Psicologia della comunicazione -...

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Psicologia della comunicazione

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ISBN 88-15-08492-4

Copyright © 2002 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nes­suna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizza­Ùl o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si .veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

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Introduzione, di Luigi Ano/li p. IX

P ARTE PRIMA: LE PREMESSE

I.

II.

Inquadramento storico e teorico sulla comunicazione, di Luigi Anolli 3

l. Introduzione 3 2. n punto di vista matematico: la comunicazione come trasmissione

di informazioni 5 3. L'approccio semiotico: la comunicazione come significazione e

come segno 7 4. L'approccio pragmatico: la comunicazione come interazione fra

testo e contesto 9 5. n punto di vista sociologico: la comunicazione come espressione e

prodotto della società 19 6. L'approccio psicologico: la comunicazione come gioco di relazioni 21 7. Verso una definizione di comunicazione 25 8. Considerazioni conclusive 31

L'evoluzione della comunicazione, di Luigi Ano/li

l. La comunicazione animale fra antropocentrismo e antropomorfi-smo

2. Le principali prospettive teoriche sulla comunicazione animale 3. La comunicazione animale come adattamento cognitivo e sociale 4. Le principali competenze comunicative dei primati non umani 5. I primati non umani hanno una «teoria della mente»? 6. Considerazioni conclusive

33

33 35 37 43 51 60

III. · Neuropsicologia della comunicazione, di Michela Balconi 63

l. Introduzione 63

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VI INDICE

IV.

V.

2. Le competenze linguistiche e comunicative secondo la prospettiva neuropsicologica

3. Neuropsicologia delle funzioni comunicative «superiori» 4. La rapprésentazione dei sistemi verbale e non verbale di segnala­

ZlOne 5. La comunicazione come sistema multifunzionale 6. Considerazioni conclusive

Cultura e comunicazione, di Luigi Anoltz·

l. Tra natura e cultura 2. Lo studio della cultura «dall'interno» e «dall'esterno» 3. Il concetto di cultura come sistema globale e unitario 4. Il processo di «appropriazione» della cwtura 5. Gli universali comunicativi e la teoria della relatività linguistica 6. Il problema della traduzione 7. Considerazioni conclusive

Lo sviluppo della comunicazione nel bambino, di Luigi An alli

l. Introduzione 2. La dotazione di partenza 3. La comparsa dell'intenzione comunicativa 4. La teoria della mente 5. Lo sviluppo della comunicazione narrativa 6. Considerazioni conclusive

P ARTE SECONDA: I FONDAMENTI

VI. Comunicazione e significato, di Luigi Anolli

l. n significato di significato 2. Verso una teoria unificata del significato 3. Componenzialità e prototipicità del significato 4. Stabilità e instabilità del significato 5. Significato, contesto e indessicalità 6. Significato letterale e significato figurato 7. Considerazioni conclusive

VII. Intenzione e comunicazione, di Luigi Anoltz·

l. Il concetto di intenzionalità 2. L'intenzione comunicativa da parte del parlante 3. L'intenzione comunicativa e la sintonia semantica 4. L'intenzione comunicativa e la generazione del messaggio 5. Intenzioni e strategie comunicative 6. L'intenzione comunicativa da parte del destinatario

p. 64 75

81 84 88

89

89 92 93

101 103 113 115

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117 118 125 130 137 144

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147 154 156 165 170 173 178

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179 182 185 189 194 195

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7. Processi di inferenza nell'attribuzione delle intenzioni comunica-tive

8. La sincronia comunicativa 9. Le intenzioni collettive 10. Considerazioni conclusive

INDICE VII

p. 200 203 204 206

VIII. La comunicazione non verbale, di Luigi Anoltz· 207

IX.

l. La comunicazione non verbale: dove la natura incontra la cultura 207 2. Rapporto frà comunicazione verbale e comunicazione non verbale 209 3. Il sistema vocale 214 4. Il sistema cinesica 219 5. Il sistema prossemico e aptico 232 6. Il sistema cronemico 235 7. Le funzioni della comunicazione non verbale 23 7 8. Considerazioni conclusive 241

Discorso e conversazione, di Giuseppe Mininni e di Luigi Ano !li

l. Le origini della scienza discorsiva 2. L'orizzonte teorico dell'analisi del discorso 3. I metodi dell'analisi del discorso 4. Verso una psicologia discorsiva 5. Analisi della conversazione 6. Considerazioni conclusive

243

243 247 255 256 258 269

PARTE TERZA: LE APPLICAZIONI

X.

XI.

Discomunicazione e comunicazione patologica, di Luigi Ano !li

l. Verso una definizione di discomunicazione 2. La comunicazione ironica 3. La comunicazione seduttiva 4. La comunicazione menzognera 5. La comunicazione patologica 6. Considerazioni conclusive

La comunicazione nei e fra i gruppi, di Luigi Anolli

l. Importanza della comunicazione nei gruppi 2. Comunicazione e influenza sociale 3. La comunicazione persuasiva 4. Il pettegolezzo e le dicerie come sistemi di comunicazione 5. Comunicazione e decisione di gruppo 6. Comunicazione e relazioni fra gruppi 7. Considerazioni conclusive

273

273 274 282 287 298 303

305

305 306 312 319 323 326 330

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VIII INDICE

XII. Mass media e comunicazione, di Olivia Realdon e di Luigi Ano !li p. 333

333 337 342 347 351 356 361

l. Dal medium ai mass media 2. Gli effetti a breve termine dei mass media 3. Gli effetti a lungo termine dei mass media 4. L'audience dei media 5. Comunicazione pubblicitaria e mass media 6. Comunicazione politica e mass media 7. Considerazioni conclusive

XIII. Comunicazione e new media, di Giuseppe Riva 363

l. La comunicazione digitalizzata 3 63 2. La comunicazione mediata da computer 365 3. Nuove forme di comunicazione mediata 368 4. Le principali differenze tra comunicazione mediata e comunicazio-

ne faccia-a-faccia 3 70 5. Modelli esplicativi degli effetti della CMC 372 6. Lavorare e studiare mediante la CMC 377 7. Come studiare la CMC 379 8. Considerazioni conclusive 382

Riferimenti bibliografici 385

Indice analitico 401

Indice dei nomi 411

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·., ... ,·. . ...... .

Inquadramento storico e teorico sulla comunicazione

1. Introduzione

··.-···'

Il soggetto umano è un essere comunicante, così come è un essere pensante, emotivo e sociale. La comunicazione non va pertanto conside­rata semplicemente come un mezzo e uno strumento, bensì come una di­

. Il soggetto umano è 'un essere comu­

nicante

mensione psicologica costitutiva del soggetto. Egli non sceglie se essere comunicante o meno, ma può scegliere se e in che modo comunicare [Anolli e Ciceri 1995b, 25].

La comunicazione è un'attività eminentemente sociale. Per definizione, infatti, si ha comunicazione soltanto all'interno di gruppi (o comunità), in quanto il grup­po rappresenta una condizione necessaria, una premessa indispensabile e un vinco­lo per la genesi, per l'elaborazione e per la conservazione di qualsiasi sistema di comunicazione. A sua volta, quest'ultimo alimenta, influenza e modifica in modo profondo e sistematico la vita stessa del gruppo.

Socialità e comunicazione costituiscono due dimensioni fra loro distinte ma intrinsecamente interdipendenti, che si sono evolute e che si evolvono in maniera congiunta, con un andamento a spirale senza fine, attraverso un processo reciproco di continui rimandi. In questa prospettiva la comunicazione è alla base dell'intera­zione sociale e delle relazioni interpersonali. Porre in evidenza la natura re/azionale della comunicazione (su cui ritorneremo più avanti) significa sottolineare la sua rilevanza essenziale nella costituzione e nella prosecuzione dei giochi psicologici che i protagonisti intendono realizzare in maniera congiunta. Tale rilevanza appare integra nel suo valore sia che si considerino i giochi relazionali attivi in un gruppo ristretto di soggetti o in una comunità, sia che si prendano in esame i rapporti esi­stenti all'interno della famiglia, delle nazioni e delle culture.

Sotto questo profilo la comunicazione è partecipazione, poiché essa prevede la condivisione dei significati e dei sistemi di segnalazione, non­ché l'accordo sulle regole sottese a ogni scambio comunicativo. Per sua natura, la comunicazione si fonda su processi più o meno lunghi e com­

r·i!,.· .• ~..c.-.-.l=;!:·-~· ~ Comunicare vuoi ··· ! dire condividere i si-~ gnificati

plessi di negoziazione e di patteggiamento fra i soggetti comunicanti. Di conse­guenza, essa ha una matrice culturale e possiede una natura convenzionale, non soltanto in quanto rappresenta un esito degli accordi e delle convenzioni cultural­mente stabilite all'interno di una determinata comunità, bensì anche in quanto as-

Questo capitolo è di Luigi Anolli.

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6 PREMESSE

FlGURAJ.i Rappresentazione schematica del flusso di trasmissione dell'informazione secondo il modello matematico di .. , .. ,,·,.;· ;_;._,

Shannon e Weaver.

Fonte: Shannon e Weaver [1949).

combinazioni come più probabili e altre meno. Occorre che il segnale possieda una qualità sufficientemente buona e raggiunga una certa intensità per superare la so­glia di ricezione e per arrivare al destinatario.

·· ····u··--- -·-,·~·--:·: ··1 Questo modello è.stato successivamente integrato con la nozione Il feedback pos1t1vo ~ d l r db k ( · ) d f" · 1 · ' d" · f · e negativo ; e 1ee ac . o retro~ztone , ,e 1~1ta come a quantlta _1 1~ orm~~lO-.. · ... ,,. ···-·--·~w·•"""'·····---·~ ne che dal ncevente ntorna ali emittente, consentendogli dt modtftca­

re i suoi messaggi successivi. Per esempio, se in una stanza si desidera mante­nere la temperatura a 20 gradi, il termostato è in grado di consentire questa condizione. Infatti, quando la temperatura scende al di sotto dei 20 gradi, esso invia alla centralina di comando una informazione «di ritorno» che riavvia il riscaldamento. ,

Il feedback è stato ulteriormente distinto in feedback positivo e in /eedba,ck negativo (da non confondersi con il rinforzo positivo e con il rinforzo negativo). Nel primo caso il feedback aumenta l'informazione di ingresso (nel caso di un pettegolezzo, il commento maligno di A su Z è accentuato da parte di B e diventa ancora più cattivo). Nel secondo caso il feedback riduce l'informazione di ingresso e consente di mantenere nel sistema una determinata condizione stabile, chiamata omeostasi (in una famiglia un commento bonario della madre può ridurre la porta­ta del rimprovero del padre nei confronti del figlio e contribuire in tal modo a mantenere accettabile la situazione familiare).

Parimenti il modello matematico (o statistico) ha introdotto il concetto di ru­more, inteso come l'insieme degli elementi ambientali (e non) che interferiscono con la trasmissione del segnale. In particolare, la morfologia di un segnale alla fonte non è mai identica a quella giunta alla destinazione, poiché la sua trasmis­sione va incontro a diversi fattori di interferenza, quali l'attenuazione e la disper­sione nell'ambiente (effetto di diffusione ed effetto di assorbimento ambientale), la presenza (o il riverbero) di altri segnali all'interno del medesimo canale ecc. Le proprietà strutturali dell'ambiente hanno un impatto diretto sulle caratteristiche spettrali e temporali del segnale e partecipano attivamente a determinare un de­finito rapporto segnale/rumore. Quest'ultimo deve essere superiore a zero per avere una sufficiente probabilità che il segnale giunga al destinatario. Di conse­guenza, l'emittente deve riuscire a esercitare un certo controllo sulla qualità e sull'intensità del messaggio prodotto per ottenere un valore positivo nel rapporto segnale/ rumore.

Shannon e Weaver hanno completato il loro modello con i concetti di ridon­danza (la ripetizione nell'operazione di codifica del messaggio per favorire la sua

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 7

decodifica) e di filtro (processo di selezione di alcuni aspetti e proprietà del segnale rispetto ad altri nell'operazione di decodifica).

L'approccio matematico è stato il primo tentativo di fornire un m o- \-La teoria forte del dello teorico, operazionalmente verificabile, della comunicazione umana , codice e animale. Esso ha introdotto concetti fondamentali per tracciare le coor-dinate del dominio qui esaminato e per comprendere i fenomeni sottesi all'attività comunicativa. T al e approccio implica una teoria forte del codice, in quanto ritiene che la condizione necessaria e sufficiente per comunicare sia avere a disposizione un codice di trasmissione dei messaggi (cfr. cap. 6). Tuttavia, questa focalizzazione sui processi di cifratura e di decifratura dei segnali ha impedito di prendere in con­siderazione altri fondamentali aspetti della comunicazione, come l'elaborazione e la condivisione dei significati, l'intenzionalità e l'inferenza, nonché la multimodalità dei sistemi di comunicazione.

3. L'approccio semiotico: la comunicazione come significazione e come segno

3.1. Il processo della significazione

La seiniotica (o semiologia) è la scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale. Secondo il punto di vista semiotico, occorre affrontare anzi tutto in che modo avviene il processo di significazione, inteso come la capacità di generare significati e come la proprietà fonda­

La significazione come produzione di significato

mentale di ogni messaggio di avere un senso per i comunicanti. Questo processo di significazione, da un lato, fa riferimento al referente (gli oggetti e gli eventi su cui comunicare); dall'altro, fa riferimento a un codice, cioè ai sistemi impiegati dagli at­tori per comunicare fra loro.

Da Aristotele e da Tommaso d'Aquino è stato tramandato il diagramma della significazione, qui pre.sentato nella versione di Ogden e Richards [1923] e ripor­tato nella fig. 1.2. Esso pone jn relazione tre aspetti diversi: un simbolo (come un termine linguistico; per esempio, /cane/), il referente (l'oggetto o l'evento che è comunicato; nel nostro caso, il cane come animale domestico che abbaia) e la re­ferenza (la rappresentazione mentale, il concetto dell'oggetto o dell'evento che viene comunicato; nel nostro esempio, il concetto di cane).

Di conseguenza, il simbolo o segno (una parola o un gesto) non ha rapporto diretto con la realtà (il refe­rente), ma soltanto con il concetto e con l'idea mentale (la referenza).

La convinzione che esista un rapporto diretto fra il segno e il referente è stata definita da Eco [1975] come fallacia referenziale. Per contro, ogni simbolo è un pro­dotto culturale ed esprime un determinato contenuto culturale (cfr. cap. 4).

REFERENZA

SIMBOLO REFERENTE

- Diagramma di significazione se­. · · condo Ogden e Richards.

Fonte: Ogden e Richards [1923].

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8 PREMESSE

3.2. Segno come equivalenza e segno come inferenza

Anzi tutto, occorre definire che cosa si intenda per segno in semiotica e in psi­cologia della comunicazione. A questo riguardo esistono due principali accezioni: il segno come equivalenza e il segno come inferenza.

Il segno come unio­ne di significante e ' significato

• Il segno come equivalenza. In riferimento alla prima, secondo de Saussure [1916] e la prospettiva strutturale, il segno è inteso come l'unione di un'immagine acustica (il significante o espressione; per esem­pio, la stringa di suoni: /c-a-n-el) e di un'immagine mentale (il significato

o contenuto; nel nostro caso, il significato di cane). Significante e significato, espres-. sione e contenuto sono due facce della medesima medaglia (il segno), in quanto non c'è l'uno senza l'altro in un rapporto di interdipendenza reciproca. In quest'ot­tica occorre parlare di funzione semiotica (o funzione segnica), poiché il segno non va inteso come una realtà fisica (concezione ingenuamente naturalistica del segno), bensì come una relazione fra due funtivi.

Nella concezione .strutturale, che riprenderemo nel capitolo 6 sul significato, il segno è inteso in termini di equival.enza, poiché vi sarebbe una corrispondenza piena e stabile fra espressione e contenuto, regolata da una relazione di identità. n segno, così concepito, presenta un carattere arbitrario, cioè convenzionale, in quan­to legato a una determinata cultura, non motivato dalla realtà a cui fa riferimento. Infatti, non vi è niente della <duna» nelle stringhe sonore /luna/ (italiano) o /moon/ (inglese) o /Mondi (tedesco). Inoltre, ha un carattere oppositivo, poiché un de­terminato segno è se stesso non per le proprietà positive che possiede intrinseca­mente ma per non essere nessun altro segno, in quanto si oppone a tutti gli altri segni di un determinato sistema di comunicazione. Per esempio, /pera/ si oppone a /vera/, /cera/, /nera/ ecc., ma anche a /pere/ o /pero/.

L l. . ~--=,:=~,~~: La lingua, pertaqto, in quanto «sistema di segni», è definita da de

a tngua e un stste , S . d. d:a d. . b . . . . ma di differenze r aussure come un s1stema 1 ZJJerenze 1 suonz com matt a un msteme

, ...... - - · . -·=·-···· 1 di differenze di signzficati. Poiché l'interesse di studio di de Saussure e dello strutturalismo è stato <da lingua per se stessa ~ in se stessa», egli ha proce­duto alla distinzione fra la linguistica interna (o primaria, che ha come oggetto di analisi la langue, intesa come l'insieme delle norme che permettono l'attività lin­guistica) e la linguistica esterna (o secondaria, che si occupa della parole, vale a dire l'atto concreto e reale di applicare un determinato codice linguistico da par­te di un soggetto). In tal modo la teoria strutturale ha sottolineato fin dall'inizio la stabilità dei segni, racchiusi in un codice statico e teoricamente immutabile e ha escluso l'esame degli aspetti contestuali e i riferimenti contingenti nei processi di comunicazione.

La concezione strutturale di de Saussure è stata approfondita dalla glossemati­ca di Hjelmslev [1943], secondo il quale ogni segno pone in correlazione il piano dell'espressione (E) e il piano del contenuto (C), entrambi opponendo- alloro livello- sostanza (s) e forma (j), secondo il seguente schema:

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INQUADRAMENTO STORJCO E TEORJCO 9

Hjelmslev in base a queste relazioni sostiene che la lingua è forma e non so- ? stanza, poiché la sostanza determina la forma ma non viceversa. ~

e Il segno come inferenza. Per contro, Peirce [1868; 1894] ha definito , 11 segno come indi­il segno come qualcosa che per qualcuno sta al posto di qualcos' altro, sotto ' zio qualche rispetto o capacità. In quanto tale, il segno assume la funzione di L~~- .. -. ...... , rimandare a qualcosa di diverso da sé (funzione di rimando). A questo riguardo un segno tipico è quello di indicare, in cui non conta l'indice puntato, bensì l'oggetto verso cui il dito è puntato. Sulla base del rapporto con il referente, Peirce indivi-dua tre tipi di segni:

-le icone, caratterizzate da una relazione di somiglianza con le proprietà del referente;

- gli indici, caratterizzati da un rapporto di contiguità fisica con l'oggetto o con l'evento cui si riferiscono;

- i simboli, per i quali la connessione con il referente è stabilita per contiguità ed è appresa; risulta quindi arbitraria.

In questa prospettiva il segno è inteso come inferenza, poiché costituisce un indizio da cui trarre una conseguenza, così come le nuvole sono segno di pioggia o come il fumo è indizio di fuoco. Il segno come indizio comporta la presenza di modelli mentali che, sulla base di schemi tratti dalla logica o dall'esperienza, con­sentono di individuare gli aspetti mancanti o carenti e di cogliere il senso dei mes­saggi (frasi, gesti, espressioni mimiche ecc.).

La concezione di segno come inferenza consente di spiegare la variabi- fsi~;;~-~·:··~· d~più ·.· lità e la plasticità nell'impiego dei segni stessi, per cui, in determinate cir- ~di quanto~~ dic~ . costanze, uno può usare uno specifico segno al posto di un altro, anche se L".-..• , ........ ~,~,~ .. "~ ··"~' · · · .. · in modo provvisorio. Per esempio, in una situazione di trasloco e con l'appartamento ancora vuoto, uno può chiamare «sedia» una cassa contenente libri, anche se non lo è affatto (fenomeno della risemantizzazione contestuale, cfr. cap. 6). Inoltre, il segno come inferenza contribuisce a spiegare lo scarto fra ciò che è detto e ciò che è impli-cato da quanto è stato detto. Infatti, in linea di principio, un soggetto comunica di più di quanto dica. n concetto di segno, pur costituendo un aspetto fondamentale della comunicazione, si inserisce in un processo più esteso. In particolare, il segno come equivalenza implica la nozione di codice, mentre il segno come inferenza rimanda alla nozione di contesto (cfr. cap. 6).

4. L'approccio pragmatico: la comunicazione come interazione fra testo e contesto

M?rris [1938], rip~en~endo antiche ripartizi<?n~ n~llo studio dellin- r·L~ p~a;m;l~~c~~-;) guagg10 e della comumcaztone, ha proposto la dtstmztone fra la seman- ~so dei significati 1 tica (che si occupa dei significati dei segni), la sintassi (che studia le re- ~~-~~~--J !azioni formali fra i segni) e la pragmatica (che esplora la relazione dei segni con gli attori). In questo senso la pragmatica si occupa dell'uso dei significati, vale a dire dei modi con cui i significati sono impiegati dai comunicanti nelle diverse circostanze. Per sua natura, essa pone in evidenza la relazione fondamentale fra segni e interpretanti, basata su uno scambio comunicativo storicamente definito. In particolare, la pragmatica esamina i rapporti che intercorrono fra un testo e il

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10 PREMESSE

contesto in cui esso è manifestato. L'attenzione viene spostata dall'analisi della struttura del sistema di comunicazione all'atto concreto e contingente di comuni­caziOne.

Per definizione, parlando di uso dei significati, la pragmatica prende in esame i processi impliciti della comunicazione, i quali comportano rilevanti attività inferen­ziali per inferire dal contesto ciò che il testo dice, anche se non lo dice espressa­mente. In questo ambito rientrano importanti fenomeni comunicativi, come la deis­si (cioè, i riferimenti espliciti che il testo fa al contesto come qui, là, laggiù [deissi spaziale], ora, fra dieci minuti, domani [deissi temporale], tu, lui, questa persona [deissi di persona]; tali riferimenti si possono capire soltanto attraverso il contesto; cfr. cap. 6), la implicatura conversazionale (intesa come l'inferenza per colmare lo scarto fra ciò che è detto in un enunciato e ciò che è fatto intendere; è un concetto su cui tOrneremo più avanti), la presupposizione (definita come l'insieme delle con­dizioni implicate da un enunciato).

