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PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO SOCIALE E CLINICO

Collana diretta da Grazia Attili e Paola Di Blasio

Sezione Saggi

La collana si colloca in una prospettiva che mira a individuare le forme e le caratteristiche dello sviluppo in termini d’interazione conti-nua tra organismo e ambiente sociale. L’ottica di base, quindi, è di tipo trasversale e abbraccia le tematiche della psicologia dello sviluppo, della psicologia clinica dello svilup-po e della psicologia sociale dello sviluppo. L’attenzione verrà posta sulle forme di transizione e sui cambiamenti che caratterizza-no tutto l’arco dello sviluppo umano. La collana si articola in tre sezioni: – la prima, Monografie, offre agili approfondimenti di tematiche

più vaste, abitualmente trattate nei manuali istituzionali; – la seconda, Strumenti, propone test di diagnosi e di ricerca di lar-

go utilizzo sia a livello universitario che dei servizi psico-sociali e della pratica clinica;

– la terza, Saggi, offre volumi di ampio respiro su temi di rilevanza culturale nell’ambito della psicologia dello sviluppo sociale e clinico.

La collana è indirizzata a studenti universitari ed esperti, principal-mente dell’area psico-sociale e psicoterapeuti, ma anche di discipline affini quali neuropsichiatri e psichiatri dell’età evolutiva, pediatri, operatori della giustizia, educatori e formatori.

Volumi pubblicati:

1. G. Attili, Ansia da separazione e misura dell’attaccamento normale e patologico. Versione modificata e adattamento italiano del Separation Anxiety Test (SAT) di Klagsbrun e Bowlby

2. E. Confalonieri, I. Grazzani Gavazzi, Adolescenza e compiti di sviluppo, edizione riveduta e ampliata

3. L. Anolli, Le emozioni 4. R. Cassibba, Attaccamenti multipli 5. C. Poderico, P. Venuti, R. Marcone (a cura di), Diverse culture, bambini

diversi? Modalità di parenting e studi cross-culturali a confronto 6. M. Cesa-Bianchi, O. Albanese (a cura di), Crescere e invecchiare. La

prospettiva del ciclo di vita 7. L. Barone (a cura di), Emozioni e disagio in adolescenza 8. O. Oasi, F. Massaro, Vendicatività e vendetta. Perché a volte non sap-

piamo dimenticare 9. P. Bastianoni, L. Fruggeri, Processi di sviluppo e relazioni familiari 10. O. Liverta Sempio, G. Cavalli, Lo sguardo consapevole. L’osservazione

psicologica in ambito educativo 11. P. Di Blasio (a cura di), Tra rischio e protezione. La valutazione delle

competenze parentali 12. A. Arace, Attaccamenti, separazioni, perdite. Eventi critici nello svi-

luppo del Sé e dei legami familiari 13. O. Andreani Dentici, Ricordi molto lontani. La memoria a lungo ter-

mine nella vita quotidiana 14. B. Ongari, La valutazione dell’attaccamento nella seconda infanzia.

L’Attachment Story Completion Task (ASCT): aspetti metodologici e applicativi

15. M. Amann Gainotti, S. Pallini (a cura di), Uscire dalla violenza. Riso-nanze emotive e affettive nelle relazioni coniugali violente

16. P. Pistacchi, J. Galli, Un viaggio chiamato affido. Un percorso verso la conoscenza dei soggetti e delle dinamiche dell’affidamento familiare

17. L. Di Pentima, Culture a confronto. Relazioni, stereotipi e pregiudizi nei bambini

18. A.M. Di Vita, V. Granatella, Patchwork narrativi. Modelli ed esperienze tra identità e dialogo

19. R. Marcone, Da 0 a 24 mesi. Lo sviluppo delle funzioni di base 20. M. Majorano, Ascoltare il linguaggio dei bambini. Dalla comunicazio-

ne preverbale alle prime parole 21. A. Lo Coco, K.H. Rubin, C. Zappulla (a cura di), L’isolamento sociale

durante l’infanzia 22. E. Confalonieri, M. Tomisich (a cura di), Scuola e psicologia in dialogo.

La figura dello psicologo scolastico 23. P. Bastianoni, A. Taurino (a cura di), Famiglie e genitorialità oggi.

Nuovi significati e prospettive

Per i volumi successivi, si rinvia alla lista a fine volume.

GIOCO E GIOCATTOLI

PER IL BAMBINO

CON DISABILITÀ MOTORIA

a cura di

Serenella Besio

EDIZIONI UNICOPLI

In copertina: M. Campigli, Pianiste (1947). Prima edizione: dicembre 2009 Copyright © 2009 by Edizioni Unicopli, via Festa del Perdono 12 - 20122 Milano - tel. 02/42299666 http://www.edizioniunicopli.it Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del com-penso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633, ovvero dall’accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.

Indice p. 7 Presentazione, di Andrea Canevaro

11 Introduzione

Parte prima GIOCO E DISABILITÀ MOTORIA

17 Idee di gioco nella riabilitazione neuromotoria: un’analisi critica, di Laure Obino e Giovanni Voltolin

28 Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria, di Serenella Besio

58 La valutazione delle capacità di gioco del bambino con disabilità motoria, di Francesca Caprino

73 Includere nel gioco, di Gianfranco Staccioli

82 Gioco e diritti dei bambini, di Andrea Bobbio

92 I bambini dell’ICF-CY: una classificazione per misurare la partecipazione e i bisogni di una popolazione speciale, di Matilde Leonardi e Daniela Ajovalasit

Parte seconda TECNOLOGIE A SUPPORTO DEL GIOCO DEL BAMBINO CON DISABILITÀ MOTORIA

113 Tecnologie Assistive a supporto del gioco del bambino con disabilità motoria. Un inquadramento generale, di Valentina Pennazio e Serenella Besio

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p. 136 Le Tecnologie robotiche a supporto del gioco del bambino con disabilità motoria. Riflessioni metodologiche ed esempi, di Serenella Besio e Francesca Caprino

149 La progettazione di giocattoli e spazi-gioco accessibili ai bambini con disabilità motoria, di Isabella Tiziana Steffan

166 Spazi di gioco e spazi di cura: il ruolo delle tecnologie interattive nel trattamento delle disabilità motorie e cognitive, di Patrizia Marti e Alessandro Pollini

177 Agire e comunicare, imparare ad agire e a comunicare. Il ruolo delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, di Gabriele Scascighini

197 Le frontiere della ricerca tecnologica. Rassegna sullo stato dell’arte della ricerca tecnologica in relazione al gioco per bambini con disabilità motoria, di Elena Laudanna

212 Tecnologie Assistive e accessibilità per il gioco: idee e risorse su Internet, di Francesca Caprino ed Elena Laudanna

Parte terza PROPOSTE ED ESPERIENZE

225 Una rassegna di esperienze inclusive di gioco dal mondo. Aspetti psico-pedagogici, di Valentina Pennazio

243 Valutare e scegliere i giocattoli più comuni in commercio Alcuni criteri utili e una proposta di catalogo, di Maurizio Saruggia e Serenella Besio

254 Presentazione e discussione di problemi o casi didattici in grande gruppo. Giocattoli da guardare, sentire, toccare, esplorare, usare… trovati, inventati o adattati dai fisioterapisti, di Emilia Maran e Luisa Rossetti

267 L’accessibilità al software per far giocare il bambino con disabilità motoria, di Ivana Sacchi

274 Adattamenti di robot giocattolo: alcune idee, di Elena Laudanna e Maria Francesca Potenza

283 Un’esperienza sul territorio veronese: il progetto Gioco anch’io, di Fosca Franzosi

PRESENTAZIONE

Andrea Canevaro Il libro è suddiviso in tre parti, e realizzato con diversi contributi e

con una regia molto attenta che permette di avere un lavoro nello stesso tempo unitario e plurale, nel senso che affronta il tema da più punti di vista e permette quindi una pluralità di contributi. La lettura mi ha permesso di fare qualche riflessione. Mi ha fatto capire qualcosa con maggiore chiarezza, spero, attraverso il testo nel suo insieme. Intanto mi fa molto piacere che Serenella Besio riprenda contatto con studi (Milani Comparetti) che avevo già molto apprezzato. E lo faccia intrec-ciandoli, con rigore e grandi capacità, alla dimensione delle tecnologie assistive e riabilitative. È importante prendere in considerazione il gio-co e le occasioni che può offrire comprendendo la logica dell’ICF. Che valorizza i funzionamenti e non le funzioni. Cioè, apre alle sorprese e agli imprevisti (funzionamenti) e in questo modo va oltre le ripetizioni (funzioni). L’ICF deve valorizzare i contesti e non prescinderne.

Inoltre mi fa piacere riscontrare che, con il contributo di Gianfranco Staccioli si intrecci il tema centrale del testo con l’Educazione Attiva. Devo dire che l’avrei anche sottolineato maggiormente, ma capisco che la pluralità dei punti di vista ne avrebbe molto probabilmente sofferto. La mia libera riflessione, però, mi permette di soffermarmi su questo aspetto, che, a mio avviso, è sovente malinteso.

L’Educazione Attiva viene sovente intesa come valanga di proposte attivate da chi ha responsabilità educative. L’Educazione Attiva vuole aprire alla conoscenza, quella che già è nel soggetto, e quella che potrà conquistare. E questo è reso possibile da una sospensione dell’azione, da parte di chi ha responsabilità educativa. La comprensione ha biso-gno di una sospensione, anche breve, e di una riflessione differita. È un punto che contrasta una certa idea dell’Educazione Attiva, che sembra caricare il secondo termine di un significato senza soste.

Le tecnologie possono fornire due importanti contributi, che ho tro-vato nella lettura del libro e che mi permetto di delineare più nitida-mente: – permettere la sospensione dell’azione da parte di chi ha responsabili-

tà educative;

A. CANEVARO 8

– offrire un contesto modulabile e tale da permettere l’azione da parte del soggetto con bisogni speciali. Se ne potrebbero aggiungere altri che riguardano la ricerca dei me-

diatori e la possibilità conseguente di sviluppo di reti sociali da parte di chi ha bisogni speciali e rischia sovente di essere chiuso in un rapporto didattico.

In ciascuno di noi, per piccoli o impediti che siamo, vi è un’attività di conoscenza, ovvero: ciascuno ha una sua conoscenza già attiva. Se noi la ignoriamo, sia nel ruolo di chi educa (insegnante, educatrice/tore, …) che di chi è educato (studente…), rischiamo, pretendendo che vi sia un solo modo di conoscere (quello di chi educa…), di impedire l’accesso alla conoscenza. Per evitare questo, occorre proporre e accogliere una pluralità di mediatori. La difficoltà maggiore è nell’accogliere le propo-ste di mediatori che vengono dall’altro, anche da chi è molto piccolo o vive con delle difficoltà ed esprime le sue proposte agendole. Nella plu-ralità dei mediatori vi sono le proposte tecnologiche, che ampliano in maniera considerevole le possibilità. Che diventano incommensurabili se immaginiamo le innumerevoli combinazioni che possono creare nuovi mediatori. Chi educa può, educando, agire la riflessione. E con questo trasmettere per induzione e non per riproduzione.

