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1 La prova per testimoni Roma, 7-8 febbraio 2005 Relatore Luciana Elisabetta Razete Giudice della Corte di Appello di Palermo

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La prova per testimoni Roma, 7-8 febbraio 2005 Relatore Luciana Elisabetta Razete Giudice della Corte di Appello di Palermo

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LA PROVA TESTIMONIALE ammissibilità della prova,: astensione , testimonianza del difensore e segreto d’ufficio Prova a contenuto tecnico Prova dei fatti negativi - deduzione ed ammissione della prova, : -deduzione della prova -la prova contraria e indiretta -ammissione della prova ed intimazione dei testi Potere del giudice di disporre d’ufficio la prova testimoniale, Assunzione dei testi di riferimento Decadenze

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Ammissibilità e rilevanza della prova in genere: La prova è ammissibile se è consentita e non si imbatte in alcun divieto di legge,in definitiva se è conforme al modello normativo(aspetto attinente al suo profilo esterno);è rilevante se conducente ai fini della decisione cioè se idonea a determinare l’accoglimento in tutto o in parte di una domanda o di una eccezione(aspetto attinente a suo profilo interno)Converso,Settimana di Studio per gli uditori,Roma 19-23 magggio 97. Sarebbe pertanto inammissibile la richiesta di provare con testi o con l’interrogatorio formale la conclusione di un contratto preliminare di compravendita o di una procura a vendere aventi per oggetto un unità immobiliare ovvero la prova per testi,inter partes, della simulazione relativa di un negozio(oggetto di uno specifico divieto).Altro requisito di ammissibilità della prova è la sua tipicità cioè la rispondenza ad uno degli schemi previsti dalla legge. La ricorrenza di quest’ultimo requisito va di sovente verificata nella prassi giacchè accade non di rado che i procuratori delle parti formulino istanze istruttorie con una certa approssimazione senza ricondurle ad alcuno dei tipici schemi legali.Sarà quindi compito del giudice interpretare siffatte richieste, e previo invito alla trattazione orale, valutare se siano sussumibili nelle ipotesi normativamente contemplate. Ad esempio, in tema di controversie ereditarie, viene di frequente richiesto di acquisire informazioni presso istituti di credito in ordine ai depositi intestati al de cuius. Al riguardo,premesso che la stragrande maggioranza degli istituti di credito ha ormai assunto la veste di spa e pertanto non potranno essere richieste le informazioni alla P.A di cui all’art.213 cpc,dovrà valutarsi se ricorrano i presupposti per pronunciare l’ordine di esibizione di cui all’art.210 e segg.cpc cui resta subordinata l’ammissibilità dell’istanza(che va esclusa nell’ipotesi di richieste meramente esplorative). Per i mezzi istruttori non propriamente qualificabili come mezzi di prova ,come la consulenza tecnica e la richiesta di informazioni alla P.A., dovrà evitarsi che possano costituire un mezzo sostitutivo dell’onus probandi incombente alle parti; quindi ad esempio la richiesta di informazioni potrà rivolgersi alla P.A. solo ove risulti necessario accertare fatti di cui la parte non è in grado di fornire in alcun altro modo la dimostrazione come nel caso di dati o documenti che non sia consentito esibire o rilasciare ai privati . Il regime preclusivo introdotto dalla novella del 90 ha creato un ulteriore profilo di ammissibilità della prova e cioè quello della sua strumentalità a circostanze e fatti dalla cui allegazione, in punto assertorio, la parte che li deduce non sia decaduta. Ai sensi degli artt. 183 e 184 cpc il termine utile per l’indicazione dei fatti allegati a supporto delle posizioni processuali assunte dalle parti, coincide con la prima udienza di trattazione o , al più tardi, con lo spirare dei termini di cui al quinto comma del citato art. 183: e’ pertanto inammissibile il capitolo di prova formulato a trattazione conclusa(formulato cioè nelle deduzioni depositate nel termine di cui all’art.184 cpc) avente ad oggetto circostanza in precedenza non addotta: Diversamente all’altra parte sarebbe preclusa la dimostrazione diretta dell’inesistenza del fatto nuovo(ad esempio mediante produzione documentale) potendo invero articolare la sola prova contraria(Pretore di Macerata 13.2.97). E’ quindi inammissibile la prova su fatti non precedentemente allegati come ad esempio è inammissibile l’interrogatorio formale o la prova testimoniale finalizzata all’istruzione di una domanda riconvenzionale inammissibile perché proposta in una comparsa di risposta depositata oltre il termine di cui all’art.167 cpc. Quest’ultimo caso così- come l’ipotesi delle eccezioni in senso proprio e della domande nuove - in realtà offre una soluzione agevole ed univoca nel senso della inammissibilità della prova; assai più problematica la soluzione nel caso di allegazione tardiva dei fatti principali, rilevanti ipso iure

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che fondano eccezioni rilevabili anche d’ufficio o anche secondari ; qualora si ritenga ammissibile l’allegazione tardiva dovrebbe ammettersi anche la relativa prova; ma a questo punto ci si chiede se l’ammissibilità di un allegazione tardiva in punto assertorio possa o meno superare le barrire preclusive imposte alle deduzioni istruttorie ( se si ritiene che quei fatti sfuggano alle preclusioni stabilite dall’art.183 e si afferma la legittimità di una loro allegazione tardiva dovrebbe anche ammettersi la possibilità di fornire la prova oltre i termini di cui all’art.184 considerato che lo scarto temporale tra preclusioni assertorie e preclusioni istruttorie è assai limitato ). La dottrina prevalente che ammette l’allegazione tardiva di eccezioni in senso lato e dei fatti secondari esclude che ciò possa comportare il superamento delle preclusioni istruttorie: superati i limiti preclusivi per le deduzioni istruttorie la successiva allegazione di un fatto che fonda un eccezione in senso lato ovvero di un fatto secondario non potrebbe anche essere provata che per il tramite di una prova disposta ex officio, ovvero del giuramento decisorio ovvero in appello1 Analoghi interrogativi si pongono per il caso di ammissibilità della contestazioni tardive. Il principio di non contestazione ha suscitato un vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale , prima di approdare a Sezioni Unite 761/2002 che impone una breve analisi. Secondo Cassazione del 12 maggio 1999 n. 4687 e del 19 marzo 1999 n.2524, e 16 ottobre 98 n.10247, non sussistendo nel nostro ordinamento l’onere a carico della parte della contestazione specifica di ogni situazione di fatto dedotta ex adverso, un fatto allegato da una parte può ritenersi pacifico, così da essere posto a base della decisione ancorchè non provato, alternativamente o quando è esplicitamente ammesso dalla parte onerata della contestazione o quando questa, pur non contestandolo in modo specifico, abbia impostato il proprio sistema difensivo su circostanze o argomentazioni logicamente incompatibili con il suo disconoscimento, non anche quando le difese prescindano del tutto dall’esistenza di tali fatti, i quali, nemmeno implicitamente possono considerarsi ammessi; in definitiva la non contestazione come onere inadempiuto non può consistere nel mero silenzio della parte e la mera assenza di contestazione non vale a rendere indiscutibile la verità del fatto allegato ex adverso . il fatto non contestato è comunque incerto e come tale esige di essere provato. Normalmente si afferma che i fatti allegati possono essere considerati “pacifici”, esonerando la parte dalla necessità di fornire la prova, soltanto quando l’altra parte li abbia esplicitamente ammessi, o abbia impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento dei fatti medesimi, ovvero quando si sia limitata a contestarne esplicitamente e specificamente taluni soltanto, evidenziando in tal modo il proprio non interesse ad un accertamento degli altri. La pacificità dei fatti allegati dalla parte, secondo l’orientamento esaminato, si ha soltanto se vi è ammissione esplicita o implicita della controparte. La contumacia non equivale a mancanza di contestazione e nel caso di costituzione tardiva , non ha senso parlare di contestazione tardiva, giacché tale fenomeno presuppone che sia stato preceduto da un comportamento processuale definibile in termini di non contestazione. In altre parole, delle due l’una: o la contumacia viene equiparata alla non contestazione — ed in tal caso ha senso parlare di contestazione tardiva quando il contumace si costituisca contestando i fatti costitutivi della domanda — o la contumacia non equivale a mancanza di contestazione — allora, però, l’ipotesi del contumace che si costituisca successivamente contestando i fatti costitutivi è fuori del fenomeno della contestazione tardiva, evento che presuppone un precedente contegno processuale definibile in termini di non contestazione. Lo stesso effetto (pacificità del fatto ed espunzione dello stesso dal thema probandum) non si verifica, oltre che in caso di contumacia, anche nelle ipotesi di silenzio o di contestazione generica

1 Così Proto Pisani.

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.Cass. 1° settembre 2000, n. 11495, 19 agosto 1994, n. 7447, , 2 giugno 1994, n. 5359: queste pronunce sono tutte intervenute in controversie di lavoro, nelle quali la Suprema corte, a fronte dell’onere che impone al convenuto, ex art. 416 c.p.c., di prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, sui fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ha escluso che l’inosservanza di tale onere sia sanzionata con la previsione di una qualche forma di decadenza ovvero che comporti esonero per l’attore dall’onere probatorio impostogli dall’art. 2697 c.c., ma si è limitata ad affermare che la contestazione generica, attenendo al contegno della parte nel processo, può essere valutata come semplice argomento di prova ai sensi dell’art. 116, 2° comma, c.p.c. – L’orientamento prevalente tendeva ad attribuire alla non contestazione il crisma della provvisorietà e della reversibilità, anche se non mancavano voci dissonanti, dirette a configurare la non contestazione dei fatti costitutivi quale fenomeno tendenzialmente stabile, non rimediabile con una successiva contestazione. L orientamento prevalente quindi considerava la non contestazione come un fenomeno tendenzialmente reversibile, nel senso che si ammetteva la possibilità di contestazioni tardive conclusione che, sotto il previgente rito, appariva difficilmente confutabile, stante l’assenza di un sistema di preclusioni in tema di attività difensiva (sia assertiva che probatoria) delle parti: Più controversa è la questione nel processo del lavoro, caratterizzato dalla previsione di un accentuato sistema di preclusioni. L’orientamento prevalente era nel senso di attribuire alla non contestazione il crisma della provvisorietà e reversibilità, in base al presupposto che le preclusioni previste dall’art. 416 c.p.c. per le domande riconvenzionali e le eccezioni non rilevabili di ufficio non si estendono alle eccezioni improprie o mere difese, volte alla contestazione dei fatti costitutivi allegati dall’attore a sostegno della domanda, per le quali non è prevista alcuna esplicita comminatoria di decadenza: conseguentemente la contestazione dei fatti costitutivi da parte del convenuto, in quanto equiparabile alle mere difese, poteva intervenire in qualsiasi momento, anche per la prima volta in appello: in tal senso, v. Cass. 18 marzo 1996, n. 2254, 10 novembre 1990, n. 10849. La portata dl principio di non contestazione è stata ridefinita dalla nota sentenza a sezioni Unite n.761/2002 a proposito della non contestazione dei fatti costitutivi allegati che non siano conoscibili d’ufficio “ Cass., sez. un., 23-01-2002, n. 761. “Nel rito del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall’attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il convenuto si limiti a negare in radice l’esistenza del credito avversario, a) può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi medesimi, e sempre che si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull’an debeatur; b) rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l’esistenza di codesti fatti, giacché mentre nella prima ipotesi la mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo, in quanto non controverso, nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di contestazione in ordine all’applicazione delle regole tecnico-contabili) il comportamento della parte può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova ex art. 116, 2º comma, c.p.c.; c) si caratterizza, inoltre, per un diverso grado di stabilità a seconda che investa fatti dell’una o dell’altra categoria, perché, se concerne fatti costitutivi del diritto, il limite della contestabilità dei fatti originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall’art. 420, 1º comma, codice di rito per la modificazione di domande e conclusioni già formulate, mentre, se riguarda circostanze di rilievo istruttorio, trova più ampia applicazione il principio della provvisorietà, ossia della

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revocabilità della non contestazione, le sopravvenute contestazioni potendo essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da modificazioni dell’oggetto della controversia. Le Sezioni Unite erano chiamate a dirimere il contrasto, insorto all’interno della sezione lavoro della Cassazione, sul se sia necessario, una volta che il convenuto abbia contestato in radice l’esistenza del credito, anche la contestazione dei conteggi allegati alla quantificazione della somma pretesa dall’attore. A) Secondo un certo orientamento l’onere di contestare specificamente i conteggi relativi al quantum delle pretese azionate è configurabile soltanto nel caso in cui non sia sorta controversia sull’an debeatur, e non già nell’ipotesi in cui il credito dedotto in giudizio risulti globalmente contestato, posto che in tali casi non sarebbe logico porre a carico del presunto debitore la revisione critica del conteggio di una somma la cui spettanza egli ha inteso negare in radice: così, Cass. 30 dicembre 1994, n. 11318, Cass. 12 giugno 1995, n. 6609, B) All’orientamento testé esaminato si contrappone quello più rigorista, secondo cui nel rito del lavoro, caratterizzato da un sistema di preclusioni tendente a consentire all’attore di conseguire rapidamente il bene della vita reclamato, nonché dall’obbligo del convenuto di prendere posizione precisa, non limitata ad una generica contestazione, sui fatti affermati dall’attore, diventano incontestabili tutte le situazioni di fatto in ordine alle quali non sussistono divergenze delle parti; conseguentemente, sebbene il convenuto abbia contestato l’esistenza del credito, non possono essere sollevate in appello contestazioni relative ai conteggi rimasti incontestati nel corso del giudizio di primo grado: così, testualmente, Cass. 8 aprile 2000, n. 4482, Cass. 29 maggio 2000, n. 7103, Cass. 4 aprile 2000, n. 4116, . C) Nell’ambito di quest’ultimo indirizzo, che tende ad attribuire rilevanza all’autonoma contestazione dei conteggi, anche quando sia stata messa in discussione l’esistenza del credito, è sorto un suborientamento, che, pur insistendo sulla necessità della contestazione del quantum, tende però a ricollegare alla mancata contestazione dei conteggi conseguenze meno drastiche nel senso che la mancata contestazione dei conteggi si risolve in un comportamento processuale della parte valutabile ex art. 116, 2° comma, c.p.c., In definitiva, prima dell’intervento delle sezioni unite, il quadro giurisprudenziale della sezione lavoro della Cassazione ,si caratterizzava per l’esistenza di due orientamenti contrapposti, l’uno diretto a svalutare del tutto l’importanza della mancata contestazione dei conteggi, ove sia contestata in radice l’esistenza del credito, l’altro diretto, invece, ad attribuire massima rilevanza alla non contestazione del quantum anche quando sia stato messo in discussione l’an, non consentendo neppure una contestazione tardiva dei conteggi; infine, tra questi due indirizzi radicali, se ne può individuare uno intermedio, caratterizzato dalla presenza di pronunce che, pur partendo da postulati teorici opposti (circa la necessità o meno della contestazione del quantum anche quando sia contestata globalmente l’esistenza del credito), finiscono per approdare, almeno sul piano della formulazione dei principî a risultati analoghi, attribuendo alla mancata contestazione dei conteggi il valore di elemento integratore del convincimento del giudice: Cass. 3758/95,., e Cass. 7089/99,. - La decisione delle sezioni unite si muove secondo direttrici abbastanza inedite (rispetto alla precedente elaborazione giurisprudenziale in subiecta materia). secondo un lineare iter argomentativo che qui si richiama unitamente all’ ampia nota di Costanzo Cea ( Foro Italiano 2002): 1) Il difetto di contestazione è sostanzialmente irrilevante se concerne l’interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione del credito, perché la cognizione di tale