4.1. La teoria degli atti linguistici

Il punto di vista pragmatico pone in evidenza anzi tutto la comunicazione come azione e come /are. Se si riduce, infatti, l'analisi della comunicazione soltanto allo studio dei suoi «prodotti» (il segno, il codice, i significati ecc.), si finisce per prendere in considerazione entità cristallizzate e statiche. Per contro, la comunica-zione è processo. È azione fra due o più partecipanti. ·

:"''"_,,_~"""""'·""":· ·~=-"~, In questa direzione Austin [1962] ha proposto la teoria degli atti lin­t Qu~ndochdlref qualco,- ? guistici, con l'obiettivo di attirare l'attenzione proprio su questi aspetti. • sa e an e are qua - , . . . . , i cosa ; Egli ha posto m eVIdenza che dzre qualcosa e anche /are sempre qualcosa e L ... ,..,..,., ... ,,.,~,_,...........,_~ ha individuato tre tipi di azione che compiamo simultaneamente quando

parliamo: a) atti di dire qualcosa (atti locutori): si tratta di azioni che si compiono per il

fatto stesso di parlare e che comprendono gli atti fonetici (emissione di suoni), gli atti /atici (espressione di certe parole e di certi enunciati), gli atti retici (impiego di questi aspetti con un senso e con un determinato riferimento);

b) atti nel dire qualcosa (atti illocutori): sono atti che si compiono attraverso il parlare medesimo e che corrispondono alle intenzioni comunicative del parlante;

c;;;,. essi sono stati raggruppati da Searle [1979] in diverse categorie, quali gli assertivi, (;$ i direttivi, i commissivi, gli espressivi, gli esercitivi e i verdettivi;

c) atti con il dire qualcosa (atti perlocutori): si tratta della produzione di deter­minati effetti da parte del parlante sul sistema delle credenze, sui sentimenti ed emozioni, nonché sulla condotta dell'interlocutore.

n locutorio rappresenta ciò che si dice, l'illocutorio costituisce ciò che si fa nel dire qualcosa, il perlocutorio rappresenta ciò che si vuole ottenere dicendo qualco­sa, come negli esempi (l) e (2):

(l) Oocutorio) Non ho strappato io il foglio (illocuotrio) dichiarare la propria estraneità al danno (perlocutorio) convincere l'interlocutore della propria innocenza

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(2) (locutorio) Corri, corri, che c'è l'incendio_! (illocutorio) incitare a evitare il pericolo

INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 11

(perlocutorio) spronare e sostenere l'interlocutore a fuggire e a correre via

Qualsiasi scambio comunicativo verbale, pertanto, non consiste nel -· ·- " -- · · ' Forza illocutoria ed ..

produrre frasi isolate e astratte, ma nell'adoperare enunciati per realiz- : effetti perlocutori zare un effetto intenzionale sull'interlocutore entro un definito contesto J _... ·'·""···

relazionale. Di conseguenza, gli enunciati esprimono molto di più di quanto si-gnifichino sul piano lessicale. A questo proposito Austin e successivamente S~arle [1979] procedono sul piano pragmatico alla distinzione fra atto e forza dell'atto medesimo. Il modo con cui è interpretato un enunciato e lo stesso risultato di un atto linguistico dipendono dalla forza contenuta nell'atto (forza illocutoria) e dai suoi effetti sull'interlocutore (effetti perlocutori). Indicatori della forza illocutoria di un enunciato non sono soltanto i verbi, ma anche l'ordine delle parC>le, l' ac-cento, l'intonazione, la prominenza, la punteggiatura ecc. Per esempio, i due enunciati (3) e ( 4)

(3) Pierluigi è disordinato ma intelligente (4) Pierluigi è intelligente ma disordinato

Differiscono notevolmente fra loro, pur avendo i medesimi elementi semantici. Nell'enunciato (3 ), infatti, l'attenzione e il fuoco comunicativo sono posti sul fatto di essere intelligente, mentre nell'enunciato (4) sono posti sul disordine.

Austin accentua questa prospettiva, distinguendo ulteriormente fra fA"-"'t"t":''-·1:"··--· . t: . d.. tt~·

li · t· · · · d. · 1· • t• · · · · d. . N . . . l f .:_ 1 mgUis 1c1 1re 1 g attt mgutsttct trettt e g 1 attt mgutsttct m trettt. e1 pnm1 a orza f e indiretti illocutoria che il parlante intende attribuire all'enunciato (atto prima- :, .. --~==··- , . . - -­rio), è trasmessa in maniera conforme e corrispondente al significato letterale del­l'enunciato medesimo. Nei secondi la forza illocutoria deriva non dal significato letterale dell'enunciato, ma dai modi non verbali con cui è manifestato, come il tono e l'intensità della voce, il ritmo di emissione delle parole ecc. Per esempio, nell'enunciato (5):

(5) Puoi camminare più velocemente?

la domanda ha il tono della richiesta che, a seconda di come è pronunciata, può essere più o meno cortese.

Nella comunicazione gli scambi costituiscono un flusso continuo. Essi non consistono in ciò che si dice in modo sintatticamente più o meno corretto (le frasi), ma in ciò che si fa attraverso le frasi medesime. Per questo motivo in pragmatica si è proceduto alla distinzione fra /rase (in inglese sentence, intesa come espressione linguistica astratta, definita da una teoria della sintassi) ed enunciato (in inglese utterance, inteso come l'uso concreto della frase in un contesto reale, in occasioni particolari e per scopi specifici). Di conseguenza, esiste uno scarto comunicativo fra frase ed enunciato, nel senso che l'enunciato comunica assai di più di quanto sia contenuto in una frase intesa a livello lessìcale.

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12 PREMESSE

4.2. Il principio di Cooperazione e le implicature conversazionali

Significato naturale ·· Grice [ 1975], filosofo del linguaggio, parte nella sua analisi della co-, e significato conven- municazione umana distinguendo fra il significato naturale (per esempio, il

zionale. . _, .. ·.· .. ,, ,. fumo è un indizio naturale della presenza del fuoco) e il significato con­venzionale (o significato n-n, non naturale: per esempio, qualsiasi parola

della lingua italiana o di qualsiasi altra lingua). In particolare, il significato h-n è in­teso da Grice come il «voler dire» qualcosa da parte del parlante a qualcun altro.

La comunicazione, pertanto, è un processo costituito da un soggetto che ha intenzione di far sì che il ricevente pensi o faccia qualcosa, operando in modo che il ricevente riconosca che l'emittente sta cercando di causare in lui quel pensiero o quell'azione. In altri termini, P sa che A sà che P sa che A sa (e così all'infinito) che P ha Un'intenzione particolare. Di conseguenza, la comunicazione è possibile soltanto se si attua questo processo di conoscenza reciproca e condivisa, che impli­ca la mutua consapevolezza di una intenzionalità comune fra i partecipanti. Siamo qui nell'ottica di una trasparenza intenzionale (cfr. cap. 7).

Per Grice non è qui in gioco soltanto un'intenzionalità informativa, in cui A trasmette a B qualcosa che non sa, ottenendo in tal modo un aumento delle sue informazioni secondo le modalità di codifica e di decodifica. Per contro, è in gioco una intenzionalità comunicativa, intesa come voler rendere consapevole B di qual­cosa di cui prima non era consapevole.

Su questa base pragmatica occorre procedere alla distinzione fra comunicazione e informazione. La prima consiste in uno scambio nel quale A intende in maniera consapevole rendere B consapevole di qualcosa di cui non era prima consapevole, facendo ricorso a un sistema di significazione e di segnalazione condiviso dai due partecipanti. La seconda, invece, consiste nella trasmissione involontaria di A di un segnale che è percepito in maniera autonoma da parte di B, indipendentemente dall'intenzione di A e senza la partecipazione di quest'ultimo. Di conseguenza, una gaffe, un atto di sbadataggine o di disattenzione, un lapsus sono segnali informati­vi, non comunicativi (sull'intenzione cfr. cap. 7).

~~--:--:~--'"' '"'"""l Entro questa prospettiva pragmatica il successo della comunicazione

l Pn~clplo di Co~pe- si fonda, allora, sul principio di Cooperazione, inteso come: Dai il tuo raz1one e mass1me 'b l , ,, ·h· d 1· · d t

~ della conversazio~ contrt uto a momento opportuno, cost com e ne testo ag z scopt e a -E.,..,,._. · -· .. -~- - l'orientamento della conversazione in cui sei impegnato. Questo principio

generale è stato declinato da Grice secondo quattro massime che dovrebbero gui­dare la condotta dei partecipanti:

a) massima di Quantità: l. Dai un contributo che soddisfi la richiesta di infor­mazioni in modo adeguato agli scopi della conversazione; 2. Non fornire un contribu­to più informativo del necessario;

b) ·massima di Qualità: cerca di fornire un contributo vero; in particolare, l. Non dire ciò che credi falso; 2. Non dire ciò per cui non hai prove adeguate;

c) massima di Relazione: sii pertinente; d) massima di Modo: sii perspicuo; in particolare: l. Evita espressioni oscure; 2.

Evita le ambiguità; 3. Sii breve; 4. Sii ordinato nell'esposizione.

Le massime sono di natura convenzionale, e le impariamo attraverso l'esperienza quotidiana, così come impariamo la lingua e le altre pratiche culturali (cfr. cap. 4). Pur essendo convenzionali, non sono arbitrarie ma sono mezzi razionali utili per condurre

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 13

interazioni comunicative cooperative e comprensibili. Infatti, l'osservanza e la violazione di queste massime regolano, secondo Grice, i processi di attribuzione e di interpretazio­ne delle intenzioni comunicative manifestate nel corso della conversazione. il criterio di verità delle proposizioni non costituisce un criterio di accettabilità (o meno) dei conte­nuti, bensì una norma regolativa di uso, a disposizione dei comunicanti.

Sulla base di questo principio e modello Grice ha approfondito i processi attra­verso i quali diventa possibile capirsi e comunicare nel corso degli scambi della vita quotidiana come la conversazione. Egli riprende la distinzione tradizionale fra la logica del linguaggio e la logica della conversazione. La prima si applica ai significati letterali; la seconda, invece, si applica ai processi che gli individui usano per infe­rire ciò che il parlante intende comunicare.

La logica della conversazione implica quindi la distinzione fondamen- rlo scarto fra ciò che tale fra il dire e il significare: un conto è ciò che è detto (what is said) e un l è detto e ciò che è conto è ciò che è significato (what is meant) con il proprio messaggio. Fra i significato

}, .. _, _.,.,~.·~: ... questi due livelli esiste uno scarto che deve essere colmato, poiché ciò che è inteso (significato) è più di ciò che è detto. Per colmare questo scarto occorre che i partecipanti facciano ricorso a un processo mentale da Grice chiamato implicatura conversazionale. Essa costituisce un impegno semantico aggiuntivo per andare oltre al significato letterale di un enunciato, in modo da individuare e capire in modo appropriato l'intenzione comunicativa del parlante (su questo aspetto cfr. i capp. 6 e 7). Tale impegno richiede un processo intenzionale di natura inferenziale, necessario per colmare il divario fra ciò che è detto e ciò che è significato come in (6) e (7):

(6) A: Sai che ore sono? B: Bah, è già passata la corriera per Rovereto (delle ore 7.30 del mattino)

(7) A: Hai visto Alessandra? B: C è la pelliccia di volpe nel suo ufficio

In questi due esempi, il parlante B risponde in modo apparentemente inappro­priato (quindi senza rispettare il principio di Cooperazione) ma fornisce egualmen­te indizi corretti e condivisi dicendo p in modo tale che il richiedente sia in grado di inferire q in linea con la sua domanda. Di conseguenza, il parlante, dicendo p, implica conversazionalmente q soltanto se:

a) si presume che il parlante segua le massime b) è necessario che l'inferenza q rispetti (a) c) il parlante pensa che il destinatario realizzerà (b). Le implicature conversazionali contribuiscono in modo fondamentale a spiega­

re il significato di una frase come appare nello schema della fig. 1.3. Esse, infatti, consentono di «estrarre» il significato (non detto) che è contenuto in modo impli­cito nell'enunciato come in (8) e (9):

(8) Michele ha lavorato a lungo a Roma (lmplicatura: egli non lavora più a Roma) (9) Fabrizia finirà il lavoro per domani (lmplicatura: Fabnzia non ha ancora finito il lavoro)

Le implicature conversazionali riguardano tutte le massime da Grice proposte. Esse sono operative anche nel caso in cui le massime stesse si­ano violate e «oltraggiate» (per usare il termine di Grice), come succede con i significati figurati e con la metafora (cfr. cap. 6) o con l'ironia (cfr. cap. 10). Le implicature sono caratterizzate da quattro proprietà.

Proprl;tàd;;li;·j~~~~--~ cature conversazio- ~­nali ~

J -= ~ ... = .. "'!

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14 PREMESSE

~nunciato

CiÒ che è DETTO ciò che è IMPLICATO

~ in modo CONVENZIONALE in modo CONVERSAZIONALE

in GENERALE in PARTICOLARE

~lt~~~J:· Ripartizione del significato di un enunciato secondo il modello di Grice.

Anzi tutto, sono cancellabili, in quanto si possono dissolvere se si aggiungono alcune premesse a quelle originali, come l'enunciato (10):

(lO) a) affermazione: Michela ha mangiato alcuni pasticcini b) implicatura per default: Michela non ha mangiato tutti i pasticcini c) cancellazione di b): Michela ha mangiato alcuni pasticcini. Di /atti, li ha mangiati tutti

In secondo luogo, le implicature conversazionali sono non-distaccabili, pokhé esse sono attaccate al valore semantico dell'enunciato, non alla sua forma linguisti­ca, come (11) implica pragmaticamente (12):

(11) Claudio non è riuscito a dare l'esame di diritto penale (12) Claudio ha cercato di dare l'esame di diritto penale

In terzo luogo, le implicature sono calcolabili, poiché, dati il principio di Coo­perazione e le massime da esso derivanti, è prevedibile che in una situazione stan­dard (o per default) l'interlocutore sappia fare l'inferenza appropriata (e quindi l'implicatura) in quella determinata situazione conversazionale.

Infine, le implicature sono non-convenzionali, in quanto non fanno parte del significato convenzionale delle espressioni linguistiche, ma sono negoziate, di volta in volta, in funzione del contesto di uso. Di conseguenza, il medesimo enunciato può assumere significati diversi in relazione a diverse occasioni comunicative come in (13):

(13) Sergio è una macchina

Questo enunciato può significare che Sergio è freddo, o efficiente, o che non si ferma mai per lavorare, o che soffia e sbuffa ecc. A questo riguardo le implicature hanno una certa indeterminatezza semantica e prevedono una notevole flessibilità dei significati (sul rapporto fra stabilità e instabilità del signifkato cfr. cap. 6).

Grice ha inteso il concetto di «implicatura» in senso abbastanza ampio e lo

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 15

ha ulteriormente articolato distinguendo fra implicature conversazionali e impli­cature convenzionali, fra implicature particolarizzate e implicature generalizzate, ? nonché fra implicature scalari e implicature proposizionali. · ~

Il contributo di Grice si è rivelato molto fecondo, poiché, partendo dal punto di vista pragmatico, ha rappresentato una svolta importante nello studio della co­municazione umana, sia in riferimento al principio di Cooperazione e alle massime conseguenti, sia in relazione all'analisi delle implicature conversazionali, sia infine in connessione con il concetto di intenzione comunicativa. Pur presentando limiti dovuti alla concezione della trasparenza intenzionale e del significato letterale (cfr. capp. 6 e 7), il pensiero di Grice costituisce tutt'oggi un termine di riferimento con cui confrontarsi e misurarsi.

4.3. Il principio di pertinenza e il modello ostensivo-inferenziale di comunicazione

Sperber e Wilson [1986], partendo dalla piattaforma concettuale fornita da Grice, hanno elaborato una diversa prospettiva pragmatica per spiegare i processi della comunicazione. Essi propongono un modello ostensivo-inferenziale che in­tende superare sia la tradizionale impostazione basata esclusivamente sul codice (come nel modello di Shannon e Weaver) sia l'impostazione inferenziale proposta da Grice. I termini del problema da cui essi prendono le mosse di partenza concer­nono la produzione e la condivisione del significato. Per «voler dire» qualcosa con un enunciato X il soggetto S deve avere l'intenzione:

a) che l'enunciazione di X da parte di S produca una certa risposta r nell'ascol­tatore A

b) che A riconosca l'intenzione (a) di S c) che il riconoscimento da parte di A dell'intenzione (a) di S sia, almeno in

parte, la ragione per cui A produce la risposta r. Su questa premessa Sperber e Wilson introducono la distinzione fra r·t::;~~s~ere manite­

intenzione informativa e intenzione comunicativa. La prima concerne l'in- S sto>> come mutuo tenzione di informare il destinatario di qualcosa; la seconda riguarda l'in- l ambiente cognitivo tenzione di informare il destinatario sulla propria intenzione informativa ~,~~~,,.,.,. · (cfr. cap. 7). In questa prospettiva l'intenzione comunicativa rappresenta la condi-zione necessaria e sufficiente per la comunicazione. Affinché ciò sia possibile, Sper-ber e Wilson introducono il concetto di «essere manifesto»: un fatto è mam/esto a un soggetto se e solo se egli è capace di rappresentarsi mentalmente questo fatto e di accettare la sua rappresentazione come vera (o probabilmente vera). L'essere manifesto (mam/esteness) significa essere sia percepibile sia inferibile; esso riguarda non solo i fatti ma anche le ipotesi e si esprime lungo una scala lineare di gradi, poiché vi sono realtà più visibili di altre e ipotesi più evidenti e con maggiore pro-babilità di essere accettate rispetto ad altre.

In secondo luogo Sperber e Wilson precisano il concetto di mutuo ambiente cognitivo, in cui ogni ipotesi è reciprocamente manifesta e assicura un sufficiente grado di cooperazione per capirsi e per comunicare. L'ambiente cognitivo è un insieme di ipotesi (affermazioni, richieste, comandi, speranze ecc.) che i partecipan­ti hanno a loro disposizione. Quale fra queste ipotesi riceverà la particolare atten­zione di un individuo in un dato momento dipende da un'unica proprietà: la perti­nenza di quell'ipotesi in quello specifico contesto.

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16 PREMESSE

. Perti~~·~z'a :-~~;bo-~ 1 Ma che cosa significa «pertinenza» in questa prospettiva? Secondo rare nuove informa- r Sperber e Wilson l'essere umano è capace di elaborare informazioni in

· zioni al più basso : modo efficace, cioè con i migliori risultati e al più basso costo possibile. costo possibile_ ...... _. Molte informazioni sono già disponibili dall'esperienza passata e sono

state immagazzinate nei depositi della memoria. Altre informazioni sono nuove e contingenti, connesse con il contesto attuale hic et nunc. La combinazione di infor­mazioni vecchie e nuove attraverso un processo di inferenza genera ulteriori nuove informazioni. La pertinenza consiste esattamente in questa «moltiplicazione» fra il vecchio e il nuovo e quindi nella capacità di generare nuove informazioni. Maggio­re è tale generazione, maggiore è la pertinenza in gioco.

Occorre, tuttavia, integrare questa competenza umana con la disposizione del soggetto . .di manifestare le proprie intenzioni. Sperber e Wilson chiamano ostensio­ne la condotta che rende manifesta un'intenzione di rendere manifesto qualcosa d'altro (per esempio, un'affermazione, un ordine, un desiderio ecc.). Il comporta­mento estensivo consente di inferire pensieri e ipotesi. Il successo di questa infe­renza si basa sulla garanzia di pertinenza, poiché gli individui prestano maggiore attenzione a ciò che sembra loro più pertinente. Pertanto, un comportamento osten­sivo implica una garanzia di pertinenza, poiché rende manifesta l'intenzione comu­nicativa sottesa a tale comportamento.

Per giungere a questo traguardo occorre un lavoro pragmatico di inferenza da parte degli interlocutori. L'inferenza costituisce un processo logico al termine del quale un'ipotesi è ammessa come vera (o probabilmente vera) sulla base di altre ipo­tesi la cui verità certa (o probabile) è ammessa in partenza. Nella comunicazione si fa ricorso non a una inferenza dimostrativa impiegata nella logica formale (come lo stu­dio dei sillogismi), ma a una inferenza non dimostrativa, basata sulle conoscenze a propria disposizione e sui vincoli cognitivi posti dal contesto. Si tratta di un'inferenza fondata sul ragionamento pratico che impiega le competenze deduttive (da Sperber e Wilson chiamate il dispositivo deduttivo) per produrre varie forme di implicazioni.

Fra queste ultime particolare attenzione meritano le implicazioni contestuali che consistono nella produzione di informazioni aggiunte grazie alla combinazione e alla integrazione fra le vecchie conoscenze (già a disposizione dell'individuo) e gli elemen­ti nuovi e contingenti fomiti dal contesto. Come risultato delle implicazioni conte­stuali si ottengono gli effetti contestuali che vengono a migliorare la comprensione dei processi comunicativi in atto, con l'eliminazione di ipotesi sbagliate, con il rafforza­mento di .ipotesi già note in passato o con l'elaborazione di ipotesi nuove che consen­tono un ampliamento della comprensione stessa dell'interazione in corso.

A questo punto diventa più chiaro il concetto stesso di pertinenza. Secondo Sperber e Wilson, in una data situazione il grado di pertinenza di una informazio­ne è dato da due condizioni: a) una informazione è tanto più pertinente quanto maggiori sono gli effetti contestuali da essa generati; b) una informazione è tanto più pertinente quanto minore è lo sforzo cognitivo richiesto per elaborarla. La pertinenza, quindi, è una variabile continua di natura qualitativa e scalare che può essere ordinata in modo lineare (da una condizione di massima pertinenza a una condizione di minima pertinenza).

Pertinenza ottimale · come gestione del contesto

Inoltre, la pertinenza riguarda sempre il contesto, poiché ogni comu­nicazione avviene sempre e soltanto in un determinato contesto. Que­st'ultimo va inteso come l'insieme delle condizioni, delle opportunità e dei vincoli spaziali, temporali, re/azionali, istituzionali e culturali presenti in

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 17

qualsiasi scambio comunicaiivo (sul contesto cfr. cap. 6). È interessante osservare che per Sperber e Wilson non vi è un contesto unico, fisso e dato a priori, ma che il contesto è il risultato di una scelta fatta dall'interlocutore all'interno di una mol­teplicità di possibili definizioni di contesto che egli ha a sua disposizione. Di con­seguenza, il contesto si può ampliare o restringere a seconda delle esigenze dell'in­terazione comunicativa in corso.

In questa prospettiva la pertinenza ottimale è data dalla capacità degli interlo­cutori di seguire l'ipotesi comunicativa che ottimizza gli effetti contestuali e che minimizza l'impegno cognitivo. Tuttavia, gli scambi comunicativi non necessaria­mente devono perseguire in ogni circostanza i valori ottimali di pertinenza; essi possono avvenire lungo tutta la scala della pertinenza.

TI modello pragmatico di Sperber e Wilson è indubbiamente degno di attenzio­ne, poiché propone una teoria globale e parsimoniosa basata su un principio sol­tanto (quello di pertinenza). Tuttavia, il loro rifiuto di ogni forma di codice e la loro eccessiva contestualizzazione della comunicazione rendono difficile capire in che modo si produca la stabilità dei significati e in che modo si crei ~a piattaforma semantica necessaria per intendersi e per comunicare. Se si accentua troppo il con­tingente dei processi comunicativi (il fatto che essi avvengano sempre hic et nunc e che non siano mai esattamente ripetibili) si rischia di cadere in una torre di Babele, dove ognuno comunica soltanto per sé.

4.4. l significati presuntivi

Recentemente, Levinson [2000] ha integrato le prospettive teoriche n~~~,~-~iO;";;~~tazioni ··. di Grice e quelle di Sperber e Wilson proponendo il modello pragmatico ~- preferite degli enun- : dei significati presuntivi, intesi come le interpretazioni preferite degli ! ciati enunciati in un dato scambio comunicativo. Sono quelle per default che ,, .. "'"···~-···"·- · si possono prevedere in base all'esperienza passata e alle circostanze.

Levinson ritiene che una teoria della comunicazione debba prevedere tre livelli esplicativi anziché i due tradizionali: assieme al significato-tipo della frase (sentence­type-meaning) inteso come il significato-tipo astratto e ideale, definito nelle sue condizioni vero-condizionali e spiegato dalla semantica logico-filosofica e dalla teo­ria della grammatica (cfr. cap. 6) e al significato-occorrenza dell'enunciato (utterance­token-meaning) inteso come l'uso del significato di una frase in una occorrenza concreta e contingente entro uno specifico contesto, è introdotto da Levinson un terzo livello intermedio, chiamato il significato-tipo dell'enunciato (uiterance-type­meaning) definito come il significato usuale e regolare che è ricorrente in una de­terminata classe di contesto, in grado di generare inferenze sistematiche e prevedi­bili. Quest'ultimo livello corrisponde alle «interpretazioni preferite» e alla «inter­pretazione per default» (cfr. il cap. 7, il principio noto come «assumere-per-garan­tito») e al concetto di regolarità dei contesti e di «contesto standard» (cfr. cap. 6).