Oscar Wilde sosteneva che si possono insegnare molte cose, ma che le più importanti si devono vivere. Vale anche per il gioco, credo. Non tanto per il singolo gioco, che possiamo anche insegnare e apprendere. Ma per il giocare, bisogna vivere. Le Tecnologie Assistive a supporto del gioco del bambino con disabilità motoria permettono di vivere il gioca-re. Lo si capisce bene leggendo i contributi della seconda parte del testo.

Ritengo fondamentale l’apporto di Carlo Perfetti, e mi dispiace non trovarlo in un libro che percorre prospettive così vicine alla sua:

Il contesto […] non è identificabile nella somma degli oggetti con i quali il

movimento permette il contatto, ma dall’insieme di tutti gli elementi indispen-sabili per programmare il raggiungimento di determinate finalità. Non deve es-sere trascurato il fatto che trova conferma sempre maggiore dal neurofisiologo che il sistema nervoso centrale non riceve afferenze, né sensazioni, ma informa-zioni (Perfetti, Pieroni, 1992, p. 195).

È […] l’elaborazione delle informazioni che avviene sulla base di informa-

zioni precedentemente memorizzate. Così come è la scelta delle informazioni che determina la creazione di un apparato di previsione che rappresenta la base di ogni momento della vita civile, e anche questo aspetto viene sistematicamen-te trascurato dalle metodiche sincroniche (Perfetti, 1992, p. 10).

Questa prospettiva si conferma nella terza parte del libro, costituita

da proposte ed esperienze. Il gioco a supporto dell’inclusione sociale diventa anche esplorazione delle offerte del mercato, invenzioni, rico-noscimento sociale…

Le tecnologie come mediatori/organizzatori: queste parole conten-gono il rischio della condanna a essere organizzato dal mediatore, e di

Presentazione 9

conseguenza a perdere la responsabilità delle scelte, dell’assunzione di decisioni, di essere attivo nel proprio progetto di vita.

Il mediatore però è anche un elemento che può facilitare e tranquil-lizzare: recandosi in un paese di cui ignora la lingua un individuo vive meglio e si sente a suo agio se incontra una persona che gli fa da inter-prete avendo una possibilità organizzativa tale da migliorare il suo rap-porto con quel paese. L’interprete (mediatore) però deve avere il carat-tere adatto, per permettere di avere una situazione anche emotivamen-te favorevole. È diversa la sensazione di chi ha già fatto l’esperienza con un interprete che vuole comandare, che esagera nel suo compito di or-ganizzatore non interpretando i desideri e, non assecondandoli ma de-terminandoli, li impone. È fortemente contraddittorio imporre all’altro un desiderio: è il mediatore che non svolge più il suo ruolo, che esce dal proprio mandato subordinando l’altro. È possibile che, per ribellarsi a tale condizione, il soggetto la rivolti contro chi gli sta attorno, subordi-nando in nome dell’ausilio.

Un operatore deve stare attento a non far percepire male gli ausili, ossia come mediatori che nascondono una dinamica di dominio, e che rendono un soggetto subordinato o capace di subordinare. Occorre cer-care di muoversi con una buona attenzione a come l’altro percepisce gli ausilii mediatori. Questo libro è molto utile anche per questa ragione.

Note bibliografiche

Perfetti C. (1992), Esercizi per una memoria riabilitativa, Idelson Liviana, Na-poli-Padova.

Perfetti C., Pieroni A. (1992), La logica dell’esercizio, Idelson Liviana, Napoli-Padova.

IL GIOCO NELLO SVILUPPO DEL BAMBINO CON DISABILITÀ MOTORIA

Serenella Besio

1. Introduzione

Se la letteratura sul gioco del bambino è ormai sterminata, lo stesso

non si può dire intorno al gioco del bambino con disabilità: qualche ri-ferimento si trova in alcune rassegne critiche (Rubin et al., 1983), senza tuttavia una trattazione tematica approfondita; inoltre, esiste una co-stante produzione di studi sparsi nelle riviste mediche, psicologiche e pedagogiche, che tuttavia prendono in considerazione aspetti settoriali del fenomeno, talvolta di nicchia (Brodin, 2005). Molti di questi studi si sono focalizzati sul tentativo di misurare ed evidenziare differenze e similarità fra l’evoluzione e le caratteristiche del gioco dei bambini con e senza disabilità; fra questi, alcuni hanno tentato di comparare la vali-dità, nei due casi, di test utilizzati per la misurazione di aspetti del gioco infantile (Hamm, 2006).

Nel caso della disabilità motoria, per esempio, un certo approfon-dimento e rinnovamento di interesse si sono avuti, negli ultimi anni, in seguito allo sviluppo delle tecnologie assistive e robotiche e dei correlati studi sul loro utilizzo ed efficacia anche nel settore infantile a supporto della crescita, del benessere e dell’integrazione sociale (Besio, 2004).

Il presente studio costituisce l’esito del tentativo di radunare in un corpus coerente e criticamente articolato le ricerche esistenti in merito al tema dello sviluppo del gioco nel caso del bambino con disabilità mo-toria. 2. Tutti uguali nel gioco?

Numerosi dati esistenti in letteratura, pur essendo riferiti alla disa-

bilità in generale, o a disabilità multiple e complesse, riguardano da vi-cino anche i bambini con disabilità motoria. Che il gioco, per esempio, costituisca, per qualunque bambino, con limitazioni funzionali o no, un’esperienza vitale, gratificante e apportatrice di benessere, è dato in-contestabile e di fatto incontestato, tant’è vero che – se mai – non sono

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 29

rari gli sforzi, teorici e operativi, per facilitare e intensificare questa e-sperienza per tutti.1

Analogamente, è altrettanto riconosciuto che la condizione di piace-re e divertimento indotta da una gratificante situazione di gioco si ma-nifesti con indizi fisiologici e comportamenti analoghi nei due casi (ri-so, rilassamento o abbandono, desiderio o richiesta di iterazione, curio-sità e intensità di concentrazione). In ogni caso, esiste una generale condivisione intorno all’importanza cruciale di questa esperienza, per lo sviluppo complessivo delle abilità cognitive, socio-relazionali e psico-logiche del singolo.

Alcuni studi tendono, tuttavia, a sottolineare importanti differenze fra i due gruppi, che vanno tenute attentamente in considerazione e de-vono essere opportunamente conosciute anche nei loro risvolti critici. Se da qualche parte viene segnalata una linea di demarcazione fra evo-luzione del gioco del bambino disabile da quello non disabile (Almqvist, 1993), e una diretta corrispondenza fra “età di gioco”, o capacità del bambino, ed età mentale (Brodin, Lindstrand, 2000), da altre parti si segnalano (Malone, Langone, 1995) indizi controversi, che cioè, per e-sempio, non vi siano differenze significative.

La tematica appare irrisolta probabilmente anche a causa dei diversi aspetti o tipologie di gioco di volta in volta considerati, e delle differenti “misure” che vi vengono applicate.2

Okimoto et al. (2000), per esempio, hanno effettuato uno studio dal quale risulta che il grado di playfulness3 di bambini con esiti di paralisi cerebrale infantile (PCI) è significativamente inferiore a quello di bam-bini senza menomazioni. La sperimentazione svolta da Harkness e Bundy (2001) sembra invece offrire riscontri opposti: in questo caso, però, il gruppo coinvolto di bambini con disabilità, pur presentando menomazioni fisiche, non aveva alcuna compromissione cognitiva: in questo caso, anzi, addirittura i punteggi di “esuberanza” dei bambini disabili risultavano mediamente più alti di quelli attesi per l’età. Quest’ultima ricerca, dunque, anziché costituire un caso di controver-sia, sembra confermare la conclusione del precedente studio di Okimo-to: che, cioè, l’“età di gioco” dei bambini con disabilità corrisponda alla loro età mentale e non già a quella cronologica.

1 Come sosteneva Lina Mannucci, la prima maestra al Centro di Educazione mo-

toria “A. Torrigiani” di Firenze: “Dal punto di vista del piacere, un bambino spastico a noi maestre sembrava del tutto uguale a ogni altro bambino” (Besio, Chinato, 1996, p. 23).

2 Un’esaustiva rassegna critica si trova in Kelly-Vance, Ryalls, 2002. 3 La playfulness è definita – e potrebbe essere tradotta in italiano – come una

“disposizione al gioco”, e viene considerata un tratto psicologico dell’individuo (Lie-berman, 1977). Bundy (1997), basandosi sul lavoro di altri (Neumann, 1971; Rubin, Fein, Vandenberg, 1983), l’ha interpretata – al fine di sviluppare il Test noto come TOP (Test Of Playfulness) – come la combinazione di quattro elementi: motivazione intrinseca, controllo interiore, libertà di sospendere il senso di realtà, capacità di strutturazione (framing).

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Certamente, alcune caratteristiche del funzionamento del bambino con disabilità possono costituire un importante ostacolo o una limita-zione alla sua iniziativa ludica o alla piena partecipazione ad attività e a proposte di gioco.

Brodin (1999) sottolinea, fra queste, la passività e la mancanza di at-tenzione e di concentrazione, segnalate spesso anche dai genitori. En-trambi questi elementi sono confermati specificamente nel caso della paralisi cerebrale infantile in un lavoro di Dallas et al. (1993a), che ag-giunge anche un deficit di assertività in questi bambini nel momento ludico. Howard (1996), al riguardo, ipotizza una possibile correlazione tra questi dati comportamentali e le consuetudini di vita dei bambini con disabilità fisica, costretti spesso, per ragioni logistiche e organizza-tive dettate dai ritmi intensi e ripetitivi della terapia riabilitativa, a ri-durre globalmente il divertimento e il tempo libero e a trascorrerlo pre-valentemente in casa, subendo passivamente le proposte della pro-grammazione televisiva.

La mancanza di iniziativa, in particolare, sembra costituire insieme una conseguenza di particolari limitazioni funzionali e la causa di una riduzione nelle capacità e occasioni di gioco. È il caso, per esempio, dei bambini che, alla scuola dell’infanzia, presentino un significativo ritar-do evolutivo del linguaggio verbale, con riduzione delle competenze comunicative, o che, per i propri spostamenti nello spazio, dipendano dagli altri: essi vedono decrementate in modo significativo le possibilità di interazione sociale, e soprattutto traggono da queste limitazioni una riduzione dell’iniziativa al gioco e alla relazione (Harper, McCluskey, 2002).

Ma ci sono anche altre caratteristiche del gioco che possono offrire utili e interessanti prospettive da cui osservare il comportamento ludico del bambino. Le numerose proposte avanzate nel tempo dagli studiosi, a tale riguardo, spaziano sugli accenti più diversi: dalla “realtà densa” di Fink alla “tensione” di Huizinga, fino al potere “irradiante” sulla vita, intravisto da Nietzsche... (Besio, 2007). Per Garvey (1990) il gioco in-clude i seguenti quattro semplici tratti: è piacevole, non ha scopi estrin-seci, è spontaneo e volontario, ha una sistematica relazione con qualco-sa “altro” dalla realtà.