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disciplina appartiene al novero dei poteri-doveri del giudice, che non può essere condizionato dalle prospettazioni difensive o dai comportamenti processuali delle parti. 2) La non contestazione è invece rilevante se riguarda i fatti da accertare in giudizio. La conferma sistematica di tale assunto è fornita dal combinato disposto degli art. 416 e 167 c.p.c., i quali sanciscono, il primo per il processo del lavoro, il secondo per il rito ordinario, l’onere per il convenuto di prendere posizione sui fatti dedotti dall’attore a fondamento della domanda. 3) Conseguentemente, se la non contestazione assume rilevanza processuale solo se riferita ai fatti, la non contestazione dei conteggi partecipa della stessa natura tutte le volte che le operazioni di quantificazione del credito siano affidate all’allegazione di fatti non incompatibili con la negazione dell’esistenza del credito stesso. In altre parole, la mancata contestazione del quantum diventa processualmente rilevante ogni volta che essa abbia ad oggetto fatti (e non si riferisca pertanto solo all’applicazione di regole giuridiche), la cui esistenza non è esclusa automaticamente dalla contestazione dell’an del diritto; in tali casi, infatti, la contestazione dell’esistenza del diritto non “preclude l’applicabilità della regola che impone al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti allegati ex adverso, con la conseguenza che il comportamento omissivo si connota di idoneità ad essere apprezzato dal giudice ai fini dell’identificazione dell’oggetto della lite o del tema probatorio”. 4) La non contestazione, così come sopra individuata, gioca un ruolo diverso a seconda che investa i fatti costitutivi del diritto (quelli posti a fondamento della domanda: c.d. fatti principali) o i c.d. fatti secondari (quelli, cioè, che vengono dedotti al solo scopo di dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi). 5) Quando il difetto di contestazione investe i fatti costitutivi della domanda, poiché gli art. 167, 1° comma, e 416, 3° comma, c.p.c. impongono al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti dedotti dall’attore a fondamento della domanda, la mancata contestazione assume la fisionomia di un “comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti”. 6) Ove invece la non contestazione abbia ad oggetto i c.d. fatti secondari (quelli dedotti al solo scopo di dimostrare l’esistenza dei fatti principali, cioè dei fatti costitutivi della domanda), essa (la non contestazione) si colloca nella categoria dei comportamenti non vincolanti per il giudice, ma apprezzabili liberamente come semplici argomenti di prova. 7) La non contestazione dei conteggi, sotto il profilo dell’osservanza delle regole tecno-matematiche (vale a dire, tutte le volte che le operazioni di quantificazione del credito non si accompagnino all’allegazione di fatti costitutivi) è assimilabile al difetto di contestazione dei fatti secondari, sicché anche in questo caso si risolve in un comportamento che può essere valutato dal giudice come argomento di prova ex art. 116, 2° comma, c.p.c. 8) La non contestazione assume un diverso grado di stabilità, a seconda che investa i fatti costitutivi della domanda, ovvero i fatti secondari (cui va equiparata l’ipotesi del difetto di contestazione delle regole tecno-matematiche seguite nelle operazioni di quantificazione del credito). 9) Nel primo caso (difetto di contestazione dei fatti costitutivi), in quanto riflesso del potere di allegazione dei fatti, la non contestazione soggiace agli stessi limiti previsti per tale potere: a) conseguentemente, con riferimento al rito del lavoro, il limite di contestabilità dei fatti originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall’art. 420, 1° comma, c.p.c. per la modificazione di domande, eccezioni e conclusioni già formulate; b) non si è in presenza di

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decadenza, posto che tale sanzione è prevista dall’art. 416 solo per le domande riconvenzionali e le eccezioni non rilevabili d’ufficio, ma di preclusione argomentabile in via sistematica; c) ai fini della tempestività della contestazione non assume alcun rilievo la tardività della costituzione in giudizio, in quanto un problema di preclusioni alla contestabilità può porsi soltanto nel presupposto (non identificabile nella contumacia) della rilevanza di un originario atteggiamento di non contestazione. 10) La non contestazione, quando invece ha ad oggetto i c.d. fatti secondari o le regole su cui si fondano le operazioni di quantificazione del credito, si iscrive nell’area della provvisorietà, non ravvisandosi limiti o preclusioni al potere di contestazione successiva di quel che originariamente non era stato contestato. L’importanza della decisione 761/02 risieda nell’incondizionata affermazione di vigenza del principio di non contestazione nel processo civile ( per le ipotesi di controversie su diritti disponibili, giacché per le cause aventi ad oggetto diritti indisponibili il fenomeno della non contestazione riveste un ruolo di gran lunga più marginale). Secondo i primi commenti delle pronuncia (C Cea ) grazie a sez. un. 761/02, oggi finalmente il principio della non contestazione entra nel processo civile per la porta principale anche alla luce di una lodevole opera di chiarificazione teorica. La dottrina sottolinea come le sezioni unite abbiano chiarito che il principio di non contestazione è un riflesso del potere di allegazione delle parti e, pertanto, ne partecipa alla natura ed ai limiti per questo previsti; agganciandolo a solidi riscontri positivi, quali quelli rappresentati dagli art. 167, 1° comma, e 416, 3° comma, c.p.c., ritenendo così superato l’ostacolo (la mancata previsione di decadenze negli art. 167 e 416) che normalmente la precedente elaborazione giurisprudenziale era solita frapporre alla possibilità di configurare la non contestazione come un fenomeno tendenzialmente stabile, e per contro fondando la tendenziale stabilità della non contestazione sul concetto di preclusione (desunta sistematicamente dall’essere il nostro principio un riflesso del potere di allegazione delle parti); opera di chiarificazione teorica che già era patrimonio della dottrina più autorevole — o PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 3a ed., Napoli, 1999, destinata ad avere notevoli ricadute sul piano dei risvolti applicativi. Ci si chiede se l’aver teorizzato un onere a carico del convenuto, positivamente sancito dagli art. 167, 1° comma, e 416, 3° comma, c.p.c., di prendere posizione esplicita sui fatti posti a fondamento della domanda, comporti che anche il silenzio e la contestazione generica costituiscono inottemperanza di quell’onere, sicché, anche in tali casi, l’effetto sarà quello di vedere espunti dal thema probandum i fatti investiti dalla contestazione generica o dal silenzio, con la conseguenza che il giudice dovrà sentirsi vincolato a ritenerli ammessi (sempre in controversie su diritti disponibili). Le parti sono titolari del potere di allegazione e quindi su di esse incombe la responsabilità dell’ esercizio o non esercizio della contestazione- quest’ultimo comportando l ‘esclusione dei fatti pacifici dal thema probandum - che è quindi un espressione del principio di autoresponsabilità che governa l attività delle parti nel processo . L’ assenza di reazioni alle pretese avversarie determina una rinuncia alla dialettica processuale sul punto e quindi al compimento di atti ipoteticamente giovevoli , con l’accettazione di conseguenze negative nel merito . La non contestazione si configura quindi come un onere che comporta l’effetto processuale dell’automatica delimitazione del thema probandum in senso contrario all’interesse dell’ inadempiente ( Carlo Vellani , Riv Trim.proc civ. 2001)

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Altra importante ricaduta potrebbe aversi per la soluzione dell’annoso problema dell’individuazione della nozione di non contestazione che sta alla base delle ordinanze anticipatorie ex art. 186 bis e 423, 1° comma, c.p.c. L’aver configurato la non contestazione in termini di principio generale e l’averlo agganciato positivamente (ex art. 167 e 416 c.p.c.) all’onere per il convenuto di prendere posizione sui fatti posti a fondamento della domanda, inevitabilmente, significa propendere per quella tesi che esclude che la non contestazione (cui fa riferimento il legislatore negli art. 186 bis e 423, 1° comma, c.p.c.) equivalga a riconoscimento del diritto, rapportandola invece ai fatti, di tal che gli istituti previsti dagli art. 186 bis e 423, 1° comma, non costituirebbero altro che una peculiare applicazione di un principio generale del processo civile, vale a dire, quello della non contestazione. Altra importante conseguenza della decisione delle sezioni unite è quella di aver configurato la non contestazione come fenomeno tendenzialmente stabile (con il limite — ovvio — derivante dall’operatività dell’istituto della remissione in termini). È pur vero che la sentenza delle sezioni unite prende esplicita posizione soltanto sul problema dell’applicazione dell’ istituto nel rito del lavoro, affermando che il limite per la revoca della non contestazione è rappresentato dall’udienza prevista dall’art. 420, 1° comma, c.p.c. per la modifica delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate; ma è incontestabile che, essendosi derivata questa conseguenza da una preclusione collegata all’attività di allegazione delle parti, la stessa conclusione deve raggiungersi in qualsiasi processo caratterizzato da un simile regime di preclusioni: in particolare, per quel che concerne il rito ordinario; non sembra possano sorgere dubbi sul fatto che il limite alle contestazioni tardive (di fatti originariamente incontestati) debba ravvisarsi nell’art. 183, 5° comma, c.p.c.. A proposito dell’aspetto del fenomeno della tendenziale stabilità della non contestazione una volta individuato il limite per le contestazioni tardive in primo grado sia nel processo del lavoro che nel rito ordinario ci si chiede se esistano limiti per le contestazioni tardive in appello e, in caso affermativo, quali siano. La sentenza delle sezioni unite non ha affrontato l’argomento anche se , nell’affrontare il problema della stabilità della non contestazione, si dà conto di un precedente delle stesse sezioni unite (8 gennaio 1997, n. 89, dove si afferma la non soggezione della contestazione tardiva alla disciplina dei nova in appello) Ebbene, al riguardo la decisione de qua parla di “apparente contrasto”, giacché la pronuncia 89/97 si stava riferendo ad un’ipotesi di mancata contestazione dei conteggi (ad un caso, cioè, in cui non intervenendo il difetto di contestazione sui fatti, non può parlarsi né di preclusioni per la parte né di vincoli per il giudice).e quest’attenzione a svalutare l’importanza di un precedente autorevole (perché delle stesse sezioni unite) dissonante (almeno apparentemente) lascia intendere quale sia la soluzione per la quale opti la decisione in epigrafe (vale a dire l’inammissibilità della contestazione tardiva anche in appello). Il problema, però, non può essere liquidato così facilmente, anche perché, come osservato da una parte consistente della dottrina processualcivilistica, “non v’è, in generale, alcuna correlazione logica e comunque necessaria tra le preclusioni eventualmente operanti in primo grado e le limitazione dei nova in appello, poiché nulla esclude che il legislatore per un verso preveda determinate barriere preclusive a garanzia della concentrazione del procedimento di primo grado, e per altro verso consenta alle parti, poi, almeno entro certi limiti, di correggere e d’integrare le proprie difese, anche attraverso nuove allegazioni e/o nuove prove in appello” (così, , BALENA, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 427,). Se la non contestazione dei fatti è un riflesso del principio di allegazione e produce l’effetto (ovviamente nelle ipotesi di controversie aventi ad oggetto diritti disponibili) di espungere i fatti

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non contestati dal thema probandum e di vincolare il giudice a ritenerli accertati; appare inevitabile concludere che la contestazione successiva di fatti originariamente non contestati appartiene al novero dei comportamenti che può porre in essere solo la parte (che originariamente non ha contestato). Un esempio può essere opportuno per chiarire il concetto espresso: L’attore, sostenendo di essere erede di un soggetto, esercita in giudizio il credito del de cuius. Se il convenuto non contesta la qualità di erede dell’attore, preferendo dispiegare la sua strategia difensiva su altri aspetti, una volta che sia stata accolta la domanda, non potrà d’ufficio il giudice d’appello sollevare la questione di carenza di titolarità attiva del rapporto non essendo provata la qualità di erede dell’attore (e ciò nonostante lo status di erede attenga ai fatti costitutivi della domanda). Perché il giudice possa riappropriarsi di un potere che originariamente gli apparteneva (quando il fatto costitutivo in questione non era ancora diventato incontroverso per deficit di contestazione a riguardo), è necessario che intervenga un comportamento specifico di parte: la contestazione del fatto originariamente incontestato. Orbene, se si conviene su questi rilievi, può sostenersi che la contestazione tardiva (vale a dire la contestazione successiva di un fatto originariamente incontestato), in quanto comportamento che può provenire esclusivamente dalla parte (che inizialmente non aveva contestato), possa essere assimilata all’eccezione in senso stretto: conseguentemente, in considerazione di quanto previsto dagli art. 345, 2° comma, e 437, 2° comma, c.p.c., la contestazione successiva di fatti rimasti incontestati nel giudizio di primo grado deve ritenersi inammissibile in appello, sia nel processo del lavoro che nel rito ordinario (salve ovviamente le ipotesi di rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c). . Cass. 5526/02 e Trib. Foggia 7 maggio 2002, , richiamando l’autorevole precedente delle sezioni unite, propendono per l’incondizionata vigenza del principio di non contestazione (sia nel rito del lavoro che in quello ordinario), affermandone la tendenziale irreversibilità. Cass. 5526/02 va ben oltre il dictum di sez. un. 761/02, finendo per estendere l’operatività del principio della non contestazione anche ai c.d. fatti secondari (quelli cioè dedotti in funzione probatoria dei fatti principali). ” CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza, 17-04-2002, n. 5526 Cass., sez. lav., 17-04-2002, n. 5526. “L’art. 416, 3º comma, c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti costitutivi dedotti dall’attore, fa della non contestazione un comportamento rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio: la mancata contestazione infatti rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, e consente quindi di superare la tradizionale distinzione fra “ammissione implicita” e “non contestazione”; nel caso in cui, poi, la domanda sia integrata da conteggi, contenuti nello stesso contesto o in allegato unito al ricorso, occorre distinguere la componente fattuale di tali conteggi, che soggiace agli oneri di contestazione e agli effetti della mancata contestazione, dalla componente giuridica o normativa, esente dai suddetti oneri.” La Suprema Corte è investita del ricorso avverso una sentenza resa in appello dal Tribunale di Venezia in materia di opposizione a decreto ingiuntivo emesso ad istanza dell Inps per omissioni contributive in cui si controverte sulla mancata contestazione dei conteggi Osserva la Corte che aveva già rilevato che il legislatore del 1973 ha disegnato un coerente sistema processuale che, ispirandosi ai principî — propugnati dalla dottrina processuale di inizio