Con questa premessa Levinson ha ripreso e approfondito la nozione di impli­catura conversazioriale generalizzata, da lui definita come l'inferenza standard che usualmente è realizzata, dati un certo contesto e un certo enunciato. Tale inferenza si fonda essenzialmente su tre euristiche (sul concetto di euristica cfr. cap. 7) che consentono a livello pragmatico di fare le opportune inferenze conversazionali:

a) Prima euristica: «quello che non è detto, non c'è>> come in (14):

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18 PREMESSE

(14) C'è una piramide blu sul cubo rosso (inferenze ammesse: non c'è un cono sul cubo ros­so; non c'è una piramide verde sul cubo rosso)

b) Seconda euristica: <<quello che è descritto in modo semplice è esemplz/icato in modo stereotipato» come in (15):

(15) La piramide blu è sul cubo rosso (inferenze ammesse: la piramide è a base quadrata piuttosto che ottagonale,· la piramide è collocata centralmente sul cubo,· la piramide ha una posizione canonica e non è, per esempio, capovolta)

c) Terza euristica: «quello che è detto in modo non usuale, non è usuale,· cioè: il messaggio marcato si rz/erisce a una situazione marcata» come in (16):

(16) Il blocco blu a forma di cuboide è sostenuto dal cubo rosso (inferenze ammesse: Il bloc­co blu non è un cubo regolare; il cuboide non è sostenuto centralmente dal cubo rosso)

Su queste tre euristiche si innestano, secondo Levinson, tre principi pragmatici per spiegare la comunicazione.

'' Principio Q

;; Massima per il parlante: Non fare un'affermazione che sia più debole a livello informa­. tivo di quanto la tua conoscenza lo consenta, a meno che il fatto di fornire un' affer­, mazione più ricca sul piano informativo vada contro il principio I. In particolare, sce-

gli l'alternativa più forte a livello informativo che sia coerente con i fatti. :>..;,

Corollario per il destinatario: Assumi che il parlante faccia l'affermazione più consi-)o; stente con quanto egli conosce. ~2:

~ ~­M

Principio I

~ Massima per il parlante: Di' il minimo indispensabile, necessario per raggiungere i tuoi ~' scopi comunicativi, tenendo a mente il principio Q (massima di minimizzazione). ~ Corollario per il destinatario: Amplia il contenuto informativo dell'enunciato del par-

~-

~ lante, facendo l'interpretazione più specifica al fine di individuare la sua intenzione ~ ~ comunicativa (regola di arricchimento). Z•.

~ Principio M ~ ~ ;;,

i lt

i ~ ~

Massima per il parlante: Segnala una situazione non usuale facendo ricorso a espressio- i ..,-.

ni marcate che contrastino con quelle impiegate per descrivere corrispondenti situa- ~ zioni usuali. ~ Corollario per il destinatario: Ciò che è comunicato in modo non usuale indica una si- j tuazione non usale (cioè, un messaggio marcato indica una situazione marcata). !

li modello pragmatico di Levinson traccia una traiettoria intermedia fra il con­testualismo forte previsto dalla teoria ostensivo-inferenziale di Sperber e Wilson e la semantica tradizionale. Esso consente di spiegare numerosi fenomeni linguistici come i fenomeni scalari degli aggettivi qualitativi (come sufficiente, buono, ottimo,· eccellente), le forme lessicalizzate e le perifrasi, la litote (quando due forme negative non fanno un positivo, come in: Non è infelice non è l'equivalente di: È felice), l'anafora, le lingue senza forme riflessive ecc.

In sintesi, la prospettiva pragmatica, nel suo insieme, si configura come ricca

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 19

di contributi importanti e intrinsecamente interdisciplinare, in quanto consente di cogliere la complessità dello scambio comunicativo nel suo farsi e l'interdipen­denza fra testo e contesto. Inoltre, l'attenzione si sposta dal messaggio (da codi­ficare e decodificare) all'intenzione comunicativa da esprimere e da riconoscere all'interno di un contesto che insieme regola ed è regolato dai processi di attribu­zione e inferenza del significato. Tuttavia, pur nella sua complessità, la prospet­tiva pragmatica rimane ancorata a fenomeni prevalentemente linguistici, e non prende in considerazione gli aspetti relazionali e interattivi che si manifestano nella e attraverso la comunicazione. Si tratta di un limite di non scarso rilievo se pensiamo che la comunicazione genera e alimenta i giochi relazionali che sono alla base del benessere o della sofferenza psicologica (cfr. par. 6).

5. · Il punto di vista sociologico: la comunicazione come espressione e prodotto della società

La sociologia della comunicazione costituisce un punto di vista inte- ~Dalla razionalità a ressante e fecondo di idee nei riguardi della comunicazione, in quanto . priori alla razionalità sottolinea la prospettiva sociale e istituzionale nell'analisi dell'azione so- ; a posteriori dale, del soggetto e dell'interazione. Negli ultimi trenta o quarant'anni si è assistito in sociologia alla cosiddetta «svolta comunicativa» con il conseguente passaggio dalla teoria dell'azione alla teoria della comunicazione [Bovone 2000]. T al e svolta ha segnato la transizione da una concezione ontologica della realtà al concetto di «costruzione sociale della realtà» (quest'ultima intesa come il prodotto dell'attività cognitiva umana; su questo concetto cfr. il cap. 9), come pure il passag­gio da una razionalità a priori (astratta e universale) a una razionalità a posteriori (contingente e locale in quanto ricostruzione storica e razionalizzazione di un ordi­ne di eventi o cose). Parimenti tale svolta ha indicato la transizione dalla morale (definita come insieme di norme che trascendono la prassi) alla pratica quotidiana, nonché il passaggio dal senso del soggetto (inteso come attore intenzionale) al sen­so comune (definito come l'insieme delle conoscenze acquisite e date per scontate).

Entro la prospettiva sociologica è opportuno inoltre distinguere fra la microso­ciologia e la macrosociologia. La prima si occupa dei processi della vita quotidiana studiando il flusso degli accadimenti nella loro sequenza non sempre ordinata, fa­cendo ricorso all'osservazione e a metodi etnografici; in questo ambito, in relazione alla comunicazione, oltre al lavoro pionieristico di Schutz [1962], si hanno i contri­buti originali di Goffman, l'orientamento postmoderno e l'etnometodologia (sull'et­nometodologia cfr. il cap. 9). Per contro, la seconda studia i processi generali ine­renti le istituzioni e le organizzazioni complesse in quanto costitutivi e strutturali della società, facendo ricorso a metodi quantitativi, a dati statistici ufficiali, a ricer­che campionarie rappresentative e così via. Sul piano della comunicazione la ma­crosociologia si è occupata soprattutto dei mass media e dei lòro eff~tti (a breve, medio e lungo termine; su questo aspetto cfr. il cap. 12). Recentemente ha preso in considerazione anche i cosiddetti new media e i nuovi sistemi di comunicazione a distanza (su questi aspetti cfr. il cap. 13 dal punto di vista psicologico).

• La microsociologia di Gof/man. Goffman [1963; 1981] focalizza la sua atten­zione sullo studio delle condizioni di organizzazione sociale necessarie per la circo­lazione dell'informazione, descrivendo la struttura regolata dell'interazione sociale.

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20 PREMESSE

Egli si mostra interessato a una serie di fenomeni comunicativi della vita quotidiana che erano ignorati dalla sociologia tradizionale, ed elabora una «sociologia delle occasioni» e delle «situazioni trascurate» come studio delle circostanze in cui han­no luogo le esperienze quotidiane e ricorrenti.

In particolare, egli sceglie come luogo emblematico di interazione la conver­sazione nella quale si combinano «comunicazioni verbali» e «mosse non verba­li». Poiché la conversazione è una «situazione sociale», a Goffman interessa ve­rificare in che modo la dimensione sociale influenzi l'organizzazione della con­versazione e gli scambi comunicativi che in essa hanno luogo. Egli si è prefissa­to l'obiettivo di comprendere in che modo si generi e si mantenga «l'ordine dell'interazione».

Il f d Il A suo modo di vedere, esistono delle «regole» precise entro cui in-

rame e o scam- d l . · · d d' d f' bio comunicativo ' qua rare e propne sequenze comumcauve e esse consentono 1 « e 1-

. .. -., . ._ ..... " .. -.: nire» la situazione, stipulando congiuntamente il significato e la struttura dell'interazione e della comunicazione in corso. Tali regole organizzano, per esem­pio, il modo di iniziare e di terminare uno scambio comunicativo, il comportamen­to adeguato in relazione allo spazio, al tono della voce ecc. La scelta delle regole è determinata dal frame, vale a dire dalla cornice (o contesto) entro cui si realizza lo scambio comunicativo. Il /rame consent~, pertanto, ai partecipanti a una conversa­zione di sapere in ogni momento che cosa stia accadendo o quale sia la condotta appropriata da seguire.

Sotto questo profilo la comunicazione risulta essere un processo ritualizzato, poiché è regolato da rituali. Si tratta di sequenze di atti attraverso i quali un sog­getto controlla e rende visibili le implicazioni simboliche del suo comportamento quando si trova direttamente esposto a un altro soggetto. Gli atti del rituale svol­gono una funzione comunicativa, poiché forniscono informazioni sul carattere e sul giudizio dei partecipanti, nonché sugli eventi in corso.

Secondo Goffman lo scambio comunicativo rimanda ai sistemi di comunica­zione stabiliti all'interno di un certo gruppo di partecipanti (per esempio, comu­nicazione esplicita o implicita, simmetrica o asimmetrica), ed è regolato da stra­tegie di comunicazione adottate dai comunicanti negli scambi reciproci. T ali stra-tegie, a loro volta, sono selezionate in funzione delle costrizioni comunicative, __ ·_ intese come i vincoli ecologici, cognitivi ed emotivi che limitano la scelta delle strategie, nonché delle condizioni del /rame o cornice interpretativa, definita come il contesto di riferimento entro cui si realizza concretamente un determina-to scatnbio comunicativo.

c;;;,. Con questi presupposti e adottando una prospettiva drammaturgica, Goffman '::7 esplora ed esamina in modo innovativo una serie di fenomeni sociali della vita

quotidiana come l'etichetta, contrapposta a etica e intesa come il codice formale che governa gli incontri e come pratica in cui gli attori hanno modo di coniugare in modo contingente aspetti etici e aspetti estetici. Parimenti egli si sofferma a lun­go sul concetto di «salvare la faccia» definito come un insieme di modalità per proteggere la propria immagine, per recuperare gli errori e le gaffe commesse, nonché per «salvare» la situazione.

Il pensiero di Goffman, pur esasperando la metafora drammaturgica della vita quotidiana come rappresentazione teatrale, ha rappresentato una svolta innovativa nello studio sociale della comunicazione, in quanto ha individuato categorie espli­cative alternative a quelle dell'impostazione sociologica tradizionale.

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 21

e Il concetto di postmoderno e la globalizzazione. Nell'ambito d.ella sociologia si è sviluppato in tempi recenti una corrente di pensiero che si ricollega al concetto di postmoderno, inteso come prospettiva culturale postindustriale e antiutopica, in quanto si oppone ai grandi miti dell'età

' Postmoderno come : prospettiva antiuto­; piea

moderna come il progresso, la ragione, la rivoluzione ecc. [Kumar 1995]. Tale concetto si declina altresì come riconoscimento dell'importanza della comunicazio­ne e della informazione come merce di scambio, come accettazione dell'ambivalen­za in un processo di disincantamento e di disancoramento da un sistema razionale e universale di norme e di certezze, come aumento della riflessività sociale e indi­viduale, nonché come globalizzazione da un lato e frammentazione dall'altro (sul postmoderno in psicologia cfr. cap. 9).

Il concetto di globalizzazione merita di essere approfondito poiché sembra costituire il processo contraddittorio in cui si incontrano in modo paradigmatico le antinomie della società contemporanea (postmoderna). Tale processo, infatti, è attraversato da diverse «spinte» e «controspinte», quali: a) universalismo versus particolarismo, b) omogeneizzazione versus differenziazione, c) integrazione versus frammentazione, d) centralizzazione versus decentralizzazione, e) giustapposizione versus sincretizzazione [McGrew 1992].

La globalizzazione si presenta in questo modo come ibridazione in quanto processo di aggregazione e di accostamento di forme culturali nuove (globali) assieme a quelle vecchie (locali). La globalizzazione non coincide né con l'universalismo né con l' omogeneizzazione delle culture

: Globalizzazione e • antinomie della so­: cietà attuale

(la cosiddetta «occidentalizzazione»), ma implica nuove forme di pluralismo con la comparsa contemporanea di una molteplicità di punti di vista, fra loro diversi, che finiscono per mettere in crisi il proprio sistema di credenze (o per rafforzarlo come forma di difesa). Come esito di questa condizione, la società non ha più un centro e un principio ordinatore, a cui corrisponde una perdita di centro dell'individuo che si interroga sulla propria identità e che prende consapevolezza dei propri limiti (e dei limiti della natura umana).

Le spinte contraddittorie della globalizzazione creano dunque le premesse per l'emergenza di una maggiore riflessività, intesa come capacità di mettersi in que­stione e di confrontare il proprio punto di vista con quello degli altri. In questo processo assume una rilevanza fondamentale la comunicazione, poiché ogni infor­·mazione aggiuntiva costringe l'individuo a ripensarsi, a riconoscere i limiti del suo sapere generando una condizione di instabilità della conoscenza e della coscienza. Infatti, quanto più aumenta la conoscenza del mondo ~anto più essa diventa insta­bile, e quanto più la conoscenza è mediatizzata tanto più è messa in discussione da informazioni successive. In questa prospettiva la comunicazione si configura come il luogo stesso della riflessività.

6. L'approccio psicologico: la comunicazione come gioco di relazioni

Le scienze psicologiche hanno aperto un altro punto di vista sullo f"L:;;~~~~i~~~~one è, studio della comunicazione. Esse hanno esaminato in che modo la comu- t il fondamento del- . nicazione entra nell'esistenza del singolo soggetto, dei gruppi e delle isti- i l'identità tuzioni sociali, ponendo in evidenza non soltanto le sue funzioni come si- .. 4

•• , ________ - • ·

gnificazione, come trasmissione di informazioni e come connettivo dei legami inter-

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22 PREMESSE

personali, bensì anche come dimensione intrinseca che fonda e che esprime l'iden­tità personale e la posizione sociale di ogni soggetto (individuale e collettivo). Sotto questo profilo la psicologia ha riservato particolare attenzione allo studio dei pro­cessi ontogenetici di acquisizione e di sviluppo delle competenze comunicative nel neonato e nel bambino (cfr. cap. 5).

Fra i primi Bateson [1972] ha posto in evidenza che gli individui non soltanto «si mettono in comunicazione» (approccio centrato sulla trasmissione delle infor­mazioni), né semplicemente che «prendono parte alla comunicazione» (approccio interazionista), ma «sono in comunicazione» e attraverso la comunicazione giocano se stessi e la propria identità. Dal punto di vista psicologico «essere in comunica­zione» significa che nella e mediante la comunicazione le persone costruiscono, alimentano, mantengono, modificano la rete delle relazioni in cui sono costante­mente immerse e che esse stesse hanno contribuito a tessere.

D. t· . f ._" Attraverso lo studio degli scambi comunicativi fra i delfini e l'uomo IS lnZIOne ra «nOti • ll' 1. · d 11 · · d · · . f ·1· . . . d

. zia» e «comando» : e ne ana 1s1 e a comumcazwne e1 s1stem1 ami 1an carattenzzau a .,e,, ., .-·c• ;. transazioni schizofreniche, egli osservò che il comunicatore procede in ogni atto comunicativo su due livelli distinti e interdipendenti nel medesimo tem­po: a) il livello di «notizia», ossia le cose che dice, i contenuti che manifesta, gli enunciati che produce; b) il livello di «comando», ossia l'indicazione all'interlocu­tore di come intendere le cose che dice e con quale valore comunicativo.

Sotto questo profilo il comunicatore esercita sempre, per definizione, un certo grado di controllo su quanto manifesta e indirizza il suo messaggio secondo una determinata direzione comunicativa, in linea con la sua intenzione comunicativa. A fronte di un'azione maldestra di B, A può fare un commento come in (17):

(17) A: La prossima volta /ai un po' più di attenzione (livello di «notizia»)

ma, a seconda del modo con cui pronuncia questo enunciato (tono e intensità della voce, sguardo e mimica del volto, gesti delle mani, posizione del corpo ecc.), A può comunicare a B significati e valori comunicativi assai diversi fra loro come in (18):

(18) a) Guarda che è un rimprovero molto serio b) È un commento che non potevo non /are, data la presenza di altre persone c) È una battuta bonaria

In questa prospettiva la comunicazione non è un processo semplice ma si arti­cola su più livelli: vi è il livello della comunicazione (i contenuti che si scambiano) e il livello della metacomunicazione (la comunicazione che ha come oggetto la comunicazione stessa). Quando si passa allivello della metacomunicazione, l' ogget­to della comunicazione diventa la cornice (o frame) in base alla quale intendere e interpretare il messaggio stesso. Infatti, la metacomunicazione «inquadra» e forni­sce un orizzonte di riferimento alla comunicazione.

In questo processo l'attenzione si sposta dalle informazioni e dai contenuti tra­smessi alla relazione interpersonale che si crea fra due o più interlocutori nel mo­mento stesso che comunicano fra loro. Per esempio, a un commento informativo della moglie come in (19):

(19) Moglie: Se non chiudi adagio lo sportello dell'armadio, si rompono le cerniere

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 23

il marito può cogliere il tono seccato della moglie e fornire una risposta che segna il passaggio alla metacomunicazione e che sposta lo scambio comunicativo sulla loro relazione come in (20):

(20) Marito: Anche quando mi devi dire qualcosa, continui a /armi dei rimproveri e a trattar­mi come un bambino

Nella prospettiva psicologica, la comunicazione diventa, pertanto, il La definizione di sé tessuto che crea, mantiene, modifica e rinnova i legami (di qualsiasi tipo) e dell'altro fra i soggetti. Infatti, ogni qualvolta un soggetto comunica qualcosa a un altro, egli definisce nel medesimo tempo se stesso e l'altro, nonché la natura e la qualità della relazione che li unisce. La comunicazione è la dimensione psicologica che produce e sostiene la definizione di sé e dell'altro. In maniera più o meno esplicita, in ogni atto comunicativo ciascuno di noi è come se dicesse: Ecco come sono. Ecco come mi vedo. Ecco come mi presento. e contemporaneamente: Ecco come ti vedo. Ecco come tu sei secondo me. e ancora: Ecco che tipo di relazione ci lega (relazione fra genitori e figli, fra amici, fra amanti, fra colleghi, fra capo e col­laboratore, fra docente e allievo fra sadico e masochista ecc.).

Questa percezione e definizione di sé e della relazione attraverso la comunicazione è continua ed è reciproca fra gli interlocutori. Poiché la comunicazione è un flusso continuo a molti livelli, si crea una sequenza ininterrotta e una spirale di messaggi nella quale lo stimolo, la risposta e

; La comunicazione · come vortice di scambi

il rinforzo (classiche categorie della psicologia tradizionale) si sovrappongono e si fondono insieme. Infatti, come emerge dalla fig. 1.4, ogni atto comunicativo è con­temporaneamente una risposta a un messaggio precedente, uno stimolo per l'inter-locutore e un rinforzo del modello comunicativo in essere. Grazie a questo proces-so diventa quindi impossibile, all'interno delle relazioni abituali, individuare in modo oggettivo chi ha iniziato per primo un certo modello comunicativo, soddisfa-cente o insoddisfacente che sia.

Questa condizione di flusso ininterrotto della comunicazione è spesso alla base dei conflitti interpersonali. Infatti, il pensiero umano e il linguaggio sono di natura lineare, poiché riescono a gestire una sequenza di pensieri (o di parole) uno dopo l'altro. Per questo motivo gli individui sono portati a linearizzare e a segmentare in modo arbitrario il processo circolare e continuo della comunicazione, come appare nella fig. 1.5. In questa situazione conflittuale il marito percepisce e comunica in base alle triadi 2-3-4, 4-5-6 e così via: Io alzo la voce perché tu brontoli; mentre la moglie valuta e comunica in base alle triadi 1-2-3, 3-4-5 e così di seguito: Io bron­tolo perché tu alzi la voce. In funzione di questa segmentazione arbitraria ognuno dei contendenti percepisce l'altro come causa del disagio relazionale e valuta se stesso come <<vittima» che non può non reagire a tale situazione. Si pongono così le premesse per creare a livello comunicativo i cosiddetti giochi senza fine.

Parimenti, i modelli e i processi comunicativi contribuiscono in t N~l~;~omunicazio- •· modo sostanziale a creare e a modulare il tipo di relazione che si instaura i ne si giocano le re- \ fra i partecipanti. Le relazioni umane assumono le forme più svariate, in ~ lazioni umane · grado di coprire le loro diverse esigenze e motivazioni psicologiche. Ba- '····---·-~-~~-- '· teson [1958], fra i primi, si rese conto dell'importanza degli scambi comunicativi nel costruire e regolare le relazioni interpersonali e individuò due modelli di base: la relazione simmetrica e la relazione complementare. La prima si fonda sulla per-

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24 PREMESSE

a1 a2

a3 a4

a5 aB a6

a7

bO b1 b2 b3 b4 b5 b6 b7

FIGURA 1:4';· Flusso degli scambi comunicativi fra A e B. al è contemporaneamente una risposta (output) a bO, uno stimolo (input) per bl e un rinforzo per la triade bO-al-bl. Da osservare il diverso

andamento della «spirale» degli scambi comunicativi in funzione del tempo.

MARITO

MOGLIE

l l

l l

2

3

l l

4

5

" l. : l eu: o! 1 E: e: .o! l

_\ C• _., ~· ~~. ~l <' O\ (). (l) l

l

~f

6

7 9

" l. ' l eu: o! c: e: .o!

8

11

eu: o! E! O• ..... .o! jjf

10

-·~-\~,~}}]~ Arbitrarietà nella segmentazione della sequenza circolare fra marito e moglie. il marito consi­dera le triadi 2-3-4, 4-5-6 e così via; la moglie invece considera le triadi 1-2-3, 3-4-5 e così via.

cezione della eguaglianza dei rapporti, in quanto l'atto comunicativo di un parteci­pante tende a rispecchiare, ingrandendolo, l'atto comunicativo (dello stesso segno) dell'interlocutore. Si pongono in questo modo le premesse per forme di competizio­ne comunicativa, in quanto, per esempio, a un gesto di elogio di sé da parte di A risponde un eguale gesto (rinforzato) di autoelogio da parte di B in una caten~ ininterrotta di escalation. Questo tipo di relazione simmetrica è facile da osservare dalla corsa agli armamenti fra le nazioni alla guerra commerciale fra due o pii aziende rivali, alla competizione fra coniugi. Per contro, la relazione complementa re si basa sulla percezione della differenza dei rapporti fra i partecipanti. Di solite

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 25

nella relazione complementare si ha una posizione di dominanza da una parte e una posizione di sottomissione dall'altra. In questo caso possono giocare coppie di opposti, come attivo-passivo, ablativo-egoista ecc.