Ognuna di queste descrizioni, se letta dalla speciale angolatura della disabilità motoria, mostra un possibile confine, mette in evidenza osta-coli, rischi e impossibilità. Ci sono, infatti, bambini che, a causa di limi-tazioni funzionali “non riescono a raggiungere oggetti, a manipolarli, a usarli e possono solo assistere ai giochi dei compagni; ce ne sono altri, ai quali ogni novità, ogni oggetto sconosciuto, ogni persona che si avvi-cina oltre un confine netto anche se impercettibile, procurano spavento e angoscia; alcuni non conoscono la beata condizione di tensione e den-sità che può dare la concentrazione totale nel gioco perché non si rico-noscono come padroni dei loro pensieri e delle loro congetture o non comprendono le regole proposte; altri ancora non sembrano in grado di distanziarsi da quell’unica, ripetitiva, ossessiva attività che li incanta e

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che, pur avendo connotazioni ludiche e di piacere, all’osservatore appa-re infinita e invariabile...” (Besio, 2007a, p. 390).

Proviamo allora, nel seguito, a dirimere alcuni fra questi aspetti specifici del gioco, in relazione alla disabilità motoria. 3. Disabilità motoria, attività, adattamento

Il modello culturale e teorico a cui si farà riferimento è inevitabil-

mente la Classificazione Internazionale del Funzionamento dell’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità (2001; 2007), che offre oggi la possi-bilità di riproporre in chiave sistematizzata e rigorosa intuizioni da tempo presenti nel mondo della riabilitazione e nella cultura della disa-bilità, estendendole, tuttavia, al mondo degli umani, tout court.

Essa definisce il funzionamento umano come un rapporto inscindi-bile tra le condizioni di salute di una persona e le sue capacità di azione e di partecipazione; queste sono descritte nelle loro interdipendenze da fattori personali e ambientali che ne permettono, favoriscono o deter-minano l’estrinsecazione e lo sviluppo.

È proprio questo inquadramento che impone di non attestarsi sulla mera focalizzazione sul dato clinico in sé – la menomazione funzionale – richiedendone piuttosto una lettura sistemica, che lo correli con l’atto, spesso realizzato sulla possibilità di compensare, di fare in altro modo, di aggirare il limite, al fine, appunto, di agire sul mondo e di in-teragire, cioè di partecipare. Nell’ambito della riabilitazione motoria, questo approccio ha autorevoli antecedenti soprattutto nel concetto di “pattern analysis” inaugurato da Adriano Milani Comparetti (1965, 1982), il quale per primo, al fine di penetrare davvero il nocciolo dia-gnostico del problema funzionale di un bambino con danno neuromo-torio, ha sentito l’esigenza di spostare l’accento dai singoli e asettici dati della semeiotica tradizionale agli elementi di possibile variabilità del suo comportamento nell’interazione con l’altro, in particolare con l’adulto esperto e suscitatore di curiosità e di motivazione.4

Una variabilità che appartiene all’evoluzione dell’uomo, e non solo del bambino con disabilità; ma che, come sottolinea Pierro, ha delle ca-ratteristiche specifiche: è, infatti, “un diverso modo di stabilire relazioni adattive con l’ambiente fisico-sociale. [...] I bambini con danno neuro-cerebrale hanno certamente un diverso modo di muoversi, ma hanno anche un differente modo di percepire e soprattutto di interagire e di modificarsi nell’interazione; differente è la loro capacità di generare va-riabilità, differente è il range dei ritmi, differente il ventaglio delle

4 Dicendolo oggi con le parole di Ferrari et al.: “Alla semeiotica del difetto (lesio-ne) deve essere contrapposta la semeiotica delle risorse (funzione), risorse prima di tutto della persona, da non intendere come ciò che resta (potenziale residuo) in con-trapposizione a quanto è stato irrimediabilmente perduto, ma come il continuo im-pegno dell’individuo ad adattarsi e ad adattare il mondo fisico e sociale in cui vive” (1998, p. 29).

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traiettorie di movimenti generabili, differente è la loro capacità di spe-cificarli al contesto, quindi differente è la loro propositività e la loro re-attività e – conseguentemente – la loro modificabilità” (1998, p. 233).

È evidente allora come possa diventare complessa, talvolta difficile, l’interazione con un sistema dal funzionamento ignoto, non interpreta-bile dalle aspettative specie-specifiche; ed è anche comprensibile che essa possa utilmente giovarsi di una mediazione educativa volta a mi-gliorare le risorse reciprocamente adattive – tra bambino e adulto/i, tra ambiente e bambino.

Il bambino che presenta una menomazione motoria – soprattutto se, come nel caso più frequente,5 legata a un danno cerebrale – porta, nell’interazione con il suo ambiente, una combinazione di possibili oc-correnze funzionali che devono essere ri-conosciute, interpretate, accol-te nel progetto di costruzione della sua crescita e della sua piena parte-cipazione sociale. Come si è visto ai capitoli precedenti, esse possono esprimersi innanzi tutto in una più o meno complessa compromissione della postura e del movimento, ma possono includere anche danni di tipo sensoriale – visivo e uditivo – cognitivo, linguistico, psico-emotivo. In particolare, ricerche italiane hanno posto in luce la presenza diffusa (in quasi due terzi dei soggetti studiati) di deficit cognitivo in una popo-lazione di bambini piccoli con PCI, con prestazioni inferiori alla norma di una DS (Cioni et al., 1993). Questo dato assume com’è ovvio grande rilevanza nel caso della valutazione di questi bambini e delle loro capa-cità di gioco, nonché nella costruzione di proposte di intervento a sup-porto delle stesse.

La presenza e il grado di gravità di ciascuno di questi elementi, non-ché la complessa situazione derivata dalla loro intricata interrelazione, costituiscono dati di sicura rilevanza per lo sviluppo; in particolare, per quanto riguarda l’argomento qui trattato, essi, talvolta in grande misu-ra, determinano le capacità, le possibilità, le preferenze di gioco del bambino con disabilità motoria. Non si tratta, fortunatamente però, di dati stabili e definitivi: gli orientamenti più moderni in ambito medico e neurologico sono concordi nell’asserire che non esiste un percorso e-volutivo sempre uguale, ma piuttosto una grande variabilità interindi-viduale, e che non sempre ciò che appare “diverso” è necessariamente patologico: ciò che conta è appunto saper apprezzare e valorizzare la varianza, saper leggere e sfruttare le capacità di adattamento o, con pa-role di Brazelton, la “best performance” nella situazione di limitazione (Bottos, 1998).

Così, se alcuni bambini, nonostante le menomazioni funzionali gra-vemente compromesse, possono esprimere volontà e capacità di agire e partecipare, inventando soluzioni per risolvere o contenere il danno e approfittando pienamente delle occasioni e degli strumenti di supporto e agevolazione offerti dall’ambiente circostante, esistono dati in lettera-

5 Secondo le Linee Guida emanate da SIMFER, la Paralisi Cerebrale Infantile col-

pisce il 2‰ dei nati nei Paesi tecnologicamente avanzati.

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 33

tura (Bottos, 1998) che impongono comunque cautela nell’apporre con-clusioni prognostiche, anche in casi di apparente inferiore gravità; e ciò anche nell’espressione delle capacità di gioco (Mortenson, Harris, 2006).

Certamente, la modificabilità e l’adattabilità di ogni situazione si e-splicano appieno solo in un ambiente competente ad accogliere, inter-pretare e favorire le esigenze e le proposte di interazione del bambino. Si tratta di una competenza da una parte ad agire con, e verso il bambi-no, organizzando per esempio un ambiente ben strutturato e orientato correttamente per lo sviluppo cognitivo (Bronfenbrenner, 1975), dall’altra ad agevolare l’attività del bambino, per esempio attraverso la scelta di giocattoli che favoriscano le sue possibilità di crescita, non gli pongano ostacoli ma costituiscano un punto di sfida ottimale per la sua motivazione, il suo divertimento e in definitiva il suo sviluppo (Brodin, 1999).6 4. Linee di sviluppo del gioco infantile, in rapporto alla disabilità motoria

Com’è noto, l’interesse di pedagogia e psicologia verso il gioco in-

fantile è antico, e sono molti gli inquadramenti che si sono succeduti nella storia, offrendo dei semplici profili interpretativi, oppure vere e proprie analisi di tipo stadiale (Besio, 2007a; 2007b; Staccioli, 2004). Il rapporto fra gioco e disabilità motoria, analizzato dalla prospettiva di ciascuno di questi approcci, può offrire spunti interessanti sia per un approfondimento del tema, sia per definire linee di intervento e sup-porto all’adattamento contestuale – inteso nel doppio senso proposto dall’ICF, dell’ambiente e della persona.

Alcuni fra questi – ritenuti più significativi o più promettenti sotto questi due profili – verranno analizzati nel dettaglio di seguito, nella consapevolezza di non raggiungere una completa esaustività sul tema. A fianco dunque di una trattazione della classica teoria stadiale piage-tiana, verranno proposte alcune riflessioni sull’interpretazione di Cail-lois, e trattati infine, separatamente, ulteriori approfondimenti originali presenti nella letteratura mondiale (Bruner, Garvey, Rubin...) perché fruttuosi per evidenziare specificità poste dalla disabilità motoria.

Una particolare attenzione verrà infine posta agli aspetti sociali del gioco del bambino con disabilità motoria, sia che essi abbiano anche conseguenze di tipo cognitivo, come sottolineava il gigante Vygotskij, sia che si trovino immersi, o sommersi, nell’attuale filone di studi peda-gogici sul tema dell’inclusione; nello specifico, si porrà attenzione a quei lavori che si occupano dello sguardo e delle opinioni del bambino

6 Il tema della scelta del giocattolo, oltre a essere trattato in questo stesso testo,

ha ottenuto un certo riscontro nella letteratura recente di settore. Una breve rasse-gna si trova in Besio, 2007a; 2007b.

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disabile intorno alle proprie qualità di “giocatore” e di “compagno di giochi”. 4.1. Gli stadi piagetiani

L’interesse sempre attuale verso l’analisi stadiale del gioco effettuata

da Jean Piaget nell’ormai lontano 1945 è connessa innanzi tutto al forte legame di diretta implicazione che l’autore istituisce fra gioco e svilup-po dell’intelligenza; il gioco costituisce, infatti, uno dei due poli che rendono possibile lo sviluppo cognitivo infantile: di fronte al processo di accomodamento alla realtà esterna c’è il gioco, cioè l’assimilazione della realtà esterna trasformata secondo il volere del bambino. Definito in questo modo, nel settore della disabilità, com’è facile intuire, il gioco finisce per offrire un’importante ambito per l’osservazione e la valuta-zione del bambino, anche sul piano cognitivo.