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secolo — di concentrazione, immediatezza ed oralità, ed utilizzando gran parte delle esperienze positive del modello processuale del lavoro del 1928, trova il suo punto di forza, cruciale per la funzionalità dell’intero rito, nel sistema di preclusioni e decadenze di cui agli art. 414 e 416 c.p.c., attinenti in primo luogo alle allegazioni da una parte, e alle contestazioni in fatto dall’altra, sistema che trova la piena legittimazione costituzionale nel suo carattere di reciprocità Fondamento essenziale di tale modello processuale è che l’attore avanzi tutte le proprie pretese ed esponga i relativi fatti costitutivi nel ricorso introduttivo del giudizio, e che il convenuto proponga tutte le eccezioni in diritto e le contestazioni in fatto nell’atto di costituzione. Il legislatore del 1973, sulla base delle esperienze processualaboristiche di numerosi paesi europei, ha rinvigorito il principio di non contestazione, già conosciuto, enunciato ed applicato in diverse ipotesi dal nostro ordinamento (art. 14, 3° comma, 35, 316, 3° comma, 186 bis e 423, 512, 2° comma, 597, e 598, 541, 542, 785, 789, 548, 663 c.p.c.; art. 2712 e 2734 c.c.) e lo ha impiegato al fine di ridurre la quantità di prova necessaria per i fatti costitutivi, e per tale via aumentare la concentrazione ed efficienza processuale, escludendo così la possibilità generalizzata di una contestazione tardiva di essi, con il che si riaprirebbe in ogni tempo la necessità di una istruttoria, la quale deve invece essere definita (art. 414, n. 5, 416, 3° comma, 420, 5° comma, c.p.c.) nella fase iniziale del giudizio. In applicazione di tale principio di concentrazione processuale, da applicare in egual misura all’attore e al convenuto, non è possibile allegare, contestare o richiedere prova su fatti non allegati oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di procedura civile (Cass. 15 dicembre 2000, n. 15820, id., 2001, I, 3266). Tale orientamento è stato confermato da recente pronuncia della Corte a sezioni unite, che ha precisato che l’art. 416, 3° comma, c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti costitutivi, fa della non contestazione un comportamento rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio. La mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, sicché si deve ritenere superata, ai fini dell’identificazione dei fatti pacifici, la tradizionale differenza, invocata dal ricorrente, fra ammissione implicita e non contestazione, di cui al precedente orientamento ( Cass. 18 luglio 2000, n. 9424,; 23 maggio 1995, n. 5643,). La funzione della non contestazione ai fini della determinazione dell’oggetto della controversia, e la necessaria correlazione tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova, comporta che la decadenza per l’indicazione dei mezzi di prova espressamente comminata dall’art. 416, 3° comma, implichi altresì preclusione per i primi, alla cui dimostrazione i secondi sono finalizzati. La tendenziale irreversibilità della non contestazione risulta comunque dalla struttura complessiva del processo (Cass., sez. un., cit.). Quando poi la domanda giudiziale è integrata da conteggi, contenuti nello stesso contesto o in allegato unito al ricorso, occorre distinguere la componente fattuale di tali conteggi, che soggiace agli oneri di contestazione sopra riassunti, nonché agli effetti della mancata contestazione, da quella giuridica o normativa, che ne è esente La mancata contestazione dei fatti secondari comporta l’espunzione degli stessi dal thema probandum, di tal che il giudice, una volta ritenutili accertati per mancanza di contestazione, può desumere dagli stessi, in via presuntiva, l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda”. Soffermandosi sulla vicenda scrutinata da Cass. 5526/02, ci si accorgerà che la pronuncia in questione, sia pure non esplicitamente, non ha tenuto in considerazione la distinzione operata dalle sezioni unite tra fatti principali e fatti secondari, giacché, da un lato, ha affermato che la non contestazione rende accertati anche i fatti secondari, dall’altro, ha ritenuto possibile utilizzare i fatti

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secondari accertati per deficit di contestazione quale fonte per l’inferenza presuntiva diretta ad affermare la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda. Il favor legis verso la stabilità ed irrevocabilità della non contestazione in linea con gli orientamenti processualcivilistici di numerosi paesi europei, si coglie pienamente nel nuovo rito societario , modello processuale caratterizzato da concentrazione e riduzione dei termini e da una tendenziale autosufficienza rispetto al rito ordinario , applicabile solo in via residuale, dalla cui impalcatura processuale si distacca nettamente per l abbandono , nella fase preparatoria, del principio dell’oralità e per la sottrazione all intervento giudiziale della detta fase che resta nella esclusiva disponibilità delle parti che attraverso lo scambio dei rispettivi atti difensivi determinano il thema decidendum ed il thema probandum e fissano i tempi del processo . La riforma del 2003 delinea un peculiare schema di decadenze caratterizzato dalla simultaneità e dalla disponibilità ,essendo rilevabili ad istanza di parte e soggiacendo al regime della sanatoria delle nullità di cui all’art.157 cpc in conformità della connotazione privatistica del rito di cui al DLGS 5/2003 e dlg 37/2004 e 310 /2004 che attribuisce il carattere di ficta confessio alla contumacia o alla tardiva costituzione del convenuto ( articolo 13 comma secondo ) estendendo la regola della utilizzabilità dei fatti non contestati alla nuova ipotesi disciplinata dall’art 10 -come modificato dall articolo 4 del dlg 310/2004 che ha aggiunto il comma 2 bis al detto articolo 10- della notificazione dell istanza di fissazione dell’udienza che interrompe la scansione dello scambio delle comparse e memorie delle parti costituite , rendendo pacifici i fatti in precedenza allegati dalle parti e non specificamente (e quindi non genericamente)contestati ( l’istanza di fissazione di udienza costituisce ,da un lato, il meccanismo attraverso il quale investire il giudice della controversia sollecitando il decreto di fissazione dell’udienza collegiale , dall’altro determina in linea generale il verificarsi delle decadenza dal potere di proporre nuove eccezioni , non rilevabili d’ufficio , di precisare e modificare domande o eccezioni già proposte nonche di formulare nuove istanze istruttorie e di depositare nuovi documenti ( Irene Tricomi, Guida al diritto 2003) Il testo novellato dell’art.10 del Dlg 5/2003 , così recita Effetti della notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza A seguito della notificazione dell ‘istanza di fissazione dell’udienza , le altre parti, devono, nei dieci giorni successivi, depositare in cancelleria una nota contenente la definitiva formulazione delle istanze istruttorie e delle conclusioni di rito e di merito già proposte eslcusa ogni loro modificazione . In mancanza si intendono formulate le istanze e le conclusioni di cui al primo atto difensivo. Salvo quanto disposto dal’articolo 12 comma 8 e dall’articolo 13 , comma 3 a seguito della notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza tutte le parti decadono dal potere di proporre nuove eccezioni , di precisare o modificare le domande ed eccezioni già proposte nonchè di formulare nuove istanze istruttorie e di depositare nuovi documenti : la decadenza può essere dichiarata soltanto su eccezione della parte interessata da proporsi nella prima istanza o difesa successiva a norma dell’aert.157 cpc. 2 bis la notificazione dell istanza di fissazione dell’udienza rende pacifici i fatti allegati dalle parti ed in precedenza non specificamente contestati ( comma aggiunto dal DLGS 310/2004) Il testo novellato dell’articolo 13 del Dlgs 5/2003 come modificato dal Dlgs 37/2004 cosi recita Comma 2 , se il convenuto non notifica la comparsa di risposta nel termine stabilito a norma dell’articolo 2, comma 1 lettera c ovvero dell’articolo 3, comma 2 , l’attore tempestivamente costituitosi , può notificare al convenuto una nuova memoria ovvero depositare ,previa notifica, istanza di fissazione dell’udienza ; in quest’ultimo caso i fatti affermati dall’attore , anche quando il convenuto abbia tardivamente notificato la comparsa di costituzione, si intendono non contestati ed il tribunale decide sulla domanda in base alle concludenza di questa; se lo ritiene opportuno il giudice deferisce all’attore giuramento suppletorio

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Comma 4 fermo restando quanto disposto dai commi 1,2, e 3 l’inosservanza dei termini previsti dagli articoli 2, 4, 5,6,7,9 e 10 nonchè le decadenze sono rilevabili soltanto su eccezione della parte che via abbia interesse da proporsi nella prima istanza o difesa successiva , a norma del’art.157 cpc La disciplina della non contestazione , nel rito societario [ che accanto ad un nuovo rito speciale a cognizione piena introduce un nuovo rito speciale semplificato a cognizione sommaria , sulla falsariga del réfère francese ( art.19) suscettibile di trasformarsi in giudizio a cognizione piena ed un rito cautelare svincolato dal vincolo di strumentalità con il giudizio di merito ed idoneo ad assumere carattere di stabilità ( art.23, l’ordinanza cautelare provvede anche sulle spese e mantiene la sua efficacia anche se la causa di merito non viene iniziata ) ]seppur limitata ad una particolare categoria di rapporti ,ha una portata dirompente rispetto alla tradizionale regola della irrilevanza ai fini probatori della contumacia : per :la recente cassazione 11.12.2002 17625 , “la contumacia del convenuto , di per sé sola considerata , non può assumere alcun significato probatorio in favore della domanda dell’attore , perché al pari del silenzio in campo negoziale , non eqivale ad alcuna manifestazione di volontà favorevole alla pretesa della controparte ma lascia del tutto inalterato il substrato su cui si articola il contraddittorio per cui non si tratta di comportamento processuale ( anzi è un non comportamento) dal quale il giudice possa trarre elementi di prova a norma dell’art.116 poichè considera il contegno delle parti nel processo e non la loro contumacia” ; negli stessi termini Cassazione sezione III 18 aprile 2003 6271 secondo cui dalla contumacia della parte non possono trarsi , in linea di principio, e salvo specifiche eccezioni indicate dalla legge , argomenti di prova a sfavore della stessa per cui non sussiste violazione dell’art.116 per non avere il giudice di merito tratto argomenti di prova contro il convenuto rimasto contumace” Altro profilo di ammissibilità attiene ai limiti temporali di acquisizione della prova in ordine al quale per brevità si richiamano i criteri delineati da Cassazione sezione III 27 novembre 2003 n.18150 : “I procedimenti di acquisizione della prova nelle controversie sorte dopo la novella del 90 trovano la loro disciplina di sbarramento nel disposto degli articoli 183 e 184. Le parti nella prima udienza di trattazione possono precisare e modificare le domande , eccezioni e conclusioni già prese , ma perciò stesso si deve intendere che possano svolgere anche le connesse attività, intese alla formazione della prova , producendo documenti e chiedendo l ammissione di prova , anche se non l’abbiano fatto negli atti introduttivi del giudizio; se poi, per precisare o modificare le proprie domande eccezioni e conclusioni e per replicare abbiano optato per la trattazione scritta , ottenendo dal giudice i relativi termini con l’ordinanza che fissa l’udienza per i provvedimenti di cui all’art.184 cpc, in questa hanno ancora la facoltà di chiedere l’assegnazione dei termini entro iquali produrre documenti , indicare nuovi mezzi di prova e prove contrarie . Il fatto che la norma definisca perentori i termini assegnati dal giudice alle parti che ne facciano richiesta nell’udienza fissata a norma dell’articolo 183, quinto comma, unitamente all’ interpretazione logica e sistematica delle disposizioni degli art.183 e 184 ,convincono che le parti decadono dalla facoltà di produrre documenti e di indicare prove, se non lo facciano nei modi appena detti. Fuori di questo regime di preclusioni – a parte la remissione in termini - sono invece le prove che il giudice può disporre d’ufficio” Il requisito della rilevanza della prova attiene invece alla conducenza della prova ai fini della decisione. La prova è irrilevante se tende alla dimostrazione di fatti il cui accertamento è assolutamente inutile ai fini della decisione(ad esempio i motivi che hanno indotto a contrarre, ove si chieda la risoluzione per inadempimento ex art.1453 di un negozio di cui non si contesti la validità) ovvero

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se verte su circostanze assolutamente pacifiche e non controverse o per le quali risultano già acquisiti sufficienti elementi di prova(ad esempio in una domanda di adempimento contrattuale per il pagamento di un corrispettivo di vendita, potrà risultare superflua l’assunzione dell’interrogatorio formale sull’esistenza dell’obbligazione ove sia già acquisito un atto di ricognizione del debito, sottoscritto dal preteso debitore e da questi non disconosciuto). Non può rientrare nel giudizio preventivo di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova, di cui al primo coma del’art.184 cpc l‘apprezzamento dell’attendibilità del teste poiché l’ammissibilità attiene al rispetto delle norme che stabiliscono modalità e limiti di deduzione del singolo mezzo di prova e nessuna norma vieta di assumere un teste solo perché ritenuto inidoneo a rendere una rappresentazione precisa delle circostanze oggetto di prova mentre la rilevanza concerne il nesso tra i fatti da provare ed il riconoscimento della fondatezza della domanda o eccezione prescindendo da ogni considerazione della persona chiamata a deporre ; nel nostro ordinamento processuale civile la valutazione preventiva dell’attendibilità del teste è riservata al legislatore con le norme che disciplinano l’incapacità a testimoniare ed è quindi inibita al giudice che può valutare con il suo prudente apprezzamento ( art.116 cpc)solo .l’attendibilità delle dichiarazioni rese dai testimoni una volta che la prova sia stata assunta;deve escludersi che possa rientrare i tale apprezzamento il giudizio di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova di cui al comma 1 dell’art.184 cc perché l’ammissibilità attiene alle norme che stabiliscono modalità e limiti di deduzione del singolo mezzo di prova e nessuna di tali norme vieta di assumere un teste solo perchè ritenuto inidoneo a rendere una rappresentazione precisa delle circostanze oggetto di prova mentre la rilevanza concerne il nesso tra i fatti da provare ed il riconoscimento della fondatezza della domanda e dell'’eccezione prescindendo da ogni considerazione sulla persona chiamata a deporre ( cassazione 15 aprile 2004 n.7146 )( ; ne consegue che l’ammissione della prova testimoniale non può negarsi in considerazione del suo probabile esito negativo per l’inverosimiglianza delle circostanze dedotte ad oggetto della prova( quando è astrattamente possibile che dette circostanze possano risultare vere ) ovvero per una pretesa inidoneità del teste a fare un resoconto preciso su di esse ( Cassazione sezione I civile; sentenza, 10-09-1999, n. 9640:deve essere ammessa la prova testimoniale diretta ad accertare il contenuto ed il valore degli oggetti depositati in una cassetta di sicurezza anche se appaia probabile che l’esito di tale prova sarà negativo o si ritenga che il teste sia inidoneo a fare un resoconto preciso dei fatti allegati.; la pronuncia si allinea al consolidato orientamento che considera la prova per testi rilevante e ammissibile anche quando i fatti da provare appaiano inverosimili o sia probabile un esito negativo. In questo senso, Cass. 29 maggio 1998, n. 5313, Cass. 29 agosto 1995, n. 9117, 14386 del 21.12.1999 e 5313 del 29.5.1998 ). La semplice inverosimiglianza o scarsa credibilità dei fatti allegati, in quanto si discosti “dall’id quod plerumque accidit”o il supposto esito negativo della prova ,come non possono essere ostativi all’ammissione della prova testimoniale (cosi’ come dell’interrogatorio formale) così non possono di per sé costituire ragione per disattendere la testimonianza che abbia evidenziato la ricorrenza del fatto medesimo ove non concorrano altri motivi per escludere l’attendibilità del teste( Cassazione 3380 del 23.3..1995). Cass., sez. I, 10-09-1999, n. 9640 così recita ”Nel nostro ordinamento processuale civile la valutazione preventiva dell’attendibilità del teste è riservata al legislatore (come emerge dagli art. 246 e 247 c.p.c.) ed è quindi inibita al giudice, che può valutare, secondo il suo prudente apprezzamento (ex art. 116 c.p.c.), solo l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal testimone, una volta che la prova sia stata assunta, dovendo, inoltre, escludersi che detto apprezzamento possa rientrare nel giudizio di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova, di cui al 1º comma dell’art. 184 c.p.c., poiché l’ammissibilità attiene al rispetto delle norme che stabiliscono modalità e limiti di deduzione del singolo mezzo di prova, e nessuna norma vieta di assumere un teste solo perché