Secondo la prospettiva psicologica, la comunicazione diventa quindi la base co­stitutiva dell'identità personale e della rete di relazioni in cui ciascuno è inserito. Si stabilisce in tal modo un rimando continuo fra relazione interpersonale e comunica­zione. Non vi è l'una senza l'altra, in quanto le relazioni sono intrise di comunicazio­ne e la comunicazione vive attraverso le relazioni. T al e interdipendenza conduce alla creazione dei giochi psicologici, di varia natura e di differente intensità, che spaziano in tutte le manifestazioni degli esseri umani (dalla seduzione alla guerra, alla compe­tizione, alla persuasione, alla relazione d'aiuto, alla cooperazione ecc.).

Di conseguenza, la comunicazione risulta essenziale per generare, alimentare e conservare il benessere psicològico fra le persone, così come essa è alla base delle manifestazioni più svariate della sofferenza psicologica, dalle più leggere a quelle più gravi. Accanto a forme standard (o di default) di comunicazione, improntate a un sufficiente grado di trasparenza, di lealtà e di pertinenza, esistono numerose forme di discomunicazione e di comunicazione patologica, caratterizzate dall'ambi­guità, dall'equivocità, dalla cripticità e dalla paradossalità degli enunciati, del tipo: Io non sono quello che avrei dovuto essere se tu fossi stato quello che avresti dovuto essere, ma che, in realtà, non sei stato (cfr. cap. 10).

7. Verso una definizione di comunicazione

7.1. La distinzione fra comunicazione, comportamento e interazione

Da quanto è stato finora esposto, emerge che la comunicazione, oltre che esse­re una dimensione complessa ed essenziale per la specie umana come per altre specie animali, costituisce una categoria di fenomeni e di processi che sfumano in altre categorie concettuali simili. Occorre, pertanto, procedere a opportune distin­zioni, al fine di evitare pericolose confusioni. Dire che i fiori «comunicano» con gli insetti per favorire l'impollinazione è un grave equivoco, oltre a essere un evidente errore. In particolare, occorre distinguere il concetto della comunicazione da quelli del comportamento e dell'interazione.

Il comportamento può essere definito come qualsiasi azione motoria Distinzione fra com­di un individuo, percepibile in qualche maniera da un altro. Esso può , portamento e comu­avere luogo a qualsiasi titolo, sia per ragioni coscienti e volontarie, sia in nicazione

maniera automatica e riflessa. Sotto questo aspetto una dichiarazione di amore e l'estensione della gamba come risposta al colpo del martelletto sul ginoc­chio sono entrambe comportamenti. È una categoria generica, estremamente vasta, teoricamente onnicomprensiva.

Come conseguenza, comportamento e comunicazione costituiscono due catego­rie mentali distinte, anche se fra loro vi è un rapporto di inclusione: la prima inclu­de la seconda ma non viceversa. Infatti, ogni comunicazione è un comportamento, in quanto si esprime attraverso azioni manifeste; ma non ogni comportamento è una comunicazione, in quanto esistono numerose forme di comportamento che possono essere informative ma non comunicative.

La sovrapposizione concettuale fra comportamento e comunicazione, radicaliz-

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26 PREMESSE

zata da Watzlawick, Beavin e J ackson [1967], ha implicato nefaste conseguenze teoriche, poiché, se si fanno coincidere comunicazione e comportamento, tutto diventa comunicazione (anche l'azione più accidentale e inconsapevole) e non si ha più alcuna possibilità di comprendere quali siano le proprietà e le specificità della comunicazione in quanto tale, dalla significazione all'intenzione, alla condivisione, al percorso di senso ecc. Tale prospettiva è una pesante eredità del behaviorismo e, se si riduce la persona a una «scatola nera» (black box), anche il concetto medesi­mo di comunicazione svanisce e diventa semplicemente inutile.

Occorre inoltre procedere a un'ulteriore separazione concettuale fra informa­zione e comunicazione, a cui abbiamo già accennato nel par. 4 di questo capitolo. La prima consiste nell'acquisizione di conoscenze inferi te in modo autonomo da parte di' B nei confronti di A, anche se quest'ultimo non ne è stato consapevole. È in gioco- un processo di estrazione di informazione che dipende soltanto dalle com­petenze di B. Per contro, la comunicazione esige la presenza di un'intenzione co­municativa che è sempre la combinazione simultanea di due livelli intenzionali: i) l'intenzione di A di comunicare qualcosa a B; ii) l'intenzione di A che il suo atto comunicativo sia riconosciuto in quanto tale da B (cfr. cap. 7).

In terzo luogo occorre distinguere fra interazione e comunicazione. Distinzione fra co-municazione e inte- Con il primo termine si intende qualsiasi contatto (sia fisico che virtuale) razione awenga fra due o più individui, anche in modo involontario, in grado di

modificare lo stato preesistente delle cose fra di loro. Sotto questo aspet­to uno sguardo prolungato, un indirizzo sbagliato di e-mail o un urto casuale sono tutti atti interattivi, poiché chiamano in causa a qualche titolo due o più individui, indipendentemente dalla loro storia e dal loro grado precedente di conoscenza reciproca. Per contro, la comunicazione richiede uno scambio consapevole e rico­nosciuto come tale da parte dei partecipanti.

Pertanto, l'interazione costituisce una categoria mentale che include quella di comunicazione, in quanto ogni comunicazione implica un'interazione, ma non ogni interazione implica una comunicazione. Risulta degno di nota il fatto che in queste distinzioni la categoria dell'interazione si colloca in una posizione intermedia fra quelle di comportamento e di comunicazione.

+ Entro questa prospettiva la comunicazione può essere definita come uno scambio interattivo osservabile fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condivzdere un deter­minato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di signi/icazione e di segnalazione secondo la cultura di rz/erimento.

Occorre, tuttavia, precisare che, pur procedendo alle opportune distinzioni, la comunicazione costituisce una categoria generale di fenomeni molto eterogenei fra loro: dalla Costituzione della Repubblica Italiana a uno sguardo laterale nel gioco della seduzione. Essa presenta confini sfuocati e diffusi, poiché non costituisce una categoria discret.a e chiusa, bensì un aggregato di fenomeni e di processi che varia­no per precisione, per intensità, per importanza, per complessità, nonché per livel­lo di coscienza. Accanto a gesti e messaggi quasi automatici (come la risposta al telefono) vi sono gesti e messaggi altamente simbolici che implicano una grande consapevolezza (come la proclamazione di un santo).

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INQUADRJ\MENTO STORICO E TEORICO · 27

7.2. Le funzioni di base della comunicazione

La comunicazione è un'attività così gratificante per l'essere umano (e non solo) che spesso si comunica per il piacere di comunicare. In queste situazioni la comu­nicazione diventa fine a se stessa. Ma anche in queste condizioni, come nella gene­ralità delle altre situazioni, la comunicazione è caratterizzata da due dimensioni basilari che costituiscono la sua essenza: a) la funzione proposizionale, b) la funzio­ne relazionale. Si tratta come di due facce della stessa medaglia che si integrano e che entrano in un gioco di interdipendenza reciproca, pur mantenendo ciascuna il proprio valore. In realtà, si tratta di «metafunzioni», poiché ciascuna di esse racco­glie sotto di sé altre funzioni più specifiche.

• La funzione proposizionale della comunicazione. La comunicazione serve a elaborare, organizzare, «impacchettare» e trasmettere conoscenze fra i partecipanti all'interno di una determinata comunità. Parliamo qui di funzione «proposizionale» in senso generale, poiché le conoscenze non rimangono a uno stato indeterminato e vago, bensì sono raccolte, organizzate e veicolate sotto forma di proposizioni. Il pensiero infatti elabora concetti, idee, schemi, immagini mentali ecc. in formati disponibili alla comunicazione.

È in gioco, anzi tutto, la conoscenza dichiarativa, intesa come la totalità delle conoscenze disponibili nella memoria a lungo termine di un individuo. Essa svol­ge una funzione referenziale, in quanto consente una rappresentazione adeguata della realtà in base alla propria esperienza e permette di individuare e di riferirsi a oggetti o eventi del mondo circostante. Svolge altresì una funzione predicativa, poiché consente di attribuire proprietà e qualità agli oggetti (o eventi) in esame, di «predicare» i loro aspetti generali e distintivi.

Nell'ambito della conoscenza dichiarativa, seguendo Tulving [1972], si può procedere alla distinzione fra conoscenza episodica e conoscenza semantica. La prima concerne conoscenze riguardanti episodi accaduti nel passato in cui sono esplicitate le coordinate spazio-temporali (come in Ieri siamo andati" al ristorante a pranzo); per contro, la seconda comprende conoscenze generali in cui le coordinate spazio-temporali non sono prese in considerazione (come in Si va al ristorante sol­tanto nelle occasioni importanti).

Parlare di funzione proposizionale della comunicazione significa inol- .· 11 linguaggio rende tre riconoscere appieno la rilevanza del linguaggio per la specie umana, comunicabile il pen­poiché consente di organizzare e di comunicare il pensiero. n linguaggio, . siero infatti, rende comunicabile il proprio pensiero, in quanto gli fornisce una forma comprensibile dagli altri. In generale, i significati linguistici non sono sepa­rabili dai concetti. Esiste infatti una stretta interdipendenza fra pensiero e linguag­gio (come approfondiremo nel cap. 4), in quanto la concettualizzazione, la signifi­cazione e la comunicazione si intersecano reciprocamente in processi fortemente embricati fra loro. Jackendoff [1992; 1997] ha sostenuto con vigore la posizione della unitarietà fra concetti e significati, poiché la struttura concettuale è compati­bile con le informazioni elaborate dai differenti sistemi di rappresentazione menta­le, da quella percettiva a quella motoria, a quella linguistica ecc. Questi diversi si­stemi sono in interazione, oltre che fra di loro, anche con il sistema centrale. Gra­zie a tale interdipendenza è possibile parlare di ciò che si vede, di ciò che si sente o di ciò che si prova. Questo passaggio dai sensi al senso (significato) consente di tradurre in forme proposizionali l'esperienza percettiva, affettiva, immaginativa ecc.

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28 PREMESSE

Anche se non si segue la posizione estrema di J ackendoff e si ritiene che concetti e significati costituiscano due livelli distinti di rappresentazione mentale della realtà (cfr. cap. 6), essi sono profondamente interdipendenti e si influenzano reciproca­mente in modo sostanziale.

Le proprietà della composizionalità del linguaggio

Occorre aggiungere che il linguaggio consente l'elaborazione, l'orga­nizzazione e la trasmissione delle conoscenze, poiché, in quanto sistema di simboli, è caratterizzato in modo intrinseco dalla composizionalità, ossia dal fatto di essere costituito ricorsivamenie grazie a unità componi­

bili [Bara 1999]. Il contenuto semantico di un enunciato dipende sia dalla sua di­sposizione globale sia dal valore semantico delle sue unità costituenti. li significato di (21):

(21) Il piccolo Cesare guardava Olimpia

dipende sia dall'ordine con sui sono disposte le parole sia dal valore semantico delle singole parole (il piccolo, Cesare, guardava, Olimpia). Si ha un significato to­talmente diverso cambiando la struttura dell'enunciato come in (22):

(22) Olimpia guardava il piccolo Cesare

Infine, non si ottiene nessun significato se non si rispetta la struttura frasale prevista dalle regole sin tattiche come in (23 ):

(23) Guardava piccolo il Olimpia Cesare

La composizionalità del linguaggio comporta una serie di proprietà quali: a) la sistematicità, in quanto ogni linguaggio è regolato da una struttura sintattica e, di conseguenza, gli enunciati di un dato linguaggio sono componibili non in modo arbitrario ma solo seguendo le regole sintattiche previste· da tale linguaggio; b) la produttività, poiché il linguaggio permette di generare e di comprendere un nume­ro infinito di significati, in grado - a loro volta - di generare e di comprendere un numero infinito di enunciati; c) la possibilità di dislocazione, in quanto la referenza spaziale o temporale cui un dato enunciato si riferisce, può essere diversa da quella in uso durante l'enunciato medesimo, come in (24):

(24) Ci vediamo martedì prossimo davanti all'università (enunciato detto al bar)

In questa prospettiva il significato costituisce la chiave di volta per comprende­re gli aspetti proposizionali della comunicazione, poiché i significati non sono real­tà discrete, unitarie e granitiche, ma sono costrutti componibili ed eterogenei. I significati si possono analizzare, smontare nelle loro parti, aggiustare, ricomporre, possono subire processi di comparazione, ecc. (sul significato cfr. cap. 6).

Un processo equivalente si ha con le immagini mentali che consistono in rap­presentazioni mentali idonee a «raffigurare» situazioni percettive anche in assenza dei corrispettivi stimoli sensoriali. Esse non sono fotocopie statiche della realtà, ma sono strutture mentali flessibili e dinamiche, per cui è possibile cercare particolari, realizzare forme di zoom mentale, fare delle rotazioni e delle inversioni ecc. Recen­temente Kosslyn e Rabin [1999], in base a un approccio analogico-computazionale, hanno definito le immagini mentali come configurazioni spaziali temporanee, ope-

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INQUADRAMENTO STORlCO E TEORlCO 29

ranti nella memoria di lavoro, generate da rappresentazioni simboliche più astratte presenti nella memoria a lungo termine. In effetti, è possibile attivare aree cerebrali organizzate in modo topografico facendo ricorso soltanto a immagini mentali visi­ve, anche con gli occhi chiusi e in assenza di stimolazioni prossimali.

La funzione proposizionale della comunicazione è quindi strettamen- ; La mente umana ha te legata alla capacità computazionale della mente umana, ossia alla di- un carattere compu-sposizione generale della mente a procedere nei confronti della realtà con : tazionale calcoli, a confrontare elementi, a cogliere le differenze fra loro esistenti, a fare paragoni, a disporre gli oggetti e gli eventi in ordine, a categorizzarli in un sistema tendenzialmente esaustivo di categorie ecc. Uackendoff 1997]. Questa ten­denza a «fare calcoli» mentali (sia logici che pratici), a seguire diverse forme di ragionamento (deduttivo, induttivo e abduttivo; cfr. cap. 7), nonché a «misurare» i processi è alla base della proposi'zionalità del pensiero che definisce, a sua volta, il formato comunicabile di quanto uno ha in mente. La computazionalità del pensiero presuppone e implica forme proposizionali di comunicazione che assumono la struttura e la configurazione del linguaggio.

La computazionalità del pensiero e la proposizionalità del linguaggio sono la condizione essenziale per procedere a vari modi di elaborazione delle informazioni e delle conoscenze, dalle forme più concrete e tangibili alle forme più astratte e intangibili. Particolare attenzione meritano queste ultime, che, grazie all'impiego sistematico di simboli e di formule, hanno favorito lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche in tutti gli ambiti dell'esistenza umana. L'astrazione dei processi mentali è sostenuta dall'astrazione dei linguaggi formali, come quelli pre­visti dalla matematica e dalla logica. La possibilità di disporre di linguaggi formali fornisce all'essere umano un potente dispositivo cognitivo e logico per elaborare modelli ·empre più sofisticati e avanzati, per gestire la complessità, nonché per approft :lire la conoscenza della realtà nei suoi vari aspetti.

Il linguaggio, inoltre, non soltanto consente l'elaborazione e la trasmissione delle conoscenze (dalle forme più astratte a quelle più concrete), ma favorisce an­che il processo di incremento progressivo e di arricchimento cumulativo delle cono­scenze attraverso forme di sedimentazione culturale, di trasmissione e di partecipa­zione (cfr. cap. 4 su comunicazione e cultura). n cosiddetto «patrimonio culturale» delle conoscenze che è alla base del progresso scientifico e tecnologico è reso pos­sibile soltanto mediante i processi di comunicazione.

A conclusione di questo punto è opportuno porre in evidenza che la proposi­zionalità della comunicazione attraverso il linguaggio è specie-specz/ica, poiché ap­pare esclusiva della specie umana, sebbene forme incipienti di manipolazione sim­bolica e di forme referenziali dei suoni siano state osservate anche presso altre spe­cie animali, soprattutto presso i primati non umani (cfr. cap. 2).

e La funzione re/azionale della comunicazione. Oltre a svolgere la fun- ,-~----·"''' , .... ~ La comunicazione

zione proposizionale, la comunicazione è deputata a realizzare la funzio- ! genera, rinnova e •· ne relazionale, poiché la rete delle relazioni in cui uno è inserito - dalla i modifica le relazioni . nascita alla morte - è costruita, alimentata, rinnovata, modificata dalla """'""'·~~~·.,=· ··· ' ·· · · ··

comunicazione. Non è soltanto un problema di espressione delle emozioni o di stati interni, bensì è in gioco il fatto stesso di generare e di definire le relazioni nella e attraverso la comunicazione. La comunicazione infatti è la radice della socia-lità intrinseca di cui parla Vygotskij [1956].

Gli atti linguistici, al pari dei segnali non verbali (come il contatto visivo, il

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30 PREMESSE

sorriso, un certo tono della voce, una sequenza di gesti e una data postura del corpo, la mutualità e la sintonizzazione del ritmo del parlato ecc.) possono favorire l' awio di uno scambio e di una conoscenza fra estranei, anche se awiene in modo casuale. In funzione della disponibilità reciproca tale awio può proseguire nel cor­so del tempo e può diventare un rapporto più regolare e, a seconda delle circostan­ze, può assumere forme più o meno profonde di vicinanza e di intimità.

Oltre a generare e a sviluppare una interazione con gli altri, la comunicazione, nel suo complesso, risulta fondamentale nel mantenere e rinnovare le relazioni nel corso del tempo. Una volta stabilita una relazione con una certa persona, essa va alimentata in continuazione attraverso gli scambi comunicativi. Una relazione non può vivere nel vuoto ma va costantemente sostenuta con segnali e con messaggi che confermino e rafforzino il tipo di relazione in atto fra due o più persone, sia essa 'uria relazione di dominanza o di amore o di cooperazione. In questo senso la comunicazione svolge altresì la funzione espressiva, poiché consente di manifestare le emozioni, i desideri, le intenzioni ecc. che uno awerte nel proprio interno.

Parimenti, gli atti comunicativi sono particolarmente efficaci nel cambiare una relazione in corso. Non è detto che un certo tipo di relazione debba rimanere im­mutata nel corso del tempo. Spesso in ambito familiare, in un'organizzazione azien­dale, ospedaliera o scolastica, nell'esercito e nelle forze militari, all'interno di un partito politico vi è l'esigenza di modificare il sistema delle relazioni per l'awicen­damento dei vertici, per impedire o prevenire modi sterili di attività o per curare manifestazioni patologiche di interazione (forme più o meno conclamate di follia).

Infine, anche l'estinzione di una relazione, di norma, è gestita e regolata dalla comunicazione. In questa condizione si assiste a una riduzione progressiva o a una interruzione repentina dei contatti, a una presa di distanza fisica, a una diminuzio­ne degli aspetti affettivi ecc. Di solito, la separazione e la rottura di una relazione sono assai più difficili e impegnative di quanto non sia la sua costruzione. Anche in questo frangente la comunicazione svolge una funzione fondamentale nel processo di mediazione per la separazione, in qUanto può favorire un processo graduale di distanziamento reciproco, come è ben noto alle agenzie di mediazione.

ror-~- ··-- ··: -- ... ··"'"~· ,~,.--~ In generale, l'efficacia relazionale della comunicazione dipende dalla ~ ccorre d1st1nguere ' · h · f · · 1 · h t fra interazione e re- t stretta connessiOne c e estste ra mteraztone e re aztone, c e appartengo-~ lazione l. no tuttavia a due livelli concettuali diversi. L'interazione è una realtà tan­L.~~~-,.--.,- ... -.. ,~.,.,_._,,j gibile e consiste in un evento circoscritto in termini temporali e·spaziali,

nonché in uno scambio comportamentale direttamente osservabile fra i partecipan­ti. Può essere uno sguardo reciproco, i saluti, una conversazione al telefono, una riunione, un consiglio di classe o di amministrazione ecc. La sequenza regolare e continua del medesimo tipo di interazioni genera nel tempo prevedibilità e, come risultato, produce la formazione di un modello interattivo fra i partecipanti mede­simi che prende il nome di relazione. Quest'ultima, quindi, è un modello intangi­bile che costituisce il prodotto cumulativo della storia delle interazioni, in grado di generare e alimentare credenze, aspettative e vincoli sulle specifiche interazioni in corso o future. La relazione concerne il modo con cui sono percepite e interpretate le interazioni in essere.

Pur appartenendo a due livelli logici differenti, interazione e relazione sono in stretta interdi'pendenza recz'proca. Infatti, le singole interazioni sono in grado di con­fermare e rafforzare, attenuare, modificare o smentire una certa relazione. Vi è quindi la possibilità di un cambiamento relazionale entro una prospettiva di conti-

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INQUADRAMENTO STORICO E TEORICO 31

nuità. D'altra parte, la relazione suscita aspettative, genera credenze e previsioni, stabilisce regole e vincoli in grado di influenzare l'interazione in corso in una deter­minata direzione piuttosto che in un'altra.

A conclusione di questo punto occorre porre in evidenza la relazio­nalità della comunicazione, in quanto genera e rinnova le relazioni ed è alla base della intersoggettività dialogica nella negoziazione dei significati e nella condivisione di scopi. Questo aspetto, pur essendo molto forte e

Relazionalità comu­nicativa e intersog­gettività dialogica

decisivo nella specie umana, non è specie-specifico, ma è condiviso, sia pure con modalità profondamente differenti, anche da altre specie animali. In generale, le specie che presentano una maggiore organizzazione sociale sono quelle che hanno altresì forme più articolate di comunicazione sotto il profilo relazionale, soprattutto fra le scimmie e i primati non umani (cfr. cap. 2).

Occorre, infine, sottolineare che le due funzioni di base della comunicazione qui analizzate - quella proposizionale e quella relazional~ - pur essendo. attivate e regolate da processi mentali distinti e differenziati, sono fra loro interdipendenti per default. Si tratta di una interdipendenza intrinseca, poiché, di norma, non vi è un aspetto senza l'altro, anche se certi sistemi di significazione e di segnalazione (come quello linguistico) enfatizzano la funzione proposizionale e altri sistemi pri­vilegiano in modo elettivo la funzione relazionale (come i sistemi non verbali di significazione e di segnalazione). Ma, di solito, un atto comunicativo genera signi­ficati sia in termini conoscitivi sia sul piano relazionale.

8. Considerazioni conclusive

A conclusione di questo capitolo introduttivo di inquadramento che ha seguito un percorso storico e teorico nell'accennare ai principali punti di vista con cui è stata affrontata l'analisi della comunicazione, è opportuno fare alcune considerazioni finali.

Anzi tutto, occorre porre in evidenza che la comunicazione costituisce un'atti­vità universale e globale che va a toccare tutti gli aspetti dell'esperienza umana, nessuna esclusa, da quella più intima e privata a quella pubblica e ufficiale, dal­l' area giuridica a quella commerciale, dall'ambito educativo e formativo a quello organizzativo, dai mass media e da Internet alla realtà politica nazionale e interna­zionale, dall'ambito religioso a quello clinico (medico e psicologico), dalla seduzio­ne alla menzogna, dalla persuasione all'ironia e così via.

Per questa ragione la comunicazione, al pari degli altri oggetti di indagine e di analisi, è oggetto interdisciplinare di studio da parte di numerosi punti di vista scientifici assai diversi fra loro, come la matematica e l'informatica, la semiologia, la semantica e la pragmatica, le neuroscienze e la psichiatria, l'antropologia, la socio­logia, l'etologia e la psicologia. Ognuna di queste discipline ha aperto una propria prospettiva con cui esaminare e comprendere i fenomeni della comunicazione umana e animale.

