cosa accadrà dopo, ma so che la vita è ora ed io... be’, io sto vivendo.

[Silvia]

Eravamo cambiati.Si percepiva chiaramente nell’aria che non eravamo più

gli stessi.Anche il treno non era più un semplice treno che ci avrebbe

riportati a casa... era diventato un “treno per pensare”, un treno dove scambiare opinioni ed emozioni.

Il viaggio non sembrava più lo stesso dell’andata, tutto non era più lo stesso.

Ora non eravamo più semplici compagni di viaggio, ora avevamo un qualcosa di straordinario che ci accomunava, un qualcosa che ci faceva sentire a casa.

È stato uno degli addii più difficili di sempre, nessuno aveva voglia di scendere da proprio scompartimento, dal proprio vagone.

[Simona] Quando mi svegliai ero sul treno, ormai al confine con l’Italia,

avevo molta malinconia dentro, ripensai alle parole che mi furono dette prima di partire «tornerete diversi», chiunque lo abbia detto aveva ragione questa esperienza colpisce all’interno delle persone, al di fuori sembri uguale, gli altri ti vedono uguale, ma tu sai che dentro di te qualcosa è cambiato ora la sfida è capire in che modo si è cambiati e usare a proprio favore tutto questo per crescere, per maturare, per non dimenticare.

Il titolo che voglio dare a questo mio racconto, di come ho vissuto questa esperienza, è ztiwhcsuA tutti riescono a leggere la parola che ho scritto, e tutti si rendono conto che ho semplicemente scritto Auschwitz al contrario, la cosa forse dove nessuno si soffermerà è che per leggere questa parola hanno dovuto cambiare prospettiva, leggerlo in un altro modo, da destra a sinistra. Questo è l’ultima cosa che voglio dire. Auschwitz va visto da più prospettive!

[Luigi]

Oggi rileggo ciò che ho scritto dei giorni precedenti e tutto mi sembra così banale, così semplice.

Riflettendo però mi è stato detto di fare una descrizione cronologica di questo viaggio e così ho cercato di fare: ho descritto il mio treno, il mio viaggio, il mio inizio, il mio Auschwitz e il mio Birkenau, le mie emozioni, i miei pensieri e ora mi rimane solo la mia fine.

Una fine triste, ma una fine diversa dall’inizio!Una fine che non so descrivere quindi concludo dicendo che

questa è la mia fine.[Laura]

I vetri lacrimano. Sarebbe facile dire, dopo un viaggio come questo, che anche il cielo piange la strage. Ma penso che non gliene freghi niente. Ecco la vera magia. Il sole splendeva sugli uomini a righe, e la pioggia batteva. C’è una sottile crudeltà nel profumo delle margherite, nate sopra alle ceneri. L’erba è quasi più rigogliosa, e se ne frega.

Passano i monti, casa si avvicina. Il viaggio è lungo, ma sarà forse il sapore di fragola che ho in bocca - per quanto sia incredibile, ho comperato acqua alla fragola - che mi fa sentire

tutto dolce, anche questo viaggio. In corridoio ci sono facce sconvolte, con occhi piccoli, non troppo svegli, appannati.

Ho sentito Cisco, qualche sera fa. Ha quel ritmo cadenzato - come questo treno - quel ritmo che mi travolge. La tromba suona, canta. È bello. Il ritmo incalza, mi dondolo. Salto. È bello. Rido. Rido, lo faccio sempre, ma questa volta sono felice. Un’atmosfera antica, che rivive questa sera solo per me. Stasera sono felice.

Ed ora sarebbe tempo di dire cosa ho portato a casa dal viaggio. Me lo chiedono tutti. Com’è? Non lo so. Non ridetemi in faccia se vi dico che c’era il sole, accidenti, il sole c’era. Mi aspettavo tutto, gli impatti emotivi ed il filo spinato, ma non il sole. Non il caldo, la pelle assetata che trova finalmente pace. Pensavo che una così grande sofferenza si dovesse in qualche modo ripercuotere su di noi, almeno un po’, pensavo che l’avremmo sentita. Invece no. E così è bellissimo e difficile. Così bisogna cercare, cercare ogni emozione, ogni sensazione. Bisogna scavare.

[Anna]

Ora. Vi ordino. Vi raccoglierò. Vi cullerò.Voi siete dentro di me. La mia mano parla di voi. Le mie

unghie. Non odiatemi.[Tsehay]

Stampato da La Pieve Poligrafica Editore Villa Verucchio s.r.l.Nel mese di maggio 2014