La teoria stadiale di Piaget ha inoltre dimostrato, nel tempo, una sua efficacia interpretativa anche in chiave ordinale sullo sviluppo in-fantile. Studi comparati (Hill, McCune-Nicholich, 1981; Ferretti, 1998) hanno infatti messo in evidenza importanti analogie tra lo sviluppo di bambini con e senza ritardo evolutivo: le tappe evolutive previste, infat-ti, si ripresentavano identiche nei due casi, anche se, nel primo, si ri-scontrava un generale rallentamento delle acquisizioni intellettive. 4.1.1. Il gioco di esercizio

Il primo stadio del gioco secondo Piaget è appunto quello che corri-sponde al periodo di sviluppo sensomotorio, il gioco di esercizio. È, questo, lo stadio al quale sopra a ogni altro il bambino con disabilità motoria trova i massimi ostacoli: si tratta infatti, di attivare le prime funzioni di esplorazione psicomotoria del mondo circostante e dei suoi oggetti, comprese le persone, di sperimentare nuovi gesti – via via che le funzioni neuromotorie e le capacità di agire si incrementano – e di applicarli a sempre nuovi oggetti. I processi di assimilazione e poi di accomodamento, che costituiscono il motore evolutivo nella prospettiva piagetiana, si basano fortemente sulla ripetizione di schemi di azioni effettuati con successo, e sulla capacità di riprodurre volontariamente atti prodotti casualmente con effetti interessanti.

Tutta la formazione della conoscenza, nei primi anni di vita, appare legata alla capacità esplorativa, di compiere attività manipolatorie e motorie su uno e poi più oggetti (Benelli et al., 1980). Ciò permette al bambino di compiere inferenze sulla realtà circostante, di integrare fra loro schemi percettivi e schemi motori in una sorta di prima “interpre-tazione” del mondo e delle sue possibilità di agire su di esso.

La condizione del bambino con disabilità motoria, sotto questo pro-filo, appare dunque fortemente svantaggiata e non solo relativamente a questo stadio evolutivo: i processi inferenziali che stanno alla base della conoscenza astratta sembrerebbero infatti procedere proprio dalle abi-lità motorie e dal loro impiego anche ludico-esercitativo.

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 35

A tale riguardo, va ricordato, però, che già Bruner (1971) ha sostenu-to come, a fini evolutivi, non sia tanto determinante l’effettiva azione motoria, quanto piuttosto l’intenzione di compierla (intesa come for-mulazione di un’ipotesi e pianificazione dell’attività). Se questa ulterio-re riflessione offre una chiara spiegazione di uno sviluppo cognitivo pressoché regolare in tanti soggetti con gravi difficoltà a muoversi e ad agire sugli oggetti, va anche segnalato il pericolo opposto: che, cioè, vengano sottovalutate in chiave valutativa e riabilitativa le conseguenze dell’assenza o di una ridotta concreta esperienza attiva.

È proprio questo uno dei risultati di un progetto di ricerca svolto dal SIVA della Fondazione don Carlo Gnocchi di Milano,7 con un doppio possibile esito: il rischio di sottovalutare il potenziale formativo deri-vante dall’acquisizione di migliori competenze operative sul mondo cir-costante; e il rischio, opposto al precedente, di sopravvalutare delle esi-bite competenze di livello superiore – per esempio simbolico e rappre-sentativo – non radicate però in una reale capacità operativa sul conte-sto ambientale, dunque di fatto deboli e con scarsa valenza di operativi-tà anche astratta.

Proprio per far fronte a questi pericoli e offrire l’occasione di un ri-medio a una riduzione di attività prodotta da una menomazione, nume-rosi interventi vengono oggi attuati nel mondo della riabilitazione, con particolare riferimento allo sviluppo e all’adozione di tecnologie assisti-ve. Fra tutti, vale qui la pena ricordare le esperienze pilota di Bottos (2003) per assicurare una precoce motricità assistita da carrozzina a motore per il bambino piccolo, scientificamente basate proprio su con-siderazioni analoghe, cioè sull’esigenza di offrirgli migliori occasioni di esplorazione e interazione con lo spazio, gli oggetti e le persone circo-stanti.8

Un altro filone estremamente fecondo di sperimentazione e ricerca per la salvaguardia delle capacità di esplorazione del bambino è quello, ampiamente esplorato e approfondito in questo testo, della scelta com-petenti di oggetti per giocare adatti alle esigenze funzionali del bambi-no, o al loro sviluppo. 4.1.2. Il gioco simbolico

L’avvio del gioco simbolico, la capacità cioè di manipolare simboli, di fare finta, di attribuire significati e funzioni originali a oggetti e azio-ni prima solo funzionali, rappresenta l’apparizione della funzione se-miotica, e infatti, secondo Piaget, si rispecchia – e anche reciprocamen-te si nutre – nello sviluppo del linguaggio e della possibilità di rappre-sentare per immagini.

7 La ricerca è stata presentata a più riprese in consessi nazionali e internazionali.

Per una visione d’insieme in lingua italiana si veda Besio, 2004. 8 Sullo stesso filone, negli stessi anni, analoghe sperimentazioni negli Stati Uniti

e Canada (Cook, Hussey, 1995).

S. BESIO 36

Lo stadio prende inizio nella fase dell’intelligenza pre-operativa, ba-sandosi sulla formazione del concetto e sull’attitudine a trasformare la realtà in simboli; la sua evoluzione può comportare l’acquisizione della capacità di distinguere il mondo esterno da quello esterno, ma anche la fantasia dalla realtà. Nel gioco simbolico, il bambino applica a esercita-re le emozioni e i sentimenti, impratichendosi su una loro migliore ge-stione anche nella vita reale; e impara anche a conoscere meglio l’esi-stenza e le sue regole.

Lo sviluppo di una funzione simbolica competente ed efficace ha a che fare, dal punto di vista del bambino con disabilità, con l’integrità delle funzioni motorie, affinché i gesti compiuti possano significativa-mente o almeno intuitivamente “stare al posto di”, ma soprattutto con la funzione linguistica e cognitiva, che, come abbiamo visto, possono risultare singolarmente, o entrambe, danneggiate.

Tuttavia, la ricerca e la pratica clinica dimostrano che questi due a-spetti non necessariamente devono essere compresenti o tra di loro armonici. Soprattutto, vi sono dati in letteratura (Martinoni, Scascighi-ni, 1997) che descrivono attività di gioco simbolico in assenza di una funzione linguistica fono-articolatoria pienamente sviluppata, soprat-tutto nel caso in cui strategie di comunicazione alternative a quella ver-bale siano state efficacemente rese disponibili.

La ricerca di settore ha indicato di solito differenze significative nel-le abilità di gioco simbolico mostrate da bambini con difficoltà e bam-bini con evoluzione naturale del linguaggio, risultando le capacità di gioco inferiori nel primo caso; tuttavia, alcuni ricercatori (Casby, 1997) hanno fatto notare alcuni vizi di forma in questi studi che non permet-terebbero di assumere certezze in questo senso; altre ricerche, inoltre, parzialmente in contrasto, dimostrano come le attività di far finta non trovino una stabile e necessaria correlazione con l’uso del linguaggio (Lyytinen, 1991), il quale, tuttavia, sembra manifestare un ruolo com-plessivo di traino sulla funzione simbolica.

Del resto, la valutazione della competenza linguistica (indipenden-temente dalla sua espressività verbale) è di cruciale importanza per la determinazione del più globale funzionamento cognitivo del bambino, soprattutto in presenza di danno cerebrale. Secondo quanto riportato da Ferretti (1998), è stata dimostrata in questi casi una forte correla-zione tra evoluzione del linguaggio recettivo e stadi di sviluppo.

Altri studi, infine, sottolineano la forte influenza esercitata, sullo sviluppo della funzione simbolica e del gioco del far finta, del contesto socio-ambientale di provenienza e degli stili educativi soprattutto pa-rentali (Bornstein et al., 1996); anche questo aspetto dovrà essere tenu-to in debita considerazione, quando occorra guardare al tema del gioco simbolico nel bambino con disabilità motoria con intento progettuale educativo e riabilitativo. Del resto, proprio nell’ottica piagetiana pro-prio questo stadio permette al gioco di evolvere da una prospettiva soli-taria a una sociale, rendendo anche possibile una condivisione della simbolizzazione.

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 37

Il gioco simbolico, nel caso del bambino con disabilità motoria, può risultare massimamente compromesso nella sua espressione concreta – si pensi, per esempio, al gioco con le bambole – a causa delle difficoltà di movimento e di azione; in questi casi, spesso accade che il partner di gioco, in modo del tutto naturale, vi prenda parte sopperendo con l’in-terpretazione, spesso verbalizzata, delle intenzioni del bambino, mani-festate con il corpo, lo sguardo, la voce. È questa, del resto, una modali-tà di interazione (“divenire la mano del bambino”, Ferretti, cit.) che, in caso di grave impedimento alla funzione motoria, viene anche adottata in contesti valutativi.

Una strada che oggi appare promettente per favorire invece un’in-terazione più autonoma e intraprendente da parte del bambino è costi-tuita dalle innovazioni introdotte dalla cosiddetta “robotica sociale”, che si fonda sulla possibilità di interazione diretta tra utente e robot, anche a favore dell’attivazione e della sperimentazione di interazioni sociali; un prototipo di questo tipo è in corso di sviluppo nell’ambito del progetto IROMEC,9 che intende realizzare un giocattolo robotico utile all’interazione ludica con bambini che presentino disabilità motoria, ritardo mentale o autismo. 4.1.3. Il gioco di regole

Il gioco di regole appare tipicamente nel bambino intorno ai sei anni di età, che corrisponde all’acquisizione cognitiva delle operazioni con-crete e formali. L’essere umano ha in questo caso assimilato il pensiero reversibile, e può dunque percepire i vari aspetti della realtà, per esem-pio comprendendo che un problema possa avere soluzioni differenti.

Le regole cui Piaget fa riferimento sono socialmente condivise, ri-spondono a una generale adesione alle varie tipologie di gioco implica-te: sono, cioè, regole che vanno rispettate, pena l’interruzione o l’uscita dal gioco stesso; si tratta di giochi, prevalentemente competitivi, basati sull’esercizio di abilità psicomotorie o sportive, o di abilità intellettive. Le regole non solo devono essere fondate, ma devono essere note, con-divise; una negoziazione è talvolta possibile, ma attraverso appunto una elaborazione tra le parti coinvolte.

Com’è anche in questo caso evidente, delle buone competenze co-gnitive sono indispensabili per poter raggiungere questo stadio evoluti-vo del gioco; tuttavia, le tipologie di giochi possono essere molto diffe-renti, e il successo di una proposta ludica può anche dipendere diret-tamente da una scelta appropriata.

La realizzazione di questo stadio di gioco, con alcuni bambini che presentino una disabilità motoria, può essere effettuata facendo ricorso alla mediazione dello strumento informatico, e in particolare del video-gioco e della realtà virtuale; esso infatti, almeno laddove le competenze

9 Si tratta dell’acronimo di Interactive Robotic Social Mediators as Companions,

IST-FP6-045356, Specific Targeted Research or Innovation Project, guidato da Pro-factor, Austria, 2007-2009.