A fronte di questa complessità, rilevanza e vastità l'analisi scientifica della co­municazione è relativamente recente rispetto ad altre discipline che affrontano, per esempio, lo studio della materia (come la fisica e la chimica) o degli organismi vi­venti (come la biologia e la medicina). Pur essendo recente, sono assai rilevanti i progressi scientifici registrati nel corso di questi ultimi decenni in riferimento alla comprensione dei fenomeni e dei processi comunicativi.

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32 PREMESSE

Tuttavia, si è ancora molto lontani da una teoria unitaria, in grado di illustrare la comunicazione (umana e animale) nel suo complesso. È un traguardo oltremodo ambizioso, molto difficile da raggiungere (forse impossibile), ma pur sempre un'ambizione a cui aspirare. In ogni caso è una sfida che ci sta di fronte e che non si può ignorare. I prossimi capitoli di questo volume intendono essere una ipotesi di lavoro a questo riguardo, pur privilegiando il punto di vista della psicologia .

. , Per affrontare l'ambito generale della psicologia della comunicazione si può far riferi­;i mento a Anolli e Ciceri [1995a]; Bara [1999]; Mininni [1995, 2000]; Villamira e Brac­;~ co [1995]; Villamira e Roggeroni [1999]. Per la semantica e la pragmatica si vedano ~ Chierchia [1997]; Grice [1989]; Levinson [1983]; Rigotti [19~9]; Sbisà [1989, 1995]. ~ Per la sociologia della comunicazione si rimanda a Bovone [2000]; Livolsi [2000]; Ro­{ sengren [2000]. ,, ;,r~.~Y""'~{':~f:;r~~·;:7·~~:o-:,:.,o.s_:~~·~::''-~----= -~,:..--· ,,~~--~;!/"'"~~·;;)_;r;i:~~-J~.::-~:.:;.~-,:-?.::.~?:7-_r;.;.::":.·~~;: .. , s-~~~~~?f;;E";>.~~·r.:._:.:,_~ :;-:.::-J:-::"""fi!:,»:::.;;-;r.;;:-:;.~~~~,~~~;) ::~;_;;;,:;:';-.:~r.~,-:-.:-~:-~.fi~:~:.~:;.::.i~·:...;;·.~,-.;;:; -::···-.::::-::t~:,·

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La comunicazione non verbale

La comunicazione è un'attività complessa che fa riferimento a una molteplicità di differenti sistemi di significazione e di segnalazione. Fra questi ultimi, occorre porre attenzione ai sistemi della comunicazione non verbale, in quanto sistemi di­stinti dalla comunicazione verbale. In realtà, entro il termine collettivo di «comu­nicazione non verbale» (CNV), oggi chiamata anche «comunicazione extra-lingui­stica», è compreso un insieme alquanto eterogeneo di processi comunicativi, che vanno dalle qualità paralinguistiche della voce, alla mimica facciale, ai gesti, allo sguardo, alla prossemica e all' aptica, alla cronemica per giungere fino alla pastura, all'abbigliamento e al trucco. .

Occorre precisare che ciascuna delle aree della CNV costituisce un ambito spe­cifico di indagine. Vi sono aree in cui si sono già fatti notevoli passi in avanti (come lo studio della voce, della mimica facciale e dei gesti); altre aree invece sono ancora agli inizi (come la prossemica, l'aprica e la cronemica). In ogni caso, anche se nel corso degli ultimi trent'anni si è realizzata una mole enorme di ricerche con l'ausilio delle recenti tecnologie audio-video, lo studio della CNV rimane tuttora in una fase incipiente, data la complessità degli argomenti da indagare. Infatti, non sono state ancora individuate né teorie soddisfacenti né categorie esplicative esplicite. In parti­colare, data la continuità delle variabili in osservazione, è difficile trovare un consenso fra gli studiosi circa la definizione dei criteri di protocollarità, in grado di «ritagliare» unità discrete nel continuum dei gesti, dei movimenti facciali o della tensione delle corde vocali. In questo capitolo esaminiamo la CNV sia in relazione alla comunica­zione verbale (o linguistica) sia come ambito autonomo. Al termine del capitolo ana­lizzeremo le principali funzioni psicologiche svolte dalla CNV.

1. La comunicazione non verbale: dove la natura incontra la cultura

Occorre anzi tutto indagare l'origine della CNV. Secondo la psicologia ingenua essa è ritenuta più spontanea e «naturale» della comunicazione verbale, più «rive­latrice» degli stati d'animo dell'individuo, in quanto lascerebbe trapelare in modo

i. Questo capitolo è di Luigi Ano/li.

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208 F< >NDt\MENTI

inconsapevole le sue intenzioni, anche in contrasto con quanto sta dicendo. Inoltre la CNV rappresenta una sorta di «linguaggio del corpo» e, in quanto tale, universa­le, esito dell'evoluzione filogenetica e regolato da precisi processi e meccanismi nervos1.

A questo riguardo sono state assunte diverse posizioni. • La concezione innatista e la teoria neuroculturale. ·La concezione innatista

della CNV fa riferimento alla prospettiva di Darwin secondo cui le espressioni fac­ciali sono il risultato dell'evoluzione della specie umana e hanno un carattere di universalità. Esse sono «inutili vestigia di abitudini ancestrali», in quanto i movi­menti che all'origine servivano a qualche scopo e che svolgevano una data funzione nelle esperienze emotive (attacco, difesa ecc.) sono stati mantenuti come abitudini che si svolgono in modo automatico anche quando non ve n'è più necessità. Que­ste abitudini acquisiscono, di conseguenza, lo status di segnali di quelle emozioni e hanno lo scopo di comunicarle ai consimili.

La concezione di Darwin fu ripresa da Tomkins [1962; 1963] e dai suoi allievi Ekman [1972; 1984; 1994] e lzard [1977; 1982; 1994]. Quest'ultimo ha proposto la teoria differenziale delle emozioni, le quali, attraverso l'esecuzione di programmi ner­vosi innati, producono la configurazione di determinate espressioni facciali e di mo­vimenti corporei. Il feedback generato da tali azioni è trasformato in un processo consapevole e si conclude nell'esperienza emotiva corrispondente. A sua volta, Ek-

man ha elaborato la teoria neuroculturale, secondo cui esiste un «program­La teoria neurocul-turale ma nervoso» specifico per ogni emozione, in grado di attivare attraverso

un insieme di istruzioni l'azione coordinata di determinati muscoli facciali. Tale «programma» assicura l'invariabilità e l'universalità delle espressioni facciali associate a ciascuna emozione. Rispetto a questo «programma» i processi cognitivi di valutazione possono intervenire a seconda delle circostanze e sono in grado di indur­re la comparsa di «interferenze» e di modificazioni, definite da Ekman regole di esi­bizione (display rules). Queste ultime, culturalmente apprese, possono modificare la manifestazione non verbale delle emozioni attraverso quattro modalità: intensi/icazio­ne delle espressioni, attenuazione, inibizione (o soppressione), mascheramento (o si­mulazione). In ogni caso prevale la forza del «programma nervoso» garantendo una manifestazione e un riconoscimento automatico e universale delle emozioni. La pro­spettiva innatista è quindi una prospettiva biologica che enfatizza la rilevanza deter­minante del corredo genetico e dei processi legati all'ereditarietà per spiegare i diversi sistemi di CNV, in particolare delle espressioni facciali.

•~La prospettiva culturalista. Secondo la prospettiva culturalista, «ciò che è mostrato dal volto è scritto dalla cultura». Questo aforisma sintetizza la posizione culturalista, secondo cui la CNV è appresa nel corso dell'infanzia al pari della lin­gua e presenta variazioni sistematiche da cultura a cultura, dal sistema dei gesti alle espressioni facciali. In questa prospettiva l'enfasi è posta sui processi di differenzia­zione, che conducono a forme non verbali uniche ed esclusive, sottese a differenze qualitative irriducibili. Questa posizione, sostenuta in particolare da Birdwhistell [1970] e Klineberg [1935], finisce per cadere in una forma radicale di relativismo culturale, difficilmente sostenibile e oggi non più seguita praticamente da nessuno studioso.

• La prospettiva dell'interdi'pendenza fra natura e cultura. Tuttavia, sia la pro­spettiva innatista sia quella culturalista si sono dimostrate parziali e unilaterali nel­l' enfatizzare un unico punto di vista. Oggi è diventata prevalente la prospettiva

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L\ (tl;'vlUNIC,\t:IONL NON \'IIU3!\LL 209

della interdipendenza fra natura e cultura per spiegare la CNV. Le strut- lnterdipendenza tra wre nervose e i processi neurofisiologici condivisi in moJo universale a natura e cultura livello di specie sono organizzati in configurazioni differenti secondo le culture di appartenenza.

La CNV si fonda su circuiti nervosi specifici (cfr. cap. 3) deputati all'attivazione e alla regolazione dei movimenti sottesi alle diverse forme della CNV (dalla mimica facciale ai gesti, all'aprica ecc.). Intervengono a questo riguardo sia il sistema pirami­dale (che comprende l'area motoria e l'area premotoria) sia il sistema extrapiramzdale (situato nel corpo striato e nel tronco encefalico) ad attivare, a gestire e a controllare· l'enorme varietà dei movimenti nelle loro diverse configurazioni in termini di esten­sione, di precisione, di intensità, di plasticità ecc. I sistemi piramidale ed extrapirami­dale agiscono in modo coordinato e sincrono attraverso una serie di circuiti funzio­nalmente interconnessi e di meccanismi interdipendenti che facilitano o inibiscono l'attività dei motoneuroni per l'esecuzione e gli aggiustamenti progressivi dei movi­menti volontari, nonché per l'influenza sulle reazioni motorie automatiche (riflessi miotattici) o semi-volontarie che accompagnano tali movimenti.

In questa attività nervosa si integrano processi elementari automatici, di ordine inferiore, con processi volontari e consapevoli, di ordine superiore. Pertanto, la CNV, pur essendo vincolata da meccanismi automatici di base, non esula dal con­trollo dell'attenzione e della coscienza ed è soggetta a forme più o meno consistenti di regolazione volontaria nelle sue espressioni. Questa variabilità del grado di con­trollo procede secondo un continuum neuropsicologico, da manifestazioni involon­tarie (come la dilatazione della pupilla in caso di attrazione sessuale) a manifesta­zioni pienamente consapevoli ed esplicite (il gesto emblematico dell'autostop o di OK in caso di successo).

Questa plasticità della CNV pone le condizioni per l'apprendimento di diverse forme della CNV. Per alcune di esse, come i gesti, si possono avere forme di ap­prendimento assai simili a quelle che si realizzano per il linguaggio (come per il linguaggio dei segni dei sordomuti); per altre l'apprendimento, pur essendo presen­te, è meno consistente (come la mimica facciale). Anche per i diversi sistemi di si­gnificazione e di segnalazione della CNV si attivano i processi di condivisione con­venzionale all'interno di ogni comunità di partecipanti. Le predisposizioni geneti­che sono declinate, di volta in volta, secondo linee e procedure distinte e differen" ziate che conducono a modelli comunicativi diversi e, talvolta, assai distanti fra loro. È sufficiente pensare alla grande distanza culturale fra la CNV dei giapponesi e quella delle popolazioni latine. Nella scuola dei samurai vige l'ideale della sop­pressione delle emozioni e il volto assume il valore di una maschera immobile alla luce di una severa autodisciplina. La cultura giapponese è la cultura del silenzio (e non della parola) e della distanza (e non della vicinanza). Per contro, nelle società latine la manifestazione delle emozioni è incoraggiata e sostenuta in base al princi­pio della spontaneità e della naturalezza. Le culture latine sono culture della parola (e non del silenzio) e della vicinanza (e non della distanza).

2. Rapporto fra comunicazione verbale e comunicazione non verbale

L'atto comunicativo è prodotto dal comunicatore e interpretato dal destinatario sulla base di una molteplicità di sistemi di significazione e

Sistemi non verbali di significazione

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210 FOND,\,\IFNTI

di segnalazione. Assieme al codice linguistico, chi comunica fa contemporanea­mente riferimento a una serie coerente e unitaria di sistemi non verbali di signi­ficazione e di segnalazione, come quello vocale, quello cinesico (movimenti dei corpo, del volto e degli occhi), quello prossemico e quello cronemico. Ognuno Ji questi diversi sistemi concorre alla generazione e all'elaborazione del significato Ji un atto comunicativo, producendo una specifica porzione di significato che parteci­pa alla configurazione finale del significato medesimo. Questa condizione è stata interpretata secondo due impostazioni antitetiche: a) la prima, proposta dalla psi­cologia tradizionale, ritiene che esista una distinzione dicotomica fra ciò che è lin­guistico e ciò che non è linguistico in un'ottica di contrapposizione; b) la seconda, elaborata più recentemente, prevede un processo di integrazione e di interdipen­denza semantica fra i diversi sistemi di segnalazione, pur conservando ciascuno la propria autonomia.

2.1 . L'ipotesi della contrapposizione dicotomica fra linguistico ed extra-linguistico

Nella psicologia tradizionale la scoperta dell'importanza degli aspetti non ver­bali nella comunicazione ha coinciso con l'ipotesi di una distinzione dicotomica fra ciò che è linguistico e ciò che è extra-linguistico. L'impostazione seguita era di natura meccanicistica e additiva, in quanto la comunicazione era considerata come la somma fra le componenti verbali e quelle non verbali, come se esse, oltre a esse­re autonome, non fossero connesse fra loro. All'interno di questa prospettiva, alcu­ni studiosi hanno sottolineato il contributo essenziale delle componenti non verbali nella comunicazione e hanno sostenuto che il 65% del significato di un messaggio è da esse generato [Birdwhistell1970]. In tal modo il non verbale assumerebbe il valore predominante nella determinazione del significato, poiché la quota semanti­ca prodotta dal non verbale sarebbe di gran lunga superiore a quella veicolata dal verbale. Per contro, altri studiosi come Rimé [ 1984] hanno difeso la tesi opposta e hanno affermato che il non verbale incide molto poco (o, addirittura, per nulla) sul piano del significato, mentre interviene assai di più sul piano emotivo. Il non ver­bale è «inserito dentro» al linguaggio e costituirebbe una sorta di «coloritore» del verbale. Il non verbale aggiungerebbe soltanto «sfumature di significato» al lingui­stico che manterrebbe un valore primario e, forse, esclusivo nella determinazione del significato. La CNV sarebbe soltanto una «ancella» rispetto al linguaggio. Questa diatriba sul peso relativo da attribuire al verbale e al non verbale nella determinazione dell'atto comunicativo ha favorito l'enfasi sulla contrapposizione fra questi due sistemi di significazione e di segnalazione come se essi fossero opposti e antitetici, e come se la loro combinazione .meccanicistica e additiva fosse una con­dizione necessaria e sufficiente per generare il significato finale di un messaggio. In particolare, sono state analizzate le differenze fra il verbale e il non verbale secondo tre assi fondamentali.

+ Funzione denotativa vs. funzione connotativa. Anzi tutto, il ver­Denotativo vs. con- baie avrebbe la funzione di denotare, mentre il non verbale avrebbe la notativo

funzione di connotare. In particolare, il linguaggio è concepito come un codice forte in grado trasmettere conoscenze in modo preciso e definito. Esso è ca­ratterizzato dalla presenza - a differenti livelli- di consapevolezza e di controllo e ha una funzione propriamente semantica, in quanto designa e veicola i contenuti

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1..\ U l;\ll:NJ\ ,\11< lNL i'<Ol'\ \Tl\1\ALE 211

della comunicazione (il «che cosa» viene detto). Per contro, il non verbale ha una funzione espressiva, caratterizzata dal fatto di essere spontanea e poco controllata, per lo più come riproduzione ecoica e mimesi degli stati interni dell'individuo. Essa riguarda le modalità con cui i contenuti sono veicolati (il «come» viene detto). Al verbale sarebbe di pertinenza l'informazione semantica, mentre al non verbale spetterebbe l'informazione affettiva.

In realtà, si tratta di una ipotesi poco sostenibile. Infatti, il significato è la con­vergenza di una molteplicità di componenti - verbali e non verbali - ciascuna delle quali contribuisce a definire una determinata configurazione semantica di una pa­rola, di un gesto o di una frase (cfr. la sintonia semantica cap. 7).

+ Arbitrario vs. motivato. La seconda distinzione riguarda la dimen- Arbitrario vs. motiva­sione fra gli aspetti arbitrari e quelli motivati della comunicazione. I pri- to mi, caratteristici del linguaggio, sono generati dalla relazione convenzio-nale fra l'immagine acustica (significante) e la rappresentazione mentale (significa­to). Il segno linguistico è arbitrario, poiché è regolato da un rapporto di semplice contiguità. Non vi è nulla della realtà luna nella stringa di suoni Il-u-n-al (o /m-o­o-n/); è sufficiente cambiare un fonema (per esempio, il fonema /a/ al posto di /u/) affinché cambi totalmente significato (da luna a lana). Per contro, gli elementi della CNV hanno un valore motivato e iconico nell'esprimere un certo eve~to e tratten­gono in sé degli aspetti della realtà che intendono evocare. In questo senso essi sarebbero «motiva-ti», in quanto vi sarebbe un rapporto di similitudine fra l'unità non verbale e quanto viene espresso. Per esempio, un urlo di dolore esprime lo strazio di questa emozione, e tanto più lo strazio è forte quanto più l'urlo diventa lacerante (fino a giungere all'urlo dipinto da Munch). Da notare che l'urlo di do­lore è diverso dall'urlo di rabbia o di paura. Ognuna di queste manifestazioni non verbali conterrebbe in sé aspetti specifici (cioè, motivati) delle diverse emozioni menzionate.

Ma questa distinzione dicotomica è stata superata dallo studio sull'iconismo 7 fonosimbolico, secondo cui i suoni di una lingua, oltre al carattere di arbitrarietà, ··~ hanno anche una funzione evocativa [Dogana 1990]. Basta pensare alle onomato-pee e alle sinestesie, nelle quali un suono richiama eventi che riguardano altre di­mensioni sensoriali (per esempio, la vocale anteriore /i/ è associata a qualcosa di piccolo, sottile, acuto, chiaro, pulito, fresco e allegro; per contro, la vocale posterio-re /u/ è associata come suono a qualcosa di grande, pesante, piatto, grave, sporco, triste e lugubre). Nell'ambito della comunicazione di marketing o della psicologia politica questo diverso valore espressivo dei fonemi è ampiamente utilizzato per creare il nome di prodotti slogan o sigle. Per esempio, per evocare leggerezza, lu­minosità e pulizia si fa ricorso alle vocali anteriori /i/ ed /e/ o la consonante /11, mentre per evocare forza, potere, durezza e grandezza si fa ricorso alle vocali po­steriori /a/ e /o/ e alle consonanti occlusive sorde /p/, /t/, /k/ e alle occlusive so-nore /b/, /d/ e /g/.

+ Digitale vs. analogico. Di solito, la distinzione fra digitale e analo- Digitale vs. analogi­gico è associata a quella fra arbitrario e motivato. Secondo la psicologia co tradizionale il codice linguistico è considerato digitale, poiché i fonemi sono ritenuti tratti diacritici distintivi e oppositivi (vedi l'esempio di prima fra luna e lana). Per contro, gli aspetti non verbali hanno un valore analogico, in quanto presentano variazioni continue e graduate in modo proporzionale («analogo») a ciò che intendono esprimere, così come la colonnina di mercurio del termometro si

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212 f'ONDMvlENTI

innalza in modo corrispondente e analogo all'aumento della temperatura. Tanto più un'emozione di gioia cresce, tanto più i gesti di soddisfazione e il sorriso diven­tano ampi e distesi. Sotto questo aspetto gli aspetti non verbali sarebbero spontanei e immediati, non controllati e «naturali». Tuttavia, in questa prospettiva non si tengono in debito conto i processi e le varia­zioni culturali e convenzionali sottese alla produzione e alla regolazione della CNV. Anche i sistemi non verbali di significazione e di segnalazione presentano aspetti di arbitrarietà e sono influenzati dagli standard della cultura di appartenenza.

2.2. L'autonomia dei sistemi non verbali e la loro interdipendenza semantica

La prospettiva tradizionale non appare più sostenibile, poiché non soltanto semplifica i fenomeni in studio ma soprattutto non spiega i processi di composizio­ne e di articolazione del significato. Oggi prevale una concezione integrata fra gli aspetti verbali e quelli non verbali nella definizione del significato di un atto comu­nicativo. Le molteplici componenti che determinano la configurazione finale di un significato, sono governate in modo coerente e unitario grazie al processo della sintonia semantica (cfr. cap. 7). Questo fatto contribuisce a illustrare la complessità e la parziale indeterminatezza del significato di qualsiasi atto comunicativo. Infatti, ognuno di essi, pur avendo un significato modale prevalente, presenta variazioni e . sfumature di significato che possono diventare oggetto di negoziazione e di appro­fondimento da parte dei partecipanti.

Parimenti, le diverse componenti linguistiche ed extra-linguistiche di un dato atto comunicativo sono trasmesse facendo ricorso a una molteplicità di sistemi di significazione e di segnalazione (cfr. fig. 8.1). Ognuno di essi è dotato di una rela­tiva autonomia, in quanto concorre in modo specifico e distinto a generare il pro­filo finale del significato. Ciò che è comunicato con gli occhi è diverso da ciò che è comunicato con le parole, con il tono della voce, con i gesti o con le espressioni facciali. T aie autonomia funzionale dei diversi sistemi rinvia al principio della mo­dularità, poiché ognuno di essi rimanda a un «modulo comunicativo» indipendente. n concetto di modulo, a cui qui si fa riferimento, è diverso da quello introdotto da Fodor [1983] e si allinea maggiormente con la proposta teorica di Coltheart [2000] (versione debole del modularismo). Qui per «modulo comunicativo» si intende un processo di segnalazione caratterizzato dalla specificità di dominio (dove «dominio» è inteso come la classe di stimoli a cui un certo modulo risponde in fase di input e di output) e dalla dissociabilità funzionale. Quest'ultima consiste nella possibilità di avere dissociazioni funzionali all'interno del medesimo modulo: per esempio, vi sono soggetti che hanno gravi deficit nella percezione dei volti e una percezione intatta delle parole (e viceversa).

lnterdipendenza se- I contributi provenienti dai diversi moduli e sistemi comunicativi mantica sono assemblati e convogliati in modo sincronico nella produzione di un

dato messaggio attraverso una rete associativa di connessioni simboliche, tenendo presenti le caratteristiche contingenti della situazione. Entra in azione un processo di interdipendenza semantica che costituisce l'esito della sintonia seman­tica (cfr. cap. 7). Essa garantisce per default l'unitarietà e la coerenza del significato dell'atto comunicativo e conduce alla definizione del significato modale. n processo di interdipendenza semantica, inoltre, lascia gradi di libertà e spazi di gioco per

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L\ COMUNIC:r\ZIONE NON VERilr\LE 213

VERBALE LINGUISTICO PROSODICO

VOCALE PARALINGUISTICO OUALIT À VOCALI NON

EXTRALINGUISTICO LINGUISTICO

NON VOCALE CINESICO

a) MIMICA FACCIALE

b) SGUARDO

• direzione dello sguardo • durata • reciprocità • fissazione oculare

C) GESTI E POSTURA

• gesticolazione (gesti iconici) • pantomima • emblemi (gesti simbolici) • gesti deittici • gesti motori • linguaggio dei segni • postura del corpo

d) PROSSEMICA E APTICA

• territorialità • contatto corporeo • distanza spaziale

{HGURA 8.1. Rappresentazione schematica della pluralità e dell'articolazione dei sistemi di significazione e :..-.. ,:··

di segnalazione verbali e non verbali.

assicurare la necessaria flessibilità e variabilità nella produzione e interpretazione di un messaggio. Grazie a tale interdipendenza l'individuo ha modo di procedere all'attribuzione di pesi diversi alle singole componenti dell'atto comunicativo. Egli ha la possibilità e l'opportunità di accentuare il valore di una determinata componen­te, dando a essa prominenza e rilievo o di attenuare quello di un'altra. Per esem­pio, nel pronunciare una frase di rimprovero egli può aumentare la durata delle pause per dare solennità a quanto sta dicendo o può fare un gesto di ammiccamen­to del tipo: «non posso non fare questa osservazione». In tal modo si pongono le condizioni per la focalizzazione di un determinato percorso comunicativo, e per la definizione del fuoco comunicativo (cfr. cap. 7).