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ritenuto inidoneo a rendere una rappresentazione precisa delle circostanze oggetto di prova, mentre la rilevanza concerne il nesso tra i fatti da provare ed il riconoscimento della fondatezza della domanda o dell’eccezione, prescindendo da ogni considerazione della persona chiamata a deporre; ne consegue che l’ammissione di una prova testimoniale non può negarsi in considerazione del suo probabile esito negativo per l’inverosimiglianza del fatto che si intende provare ovvero per una pretesa inidoneità del teste a fare un resoconto preciso su di esso”. Non è invece censurabile in sede di legittimità il giudizio anche implicito espresso dal giudice di merito in ordine alla superfluità della prova testimoniale dedotta da un parte , specie quando lo stesso giudice abbia, con ragionamento logico e giuridicamente corretto, ritenuto di aver già raggiunto, in base all’istruzione probatoria già esperita ,la certezza degli elementi necessari per la decisione ( cassazione 9942 dell’8.10.1998). Poichè l’istruttore potrà trovarsi dinanzi ad un articolata gamma di richieste istruttorie (formulate sia negli atti introduttivi che nelle note depositate nei termini fissati ai sensi dell’art.184)volte all’accertamento dei fatti costitutivi delle domande principali,subordinate o dipendenti o anche dei fatti modificativi,impeditivi o estintivi allegati a sostegno delle eccezioni dedotte,sarà opportuno improntare l’assunzione della prova a criteri di ordine e di razionalità onde evitare un inutile spreco di attività giurisdizionale. Il criterio informatore dovrebbe essere costituito dall’ordine di priorità logico-giuridica delle domande e delle eccezioni di merito . Ad esempio proposta una domanda di rilascio di un immobile che si assume concesso in comodato senza determinazione di durata ed una domanda riconvenzionale di accertamento dell’usucapione dello stesso bene ,potrà essere opportuno procedere preliminarmente all’assunzione della prova relativa alla riconvenzionale. Ovvero ad esempio, proposta domanda di risoluzione del contratto di vendita per vizi occulti della res vendita ed eccepita la decadenza dall’azione per la mancata denunzia dei vizi nei termini, la prova relativa alla fondatezza di siffatta eccezione potrà essere posposta a quella concernente il riconoscimento dei vizi (che renderebbe non necessaria la denunzia)dedotto dall’attore. Tale impostazione logica corrisponde ad elementari esigenze di economia processuale essendo evidente che l’assunzione delle prove nell’ordine indicato potrà consentire al g.i.la revoca o la modifica delle ordinanze ammissive di mezzi di prova non ancora assunti e ritenuti non più utili (o la corrispondente rinuncia delle parti) qualora si pronostichi la sicura incidenza ai fini della decisione di quelli già espletati, con un apprezzabile risparmio di attività processuale ed una conseguente accelerazione della durata del giudizio.

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Astensione – segreto d’ufficio - La testimonianza del difensore ( il tema della incapacità a testimoniare forma oggetto di altra relazione)

Astensione La facoltà di astensione è regolata dall’art. .249 c.p.c che rinvia agli artt..351 e 352

cpp che richiamano gli artt.200,201,202, 204 cpp (segreto professionale,segreto di Stato ,segreto d’ufficio, cause di esclusione del segreto):

Il segreto diplomatico e consolare è tutelato da numerose convenzioni internazionali, convenzione di Vienna del 18.4.61 resa esecutiva dalla legge 804/67, dalla convezione italo polacca del, 9.11.73 resa esecutiva con legge 425/76 e dalla convezione italo cecoslovacca del 10.10.75 resa esecutiva con legge 681/78

L’art.11 della Convenzione dell’Aja del 18.3.70 sull’assunzione delle prove all’estero in materia civile e commerciale, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 24 ottobre 80 n.745, prevede che la rogatoria non venga eseguita in quanto” la persona interessata rifiuta di deporre in quanto abbia il privilegio o l’obbligo di rifiutarsi.

a) sia in base alla legge dello Stato richiesto(lex loci) b) sia in base alla legge dello stato richiedente e detto privilegio o obbligo siano stati

specificati nell’atto rogatorio o , se del caso , attestati dall’autorità richiedente a richiesta dell’autorità richiesta.

Inoltre ogni Stato contraente può dichiarare di riconoscere tali privilegi o obblighi stabiliti dalla legge di Stati diversi dallo Stato richiedente e dallo Stato richiesto, nella misura specificata in tale dichiarazione.”

La tutela del segreto professionale si fa strada nella giurisprudenza comunitaria ; la Corte di Giustizia afferma il principio che in tutti gli stati membri la corrispondenza tra avvocato e cliente è tutelata dal segreto in forza di un principio generale comune a tutti questi stati anche se la portata di detta tutela ed i mezzi per attuarla variano da uno stato all’altro( sentenza del 18 maggio 1982 in Australian Mining and Smelting Europe limited (UK)contro commissione delle comunità europee );nella specie la ricorrente invocando il legal privilege, proprio del diritto inglese ,contestava il diritto degli agenti della commissione, muniti di mandato ai fini di un ispezione, di visionare tutta la corrispondenza intercorsa tra la società e l’avvocato ritenendo i documenti avente carattere riservato coperto dal detto legal privilege. La Corte ritiene che debba essere esclusa dall’esibizione dei documenti aziendali la corrispondenza tra avvocato e cliente e sul punto accoglie il ricorso ed annulla, in parte de qua, la decisione della Commissione.

Per effetto della norma di coordinamento di cui all’art.208 del dlg 271/89 con l’entrata in vigore in data 24.10.89 del nuovo cpp il rinvio ricettizio agli artt.351 e 352 si intende oggi riferito agli artt.200.201, 202, e 204.

L’art.200 cpp , estendendo la tutela processuale del segreto professionale, amplia l’ambito soggettivo delle categorie facultate ad astenersi includendovi , al punto 3 i giornalisti professionisti iscritti agli appositi albi professionali e al punto 1, lettera d gli esercenti uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale( consulenti del lavoro, - come già dottori commercialisti, ragionieri collegiati e periti commercialisti ai quali per espresso disposto dell’art.1 della legge 507 del 5.12.87 si applica l’art.249 cpc ancorchè il segreto professionale non paia ricevere adeguata tutela nel caso in cui siano destinatari di un ordine di esibizione ex art.210 cpc - nonché l’investigatore privato equiparato dall’art.222, n.4 coordinamento cpp al ctu (articolo 200, punto 1 lettera b) cpp ).

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Vi è quindi la necessità di tener conto di una pluralità di fonti normative delle quali dare una configurazione sistematica coerente – tra cui ad esempio anche le convenzioni bilaterali tra lo Stato ed alcune confessioni acattoliche per il diritto di astensione dei ministri di culto2

La facoltà di astensione non è accordata in relazione alla qualità soggettiva del teste ma alla natura del fatto ed alla sua relazione con la posizione funzionale del teste al quale è noto per ragioni attinenti al suo ministero, ufficio o professione per cui l’esenzione dal dovere di testimoniare può riguardare solo una parte dei fatti oggetto della prova..

La sussistenza di un facoltà di astensione non esime il teste dall’obbligo di comparire dinanzi al g.i. (salvo che non ricorra una delle ipotesi di cui all’art.255 cpc a proposito dell’esonero dall’obbligo di comparizione del teste) che verificherà la fondatezza della dichiarazione di astensione decidendo con ordinanza sulle relative questioni, provvedendo ai preliminari accertamenti necessari, dichiarando che il teste è esentato dall’obbligo di deporre nel caso in cui verifichi che la dichiarazione è fondata e disponendo che invece il teste deponga nel caso in cui ne ravvisi l’infondatezza e denunciandolo al PM , nel caso di persistente rifiuto di deporre, a norma del’art.256 cpc

In assenza di espressa previsione il giudice non ha l’obbligo di avvertire il teste di astenersi dalla facoltà di deporre.

Corte di Cassazione del 13.3.96 n.2058 ritiene pienamente valida la deposizione resa dal consulente del lavoro anche nell’ipotesi in cui il giudice abbia omesso di avvertirlo del suo diritto di astenersi dal testimoniare, atteso che né l’art.351 cpc , vecchio testo- che prevedeva il diritto di alcuni professionisti di astenersi dal testimoniare nei procedimenti penali su ciò che era stato loro confidato o era prevenuto a conoscenza per ragione della professione esercitata, diritto di astenersi esteso al consulente del lavoro dall’art.6 della legge 11 gennaio 79 n..12- norma applicabile al processo civile in forza dell’art.249, né l’art.200 del nuovo cpp prevedono un obbligo per il giudice di avvisare il teste della sua facoltà di astenersi, come è previsto, invece, per i prossimi congiunti dell’imputato dall’art.350 cpp.( vecchio testo) e dal’art.199 nuovo testo cpp; la suddetta diversità di trattamento trova infatti giustificazione nel fatto che i prossimi congiunti dell’imputato, a differenza dei professionisti, possono ignorare l’esistenza di tale facoltà e trovarsi cosi’ in conflitto con i sentimenti di solidarietà familiare che potrebbero indurli a dichiarazioni menzognere.

Gli artt.201 e 202 c.p.p prevedono l’obbligo di astensione dei pubblici ufficiali, pubblici impiegati e incaricati di pubblico servizio per fatti coperti dal segreto d’ufficio (art.201 cpp) e dal segreto di Stato (202 cp)( i soggetti indicati dall’art.200 non possono invece essere obbligati a deporre);nel caso di segreto di Stato occorre informare la Presidenza del consiglio dei ministri affinchè ne dia conferma:in caso di silenzio per oltre 60 giorni dalla notificazione della richiesta il giudice ordina al teste di deporre.

Nel caso in cui sia invece confermata la esistenza del Segreto di Stato e la prova sia essenziale per la definizione del processo, il giudice penale dichiara non doversi procedere, a norma dell’art.202 , 3 cpp, per la esistenza del segreto di Stato.

Ci si chiede a quale soluzione possa condurre nel giudizio civile il rinvio ricettizio a tale previsione da parte dell’art.249 cpc. Verosimilmente si dovrebbe ipotizzare un rigetto nel merito della domanda per difetto di prova.

Gli avvocati non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto in ragione della loro professione e ciò sia nei processi penali(art.200,1 comma, sub b c.p.c) sia nei processi civili(art.249 che richiama le disposizioni processuali penali) sia più genericamente nei giudizi di qualunque specie(art.13 r.d 1578 del 27 novembre 33).

Dubbi di legittimità costituzionale hanno investito la disciplina della facoltà di astensione dei testimoni nel processo, a tutela del segreto professionale, nella parte in cui consente agli avvocati di astenersi dal deporre ma non prevede analoga facoltà per i praticanti 2 Licastro Tutela del segreto professionale e ministri di culto: il caso dei testimoni di Geova, in Il Diritto di famiglia e delle persone,1997

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L’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Udine del 26 gennaio 96 solleva dubbi di legittimità costituzionale dell’art.249 cpc in relazione all’art.200 nuovo cpp che sostituito l’art.351 cpp- nella parte in cui non estende l’applicabilità della norma relativa alla facoltà di astensione dal testimoniare- su fatti destinati a rimanere riservati, conosciuti in regione dell’attività svolta per ottemperare alla pratica professionale - anche in favore dei praticanti procuratori legali che abbiano assistito a colloqui tra il cliente e l’esercente la professione legale presso il cui studio svolgono il tirocinio - e dell’art.13 del r.d.l 27 novembre 1933 n.1578( ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore) nella parte non prevede- nel novero dei soggetti legittimati ad esercitare la facoltà di astensione per ragioni di segreto professionale- anche i praticanti procuratori legali(oggi praticanti avvocati con la soppressione dell’albo dei procuratori e l’unificazione delle due categorie disposta dalla legge n.27/97)..