S. BESIO 38

cognitive del bambino lo permettano, offre un ambiente di gioco adat-tabile e fruibile, se il sistema di accesso è commisurato alle sue capacità psicomotorie. Lo svolgimento di attività di gioco di questo tipo è stata già alcune volte sperimentata, con qualche successo (Weiss et al., 2003), dimostrando efficacia nell’intrattenere in modo piacevole e gioioso anche persone con disabilità cognitiva, soprattutto quando l’interazione con lo strumento permetteva un contatto “diretto”, non mediato da strumenti di lavoro, in alcuni casi difficili da gestire. Sem-bra portare alle stesse conclusioni una ricerca di Reid (2004), rivolta in particolare a ragazzi con PCI: il loro apprezzamento e divertimento nell’utilizzo di questi strumenti risultava infatti proporzionale al grado di difficoltà cognitiva richiesto dal compito di gioco. 4.2. Alcune idee di Smilansky: il gioco di costruzione e il gioco simbolico in dettaglio

Nel 1968 Smilansky (1968) ha proposto una modificazione della te-

oria piagetiana, estendendola con l’introduzione di un quarto stadio, definito “gioco di costruzione”; esso si colloca fra il primo stadio, da lui chiamato “gioco funzionale”, e quello di gioco simbolico.

La proposta risulta chiarificatrice in quanto il gioco funzionale con-siste soltanto di semplici movimenti o azioni del corpo con gli oggetti, mentre il gioco costruttivo implica il far cose con questi oggetti, come per esempio costruire torri con dei dadi o dei mattoncini. Nel corso di questo stadio, tutte le azioni che il bambino ha appreso a gestire duran-te la fase precedente vengono attualizzate, diventando effettive e fina-lizzate alla realizzazione del gioco costruttivo. Piaget aveva escluso dalla sua descrizione del gioco tali attività, in quanto le riteneva estranee al processo ludico, poiché guidate da uno scopo eterodiretto.

Dal punto di vista del gioco del bambino con disabilità motoria, in-vece, l’approccio di Smilansky appare produttivo e fecondo di idee, ol-tre che portatore di maggiore chiarezza. La possibilità di distinguere, infatti, fra l’acquisizione e il puro esercizio di gesti, e il loro utilizzo in chiave progettuale e costruttiva, permette di migliorare e rendere più efficace sia la valutazione delle competenze del bambino, sia la succes-siva progettualità educativa e riabilitativa, anche nel caso del gioco.

Ciò è tanto più vero quando si tratti di implementare interventi ba-sati sulla scelta e l’utilizzo di tecnologie assistive o robotiche, che ri-chiedono la definizione di una specifica progettazione, articolata in un dettaglio di obiettivi, fasi e attività. Oltre alla già citata esperienza della Fondazione don Carlo Gnocchi, un interessante esempio in questo set-tore è dato dagli studi compiuti da ARCS (Kronreif et al., 2005) e dal filone di ricerche sulla cosiddetta “robotica assistiva”, che supporta e sostiene l’utente nell’effettuare operazioni concrete – in questo caso permettendo l’uso dei mattoncini Lego – per le quali presenta limita-zioni funzionali.

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 39

Un discorso analogo può essere fatto sull’altra modificazione agli stadi piagetiani proposta da Smilansky, che ha articolato lo stadio di gioco simbolico in una serie di sequenze successive. Esse sono le se-guenti sei: gioco di ruolo imitativo (il bambino interpreta un ruolo e lo rappresenta con azioni imitative e verbalizzazione; gioco del far finta in relazione a oggetti (gesti, o affermazioni, oppure oggetti usati al posto di qualcos’altro); gioco del far finta in relazione ad azioni o a situazio-ni (descrizioni verbali o affermazioni usati al posto di azioni o situazio-ni); persistenza; interazione; comunicazione verbale (il gioco include in modo rilevante la comunicazione verbale) (Smilansky, 1968).

La classificazione può risultare utile per una specificazione di detta-glio, e dunque per essere usata anche in chiave osservativa e valutativa: è stata infatti sistematizzata all’interno di uno specifica scala di valuta-zione (Smilansky, Shefatya, 1990)10. E proprio per queste ragioni, può rivelarsi estremamente utile non solo per una più precisa comprensione del gioco del bambino con disabilità, ma anche per la progettazione di attività, educative e riabilitative, volte al suo miglioramento. 4.3. I quattro tipi di Caillois

Fra le proposte di interpretazione del gioco che possono risultare

suggestive in questo settore, quella di Caillois (1965) risulta fra le più originali, per il particolare approccio scelto.

Per questo autore, il gioco risponde a esigenze vitali, innate e può assumere, di volta in volta e a ogni età della vita, una fra le seguenti quattro forme: – agon, il gusto della competizione alla pari, del mettersi in lizza con

uguali possibilità di successo, del misurarsi con gli altri o con se stes-si, sperimentando i propri limiti, come nel caso del gioco degli scac-chi, o del calcio;

– alea, il piacere del rischio, e dell’incertezza, che spinge l’adulto a gio-care alla lotteria o d’azzardo, e da piccoli comincia con le filastroc-che, le conte, il testa-o-croce;

– mimicry, il bisogno di un mondo “altro”, il piacere di nascondersi dietro qualcosa, la passione di “fare finta”, giocando ai pirati, alle bambole, al dottore; e magari, da adulti, di fare teatro; illusione e simulazione prevalgono: il desiderio di credere o far credere di esse-re un altro è superiore a ogni altra caratteristica;

– ilinx, la voglia di perdersi, di abbandonare almeno un poco la co-scienza di sé, di provare una vertigine, una temporanea perdita di controllo, magari girando su stessi, o salendo su un’altalena. Il lavoro di Caillois è importante anche per le possibili combinazioni

tra queste quattro modalità di gioco, che creano scenari completamente nuovi nella concettualizzazione del gioco umano: esse, infatti, possono anche essere collocate lungo un ulteriore asse, che muove da paidia,

10 Si tratta della Scale for Evaluation of Dramatic and Sociodramatic Play.

S. BESIO 40

che si potrebbe dire indeterminazione, a ludus, inteso come normato da regole (dal gioco senza nessun tipo di vincolo, al game con vincoli, limi-ti e difficoltà).

Così, tutti i possibili giochi, dall’età infantile a quella adulta, posso-no essere descritti, senza soluzione di continuità, lungo queste catego-rie. Proprio questa classificazione, così differente dalla precedente, permette di evidenziare la possibile condizione di limitazione intrinseca che separa il bambino con disabilità motoria da un gioco visto sostan-zialmente come espressività libera, esplorativa, vitale, adesiva.

Un dato, sopra agli altri, essa pare infatti porre in primo piano, ed è il necessario atto di volizione partecipativa al gioco, e la scelta indipen-dente e competente del modo, del mezzo, del tipo. Un dato che non può che sottolineare la loro difficoltà, per la quale quasi ogni gioco – ma forse, ogni attività della vita quotidiana – richiede una preparazione, un adattamento, una strutturazione e una cornice, fatta spesso anche di tempi aggiuntivi. Non è un caso che, nel corso di interviste ad alcuni genitori di questi bambini intorno ai desideri di gioco dei loro figli, sia emersa con vigore e immediatezza una richiesta apparentemente para-dossale: di poter, cioè, fare giochi di movimento; e di poterli vedere gio-care da soli, in autonomia.11

In questa richiesta, e nella sua sostanziale impossibilità, come tale, di realizzazione, si sente insieme tutta la forza di ilinx, correre o vorti-care, dell’alea, magari saltando ostacoli, cadendo e rischiando di farsi male, dell’agon, tentando la vittoria in una sfida fra amici, e anche di mimicry, immedesimandosi in un personaggio volante... si sente, in sintesi, che l’immaginazione di un gioco vero riporta prepotentemente, all’animo del genitore, il desiderio, e il vuoto, di un bambino privo di vincoli, libero, indipendente e potenzialmente più felice... 4.4. Il gioco e lo sviluppo sociale: Vygotskij e gli altri

Prima e più di altri, lo psicologo russo Vygotskij ha evidenziato

(1934) la natura sociale del gioco infantile e contemporaneamente il suo ruolo nel favorire lo sviluppo sociale del bambino, anche se non gli sfuggono altri sostanziali aspetti di questa attività, sul piano emotivo (il gioco può ridurre un eccesso di tensione e di frustrazione) e cognitivo (si può apprendere nel gioco a risolvere molti problemi, si può impara-re a conoscere i materiali e le loro proprietà).

Il gioco è fonte di sviluppo perché crea la Zona di Sviluppo Prossi-male, assumendo così la massima responsabilità per la crescita dell’individuo: avviene in contesto sociale, riverberando i suoi effetti sulla persona in senso totale.

11 I colloqui sono stati effettuati nell’ambito degli incontri di Panel di esperti del

progetto IROMEC, raccolti nel Deliverable D1.1. User needs report, settembre 2007.

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 41

La classificazione tuttora più diffusa del gioco sociale è quella avan-zata da Parten (1932), che ha individuato i seguenti quattro stadi di svi-luppo: – gioco solitario, nel quale il bimbo, di solito di circa due anni di età,

gioca da solo, anche se circondato da altri bambini – gioco parallelo, in cui è consapevole della presenza di altri intorno a

lui, ma preferisce giocare individualmente anche partecipando a una medesima attività, nello stesso tempo e nello stesso spazio;

– gioco associativo, svolto ancora, di solito dal bambino di tre o quat-tro anni, in modo separato ma con numerose occasioni di scambio e condivisione con gli altri, ivi compresa l’alternanza di turni;

– gioco cooperativo, che rappresenta la vera condivisione sociale dell’attività di gioco, in cui i bambini organizzano le loro attività lu-diche secondo uno scopo comune e condiviso e sono in grado di at-tribuire dei ruoli ai partecipanti. Nonostante le riserve che tale sistematizzazione si è attirata, che so-

prattutto rilevano criticamente la sua pretesa progressione temporale che non pare rispondere all’evidenza delle osservazioni comuni, essa può esser interessante per organizzare, in qualche modo anche sempli-ficando, il discorso intorno alle relazioni sociali instaurate dal bambino nel gioco, e attraverso di esso.12

Il modello, tuttavia, descrive esclusivamente i rapporti tra bambini: ma anche l’adulto, e in particolare la madre, come si è visto sopra, può costituire un interessante, utile compagno di gioco, talvolta determi-nante nell’indirizzare le linee di sviluppo delle competenze e dello stile di gioco del bambino, anche nel caso del bambino con disabilità (Vygo-tskij, 1934). Correlazioni positive a favore dello sviluppo del gioco coo-perativo sono state individuate con le abilità linguistiche del bambino e la capacità materna di sollecitare il gioco simbolico, come anche con l’intelligenza verbale della madre e le sue stesse capacità di gioco (Bor-nstein et al., 1996).

E infine, tutte queste relazioni, agite o neglette, contribuiscono, in-sieme ad altri elementi, a definire le idee del bambino disabile sulla propria abilità come giocatore, e come compagno di giochi: un’idea con cui occorrerà fare i conti, se si intende, ricorsivamente, migliorare le sue competenze di gioco... 4.4.1. Genitori e bambini disabili giocano

Studi effettuati nel settore della valutazione della disponibilità al gioco hanno permesso di dimostrare l’affidabilità e la validità anche nel caso di bambini con disabilità, di due test largamente utilizzati per va-lutare le capacità di gioco (il già citato TOP e il TOES13). I due test, inol-tre, sono fra loro positivamente correlati, nel senso che è stata dimo-

12 Interessante notare, al riguardo, che essa è stata inclusa anche nell’ICF-CY, al

riguardo degli aspetti sociali del gioco. 13 TOES: Test of Environmental Supportiveness (Bundy, 1999).