Nel medesimo tempo, la sintonia e l'interdipendenza semantica con- Calibrazione situa­sentono al parlante di giungere a un'attenta calibrazione situazionale del . zionale suo atto comunicativo, in linea con i vincoli e con le potenzialità offerte dal contesto. Tale calibrazione consiste in un messaggio che idealmente copre le opportunità a sua disposizione, giungendo alla produzione del «messaggio giusto al momento giusto». Il raggiungimento di questo traguardo è possibile grazie alla va­riazione e graduazione continua dei segnali non verbali, in quanto essi non hanno,

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di norma, confini precisi. Pertanto, all'interno del medesimo sistema di segnali non verbali non è possibile separare in modo netto e discreto una categoria rispetto a quelle contigue. Di conseguenza, questa graduabilità consente al soggetto di «misu­rare» l'estensione e l'intensità dei suoi segnali non verbali.

lnterdipendenza e sintonia semantica, focalizzazione comunicativa e ed efficacia comuni-

calibrazione situazionale sono alla base dell'efficacia comunicativa. Que-cativa st'ultima può essere considerata come un indice di sintesi del valore co-

municativo di un messaggio e consiste nella capacità di individuare un percorso co­municativo che massimizzi le opportunità e che minimizzi i rischi contenuti all'in­terno di un'interazione. La massimizzazione è associata a una comunicazione per­suasiva in grado di aumentare la fiducia, la credibilità e la forza di attrazione del comunicatore (cfr. cap. 11); per contro, la minimizzazione è associata all'evitamen­to di condizioni comunicative imbarazzanti e incresciose, come una gaffe, un mes­saggio inopportuno ecc. Parimenti, questi fattori contribuiscono in modo efficace a illustrare l'oscillazione del significato fra stabilità e instabilità (cfr. cap. 6). Non vi è mai un significato completamente stabile né uno completamente instabile, ma un signz/icato stabile che presenta aree di instabilità. Questa mescolanza fra fissità e variabilità, fra prevedibilità e imprevedibilità è il fattore principale che rende intri­gante la comunicazione umana. Analizziamo ora i principali sistemi non verbali di significazione e di segnalazione.

3. Il sistema vocale

La voce manifesta e trasmette numerose componenti di significato oltre alle parole. È impossibile pronunciare una parola qualsiasi come sedia o libro senza una maggiore (o minore) partecipazione e senza una qualche indicazione di inte­resse (o di disinteresse). Nell'atto di pronunciare una parola, assieme agli elemen­ti linguistici (o segmentali) sono associati gli aspetti prosodici dell'intonazione e quelli paralinguistici (o soprasegmentali) del tono, del ritmo e dell'intensità dèl-1' eloquio. La sintesi degli aspetti vocali verbali e degli aspetti vocali non verbali costituisce l'atto fonopoietico [Anolli e Ci ceri 1997 a]. Esso fa riferimento al ca­nale vocale-uditivo che richiede una quantità minima di energia fisica, consente la trasmissione e la ricezione dei segnali a distanza (anche in assenza di visione), è caratterizzato da rapida evanescenza e assicura un feedback completo. Infatti, possiamo udirei come ci odono gli altri, mentre non possiamo vederci come ci vedono gli altri.

3.1. Le componenti della comunicazione vocale

La voce va intesa come una sostanza fonica, composta da una serie di fenome­ni e processi vocali. Fra di essi ricordiamo i principali: a) i riflessi (come lo starnu­to, la tosse, il russare, il rutto, lo sbadiglio), i caratteri'zzatori vocali (come il riso, il pianto, il singhiozzo) e le vocalizzazioni (i suoni vocalizzati come mhm, ah, eh che costituiscono le cosiddette «pause piene»); b) le caratteristiche extra-linguistiche intese come l'insieme delle caratteristiche anatomiche permanenti ed esclusive del­l'individuo; esse sono ulteriormente suddivise in caratteristiche organiche (cioè, la

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1..\ ((J~Il'Nl<.Vl<lNJ: NllN \T.I\1\.\1.1 215

specifica configurazione anatomica c le dimensioni dell'apparato fonatorio dell'in­dividuo) c in caratteristiche fonetiche (cioè, l'insieme delle modalità con cui egli impiega il suo apparato fonatorio, come la voce nasalizzat:1 o palatalizzata); c) le caratteristiche parrdinguistichc, definite come l'insieme delle proprietà acustiche transitorie che accompagnano la pronuncia di qualsiasi enunciato e che possono variare in modo contingente da situazione a situazione.

Le caratteristiche paralinguistiche, essenziali per comprendere la co- Le caratteristiche municazione vocale non verbale, sono determinate da diversi parametri: paralinguistiche i) il tono che è dato dalla frequenza fondamentale (F

0) della voce; esso è

generato dalla tensione delle corde vocali (più esse sono tese, più il tono è acuto; più sono distese, più il tono è basso); l'insieme delle variazioni del tono nel corso della pronuncia di un enunciato determina il profilo di intonazione; ii) l'intemità che consiste nel volume della voce, prodotta dalla pressione ipolaringea e dalla forza fonorespiratoria; essa varia da un volume debole a uno molto forte ed è con­nessa con l'accento enfatico con cui il soggetto intende sottolineare un determinato segmento linguistico dell'enunciato rispetto agli altri; ùi) il tempo che determina la successione dell'eloquio e delle pause; esso comprende diversi fattori come la dura­ta (cioè, il tempo necessario per pronunciare un enunciato, comprese le pause), la velocità di eloquio (numero di sillabe al secondo comprese le pause) e la velocità di articolazione (numero di sillabe al secondo escluse le pause), la pausa, intesa come sospensione del parlato, che è distinta in pause piene (riempite da vocalizzazioni del tipo mhm, ehm ecc.) e pause vuote (cioè, periodi di silenzio).

In base a questa articolazione, l'atto fonopoietico è costituito da una compo­nente vocale verbale (o linguistica) e da una componente vocale non verbale. La prima comprende: a) la pronuncia di una parola o frase (fonologia), b) il vocabo­lario (lessico e semantica), c) la grammatica (morfologia e sintassi), d) il profilo prosodico (tonìa conclusiva, interrogativa, sospensiva, esclamativa ecc.), e) la pro­minenza (rilievo enfatico o accentuazione di un elemento). A loro volta, le componenti vocali non verbali determinano la qualità della voce di un Aspetti vocali non

verbali individuo. Essa va intesa come la sua «impronta vocalica», generata dal-l'insieme delle caratteristiche exçra-linguistiche e paralinguistiche sopra menzionate. Grazie a questa «impronta vocalica» siamo in grado di riconoscere con facilità una voce familiare in mezzo a molte altre. Le qualità non verbali della voce interessano sostanzialmente quattro ordini di fattori: a) /attori biologici, come il sesso e l'età (gli uomini hanno un tono assai più basso di quello delle donne per la maggiore di­mensione della laringe - il cosiddetto «pomo di Adamo» -; i bambini hanno un tono molto elevato attorno ai 400-500 Hz; i giovani hanno un'intensità più elevata e un ritmo di articolazione più veloce rispetto agli anziani ecc.); b) fattori sociali, connessi con la cultura e la regione di provenienza, con la professione esercitata, con la posizione e la classe sociale di appartenenza ecc. (per esempio, la voce di chi è in una posizione sociale dominante ha un tono di voce medio più basso rispetto a quello di chi è in una posizione di subordinazione; parimenti il profilo vocale medio del manager di azienda è assai diverso rispetto a quello dell'attore, del prete o del politico); c) fattori di personalità, connessi con tratti psicologici relativamente permanenti come l'umore depresso, lo stato di ansietà e di stress, il temperamento euforico ecc. (per esempio, la voce piatta è tipica del depresso e del gregario, men­tre una voce altisonante e veloce è caratteristica di una personalità energica, crea­tiva e orgogliosa); d) /attori psicologici transitori, collegati con le esperienze emotive,

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con gli stati cognitivi Ji certezza o Ji Jubbio o con fenomeni Ji Jiscomunicazione come la seJuzionc, la menzogna, l'ironia e lo humour (cfr. cap. 10).

3.2. La voce delle emozioni

Già le scuole retoriche dell'antica Grecia e di Roma enfatizzavano l'importanza delle proprietà vocali per esprimere le emozioni e sottolineavano la loro efficacia presso l'uditorio. In tempi recenti la psicologia ha affrontato lo studio di questi processi, analizzando in modo distinto sia la fase di encoding sia la fase di decoding.

• Fase di encoding. Nella fase di encoding sono esaminati e misurati ~~~ia ev~~:ione ha i correlati acustici dell'espressione vocale delle emozioni facendo ricorso

·a una varietà di procedimenti (per esempio, impiego di attori professio­nisti o di soggetti «ingenui», il tipo di materiale acustico impiegato ecc.). Nono­stante queste differenze metodologiche, esiste una sostanziale convergenza fra i ri­sultati nel porre in evidenza come ogni emozione sia caratterizzata da un preciso e distintivo profilo vocale.

Dalle quaranta ricerche circa passate in rassegna e dallo studio condotto in Italia da Anolli e Ciceri [ 1997 a] emerge che la collera è caratterizzata da un incremento della media, della variabilità e della gamma della F

0, da un aumento dell'intensità

della voce, dalla presenza di pause molto brevi o anche dalla loro assenza (come voler «espellere» la frase in un'unica emissione del respiro), da un ritmo elevato. Il profilo di intonazione assume variazioni frequenti a forma angolare. La paura viene espressa con un forte aumento della media, della variabilità e della gamma della F0 ,

con una elevata velocità del ritmo di articolazione, con un'intensità della voce molto forte. Distintivi della voce della paura sono rilevanti incrementi nelle perturbazioni della F0 , con i profili delle armoniche assai irregolari che indicano la presenza di tre­more. La voce della paura è quindi sottile, oltremodo tesa e stretta, e segnala la con­dizione di impotenza di fronte a una minaccia (cfr. fig. 8.2b). A sua volta, la tristezza è espressa con un tono basso per il decremento della media e della gamma della F 0 ,

un volume modesto, la presenza di lunghe pause e un ritmo di articolazione rallenta­to. È una voce rilassata e stretta (cfr. fig. 8.2c).

La voce della gioia è qualificata da un incremento della media, della gamma e della variabilità della F o con un tonalità molto acuta e con un profilo di intonazio­ne progressivo, da un aumento dell'intensità e, a volte, da un'accelerazione del rit­mo di articolazione (cfr. fig. 8.2a). Il disprezzo, finora poco esaminato, è espresso attraverso un'articolazione molto lenta delle sillabe e una durata prolungata della frase (i singoli fonemi .dell'enunciato sono scanditi in maniera marcata), con un tono di voce profondo e con un'intensità piena. Anche la tenerezza è caratterizzata da un ritmo regolare, da una tonalità grave e con un profilo di intonazione lineare e da un volume tenuto tendenzialmente basso. È quindi una voce ampia e distesa.

Nell'insieme, questi studi sull' encoding vocale delle emozioni confermano la capacità del canale vocale non verbale nel trasmettere in modo autonomo precise

'- e distinte informazioni circa gli stati affettivi dell'individuo, in maniera indipenden­Ql te dagli aspetti linguistici dell'enunciato.

• Fase di decoding. Le ricerche sulla fase di decoding concernono la Riconoscere la voce delle emozioni capacità di riconoscere e di inferire lo stato emotivo del parlante prestan-

do attenzione soltanto alle sue caratteristiche vocali. Da una rassegna della

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a) Gioia

nonè p o s s b l e non o r a b) Paura

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nonè possibile n o n o a

c) Tristezza

·~t:~ -----

nonèp o ss i b i l e n o n ora

'FIGURA 82_ Esempi di tracciati sonografici a bande strette di gioia (a), di paura (b) e di rristezza (c) in ri-ferimento alla medesima frase: «non è possibile, non ora». Si osservi la voce piena e vibrante

nella gioia; la voce tremante e acuta nella paura (interrotta da pause dovute alla respirazione); la voce debole e piatta nella tristezza.

Fonte: Ano!ii e Ci ceri [ 1997 a].

~dteratura emerge un'accuratezza media di riconoscimento pari al60% (56% dopo la correzione per eliminare le scelte corrette dovute al caso)_ Si tratta di un valore n et­tamente superiore a quello previsto dalle leggi stocastiche (circa il12%), al di sopra delle percentuali di riconoscimento delle emozioni attraverso la mimica facciale. Fra le diverse emozioni, la collera è l'emozione più facilmente riconosciuta, seguita dalla paura; per contro, il disgusto, il disprezzo e la tenerezza sono le emozioni meno fa­cilmente individuate attraverso la voce. In generale, sono più facilmente identificabili le espressioni vocali delle emozioni negative rispetto a quelle delle emozioni positive, in quante le prime sono più connesse con le condizioni di soprawivenza degli indi­vidui.

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Nello studio del decoding si è rilevata particolarmente interessante l'analisi della matrice delle confusioni. Infatti, gli errori non sono quasi mai casuali, ma risultano sistematici attraverso confusioni simmetriche (per esempio, fra la collera e il di­sprezzo, fra la paura e la tristezza) o confusioni asimmetriche (per esempio, fra la tristezza e la compassione, fra il disprezzo e l'ironia e non viceversa).

3.3. Il silenzio

Nello studio del sistema vocale il silenzio merita particolare attenzione. Infatti, in quanto assenza di parola, esso costituisce un modo strategico di comunicare e il suo significato varia con le situazioni, con le relazioni e con la cultura di riferimen­to. In generale, il valore comunicativo del silenzio è da attribuire alla sua ambiguità, poiché può essere l'indizio di un ottimo rapporto e di una comunicazione intensa oppure il segnale di una pessima relazione e di una comunicazione deteriorata. I valori comunicativi positivi o negativi del silenzio riguardano molti aspetti, quali: a) i legami affettivi (il silenzio può unire due persone in una profonda condivisione di affetti o può separarli attraverso sentimenti di ostilità e di odio); b) la funzione di valutazione (il silenzio può indicare consenso e approvazione o segnalare dissenso e disapprovazione); c) il processo di rivelazione (il silenzio può rendere manifesto qualcosa a qualcun altro o può essere una barriera opaca rispetto a una data infor­mazione); d) una funzione di attivazione (il silenzio può indicare una forte concen­trazione mentale o può segnalare una dispersione mentale).

Data la sua natura intrinsecamente ambigua, il silenzio è governato l significati del silen-

da un insieme complesso di standard sociali definiti come le regole del si-zio lenzio. Esse concernono dove, quando, come e per che cosa usarlo, e

vanno imparate dal bambino piccolo, al pari del linguaggio e degli altri sistemi di segnalazione. In generale, si è osservato che il silenzio è associato a situazioni socia­li in cui la relazione fra i partecipanti è incerta, poco conosciuta, vaga o ambigua. In tali situazioni è prudente non esporsi. Infatti si insegna ai bambini di non parlare con gli estranei.

Parimenti, si. è verificato che il silenzio è un atto comunicativo associato a si­tuazioni sociali in cui vi è una distribuzione nota e asimmetrica di potere sociale fra i partecipanti. Nel caso di discrepanza di status sociale, l'individuo che occupa la posizione subalterna tende a mantenersi in una condizione di silenzio e di ascolto. Per esempio, fra i wolof del Senegal il silenzio è una strategia comunicativa per assumere uno status superiore nello scambio dei saluti: saluta per primo chi si percepisce di livello sociale inferiore. Quando si incontrano due persone che si ri­tengono di pari posizione, dopo un certo periodo di silenzio e un saluto ritualistico abbreviato, si chiedono reciprocamente conto delle ragioni per cui ciascuno non ha iniziato a salutare. Anche fra i maori della Nuova Zelanda il silenzio costituisce un importante atto comunicativo per regolare i rapporti sociali: in una conversazione hanno diritto di parola le persone che hanno maggiore potere sociale, mentre chi è giovane o in una posizione subalterna rimane in silenzio per deferenza e rispetto. Situazioni analoghe succedono anche nelle culture occidentali, dove in un'azienda, in un partito, in una scuola parla di più chi ha maggiore peso decisionale e sta più in silenzio chi è in una posizione subordinata.

In funzione della sua complessità, il silenzio presenta importanti variazioni eu!-

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turati (dr. capp. 4 e 9). In generale, nelle culture occidentali (individualistiche), C<lratterizzate da una comunicazione a bassa contestualizzazione, si <:lssiste a una successione rapida dei turni di parola, i tempi di latenza delle pause sono assai ri­dotti e il silenzio è considerato come una minaccia e come una mancanza di coope­razione per la gestione della conversazione medesima. Di conseguenza, si ha una notevole accelerazione nei dialoghi. Per contro, nelle culture orientali (collettivisti­che), qualificate da una comunicazione ad alta contestualizzazione, i partecipanti prendono lunghe pause di silenzio fra un intervento e l'altro, in quanto segnale di riflessione e di ponderatezza. Inoltre, in questo tipo di culture il silenzio è inteso come indicatore di fiducia, di confidenza, di armonia e di intesa.

4. Il sistema cinesica

Il sistema cinesico di significazione e di segnalazione comprende i movimenti del corpo, del volto e degli occhi. I nostri movimenti non sono soltanto strumentali per compiere determinate azioni ma implicano anche la produzione e la trasmissio­ne di significati. Esaminiamo le varie componenti del sistema cinesico.

4.1. La mimica facciale

I creazionisti dell'Ottocento contro cui rivolse la sua polemica Darwin, ritene­vano che il volto fosse la «finestra aperta dell'anima», voluta da Dio per leggere la mente degli altri. Ma, anche senza far ricorso al creazionismo, è fuor di dubbio che i movimenti del volto costituiscano un sistema semiotico privilegiato, in quanto il volto è una regione elettiva del corpo per attirare l'attenzione e l'interesse degli interlocutori. T ali movimenti servono per manifestare determinati stati mentali del soggetto (come certezza, dubbio, confusione ecc.), le esperienze emotive, nonché gli atteggiamenti interpersonali (di attrazione e di awicinamento, di indifferenza o di repulsione e di distanziamento).

e Ipotesi globale e ipotesi dinamica delle espressioni facciali. Un primo aspetto degno di attenzione riguarda i meccanismi sottesi alla produzione delle espressioni facciali. A questo riguardo sono state avanzate due ipotesi opposte. Da una parte abbiamo l'ipotesi globale, secondo la quale le configurazioni espressive del volto per manifestare i diversi stati emotivi sono Gestalt unitarie e chiuse, universalmente condivise, sostanzialmente fisse, di natura discreta, specifiche per ogni emozione e controllate da definiti e distinti programmi neuromotori innati (vedi fig. 8.3 ). Se­condo questa ipotesi, sottolineata soprattutto da Ekman, nello studio delle espres­sioni facciali vanno individuati due livelli distinti di analisi: a) livello molecolare, che concerne i movimenti minimi e distinti dei numerosi muscoli che consentono l' ele­vata mobilità ed espressività del volto; b) livello molare che riguarda la configura­zione finale risultante e che si manifesta nell'assumere una determinata espressione facciale come corrispondente a una data esperienza emotiva.

Facendo riferimento allivello molecolare e basandosi sul metodo delle compo-nenti, Ekman e Friesen [ 1978] hanno elaborato il Facial Action Coding System ? (F ACS) come sistema di osservazione e di classificazione di tutti i movimenti fac- .,~ ciali visibili (anche quelli minimi) in riferimento alle loro componenti anatomo-fi-

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220 l OND:\1\tt:NTI

t ~.,;t.. · r

FIGURA 8.3. Esempi di espressioni facciali di diverse

emozioni a confronto con una espressione facciale «neutra» (al centro).

Fonte: Fernandez-Dols e Carroll [1997].

siologiche. Dopo anni di ricerca è stato possibile distinguere il continuum indiffe­renziato dei movimenti facciali in 44 unità di azione (AU), mediante le quali è possibile analizzar~ oltre 7.000 espressioni facciali nelle loro combinazioni.

La teoria neuroculturale di Ekman (cfr. par. l) ha combinato insieme il livello molecolare e il livello molare, attribuendo al primo l'azione del programma nervoso motorio e affidando al secondo le regole di esibizione e di modificazione del­l'espressione emotiva (come accentuazione o attenuazione, inibizione o simulazio­ne). Tuttavia, l'ipotesi globale e la teoria neuroculturale, che prevedono una corri­spondenza isomorfa fra le espressioni facciali delle emozioni e i programmi neuro­motori corrispondenti, non sono state finora in grado di precisare tali programmi. Inoltre, come osserva Fernandez-Dols [1999], la componente molecolare e quella molare costituiscono due componenti distinte che non possono essere confuse fra loro. In particolare, la teoria neuroculturale è stata oggetto di critiche, in quanto teoria bifattoriale (fattore genetico+ fattore culturale), di natura meccanicistica e additiva, che si limita a «combinare» semplicemente insieme questi due fattori, senza spiegare in che modo interagiscono e si connettono fra loro [F ridlund 1994], come pure ha concepito la cultura come semplice «rumore» e interferenza rispetto ai processi neurobiologici. La teoria neuroculturale appare quindi una razionalizza­zione della psicologia ingenua.

In alternativa, è stata avanzata l'ipotesi dinamica per illustrare la genesi delle espressioni facciali. Essa prevede un processo sequenziale e cumulativo in ogni espressione facciale, in quanto è il risultato della progressiva accumulazione e della integrazione dinamica degli esiti delle singole fasi della valutazione della si­tuazione interattiva ed emotiva, come appare nella fig. 8.4. Tale accumulazione e

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integrazione dinamica comportano la sincronizzazione dei cambiamenti nei vari sottosistemi dell'organismo (sistema motorio, sistema di sup­porto, sistema di azione ecc.). Di conseguenza, le espressioni facciali costituiscono delle configurazioni motorie momentanee, dotate di una elevata flessibilità e variabilità, in grado di adattarsi attivamente e in continuazione alle condizioni con­tingenti della situazione. Queste configurazioni motorie, essendo ri­corsive e presentando una certa uniformità in riferimento alle intera­zioni comunicative, acquisiscono un valore modale. Un supporto a que­sta ipotesi viene dalle ricerche elet­tromiografiche sui muscoli facciali, le quali hanno posto in evidenza un flusso continuo delle informazioni nervose in condizioni emotivamente e cognitivamente attivate.

Inoltre, secondo l'ipotesi dina­mica nella produzione delle pro­prie espressioni facciali l'individuo tiene conto nello stesso tempo del­le forze inducenti e di quelle re­strittive, procedendo al controllo della propria manifestazione faccia­le nel flusso degli scambi comuni­cativi. In questa prospettiva agireb­bero in sintonia e in modo interdi­pendente sia i processi neurofisio­

Lt\ COMUNIC:t\ZIONE NON VERBALE 221

FIGURA '8.4. Sequenza di immagini videoregistrate dell'espressione della collera.

logici sia i fattori interpersonali Fonte: Scherer [1992].

nella genesi della CNV del volto. Essa non riguarda soltanto le esperienze emotive ma anche gli stati cognitivi (dubbio, concentrazione ecc.).