Nella specie il giudice istruttore preso il Tribunale di Udine, nel corso di un processo civile in cui il testimone intendeva astenersi dal deporre , avendo concorso a prestare assistenza ad una parte nel giudizio quale procuratore legale presso lo studio del professionista che ne aveva rappresentanza e difesa , all’atto di procedere all’assunzione del testimone, ha denunciato le citate disposizioni nella parte in cui non prevedono che possano astenersi dal deporre anche i procuratori chiamati a deporre e che abbiano assistito a colloqui tra il cliente e l’avvocato dello studio dove svolgono la pratica forense per sospetta violazione del principio di uguaglianza , giacchè sarebbero tenuti a compiere attività che , come per l’avvocato presso il quale svolgono la pratica implicano al conoscenza di fatti e circostanze destinati a restare riservati , del diritto di difesa che implica l affidamento del cliente al professionista che lo assiste il quale non può essere costretto a divenire teste contro il suo assistito in modo da rendere una sorta di confessione

Secondo il giudice remittente le disposizioni denunciate violerebbero il principio di uguaglianza di cui all’art.3 della costituzione giacchè anche i praticanti sarebbero tenuti a compiere attività - che come per l’avvocato presso il cui studio svolgono la pratica- li porta a conoscenza di fatti e circostanze destinate a rimanere riservate e lederebbero il diritto di difesa di cui all’art.24 della costituzione che implica l’affidamento del cliente al professionista che lo assiste il quale non può essere costretto a divenire teste contro il suo assistito, in modo da rendere una sorta di confessione per interposta persona

La Corte costituzionale con sentenza n.87 del 25 marzo-8 aprile 97 ( G:U 16 del 16 aprile 97) , fornendo una interpretazione della norma impugnata diversa da quella proposta dal giudice a quo, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.249 del cpc in relazione all’art.200 cpp e delle norme dell’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore( articolo 13 del rdl 27 novembre 1933 n.1578) sollevata in riferimento all’art.3 primo comma e 24,primo comma, della costituzione, dal giudice istruttore del Tribunale remittente osservando al riguardo che l’esenzione dal dovere di testimoniare non è diretta ad assicurare una condizione di privilegio personale a chi esercita una determinata professione ma è destinata a garantire la piena esplicazione del diritto di difesa- consentendo che ad un difensore tecnico possano, senza alcuna remora, essere resi noti fatti e circostanze la cui conoscenza è necessaria o utile per l’esercizio di un efficace ministero difensivo ed assume perciò carattere oggettivo essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa e non l’interesse soggettivo del professionista è pertanto non può non estendersi a chi, essendo iscritto nel registro dei praticanti, adempie agli obblighi della pratica forense presso lo studio del professionista con il quale collabora con il compimento degli atti tipici dell’attività professionale forense che devono essere svolti ottemperando al dovere di riservatezza(art.1 del dpr 10 aprile 90 n.101, che regolamenta la pratica forense in attuazione della legge 24 luglio 85,n,406) ed a cui si estendono le garanzie connesse al ministero professionale. (La dottrina ha del resto affermato ripetutamente che il

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segreto professionale più che nell’interesse dei professionisti e dei clienti è stabilito nell’interesse pubblico e l’obbligo di osservarlo è assoluto e inviolabile). Il rispetto del segreto professionale è volto a garantire effettività al diritto alla riservatezza ed alla libera manifestazione del pensiero che ha valenza di principio costituzionale, essendo un diritto inviolabile della persona intimamente connesso al diritto di difesa

La Corte osserva che la complessiva disciplina normativa del segreto professionale di chi esercita la professione forense e della correlativa facoltà di astenersi dal deporre, quale testimone in giudizio, su quanto conosciuto nell’esercizio di tale professione, si fonda su un requisito soggettivo - riferito alla condizione di essere la persona abilitata ad assumere la difesa della parte in giudizio -e su un requisito oggettivo -riferito all’oggetto della deposizione che deve concernere circostanze conosciute per ragione del proprio ministero difensivo o dell’attività professionale – e risponde all’esigenza di assicurare una difesa tecnica , basata sulla conoscenza di fatti e situazioni non condizionata dall’obbligatoria trasferibilità di tale conoscenza nel giudizio, attraverso la testimonianza di chi professionalmente svolge una tipica attività difensiva.

Il giudice a quo aveva ritenuto di dover escludere la possibilità di un ricorso all’interpretazione estensiva o all’analogia, dal momento che l’astensione a favore degli avvocati e procuratori appariva come un eccezione da interpretare in modo rigoroso alla regola generale dell’obbligo di testimoniare. La corte rileva invece che nella specie la facoltà di astensione dell’avvocato non costituisce un eccezione alla regola generale dell’obbligo di rendere testimonianza ma è essa stessa espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale da parte di chi adempie al ministero forense. La disciplina della facoltà di astensione è il risultato del bilanciamento tra il dovere di rendere testimonianza e quello di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione dell’attività professionale e l’ampiezza della facoltà di astensione dei testimoni va interpretata nell’ambito delle finalità proprie di tale bilanciamento il che rende possibile estendere, in via interpretativa, quanto previsto per gli avvocati ai praticanti procuratori.

La Corte ha concluso che- avuto riguardo ai criteri di bilanciamento seguiti dal legislatore tra il dovere di rendere la testimonianza e quello di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione della professione- debba darsi alle disposizioni denunciate una interpretazione compatibile con la Costituzione cioè che ne individui il contenuto normativo senza determinare il contrasto con i precetti costituzionali. Deve quindi essere preferita l’interpretazione compatibile con la costituzione secondo un principio più volte enunciato dalla Corte ( vedi sentenza 421 del 96).

La corte fa applicazione del consolidato principio - che vincola anche il giudice nell'applicazione del diritto — secondo cui si può procedere ad una dichiarazione di incostituzionalità “soltanto ove non sia possibile, nonostante l'uso di tutti gli strumenti offerti dall'ermeneutica giuridica, un'interpretazione adeguatrice della norma stessa alla Costituzione” e cioè quando l'interprete ha a sua disposizione gli strumenti ermeneutici per colmare la lacuna legislativa e le disposizione denunciate, così come inserite nel sistema, possono ben interpretarsi nel senso indicato e resistono alle censure di incostituzionalità.

<<<<<>>>>> Nella giurisprudenza di merito non sono isolati i dubbi di legittimità costituzionale

dell’art.249 cpc laddove non prevede la facoltà di astensione dei prossimi congiunti: Non v’è dubbio che a seguito dell’abolizione del divieto di deporre di cui all’art.247

cpc, dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n.248 del 74, non essendo applicabile, in mancanza di un richiamo espresso ,l’art..350 cpp il coniuge e gli altri stretti congiunti restano esposti all’obbligo di deporre ed alle conseguenze penali della falsa dichiarazione anche

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nell’ipotesi in cui dalla loro deposizione possano derivare conseguenze sfavorevoli al proprio congiunto effetto tanto più iniquo se si considera che solo i soggetti incapaci di deporre possono beneficiare della speciale causa di non punibilità prevista dasll’art.384 n.2 cp

L’Ordinanza del Pretore di Lecce del 4.12.86.ritiene non manifestamente infondata – in riferimento all’art.3 della costituzione- la questione di legittimità costituzionale dell’art.249 cpc nella parte in cui detta norma, al contrario di quanto avvenga nel processo penale, non fa rientrare i prossimi congiunti tra coloro che possono astenersi dal testimoniare nel processo civile

Con sentenza del 29.10.87 n.352 la Corte Costituzionale ha dichiarato la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art.249 cpc, in riferimento all’art.3 della costituzione nella parte in cui non fa rientrare i prossimi congiunti della parte tra coloro che possono astenersi dal testimoniare nel processo civile.

“ L’art. 249 c.p.c. estende al processo civile le disposizioni degli art. 351 e 352 c.p.p. relative alla facoltà di astensione dei testimoni, e non anche l’art. 350 (diritto dei prossimi congiunti di astenersi dal testimoniare), modificato in virtù della l. 18 giugno 1955 n. 517, ma l’art. 350 non consta del solo 1° comma, che consente di astenersi ai prossimi congiunti dell’imputato o di uno dei coimputati, ma si diffonde nei successivi tre commi a dettare regole che non possono essere estese al processo civile, e, pertanto, la questione sottoposta all’esame della corte non può essere risolta con collegare l’illegittimità dell’art. 249 al mancato richiamo, nel medesimo, dell’art. 350.

D’altro canto, il sospetto d’incostituzionalità dell’art. 249 non può essere eliminato con proclamare una sorta di “superiorità sostanziale” del processo penale sul processo civile perché in quest’ultimo ricevono garanzia beni che sono meritevoli di difesa in non minor misura di quelli che costituiscono oggetto del processo penale (si pensi alle questioni di stato e ai rapporti di lavoro).”

Osserva la Corte che il mancato richiamo -nell’art. 249 cpc – dell’art.350 cpp concernente il diritto dei prossimi congiunti dell’imputato di astenersi dal testimoniare non può formare oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale, in quanto le regole poste nei commi secondo, terzo, quarto dello stesso art.350 non sono estensibili al processo civile; ma ancorchè sussista egualmente il sospetto di incostituzionalità del precitato art.249 cpc – dal momento che il processo civile garantisce beni meritevoli di tutela in non minor misura di quelli oggetto del processo penale – la relativa problematica va affidata al legislatore:

Corte cost. 29 ottobre 1987, n. 352, Foro it., 1988, I, 1759: dichiara dunque l'inammissibilità della questione relativa all'art. 249 c.p.c. (all'audizione dei testimoni si applicano le disposizioni degli art. 351 e 352 c.p.p.) nella parte in cui non fa rientrare i prossimi congiunti tra coloro che possono astenersi dal testimoniare (l'art. 350 c.p.p., infatti, non è richiamato). Secondo la corte, “la questione non può essere risolta col collegare l'illegittimità dell'art. 249 al mancato richiamo, nel medesimo, dell'art. 350” (“l'art. 350 non consta del solo primo comma, ... ma si diffonde nei successivi tre commi a dettare regole che non possono essere estese al processo civile”); d'altro canto, “il sospetto di incostituzionalità non può essere eliminato col proclamare una sorta di superiorità sostanziale del processo penale sul processo civile”.

E' vero tuttavia che in altre occasioni la Corte costituzionale non ha mancato di richiamare una determinata previsione normativa, estendendola alla fattispecie in quanto ad essa applicabile. Una volta allargata la facoltà di astensione ai prossimi congiunti, potrebbero applicarsi le regole procedurali di cui agli art. 205 c.p.c., relativo alla risoluzione degli incidenti in ordine alla prova, e 351 c.p.p., sul diritto d'astenersi dal testimoniare e divieto d'esame determinati dal segreto professionale o di ufficio.

La corte con la sentenza 23 luglio 1974, n. 248, Foro it., 1974, I, 2220, con nota di richiami, aveva dichiarato fondata la questione di legittimità dell’art. 247 c.p.c., affermando così la capacità a testimoniare anche dei prossimi congiunti sotto il vincolo del giuramento. Questa sentenza, però, se da un lato ha consentito ai prossimi congiunti di testimoniare, dall’altro nulla

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disse (né probabilmente poteva dire) in ordine alla facoltà di astensione dei congiunti: ed il codice di procedura civile – stante l’originario tenore dell’art. 247 – non si pone il problema della facoltà di astensione di tali soggetti (v. art. 249 c.p.c.), problema disciplinato, invece, dall’art. 350 del c.p.c. penale, che peraltro non ha mai contenuto alcun divieto di testimoniare per i prossimi congiunti (cfr., COMOGLIO, Incapacità e divieti di testimonianza nella prospettiva costituzionale, in Riv. dir. proc., 1976, 43 ss., 71 ss.;).

La corte, con la sentenza 352/1987 afferma di non poter intervenire nuovamente in materia, per correggere la portata della sua precedente sentenza 248/74, , Nel senso che dopo la sentenza 248/74 sia necessario l’intervento del legislatore, v. COMOGLIO, cit.

Il problema della previsione o meno della facoltà di astensione per i prossimi congiunti chiamati a testimoniare, nasce infatti in conseguenza della sent. n. 248/74 con cui la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità del divieto di testimoniare ad essi relativo. E' solo una volta ammessa la capacità testimoniale dei congiunti anche nel processo civile, infatti, che per il richiamo dell'art. 249 c.p.c. unicamente agli art. 351 e 352 c.p.p., può profilarsi un contrasto col principio di uguaglianza. Il brusco passaggio dal divieto all'obbligo di testimoniare trascura inoltre completamente, due dei profili che avevano fondato il divieto medesimo (l'inattendibilità dei testi e l'esigenza di tutelare l'unità e la pace familiare), di cui la pronuncia del '74 non si era occupata ,per rispettare i quali (in specie per il secondo profilo) si suggerisce in dottrina di introdurre la facoltà di astensione, o quantomeno di prevedere normativamente che l'assunzione della testimonianza non avvenga nelle forme canoniche, con obbligo di giuramento e rischio che il teste incorra nel reato di falsa testimonianza, ma in quelle dell'interrogatorio libero, di cui all'art. 421 c.p.c. (e all'art. 117 stesso codice).

Si auspica quindi un intervento legislativo che ammetta, con le opportune modalità di controllo da parte del g.i la facoltà di astensione da parte dei soggetti cui si applicava l’abolito divieto di cui all’art.247 cpc.

Tale problematica, in assenza di alcun intervento legislativo appare ancora attuale tanto più che l’art.199 del codice di procedura penale dell’88 ha esteso l’ambito soggettivo della facoltà di astensione dei prossimi congiunti includendovi i soggetti legati da vincoli di adozione , da legami di fatto di convivenza more uxorio, al coniuge separato, divorziato o nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento del matrimonio al fine di contemperare la esigenza di accertamento della verità con quella di tutela dei sentimenti di solidarietà familiare.

Con sentenza n.205 del 27 /6/97 viene dichiarata inammissibile analoga questione di

legittimità costituzionale dell’art.249, in riferimento agli artt.3,29 costituzione ( ed infondata con riferimento all’art 24, secondo comma,della costituzione )sollevata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Venezia ( in un procedimento penale per falsa testimonianza in ragione della deposizione già resa in un processo del lavoro dalla figlia della parte attrice ascoltata come testimone e non interrogata liberamente dal giudice) La decisione pare improntata, per certi aspetti, alla stessa ratio ispiratrice della citata sentenza 8 aprile 97 ,n.87, richiamando la necessità di bilanciare la possibile astensione dal dovere di testimoniare con altri valori costituzionalmente garantiti.

Il giudice remittente muove censure di illegittimità costituzionale all’art.249 cpc nella parte in cui, nel disciplinare la facoltà di astensione dei testimoni attraverso le norme dettate per il processo penale ( art.351 e 352 cpc ora da intendere articoli 200, 201 e 202 del nuovo cpp) non richiama anche la facoltà di astensione dei prossimi congiunti, che nel processo penale non possono essere obbligati a deporre e devono essere avvertiti della facoltà di astenersi ( art.199 nuovo cpp). Il giudice a quo dubita che la mancata previsione nel processo civile della facoltà di

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astensione dei prossimi congiunti – che sarebbe dovuta all’omesso coordinamento delle diverse disposizioni a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’originario divieto per essi di testimoniare – sia in contrasto:

- A)con gli art.3 e 29 della costituzione per disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni, considerate analoghe nelle quali è assicurata la tutela del diritto e del dovere di riserbo ( segreto professionale e segreto di ufficio) ed alla facoltà di astensione degli stessi soggetti nel processo penale mentre irragionevolmente non sarebbe attribuito alcun rilievo ai vincoli ed ai rapporti familiari, sacrificati totalmente al dovere di dire la verità rendendo testimonianza;

- B)con il diritto di difesa garantito dall’art.24 della costituzione ed inteso non come diritto alla difesa tecnica , ma in senso ampio, come diritto al trattamento più favorevole previsto dall’ordinamento per determinate categorie di testimoni, non punibili se non avvertiti della facoltà, loro riconosciuta, di astenersi dal testimoniare( articolo 384, secondo comma cpp).