S. BESIO 42

strata una maggiore disponibilità al gioco nel caso di bambini per cui siano stati ottenuti elevati punteggi di supporto ambientale al gioco. Un’ulteriore ricerca, di estremo interesse (Hamm, 2006), confutandone altre di segno contrario (Bronson, Bundy, 2001), ha poi dimostrato che la correlazione tra TOP e TOES è più alta nel caso di bambini con disa-bilità: ciò evidentemente indica che è più importante il ruolo che l’ambiente svolge a supporto del gioco dei bambini disabili rispetto a quelli senza disabilità. Nella ricerca, l’ambiente includeva sia il suppor-to parentale che il contesto concreto di gioco.

Queste conclusioni erano già, del resto, implicite in alcune riflessio-ni, molto note nel campo qui esaminato (Malone, 1994; Malone, Lan-gone, 1999), le quali indicavano come la mera esposizione ai giocattoli, di per sé, non fosse sufficiente per incrementare il numero e il tipo di attività di gioco, suggerendo piuttosto la necessaria intermediazione dell’adulto per orientare la scelta del giocattolo più appropriato e mo-dellare il comportamento d’uso da parte del bambino.

Ma le cose non sono facili, al riguardo. Spesso proprio i genitori dei bambini disabili, in particolar modo di coloro che sono sottoposti a in-tensi e regolari programmi riabilitativi, appaiono demotivati rispetto al tema del gioco; anzi, alcuni studi (Brodin, 2005) dimostrano come le loro idee e rappresentazioni, soprattutto in una società che la stessa au-trice definisce “diagnostica”, tesa cioè all’individuazione della mancan-za e alla reificazione dell’intervento riparatore, siano prevalentemente rivolte al recupero funzionale, e che sia percepito in modo molto vivo il contrasto fra la “curativa” terapia e il “tempo perso” del gioco: c’è dav-vero, si chiede l’autrice, uno spazio per il gioco nella vita di questi bam-bini?

In più, i genitori trovano difficile rendere attivo il bambino in modo significativo, hanno l’impressione che egli perda interesse facilmente e rapidamente verso gli oggetti proposti, che sia passivo, talvolta preoc-cupato e irrequieto, scarsamente concentrato. Non tutti gli studi in questo settore però vanno nella stessa direzione: un gruppo di madri di bambini con ritardo mentale (Malone, Landers, 2001) ha infatti de-scritto con accenti molto più positivi il loro gioco: li descrivono coinvol-ti davvero in attività ludiche per loro appropriate, talvolta disponibili anche a provare livelli più complessi di gioco, capaci di tempi di atten-zione maggiori, tanto da dimostrare di voler continuare l’attività, e da non richiedere un supporto importante per iniziarla.

Lane e Mistrett (1996), fra gli altri, suggeriscono che i genitori dei bambini con disabilità potrebbero giovarsi di un supporto per appren-dere a giocare efficacemente con loro; ciò naturalmente comporta nuovi compiti e rinnovata consapevolezza per gli operatori della riabilitazio-ne: costruire un ambiente che globalmente offra un incoraggiamento al gioco, è evidentemente un prerequisito per una soddisfacente attività ludica e per sollecitare comportamenti di esplorazione attiva.

Fra le capacità che dovrebbero essere educate nei genitori, c’è, a pa-rere di Brodin (2005), quella di accogliere una maggiore lentezza esecu-

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 43

tiva e di comprensione tipica di questi bambini e di acquisire compe-tenze per “risvegliarli” alla concentrazione sul compito e al manteni-mento di questa concentrazione. Oltre agli evidenti esiti positivi nei confronti dello sviluppo cognitivo, una migliore relazione nel gioco a-vrebbe anche il vantaggio di incrementare le emozioni positive del bambino, migliorare il senso di sicurezza e di auto-efficacia. 4.4.2. Le idee del bambino disabile su di sé come giocatore

Come si è già fatto notare, alcuni autori suggeriscono che per lo svi-luppo cognitivo del bambino con disabilità motoria non sia indispensa-bile poter agire direttamente sulla realtà, quanto piuttosto essere in grado di fare inferenze su di essa, e di potersi rappresentare tali azioni, in modo astratto. Questo dato è tuttavia in qualche misura messo in di-scussione dai risultati di ricerche del settore – peraltro legati soltanto a casi di studio – che hanno permesso a questi bambini di svolgere attivi-tà di gioco attraverso la mediazione di tecnologie educative e robotiche (Besio, 2004; Kronreif et al., 2005); esse sembrano infatti mettere in evidenza una non completa efficienza di tali meccanismi esclusivamen-te astratti e rappresentativi, poiché i bambini, una volta in grado di agi-re concretamente sulla realtà, mostrano lacune nel progettare l’azione in modo efficace e funzionale, nel verificare l’esito delle proprie azioni e procedere alla correzione di quelle errate rispetto al piano previsto.

L’impossibilità di agire sul mondo circostante alla pari e in collabo-razione con i coetanei, sia che il locus of control sia posto all’interno di se stessi – per esempio sottolineando i propri limiti funzionali – sia all’esterno, magari in un ambiente scarsamente supportivo, o accessibi-le, non può che causare nei bambini con disabilità motoria frustrazione e contribuire a determinare una percezione negativa, o quanto meno insoddisfacente, di sé come giocatore e come compagno di giochi (Pol-lock et al., 1997). In effetti, il loro comportamento è stato descritto co-me scarsamente intraprendente se non piagnucoloso, privo di stabilità emotiva, manipolativo, non amichevole (Sprinkle, Hammond, 1994). Un interessante angolo di osservazione, nel caso della disabilità moto-ria, riguarda le percezioni dei bambini intorno all’efficacia degli ausili tecnici che utilizzano per favorire la loro autonomia, in questo caso nel gioco; studi nel settore riferiscono una migliore percezione di sé e un’aumentata autostima nei bambini che possono usufruire di tecnolo-gie sostitutive dell’appoggio e del supporto dell’adulto per le attività di gioco (Skär, 2002).

Del resto, la limitazione all’attività e la restrizione alla partecipazio-ne di questi bambini riducono la possibilità di effettuare delle scelte, fino al punto, in alcuni casi, da produrre la perdita di consapevolezza intorno al diritto di esercitare il controllo sulla propria vita: ed è pro-prio la possibilità di influire sull’ambiente e di interagire con altre per-sone che sembra permettere di ridurre il sentimento di impotenza (Weiss et al., 2003).

S. BESIO 44

Un contesto di gioco ben formato, e una crescita sorvegliata con at-tenzione e intelligenza, sembrano dunque gli elementi portanti per ren-dere l’occasione di gioco giusta e fruttuosa per apprendere a riconosce-re questo diritto e a sperimentare le proprie capacità in modo gioioso e libero, al di fuori di quello esercitativo della terapia, che invece pone obiettivi esteriori e lontani. 4.4.3. I compagni di gioco

Il vero, il più importante apprendimento sociale, in età infantile, av-viene nel gioco con i coetanei. È nel rapporto con loro, soprattutto se di tipo ludico, che ci si misura, ci si esercita e si impara: e si imparano co-se da fare, di cui parlare, ma anche relazioni, modi di essere e di stare, gli uni con gli altri; e si conoscono sentimenti ed espressioni di senti-menti, propri e altrui...

Gli studi che si sono occupati di gruppi a cui appartengano anche bambini disabili hanno scarsamente approfondito le relazioni fra i due, in particolare in senso bidirezionale e reciproco. Fra le variabili che so-no state prese in considerazione, alcune hanno mostrato un peso mag-giore nell’indirizzare il tipo e la qualità di queste relazioni.

I bambini disabili – e in particolare quelli con ritardo mentale e PCI – tendono, indipendentemente dai rapporti di età cronologica, ad as-sumere ruoli subordinati nel gruppo (Dallas et al., 1993a, 1993b); que-sto fatto, tra l’altro, provoca una rapida interruzione della relazione se il bambino con sviluppo normale è troppo piccolo, perché non ha le risor-se psicologiche e cognitive per proseguire il gioco, perde interesse nel compagno e si coinvolge in qualcos’altro. Conseguentemente, le diadi di gioco sono più fruttuose quando il bambino disabile è il più piccolo, po-tendo così fruire con naturalezza di comportamenti di guida assunti dal maggiore tra i due (McGillicuddy-De Lisi, 1993).

Il comportamento cooperativo fra fratelli, uno dei quali sia affetto da PCI, aumenta con l’età, così come diventa più frequente l’adozione di comportamenti prosociali e di cura e meno frequente il ricorso a com-portamenti dominanti, soprattutto se il soggetto non disabile è una bambina; è un po’ come se, con il tempo, aumentasse la consapevolezza intorno ai bisogni reciproci, nella costruzione dell’interazione: alcuni dati indicano che il bambino non disabile diventa sempre più compe-tente, nel tempo, nell’interpretare i bisogni e i desideri del fratello e nel rispondervi adeguatamente, per esempio mantenendo più a lungo del solito atteggiamenti di sostegno e di prossimità fisica, ottenendo così, tra l’altro, il risultato di aumentare la partecipazione e l’attenzione di quest’ultimo alle sessioni di gioco.

Tutte le ricerche riportano un generale desiderio dei bambini non disabili di interagire con i loro fratelli, che si traduce, almeno in alcuni casi che riguardano soggetti con sindrome di Down, in una sorprenden-te abilità di adattare le loro attività e proposte alle capacità e agli inte-ressi di gioco dell’altro (Hoffman-Williamson, 1984), per esempio sem-plificando e adattando il gioco, in un naturale – per quanto, appreso

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dall’esperienza – sforzo di inclusione verso il fratello, che spesso si tra-duce in “occorrenze frequenti di gioco condiviso” (ivi, p. 179).

Dal canto loro, i bambini con PCI trovano difficoltà nel facilitare o nell’avviare un’interazione con i loro fratelli non disabili, a ciò consegue una probabilità ridotta di essere coinvolti in situazioni e un’aumentata probabilità che il fratello comunque prenda il controllo (Dallas et al., 1993a). Generalmente parlando, inferiori capacità sociali del bambino disabile esitano in una inferiore opportunità di creare interazioni reci-proche, e di creare dunque un ambiente sociale stimolante.

Alcuni studi (Meyers, Vipond, 2005) sottolineano, in particolare, come la condizione di disabilità in sé determini il tipo di relazione che si instaura tra bambini, in ciò riecheggiando ricerche di taglio sociolo-gico (Ferrucci, 2005) secondo le quali la condizione di disabilità di una persona viene percepita dagli interlocutori come un vero e proprio sta-tus sociale dominante, che informa di sé qualunque altro aspetto della relazione attivata.