• Il valore emotivo vs. comunicativo delle espressioni facciali. A partire dagli anni Novanta, nell'ambito della «psicologia delle espressioni facciali» è sorta una diatriba fra la prospettiva emotiva e quella comunicativa circa la loro funzione. Se­condo la prospettiva emotiva, sostenuta soprattutto da Ekman e Izard, le

La prospettiva eme­espressioni facciali hanno prevalentemente (se non esclusivamente) un tiva valore emotivo, in quanto sono l'emergenza immediata, spontanea e invo-lontaria (non richiesta) delle emozioni e sono governate da programmi neuromotori specifici e definiti. Vi è isomorfismo fra emozione ed espressione facciale: a ogni emozione concepita come categoria discreta corrisponde una determinata espres­sione facciale nel suo insieme come Gestalt unica. È sufficiente guardare l'espres-

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sione facciale di un soggetto per «leggere» l'emozione che egli sta provando. Da qui discendono i corollari della invariabilità culturale delle espressioni facciali e della universalità della loro produzione e riconoscimento.

Questa concezione è stata, almeno in parte, ripresa da Wierzbicka [1999] in termini di semantica delle espressioni facciali, in quanto le espressioni facciali mani­festano un significato oggettivo, indipendente dal contesto e universalmente intel­ligibile. Tale significato è di natura iconica (più che simbolica), generato dalla com­binazione componenziale di otto unità motorie minime (come le sopracciglia solle­vate), su base autoriferita (le espressioni facciali sono sempre in «prima persona, singolare, al tempo presente», in quanto sono le mie espressioni in una data situa­zione e manifestano quello che io sento). Sotto questo aspetto esse sono analoghe alle esclamazioni e alle interiezioni.

A sostegno della prospettiva emotiva Ekman e F riesen [ 1971] hanno verificato che soggetti appartenenti a culture diverse (culture occidentali, giapponese, culture preletterate come i fore meridionali della Nuova Guinea e i dani dell'Iran) presen­tavano valori simili e concordanti nella capacità di riconoscere le emozioni attraver­so le corrispondenti espressioni facciali volontarie (o mimate), anche se nelle popo­lazioni preletterate si è osservata la confusione fra paura e sorpresa. In base a tali dati Ekman ha sostenuto che le espressioni facciali costituiscono «un segnale pan­culturale distintivo per ogni emozione». Tale segnale, di natura discreta, sorge in maniera rapida, automatica e «non richiesta» e corrisponde in modo biunivoco e «naturale» all'emozione corrispondente. Tuttavia, queste ricerche non sono esenti da critiche sia per quanto concerne gli aspetti teorici (per le osservazioni riportate poc' anzi), sia per quanto riguarda gli aspetti metodologici. Infatti, si sono usate foto di espressioni facciali «posate» e volontarie che accentuano i movimenti faccia­li in modo stereotipato; si è fatto ricorso a un disegno sperimentale within-subject che favorisce l'addestramento e l'apprendimento; i soggetti dovevano scegliere la loro risposta entro un elenco limitato di etichette emotive e questa tecnica della «scelta forzata» aumenta di molto la percentuale delle risposte corrette rispetto alla tecnica della «scelta libera»; è molto probabile infine che i soggetti preletterati siano stati influenzati dai feedback forniti dai mediatori culturali [Russell 1994].

In sostanza, i dati osservati sono assai inferiori a quanto ci si aspetterebbe sulla base dell'ipotesi universalista e della teoria neuroculturale (cfr. fig. 8.5). Essi sono

~ comunque superiori a valori semplicemente dovuti al caso. Su questa base Russell e Fernandez-Dols [1997] hanno avanzato l'ipotesi dell'universalità minima, secon­do cui esiste un certo grado di somiglianza fra le culture nell'interpretazione delle espressioni facciali, senza tuttavia prevedere un sistema innato di segnalazione degli stati psicologici (emozioni, stati mentali, intenzioni ecc.), anche se si riconosce la probabilità che in certe condizioni si possano compiere inferenze accurate.

A fronte della prospettiva emotiva, in tempi recenti diversi studiosi La prospettiva co- (fra cui in modo preminente Fridlund [1994] con la teoria dell'ecologia municativa

comportamentale) hanno sostenuto la prospettiva comunicativa delle espressioni facciali. Queste ultime hanno un valore eminentemente comunicativo, poiché manifestano agli altri le intenzioni del soggetto. In funzione del contesto si hanno manifestazioni facciali qualitativamente differenti: uno può sorridere perché è felice ma anche perché è incerto, ansioso, pauroso o perché prova vergogna. Le espressioni facciali hanno un valore sociale, poiché consentono di comunicare agli altri i propri obiettivi e per questa ragione esse sono assai più frequenti e accentua-

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Espressioni:

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Letterati non occidentali (N= 11)

Gruppi culturali

• Collera D Tristezza

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Letterati isolati (N= 3)

lìl Paura D Disgusto

FIGURA 8.5. Valori mediani di riconoscimenro Jelle espressioni facci,lli Ji sei emozioni. Il trattino in bi,mco orizzont,de indie<! il]i,·ello Jei ,·alori attesi per le risposte casuali: N e il numero dci gruppi

culturali esaminati.

Fonte: Russell e Fern,indez-Dols [ 1991].

te durante le situazioni sociali rispetto a quando si è soli. Il fatto, tuttavia, che le persone producano espressioni facciali anche quanto sono sole, è spiegato con il concetto della socialità implicita. Uno non è mai veramente da solo: si può essere fisicamente da soli ma non mentalmente, in quanto siamo sempre in presenza di un uditorio implicito.

La prospettiva comunicativa presuppone un certo grado di separazione fra le espressioni facciali e gli stati interni, nel senso che non tutto ciò che appare sul volto, indica necessariamente una esperienza interna, e che non tutto ciò che uno prova a livello interno, si manifesta sul volto. Sulla base di questa dissociazione /ra interno (esperienza soggettiva) ed e.\·terno (manifestazione) si generano importanti gradi di libertà nella comunicazione. Infatti, a un dato stato interno può corrispon­dere una varietà di espressioni facciali, così come a una certa espressione facciale possono corrispondere stati mentali ed emotivi differenti. Per esempio, il sollevare le sopracciglia può essere dovuto a paura, preoccupazione, tentativo di gw1rdare qualcosa di lontano, concentrazione ecc. Parimenti, scompare la distinzio-

f d · Espressioni facciali ne ra espreuione «autentica» (o genuina, suscitata in mo o automatico d

come messaggio al programma nervoso corrispondente) ed espressione «falsa» (generata

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FIGURA 8.6. Illustrazione dell'importanza del contesto per un riconoscimento corretto delle espressioni emotive. Gwen Torrance, medaglia d'oro alle olimpiadi, è ripresa sul podio in uno dei momenti più felici della sua vita; il

soldato americano tenuto in ostaggio dagli iraniani per 444 giorni è ripreso al suo arrivo in una base americana appena è stato liberato. I dettagli riportati in alto, presi da soli, sono stati interpretati come espressioni di diverse emozioni (quali gioia, tristezza, timore, collera ecc.); quando queste espressioni parziali sono ricomposte nel loro contesto scompare ogni ambiguità.

dall'intervento delle regole di esibizione per motivi culturali), poiché tutte le espressioni facciali hanno un valore sociale. Esse sono «messaggi» inviati agli altri e, in quanto tali, svolgono una funzione comunicativa.

Il valore della prospettiva comunicativa delle espressioni facciali deriva infine dalla importanza fondamentale del contesto. Infatti, le espressioni fuori contesto, considerate in modo isolato sono assai difficili da interpretare e si prestano a nu­merosi equivoci, come appare nella fig. 8.6. Presi in assoluto, i movimenti facciali sono dei semplici movimenti che possono rappresentare condizioni cognitive, emo­tive o sociali fra loro molto diverse. In questo senso i segnali non verbali condivi­dono la medesima esigenza di contestualizzazione che hanno gli enunciati.

Il dibattito attualmente in corso suggerisce un sostanziale cambiamento di pa­radigma rispetto all'approccio degli anni Settanta che, seguendo la prospettiva darwiniana, considerava le espressioni facciali esclusivamente come manifestazione naturale delle emozioni. In realtà, il punto di vista comunicativo applicato a tali espressioni non esclude, anzi assume e ingloba la tematica emotiva, inserendola però in un orizzonte più esteso e più valido sotto il profilo teorico ed empirico.

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l .\ U ),\JliN!<:t\/.1< >NF Nt >N VE!Ulr\LL 225

• IL sorriso. I l soni so è uno dci segnali fondamentali della specie umana e, a livello filogenetico, costituisce una omologia con l'espressione facciale delle scim­mie, consistente nel «mostrare i denti in silenzio» (silent hared-teeth /ace) come atto di difesa e di sottomissione per acquietare e rassicurare il partner. Infatti, l'animale che mostra i denti segnala di non voler usare la dentatura per aggredire.

In ambito umano, il sorriso non è un segnale uniforme e univoco, ma copre una gamma estesa di fenomeni assai diversi fra loro. Ekman e Friesen [1982] ha in­dividuato diciannove configurazioni diverse di sorriso. Fra di esse, si possono qui ricordare il sorriso spontaneo (o .wrriso di Duchenne che per primo a metà dell'Ot­tocento ha individuato questa configurazione) che riguarda il volto intero e che consiste nel sollevare gli angoli della bocca verso l'alto, mostrare i denti

l d l Il sorriso di Duchen-e contrarre i muscoli orbico ari el 'occhio, il sorriso simulato (o sorriso ne non-Duchenne) che consiste nell'attivare soltanto i muscoli zigomatici della parte inferiore del volto senza il coinvolgimento dei muscoli orbicolari, il sor- ? riso miserabile che manifesta l'accettazione di una condizione di necessità spiacevo- -,~ le e che comporta un prolungamento dell'espressione della zona inferiore del volto.

Al sorriso sono state assegnate funzioni psicologiche fra loro diverse. Numerosi studiosi come Darwin [1872] e Frank, Ekman e Friesen [1993] hanno inteso il sor­riso come l'espressione universale di un'esperienza più o meno intensa di gioia e di felicità. Tuttavia il sorriso non ha un legame né necessario né sufficiente con le emozioni, bensì è strettamente connesso con l'interazione sociale [Fernandez-Dols 1999]. Le persone non necessariamente sorridono anche in situazioni di intensa gioia (vedi fig. 8.7), mentre sorridono molto di più quando interagiscono con altri. Il sorriso va inteso come promotore dell'affinità re/azionale, in quanto è impiegato in condizioni di simpatia e di empatia, di rassicurazione e di rappacificazione, al fine di stabilire e di mantenere una relazione amichevole con gli altri. Già i bambi­ni piccoli sorridono quando incontrano altri bambini sconosciuti, e, di regola, il sorriso è una componente regolare dei saluti (almeno nelle culture occidentali). Pa­rimenti, in condizioni spiacevoli, come nel caso di una gaffe, molte persone ricor­rono al sorriso per farsi scusare e per farsi accettare dagli altri. Inoltre, il sorriso, al pari di altri segnali non verbali, è un potente regolatore dei rapporti sociali: la sua frequenza e intensità sono governate dal potere sociale (le persone in condizione subordinata sono vincolate a sorridere di più rispetto alle persone in condizione di potere) e dal genere (le donne sorridono di più degli uomini per motivi di affilia­zione e di compiacenza) (cfr. parr. 5 e 7).

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lFIGURA 8.7. Tre espressioni di gioia in diverse situazioni: un nuotatore al momento in cui si rende conto di aver vinto (a sinistra), un torero subito dopo aver colpito il toro («uno dei momenti più felici della vita», al centro), il vinci­

tore di una medaglia d'oro alle olimpiadi durante la cerimonia (a destra).

Fonte: Fernandez-Dols [1999].

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LA COr\IUNICAZIONE NON VERBALE 231

sionale della mano destra (per illustrare la Madonnina), egli fornisce una rappre­sentazione spaziale, contestualmente definita, di ciò che sta dicendo. Parimenti, i gesti possono aggiungere importanti porzioni di significato alle parole. Per esem­pio, se uno dice criticando un «graffitaro» metropolitano un enunciato come in (2):

(2) Lui sporcava il muro con lo spray, lei lo guardava e non gli diceva: «com fai, cretino», ma stava zitta. Allora gli stava bene anche a lei

e nello stesso tempo accosta in senso longitudinale i due indici delle mani per in­dicare che «lui e lei sono eguali», il parlante integra il significato dell'enunciato con il significato del gesto. Inoltre, i gesti hanno un valore pragmatico, poiché costitui­scono dei marca tori dell'atteggiamento del parlante nei confronti di ciò che sta di- , cendo e, in parallelo, manifestano le sue aspettative sul modo con cui il destinatario deve intendere ciò che sta dicendo. Per esempio, nella cultura napoletana il gesto della mano a borsa è comunemente associato a frasi del tipo (3 ):

(3) Ma che stai dicendo? Ma che fai? Ma che vuoi?

soprattutto quando le credenze o le aspettative del parlante sono poste in discus­sione e nello stesso tempo serve a manifestare irritazione, perplessità e squalifica di quanto l'altro sta affermando o facendo. Anche il gesto delle «mani giunte» è soli­tamente impiegato dal parlante per esprimere l'invito all'interlocutore di esimerlo da certi obblighi o responsabilità, come in ( 4) e in (5):

(4) Ma io bo una riunione fra un minuto (per evitare la richiesta di fare una telefonata) (5) Di 'sta cosa abbiamo parlato per tutta la riunione l'altra volta (per rifiutare di discutere

di un certo argomento)

Già nel 1832 de }orio aveva pubblicato un volume sul «gestire napoletano»; alcune espressioni di tale «gestire» sono riportate nella fig. 8.8.

I gesti iconici accompagnano il discorso in modo sistematico e sincronizzato e, di solito, non sono ridondanti rispetto ai significati espressi dalle parole ma ag­giungono porzioni rilevanti di significato per la determinazione del percorso di

.senso dell'enunciato nella sua globalità (sintonia semantica cfr. cap. 7). Parimenti, . se il parlante interrompe all'imp-rovviso il proprio discorso perché si accorge di

fare un errore, interrompe simultaneamente il gesto che lo accompagna. Di con­seguenza, gesto e discorso sono generati dalla medesima rappresentazione di ciò che si comunica, manifestano la medesima intenzione comunicativa, sono piani­ficati dal medesimo processo e sono realizzati in modo sincronico in riferimento a un dato contesto di uso. Queste condizioni costituiscono una conferma indiret­ta dell'ipotesi del processare comunicativo centrale precedentemente considerato (cfr. cap. 7).

e Gesti e culture. I gesti, più ancora di altri sistemi non verbali, pre- . 1 gesti nelle culture sentano rilevanti variazioni culturali, soprattutto in riferimento agli em-blemi e al linguaggio dei segni. Se prendiamo in esame l'Europa occidentale, vi sono pochi emblemi in comune nelle quaranta regioni studiate da Morris e colleghi [Morris et al. 1979]. Neppure i cenni del capo per dire sì o per dire no sono uni­versali. Infatti, mentre nelle regioni settentrionali dell'Europa si scuote il capo in 7 avanti (in senso verticale) per dire sì e di lato (in senso orizzontale) per dire no, in ~

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FIGURA 8.8. Esempi di gesti napoletani registrati nel­la prima metà dell'Ottocento.

Fonte: De ]orio [1832].

alcune regioni della Bulgaria avviene l'inverso e in alcune regioni dell'Italia meridionale si dà un colpo della testa all'indietro per dire no (come succe­deva nell'antica Grecia).

Il gesto della mano a borsa, che è pressoché sconosciuto in Inghilterra, ha un significato di interrogazione e di perplessità nell'Italia meridionale, significa buono in Grecia, lentamente in Tunisia, paura nella Francia meri­dionale e molto bello presso alcune comunità arabe. In Inghilterra il gesto V (indice e medio divaricati con le al­tre tre dita chiuse) è un gesto osceno se si tiene il palmo rivolto al parlante, mentre significa vittoria con il palmo rivolto verso l'interlocutore; nelle altre culture il gesto V vuoi dire vittoria comunque si tenga il palmo. L'anello formato da pollice e indice che signifi­ca OK negli Stati Uniti e nell'Europa settentrionale, vuoi dire una cosa che conta zero in Francia meridionale. Anche per i gesti iconici (o lessicali) esistono notevoli differenze culturali. Gli italiani del sud, per esempio, fan­no ampio uso di gesti fisiografici, do­tati di un elevato valore pittorico e descrittivo, gli ebrei di lingua yiddish impiegano gesti ideografici per sottoli-

. _uear.eJa .direzione ~~l-p€Hlsier-o c-olle­gando una fràse all'altra: si tratta di gesti contenuti e di estensione limitata, disposti lungo l'asse verticale [Efron 1941].

5. Il sistema prossemico e aptico

Il sistema prossemico e il sistema aptico sono dei sistemi di contatto. La pros­semica concerne la percezione, l'organizzazione e l'uso dello spazio, della distanza e del territorio nei confronti degli altri; l'aptica fa riferimento all'insieme di azioni di contatto corporeo con un altro.

5.1 . Prossemica e territorialità

L'uso dello spazio e della distanza implica un equilibrio instabile fra processi affiliativi (di avvicinamento) ed esigenze di riservatezza (di distanziamento). Abbia-

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L.\ tll:\llJ0Jil .\ZIO:\ L NON \'I:RBAU: 23 3

mo bisogno di mantenere dei contatti con gli altri e la vicinanza spaziale Territorio pubblico e costituisce una premessa in questa direzione. Nel contempo, abbiamo bi- domestico sogno di definire e di proteggere la nostra privatezza e la distanza fisica rappresenta una condizione importante a questo riguardo. La regia di queste oscil-lazioni fra affilinione/vicinanza e riservatezza/ distanza è mediata attraverso la ge-stione della propria territorialità. Il territorio è un'area geografica che assume ri-svolti e significati psicologici nel corso degli scambi di comunicazione. Occorre distinguere fra territorio pubblico e territorio domestico. Il primo è il territorio dove gli individui hanno libertà di accesso, ma che è regolato da norme e vincoli ufficiali e convenzionali. La loro trasgressione è sanzionata. Nel territorio pubblico una certa porzione di spazio è marcata a livello di CNV come propria attraverso segnali e indicatori (come oggetti) e può essere rivendicata come appartenente a sé in quella data circostanza. Il territorio domestico è il territorio in cui l'individuo sente di avere libertà di movimento in maniera regolare e abituale; in esso prova un sen-so di agio e ne possiede il controllo; può essere la propria casa, l'ufficio o il club degli amici. Di norma, il territorio domestico è nettamente distinto da quello pub-blico attraverso precisi confini sia fisici (per esempio, la porta di casa), sia legali (per esempio, la proprietà privata), sia psicologici (per esempio, le reazioni a una invasione di tale territorio).

Inoltre la gestione del territorio personale concerne anche la regola- La distanza interper­zione della distanza spaziale che rappresenta un buon indicatore della sonale distanza comunicativa fra le persone. A questo proposito si è soliti distin-guere diversi tipi di distanza.

+ Zona intima (fra O e 0,5 m circa): è la distanza delle relazioni intime; ci si può toccare, sentire l'odore del partner, avvertire l'intensità delle sue emozioni, parlare sottovoce.

+ Zona personale (fra 0,5 e l m circa): è l'area invisibile che circonda in maniera costante il nostro corpo; è una sorta di «bolla spaziale personale» che ci accompagna in continuazione e la cui distanza varia da interazione a interazione; è possibile toccare l'altro, vederlo in modo distinto, ma non sentirne l'odore.

+ Zona sociale (fra l e 3,5/4 m): è la distanza per le interazioni meno perso­nali; è il territorio in cui l'individuo sente di avere libertà di movimento in maniera regolare e abituale; in esso prova un senso di agio e ne possiede il controllo; può essere la propria casa, l'ufficio o il club degli amici.

+ Zona pubblica (oltre i 4 m): è la distanza tenuta in situazioni pubbliche ufficiali che comporta una enfatizzazione dei movimenti e una intensità elevata della voce.

La regolazione dello spazio assume, pertanto, importanti significati a livello comunicativo, in quanto può favorire i processi di intimità, di dominanza, di mani­polazione del partner per metterlo a suo agio (o disagio). In generale, vige il prin­cipio secondo cui tanto più spazio uno ha a propria disposizione, tanto più gode di una posizione sociale elevata. Tale principio non vale soltanto per le abitazioni private ma soprattutto per gli uffici nelle aziende (private o pubbliche) dove il confronto sociale è assai forte. All'opposto, la violazione del proprio spazio suscita consistenti reazioni di difesa, in quanto essa è percepita come una forma di invasio­ne, nonché come una minaccia.

Esistono, altresì, rilevanti dil.ferenze culturali nella prossemica. Alcune Cultura della distan-'JJC za e della vicinanza

Popolazioni come quelle europee settentrionali, quelle asiatiche e indiane

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234 HlNDMdLNTI

sono caratterizzate da una cultura della distanza: in esse la distanza interpersonale è grande, mantengono un'angolazione obliqua e ogni riduzione spaziale è percepita come invasione. Per contro, altre popolazioni, come quelle arabe, quelle sudameri­cane e latine sono caratterizzate da una cultura della vicinanza, poiché in esse la distanza interpersonale è ridotta, mantengono un'angolazione diretta e la distanza è valutata come freddezza e ostilità. Parimenti, nelle culture occidentali lo spazio pubblico diventa «personale» una volta che sia occupato da un certo soggetto che ne può rivendicare il possesso (come: «questo posto è mio»), mentre nelle culture arabe lo spazio pubblico continua a rimanere pubblico, in ogni condizione. Per contro, in queste ultime culture un individuo ha il diritto di «impossessarsi» di una determinata traiettoria di movimento e di pretendere la precedenza nei confronti di altri; me.ntre in occidente la traiettoria dei movimenti è spesso oggetto di negozia­zione ed è, di norma, governata da regole precise (come il codice stradale).

5.2. L'aptica e il contatto corporeo

L' aptica concerne le azioni di contatto corporeo nei confronti di altri. Si tratta di uno dei bisogni fondamentali della specie umana, al pari di altre specie animali. Infatti, nei primati non umani una percentuale rilevante del tempo è trascorsa nel­l'attività di grooming che comporta un prolungato contatto fisico e che serve a mantenere le relazioni di affiliazione, di dominanza e di sottomissione (cfr. cap. 2).

Nel corso del periodo neonatale e dell'infanzia, il tatto è uno dei canali più importanti di comunicazione e i bambini piccoli manifestano un bisogno innato di contatto corporeo per ragioni sia fisiologiche (come l'allattamento) sia psicologiche (per rassicurazione). Su questa base si crea, fra l'altro, il legame di attaccamento. Di solito, nella cultura occidentale le madri toccano più a lungo le bambine che i bambini. Man mano che cresciamo, abbiamo una esigenza minore di essere toccati dagli altri e, a eccezion fatta di specialisti (come il massaggiatore e il medico), rara­mente siamo toccati dagli altri, soprattutto da parte di estranei.

Nell'ambito dell'aprica si è soliti distinguere le sequenze di contatto reciproco dai contatti individuali. Le prime sono formate da due o più azioni di contatto compiute in modo reciproco nel corso della medesima interazione. Questa ripeti­zione dell'azione del toccarsi comporta una condivisione del suo significato e svol­ge una funzione di «supporto» affettivo all'interno di. una relazione di parità. Il contatto,: individuale è unidirezionale ed è rivolto da un soggetto a un altro. Per entrambi i tipi di contatto vi sono regioni del corpo «non vulnerabili» come le mani, le braccia, le spalle e la parte superiore della schiena che possono essere toc­cate anche da estranei; per contro, le altre regioni sono considerate «vulnerabili» e, di norma, sono toccate soltanto da poche persone (gli intimi e gli specialisti).

