Punte di Diamante · Ma TIREM INNANZ. E i promossi , che dire! Sabbatini, Mari, Goldoni e chi...
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Presentazione
II tempo dei fatti raccontati in questo scritto è solamente un passato prossimo, quello della
giovinezza di questi ragazzi che hanno vissuto nella Milano degli anni sessanta o nella periferia
ancora rurale o immersa nella realtà di uno sviluppo industriale. Altri invece venivano da paesi
limitrofi sobbarcandosi uno spostamento giornaliero molto pesante.
Appena poco lontano dalla scuola teatro della storia, c’era dunque questo microcosmo formato da
rioni, cortili, strade dove alcuni gruppi si riconoscevano, altri no, ma dove tutti si ritrovavano era a
scuola; nella piazza che ancora oggi si chiama TITO LUCREZIO CARO. L’ITIS GALILEO
GALILEI, ora non è più là, si è trasferito in Via Paravia, verso San Siro o Forze Armate, appena i
personaggi, cioè “le punte di diamante” si sono diplomati.
Il lavoro non è terminato qui, ma continuerà con il prossimo incontro.
ITIS GALILEO GALILEI Ingress0
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Proverbio
CHI GH’HA ON MESTEE IN MAN,
NO GHE MANCA UN TOCCH DE PAN
Attorno a questa massima i nostri genitori avevano ragionato e credo un po tutti, padri e madri
convenivano che era meglio imparare un mestiere e poi si vedrà.
La scuola che ti dava subito una preparazione legata ad una professione e che ti consentiva di
entrare subito nel mondo del lavoro era appunto un istituto tecnico, ed allora formava veramente,
altro che oggi.
Così io e i miei compagni fummo iscritti all’istituto Galileo Galilei con distaccamento in Via Pace,
nelle aule della scuola Umanitaria, proprio dietro al Palazzo di Giustizia. Era l’anno 1960 per me
per altri l’anno dopo, in quanto io fui subito bocciato. Inglese e lima a settembre. Promosso in lima
anche con l’aiuto di uno zio che mi fece il pezzo con foro quadro al centro e che ho consevato
ancora, mentre in Inglese non sono riuscito ad arrivare al sei: ergo ripetere l’anno.
Vedi il caso, questo è il mistero che ci avvolge sempre nella nostra vita, altrimenti non avrei mai
passato cinque anni con i compagni, cioè con le Punte di Diamante.
E se ci pensiamo bene possiamo dire che sono 50 anni.
Il GALI aveva allora tre specializzazioni: elettrotecnica, spelafili, meccanica, avvita bulloni e ottica
che si consideravano i piu’ meglio, direbbero oggi i neodiplomati.
La competition era all’ordine del giorno e anche gli scherzi, e così anno per anno, arrivammo al
quinto, quello della maturità.
Negli scambi delle mail si può vedere se di maturità si trattò.
Io cercherò di raccontare in parallelo la storia di alcuni di noi che in quel periodo per molte
circostanze anche casuali furono più vicini.
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Viaggio in treno
A Giugno l’anno era finito ed eravamo nel periodo che precede l’inizio degli esami. Noi tutti
eravamo in fibrillazione, chi più chi meno e temevamo, come credo tutti i ragazzi che si apprestano
ad affrontare gli esami del diploma, temevamo, dicevo la verifica sul campo. Era dunque giunto il
momento finale della verità e tutte le nostre risorse dovevano essere esternate di fronte ad una
commissione ignota e sconosciuta. Cadevano i riferimenti dei nostri ben amati e odiati proff e ci si
doveva confrontare prima con noi stessi nello scritto, e poi con loro stranieri nell’orale.
Io, Franchino, Gigi, Max, Ermes, avevamo in mente di passare le vacanze insieme. Un' idea era di
andare alle isole Tremiti.
Prima esperienza da soli, primo viaggio da soli, primo tutto. Naturalmente c’era l’ostacolo esami,
che andava superato, ma intanto si progettava. Quella mattina uscendo dalla scuola Franchino mi
disse: "Perchè non vieni da me a Bussero a preparare gli esami, ripassiamo insieme?"
"A Bussero?".
"Si, non è in capo al mondo, chiedi ai tuoi se ti lasciano, fa mingha el bighel". Aggiunse lui
ridendo.
Sulle dita delle mani, mia madre aveva un mosaico di piccoli calli, lunghi e sottili, si sono
alleggeriti con la vecchiaia ma a quel tempo erano evidenti e mi colpivano; erano il risultato del suo
lavoro continuo alla macchina per fare le maglie, ed essendo lei stata maestra in maglificio ora
traeva da questo lavoro l’aiuto necessario per aiutare mio padre a mantenere la famiglia.
La mia non era quindi una famiglia ricca a quel tempo, direi del ceto medio basso e bisognava
sudare per sbarcare il lunario a Milano.
Quando le chiesi: "Mamma posso andare dal Franchino a preparare gli esami?" mi disse: "Ma
perché no! Basta che studiate, comunque questa sera chiedilo al Papa".
Mio padre era sempre molto preso dal lavoro, spesso era a Roma, a volte anche all’estero. Lui
quella sera si dimostrò molto disponibile, e non pose alcuna condizione. Anzi forse era contento.
Così io ebbi via libera e due giorni dopo, non so come, forse venne a prendermi direttamente
Franchino, sbarcai a casa sua.
"Vieni, vieni caro", mi accolse con affetto sua madre. Una donna molto alta, imponente che però
mi mise a mio agio. Mi sentii come a casa e ricordo una calda intimità familiare. Casa molto
grande e spazi enormi che mi sono rimasti impressi, oltre a un grande cortile con legname e fabbrica
annessa. Franchino, si vedeva che si sentiva a suo agio. Io un po’ meno, pur sentendomi come a
casa, faticavo a restare concentrato su questa benedetta elettrotecnica, su quegli esercizi, su tutto
insomma. Ero distratto da tutte quelle novità che mi circondavano e che inevitabilmente mi
attraevano. Passarono uno o due giorni e mi sembrava che tutto fosse faticoso, non rimaneva nella
mente con lucidità tutto quello che studiavamo. Forse era l’ansia forse era la scarsa attitudine a
rimanere sui libri. Come tutti. Franco credeva in me, io in lui e così sostenendoci a vicenda i giorni
passavano.
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Nel frattempo giunse la comparsa della sorella. Nome … Pinuccia. La crisi aumentò in me, non so
per quale motivo, ma aumentò.
Forse Franchino non se ne accorse, e mai lo ha sospettato, fatto stà che la ragazza che non aveva
esami da fare, gironzolava intorno a noi, e per tutto il giorno. Certo era casa sua. Comunque ci si
distraeva e quindi credo che alla fine di una settimana rientrai a casa, anche perché poi mancavano
pochi giorni ai primi esami. Eccoci buttati a capofitto negli esami, i vari confronti, le varie prove e
verifiche.
Il caldo di fine giugno aumentava e in casa non si riusciva a studiare molto.
Poi a casa mia, allora abitavo in Via Caruso, quasi all’Ortica, ci trovammo in due o tre alla volta:
Max, Gigi, Ermes, Franco.
Le prove si susseguivano e senza un momento di sosta arrivammo alla fine. Finalmente. Attesa e
trepidazione per i risultati.
Promossi tre o quattro, naturalmente io non c’ero. Solo due esami. Impianti e Italiano. Scandalo,
hanno dato Italiano a me, ma se ero il migliore! Chissà gli altri.
Insomma io non ero ancora maturo per quella commissione, forse perché ero un po’ confuso e
forse lo sono ancora oggi. Avevo portato Gide come libro a scelta, ma io forse non l’ho mai letto
questo Gide, e cosa faceva? Forse era anche un pochino orecchio, oggi diremmo gay. E perché mi
aveva interessato? Chi lo sa? Gide o non Gide eccoti due esami che mi rovinano le vacanze.
L’altro esame, era il mio forte, il disegno di impianti. Sempre 7.
Ecco la spiegazione del giallo. Embricato o non embricato. Ma che diavolo voleva dire. Chi me lo
spiegherà prima di andare in cielo? Forse c’entrano i trapezi, non quelli del circo. Ma TIREM
INNANZ.
E i promossi , che dire! Sabbatini, Mari, Goldoni e chi altri, non ricordo. Erano i migliori e va detto
che il risultato era stato giusto.
Intanto tutto si era fermato anche la nostra ansia, e guardando quei tabelloni con i nostri risultati ti
saliva dentro una malinconica incazzatura, perchè …. per mille perché, perché l’errore nel disegno
era del proff, e così via. Finite tutte le nostre lamentele, eccoci pronti alla partenza.
Riunione a casa mia con mia madre in cucina che seguiva i nostri discorsi, e pregava in silenzio non
so quale santo, forse la Madonna affinchè nell’estrarre la buschetta per decidere chi avrebbe dovuto
andare in treno, pregava che uscissi io.
La 500 bianca di Franchino era troppo piccola per un viaggio di quattro ragazzi più attrezzatura per
il campeggio, Franchino guidava e uno di noi tre doveva quindi andare in treno. Gigi era già partito
e si trovava a Termoli dai suoi, e ci aspettava. Finalmente si passa all’estrazione e vai … la
buschetta corta è toccata a…. me, con gioia di mia madre che appena sentito è arrivata tirando un
lungo sospiro e complimentandosi con i miei compagni. Bene ragazzi allora la prossima settimana
si parte, lunedì, massimo martedì.
Ma nel momento di lasciarci, un mio commento relativo a dove avremmo dormito sollevò un
polverone.
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"Ma come non hai ancora provveduto per la tenda?" E no.! Mio padre l’avrebbe comperata ma
purtroppo non essendo stato promosso, è già tanto che mi lascia venire. E allora? E allora dobbiamo
trovare una soluzione, anche di ripiego. Ed ecco qui che emergono i nostri istinti e che fanno capire
come saranno anche nostri futuri lavorativi.
Propongo di andare a Ponte Sesto dove l’Arca vende attrezzature da campeggio, e forse potremmo
trovare una tenda usata. Alla fine ci volevano più di ventimila lire, e quindi non se ne fece nulla.
Ritornai a casa e tramite i miei amici dell’oratorio di Santo Spirito dove frequentavo da alcuni anni
la comunità, riuscii ad avere in prestito una tenda canadese da due metri per due dove avremmo
dovuto dormire in cinque. Anzi in sei perché si aggiunse all’ultimo anche un certo Tonino, amico di
Gigi che si trovava anche lui a Termoli. La tenda naturalmente non era nuova, ma aveva già fattto
non so quanti altri campeggi, forse l’avevano usata nella seconda guerra mondiale e si vedevano i
segni. Eravamo così felici che nulla ci importava di questa tenda che neppure avevamo aperto ma
che fu un vera sorpresa quando l’aprimmo per la prima volta. Non aveva nessun fondo. Solo due
paletti e una traversa.
Bello, bello, bellissimo.
E quella cicciolina lì in mezzo chi era?
Non ne vogliamo parlare?
Veramente non so, se si può, oppure entriamo nel campo della privacy, che allora manco esisteva.
Come non esistevano i telefonini.
Si, ma cosa c’entrano i telefonini?
Niente, come non c’entra niente la ragazza lì in mezzo.
Con calma e ordine, vediamo di raccontare dall’inizio.
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"Allora ricordati di telefonare quando arrivi, i soldi li hai". Così mi diceva mia madre mentre in
lacrime mi salutava alzando la mano ossuta. "Ciao e stai attento. Ti ho messo qualche panino col
salame nello zaino". "Ciao mamma, non ti preoccupare e saluta il Papà". Lui non era venuto, non gli
piacevano le partenze e poi se non ricordo male era ancora convalescente per una lunga degenza
post operatoria.
Il treno si mosse piano piano, e altri si sbracciavano vicino a me dal finestrino mandando saluti a
padri, madri, amici e a tutta quella gente che si era accalcata attorno al treno. Avevo trovato un
posticino proprio vicino al finestrino, e così in meno che non si dica mi trovavo a rivedere luoghi e
volti di amici appena lasciati.
Il treno passò da Turro-Greco sopra il Viale Monza, dove una volta c’era il famoso Trotter. Mi
viene in mente la cricca di Giorgio, un mio amico con il quale dividevo le ore post– scuola.
Abitavamo nello stesso palazzo e suo padre era il costruttore. Non so se mi spiego, al ragazzo non
mancavano a quel tempo le noccioline. Insomma a Turro c’era forse una sua ragazza, ma cose da
poco. Non come oggi. Su questo argomento, torneremo dopo.
Intanto proseguiamo, ed il treno sfila davanti a Lambrate, e qui rallenta anche per farmi vedere
bene le mie zone.
Io allora abitavo in fondo alla via Amadeo, in Via Caruso, dove fino alla fine degli anni 60 vi
erano solo campi, che noi chiamavamo campetti e che erano i posti predisposti e prediletti per la
famosa camporella. Io giocavo in uno di quei campi, erano circa una decina, ed ognuno aveva una
squadra con relativa organizzazione sportiva.
La leva del 1960, avevamo 14-15 anni era stata micidiale. Eravamo i figli nati dopo la guerra: 1946-
1947.
Al provino, se così possiamo chiamarlo, eravamo una cinquantina di ragazzi di quell’età per
campo. Io non so chi mi portò al campo Gloria, dove feci il provino per l’ORTICA FC. Anno di
fondazione 1921 con sede sportiva alla Trattoria dei Tre Basei che si trova naturalmente
all’ORTICA, dopo la chiesa di San Faustino. Oggi la trattoria si è trasformata in un pub dove
fanno birre crude.