- Con riguardo al profilo A osserva la Corte che i problemi posti in relazione all’art.249 ,

come già osservato con la sentenza n.352/87 , restano affidati al legislatore, comprendendo la disciplina del diritto di non testimoniare nel processo penale( art.350 vecchi cpc) regole che non possono essere estese al processo civile e che le regole poste per il processo penale non costituiscono necessariamente il modello per ogni altra disciplina processuale. Il giudice remittente aveva osservato che una volta superato, nel processo civile, il divieto di deporre delle persone legate di vincolo di parentela con le parti del giudizio (già posto dall’art.247 cpc )con la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n.248 del 1974, divieto ispirato ad una aprioristica valutazione negativa di credibilità del testimone, poco compatibile con il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione delle prove ed in contrasto con il diritto di difesa garantito dall’art.24 della costituzione ,sarebbe venuto a mancare del tutto qualsiasi rilevo dei vincoli di solidarietà familiare in relazione al generale dovere di prestare testimonianza, vincoli che il legislatore considera invece nell’assicurare la facoltà di astenersi nel deporre nel processo penale. La Corte osserva che l’ordinamento riconoscendo anche in altre particolari situazioni le esigenze di tutela dei diritti della persona, ammette l’esenzione del dovere di testimoniare quando la deposizione possa incidere su taluni beni costituzionalmente protetti e considera nella sua complessiva articolazione anche la salvaguardia della famiglia, nel rispetto dei doveri di solidarietà che ne derivano ma è poi lo stesso ordinamento a disciplinare , casi estensione e modalità dell’esenzione dal testimoniare, bilanciando i diversi interessi in gioco, in modo da salvaguardare anche il diritto alla prova quale strumento del diritto di difesa ed il processo La corte perviene sul punto A ( art.3 e 29 costituzione) ad una pronuncia di inammissibilità della questione in presenza di una pluralità di scelte e di modelli che il legislatore può adottare” comprendendo la disciplina del diritto di non testimoniare nel processo penale ( art.350 del cpp del 1930) regole che non possono essere estese al processo civile: né le regole poste per il processo penale costituiscono necessariamente il modello per ogni altra disciplina processuale “

In riferimento al punto B (articolo 24 della costituzione) dichiara la questione manifestamente infondata giacchè quale che sia l’ampiezza da riconoscere al diritto di difesa, questo non può comprendere, la pretesa all’estensione di cause di non punibilità inerenti alla disciplina sostanziale delle figure di reato.

Anche la dottrina (Saletti, Rivista di diritto processuale 1975) auspica un intervento legislativo per eliminare lo squilibrio venutosi a creare tra la materia civile e quella penale a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art.247 cpc che , abolendo il divieto di

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testimoniare dei prossimi congiunti (che affondava le sue radici nel diritto napoleonico e che è stato riprodotto nel codice del 42 negli stessi termini in cui sussisteva nel codice del 1865) ha determinato un brusco capovolgimento di situazioni tra la materia penale e quella civile perché nella prima la testimonianza dei prossimi congiunti è ammessa con la facoltà di astensione ,nella seconda si è passati, all’improvviso, da un regime assolutamente restrittivo(divieto assoluto di testimonianza) ad uno più estensivo ( incondizionato dovere di deporre) di quello previsto dal codice di procedura penale. Si sollecita quindi un intervento legislativo che elimini il divario venutosi a creare a seguito della sentenza 248/74.

Incapacità a testimoniare del difensore Particolarmente controversa la posizione del difensore considerato che le cause di

incapacità a testimoniare ed i relativi divieti sono tassativamente indicati dall’art.246 cpc e non sono suscettibili di interpretazione estensiva.

Gli avvocati non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della loro professione, e ciò sia nei processi penali (art. 200, 1° comma, sub b, c.p.p.), sia nei processi civili (art. 249 c.p.c., che richiama le disposizioni processuali penali), sia più genericamente “nei giudizi di qualunque specie” (art. 13 r.d. 27 novembre 1933 n. 1578) . Questo principio, esteso anche ai praticanti ( vedi sentenza della corte costituzionale n87 97 che fornisce una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.249 cpc) non richiede particolari spiegazioni: esso è diretto ad impedire che determinati soggetti, in quanto destinatari di particolari doveri, possano essere obbligati a deporre su fatti e circostanze di cui abbiano avuto cognizione in seguito a rivelazioni o confidenze ricevute dai clienti, o comunque appresi nell’esercizio dell’attività professionale. ( Remo Danovi , note a tribunale di Milano dell’8.5.96 che appresso di commenta ) In effetti, il fondamento della facoltà di astensione riposa, sotto il profilo sostanziale, nell’art. 622 c.p., che tutela l’interesse alla inviolabilità del segreto e punisce “chiunque, avendo notizia per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela senza giusta causa”. Non è un caso che sia la rubrica dell’art. 622 c.p., sia quella dell’art. 200 c.p.p. facciano riferimento al “segreto professionale”: è questo infatti il cardine dell’intero sistema difensivo, che vede nella fiducia tra parte assistita e patrono (e nella custodia del segreto che l’accompagna) un valore essenziale per la stessa realizzazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito . - Affermato l’obbligo per l’avvocato di non rivelare le notizie apprese nell’esercizio del suo mandato, e correlativamente il diritto di astenersi ove sia chiesta la sua testimonianza (il diritto di tacere), i principî sono stati posti in discussione in alcuni casi nei quali è stata richiesta la testimonianza dell’avvocato in costanza di mandato (per lo più su iniziativa dello stesso cliente che esonera, per così dire, il proprio avvocato dal rispetto del segreto ed anzi gli richiede espressamente di riferire su fatti e circostanze conosciuti nell’ambito dell’attività difensiva svolta) . Dal punto di vista sostanziale, che il segreto copre soltanto quanto è stato appreso nell’esercizio dell’ufficio o professione (art. 200 c.p.p.), ovvero “quanto è stato confidato (all’avvocato) o sia pervenuto a sua conoscenza per ragione del suo ufficio” (art. 13 l.p.f.), e dunque non copre quanto in ipotesi sia conosciuto dall’avvocato prima di assumere il mandato difensivo (onde in tal caso l’avvocato non può invocare il segreto professionale e non può sottrarsi alla testimonianza neppure se vorrebbe) . Ma sia nel primo che nel secondo caso si pone il problema del rapporto tra la posizione che l’avvocato viene ad assumere come testimone e la funzione difensiva e più in particolare il

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problema della capacità o incapacità a testimoniare dell’avvocato nel giudizio in cui siano espletate le sue attività difensive. Vi è infatti una percettibile inconciliabilità tra le due funzioni, dal momento che il testimone ha l’obbligo di dire soltanto la verità (e tutta la verità), mentre il difensore rappresenta la parte e la assiste, in entrambi i casi dovendo assicurare soltanto la lealtà e probità (con tutta la fedeltà possibile) a sostegno degli interessi difesi . La giurisprudenza ha avuto modo di intervenire in una serie non numerosa di casi, affermando per lo più il principio che non vi è incompatibilità tra la qualità di difensore e quella di testimone.

Ripercorrendo l iter giurisprudenziale formatosi sul punto ,una isolata giurisprudenza di legittimità ormai risalente (cass.13 aprile 51 n.893 ) aveva escluso l’incapacità a testimoniare del procuratore costituito in giudizio ed a maggior ragione dell’avvocato non rientrando essi nel novero delle persone indicate dall’art.246 cpc che abbiano cioè nella causa un interesse che potrebbe legittimare la lori partecipazione al giudizio salve le opportune valutazioni sulla loro attendibilità mentre la successiva evoluzione interpretativa della giurisprudenza di merito era pervenute ad opposte conclusioni(Tribunale di Napoli del 15 dicembre 76 afferma l’incompatibilità solo in costanza di mandato)

In effetti le ipotesi di cui all’art.246 cpc sono tassative,anche perchè limitatrici di un diritto, dovendosi escludere interpretazioni estensive della cause di incapacità che ricorrono solo quando una persona abbia nella causa un interesse personale, concreto ed attuale che, ai sensi del’art.100 cpc, sia tale da coinvolgerla nel rapporto controverso e da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale e processuale del giudizio e non già un mero interesse di fatto in relazione a situazione ed a rapporti diversi da quello oggetto della vertenza anche se con questo in qualche modo connessi(Cass.4.8.95,n.8605 e 26 maggio 98 n.5221 e 2.3.98 n.2266).

Una articolata ordinanza del Tribunale di Milano dell’8 maggio 96 , con ampia nota di Remo Danovi ,che si segnala perchè ripercorre con estrema chiarezza le posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza(Foro Italiano 97, parte I ,956) ,resa in sede di reclamo, afferma che il difensore di una delle parti del processo è istituzionalmente e funzionalmente incapace a rendere testimonianza nell’ambito dello stesso processo.

Argomenta il Tribunale che il testimone è persona diversa dai soggetti processuali laddove il procuratore è soggetto che assume la rappresentanza processuale della parte ai sensi dell’art.83 e 84 cpc e che la capacità di testimoniare è in funzione della estraneità al processo e che chiunque partecipa al processo in una posizione tipica svolge una funzione alla quale deve restare fedele e non può assumerne un altra senza contraddire alla prima in quanto la tipizzazione e la reciproca inconfondibilità delle funzioni è essenziale alla dialettica del processo che verrebbe pregiudicata dal cumulo e dalla confusione di tali funzioni e dalla commistione dei ruoli processuali.(Satta,Commentario).Tale esigenza si pone in modo più pressante dopo la entrata in vigore della legge n.27 del 97 che ha soppresso l’albo dei procuratori ed abolito la distinzione tra le due professioni di procuratore -che rappresenta la parte- e di avvocato -che l’assiste- che era sancita dagli artt.83 e 87 cpc valutabile diversamente ai fini dell’incapacità dal momento che solo il procuratore che rappresentava e sostituiva la parte avrebbe potuto essere incapace di testimoniare.

Quindi finchè permane la funzione difensiva di assistenza e e rappresentanza non può essere assunta dall’avvocato nello stesso processo una posizione di estraneità e alternatività quale si attribuisce per definizione al teste determinandosi diversamente una inconciliabilità di ruoli che non è l’incapacità definita dall’art.246 cpc ma una incompatibilità di funzioni e di ruoli di carattere

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eminentemente istituzionale e funzionale(la dottrina ,Grifantini, l’incapacità a testimoniare ha elaborato la figura della incompatibilità sottolineando che la incapacità consiste nell’inidoneità di un soggetto ad assumere la qualità di teste e l’incompatibilità si ha quando un soggetto ,pur essendo capace, non è legittimato a deporre a causa della posizione assunta o dell’attività esercitata nel processo; l’incompatibilità presuppone quindi l’esistenza della capacità a deporre)che impone per l’avvocato nel processo un duplice e alternativo obbligo di astensione: come teste(se viene invocato il diritto alla riservatezza ed al segreto professionale) come difensore se (se viene privilegiato il diritto alla testimonianza)dovendo comunque evitarsi la confusione di un ruolo soggettivo di difesa con una funzione oggettiva di testimonianza..

Il giudice in tal caso se l’avvocato non rinuncia al mandato difensivo applicherà l’art.245 cpc che gli consente di eliminare i testimoni che non possono essere sentiti per legge mentre la testimonianza potrà essere raccolta qualora l’attività difensiva sia venuta a cessare prima del provvedimento di ammissione del giudice.

Nel caso di dismissione del mandato, se la testimonianza è stata resa, il difensore non potrà riassumere il mandato permanendo la qualità di teste fino alla sentenza definitiva.

Osserva ancora il Tribunale che le circostanze sulle quali il procuratore teste è chiamato a deporre potrebbero anche non giovare alla parte e creare perciò un conflitto di interessi per cui l’obbligo del teste di rendere una deposizione obiettiva e veritiera mal si concilia con il potere dovere di assistenza e difesa della parte nel cui interesse egli esercita il mandato che gli impone soltanto la lealtà e probità a sostegno degli interessi difesi .Le conseguenze negative dell’esercizio della facoltà di testimoniare potrebbero arrivare alla commissione del reato di violazione del segreto professionale (ove la testimonianza fosse resa contro la volontà della parte).

In ultimo osserva il Tribunale che i testimoni devono essere sentiti separatamente ai sensi dell’art.251 cpc al fine di preservare la genuinità delle singole deposizioni e rendere, in ipotesi, possibile, in caso di difformità e contrasto di contenuti, il confronto tra più testimoni tant’è che in dottrina si è addirittura affermato che la prova testimoniale assunta in violazione della suddetta norma dovrebbe ritenersi nulla per inidoneità al raggiungimento dello scopo e che tale finalità sarebbe vanificata dalla presenza del difensore all’escussione di tutti gli altri testimoni sia precedenti che successivi alla propria deposizione, in ragione dei doversi di assistenza discendenti dal mandato:.( TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza, 16-02-1989”La norma dell’art. 251, 1° comma, c.p.c. nel disporre che “i testimoni sono esaminati separatamente”, è destinata a salvaguardare la veridicità e l’originalità delle risposte dei testimoni; tuttavia, nel silenzio della legge, il mancato allontanamento dei testi dall’aula dell’udienza non può costituire motivo di nullità ma – soltanto ed eventualmente – d’inattendibilità delle successive loro affermazioni (nella specie, il giudice istruttore ha ritenuto ammissibile l’escussione come teste del difensore che aveva assistito all’audizione degli altri testimoni)

Conclude il Tribunale ritenendo che tali osservazioni, complessivamente considerato valgano ad integrare una peculiare fattispecie di incapacità a testimoniare di carattere eminentemente istituzionale e funzionale tenuto conto dei profili deontologici .

Non va infatti sottovalutato il ruolo della deontologia professionale non più sussidiario o secondario rispetto alle regole processuali ma complementare ad esse.