Specifici aspetti legati alla menomazione possono influire in modo importante sull’acquisizione di competenze di gioco e sulla felicità della loro riuscita. Le capacità linguistiche, soprattutto, sembrano svolgere un ruolo prioritario: i bambini con buone competenze verbali sono più facilmente coinvolti nei giochi dei compagni (Stoneman et al., 1989); anche le competenze cognitive, tuttavia, influiscono sulle attività di gio-co condiviso, perché la natura e le aspettative di questo tipo di attività sono spesso troppo complesse per un bambino disabile.

Harper, McCluskey (2002) sostengono che i bambini con ritardo nell’acquisizione del linguaggio o una difficoltà nell’espressione verbale tendono a tenersi in disparte nel gruppo dei coetanei e ad avviare giochi di tipo solitario, essendo privi di strategie per avvicinarvisi che siano riconosciute ed efficaci. Lo stesso accade a bambini non indipendenti sul piano psicomotorio, e che devono essere fisicamente aiutati a spo-starsi e a muoversi; essi tendono infatti ad affidarsi all’adulto per inse-rirsi nel gruppo dei pari.

Qualche anno fa studiosi italiani (Catullo, 1984) hanno verificato con una ricerca sperimentale che i bambini con disabilità motoria ma senza ritardo mentale risultano più popolari fra i loro pari, a differenza dei bambini che manifestano problemi di comportamento e difficoltà a comprendere e adeguarsi alle regole, che invece sono lasciati in dispar-te. Inoltre, solo il 6% dei disegni di coetanei che raffiguravano un com-pagno con disabilità motoria mostravano anche indizi evidenti della menomazione, per esempio rappresentando anche l’ausilio tecnico; nel-la ricerca, questo dato è stato commentato positivamente, come ele-mento significativo di inclusione ben realizzata: i bambini non sembre-rebbero cioè interessati primariamente alla disabilità del loro compa-gno, quindi lo rappresentano alla pari degli altri.

L’impianto sperimentale è stato riprodotto, con numeri molto più ridotti e risultati analoghi, da Dalla Valle (2006) nella regione Valle d’Aosta; in questo caso, solo l’8% dei bambini in età di scuola dell’in-

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fanzia – fra quelli che avevano in classe un compagno con disabilità motoria – hanno deciso di disegnare carrozzine o altri ausili utilizzati da questi loro compagni. Tuttavia, è stato anche trovato che gli ausili sono stati più rappresentati dai bambini frequentanti le classi in cui il processo di inclusione scolastica sembrava meglio realizzato,14 e in cui i bambini disabili ottenevano alti punteggi di preferenza nei sociogram-mi. Ciò permetterebbe di far propendere verso la conclusione – antite-tica alla precedente – che un’esperienza positiva con una persona disa-bile contribuisca a migliorare gli atteggiamenti verso la disabilità, in-cludendo anche il naturale riconoscimento dei suoi “oggetti tipici” come appartenenti a una sfera collettiva.

Il tema delle tecnologie, in particolare assistive, come “spia” genera-le degli atteggiamenti nei confronti della disabilità è stato da tempo sondato nella letteratura internazionale e appare ancora fecondo di possibilità ulteriori di esplorazione; in particolare, sembra prendere e-videnza l’esistenza di una correlazione diretta fra i due poli: atteggia-menti negativi verso la disabilità (vista come debolezza e dipendenza) sono associati a percezioni negative delle tecnologie assistive (McMil-len, Söderberg, 2002; Bender Pape et al., 2002) e viceversa atteggia-menti positivi verso la disabilità includono anche una visione positiva delle tecnologie, interpretate come strumenti che permettono o favori-scono l’autonomia di una persona attiva e autodeterminata. 5. Altre funzioni del gioco: valutazione, terapia, educazione

Fin qui, è stato esaminato il gioco come pura realizzazione della li-

bera espressività del bambino. Il tema, tuttavia, non è esaustivamente trattato se non si analizzano altre tre possibili applicazioni del gioco in-fantile. Ci si riferisce, in particolare, all’uso delle situazioni di gioco per effettuare una valutazione delle competenze cognitive e sociali bambi-no; e all’approntamento di esperienze di gioco – intendendo con ciò la definizione del contesto e degli attori, la scelta dei giocattoli, la costru-zione della situazione ludica – che abbiano valenze riabilitative, o edu-cative. 5.1. Play-based assessment

Il gioco, da sempre considerato un’utile finestra sullo sviluppo del

bambino, è diventato negli ultimi dieci anni, in modo sempre più diffu-so – forse anche a causa di una certa insoddisfazione nei confronti dei test standardizzati esistenti – un contesto usato a scopo osservativo e valutativo per compiere inferenze sulle sue capacità cognitive e sociali.

14 Questo dato è basato sull’esistenza di una documentazione PEI aggiornata e

completa, sulla realizzazione di procedure amministrative e organizzative efficaci a favore dell’inclusione, e su opinioni espresse dai famigliari dei bambini.

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Si ritiene, cioè, che una valutazione basata sul gioco possa fornire in-formazioni più accurate di altre tradizionali metodologie usate, intorno alle abilità sociali e cognitive – individuando eventuali ritardi in questi settori – del bambino in età prescolare; ciò avverrebbe grazie al fatto che i contesti di gioco risultano più familiarità e meno strutturati al bambino, lo mettono a proprio agio, e dunque gli permettono di mo-strare liberamente tutti i comportamenti presenti nel suo repertorio.

Tuttavia, a fronte dell’evidenza clinica sull’efficacia e la pregnanza delle informazioni che si possono ottenere attraverso l’analisi del gioco infantile, si nota anche la mancanza di strumenti e misure che abbiano reali caratteristiche di validità e affidabilità (Farmer-Dougan, Kaszuba, 1999). In aggiunta, occorrerà che essi vengano statisticamente correlati con i dati ottenibili con l’uso di altri strumenti di valutazione. Un primo tentativo effettuato in questo senso (ibid.), ha effettivamente dimostra-to un diretto rapporto fra capacità cognitive e sociali del bambino, mi-surate con strumenti standardizzati e livelli di competenza e tipologia di attività di gioco, misurati attraverso un punteggio originalmente svi-luppato.

Nel caso del bambino con disabilità motoria, tuttavia, ulteriori cau-tele devono essere assunte e differenti metodologie utilizzate. Come già nota Ferretti (1998) per la valutazione cognitiva del bambino piccolo, in questo caso, infatti, occorre che la componente motoria della prestazio-ne richiesta o valutata sia minima, in modo da impedire un negativo impatto dovuto scarsa accuratezza esecutiva; inoltre, il materiale da uti-lizzare (in questo caso, giocattoli e ambienti di gioco) deve essere suffi-cientemente flessibile e adattabile da poter essere effettivamente usato. Infine, nessuna misura di velocità dovrebbe essere considerata per non penalizzare il bambino che necessita di tempi molto lunghi per effettua-re azioni finalizzate. Possibili soluzioni dallo stesso ricercatore indivi-duate sono la modificazione del materiale, e la possibilità di ricorrere a un’interazione forte da parte dell’adulto, che per esempio può eseguire al posto del bambino una intenzionalità espressa in altro modo (non motorio).

Secondo un’ottica favorita dall’adozione del modello ICF, si potreb-be anche ipotizzare un utilizzo del contesto di gioco per la valutazione di performance motorie del bambino, in situazioni libere, nelle quali egli possa mettere in atto le compensazioni trovate per risolvere diffi-coltà della sua vita quotidiana; analogamente, tale osservazione valuta-tiva potrebbe fornire importanti indicazioni per l’individuazione di so-luzioni e tecnologie assistive a supporto della sua autonomia. 5.2. Attività ludiformi: il contesto riabilitativo

Visalberghi (1958) ha definito ludiformi le attività di gioco che si re-

alizzano con una finalità esteriore rispetto a quella intrinseca del gioco,

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e questa finalità è appunto l’apprendimento.15 Si tratta cioè di attività intenzionalmente costruite per dare una forma divertente e piacevole a determinati apprendimenti che si ritiene complessi o noiosi per il loro aspetto ripetitivo.

Per molti bambini disabili, soprattutto quando la limitazione fun-zionale è importante, il contesto riabilitativo svolge un’importante fun-zione a favore della crescita del bambino: mette, cioè, a disposizione gli spazi, le relazioni interpersonali e i tempi più adatti per permettergli di apprendere e stabilizzare movimenti e comportamenti che poi potranno essere adottati anche nel gioco, apprezzandone i vantaggi anche in chiave ludica.

In questo caso la riabilitazione costituisce una fase propedeutica, di allenamento, per favorire lo sviluppo del gioco spontaneo. Di volta in volta, a seconda del tipo di menomazione presente, dell’età, dei contesti di vita, essa dovrà individuare limiti e possibilità del bambino, tipologia di attività di gioco da attuare (sia in relazione alle sue capacità cognitive che all’età cronologica) studiando anche metodologie e tecniche per armonizzare queste attività con quelle che vengono effettuate dai coe-tanei nei contesti naturali di vita: la famiglia, la scuola, il parco giochi. Un’autorevole proposta in questo senso viene da The Ludic model (Fer-land, 2005), diffuso soprattutto nel settore della terapia occupazionale, ma considerato da più parti utile e promettente; il modello intende for-nire ai terapisti un supporto metodologico per l’osservazione del gioco dei bambini con disabilità fisica e favorire, proprio all’interno di attività ludiche, l’adozione da parte loro di comportamenti di maggiore auto-nomia e migliori capacità di adattamento.

C’è poi un altro possibile luogo di incontro, che avviene quando il gioco, sotto forma di attività ludiforme, è introdotto in riabilitazione per accrescere la collaborazione del bambino alle azioni più propria-mente terapeutiche: esso viene cioè usato come “scusa”, o diversivo, per invogliare il bambino a partecipare alle attività riabilitative. In questo caso sono richieste alcune cautele: se l’aspetto esercitativo del gioco proposto diventa troppo importante, se l’inganno è scoperto o poco convincente, ciò può comportare la perdita di una chiara marca di con-testo giocoso e la mancata adesione del bambino all’attività. D’altra parte, se l’aspetto ludico prende il sopravvento, esiste il rischio che l’obiettivo terapeutico si vanifichi e perda spessore. Un equilibrio otti-male si ottiene se il terapista governa con sicurezza il suo ruolo, crean-do e mantenendo una relazione estremamente complessa, capace di ge-stire sia il piano dell’attività riabilitativa sia il piano dell’“inganno” ludi-co e di metacomunicare correttamente – diremmo con Bateson (1956) – intorno a quanto sta accadendo.

15 Le attività ludiformi tuttavia condividono con le pratiche di gioco le altre carat-

teristiche da lui individuate: sono impegnative, poiché richiedono un impegno com-pleto da parte del giocatore; continuative, perché si sviluppano continuamente; pro-gressive, in quanto diventano sempre più complesse.