Dell’Ortica nessuno si ricorda più. Ho incontrato per caso quest’autunno ad una celebrazione di
affreschi della chiesa la sorella del nostro allenatore, un certo ENNIO ex pugile, che allora
arrivava, tanto per darci la carica, con un moto 250cc Guzzi o Gilera. Sul sagrato della chiesa c’era
la colonna del Barbarossa in ricordo di un passato guerriero. All’interno vi sono affreschi del 1100
oggi fatti restaurare. Di tutto questo allora non avevo molta conoscenza, è solo in seguito che ho
capito quanta storia vi era in quel vecchio borgo. Così vedevo i campi di calcio sfilare veloci, il
primo il campo Noordhal, poi il Citta’ studi, l’Half, il Gloria, lo Scarioni ed altri che ora mi
sfuggono. Ecco la mia VIA, dove si vede la scuola alberghiera, ecco sullo sfondo viale Piave, dove
abita il Gigi. Poi velocemente il treno accelera, via Negroli, ancora con campi. Qui abita il
Ciapponi. Ormai siamo in viale Corsica, piazza Grandi e lì abita il Luciani. Piazza Martini, un
ciao a Picco. Ora siamo a Rogoredo, fischia e via, via.
GIANNI AGNELLI e' il nuovo presidente della FIAT. VITTORIO VALLETTA 83 anni e'
nominato presidente onorario a vita. Usciva di scena l'uomo che ha guidato la Casa torinese nei suoi
strepitosi successi dal 1921 in poi, e che ha attraversato due periodi storici molto complessi e
perfino drammatici nella storia industriale italiana. La sua figura nel periodo della guerra dagli anni
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1940 fino al 1945 (vedi), poi, con l'avvenuta riconversione fino al grande sviluppo del 1955 (vedi) è
fondamentale. Sotto molti aspetti un uomo leggendario che lascia la scena con un ultimo grande
atto, che non smentisce la sua grande abilita' negli affari. Infatti, il 4 maggio conclude con una
stretta di mano con il ministro sovietico per l'industria Alexander Tarasov, l'importante accordo
economico che prevede un grande complesso automobilistico Fiat in Russia in grado di produrre
duemila auto al giorno. Gianni Agnelli, 45 anni, d'ora in avanti sarà lui alla guida del grande
complesso torinese internazionale. E’ questo fatto di Gianni Agnelli che segnerà definitivamente il
mio percorso lavorativo.
Il 1° Maggio in Cina vi è una grande parata, detta del Primo Maggio in Piazza Tien An Men dove
sfilano le guardie rosse: 5 milioni. Da noi in Italia il 22 Maggio viene introdotta l’ora legale.
Comunque ora legale o no, c’è fermento e si seguita a non capire chi sono e come sono fatti gli
italiani, in particolare noi giovani.
Inizia il dissenso cattolico. Ricordo che ero un in mezzo al movimento di Don Giussani, che aveva
fondato Gioventù Studentesca. In questo periodo, ma allora non lo capivo completamente, ora si, la
vecchia generazione quella dei nostri padri, è proprio vecchia, non ha ancora capito che quella
nuova è tutta diversa. Non sono le solite incomprensioni fra padri e figli, ora c’è una grande
distanza educativa a fare la differenza. Ora i giovani leggono di più e scrivono di più. Su un
giornalino studentesco scoppia un caso.
Ricordo che, credo al Liceo Parini, scoppia il caso della ZANZARA, un giornalino studentesco
che indaga sui problemi sessuali dei giovani all’interno dell’istituto. E noi come risposta avevamo
fondato il nostro EPPUR SI MUOVE. Primo e unico numero che esce sull’onda dell’entusiasmo di
tutta la scuola su iniziativa di pochi. Sul nostro giornalino non parliamo di problemi sessuali, anche
perché noi non li avevamo, in quanto ci mancava completamente la materia prima. Prima legge:
materia prima non disponibile, esigenza o bisogno (in economia) zero. E come dice Papus (Papetti):
l’Istituto delle magistrali adiacente era pure piombato. Quindi le nostre risorse erano: o presso
l’ambiente di casa, all’oratorio dove tutto era ingessato e immobile oppure d’estate quando si
andava in vacanza, e ... lì si poteva agire. Il controllo dei genitori era abbassato al minimo e le ore
libere erano molte.
Al mare, io andavo a Porto Garibaldi, sì, dove Garibaldi fuggiva con Anita inseguito dalle truppe
nemiche. E dove Anita morì tra le sue braccia in un capanno. Che storia!
E allora se in quelle zone si poteva pescare, ma perché (mi chiedevo io) guardando fuori dal
finestrino del treno che ormai era a Piacenza, perché avevamo scelto un’isola sperduta
nell’Adriatico? Le Tremiti! Cosa avremmo potuto pescare? Comunque avevamo accettato la
proposta di Gigi, e con la sua parola di trovare un mare pescoso, eravamo partiti per questa
avventura. Io in treno, un poco rassegnato per essere da solo e non sulla 500 come Max, Ermes e
Franchino.
Il nostro giornalino quindi non destò scandalo in quanto non parlava ne di sesso ne di donne, ma
quando uscì andò letteralmente a ruba. Non si trova più una copia nelle edicole anche a volerla
pagare. Perchè dopo questa partenza fulminea e incoraggiante, il primo numero fu anche l'ultimo?
Che successo, che emozione e quante promesse che purtroppo non abbiamo potuto mantenere.
Nessuno a distanza di 50 anni circa ha mai svelato queste verità. Solo oggi è possibile dire come si
svolsero i fatti veramente. Con calma e ordine, vediamo di raccontare dall’inizio.
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Segue poi l’articolo sportivo con l’esito delle corse campestri a cui fa riferimento Franchino nelle
mail, e poi il mio articolo sulla scuola con i sintomi si quello che negli anni successivi, 67 e 68
sarebbe successo. Papetti, voleva vedere questo articolo e riflettere ancora, eccoti accontentato.
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Vedi come la scuola ci ha fatto , ed ecco come la vita ci ha trasformato. Oggi, domani, avremo la
possibilità di conoscere chi siamo diventati, di riflettere su come ci vediamo cambiati, come padri,
mariti, nonni, non so che altro. Faremo molta fatica a capirci forse, ma l’importante è esserci per
ricordare.
Ecco l’importanza di ricordare di testimoniare noi a noi, noi ai nostri cari, amici e quanti ci
circondano come eravamo, come siamo diventati, senza alcun condizionamento di categoria sociale
o colore politico.
Dal nonno pensionato, al Sindaco, al Politico, al Direttore, all’Imprenditore , ecco la nostra breve
storia che ci ha accumunato per un periodo significativo della nostra vita. Gli anni dell’istituto
tecnico.
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Il mio articolo finiva “ E se la nostra età è importante, se la giovinezza è generazione a cui sono
dovute tutte le provvidenze necessarie, è un obbligo maturare,ma è anche nostro diritto di trovare le
condizioni migliori per farlo. La nostra generazione avrà di buono un grande fervore (ed in effetti il
fervore poi è divampato 67-68), ma tutti abbiamo la colpa di esserci cementati, di non riuscire a
smuoverci dalla indifferenza che ci siamo volutamente indossati.
E intanto Mina cantava ‘Un anno d’amore’ , ‘E se domani’ … in una malinconia struggente.
Il treno ora aveva lasciato dietro di sé l’ultima periferia di Milano, e guardando all’indietro vedevo
sparire velocemente il gasometro, ultimo segno di un periodo industriale che ormai era alle spalle.
La riunione del comitato di redazione del giornalino era iniziata alle 16,30, l’ora in cui il giovedì
eravamo tutti liberi dalle lezioni. Crisciani che era una specie di direttore fece il resoconto del
risultato delle vendite e delle spese dall’altra. Risultato, direi oggi, non sorprendente è che
macavano 20.250 lire a coprire le spese. “Ma come?” ringhiai io, “se abbiamo avuto finanziamenti
sia dai professori, sia dalla prof. di ottica, sia dai soci fondatori per un totale di 150.000 lire,
abbiamo venduto 300 copie in tutto l’istituto a 300 lire caduna, sono altre 90.000 lire per un totale
di 240.000 lire. Si può sapere con esattezza quanto è costato?” qui si è scatenato il mercato vero e
proprio. Crisciani sosteneva che lo stampatore, cioè LATECNICA era stata quella che aveva
chiesto altre 25.000 lire per gli impianti, e che non erano previsti. Che le spese per girare a Milano
in cerca di non so chì erano state 1.000 lire, e che insomma alla fine bisognava versare altri soldi. Il
Carlo di Ottica, mio amico e compagno dell’Ortica, anche lui non capiva e ci siamo messi a litigare.
Il Papetti, che era nella redazione, quel giorno era ammalato, aveva preso la “ Pecola “ una malattia
rara, che se presa in tempo non era niente.
Infatti la settimana successiva a questo incontro il Papetti era già ritornato sano e pimpante più che
mai. La riunione alla fine si è trasformata nel solito caos, il buco c’era e andava appianato secondo
il Crisciani, che detto fra noi, non mi ha mai dato molta fiducia. Bene, vuoi per questo motivo non
da poco, vuoi per gli articoli che nessuno voleva scrivere perché eravamo tutti delle flanelle, vuoi
che eravamo alla fine del secondo trimestre, si è rimandato tutto all’anno successivo, cioè la quinta.
Bene, arriva l’inizio di Settembre, inizio dell’ultimo anno e succede che il Crisciani è sparito con il
malloppo, e lo stiamo ancora cercando, contemporaneamente si sono presentati alcuni agenti che ci
hanno fatto un sacco di domande, facendo pressioni sia su di noi che volevamo continuare il
giornalino, sia sui nostri compagni che volevano aiutarci. Se erano dei veri agenti questo non lo
sapremo mai. Il nostro ‘Eppur si muove’ si fermò qui. Congetture se ne fecero molte a quel tempo,
ognuno aveva la sua spiegazione, ma nessuno riuscì mai a trovare la verità. Fu il sesso, fu la
politica, o lo sport? Tutto fu messo a tacere come tante altre vicende che accaddero negli anni
successivi in Italia.
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Era una bella mattina d’estate ed il cielo era azzurro, tutto azzurro attorno intorno a me. Il treno, si
il treno dei desideri e dei miei pensieri andava all’incontrario ed ero immerso nella campagna
lombarda tra Lodi e Piacenza, nei miei sogni di ragazzo ormai sbarbato diciottenne, no direi
diciannovenne avendo avuto uno stop in prima.
“Mi scusi”, sento questa vocina dolcissima e nello stesso tempo una mano accarezza la mia. “Mi
scusi” ripete, “posso?” e un viso di ragazza mi guarda dall’alto con un sorriso di circostanza e di
civettuola curiosità, non affatto dispiaciuta nell’aver scelto il posto vicino al mio, quando poteva
sedersi sul lato opposto vicino alla signora con bambino. Io pur mezzo imbambolato, recepisco la
situazione, scatto in piedi con l’agilità del tempo, prendo il suo sacco, e… “lasci, lasci, faccio io,
prego, prego” e di slancio scaravento il sacco sopra di me nell’apposito ripiano per i bagagli.
Luglio, caldo, finestrino mezzo aperto, facciamo subito conoscenza, nell’intimo della nostra
conversazione che gli altri faticavano a seguire anche per il rumore del treno. E tic e tac, e tac e tic,
chiacchera che ti chiacchera, non salta fuori che abbiamo forse qualche conoscenza in comune. E
siccome la ragazza mi sembra interessante, direi stuzzicante, prendo nota: indirizzo e telefono
vengono scambiati. Si chiama Silvana, ha un paio di anni più di me, frequenta la Cattolica, secondo
anno. Io inizio a parlare del nostro piano, delle vacanze programmate alle Tremiti e di tutte le nostre
aspettative e dopo un paio d’ore, dopo Bologna, l’interesse diminuisce e ci si chiude in noi stessi.
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Anche il treno ormai sentiva l’ansia e la frenesia di arrivare, e mentre sonnecchiavo mi pareva che
la velocità aumentasse sempre più, sempre più. Un dondolio impercettibile ma ritmico mi faceva
continuamente sobbalzare tra il finestrino e il seno di lei come se nulla fosse. Allora, d’un fiato si è
attraversata la riviera Romagnola, e a Pesaro, o a Fano, ci siamo salutati promettendoci di rivederci
a Milano. Erano circa le 18,30 quando il treno si è fermato a Termoli dove mi stavano aspettando le
schegge impazzite, cioè i quattro diamanti della 5°D, i quali erano arrivati verso le 16,00. Stanchi
ma vogliosi. Fu un attimo, eccomi giù dal treno, “Ciao Robi, siamo qui”, come se sulla banchina ci
fossero 100 persone. “Dai muoviti che dobbiamo andare a montare la tenda! Vengo, vengo bidoni,
come è andato il vostro viaggio?” e tra una pacca e l’altra sulle spalle saltammo tutti dentro la 500
del Franchino.