Le norme deontologiche(law of lawyering o legal ethics)-intese in funzione integrativa delle norme processuali- con lo stesso carattere di giuridicità e vincolatività- raccomandano all’avvocato di astenersi dal rendere testimonianza e comunque di dismettere il mandato e non riassumerlo in seguito facendo prevalere il dovere di difesa su quello di testimoniare.( vedi ad esempio la decisione del Consiglio dell’ordine degli Avvocati e procuratori di Vicenza del 25 ottobre 95 che ha ritenuto non conforme ai canoni deontologici il prestare testimonianza su

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circostanze sfavorevoli alla controparte, apprese nel corso di un colloquio tendente alla transazione della lite,, non potendo avere rilievo la dismissione del mandato difensivo anteriormente alla prestazione della testimonianza). Non possono certo ignorarsi le conseguenze paradossali derivanti dalla commistione dei due ruoli processuali: il procuratore si troverebbe a deporre sulle circostanze che nella veste di difensore ha ritenuto rilevanti ai fini della decisione in senso favorevole al proprio cliente e che lui stesso ha dedotto ed incluso nell’articolato di prova, dovrebbe poi rivolgere a sè stesso domande a chiarimento dell’articolato e discutere dell’attendibilità dei testi e delle risultanze della prova testimoniale escussa. In dottrina, la stessa contrapposizione di tesi: vi è chi ritiene “perfettamente ammissibile che il procuratore, ed a più forte ragione l’avvocato, possano deporre come testi, senza necessità di dover rinunciare al mandato, salva la loro facoltà di astenersi” ; e per contro chi afferma recisamente che “chiunque partecipa al processo, in una posizione tipica, qualunque essa sia, svolge una funzione alla quale deve restare fedele e non può assumerne un’altra senza necessariamente contraddire alla prima: . . . questo principio non si trova enunciato nella legge perché non ha bisogno di essere scritto” . È stato infatti osservato che “nessuna incapacità a testimoniare esiste per il procuratore costituito in giudizio e tanto meno per l’avvocato, non rientrando essi nel novero delle persone indicate nell’art. 246 c.p.c., che abbiano cioè nella causa un interesse che potrebbe legittimare il loro intervento” . Ed infatti, “l’interesse indiretto del difensore alla vittoria del proprio difeso, al pari di ogni altra possibile ragione di minore attendibilità del teste, può dar luogo alle osservazioni in sede di assunzione, consentite dall’art. 252 c.p.c. (allegazioni a sospetto secondo il codice abrogato)” . Più limitativamente, in taluni casi è stato precisato che l’avvocato o il procuratore possono deporre soltanto se hanno dismesso il mandato , mentre più raramente è stata affermata l’incompatibilità assoluta della qualità di difensore con quella di testimone nello stesso giudizio . Tuttavia quando le funzioni difensive siano cessate, o per rinuncia o perché si tratta di altro processo, non può escludersi totalmente la testimonianza: “de iure condendo sarebbe forse auspicabile una integrale esclusione della testimonianza . . ., ma de iure condito ciò non può ammettersi se non come diritto di astensione, e nei limiti fissati dall’art. 249 c.p.c.” . - Anche nel processo penale, ma con maggiore ricchezza di argomentazioni, il tema è stato dibattuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza. È ammessa in generale la possibilità per gli avvocati di deporre quali testi nelle cause che riguardano i loro clienti , ma non è ammesso il contemporaneo esercizio della funzione di difensore e di testimone : con la conseguenza che, se assume la veste di testimone, l’avvocato difensore perde la sua qualifica (“non potendo cumulare in sé la veste di titolare di una funzione indispensabile per il regolare contraddittorio del processo e quella di organo di prova e quindi di produttore di elementi che costituiscono oggetto del processo stesso”) ; e in tal caso, persa la qualifica, l’avvocato non può riassumerla . È stato infatti precisato al riguardo che “deve considerarsi legittima la decadenza automatica dall’ufficio di difensore nel dibattimento, quando questi assuma anche la veste di testimone, poiché deve ritenersi prevalente la funzione di testimone, in considerazione del fatto che in materia penale l’accertamento della verità costituisce obiettivo prioritario”. In effetti, sotto un profilo formale, non sussiste certamente l’incapacità a testimoniare dell’avvocato, quale disciplinata dall’art. 246 c.p.c. Come infatti lo stesso Tribunale di Milano nell’ordinanza dell’8.5.96 ha precisato, è certo che l’avvocato costituito in giudizio non ha un interesse che potrebbe legittimare il suo intervento in giudizio.

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Ancora se l’art. 249 c.p.c. (come il correlativo art. 200 c.p.p. e 13 l.p.f.) prescrive che l’avvocato “non può essere obbligato” a deporre su quanto ha appreso per ragione del proprio ufficio o della professione, è evidente che la norma consente la deposizione: se l’avvocato infatti non è obbligato a deporre, ciò significa che può farlo se lo ritiene (o sussiste una giusta causa per farlo) . Certo, “le circostanze su cui il procuratore teste potrebbe essere chiamato a deporre potrebbero anche non giovare alla parte e creare perciò con questa un conflitto di interessi che mal si concilia con la facoltà del difensore di libera critica e libera valutazione della prova” , ma le conseguenze negative derivanti dall’esercizio della facoltà di testimoniare (conseguenze negative che potrebbero arrivare alla commissione del reato di violazione del segreto professionale, ove la testimonianza fosse resa contro la volontà della parte) non possono escludere istituzionalmente la capacità a deporre. Né va dimenticato che le incapacità a testimoniare sono viste con disfavore dall’ordinamento. Senza considerare poi che, “il diritto alla prova”, quale manifestazione essenziale della garanzia dell’azione e della difesa, deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile ; al punto che si è arrivati a considerare quale violazione dell’articolo 6 della CEDU la mancata ammissione della testimonianza del legale rappresentante di una società( in un procedimento promosso contro il governo olandese), sul presupposto che “ciascuna parte deve disporre di una ragionevole opportunità di esporre il proprio caso, comprese le prove, a condizioni che non la pongano in posizione di sostanziale svantaggio nei confronti della controparte”, CEDU 27 ottobre 93 . (il caso Dombo Beheer, vedi appendice alla relazione,capacità di testimoniare ) . - Tuttavia, questa innegabile conclusione (l’incapacità a testimoniare per l’avvocato non è espressamente prevista da alcuna norma, ed anzi è stabilito il contrario) lascia immutato il problema se la deposizione come teste possa essere resa nello stesso processo in cui l’avvocato presta (e continua a prestare) il suo patrocinio, ovvero ciò debba essere escluso e quindi debba essere ravvisata in qualche modo l’inconciliabilità di cui abbiamo parlato all’inizio.. Al riguardo occorre evidenziare che l’art. 246 c.p.c. non sembra offrire chiarimenti, mentre l’art. 249 c.p.c. (e il correlativo art. 200 c.p.p. e 13 l.p.f.) potrebbe essere interpretato nel senso che la facoltà di deporre (quanto al contenuto, in relazione alle notizie apprese nell’esecuzione di un mandato) potrebbe essere riconosciuta soltanto in un processo in cui l’avvocato non abbia il patrocinio. Ed infatti, se la ratio dell’art. 200 c.p.p., a cui si richiama l’art. 249 c.p.c., è quella di proteggere la riservatezza in favore di una pluralità di categorie che non hanno particolari ruoli nel processo in cui depongono (medici, notai, ministri di culto ed altri), è certo che la norma non serve per legittimare la deposizione dell’avvocato nello stesso processo in cui è difensore, ma al contrario può ritenersi che la norma lo escluda, come è per tutte le categorie previste. Sicché, proprio con riferimento a questa interpretazione, che poi si riporta ai principî generali sulla diversità delle funzioni nell’ambito di uno stesso processo, si dovrebbe concludere che non può essere ammessa la deposizione dell’avvocato nel giudizio in cui questi esplica la sua attività difensiva.

In effetti, finché permane la funzione difensiva (di rappresentanza o di assistenza) non può essere assunta dall’avvocato nello stesso processo una posizione di estraneità o alternatività quale si attribuisce per definizione al teste; né potrebbe l’avvocato, ad esempio, porre domande a se stesso o discutere sulla attendibilità dei testi senza palesare uno stridente contrasto di ruoli. Una inconciliabilità, dunque, che non è una incapacità come definita dall’art. 246 c.p.c. , ma una vera e propria incompatibilità di funzioni e di ruoli (“di carattere eminentemente istituzionale e funzionale”,(se si vuol dire con le parole del tribunale di Milano ) , che impone l’obbligo di astensione dal patrocinio (come avviene ad esempio per il giudice, che deve astenersi se ha

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deposto in causa come teste ex art. 51, n. 4, c.p.c.) . “l’incapacità consiste nell’inidoneità di un soggetto ad assumere la veste di testimone; l’incompatibilità si ha quando un soggetto, pur essendo capace, non è legittimato a deporre a causa della posizione assunta o dell’attività esercitata nel procedimento; si può affermare, perciò, che l’incompatibilità presuppone l’esistenza della capacità a deporre”. Vi è dunque nel processo, per l’avvocato, un duplice e alternativo obbligo di astensione: come teste (se viene invocato il diritto alla riservatezza e al segreto professionale); come difensore (se viene privilegiato il diritto alla testimonianza). Cosicché il giudice potrà, se l’avvocato non rinuncia al mandato difensivo, applicare l’art. 245 c.p.c. (il giudice “elimina i testimoni che non possono essere sentiti per legge”), mentre la testimonianza potrà essere raccolta, ove l’attività difensiva non sia in essere o sia venuta a cessare prima del provvedimento di ammissione del giudice . Nel caso poi in cui il mandato sia dismesso, e la testimonianza sia resa, non potrà certamente il difensore riassumere il mandato, permanendo la qualità di teste fino alla sentenza definitiva . - Alle stesse conclusioni potrebbe pervenirsi sulla base del richiamo alle norme deontologiche. Spetta alla deontologia identificare i comportamenti da tenere anche nell’ambito del processo, e ciò non soltanto come applicazione dell’art. 88 c.p.c. (ed analogamente dell’art. 105, n. 4, c.p.p.), ma anche come espressione della potestà disciplinare degli organi forensi. Le norme deontologiche invero devono essere intese in funzione integrativa delle norme processuali, con lo stesso carattere di giuridicità e vincolatività. proprio sul problema in esame le norme deontologiche che sono state fino ad ora applicate e lo stesso progetto di codice deontologico in corso hanno chiaramente raccomandato all’avvocato l’astensione dal rendere la testimonianza, imponendo comunque la dismissione dal mandato. Così infatti, in particolare, il codice deontologico enuncia un principio generale (“per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto”) e un conseguente canone complementare (“qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo”) ). A chiarimento di questi principî, nella applicazione della giurisprudenza disciplinare si è detto che non potendosi escludere totalmente la possibilità di deporre (per le ragioni di diritto positivo già espresse), le norme deontologiche devono imporre l’astensione dalla testimonianza “per quanto possibile” : e ciò significa richiamare il difensore al dovere di riservatezza e segretezza, che non è solo protezione degli interessi della parte, ma è soprattutto protezione della funzione. Sicché non è solo la parte autorizzata a richiedere la deposizione del proprio difensore, ma è quest’ultimo che deve autonomamente decidere se esistano condizioni particolari e giustificate ragioni per farlo. Né mai l’avvocato potrebbe comunque deporre contro la volontà del cliente, né mai il cliente potrebbe comunque imporre all’avvocato di deporre (tanto meno quando l’avvocato avesse appreso notizie o avesse avuto conoscenza di fatti da un collega). D’altro lato, qualora l’avvocato intenda deporre, dovrà dismettere il mandato e non potrà riassumerlo, e ciò per togliere quella immedesimazione nella lite, che inevitabilmente finirebbe per ravvisarsi ove l’avvocato difensore fosse anche teste e poi riassumesse la qualità di difensore, confondendo un ruolo soggettivo di difesa con una funzione oggettiva di testimonianza. Sono dunque questi i principî comuni che offrono una confortevole base esplicativa delle disposizioni applicabili nell’ambito della testimonianza (oltre che dell’art. 88 c.p.c.), e consentono di riaffermare la funzione complementare delle norme deontologiche nel processo.

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È dunque da accogliere l’invito sempre più ricorrente a tener conto delle norme deontologiche e più in generale del diritto forense (la law of lawyering), per contribuire ad allargare la conoscenza dei problemi ed individuare gli specifici comportamenti che possano essere raccomandabili per la professione e utili per il processo.

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Ammissibilità della prova testimoniale limiti di ammissibilità della prova testimoniale – capitoli valutativi e negativi La prova per testi deve avere per oggetto fatti obiettivi, vale a dire circostanze o

elementi materiali in quanto il teste deve essere chiamati a deporre su fatti storici caduti sotto la sua percezione e non invece su apprezzamenti o giudizi; non può pertanto riguardare valutazioni tecniche o qualificazioni giuridiche o meri giudizi privi di riferimenti concreti ed appigli obiettivi(Cassazione 1173/94);( in tema di prova del possesso , consistendo questo in una relazione tra il soggetto e la cosa, può formare oggetto di testimonianza l’attività attraverso la quale il possesso si manifesta non il risultato del suo esercizio nel quale il possesso si identifica( cassazione 4370 del 9.5.96);ciò tuttavia non esclude che il teste possa riferire le proprie impressioni scaturenti dalla propria osservazione e percezione diretta del fatto e delle sue modalità(come ad esempio la velocità di un veicolo coinvolto nell’incidente stradale)( Cassazione 4111 dell’8.4.1995 e 2270 del 2.3.98) sempreche’ non costituiscano opinioni attuali ma il ricordo del fatto osservato e non si traducano in una interpretazione del tutto soggettiva o indiretta del fatto priva dell’indicazione dei dati obiettivi e delle modalità specifiche della situazione concreta (cass.5.2.94,n1173) ;Il giudice del merito deve dunque negare valore probatorio decisivo solo alla deposizione testimoniali che si traduca in una interpretazione del tutto soggettiva o indiretta o in un mero apprezzamento tecnico o giuridico del fatto, senza indicare dati obiettivi e modalità specifiche della situazione concreta, tali da far uscire la percezione sensoria da un ambito puramente soggettivo, sì da trasformarla in un convincimento scaturente obiettivamente dal fatto medesimo

Consulenza tecnica Quanto alla consulenza tecnica si afferma in giurisprudenza che la ctu non può essere

intesa come mezzo che esonera le parti dall’onere della prova dovendo la stessa essere utilizzata invece per la valutazione di fatti già provati da chi aveva l’onere di dimostrarli ed il ctu non può essere chiamato ad accertare fatti che possono essere oggetto di prova testimoniale anche se di difficile dimostrazione. Si ritiene peraltro che la consulenza tecnica possa costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva nell’accertamento di fatti rilevabili o valutabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche o rispetto ai quali la consulenza si presenti come strumento tecnicamente più efficace e funzionale di indagine ( ad esempio per la ricostruzione della dinamica di un sinistro stradale per la verifica delle condizioni statiche di un edificio ) o per il caso in cui la consulenza sostituisca l’ispezione giudiziale che dovrebbe comunque svolgersi con l’assistenza del ctu ove sia necessaria per rilevare consistenza e caratteristiche di un opera ( ad esempio rilevazione delle distanze legale tra costruzioni e vedute ovvero della lesione del decoro architettonico)

Anche nell'ipotesi di consulenza tecnica d'ufficio c.d. percipiente che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere in toto l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente, essendo necessario che quantomeno deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti. - Cass., sez. I, 01-10-1999, 10871/1999

Afferma la. Corte Suprema in un caso di reiezione della richiesta di consulenza contabile in tema di appalto che fermo restando che rientra nella discrezionalità del giudice di merito disporre o meno consulenza tecnica, che del tutto correttamente la Corte territoriale ne aveva escluso l'ammissibilità, in difetto di qualsiasi indicazione, ad opera dell’istante (e dei suoi eredi), di elementi tali da render necessaria, o solo possibile, un'indagine volta a riscontrare l'esattezza dei dati contabili risultanti dallo stato finale : la consulenza tecnica d'ufficio avrebbe finito per

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assolvere ad una funzione meramente esplorativa, per di più a distanza di oltre 25 anni dal compimento dei lavori:

Ritiene quindi che sul punto, quindi, la sentenza impugnata abbia fatto buon governo del principio secondo cui, anche nell'ipotesi di consulenza tecnica d'ufficio c.d. percipiente, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente, essendo necessario che quantomeno deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti ( e richiama. SS.UU. 9522/96).