Il gioco nello sviluppo del bambino con disabilità motoria 49

L’introduzione del gioco in riabilitazione comporta comunque una sorta di rivoluzione copernicana, poiché pone con forza il problema del coinvolgimento del bambino all’interno dell’intervento terapeutico, fa-cendolo diventare un attivo protagonista, anziché un semplice emetti-tore di risposte. L’indicazione primaria di partire dalle esigenze del bambino richiede di individualizzare quanto più possibile sia il progetto riabilitativo che la singola seduta di lavoro: la situazione di gioco non può basarsi soltanto sulla conoscenza delle limitazioni funzionali legate al danno e alla patologia, ma deve includere le preferenze di quel parti-colare bambino, il suo personale modo di entrare in relazione con l’oggetto, le sue competenze e frustrazioni.

Numerosi filoni di pensiero hanno contribuito alla diffusione di questa cultura riabilitativa: le scuole di psicomotricità francesi, che hanno tratto a lungo linfa vitale dal pensiero psicodinamico, la terapia occupazionale di marca nordeuropea e alcuni importanti esponenti del-la clinica fisiatrica in Italia, il cui capostipite è stato, senza dubbio, Mi-lani Comparetti (1985, 1986). È sua la proposta del riabilitatore come consulente del processo evolutivo del bambino disabile insieme con la sua famiglia: una restituzione di senso e di autonomia che implica il ri-spetto dei ritmi e dei bisogni del bambino, promuovendone la crescita naturale. 5.2.1. Una particolare terapia: insegnare ai partner di gioco

Si è visto più volte, nel corso di questa rassegna ragionata, che gli at-tori del gioco con il bambino disabile, ma anche lo stesso protagonista, appaiono talvolta sconcertati e in difficoltà di fronte al compito. Proprio questo aspetto, la necessità cioè di sostenere il bambino e la sua fami-glia nella tensione a beneficiare di questa importante area di benessere, di libertà e di creatività della loro vita, è stato oggetto in questi ultimi anni di studi importanti, soprattutto nati nell’alveo della terapia occu-pazionale, che hanno affinato gli strumenti e i metodi per raggiungere questo obiettivo.

Primariamente il focus viene posto, in questi casi, sulla competenza, parentale e famigliare, a costruire contesti e relazioni sociali che per-mettano al bambino di incrementare le sue capacità di base, e le sue competenze interattive. Ciò si può ottenere, come si è già avuto modo di osservare, attraverso l’acquisizione di tecniche, rivolte direttamente al bambino disabile, per esempio atte a sostenerne l’attenzione, la concen-trazione, a evitare la dispersione, a regolare la difficoltà del compito rendendolo graduale e scindendolo in parti più facilmente eseguibili; ma anche attraverso la facilitazione di rapporti efficaci e competenti con i fratelli e i coetanei, rendendo questi ultimi abili a interpretare se-gnali e comportamenti che potrebbero essere negletti o fraintesi, e fa-vorendo l’acquisizione di comportamenti di reciprocità e cooperazione (Meyers, Vipond, 2005).

Tipicamente, questi obiettivi si raggiungono in modo più diretto at-traverso il personale coinvolgimento dell’adulto nelle sessioni di gioco,

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con compiti di stimolo, facilitazione, modellaggio. Tali comportamenti, tuttavia, per l’appunto, devono in alcuni casi espressamente insegnati ai genitori e ai compagni di gioco, rendendoli consapevoli di attitudini positive, come per esempio l’incoraggiamento e il feedback, magari prima solo implicite o saltuarie.

Nel caso poi del bambino con disabilità motoria, una particolare at-tenzione deve essere posta nel migliorare la competenza dei genitori nella scelta di giocattoli, nel loro adattamento e personalizzazione, ma anche nel ricorso a strumenti assistivi ad alta e bassa tecnologia; even-tuali barriere nell’ambiente fisico circostante devono essere poi inter-cettate ed eliminate, in modo da favorire la piena e libera esplorazione da parte del bambino.

Il coinvolgimento di fratelli e di altri bambini deve ovviamente tene-re conto delle preferenze di gioco di tutti, e non solo del bambino disa-bile, pena la perdita di interesse all’invito; attribuire loro un ruolo di guida, o di tutor, nei confronti del bambino disabile può portare non soltanto i noti vantaggi legati a questo genere di esperienze in chiave cognitiva e sociale, ma soprattutto, in questo caso, raggiunge lo scopo di rendere il gioco più accattivante e motivante per tutti. Si acquisisce, cioè, un nuovo partner, e il gioco si fa immediatamente più interessan-te; non solo, la ricerca dimostra che questa scelta produce un miglio-ramento delle generali relazioni interpersonali fra i bambini coinvolti (Celiberti, Harris, 1993).

Tuttavia, specifiche attenzioni sono richieste a questi interventi, so-prattutto quando avvengono in ambito famigliare. La prima deve evita-re un aumento della tendenza – da parte dei fratelli non disabili – ad assumere ruoli di protezione guida e responsabilità; per esempio, essi potrebbero essere educati a facilitare nei bambini disabili l’adozione di comportamenti assertivi da cui di solito essi rifuggono. La seconda deve permettere ai bambini di giocare veramente nel modo che desiderano e inventano, evitando l’intromissione di suggerimenti e indicazioni da parte genitoriale, che potrebbero essere viziati – e spesso di fatto lo so-no – da obiettivi di tipo esercitativo se non propriamente riabilitativo: i bambini hanno diritto di esprimere e di agire i loro desideri di gioco, anche se lontani da immediati vantaggi “migliorativi”. 5.3. Il gioco del bambino con disabilità motoria

in contesti educativi inclusivi C’è tuttavia un luogo speciale, nella vita di un bambino con disabili-

tà, nel quale, sopra a ogni altro, tutto quanto è stato esaminato, descrit-to e suggerito nei paragrafi precedenti deve trovare la migliore e più completa applicazione: si tratta del contesto educativo, inteso come in-clusivo sia perché così elettivamente avviene nel caso italiano, sia so-prattutto perché verso questo obiettivo tendono tutti gli sforzi compiu-

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ti, a livello internazionale, da organismi istituzionali, gruppi di ricerca e di pressione del settore.16

È infatti nella scuola che il bambino disabile incontra naturalmente i suoi coetanei, ed è insieme a loro che impara, applica le nuove cono-scenze, verifica le sue competenze e le sue proprie idee intorno a esse, valida le ipotesi che sia va via via facendo intorno a sé stesso come indi-viduo, cognitivo e sociale e intorno agli altri; ed è in questo ambito che sperimenta nuovi sentimenti ed emozioni... È nella scuola che ha la mi-gliore e più naturale occasione per giocare con gli altri, e attraverso il gioco crescere e svilupparsi, nell’interazione fra i limiti e le possibilità posti da ciascun protagonista – il loro funzionamento, diremmo – e dalle occasioni offerte dall’ambiente – i fattori ambientali, appunto.

Nella scuola dovrebbero dunque confluire piena consapevolezza in-torno alle questioni che sono state prima trattate: e se il genitore do-vrebbe portare la propria esperienza e conoscenza intorno al bambino, le sue preferenze e difficoltà, e le soluzioni trovate, il riabilitatore do-vrebbe fornire sufficienti supporti e indicazioni per favorire la piena partecipazione del bambino con disabilità motoria anche in questa si-tuazione. E il docente dovrebbe porre a frutto le indicazioni sui punti di forza delle attività di gioco e sui rischi che esse comportano per lo svi-luppo dei bambini con disabilità, così come essi sono stati espressi in ambito speculativo.

Il gioco deve quindi potersi realizzare come piacevole luogo di espe-rienza, sperimentazione e crescita per tutti, in cui il desiderio si alimen-ta e si realizza, in armonia con le preferenze e le tensioni di ciascuno; che abbia o no uno scopo educativo, l’attività ludica deve sempre evita-re sia il rischio di costituire un rifugio isolato, sia di creare occasioni di frustrazione. Anzi: se il bambino, negli altri contesti della sua vita, spe-rimenta inevitabilmente un’attenzione talvolta univoca verso il recupe-ro di funzioni deficitarie, proprio nella scuola ha la possibilità di vivere la sua infanzia in modo pieno e libero e dunque di esprimersi anche nel gioco (Lane, Mistrett, 1996).

C’è poi un’ulteriore sfida che la scuola deve essere pronta a cogliere fino in fondo, ed è quella di realizzare, tra i bambini, una concreta in-clusione, agita nelle relazioni e nelle prassi collettive; un adeguato e competente sostegno dello sviluppo delle capacità ludiche del bambino può costituire, al riguardo, un significativo banco di prova per la realiz-zazione di efficaci comportamenti sociali, reciprocamente arricchenti. Le relazioni di conoscenza e collaborazione fra i bambini, come discus-so al paragrafo precedente, possono essere significativamente migliora-te, insegnando loro a divenire competenti nel reciproco supporto per il

16 Si vuole qui fare ovviamente riferimento alla Convenzione Internazionale sui

diritti delle persone con disabilità, emanata dall’ONU nel 2006; importante anche il recente documento dei giovani disabili all’Unione Europea, European Agency for Special Needs Education, 2007.

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raggiungimento di fini comuni e a suddividere le responsabilità equa-mente nel gruppo, o assumerle alternativamente, nelle attività di gioco.

Anche in questo senso la ricerca educativa è ricca di suggestioni e ri-flessioni. La scelta dei giocattoli da mettere a disposizione del gruppo di bambini, per esempio, non è ininfluente per questi obiettivi: giocattoli “sociali” favoriscono di fatto l’attivazione di giochi cooperativi e sociali, mentre giocattoli “isolati” suggeriscono giochi di questa natura – per quanto, tuttavia, meno frequenti degli altri (Ivory, McCollum, 1999).

Attività di gioco simbolico, e socio-drammatico, possono essere e-spressamente insegnate ai bambini, che possono risultare meno inclini in questo senso non solo a causa di una disabilità, ma anche nel caso provengano da contesti socio-economici svantaggiati (Christie, 1985). E la complessità del gioco simbolico, anch’essa suscettibile di modifica-zione attraverso il modellaggio e l’interazione competente, può dipen-dere sia dai materiali che dai contesti di gioco individuati (Umek, Mu-sek, 2002).

Lo sviluppo di comportamenti di gioco positivamente interattivi ha inoltre, come più volte è stato argomentato e documentato, riflessi fa-vorevoli sulle acquisizioni cognitive e sulle capacità di apprendimento, mentre, al contrario, una tendenza all’isolamento nel gioco è spesso di-rettamente collegata con carenza di motivazione, inattenzione e passivi-tà (Coolahan et al., 2001).

In sintesi, ogni sforzo dovrebbe essere condotto per permettere al bambino disabile, soprattutto in età precoce, di vivere l’esperienza del gioco all’interno del suo gruppo, nel contesto naturale di crescita costi-tuito dalla scuola, sviluppando al massimo grado possibile le sue poten-zialità. Ciò comporta, ancora una volta, uno spostamento – in taluni casi necessario – da un approccio clinico verso uno educativo-sociale (Bishop et al., 1999), che accolga le differenze, anche quelle legate alla disabilità, come una delle possibili occorrenze cui far fronte, mante-nendo tuttavia salda l’ottica progettuale complessiva di contribuire a realizzare, fin dall’inizio della vita, una società inclusiva, forte e ricca delle sue articolazioni interne, disarmonie, particolarità (Peters et al., 2005). Bibliografia

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