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Ermes, Afrodite e i rari uccelli
Che le Isole Tremiti fossero un museo a cielo aperto non lo sapevamo di certo, e ne tanto meno che
fossero molto importanti. Noi ci sistemammo velocemente in un campeggio appena fuori Termoli
ed entro le 19.30 era tutto a posto. La tenda non aveva presentato difficoltà, eccetto il fatto che
aveva solo il telo superiore, niente fondo quindi; comunque faceva caldo e poco ci importava. La
compagnia era formata quindi dal Franchino, che occupava solo lui mezza tenda, nell’altra metà
dormivamo io, Ermes e Max. Il Gigi per queste sere passate a Termoli dorme a casa sua: “eh
signorino! Dolce l’uva! Da dopodomani è finita la pacchia”. Infatti si era deciso di prendere il
traghetto per il giorno dopo ancora, intanto facciamo un pò di casino qui a Termoli. Questa sera
andiamo a mangiare il pesce, visto che sono due giorni che non mangiamo. Ermes non riusciva a
stare fermo, era la fame, era l’agitazione, sentiva un fremito continuo; era l’aria del mare. “Senti
stai calmo che ora si va a mangiare” lo tranquillizzava Max, che aveva un modo strano di farlo.
Finalmente tutti insieme andammo alla Trattoria Lo Squalo, dove facemmo un prima mangiata,
dando una scossa non da poco alla nostra risorsa monetaria. Comunque rispetto a Milano, non vi era
paragone, anche se noi non disponevamo di esperienze in ristoranti.
A Milano conoscevamo trattorie e pizzerie alla buona, infatti la cena finale della 5°, la facemmo sul
canale Muzza a Conterico, che esiste ancora: la Trattoria dei Cacciatori.
Finito di mangiare allo Squalo, anche se stanchi morti andammo un poco a zonzo, alla fine, vista la
malparata ci infilammo in tenda da dove fino al sole alto delle ore 10 del giorno dopo non uscimmo.
La colazione quel mattino la facemmo da un fornaio pizzeria, dove mangiammo della pizza, ma non
come la si conosceva noi polentoni milanesi, era sottile e solo pomodoro; costava pochissimo,
uscimmo con un metro a testa di pizza, poi bisognava bere, e visto che c’era una specie di vinaio lì
vicino, si entrò tutti. Gigi davanti, perché sapeva la lingua, e Franchino subito dietro, chiese (mi
viene da ridere): “un rosato, grazie”, l’uomo dall’altra parte del bancone lo ha guardato, e con un
fare di chi cerca di accontentarti, ha tirato fuori da sotto un bottiglione di rosso e uno di bianco e li
ha versati insieme in un bel bicchiere. Allora io, Max e gli altri abbiamo subito chiarito: “No, no,
per noi solo bianco. Grazie!” e poi fuori a ridere ed a correrci dietro per la via principale come se
fossimo dei pazzi e poi giù per Corso Umberto, e poi giù fino al porto. Da lì, il giorno appresso ci
siamo imbarcati finalmente con tutti i nostri pochi bagagli per le isole: San Domino e San Nicola.
Alla partenza si era aggiunto anche un amico di Gigi che non conoscevamo … un certo Antonio.
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Le Tremiti erano non belle, bellissime. Un paradiso che non vi dico. Spero di farvi venire ancora il
desiderio di ritornarvi e di passare qualche giorno da sogno, come facemmo allora senza nulla in
tasca, solo la giovinezza e lo spirito di libertà. Questa sensazione di essere per la prima volta fuori
dagli schemi di controllo dei genitori, della scuola, delle varie istituzioni o associazioni che ci
circondavano. Il sapere che i miei si fidavano, che bella cosa, sì da solo, con i miei amici,
sensazione che era nuova, stimolante. Tutto poteva succedere o anche niente. Il mare intorno era
d’un blu mai visto, e certo avevo sempre visto il mare giallognolo di Porto Garibaldi, questo era un
mare da bere. Questi pensieri mi giravano per la capoccia durante la traversata del traghetto che
verso mezzogiorno si fermò in mezzo fra l’isola di San Domino e l’altra l’isola di San Nicola.
“Ragazzi” disse il marinaio mezzo graduato, “prendete le vostre cose e scendete lungo la scaletta di
corda e montate su quelle barche che vi stanno venendo a prendere”.
E fu così che sbarcammo, dico sbarcammo al porticciolo di San Domino su quelle barchette che
neppure a pescare possono andar bene. Noi sei l’avevamo già riempita tutta con le nostre robe.
Il Max che il nuoto lo conosceva solo per averlo studiato, mai praticato, si capiva che sudava ma
non per il caldo. “Stai tranquillo” gli dicevo io, “ti si viene a salvare noi, non ti lasciamo andare a
fondo”. Il Gigi lo stesso, lui si sentiva come a casa, e faceva da guida. “Allora dove ci accampiamo,
Gigi? C’è un campeggio? Dove?”.
Mi viene in mente che le case, poche attorno al porticciolo, finivano subito e poi una stradina
sterrata si inerpicava leggermente, e tra due muretti di sasso, una volta giunta alla sommità, si
divideva in due o tre viottoli che a loro volta discendevano verso il mare, dove vi erano delle
insenature con baiette imprendibili. Una pineta naturale mediterranea faceva da riparo al sole che a
quell’ora martellava la testa.
“Bene, qui mi pare possa andare” diceva il Gigi indicando uno spiazzo solo per noi, bello libero, la
tenda più vicina era ad una decina di metri. “Sì, sì, qui va bene” ed in meno che non si dica
piantammo due tende spettacolari. Era saltata fuori anche la tenda del Gigi; bella, nella quale
avrebbe dormito il nuovo aggiunto Antonio più uno di noi altri.
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Per sedersi, il Max che era una volpe, fregò subito non so dove un paio di tavole da una specie di
bar (lì vicino) del cosidetto campeggio e con quelle si fece tavolo e panche. Il Gigi poi legò la sua
amaca fra due rami e mentre io sistemavo le ultime nostre cose nella tenda, lui era già là a
dondolarsi e fumava la pipa. E sì perché anch’io, allora, per darci importanza (verso chi non so)
fumavo la pipa.
Franchino, l’importanza l’aveva di già nel suo essere, perché a quell’epoca pesava già 90 kg. Io ero
sui 75, pur essendo alto 1,80 anzi allora 1,82, ora un po’ meno.
L’Ermes? Ermes era attonito, si guardava attorno come incredulo e ci spronava. “Fai così, metti là,
tira su quel telo, tira giù quella corda, passa qui, passalà, ...eeee !”. Esse (le cosìdette)
cominciavano a bollire.
Il nuovo amico, Antonio, invece molto gentile, più di noi, con la sua erre moscia, che già lo
distingueva da noi truppa, se ne stava ai margini di questa specie di corsa, tranquillo e sereno,
partecipando sì, ma molto distaccato, come se la cosa non lo riguardasse. Poi scoprii che era il suo
modo naturale di essere. Era la sua prima esperienza in campeggio, ma lo era anche per noi, eppure,
forse perché ci conoscevamo dalla scuola, noi avevamo un altro piglio.
Fatto stà, piglia che ti piglia, che verso l’una e trenta, morsi dalla fame e con le tende ormai issate a
mò di trionfo, con bandiera e pennacchio con scritto sopra qualche lordura, che faceva parte del
nostro linguaggio di allora, la fame risvegliò lo spirito guerriero di tutti. Io, Max e Gigi eravamo i
cucinieri primari. Così si accese un fornello, l'acqua la si trovò, credo lì vicino, e verso le due si
stava mangiando una doppia spaghettata con pomodori pelati con salsa fatta al momento. La scatola
di latta Cirio è ben visibile nella foto. Pomeriggio: pennichella e riposo finalmente per tutti,
respirando e meditando in quell’oasi sui nostri futuri destini.
Il silenzio di quella pineta era così forte e assordante che mi svegliai dal pisolo con il mal di testa. E
non capivo. Non sapevo cosa fosse il mal di testa fino a quel momento, quando guardandomi
lentamente attorno ed alzando lo sguardo alle cime degli alberi da cui trasparivano raggi di sole del
tardo pomeriggio, capii. Dall’alto veniva un canto assordante dei grilli, così forte che non lo si
percepiva subito, ma solo se ci si pensava. Ecco, erano i grilli che con il loro frinire mi avevano
fatto venire il mal di testa.
Intanto qualche d’uno di noi era andato verso gli scogli, altri invece stavano ancora sonnecchiando,
io cercavo i grilli senza successo.
Ermes, che infatti non vedevo intorno, arrivò quasi correndo: “Ragazzi ho trovato un posto
incredibile, deve essere una grotta, anzi una tomba preistorica”, “ma non dire c...te”, rispondemmo
più o meno in coro. “Ma se vi dico che è una tomba, è una tomba. Venite, andiamo a vedere”.
In effetti vi è una tomba di epoca ellenica chiamata ancora oggi la Tomba di Diomede e lui aveva
sentito, non so come, un richiamo. “Ma come hai fatto a trovarla?”, chiedevamo, mentre ci si
avvicinava a questa sommità da dove partiva un antro piuttosto tetro. “Ma non so, sentivo degli
uccelli strani chiamare”. “Uccelli strani? Ma tu sei andato! Saranno stati gli esami ad esaurirti
completamente. Ma di che uccelli parli? Parla, dunque, parla”. “Dai pirli ... Non fate gli str….. se
vi dico che ho sentito degli uccelli parlare, li ho sentiti!”. E ha aggiunto una saracca in dialetto che
non si è capito.
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Abbiamo tentato di entrare nella grotta ma siccome eravamo tutti dei fifoni gasati, al primo grido di
paura che Franchino ha fatto da dietro della fila, siamo scappati tutti fuori gridando di spavento
come matti. Il Franchino urlava: “nudi, nudi” e poi giù pacche non proprio affettuose sulle spalle di
Ermes. In effetti qualche cosa di vero c’era in quella fuga.
Si racconta che dopo la morte di Diomede, che doveva essere arrivato su quest’isola proprio lì
vicino alla nostra tenda, avvenuta nella grotta, la dea Afrodite per compassione del dolore dei
compagni verso il loro condottiero, li trasformò in uccelli. Le Diomedee, uccelli tipo baduli che
sembra che parlino e affinchè facessero la guardia al sepolcro del loro re. Ancora oggi
continuano a piangere affranti della scomparsa del loro condottiero e di notte è possibile udire i
loro gemiti e i loro garriti simili ai vagiti di un bambino.
Ecco spiegato il mistero, Ermes molto sensibile più di noi, ne aveva subito sentito il lamento e ne
era stato attratto.
Questi gabbiani speciali fecero subito amicizia con il nostro amico e quella notte non riuscendo a
dormire si mise su uno scoglio, solo come un lampione a parlare con loro. Parlava con Afrodite,
sua moglie, che come si sa è la dea dell’amore, sorry AMORE con la A maiuscola. Quindi è
proprio nel DNA di Ermes che dice di avere un’associazione di ricerca delle trifole ancora
oggi(vedere sua mail.) “Ermes”,gli stava dicendo la moglie, “domani ci saranno delle visite gradite
mi raccomando non fare lo sporcaccione precoce, guarda che ti vedo!”.
Hermes e Afrodite se la spassavano direi molto molto bene a quei tempi, senza limiti, diremmo oggi
usando una parola derivata dai telefonini. Dalla loro unione nacquero due figli, dichiarati, uno era
Ermafrodito, l’altro era Eros, come il mio parrucchiere di Opera.
Bene, da bambino Ermes era un pestifero, ma molto intelligente, non come me.
Infatti appena nato, il secondo o terzo giorno, inventò la lira. Non quella della nostra moneta, ma lo
strumento musicale.e subito dopo rubò le pecorelle di Apollo. Il giorno dopo, verso le ore 12 con il
traghetto da Termoli arrivò un’ imprevista pecorella a farci visita e lui già meditava di rubarla.
Quella mattina eravamo tutti svegli di buon ora, forse era l’ambientamento, forse era la sinfonia dei
grilli fatto stà che alle ore 8 si gironzolava attorno alla cucina, Gigi in cerca di caffè e gli altri in
cerca di qualcosa di più solido. Fu in quel momento che disse : “Oggi arriva mia madre a trovarci,
ragazzi, facciamo i seri, non diciamo troppe parolacce. E viene con la sorella di Antonio e quindi
prepariamo un bel pranzetto”. Il Franchino a tale notizia, si ringalluzzì, credo che si dica proprio
come fa il gallo quando alza il collo e lo muove avanti e indietro come Totò.
“Bene, bene e si ferma qui con noi qualche giorno?” chiese Franchino (riferendosi alla sorella) ad
Antonio, il quale non rispose subito. “Volendo da noi c’è ancora posto e poi io ho un materassino
ancora di riserva”. L’Antonio non la prese bene e borbottando si mise in disparte.
“Allora organizziamoci”, proposi per tagliare corto, io, Max ed Ermes “pensiamo a far da mangiare,
voi andate al porto a prenderle. Va bene, va bene”, e così Gigi, Antonio e Franchino sparirono per
un paio d’ore lasciandoci il tempo di preparare.
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Naturalmente, mancavano alcune stoviglie, ma in un modo o nell’altro si fece bella figura. La pasta
al pesto che preparai fu divorata in pochi minuti. Il pesto fu preparato da Max che trovò i pinoli, in
giro per la pineta, al posto del basilico trovò un’erba verde che profumava, non proprio di basilico,
ma era forte, intensa mai sentita prima, e dell’aglio che avevamo a iosa. Che sbaffata. Comunque,
torniamo all’arrivo della pecorella.
Bella, alta, bionda, una ragazza in mezzo a noi disperati. Non sembrava vero.