In ogni caso il toccare un altro è un atto comunicativo non verbale Funzioni del contat-to corporeo primario che influenza la natura e la qualità della relazione e che esprime

diversi atteggiamenti interpersonali. In particolare riguarda i rapporti amorosi, poiché il contatto corporeo invia messaggi di affetto, di coinvolgimento e di attrazione sessuale. In pubblico, il contatto reciproco assume il valore comuni­cativo di segno di legame che individua la coppia medesima in quanto coppia e che segnala il desiderio di essere lasciata da sola. Nello sviluppo del rapporto amoroso la coppia innamorata presenta manifestazioni pubbliche più frequenti e intense di

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L\ Ul~lUì\ICt\ZIONE :-.!ON VEIU3t\LE 235

contatto fisico rispetto alle coppie casuali e alle medesime coppie di sposati. Inol­rre, nei rapporti amorosi si osserva una reciprocità speculare e sincronizzata di contatto corporeo e tale reciprocità aumenta il grado di attrazione sessuale. Non esistono differenze di genere fra uomini e donne nella quantità globale dei contatti corporei, mentre, di solito, sono gli uomini a iniziare e ad avviare il primo contatto fisico. Alle donne infatti piac~ essere toccate più che agli uomini e il contatto svol­ge una funzione fondamentale per sviluppare un rapporto di intimità. Parimenti il toccare l'altro serve a manifestare un rapporto affettivo positivo in termini di sup­porto, di appartenenza, di apprezzamento e di affiliazione, spesso anche in modo aiocoso. Il contatto corporeo serve anche a comunicare una relazione di dominanza :?

e di potere, poiché, di norma, le persone che occupano una posizione sociale domi-nante hanno la libertà di toccare coloro che sono in posizione con minor potere, e non viceversa. In questo senso il contatto corporeo può manifestare incoraggiamen­to, approvazione, incitamento o un rimprovero scherzoso.

In numerose altre circostanze sociali il contatto fisico è regolato attraverso ri­tuali che vi attribuiscono uno specifico significato legato al contesto di uso. Pensia­mo ai saluti di benvenuto e di commiato: in questo caso il contatto corporeo è una sorta di rito per ristabilire un rapporto dopo un periodo più o meno lungo di as­senza o per gestire una situazione di partenza e di separazione. Pensiamo alle con­gratulazioni che nello sport o in altre attività umane comportano un contatto cor­poreo co_me un bacio, un abbraccio, una stretta di mani ecc. Pensiamo alle cerimo­nie (religiose o laiche) nelle quali sono previsti atti simbolici di contatto fisico (dal battesimo e dalla cresima alla laurea, al conferimento di un premio).

Il contatto corporeo ha una molteplicità di effetti, spesso fra loro contrapposti. La persona che tocca, in generale, è ritenuta cordiale, disponibile ed estroversa e, di norma, suscita simpatia. Questa condizione è stata verificata sia con i camerieri (quelli che toccano brevemente i clienti ottengono più mance), sia con i bibliotecari (quelli che toccano la mano di chi restituisce i libri sono giudicati più simpatici) sia con gli intervistatori (quelli che toccano estranei sono più frequentemente aiutati a raccogliere i fogli caduti per terra). Sotto questo aspetto il contatto corporeo sem­bra favorire forme di accondiscendenza e di empatia. Al contrario, il contatto cor­poreo può suscitare reazioni negative di fastidio e di irritazione fino a giungere alla collera nella situazione in cui sia percepito come una forma di invasione, di sopru­so e di violenza. Infatti, in queste condizioni il contatto è valutato come una costri­zione e una riduzione della propria libertà di movimento.

Al pari della prossemica, esistono rilevanti differenze culturali anche per l'apri­ca. Accanto a culture del contatto come la cultura araba e quella latina, vi sono culture del non contatto come le culture nordiche, quella giapponese e quella india­na. In ogni caso il contatto corporeo rimane un atto comunicativo ambiguo, so­prattutto nelle culture occidentali, poiché trasmette contemporaneamente diversi valori semantici e l'attuale attenzione agli aspetti delle molestie sessuali ha reso più problematica questa modalità comunicativa.

6. Il sistema cronemico

La cronemica concerne il modo con cui gli individui percepiscono e usano il tempo per organizzare le loro attività e per scandire la propria esperienza. Come

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236 FONDAMINII

area di ricerca sulla CNV è ancora agli inizi, ma il tempo è una variabile basilare per la comunicazione. La cronemica, che fa parte della cronobiologia, è influenzata dai ritmi circadiani che riguardano i cicli fisiologici e psicologici del soggetto nel periodo delle 24 ore, come l'alternanza sonno-veglia. Vi sono cicli in/radiani (con un ciclo superiore a un giorno, come il ciclo mestruale) e cicli ultradiani (con diver­si cicli al giorno, come il ritmo respiratorio). I ritmi circadiani mantengono la loro periodicità grazie alla presenza di fattori ambientali, il più importante dei quali è il ciclo di luce e buio. Questi agenti sincronizzatori ambientali (i cosiddetti Zeitgebers) forniscono una configurazione temporale ai ritmi circadiani. Questi.ultimi sono in­fluenzati dall'azione di un orologio biologico interno (il cosiddetto orologio circadia­no) che va più lentamente quando non è governato dai fattori ambientali. Ma essi presentano altresì rilevanti variazioni connesse con i fattori culturali (sincronizzato­ri). In questo ambito si è soliti distinguere le culture veloci da quelle lente.

Le culture veloci sono caratterizzate da un alto grado di industrializ­Culture veloci e cul-ture lente zazione, dal benessere economico, da condizioni climatiche fredde, dal-

l' orientamento all'individualismo e al successo, nonché da una elevata densità della popolazione. Esse hanno una prospettiva temporale orientata al futu­ro, qualificata dalla pianificazione di un traguardo a medio e a lungo termine (obiettivo distale). In questo tipo di società i vincoli temporali sono forti e favori­scono un'organizzazione delle attività secondo una scansione temporale che preve­de di realizzare un'attività per volta (monocronia). In esse domina la concezione che equipara il tempo al denaro, spingendo all'accelerazione dei ritmi di vita, soste­nuta da innovazioni tecnologiche sempre più potenti. Per contro, le culture lente sono caratterizzate da povertà, da condizioni climatiche calde, da un modesto gra­do di industrializzazione, dall'orientamento alla collettività e all'armonia, nonché da una limitata densità della popolazione. Esse hanno inoltre una prospettiva tempo­rale orientata al passato (tradizione) e al presente, senza l'esigenza di una program­mazione anticipata che comprenda un esteso arco temporale (obiettivi prossima/i). Nelle culture lente, inoltre, la modesta suddivisione dei lavori e la limitata specia­lizzazione del tempo consentono la compresenza di diverse attività svolte nel mede­simo tempo (policronia).

Di conseguenza, ogni soggetto è portatore - spesso inconsapevole - di uno spect/ico ritmo personale che dà per scontato sia eguale a quello degli altri. Di nor­ma, le cose non awengono in questo modo, e la comunicazione con soggetti che hanno ritmi biologici e psicologici differenti può generare distonie, sfasamenti e condiziopi di disagio. Per esempio, nelle culture veloci i turni di parola nella con­versazione sono rapidi, efficienti, con pause limitate. Per contro, nelle culture lente le persone trovano offensivo affrettare la conversazione, e fra uno scambio e l'altro amano rispettare lunghe pause e silenzi di meditazione. Ma anche all'interno della medesima cultura individui diversi hanno ritmi circadiani differenti, dal ciclo son­no-veglia alla velocità (o lentezza) nell'assunzione del cibo, nel camminare, nel leg­gere, nel parlare ecc. Tale condizione è alla base di incomprensioni, di frustrazioni e di delusioni reciproche, nonché di fraintendimenti comunicativi.

La cronemica indica la presenza di tempi e di ritmi diversi nell'interazione comunicativa. Non soltanto vi è l'esigenza della sintonia semantica per generare un atto comunicativo coerente e unitario (cfr. cap. 7); ma vi è altresì la necessità della sincronia comunicativa come capacità di sintonizzare il flusso comunicativo al fine di ottenere una sequenza regolare e fluida di scambi (cfr. cap. 7). Si tratta di pro-

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U\ COivtUNtCAZ!(lNE NON VERBALE 23 7

cessi fondamentali, fra l'altro, per generare attrazione e interesse, per creare armo­nia reciproca, nonché per stabilire una interazione globalmente soddisfacente.

1. Le funzioni della comunicazione non verbale

In questa ultima parte del capitolo esaminiamo le principali funzioni svolte dalla CNV. È utile avviare il discorso prendendo in considerazione la funzione basilare (o metafunzione) della CNV.

7 .1. La metafunzione relazionale della comunicazione non verbale

La CNV partecipa in modo attivo e autonomo, assieme al sistema lin- Limiti della CNV guistico, a generare e a produrre il significato di qualsiasi atto comunica-

- tivo. Risulta quindi importante esaminare in che termini e con quale funzione la CNV dia il suo contributo nella generazione ed elaborazione del significato. In ge­nerale, la CNV, pur facendo riferimento a referenti precisi e definiti, fornisce una rappresentazione spaziale e motoria della realtà, non una rappresentazione propo­sizionale. Quest'ultima rimane sostanzialmente esclusiva del linguaggio verbale e del linguaggio dei segni (cfr. cap. 1). Come esito di questa condizione, la CNV­eccetto il linguaggio dei segni - risulta poco idonea a definire e a trasmettere cono­scenze. Concetti e idee astratte (come, per esempio, eventualità, libertà, verità ecc.) sono pressoché impossibili da rappresentare e significare attraverso i segni non verbali. Ma anche eventi od oggetti concreti (come, per esempio, duomo, capanna, foglia, cuocere ecc.) sono assai difficili da far capire facendo ricorso esclusivamente ai segni non verbali. La situazione è ancora peggiore se pensiamo di rappresentare aspetti qualitativi degli oggetti o degli eventi (come, per esempio, casa vecchia) at­traverso i segni non verbali.

Questa condizione è dovuta al fatto che la CNV presenta un grado limitato di convenzionalizzazione. In nessuna cultura si osserva un insegnamento sistematico dei sistemi non verbali di significazione e di segnalazione, né vi sono l'attenzione e la cura riservate all'apprendimento esplicito e prolungato della lingua di apparte­nenza. Eccetto che per alcune norme di galateo, la CNV è lasciata invece a forme di apprendimento latente e implicito, che avviene attraverso il flusso delle intera­zioni quotidiane. Oltre al linguaggio dei segni per i sordomuti, soltanto gli emblemi raggiungono un consistente livello di convenzionalizzazione.

Resta da chiedersi allora per quale ragione facciamo ricorso in maniera La funzione relazio­continua e sistematica alla CNV negli scambi quotidiani. Non può essere naie della CNV soltanto per ragioni di memoria filogenetica, come «inutili vestigia di abi-tudini ancestrali» per dirla con Danvin. A fronte di questo problema si può afferma­re che la specie umana, al pari di altre specie animali, fa ricorso alla CNV per ragioni relazionali. Infatti, alla CNV è affidata in modo predominante la componente relazio­nale della comunicazione (cfr. cap. 1). Infatti, la comunicazione riguarda non soltanto le conoscenze e le informazioni da partecipare con altri («che cosa» è comunicato; componente proposizionale), ma anche (e soprattutto) le relazioni interpersonali («come» è comunicato; componente re/azionale). Nella comunicazione e attraverso la comunicazione noi creiamo e giochiamo le nostre relazioni con gli altri.

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Sotto questo profilo la CNV è destinata a svolgere questa funzione di base (o metafunzione). Infatti, i segnali non verbali servono a generare e a sviluppare una interazione con gli altri. Il contatto visivo, il sorriso, un certo tono della voce, una sequenza Ji gesti e una data postura del corpo, la mutualità e la sintonizzazione del ritmo Jel parlato possono favorire l'avvio di uno scambio e di una conoscenza fra estranei, anche se avviene in modd casuale. La CNV risulta inoltre fondamentale nel mantenere e rinnovare le relazioni nel corso del tempo. Una volta stabilita una relazione con una certa persona, essa va alimentata in continuazione attraverso gli scambi comunicativi. Una relazione non può vivere nel vuoto ma costantemente sostenuta con segnali che confermino e rafforzino il tipo di relazione in atto fra due o più persone, sia essa una relazione di dominanza o di amore o di coopera­ziOne.

Pari'ìnenti, i segnali non verbali sono particolarmente efficaci nel cambiare una relazione in corso. Non è detto che un certo tipo di relazione debba rimanere im­mutata nel corso del tempo. Spesso in ambito familiare, in un'organizzazione azien­dale, ospedaliera o scolastica, all'interno di un partito politico vi è l'esigenza di modificare il sistema delle relazioni per l'avvicendamento dei vertici, per impedire o prevenire modi sterili di attività o per curare manifestazioni patologiche di inte­razwne.

Il cambiamento psicologico delle relazioni passa in modo prevalente attraverso il cambiamento dei segnali non verbali che alimentano e regolano le relazioni stesse. Infatti, la modificazione dei gesti, dello sguardo, della qualità della voce ecc. è conforme e proporzionale con la modificazione di un certo tipo di relazione. Per esempio, nel passaggio da una relazione di sottomissione a una relazione di domi­nanza, in numerose specie animali - compresa quella umana - i segnali non verbali di potere, di forza e di aggressione, attivati dai neurotrasmettitori (come l'aumento dell'adrenalina e la riduzione del cortisolo), indicano un nuovo assetto sociale dei ranghi degli individui. In particolare, la psicologia clinica e la psicoterapia fanno ricorso a un impiego sistematico di determinati segnali non verbali: dal setting psi­coanalitico con il lettino (per cui l'analista può guardare il paziente ma non vice­versa) alla psicoterapia familiare con lo specchio unidirezionale.

Infine, anche l'estinzione di una relazione è regolata dalla CNV. In questa con­dizione si assiste a una riduzione progressiva o a una interruzione repentina dei contatti, a una presa di distanza fisica, a una diminuzione dei gesti affettivi ecc. Di solito, la separazione e la rottura di una relazione sono assai più difficili e impegna­tive di quanto non sia la sua costruzione. Anche in questo frangente la CNV svolge una funzione fondamentale nel processo di mediazione per la separazione, in quan­to può favorire un processo graduale di distanziamento reciproco.

In generale, l'efficacia relazionale della CNV dipende dalla stretta connessione che esiste fra interazione e relazione (cfr. cap. 1). Infatti, i sistemi non verbali qua­lificano per default le singole interazioni e influenzano in modo profondo i modelli relazionali in essere fra i partecipanti. D'altra parte, i sistemi non verbali di comu­nicazione sono in parte appresi dalla propria cultura di appartenenza e sono, a loro volta, modificabili nel corso del tempo. Infatti, è possibile intervenire sulle modalità comunicative non verbali e procedere a una vera e propria educazione del non ver­bale. Essa riguarda, fra l'altro, l'impostazione della voce e della gestualità, la rego­lazione della mimica facciale, dello sguardo e della postura. Tale educazione è svol­ta, di norma, nelle scuole di recitazione teatrale per gli attori e le persone dello

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spettacolo; ma sempre più spesso politici. manager e professionisti avvertono l'esi­genza di fare ricorso a tali forme educative della CNV.

7.2. Le principali funzioni psicologiche della comunicazione non verbale

La CNV, che risulta fondamentale sul piano relazionale, interviene in diversi ambiti psicologici nella manifestazione delle emozioni e dell'intimità, nella relazione di potere e di persuasione, nella creazione dell'immagine di sé, nonché nella gestio­ne della conversazione.

• La manifestazione delle emozioni e dell'intimità. Anzi tutto, la CNV serve a esprimere le emozioni. Se queste ultime fossero affidate esclusivamente al sistema linguistico, non vi sarebbe spazio per loro, poiché anche l'enunciato Ti amo può significare l'opposto se detto con un certo tono e accompagnato da certi gesti ed espressioni facciali. Sotto questo profilo le emozioni sono comunicate prevalente­mente dalla CNV nel suo insieme, in fase sia di produzione sia di riconoscimento. La voce, la mimica facciale, lo sguardo, i gesti, la postura, la distanza fisica ecc. convergono insieme per manifestare una data esperienza emotiva congiuntamente con gli aspetti linguistici in funzione di un determinato contesto di interazione. Questo medesimo quadro di segni non verbali consente di operare le opportune inferenze per procedere al riconoscimento e all'attribuzione di una certa emozione all'interlocutore.

I sistemi non verbali di significazione e di segnalazione presentano un Emozioni e intimità certo grado di universalità, in quanto i movimenti sottesi ai segni non verbali sono governati da strutture e meccanismi neurobiologici geneticamente definiti, ma anche un notevole grado di variabilità, dovuto alle differenze di cultu­ra, di personalità e di contesto. Parimenti, per quanto concerne il controllo dei pro­cessi comunicativi, i sistemi non verbali possono variare da un grado assai ridotto di controllo a un grado elevato di volontarietà. Nel primo caso la CNV corrisponde a una forma di esternalizzazione più o meno automatica di quanto il soggetto prova dentro di sé; possiamo pensare alle manifestazioni sostanzialmente involontarie e automatiche di trasalimento (come, per esempio, nel caso di un forte rumore improv­viso). In questo caso le espressioni non verbali (facciali, vocali, gestuali ecc.) sono simili alle interiezioni e alle esclamazioni, intese come manifestazioni spontanee e «naturali» di ciò che uno sente dentro di sé. In altre circostanze le espressioni emo­tive sono soggette a un importante controllo volontario, come quando ci troviamo in situazioni ufficiali, formali e solenni e in presenza di interlocutori estranei. In questo caso i segni non verbali, al pari delle parole, sono governate da una precisa regia co­municativa in funzione della propria intenzione e traguardo, per assicurare una certa immagine di sé.

In modo analogo, la CNV svolge una funzione fondamentale nelle relazioni di intimità, quando la distanza interpersonale diventa ridotta (cfr. cap. 10). In questi casi aumentano la frequenza e l'intensità dei sorrisi, dei contatti oculari e corporei; lo spazio prossemico si riduce e la voce diventa flessibile, modulata e calda; anche il ritmo degli scambi diventa maggiormente sincronizzato. Si tratta di aspetti fonda­mentali che testimoniano, generano e incrementano il livello di intesa e di armonia fra i due partner. Nella cultura occidentale esiste una notevole differenza di genere, Poiché, se è la donna a comportarsi in modo amichevole e a prendere l'iniziativa

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dell'interazione, i suoi segnali non verbali sono percepiti come più compromettenti sul piano sessuale rispetto ai medesimi segnali realizzati da un uomo. Anche quan­do una relazione si deteriora e diventa tesa e conflittuale, la CNV segnala questo cambiamento con la presenza di variazioni rilevanti. In queste circostanze i partner sempre più frequentemente fanno ricorso a segnali non verbali stereotipati, spesso formalizzati (legali), improntati alla distanza, alla rigidità, alla incomprensione e all'evitamento di assumere le proprie responsabilità comunicative.

• Relazione di potere e persuasione. Per la specie umana, come per altre specie animali, la CNV assume una funzione essenziale nella definizione, mantenimento e difesa della relazione di dominanza. Più che alle parole, il potere è affidato ai se­gnali non verbali. Anzi tutto, l'apparenza fisica, in termini di abbigliamento, di al­tezza e di dimensione corporea suscita la percezione di potere e induce alla confor­mità. Parimenti, la pastura espansiva e rilassata, con la disposizione asimmetrica degli arti superiori e inferiori, è un chiaro segnale non verbale di dominanza, men­tre chi è in posizione di sottomissione tende a mantenere una configurazione rigida e simmetrica, collegata con uno stato di tensione e di ansia. Fra l'altro, quest'ultima condizione è associata con un significativo aumento di cortisolo nell'organismo, mentre chi è dominante ha una forte riduzione di cortisolo.

Chi è sottomesso esibisce il sorriso in modo più frequente come ge-Dominanza e per- d · h d ' suasione sto i sottomissiOne, mentre c i è ominante mantiene un espressione

facciale più seria con il mento proteso in avanti. In eguale maniera egli guarda più a lungo l'interlocutore, soprattutto mentre parla, mentre l'assenza di sguardo nei momenti chiave della conversazione è segno di sottomissione. Inoltre, chi è in una posizione di dominanza tocca gli inferiori in modo più frequente che non viceversa come segnale di controllo; egli tende a parlare con un'articolazione chiara delle parole; la sua voce presenta un ritmo veloce, un volume abbastanza elevato e un tono basso. Nella conversazione parla più spesso, tiene il turno di parola per un porzione più grande di tempo, interrompe più sovente gli altri e ten­de a far prevalere il suo ritmo di eloquio.

Anche la territorialità è un segno non verbale importante di potere. Chi è do­minante segnala la sua posizione con un uso attento dello spazio in termini di quantità e di qualità. Egli dispone di uno spazio personale più ampio che tende a rendere poco accessibile agli altri (per esempio, la segretaria che funge da filtro). Negli ambienti organizzativi chi è dominante lavora in un ufficio più grande e meglio arredato; nel corso delle riunioni occupa la posizione focale. Inoltre fa ri­corso a una serie di segnali visibili per confermare la sua posizione di dominanza. Grazie a questa serie di segnali non verbali la relazione di potere può essere man­tenuta in termini impliciti, come qualcosa di scontato e di acquisito, che non può essere messa in discussione.

In modo analogo il processo di persuasione è notevolmente influenzato dal­l'impiego di una serie di segnali non verbali. Chi guarda di più l'interlocutore, lo tocca lievemente ogni tanto, non si tiene distante da lui e veste in modo convenzio­nale o elegante ha maggiore probabilità di ottenere condiscendenza e di avere suc­cesso nella sua azione di comunicazione persuasiva (cfr. cap. 11).

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s. Considerazioni conclusive

In questo capitolo abbiamo esaminato il valore, il peso e la funzione comunica­tiva della CNV. Abbiamo avuto modo di scartare sia l'ipotesi meccanicistica e ad­ditiva (equazione «linguaggio+ CNV»), sia la concezione «ancellare» della CNV, sia l'impostazione tradizionale che vede il verbale e il non verbale come sistemi contrapposti fra loro, sia infine l'ipotesi della predominanza della CNV. Abbiamo avuto modo invece di considerare la CNV come parte integrante della comunicazio­ne, in quanto partecipa a pieno titolo alla costruzione e trasmissione dei significati all'interno di un'articolazione complessa e sinergica. Abbiamo considerato i vari sistemi di significazione e di segnalazione nella loro specificità e distintività.

In particolare, abbiamo messo in evidenza la funzione re/azionale di base svolta dalla CNV sul piano comunicativo per la genesi e l'alimentazione della rete di re­lazioni entro la quale ogni soggetto si trova a vivere. La CNV, pertanto, assume un valore specifico nel mantenimento e nel cambiamento delle relazioni, in quanto, più del linguistico, coinvolge gli aspetti affettivi ed emotivi. Tale rilevanza compor­ta importanti implicazioni nei vari settori dell'esistenza umana (dall'intimità della famiglia ai contesti pubblici del lavoro, alla gestione della politica, al tempo libero, al campo della cura medica e psicologica, ai contesti giuridici ecc.).

r Per saperne di più f ~ ~ Per approfondire la tematica della comunicazione non verbale si può fare utile riferi-i mento a Amietta e Magnani [ 1998]; Anolli e Ci ceri [ 1997 a]; Argyle [ 1977, tra d. i t. t 1992]; Diodato e Allasia [ 1998]; Guglielmi [ 1999]; Morris [ 1977, tra d. i t. 1990]; L Poggi [1981]; Poggi e Magno Caldogneno [1997]; Ricci Bitti [1987].