La mamma del Gigi, che avevamo già conosciuto qualche giorno prima, molto cara e simpatica,
assecondava i nostri tenui scherzi o battute e si divertiva. La sorella di Antonio il cui nome è ancora
segreto stava molto sulle sue, si vedeva chiaramente col passare delle ore, e anche dopo il favoloso
pranzo, terminato con una grigliatina mista di salamelle, portate dalla mamma del Gigi.
Si vedeva che la pecorella, Genia, si stava sintonizzando con noi (finalmente il nome!)
Naturalmente era sotto le occhiatacce folgoranti del fratello che sempre dal suo angolo che non
aveva più lasciato, le lanciava messaggi silenziosi ma che parlavano più delle parole.
C’era fra i due la tensione classica fra fratelli, dove a quell’epoca, il maschio “pote” e la femmina
“non pote”. Quindi Antonio poteva restare, mentre a lei si chiedeva un assoluto controllo.
E non poteva restare. Sconsolata e nella sua gentile malinconia mentre noi continuavamo a
conversare, si fa per dire, e a mettere in ordine il resto del pranzo, lei si diresse piano piano verso il
mare e all’ombra di un ramo che finiva nell’acqua, si mise seduta su l’unica roccia in piano. Veloce
come il falco, e più lesto del nibbio, che incontreremo più avanti nella saga, l’Ermes la raggiunse
lasciando il Franchino paralizzato sulla panca mentre tentava di alzarsi.
E a questo punto l’Ermes che aveva assimilato benissimo tutti gli studi e non per niente era stato
promosso, lui l’unico, esibì dal cappello, si fa per dire, tutto il suo potere fascinoso e con lo
sguardo, che mette incinta una femmina a 100 metri di distanza attraverso i suoi immancabili RAY-
BAN comperati a Londra qualche mese prima, si avventò sulla pecorella triste e malinconica.
“Lo so a cosa pensi”, esordì lui, “lo so che tuo fratello non è contento di vederti stare qui! Vero?”.
Lei annuiva col capo e … a poco a poco iniziò a raccontare di lei, del fratello; che era già un
miracolo se era arrivata fino a lì, che le sarebbe eccome piaciuto restare e fare un pò la nostra
regina, insomma eccetera eccetera.
L’Ermes il cui DNA non mente e forte della sua parentela con gli dei, quelli in particolare
specializzati in Amore a cui lui aggiungeva una cultura moderna di stimolazione elettrica, la
contagiò ben presto di una febbre sottile ma che ti scavava dentro a poco a poco.
Così lei partì un’ora dopo questo primo incontro con la mamma di Gigi e rimase segnata da quella
breve conoscenza con quel ragazzo, il cui nome al solo pensiero la inebriava. Ermes non era tanto
alto, le sarebbe piaciuto il Franchino, però quegli occhi l’avevano colpita, anzi quei RAY-BAN, la
cui storia si collega al viaggio a Londra di qualche mese prima.
Ed eccola qui!
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A Londra
Quel primo lungo viaggio in treno fu terribile sotto l’aspetto della disciplina e del nostro
comportamento sulla carrozza che avevamo occupato nel primo pomeriggio partendo dalla Stazione
Centrale di Milano. Due quinte di spelafili, 50 persone in tutto compreso tre o quattro insegnanti.
Altro che le trasferte degli ultrà quando da Milano vanno a Roma o viceversa.
Succedeva di tutto nonostante il continuo controllo dei vari insegnanti che ormai avevano rinunciato
al loro intento e si erano trincerati nei loro scompartimenti per la notte.
Dopo una notte passata all’insegna degli scherzi e gavettoni, si arrivò il giorno dopo sul tardi a
Victoria Station e subito, con un Bus che ci aspettava, fummo catapultati velocemente in un albergo
non lontano da Hyde Park, forse era the Arch Hotel London, naturalmente vicino a Marble Arch.
Sfiniti non poco riuscimmo ancora a mettere a ferro e fuoco il bagno della stanza, anche perché dai
rubinetti non usciva l’acqua che pensavi. Miscelatori: per gli inglesi non esistono ancora oggi,
figuriamoci 45 anni fa! E visto il nostro precario inglese, era difficile ottenere dai rubinetti una
temperatura decente, specialmente sotto la doccia, doccia che mi impegnò credo un 15 minuti prima
di capire come ottenere l’uscita dell’acqua. Non ridete, in parte è così ancora oggi, ve lo assicuro.
Poi quell’albergo di stelle ne aveva un paio e quindi anche il resto era dello stesso livello; ergo se il
pavimento non scricchiola dove cammini non è tipico inglese per non parlare dei letti dove le
lenzuola sono attaccate alla trapunta e devi dormire in un metro per due con i piedi che ti escono
dal fondo se sei un pò alto, a letto direi lungo.
Io ho dormito in una camera a tre con il Ciapponi, con il quale dividevo le partite di pallone. Ed il
Nibbio, eccolo che ritorna, il Ciap, così lo chiamavamo sia per distinguerlo dal ricorrente slogan
milanese va, va a da … Via.., e ancora per distinguerlo dagli altri due nostri compagni di due anni
prima quali, Ciappino e l’altro Chiappa. Alla fine del terzo anno il preside credo con qualche proff
carogna decisero di bocciarne due, perché così non si faceva più confusione.
Il Ciap dicevo, rimase con noi fino alla quinta, bravo mediano, ripeto si giocava nella stessa squadra
di Viale Corsica. Lui abita ancora in Via Negroli al 5, ma non c’è mai. Chissà se riusciremo a
stanarlo. Ha risposto a Natale con un laconico :” Auguri Mario”.
Nell’altro letto c’era il Nibbio, e qui va subito detto che Il Nibbio, di nome Brambilla, si era ormai
identificato con questo appellativo dato dal Brandolisio in quanto il Nibbio rievocava una storia
toccante e commovente che ci aveva fatto venire il magone in classe quando si leggeva il Manzoni.
Ancora oggi per noi è quasi difficile chiamarlo Giorgio, ma quale Giorgio lui è e sarà il Nibbio. Ma
gli occhiali di Ermes? Molti si chiederanno impazienti. Arrivano, arrivano anche loro.
Il nome di Nibbio si riferisce indubbiamente al rapace, ma nel nostro inconscio si riferiva al ragazzo
che veniva da un paese come Montevecchia posto in alto dove nidifica il Nibbio. Pur essendo un
duro il nostro Nibbio aveva un cuore che si commuoveva, come si commuoveva per Lucia e le
diceva che non voleva farle del male ma di stare tranquilla. E poi si commuoveva a compassione,
così come compassione sentiva quando al posto suo interrogavano il compagno vicino che era
beccato a fare casino. Chiedeva invano al Bertelli “proff interroghi me, sono stato io” ma invano!
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A poco a poco anche i compagni fidati, i bravi se ne andarono da Montevecchia e rimase solo non
sapendo se seguire nella conversione il suo padrone: l’Innominato. Decise allora di rimanere ancora
un anno a Milano a ripetere la quinta. Non è quindi dato sapere se l’hanno, oppure se si è fatto
appositamente bocciare per via della guerra contro i Turchi da parte dell’Italia.
Intanto nelle altre camere dell’albergo avvenivano tafferugli e incursioni di ogni tipo che si sono
protratti per buona parte della sera, poi il coprifuoco. II giorno dopo alle ore nove eravamo quasi
tutti pronti per il tour.
*******************
A quel tempo Londra ci appariva una leggenda o un sogno lontano che si realizzava. Pur arrivando
da una città come Milano non proprio provinciale quindi, fummo colpiti, io per primo, da questa
grandezza, da queste strade, viali, spazi, case, palazzi, musei. Tanto di tutto. Tutto era avvolto dal
mistero che portava con se questa città, la sua storia e l’atmosfera. Ricordo che tutto era infatti,
grigio, non per niente si diceva “GRIGIO FUMO DI LONDRA”.
Le poche foto ritrovate di quel viaggio mostrano dei ragazzi con tipico impermeabile all’inglese, e
vestiti a puntino, che volevano distinguersi. Ho trovato anche uno spezzone di filmino 8 mm,
naturalmente in bianco e nero girato sulle rive del Tamigi con delle chiatte che passano. Tipico
clima grigio, con giornata grigia, senza pioggia ma grigia.
Oggi Londra mi appare diversa, completamente un’altra città, altra atmosfera. O forse sono io che
invecchiando la vedo meno triste, meno grigia. Anzi direi risplendente di luci e colori.
Bene, è difficile credere eppure ecco due immagini a confronto, giudicate voi.
Allora, pur con la mia spensieratezza dei 19 anni, l’ho visitata per la prima volta assieme ai miei
compagni, e con un fondo di malinconia, d’ insoddisfazione. Questa veniva da lontano. Credo come
per molti di noi.
Il bus quella mattina, senza perdere troppo tempo ci scaricò in Trafalgar Square dove tutti in fila
all’Italiana entrammo nella National Gallery accompagnati dalla proff forse di fisica. Fatto è che
dopo il primo corridoio del nostro gruppo di circa una ventina, una decina si imboscarono nelle
toilette dicendo alla proff di andare avanti. Fu così che due minuti dopo un gruppo di fuggiaschi fu
visto uscire dal museo e disperdersi a gambe levate verso Piccadilly Circus. Il gruppo dei fuggitivi
comprendeva in ordine alfabetico e non di arrivo a Piccadilly: Bottini, Luciani, Mari,
Maurogiovanni, Naz, Papus, Picco, Segneri e Colombo. Gli altri che non cito per brevità, me
compreso, seguivano ancora la proff nelle stanze del museo. Devo subito dire che questi dissidenti
avevano già in mente un piano, per dire la verità anzi due.
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Volevano trovare la zona di Soho per approfondire alcune curiosità rimaste senza risposta ancora
quando erano in Italia. Era giunto il momento di vedere e quindi alla testa del manipolo c’era il
Picco, il Segneri, il Mauro e anche il Bottini fedele compagno delle spedizioni del Picco che aveva
già fatto esperienza con la 850 dello stesso Picco. E sì perché già alcuni avevano la macchina. Io
ricordo il Picco e il Franchino. Comunque il gruppo in circa un’ora raggiunse in fondo ad Oxford
Street il quartiere tanto desiderato, raggiunta Soho Square presero per la Great Chapel street (con
pronuncia inglese) e davanti ad una specie di Pub o qualcosa di simile che non si capiva, dal nome
molto invitante, ABOKADO, si fecero ingolosire e con coraggio spingendosi gli uni agli altri
entrarono in una primo atrio. In una luce molto tenue appena appena si leggeva un poster con la
scritta ROMAN BATH.
I ragazzi notata quella scritta si sentirono da una parte rassicurati e dall’altra più eccitati per la
eventuale scoperta. Well, well dicono allora al negrone che stava piantato davanti alla porta del
mistero, e in tre entrarono. Non posso raccontare chi di loro entrò, anche perché non ero fisicamente
presente, poi l’avventura venne divulgata con particolari ed ogni volta ne veniva aggiunto un pezzo
inedito. I tre varcarono la porta da cui usciva un caldo infernale misto a vapore come se fossero in
mezzo alla nebbia nostra tipica milanese. Si tolsero il maglioncino e rimasero in maglietta e
consegnarono a noi i loro indumenti.
Si vedeva ora che dietro al vetro del bar,che era emerso dalla penombra alla quale ci si era abituati,
vi era una ampia stanza piena di fumo o vapore o nebbia che sia, con una specie di grande vasca a
gradini al centro. Era un tipo idromassaggio, ma che allora non esisteva ancora.
Il negrone in men che non si dica li ha spinti nella vasca mezzi nudi ben inteso.
Il vapore aumentava di minuto in minuto e dei nostri amici sentivamo solo le parole, le risate, le
urla in tutte le lingue immaginabili e quanto altro sentimmo anche delle voci femminili, dei
gridolini che si mescolavano alle loro, segno che due o tre voci angeliche si erano immerse nella
vasca.
Non so esattamente, e qui le testimonianze divergono, come le varie versioni postume, quale fosse il
livello di copertura dei loro indumenti non è dato sapere. Diciamo che portavano un pezzo solo,
cioè il famoso monopezzo inglese, da non confondersi con il mono pezzo con foro al centro, nella
foto indicata più avanti e che era stato l’oggetto del mio rimando a settembre e poi bocciatura nella
famosa prima del 1961.
Questi erano monopezzi alla londinese con eccitazione interna, come aveva spiegato il nostro proff
di Elettrotecnica, il quale quando ci dava dei problemi da risolvere, erano del tipo: un motore
trifase di 120 Kw lavora con un quarto della sua potenza nominale sotto una tensione concatenata
di 380 V ecc ecc. Io non ho mai più visto un motore di 120 Kw, ma in quel momento nella vasca
c’erano ben tre motori di non so quanti cavalli che lavoravano ad una potenza oltre al nominale, e
la tensione era massima, altro che 380 VOLT. Non so quante “volt” si sono concatenati sott’acqua
badulick vari, e sembrava a giudicare dal friggere dell’acqua una mattanza dei tonni. Ma i tonni
boccaloni furono sul più bello sospinti fuori dal brutto ceffo che con cronometrica precisione aveva
gridato: TIME IS GONE. GET OUT ! GET OUT ! Le luci si accesero, l’atmosfera svanì d’incanto
e in meno di un minuto furono sospinti fuori e poi in strada inseguiti dall’energumeno in una folle
corsa. In testa al gruppo è difficile dire chi ci fosse, diciamo tutti con 5 sterline in meno in tasca ed
un “cos fi” pari al regime di pieno carico del motore.
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Che beffa, ma che bell’esperienza fu quella e nel raccontarla ognuno ne ha poi dato versioni più
approfondite e dettagliate ma che ora a distanza di tempo mi sembrano molto sfumate e simili.
Ci trovammo umidicci in mezzo alla strada avvolti ormai dalle prime ombre della sera ed era
sempre comunque maledettamente grigio. Camminando a gruppi sparsi commentavamo l’accaduto,
chi rideva da morire, chi moriva dal ridere, chi imprecava per il mancato risultato, chi diceva che
non era poi la fine del mondo e chi propose di andare in un pub vero a bere qualche cosa. Così
entrammo in questo locale che per caso si chiamava Kazoo, vicino ad un college di nome Eden
House, naturalmente, solo femminile. A quell’ora non era strapieno, ma quasi: Musica Bit. Fumo,
pigia, pigia. Ci sedemmo metà su uno sgabello e metà su un altro attorno al bar. Non so da dove,
saltano fuori due chitarre e un paio di ragazzi iniziano a suonare all’inglese. E’ a questo punto che
il Luciani, sempre stato schiscio fino ad allora, si scatena. Prende la situazione in mano, cioè il
manico della chitarra e comincia a suonare, tipo Azzurro.
Segneri, anche lui salta sull’altra e lo accompagna. Noi cantiamo e avanti, con una due tre, quante
non ricordo, canzoni nostrane. Il repertorio finiva ed allora dentro con le porcherie tipo Fanfulla da
Lodi e via dicendo. Per finire con Porta Romana e Vinassa Vinassa .
Meraviglioso. Tutti ad applaudire. Inglesi, cinesi, tedeschi, anzi considerate tutto al femminile
essendo tutte femmine, le quali non ci mollavano più. “Ragazzi, noi si deve andare” dico io, “ci
aspettano” ma ancora, ancora una, ed in quell’istante entrano due capelloni con occhiali neri, vanno
vicino al Luciani e al Ragozzino che era il cantante del gruppo e ci fanno i complimenti: “Very
well, very well”. L’abbiamo saputo dopo che erano i Beatles che a quell’epoca avevano deciso di
non fare più concerti e turneé in pubblico, ma di ripensare al loro nuovo impegno, diciamo politico.
Dopo si dirà che alcuni di noi i più fortunati: Luciani, Segneri e Ragozzino avevano avuto il piacere
e l’emozione di stringere loro la mano. Io no. Non c’ero.
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Intanto alla National Gallery il gruppo dei contemplativi con la proff si trascinava ormai stanco
morto da un salone all’altro in un labirinto interminabile di corridoi e ampi saloni. Credo tutti i
migliori quadri erano raccolti in questo museo che allora mi apparve immenso. Eravamo rimasti
credo meno della metà non so come anche altri quattro o cinque erano riusciti ad evadere e forse
erano da qualche parte a divertirsi.
A me interessava abbastanza la pittura e devo dire che solo alla fine della visita trovavo interessante
e stimolante le sale dedicate agli impressionisti e davanti al mio preferito, Cezanne mi sono fermato
e rifermato andando un passo avanti, due indietro e così per qualche minuto. Scuotevo la testa e mi
dicevo ma come si fa? Credo anche per Gigi Cèzanne rappresenti il tipo di pittura preferita. La mia
memoria brancola in una specie di nebbia quando torna ai momenti in cui sentivo un richiamo e
volevo dipingere e mi prendeva un rabbia dentro. E veniva come veniva.
Non vedo chiaro ora tutto mi sembra così lontano, e solo in questi istanti che scrivo ho l’occasione
di ripensare ad allora. A cosa, a chi volevo assomigliare, o essere. Non lo sapevo neppure, avevo
fatto qualche quadro, non molti non erano un gran che. Meglio il disegno dove ero portato e me la
cavavo bene. I colori di Cèzanne erano i miei, li sentivo caldi, mi parlavano.
Avrei da allora provato e riprovato ad imitarne la composizione, il modo di stenderli, di accostarli.
Sognavo di andare in Francia, dove non ero mai stato e di vedere quei cieli, quelle dolci sfumature,
quella campagna. Intanto eravamo in piena Londra grigia, fumosa e non tanto diversa dalla nostra
triste Milano. Sì era triste per me. Sia attorno alla scuola dove tra la darsena dei navigli e le due ripe
si affacciavano le case vecchie del quartiere. Allora Porta Cicca, così si chiama, era un quartiere di
poveri, case di ringhiera e tanta fame. Oggi tutto l’opposto, un metro quadrato sul naviglio costa
come mezzo appartamento fuori città. Quando non riuscivo ad andare a casa a mangiare, uscivamo
alle 12.15 e ricominciavamo alle 14.00, andavo da una mia zia che abitava in via Corsico, due
stanze con bagno esterno sulla ringhiera. Però mi piaceva. Mia zia un pò meno. In primavera usavo
la bicicletta per ritornare a scuola il pomeriggio, ma non durò molto. Prima della fine dell’anno me
la rubarono e mio padre mi promise di non comperarmela più. Ti prenderai la tua macchina quando
lavorerai. E capirai! Quanto manca! “Sveglia ragazzi, è ora di uscire!” gridò la proff.
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Vedo un gruppo di ragazzi assonnati il giorno dopo andare in libera uscita, escono verso le 9.30
dall’albergo dove avevano passato la seconda notte dormendo più a lungo. Ero con loro. Erano le
figure di Gigi, di Ermes, di Papus, di Nazarethian e Sabbatini che camminavano dinnanzi ed
avevamo in mente di andare a Portobello, ovvero al mercatino delle pulci che tanto ci avevano
detto assomigliava alla nostra fiera di Sinigaglia .
Alla fiera suddetta durante quegli anni avevo comperato diverse cose, usate naturalmente come
delle scarpe di tela verdone tipo militare con gomma da battistrada sotto e attorno inchiodate con
chiodi corti detti sementini. Che sballo! Mi gasavo nel farle vedere ai miei amici, ebbene sì !
Poi avevo anche trovato un tascapanni verde militare che usavo per andare a scuola. Peccato che
conteneva massimo 3 libri e qualche quaderno. Album da disegno a fatica, uno solo. Così finiva che
lasciavo a casa sempre qualche cosa che il mio compagno di banco, Lametta, cioè Max aveva
sempre. Lui, confermo aveva sempre tutto.
Il Naz, era anche lui un tanto al pezzo, gli mancava sempre 30 per fare 31. Gigio invece sempre
preciso, come la Svizzera. Avevo perlustrato la fiera per circa un mese, tutti i sabati, per ritrovare la
mia bicicletta. Ma non fui fortunato. Una le assomigliava, ma era stata truccata.
Al mercatino di Portobello avevamo in mente ognuno di comperare qualche particolare oggetto che
ricordasse questo viaggio a Londra. Io avevo in mente una pipa inglese, che poi ho trovato color
avorio di schiuma e che conservo. Gigi anche lui una Peterson, ma nuova, ed un paio di occhialini
stile Cavour, montatura rotonda in argento. E’ sempre apparso a me un professore o un filosofo.
Non ho ancora deciso. Anche perché noi la filosofia non l’avevamo mai studiata neppure da piccoli.
Al massimo dicevamo che i maggiori filosofi erano stati quelli grechi. E dopo quelli romani, e
dopo? E dopo i cristiani, o meglio la chiesa li ha massacrati in senso figurato. Vietato essere
filosofo. Non dovevi guardare il cielo e farti tante domande. Alla Chiesa non piaceva. Lo sa bene il
nostro padre putativo che ha dato il nome alla nostra scuola un certo GALILEO GALILEI, il quale
ha dovuto ritrattare il suo pensiero se ha voluto salvare la ghirba.
Ma perché si dice ghirba? Me lo ha spiegato mio nonno Giovanni che fece la prima Guerra
Mondiale e quando ritornò dal fronte portò a casa la ghirba, e trovo però tutta la sua famiglia alla
fame e senza ne bestie ne raccolto. Avevano una piccola cascina in quel di Rivolta d’Adda. Vennero
via e iniziò a lavorare come assistente in una fornace di mattoni vicino a Milano oggi Mediglia.
Comunque Galileo, se la cavò solo perché ritrattò: che la luna era solcata da valli ed aveva
montagne come la terra si deve a lui. Scoperse nell’universo la supernova e che lo spazio non era
fisso. Per la chiesa Galileo rappresentava il cambiamento. Era un cambiamento di tutto ciò che si
era creduto per 1500 anni. Copernico che diceva le stesse cose di Galileo non fu mai processato. Era
lontano e quindi meno scomodo. Dopo la condanna emessa dalla chiesa, ingiusta, egli stava per
impazzire.
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Ma alla fine ci fu una grande sconfitta della Chiesa. Essa era rimasta prigioniera delle sue leggi.
Nessuna revisione nessun mea culpa. Resta comunque l’atto con cui Galileo dovette rinnegare le
sue tesi e avrebbe pronunciato la famosa frase E PUR SI MUOVE, che invece fu a lui attribuita più
tardi da un certo Baretti. E allora crolla anche tutto il nostro giornalino? Che delusione !
Meglio non credere a tutto questo e guardiamo avanti.
*******************
Guardiamo ai nostri cari ragazzi che stanno percorrendo a piedi qualche chilometro per arrivare a
Portobello. Passano per Hyde Park Corner dove un predicatore con un saio bianco e il dito indice
alzato parla ad un gruppetto di curiosi che lo stanno ad ascoltare con interesse. Forse del Vietnam.
Poi via per Kensington road e dove per caso vedono il Science Museum e ne sono incuriositi. “Dai
venite” dice Gigi a tutti. “Ma lasciamo perdere, sarà la solita noia” rispondo io. Tirato per la manica
entriamo, e visto che non si paga tanto meglio. Pieno di ragazzi e ragazze come noi e la cosa
comincia a piacere, anzi interessa molto di più del nostro Museo della scienza e tecnica, che è però
unico.
Nazarethian fu subitamente rapito da tutti quei poster e megapannelli che riportavano le fotografie
della luna dal lato che non era mai stato visto. Erano state scattate dal satellite che era allunato per
la prima volta . Alberto, ovvero, Naz, si mise a balbettare: “Ci voglio andare anch’io sulla luna, sì
questo mi piacerebbe andare e volare nello spazio, lo sento lo sento che da grande lo farò”. E
nell’altra sala enorme che si apre davanti a noi un vero caccia inglese simile ai nostri F104 di allora,
appartenente alla squadra acrobatica dei RED ARROWS.
Il Naz a quel punto si sente colpito da una voce, lo stesso richiamo che sentirà qualche mese dopo
Ermes alle Tremiti. Sono quei sentimenti che nascono un bel giorno in noi a cui non sappiamo dare
una risposta razionale e che ci spingono a fare delle scelte a volte giuste a volte sbagliate, ma che
comunque sono parte della nostra crescita.
E in questa foto di allora Alberto si è visto nei panni del primo pilota lì davanti al Team Leader e da
allora iniziò a sognare di diventare pilota. Me lo ha confessato la prima volta che a casa mia ci
preparavamo per gli esami di Giugno, ed andava ripetendolo, “Sì farò domanda alla scuola piloti se
sarò promosso”. E fu così che un anno dopo era alla scuola militare di Napoli.
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Altre furono le sale che ci colpirono piene di storia industriale che aveva fatto dell’Inghilterra la
nazione più potente del fine novecento e alla quale vanno ricondotte le invenzioni ed applicazioni
industriali più significative.
Uscimmo dopo un paio d’ore e, ora correndo, ora chiacchierando, ora facendo un pò di confusione
arrivammo a Portobello, dove all’inizio ci investì l’odore del mercato del pesce, della verdura e
della frutta. Ci infilammo infine nella zona delle cose vecchie dove trovammo i nostri reperti. Solo
Ermes ancora non aveva deciso, e brancolava da una bancarella all’altra alla ricerca di non so che.
Infine vide raccolti un’ infinità di occhiali, di tutti i tipi, nuovi vecchi, da sole e non. Provò un paio
di Ray-Ban quelli che facevano figo e tramortivano appena venivi colpito da questi raggi. “How
much ?” Ha chiesto Ermes con perfetto accento parmigiano. “Ten” gli ha risposto il ragazzotto.
“Ten, for you”. Solita manfrina, sconti e non sconti alla fine gli ha dato in tutto otto Pounds e se li è
messi subito nonostante la nebbia che anche in quel giorno rischiarava il cielo di Londra.
“Sono proprio contento, guardate che roba” continuava a dire Ermes. “Come sto?”
Naz gli ha risposto: “Ma stai come sempre, sei il solito pirlone”.
E tornammo contenti e stanchi al nostro albergo e subito partenza per Oxford dove nulla di
interessante accadde.
Da Victoria Station due giorni dopo un gruppo di masnadieri ripartiva con un’esperienza comune
in una città straniera e si preparava a passare l’ultima notte brava in treno.
Mentre il treno percorre tutta la Francia e la stanchezza dei giorni passati affiora e mi appresto a
fare alcune riflessioni sui sentimenti provati e sulle emozioni vissute, mi viene naturale rivedere
Londra con gli occhi di oggi .Non mi sembra più tanto grigia, anzi mi appare vibrante, caotica e
calda. Non fredda come allora o come la ricordo in quel viaggio, e non sono le pellicole in bianco e
nero. No, è proprio cambiata, o forse sono cambiato anch’io nel frattempo e gli Inglesi mi sembrano
meno freddi. In questa giornata di pioggerellina lenta e triste la città mi sembra ripeto più amica e
vicina. Non siamo stati sempre così casinisti, anche noi allora sentivamo il ritmo dei giorni negativi,
quando le cose non andavano e si mettevano male subito dal mattino.
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Rivedo nell’ultimo mio viaggio una città che a Novembre nel giorno più triste in cui si celebrano i
morti, composti e disciplinati questi Inglesi offrono in segno di ricordo e commemorazione per
tutti, un Poppy, un fiore di papavero. Mi hanno colpito. Nella loro semplicità, ho apprezzato il loro
gesto. Attorno a Westminster Abbey procedono ordinatamente, depongono il loro fiore e poi se ne
vano.
Da noi e ne siamo tutti coinvolti in quei giorni si acquistano valanghe di crisantemi, per la ricchezza
dei fiorai, che una settimana dopo finiscono nei cestini dell’immondizia.
Io mi commuovo davanti alla lapide di mio padre e qualche lacrima mi viene per mia madre
scomparsa da pochi anni. Ognuno di noi, non lo so esattamente, ma avrà avuto giorni felici e giorni
tristi; perché così è la vita. Non so in questo periodo in cui ci stiamo rivedendo come ci troviamo di
fronte a queste vicende. Forse, chi non ha risposto avrà problemi, spero non seri di salute, forse non
se la sente, forse non gli è arrivato l’invito in quanto ha cambiato indirizzo.
Non so ma ognuno di noi con le proprie gioie e tristezze testimonia una cosa importante.
Il fatto di esserci e di ricordare quei nostri giorni in cui crescevamo e maturavamo insieme.
Ecco perché oggi tanto entusiasmo nel rivederci anche se nel frattempo sopra ognuno di noi sono
passati giorni bui e tumultuosi dove non c’è spazio per altra forma di sentimento se non la tristezza.
Un pensiero particolare va a chi non è più con noi e non potrà più esserlo.
Noi sappiamo chi non potrà mai più venire e anche per noi i giorni mancanti si vanno diminuendo e
non sappiamo quando finirà la nostra esistenza. Rimangono però le nostre memorie, l’importanza di
ricordare e di essere ricordati con tutti i nostri difetti e pregi della nostra breve esistenza. Forse un
giorno i figli o i figli dei figli nostri scorreranno queste righe ricordando questi progenitori dai quali
sono nati e dal loro DNA hanno ereditato i caratteri fondamentali.
Quelli con il carattere estroverso con carattere opposto, gli introversi, le acque chete, quelli di prima
linea, quelli che vai avanti tu, i tranquilli, insomma ognuno con se stesso si ritroverà alla fine.
Simbolicamente voglio deporre con tutti e per tutti voi il nostro papavero sulle tombe dei nostri
cari. Mi sembra un cosa bella che mi ridà fiducia nel domani.
E intanto quel treno entrò nel tunnel delle Alpi ed uscì fischiando in Italia portando con sé le punte
di diamante e tutto l’entusiasmo vitale di quegli anni.
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Alle Tremiti
Partì presto quel mattino anche se non ve ne era bisogno. Arrivò al piccolo bar del porto e si mise
ad aspettare con impazienza, cosa non si sa bene. Doveva solo convincersi ed avere coraggio.
Ormai il sole scaldava e la brezza del mattino non bastava più a rinfrescare la sua mente che
continuava a ronzare, ronzare attorno al pensiero di quella creatura apparsa nella sua vita e
d’incanto svanita. Doveva rivederla e sapeva dove trovarla anche perché prima di partire le aveva
lasciato un mezzo indirizzo all’insaputa del fratello Antonio, che a quell’ora stava ancora dormendo
alla grande cullato dal coro dei grilli delle ore dieci.
Prese una coca fresca, che sorseggiò lentamente poi consultò l’ora si infilò i fatidici Ray-Ban e
corse, si fa per dire, lungo la stradina che conduceva alla Punta del Diamante nella parte opposta del
porto. Non aveva lasciato detto nulla, era partito così senza prendere niente,come se dovesse tornare
verso sera: solo Max lo intravide mentre sgattaiolava fuori dalla tenda e gli chiese: “Dove vai ?”
“Vado un attimo giù, tanto non ho più sonno. Non vi preoccupate se non mi vedete, mangiate
pure”. E sparì come un falco tra gli ultimi alberi della pineta.
E’ straordinario come stando al racconto tramandato e che noi sentimmo con viva trepidazione da
lui stesso quando ritornò verso sera, come questo breve incontro con Genia si trasformò da
innocente focherello in un incendio devastante. Non si seppe mai però il perché ritornò verso sera e
dove passò tutta la giornata. Io non lo so.
Sia l’intuito sia la logica mi inducono a credere che sia andata nel seguente modo: l’Ermes dopo
aver raggiunto il villaggio di punta del Diamante dove si trovava Genia, fece tre o quattro giri
attorno e alla fine prendendo coraggio a mò di toro, varcò quell’entrata e si presentò bello bello con
la sua aria innocentina avvolta dal mistero dei sui occhiali che sprigionavano tutta la potenza della
conquista. “Eccomi qui Genia!” Esordì al suo apparire. “Non ho dormito tutta la notte per i grilli”
aggiunse mentendo. “Volevo rivederti prima che tu partissi”. “Anch’io”, lei rispose. Questo lo
disorientò e non era preparato. Fece per iniziare un discorso, ma lei lo interruppe e disse “Seguimi,
andiamo a vedere i Pagliai”.
Davanti a loro immerso nell’azzurro del cielo si stagliavano le rocce di un incantevole natura
che solo in pochi posti al mondo è possibile ammirare. "Mi piacerebbe essere là sopra quei pagliai".
E girandosi con i capelli al vento, biondi e lucenti lo guardò come se lo vedesse per la prima volta.
“Sì, mi piacerebbe” rispose lui semplicemente. Poi tacque. “La vedi quella piccola barca là,
infondo verso la cala? Ecco vorrei essere là a vedere quelle grotte e poi dopo un tuffo asciugarmi al
sole con te.
Intanto arrivava l’ora più intima , l’ora del tramonto, una mezz’ora prima quando i raggi tagliano
l’acqua e tutto diventa magicamente d’orato. I due si guardarono, niente che annunci un esplodere
del trasporto amoroso. Se il destino volesse, esso andrebbe sprecato. Ma il destino non vuole. Da
loro incontro non deve nascere nulla. Così solo un timido bacio e poi la promessa di vedersi a
Milano.
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Era ormai buio quando Ermes ritornò con il cuore pieno di speranza.
Nei giorni che seguirono si parlò molto tra di noi di questo fatto che animava non poco anche
Antonio che all’inizio sembrava non preoccuparsi delle vicende personali della sorella, ma con il
passare dei giorni ne seguiva più attentamente i commenti e stava con le orecchie diritte. Particolari
non ne uscivano, erano solo cose vaghe.
L’aria andava leggermente cambiando quella settimana e un fastidioso movimento del mare ci
tenne prigionieri sugli scogli in quanto era sempre piuttosto mosso. Ad Antonio non dispiaceva
tutto questo, al mattino presto o verso sera lui si isolava, meglio spariva con qualche scusa. Metteva
in un sacco una tela, che non sono mai riuscito a sbirciare e una cassettina con cavalletto nell’altra
mano e andava a dipingere verso Punta del Diamante. Spiagge zero alle Tremiti.
Antonio era ed è molto geloso dei suoi quadri. Ed è giusto, lo capisco. Allora era all’inizio del suo
cammino e comunque dimostrava già a tutti noi il suo talento naturale. Il suo linguaggio attraverso i
colori era più intimo, più immediato di quanto facevo io. I suoi quadri mi parlavano. Diverso è lo
scrivere dove il rapporto è con l’armonia della parola e se queste sono messe in un ordine anche
perfetto di uno stile sobrio e penetrante, sono sempre parole ed il risultato della nostra emozione
deve passare attraverso questa sfera di traduzione, della parola e della sua logica. Nella pittura
questo passaggio viene saltato ed il rapporto con l’emozione è diretto attraverso il rapporto forma e
colore. Chi riesce a cogliere questa armonica combinazione è fortunato, ed il resto lo aggiunge il
nostro stato d’animo. Così questo quadro che oggi è improvvisamente apparso e che racconta quei
momenti irripetibili, racchiude una sensazione che ognuno interpreta a suo modo. Chi avrà una
reazione minima, chi massima. A seconda del proprio stato. E fu così che nacque questo quadro di
Punta del Diamante origine dei dolori del giovane Ermes e delle nostre sopportazioni ai sui mal di
pancia. Finimmo per prenderlo inevitabilmente in giro. E si continuò su questa falsa riga fino a che
la cosa divenne giorno dopo giorno quasi normale e perse di interesse. Intanto arrivava il giorno
della partenza e le vacanze stavano finendo, almeno per me. Si doveva ritornare entro il 20 di
Agosto ed iniziare un minimo di preparazione per gli esami di riparazione. Ognuno faceva i propri
calcoli, chi per una materia chi per l’altra ed ipotizzava un lasso di tempo. Per il sottoscritto, a parte
impianti che era un disegno di fili e righe, c’era poco da ripassare, restava l’incognita di Italiano.
Come fare per prepararmi bene, visto che ero stato giudicato acerbo. Pensavo ad una amica che
faceva il primo anno di lettere e per me era già una mezza proff, si chiama anche lei Giuseppina e
programmo, data la nostra amicizia, di affidarmi alle sue cure per digerire una trentina di temi che
svolgo con perseveranza dal 25 Agosto al 15 Settembre. Li conservo ancora, scrivo su tutto e su
tutti. Lei mi guarda con i sui occhi buoni e mi dice : “Vai, vedrai che ce la fai! E così fu! “.
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Ma ritornando a casa dalle Tremiti il nostro gruppo si divise ancora in modo diverso.
Antonio e Gigi rimasero a Termoli con la conturbante Genia e questo misterioso quadro.
Noi, cioè Max, Franchino, io ed il giovane Innamorato ritornammo in 500, lasciando alle nostre
spalle la terra molisana, dura e dolce nello stesso tempo. Il ricordo di queste dolci colline, dei campi
e dei sudori dei contadini mi è ancora davanti. E poi il mare, quel mare che appare piatto, infinito,
immobile ma amico. Ed il profumo di pini e di salsedine ci accompagnò per tutto il giorno ebbri di
felicità fino al primo acquazzone che ci colse poco prima di Ancona.
Fortunatamente non eravamo lontani dalla nostra meta: Porto Garibaldi, dove avremmo trovato
conforto dai miei.
La durezza si può definire come la resistenza che un corpo oppone alla penetrazione da parte di un
altro corpo, o anche semplicemente alla scalfitura. Su questo concetto è basata la scala comparativa
delle durezze di MOSH comprendente dieci sostanze dalla più tenera alla più dura. Di tali sostanze
il diamante è il decimo. Quindi tutte le prove di durezza dei vari materiali utilizzano generalmente
penetratori di diamante e così viene spiegato come il nostro gruppo era preso come campione per
quanto riguardava la durezza nell’apprendimento nel nostro istituto.
Ma forse l’appellativo oggi richiama molto di più l’immagine di chi ha poi lasciato comunque
un’impronta nella propria attività e nel proprio tempo. Anche chi non se ne è accorto ha lasciato
comunque il segno di una precisa generazione che racchiude in se la maturazione di una società post
bellica che fortunatamente è cresciuta sullo slancio di un paese in ricostruzione e sulle possibilità di
realizzarsi a condizione di lottare per ottenere un obiettivo .Chi più, chi meno ma ognuno di noi alla
fine di quell’estate arrivando a Milano aveva in mente il proprio destino e doveva solo sbrigare le
ultime formalità per avere quella minima patente di accesso alla vita lavorativa, quel minimo punto
di partenza per iniziare.
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Le possibilità anche allora erano non proprio servite sul vassoio, ma bisognava conquistarle e non
mollare, specialmente davanti alle prime sconfitte che arrivarono immancabilmente, almeno per me.
Comunque gli spazi c’erano occorreva avere determinazione. Anche se la scuola ci aveva formati
per modo di dire al 50%, il resto lo si doveva aggiungere noi.
Oggi mi è più facile vedere quel periodo con l’esperienza di chi è passato e guarda all’indietro a ciò
che ci apprestavamo a diventare con l’aria tranquilla e composta consapevole di quello che è stato.
Allora nell’arrivare a casa quella fine estate, il mio avvenire mi sembrava vago, indefinito non
sapevo esattamente cosa volevo essere. E’ certo che volevo trovare un lavoro anche per la
situazione familiare che andava sempre più mettendosi male, in quanto mio padre non riusciva a
riaversi fisicamente da una brutta operazione di ulcera che l’aveva indebolito post operazione per
una diciamo oggi “malsanità”. Fatto è che non lavorava da oltre 6 mesi e il rapporto con la sua ditta
si faceva teso.
Quando arrivammo a PortoGaribaldi era ancora convalescente, veniva saltuariamente al mare in
quanto era molto debole e la sua ferita non si chiudeva. A quel tempo nel piccolo paese dei lidi
ferraresi che iniziavano a crescere proprio in quegli anni si stava bene. La vita della vacanza era
costituita dal giorno in spiaggia e la sera cena con tutti i parenti della famiglia che arrivava a
contare quindici, venti persone più gli amici, diciamo una trentina. L’Armido era l’addetto alle case
(due) d’affitto dei Sangiorgi che si affacciavano da oltre 10 anni alla spiaggia, dietro al faro del
molo al tramonto, egli preparava all’aperto delle lunghe tavolate dove ci si metteva attorno.
Cucinava per tutti semplicemente sarde ai ferri seppioline e cozze ripiene: in totale una o due
cassette. Quanto costava poco allora il pesce! Mio padre quando era in forma andava a pescare con
una barchina di legno, un albero e mezza vela, appena al largo oltre il molo che puzzava sempre di
anguille. Per l’esca, offriva mezzo pacchetto di sigarette al pescatore e in cambio aveva mezza
cassetta di acciughe o sarde un poco andate che ogni tanto buttava in acqua per attirare gli altri
pesci. Che tempi! E di sera noi sbarbati altro che dancing o drink! Ci si imboscava fra pattini,
barche, mosconi e capanni, e per farci coraggio ogni tanto si lanciava una voce.
Ma quell’anno le Tremiti mi avevano di fatto escluso dalla compagnia, i giochi erano chiusi.
Il giorno dopo ripartimmo per Milano dove noi eravamo attesi dagli esami ed Ermes dall’Amore.
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Alle tre del pomeriggio del 5 settembre del 1966 l’Ermes in maglietta bianca Lacoste, RayBan sul
naso e petto in fuori si presentò all’appuntamento in Piazza Ascoli. Era in anticipo netto e non
vedeva l’ora di vedere Genia dopo l’incontro delle Tremiti; quindi iniziò a fare un primo, poi un
secondo e un terzo giro attorno alla piazza dove si affacciavano la scuola media Ascoli, la Tiepolo e
la sede dell’Aeronautica Militare di Milano. Non vi era un gran traffico. Di tanto in tanto il tram 23
arrivava facendo sentire il rumore della propria ferraglia e poi dopo se ne andava attraversando
l’ultimo semaforo verso Viale Regina Giovanna. Tram questo, storico per me perché vide
casualmente nella stessa piazza l’incontro iniziale fra Carlo e Marika. Alle quattro altri giri, le ore
cinque e di GENIA nulla.
Ermes ormai non sa a che santo votarsi. Come una farfalla impazzita corre su e giù per il
marciapiede con il suo regalo che aveva portato, tende l’orecchio ad ogni tram in arrivo, sobbalza e
si dispera al suo allontanarsi. I suoi grandi Ray-Ban son pieni di lacrime. Non per il freddo, perché
fa ancora caldo in questa dolce sera di settembre, ma per la rabbia. Ormai si è rassegnato e lo ha
capito che non verrà all’appuntamento. Si rende conto che era una follia sperare in questo miracolo,
si era una follia. E mentre si sta allontanando, ripensa. E se fosse successo un imprevisto? Se
all’ultimo non avesse potuto? Perciò stiamo calmi, diamo ancora uno sguardo alla garitta
dell’Aeronautica dove la guardia, detta Vampiro, lo guardava ormai con fare comprensivo. “E’
caro oggi ti tocca. Così sai che vuole dire delusione. Cosa ti sei messo in testa? Ma lascia stare le
ragazze degli altri!”. Va bene va bene, sembrava rispondergli Ermes. Ho capito sono stato un pazzo.
Sono un pazzo. E quando vide arrivare Antonio il fratello di Genia, tutto trafelato quasi quasi non
credeva ai sui occhi. “Ma è successo qualche cosa a tua sorella?” gli domandò a bruciapelo, quasi
dimenticandosi di salutarlo. “Ma no, perché? Cosa vuoi dirmi?”. “Ma niente” rispose Ermes ormai
in stato confusionale. “Senti” continuò Antonio “mia sorella mi manda per darti questo e dirti che
non può venire. Deve stare alla mostra con mio padre”. E nel dire queste parole gli consegna un bel
quadro coperto da una parte, un 50 x70, il famoso quadro dipinto alle Tremiti. “Ecco tieni, è quello
che ho fatto il mese scorso, spero che ti piaccia”. Ermes esclamò: “Ma è Punta del Diamante!”. “Sì,
so che ci tieni molto. Prendilo”. Ermes lo ringraziò e scappò via con le lacrime agli occhi e per una
settimana non uscì più da casa. Non sapeva se richiamarla, oppure no. Restò in attesa ogni sera per
diverse settimane ma niente.
Arrivò quindi il tempo delle nebbie e dei progetti futuri.
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Le Tre Stagioni:
Il servizio militare, il lavoro, l’Università
La nostra vicenda sta arrivando all’epilogo e prima che ognuno di noi prenda la propria strada
vorrei tentare attraverso alcuni reperti storici travati per caso di recente di riorganizzare quel breve
intervallo di tempo che va dalla maturità all’inizio del lavoro per alcuni, all’università per altri o al
servizio militare nel mio caso.
E sì, allora il servizio militare si faceva ancora, 12 mesi: è stato abolito nel 2005.
Oggi alcuni sorrideranno nel sentire che noi nonni facemmo la naia. Si chiamava così e ancora oggi
si dibatte sulla validità formativa di tale addestramento. Io dopo l’ho apprezzato, cioè ai miei figli lo
farei fare.
Favorevoli o contrari all'abolizione del servizio militare obbligatorio?
<Io non riesco a prendere una posizione, per certi aspetti (solo perchè io ho fatto il militare) vorrei che fosse ancora
obbligatorio, per la serie "dobbiamo passarci tutti", ma più ch altro per vendicarmi di tutti quei mocciosetti che mi
facevano la "stecca" quando passavo col camion, e per mio fratello che sembra un mollusco e se ne vanta. Per altri sono
contrario, così il vaticano impara a protestare, visto che dopo l'abolizione, il numero di chi sceglieva il servizio civile,
alternativo alla naja, è drasticamente calato (comodi gli schiavetti gratis ehhh?) e il clero si è subito messo a piangere.
Voi che ne pensate?">
<L'idea di Luke mi sembra un buon compromesso fra il nulla e il troppo, si tratterebbe di un CAR lungo, senza la
routine del resto della naja.>
<L'idea non fa una grinza: l'utilizzo delle forze armate per il controllo capillare del territorio, laddove le forze di polizia
non possono agire. Continuo a propendere per il servizio obbligatorio. Il modello svizzero mi sembra molto logico,
nonchè esempio che esercito bene organizzato non necessariamente vuol dire stato guerrafondaio.>
<Credo che si sia fatta la scelta meno intelligente...il servizio militare andava riformato...non abolito! tre mesi di
addestramento vero... duro e formativo (come in svizzera ecc...) alcuni in corpi armati altri in corpi disarmati
(obiettori) e poi su base volontaria permaneza operativa di 6 mesi... faccio solo un esempio , il fiume lambro è color
"viola " da quarant'anni... una volta ci vivevano gli storioni... possibile che non si capisca cjhi lo inquina? prendo
duecento uomini i tenuta da campagna , tende e rifornimenti, cento su un lato cento sull'altro e su fino alla fonte... ogni
volta che trovo una immissione stacco un gruppetto che risale fino alla fonte e preleva campioni... vuoi vedere che lo
facciamo diventare blù e i militari si ripagano lo stipendio??? e poi almeno i pupattoli col sedere nel burro si danno una
svegliata ... ma il militare "faccio un c. per un anno" era abbruttente per i ragazzi e costoso per lo stato.>
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Intanto quell’autunno del 1966 il tempo sembrava improvvisamente essersi fermato in attesa di un
futuro che non arrivava mai. Si dovevano compiere alcuni atti e questi erano subordinati ad altri ma
il tutto non si sbloccava ero a dirla con un’altra parola, in stato di stallo. Lavoro non lo trovavo
perché aspettavo il militare, il distretto non mandava ancora la famosa cartolina, ed intanto tutti i
mie compagni avevano anche loro scelto. Non lo sapevo esattamente, ma ricevevo degli
aggiornamenti o dal Gigi o dal Max. Ricordo che 6 o 7 di loro avevano già scelto di continuare gli
studi. Gigi Fisica, Ermes Ingegneria, Franchino Ingegneria, Picco Ingegneria, Sabbatini Ingegneria,
Segneri non lo so, Bottini non lo so, Maurogiovanni Economia, Gabriele Ingegneria, Ragozzino non
lo so. Altri non ricordo, fatto stà che da questo momento in poi la vita delle Punte di Diamante si
divide ed ancora oggi è difficile ricostruirne i movimenti. Magari al prossimo incontro riuscirò ad
avere qualche dettaglio in più. Vista la mia situazione familiare diciamo precaria in quel periodo
ero stato raccomandato fortunatamente da un amico di mio padre certo Maresciallo MANFREDI in
forza all’Aeronautica Militare di Piazza Novelli, proprio dove l’Ermes aveva dato l’appuntamento
alla Genia e dove aveva invece avuto in cambio “del bidone” il quadro famoso, ora apparso dopo 45
anni. L’Ermes per il momento lo lasciamo nel suo brodo ormai rassegnato. Ha deciso di prometterlo
a tutte poi sul più bello niente, le molla e ne conquista un’altra di ragazza. E’ così che in quel
periodo in cui inizia l’università passa a far soffrire prima la figlia del fotografo di Via Verri, poi la
segretaria dello studio Pompinoni e infine un flirt con la sua compagna di corso, beccato dal
Sabbatini un giorno mentre scendeva dalla sua nuova cinquecento. Un particolare è importante,
aveva cambiato gli occhiali, e stando al Sabbatini erano Polaroid, che funzionavano meglio dei Ray-
Ban. Poi di lui più nulla. Un solo ciao in un biglietto a fine anno del 1967. Io intanto visto che ero
raccomandato e che avevo fatto domanda in Aeronautica pensavo di venire a Milano. Invece dovetti
partire par fare il CAR a Pesaro. Mi dissero che era così, il CAR si doveva farlo lontano. E va bene.
Poi si verrà a Milano e potrò fare qualche lavoro extra. La lettera del Sabbatini mi parlava poi di
Sergio Ghidoni il quale di botto in anticipo su tutti si era già sposato ed aveva un figlio. La cosa per
me era così lontana che stentavo a crederci. I giorni passavano anche veloci fra una marcia e l’altra,
fra una prova e l’altra e scherzi di ogni genere. Scrivevo a casa o forse di più ai mie compagni i
quali mi mandavano cartoline e lettere. Le lettere di Max erano uniche, nel vero senso della parola.
Una volta che erano passate dalla censura militare, e mi arrivavano, costituivano il divertimento di
tutta la squadra. Di solito erano solo buste, dentro non c’era nessuna lettera. Andavano quindi lette
solo all’esterno ed erano le fantasie più strane che uno possa immaginare.
Questi erano dunque gli stimoli indiretti che mi arrivavano dal Max e che mi hanno molto spesso
fatto ritornare il buon umore. Umore che subito dalla sveglia diventava cattivo per peggiorare via
via durante il giorno. Grazie a lui e al suo POF che oggi pochi ricordano, sono riuscito ad arrivare
alla fine del cosiddetto CAR , ansioso di ritornare a Milano.
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Era metà giugno ed il sole di Pesaro ti scaldava dentro, anche perché avevamo scarponi neri pesanti
anche a Giugno ed una bella camicia carta zucchero con stellette e giacca.
Bene ragazzi state pronti che ci si vede!
Così quel mattino fermo impettito davanti al nostro capitano del 28 RGT FANTERIA PAVIA
sentii la mia nuova destinazione
Aviere CONTI ROBERTO, pausa…….destinazione PESCARA.
“Meno male che ero raccomandato”, esclamai! Partimmo in una ventina per l’Aeroporto di Pescara
e mentre ci caricavano sull’autobus militare ricevetti la lettera di GIGI.
E’ ancora il POF a tirarmi su il morale mentre ci sciroppiamo le 5-6 ore di Pullman naturalmente
con aria”condizionata” e rileggo la lettera guardando e riguardando il mar dal finestrino. Mi sembra
di ritornare alle Tremiti. Peccato che Pescara ci sbattono tutti giù. Sono quasi le due del pomeriggio.
Ripenso a quanto mi ha scritto Gigi. Sta preparandosi per i primi esami. Chissà che mazzo, penso.
Forse io sono fortunato .
Max è a Torino, quindi lavora. Dove non lo so. Picco l’hanno buttato fuori, perché non ha superato
gli esami ? Ma quali? Mi chiedo, non lo so ancora! Farà la mia fine, e così grande e grosso non può
scappare dal militare. Invece Max si, Furbo. E’ stato veramente furbo. Negli ultimi tre mesi che
precedono alla visita medica al distretto, ha cominciato a mangiare poco, dimagrire e a fasciarsi il
torace tutto il giorno per rimpicciolirlo. Lo posso oggi confidare, ergo, il giorno della visita medica
è risultato REVEDIBILE per scarsità toracica. E’ come quelli che nell’ottocento si tagliavano un
dito o due per non essere presi alla leva dei francesi di Napoleone. Poi credo che per esubero abbia
ricevuto l’esonero totale.
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Dopo qualche giorno ecco una nuova lettera arrivatami da Pesaro sempre dal Gigi.
Siamo a Luglio e il caldo si fa sentire specialmente in città. Io a Pescara inizio ad ambientarmi e
devo dire che non essendo in molti, una cinquantina di avieri, ed essendo addetto al servizio radar
dell’aeroporto devo convenire che non mi trovo male. Faccio dei turni e poi ho 48 ore libere.
Pertanto in questo tempo libero si possono fare tante cose. Mi organizzo. Vado subito al mare, dove
l’Aeronautica dispone di un suo spazio. Mi metto in costume e quindi non sono vestito come un
militare e mi sento libero in mezzo ad altra gente. Non male devo dire. La lettera del Gigi prosegue
poi: Max è a Bergamo, ma che fa il Giro d’Italia? Ermes, Goldoni e Franco fanno ancora esami,
poverini! Meglio il sottoscritto che fa qualche bagno in quel di Pescara.
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Guardo ogni sera all’imbrunire le dolci curve della Maiella che si staglia proprio di fronte
all’aeroporto. Le vedo dalla camerata ormai parte della mia vita dove a volte riesco ad isolarmi
sulla mia branda e a dipingere. Pazzesco! Se ci ripenso.
Ho fatto qualche quadro e devo dire che i nonni mi hanno rispettato. Dopo i primi due cu-cu ci
siamo accordati e la cosa è finita lì con qualche disegno regalato. Un gavettone tanto per essere
battezzato e poi per il resto vita sana.
L’estate se ne stava andando ed ormai mi attrezzavo a passare l’autunno e l’inverno. Dentro di me
vi era un continuo pensiero ed era rivolto a casa. Le cose non andavano proprio bene e a parte che
scrivevo poco ai mie genitori, scrivevo molto di più agli amici e compagni. Mio padre era ancora a
casa senza lavoro e mia madre tirava avanti come poteva. Erano venuti a trovarmi una volta, per il
giuramento a Pesaro e la cosa mi aveva veramente commosso perché mi sembrava di essere lontano
da casa da tanto tempo, di avere staccato i contatti con il mondo che mi aveva circondato fino ad
allora. Dove erano i miei compagni? Le mie amiche? No, di questo secondo aspetto non voglio
parlane qui, forse in un altro racconto. Vedrò. Anche lo sport, il calcio mi aiutava a trascorrere le
ore di libertà, perché avevamo a disposizione un bel campo di calcio dove mi allenavo ogni giorno e
ormai non sognavo più di diventare un campione anche perché mi ero già infortunato una volta al
menisco in una partita con il Citta’ Studi. E’ in questo contesto nuovo che ho conosciuto ragazzi di
ogni parte d’Italia e di scuole diverse che e di estrazione sociale diverse. E’una buona palestra dove
si vanno formando amicizie nuove impreviste ed inaspettate, altre invece deludenti. Quelle amicizie
durarono poco, il tempo della naia, qualche lettera successiva e poi svanite nell’incalzare degli anni
giovanili. Si sta concludendo un tempo della mia vita e non me e rendo conto. Sono lontano dal
mondo di Milano, lontano dai riferimenti più o meno certi che mi hanno circondato fino a quel
momento e nelle sere che si vanno accorciando lungo le spiagge ormai deserte di una Pescara che si
va sviluppando caoticamente. Il periodo dell’addestramento militare durava dodici mesi. Cinque
erano già passati e direi velocemente. Mentre calcolavo quanti giorni mi restavano da fare, mentre
stavo passando vice-nonno in quanto si stavano congedando i primi nonni, mentre accadeva tutto
questo ricevetti una lettera dal Naz, cioè Alberto che aveva realizzato il suo sogno e finalmente era
arrivato alla scuola di Piloti di Pozzuoli. La lettera datata primo settembre è già un delirio dalle
prime righe e con molto orgoglio evidenzia la patacca della carta intestata.
Essendo stato nominato Aviere scelto ecco che scatta il nonnismo ed ancora oggi mi metto
sull’attenti nel parlare con lui, essendo io solo radarista, colui che avrebbe dovuto ”plottare” il
percorso dell’aereo del Naz nel caso sorvolasse la mia zona aerea di competenza. Dopo qualche
bigul, mi invitava ad andare a Napoli per vederci, ma non fu mai possibile. Napoli non era proprio
dietro l’angolo e comunque occorreva un coordinamento di tempi allora impossibile, oggi con i
telefonini mail, sms e quanto altro, sarebbe molto più semplice.
La lettera parlava di esami da farsi in Settembre e poi una visita a Pisa.
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Il testo integrale della lettera inoltre a ricordare un eventuale incontro a Riccione con tutti da Picco
a Walter, non so in che modo si sarebbe potuto fare, accenna al Nibbio e al Ciap perché si sono
fatti bocciare e finisce con quel “Ah, i bei tempi!”
Si dobbiamo dirlo forte, Bei tempi !
Quello che viene ora non è leggenda rielaborata, inventata. E’ semplice verità, schietta realtà.
Sicchè della felice storia che avrebbe potuto essere quella delle Punte di Diamante racconterò solo
la parte finale e solo quanto ho saputo. Non è certamente il finale gioioso che ha percorso tutto il
periodo della loro coesistenza, è il finale duro e anche amaro che non ti aspettavi o forse sì. Ecco
qua.
Incredibile a dirsi per un certo periodo le lettere tra di noi arrivavano e direi con lo sguardo di oggi
erano anche prolifiche. Ma oggi i giovani si scambiano solo SMS o mail. Non è la stessa cosa.
Chissà chi ritroverà le nostre mail fra quarant’anni come sorriderà dell’altra. Sono belle al momento
ma poi confondono. A volte fanno confusione come quando si parla tutti insieme. Bene ha fatto il
Franchino a riordinarle. Bravo. Comunque per me si stava avvicinando il momento che non mi
aspettavo. A quel pensiero, che era come un tarlo di dentro, ormai avevo messo una pietra sopra. Si,
il pensiero di ritornare a casa e iniziare a essere non di peso alla famiglia, insomma a guadagnarmi
da vivere. Invece ero in albergo a spese dello stato, lavoravo anche con turni di notte, ma in tasca
non un becco di una lira. Si diciamo qualche spicciolo lo avevo ma poca cosa.
Ormai le giornate si accorciavano a vista d’occhio e alla sera in aeroporto faceva fresco, spirava
sempre un venticello che andava verso la Maiella. La mia branda ormai era un mezzo ufficio con
studio odorante di pittura. Nell’armadietto c’era di tutto, dai libri ai fogli da disegno, ai colori ai
barattoli. Una puzza di acquaragia che ogni tanto dovevo mimetizzare. Avevo ricevuto da mio
padre una lettera toccante. In questa mi rimproverava di dare poche notizie di me a casa e che mia
madre era preoccupata. “Chissà quel figlio” diceva a mio padre! “Non scrive, non telefona, ma cosa
fa quando esce, perché non chiama?”.
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E’ vero che non ero molto in contatto con i miei, era una cosa comune credo di tutti i giovani.
Forse ritenevo che le notizie da dare a loro non erano importanti, invece a mia madre bastava solo
sentirmi. Fatto è che si arriva verso la fine di settembre, anche metà ottobre e con le foglie morte
che volavano in giro per i piazzali e i primi freddi mattutini e quando si sale al centro radar questi a
volte è immerso in quella tipica foschia e nebbiolina che si dissolve ai primi raggi del sole. Come
un fulmine a ciel sereno, ecco che arriva la notizia.
Mi chiamano al comando, solo io, e mi comunicano che da fine ottobre avrei potuto recarmi a casa.
“A casa?” dico io, “e per quanto?”. "Per un periodo illimitato", risponde il Capitano. Hanno accolto
la domanda di congedo anticipato fatta a suo tempo per i problemi della tua famiglia. Quindi
conclude il superiore: "da fine mese puoi predisporre la tua partenza". “Molte grazie,” e commosso
col magone alla gola mi ritiro in camerata.
Sono felice e nello stesso tempo triste. Un misto di due distinti sentimenti che mi fanno stare male
per quella notte. Quando la notizia arriva ai mie compagni e ai nonni non vi dico la reazione. Alla
sera dopo, gavettoni e cucù a tutta birra, perché comunque si doveva festeggiare. Per la prima volta
una spina lasciava la stecca ai nonni. Gli stessi nonni una volta congedati, mi scrissero: erano in
parte molisani, pugliesi, uno anche di Erice, figlio di un capitano della Marina, chissà come finito
nell’Aeronautica.
Nel partire così di corsa, non preparato, avevo potuto portare a casa solo due sacchi da militare.
Tutte le altre mie cose rimasero là a Pescara in consegna a quei miei nuovi compagni conosciuti da
quattro mesi. “Ciao a tutti” gridai nel partire. E se passate da Milano, ricordatevi di portarmi i
colori ed i libri. “Non ti preoccupare”, mi gridarono due nonni. “Noi ci si congeda a fine Ottobre e
a metà Novembre si va in Germania a cercare lavoro, dove abbiamo dei parenti”.
Va bene, ciao, ciao a tutti. Fu così che quella sera arrivai a casa, Via Caruso 7 con grande sorpresa
dei miei e pianto di mia madre che nell’abbracciarmi singhiozzava “TEL CHI IL MIO NANI”. Lei
parlava mezzo milanese e italiano.
I libri ed i colori e qualche quadro arrivarono altrettanto inaspettatamente un mese dopo consegnati
in portineria da quei due miei compagni che non avrei mai più visto e che erano diretti in
Germania.
**************
Era come riaccendere tutti i contatti di un circuito rimasto spento per sei mesi. Mi trovai proiettato
nella vita caotica di Milano ed in meno che non si dica, a fine Novembre, mi trovai un lavoro,
naturalmente il primo che mi venne offerto.
Ecco la prima esperienza dal sapore dolce amaro. Dolce perché alla soddisfazione di avere uno
stipendio mensile di sessantamila lire, si aggiungeva il fatto che l’avevo trovato da solo. Delusione
amara perché dopo il primo impatto con i progettisti –disegnatori di questa società di costruzione di
impianti (ELECTRON) mi mandarono per fare esperienza in officina, che era in un postaccio nella
zona di Turro-Greco. “Senti” mi disse il Paron, “per imparare devi iniziare a sapere come sono i
prodotti e come si costruiscono poi saprai progettarli. Pertanto ti assumiamo come operaio e poi
passerai impiegato fra sei mesi”. Accettai ed iniziai così a lavorare dal lunedì al sabato compreso.
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Certamente allora si lavorava in Italia il sabato mattina, e la settimana lavorativa era passata da 48
ore a 44. Dopo una settimana di lavoro, non dico cosa pensavo.
Stavo per scoppiare ma mi facevo ogni giorno forza per resistere a fare un lavoro che dalla mattina
alla sera ti costringeva a stare in piedi, era il meno, ma a collegare, quadri elettrici, componenti e
per giorni e giorni. Poi un mezzogiorno, mangiavamo in una specie di trattoria lì vicino,
mi accorgo che mi hanno ripulito il portafogli di cinquemila lire. Altra bella esperienza, incassa,
incarta e porta a casa. Tutto serve nella vita, ma per ora sono solo bastonate.
E’ il momento della tempra, ed in effetti tutti i materiali vanno trattati e ben sappiamo quale sia il
ciclo per temprare un metallo. Dopo la formazione ecco che occorrono esperienze che ti diano una
sveglia, una scossa e di scosse incominciavo a prenderne. Anche altri compagni in quei periodi
stavano facendo le loro prove di tempra, chi all’università, chi in ambiente lavorativo, come Max,
che da Roma manda una lettera, ma che suona ancora piena di allegria e di goliardia. Eccola sotto,
anche se la scrittura è davvero impossibile. Mi scuso a nome suo.
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La lettera continua con qualche rebus e indirizzo del Picco. E’ a Sabaudia. Chissà ?
Finisce dicendo che ha conosciuto un attrice vergine a Roma! BOH! Dico io. Si vedrà!
Ecco, siamo all’epilogo. Sto per restituire alla pace quel mio senso di colpa che ho per un certo
tempo e mi sono portato dentro fino ad oggi. Io, allora avevo vent’anni appena compiuti ed ero
impaziente di crescere di trovare una strada un futuro. Trovato subito il primo lavoro la vita mi
sembrò iniziare a roteare vorticosamente attorno e le esperienze di quel primo lavoro mi spingevano
a cercare, cercare qualche cosa di diverso che mi rendesse più contento. Non mi curavo molto di
chi mi aveva circondato fino ad allora in quanto vedevo tutti i miei compagni impegnati in una
nuova esperienza o lavorativa o universitaria. Avevo perso di vista certi insegnamenti e valori che
avevano segnato la prima giovinezza.
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Non mi sono perdonato di non aver mai risposto alla lettera del Naz, quando mi scrisse che sentiva
che le cose andavano forse male. Stava per finire il corso e si sentiva terribilmente solo. Io non
ricordo di avergli mai risposto. Ecco mi libero oggi, da questo senso di colpa, è forse tardi ma
meglio ora che mai! Ecco la sua lettera.
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La quarta stagione
Dagli scatoloni che ho trovato due anni fa dopo la morte di mia madre nella cantina e relativi al
periodo della storia dell’Istituto Tecnico e quindi delle Punte di Diamante sono usciti altri reperti
che potrebbero costituire un’altra storia forse più intima.
Si riferiscono alla quarta stagione dei nostri personaggi, alla stagione degli Amori.
Questa stagione sarà ancora più severa con delle prove continue che non sono ancora finite e non
finiranno mai.
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Archivio fotografico
L’importanza di ricordare per quei giorni in cui verrà voglia di leggere.L’importanza di ricordare per quei giorni in cui verrà voglia di leggere.L’importanza di ricordare per quei giorni in cui verrà voglia di leggere.L’importanza di ricordare per quei giorni in cui verrà voglia di leggere.