La consulenza quando non sia volta all’accertamento di fatti materiali ma consista in un indagine essenzialmente critica e valutativa , non costituisce un vero e proprio mezzo di prova ma serve solo a fornire al giudice argomenti alle proprie valutazioni che rimangono autonome anche quando il gi si limiti ad aderire all’opinione del ctu accogliendone le conclusioni ( cassazione 93/115 in tema di criteri di scelta di lavoratori da licenziare).

Prova a contenuto tecnico La distinzione tradizionale tra consulenza tecnica e la testimonianza risiede nel

criterio che ravvisa nella prima un giudizio e nella seconda una narrazione, tuttavia si ammette la cosiddetta “testimonianza tecnica “ cioè la descrizione di fatti che richiedano cognizioni tecniche che non rientrino nel bagaglio culturale dell’uomo comune. La prova è ammissibile se strettamente collegata all’indicazione di dati obiettivi ed alla descrizione di una situazione concreta caduta sotto la percezione diretta del teste e da questo rilevata( esistenza di vizi della cosa venduta o difetti dell’opera appaltata), è inammissibile quando è volta alla formulazione di meri giudizi tecnici che presuppongono l’individuazione ed applicazione di regole tecniche per la valutazione dei fatti ( ad esempio entità delle immissioni moleste)che è riservata al giudice che ricorre all’ausilio del ctu ove esse esulino dalla sua scienza privata.3

La perizia giurata depositata da una parte non è dotata di efficacia probatoria nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato. Non essendo prevista dall’ordinamento la precostituzione fuori del giudizio di un siffatto mezzo di prova, ad essa si può solo riconoscere valore di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo, il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito ma della quale non è obbligato in nessun caso a tenere conto: Alla parte che ha prodotto la perizia giurata, è peraltro riconosciuta la facoltà di dedurre prova testimoniale avente ad oggetto le circostanze di fatto accertate dal consulente che , se confermate dal medesimo in veste di testimone, possono acquisire dignità e valore di prova, sulla quale allora il giudice di merito dovrà esplicitamente o implicitamente, esprimere la propria valutazione ai fini della decisione ( V. per ultimo Cassazione 19.5.97 n.4437).

Nessuna norma si oppone infatti a che il consulente tecnico di parte che abbia effettuato dei rilievi tecnici prima del giudizio deponga come teste per confermare la corrispondenza della planimetria da lui redatta con la situazione da lui constatata de visu e graficamente descritta nella stessa planimetria. In tal caso il professionista non porta nel processo la propria assistenza tecnica alla parte( ciò che potrebbe fare solo nelle forme previste dall’art.201 cpc) perché la sua deposizione non verte sulla qualificazione dei fatti secondo la sua specifica scienza ed esperienza, bensì unicamente sulla descrizione dei fatti materiali quali sono stati da lui percepiti mediante i sensi. Sarà quindi ad esempio ammissibile il capitolo di prova inteso a dimostrare , in una causa di regolamento di confini, che all’atto del sopralluogo , tra due fondi vi era un filare di alberi o altro

3 Corder che richiama Denti, “testimonianza tecnica” ,in Quaderni del CSM, 1999 Volume Secondo

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segno fisico di delimitazione( ma non anche l’articolato inteso a far affermare al teste che detto segno coincide con quello risultante dalle mappe catastali e dai titoli o ancora , proposta un azione redibitoria, sarà ammissibile il capitolato volto a dimostrare che all’atto del sopralluogo un certo macchinario precisava una anomalia di funzionamento riscontrata in quella sede dal tecnico, ma non anche l’articolato volto a dimostrare che detta anomalia , sotto il profilo eziologico è riconducibile ad uno piuttosto che ad un altro fattore causale).

La funzione che il consulente svolge in tale caso nel processo è esclusivamente quella del testimone( l’eventuale planimetria disegnata da lui, sentito poi come teste, non ha il carattere di elaborato tecnico, ma può essere acquisita agli atti come parte integrante della deposizione ( cassazione 2.1.68 n.1).( Beghini, la prova per testimoni nel rito civile).

Un discorso a pare meritano i preventivi di spesa presentati dal parti in un giudizio di risarcimento del danno che sono un misto di consulenza tecnica di parte e di testimonianza scritta . Costituiscono ad esempio testimonianza nella parte in cui indicano spesso in modo indiretto le parti e le componenti danneggiate del bene ovvero riferiscono i prezzi dei pezzi di ricambio ed i costi della manodopera. Costituiscono consulenza tecnica di parte laddove formulano giudizi circa la riparabilità o non riparabilità di componenti danneggati o laddove determinano le modalità delle riparazioni o la quantità di lavoro necessaria per le medesime : sotto il primo profilo i preventivi si traducono in una testimonianza scritta ossia in un mezzo di prova non previsto nel nostro ordinamento ed a tali dichiarazioni scritte non si può attribuire neppure valore indiziario o di argomenti di prova che legittimamente viene attribuito ad alcune cosiddette prove atipiche perché la dichiarazione di carattere assertivo proveniente da un terzo formerebbe nel processo una prova mediante l’elusione del procedimento predisposto dall ordinamento per la formazione di quella prova medesima ,ossia mediante l ‘elusione del procedimento proprio della prova testimoniale e di tutte le garanzie in primis quella che la prova si formi nel contraddittorio che quel procedimento è volto ad assicurare ( Tribunale di Nola sez.II 30 gennaio 2004)

A tale indagine preliminare sull’oggetto della prova testimoniale dedotta dovrà unirsi da parte del giudice la valutazione della sua ammissibilità sotto il profilo sostanziale

<<<<<<<<>>>>>>>> Prova dei fatti negativi

Nel pensiero giuridico moderno si è andato affermando l’orientamento volto a negare efficacia, nel nostro ordinamento al brocardo negativa non sunt probanda, regola che non trova riscontro nel nostro diritto positivo ed è anzi contraddetta dal contenuto di alcune norme del codice civile e delle leggi speciali che pongono la prova del fatto negativo come elemento costitutivo della relativa azione. Anche la giurisprudenza più risalente concordava nel riconoscere che non è contraria al sistema processuale la prova di un fatto negativo quando esso sia il fatto costitutivo dell’azione.( Così Cassazione 6.2.1952 n.285 , 16 luglio 1969 n 2612 e 6 dicembre 1972 n.3515)

La ripartizione dell’onere probatorio fissata dal fondamentale canone di cui all’art.2697 c.c si basa sulla distinzione fatti costitutivi( cioè rilevanti per la produzione di determinati effetti) impeditivi, modificativi ed estintivi ( che rendono inefficaci i fatti costitutivi o impedendo il prodursi degli effetti ad essi ricollegati o modificandoli o determinandone la cessazione).

Tale sistema è definito dalla dottrina come sistema della semplificazione in quanto consiste nella riduzione dell’onere probatorio dell’attore il quale non è chiamato a provare i fatti costitutivi ed anche la mancanza di fatti impeditivi, modificativi o estintivi ma soltanto i primi giacchè la prova dei secondi incombe al convenuto.

In base ad una valutazione astratta e predeterminata e prescindendo dalla natura positiva o negativa del fatto da provare, si attribuisce all’attore l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi del diritto

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fatto valere( siano essi positivi o negativi) ed al convenuto l’onere di dimostrare i fatti impeditivi, estintivi o modificativi dello stesso Si deve però distinguere il caso del fatto negativo costitutivo del diritto,- che deve essere provato dall’attore e quello delle condizioni negative cioè di quei fatti idonei ad escludere la nascita del diritto azionato dall’attore o da modificarlo o estinguerlo che devono essere provati dal convenuto. Attraverso una interpretazione rigorosa dell’onere probatorio regolato dall’art.2697 c.c la giurisprudenza di legittimità perviene all’affermazione del principio di diritto:

La deduzione della inesistenza di un fatto cioè di un fatto negativo non esonera , per la sola circostanza del particolare contenuto del petitium, dall’onere della prova che sempre incombe a chi chiede una pronunzia giudiziale e che nel caso di fatti negativi deve essere fornita mediante la prova dei fatti positivi contrari (cassazione 13872 del 23.12.91

In conformità del principio di cui all’art.2967 c.c. anche i fatti negativi quando costituiscono il fondamento del diritto che si vuol far valere in giudizio debbono essere provati dall'attore come i fatti positivi(Cass. 17 ottobre 92 n.11432 e 28 novembre 92 n. 12746, 10 .3.86 n.1614, 22.10.76 n.3741)

La prova dei fatti negativi non inverte infatti l’onere della prova ma quando sia desumibile da uno specifico e positivo fatto contrario deve essere data attraverso la dimostrazione di questo ( così Cassazione , Sezione III del 20 febbraio 98 n.1790).

In definitiva l’onere probatorio previsto dall’art.2697 c.c non subisce deroghe allorchè concerne fatti negativi che ove non possano essere provati direttamente possono essere dimostrati con la prova del fatto positivo contrario

La più recente giurisprudenza del Supremo Collegio , ribadendo il principio che l’onere probatorio previsto dall’art.2697 c.c non subisce deroga allorchè concerna la prova di fatti negativi afferma che, ove questi non possano essere provati direttamente, possono essere dimostrati con presunzioni le quali a loro volta, se di regola sono basate sulla prova dei fatti positivi contrari al fatto negativo, possono fondarsi sulla prova di fatti positivi che, per quanto non esattamente contrari a quello negativo, siano pur tuttavia idonei a norma dell’art.2729 c.c a far desumere il fatto negativo (Cassazione 20.5.93, n.5774,Cassazione , sez.III 13 febbraio 98, n.1557 afferma tale principio della utilizzabilità della presunzione nella prova del fatto negativo a proposito della ripetizione dell’indebito allorchè la prova dell’inesistenza della causa solvendi riguardi solo il pagamento effettuato in eccedenza rispetto al dovuto , come riportato infra)

L’utilizzazione della prova per presunzioni riporta nei limiti di ragionevolezza l’attività probatoria richiesta alla parte che alleghi come fatto costitutivo della propria pretesa un fatto negativo dal momento che in certe controversie l’individuazione dell’esatta controprova del fatto negativo risulta molto difficile finendo con l’addossare alla parte che intende provare il fatto negativo un onere probatorio del tutto sproporzionato e contrario al principio generale della migliore attitudine alla prova.( .nota a cassazione n.1557/98.in Giustizia Civile 99).

In realtà con la locuzione fatti negativi si intendono fatti che si assumono non avvenuti e cioè fatti non accaduti, quindi non fatti :in realtà la formula” prova del fatto negativo “ può indicare situazioni molto diverse potendo comportare talora un antitesi immediata cioè una proposizione negativa contraria ed in tal caso la prova che deve darsi può raggiungersi mediante la dimostrazione del fatto positivo contrario( ad esempio la prova della mancata alienazione di fondi rustici nel periodo considerato di cui infra a proposito dei rapporti agrari) e per fornire la prova di ciò che non è accaduto mediante la proposizione negativa contraria non occorre in tal caso ricorrere alle presunzioni ; talora può consistere in una proposizione negativa indefinita che corrisponda in teoria ad una serie di proposizioni affermative ed in tal caso è indispensabile il ricorso alle presunzioni perché il non accadimento non può essere che desunto ,cioè derivato: sarà sufficiente provare solo alcuni fatti positivi dai quali il giudice, in via presuntiva, possa trarre il convincimento della probabilità del fatto negativo. Ad esempio in materia di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre il contraente che chieda , a norma dell’art.2932 c.cc la emissione della pronuncia costitutiva, potrà provare la scadenza del termine per la conclusione del contratto definitivo e di aver invitato invano l’altro contraente per la stipula dell’atto definitivo e dalla prova di tali fatti positivi il giudice potrà desumere in via presuntiva la prova dell’inadempimento dell’altro contraente richiesta per la pronuncia invocata.

La valenza dell’antico brocardo “negativa non sunt probanda” è contraddetta dalla presenza nel nostro ordinamento di numerose ipotesi di prova di fatti negativi previste da disposizioni codicistiche e delle leggi speciali( che pongono la prova del fatto negativo come fatto costitutivo del corrispondente diritto)

L’elaborazione giurisprudenziale offre una vasta casistica :

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In materia contrattuale la prova del fatto negativo dell’inadempimento dell’altro contraente costituisce condizione dell’azione accordata al contraente adempiente dall’art..11453 c.c per chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto ai sensi dell’art.1453 cc.c. ovvero la sua esecuzione in forma specifica a norma dell’aert.2932 c.c.

In tema di obbligazioni ex delictu , a norma dell’art. 2047 c.c chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace può andare esente da responsabilità ove provi di non aver potuto impedire il fatto.

A norma dell’aret.2900 cc. il creditore è abilitato all’esercizio dell’azione surrogatoria relativa alle azioni di contenuto patrimoniale e non strettamente personali che spettano verso i terzi al proprio debitore allorchè provi l’inerzia di quest’ultimo.

Ancora in tema di ripetizione dell’indebito di cui all’art.2033 c.c, in ossequio ai richiamati principi in materia di distribuzione dell’onere probatorio grava sull’attore l’onere di fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto alla ripetizione dell’indebito che sono non solo l’avvenuto pagamento ( eventualmente in eccedenza quando l’indebito è costituito dalla differenza del pagato rispetto al dovuto) ma anche l’inesistenza della causa solvendi e del nesso causale tra il versamento e la mancanza di debito e cioè che il pagamento è stato effettuato in adempimento di quell’insussistente rapporto o in eccedenza rispetto al dovuto.: La prova dell’inesistenza della causa solvendi integra un elemento costitutivo della domanda di ripetizione dell’indebito oggettivo e come tale va provato da colui che agisce, principio che vale allorchè si assume che non l’intero pagamento ma solo una parte di esso è indebito. In quest’ultimo caso incombe ugualmente all’attore l’onere di provare i presupposti dell’indebito pagamento di cui chiede la restituzione e che quindi una parte della somma pagata non era dovuta: la prova del difetto di causa solvendi può consistere nella prova che il pagamento è stato ricevuto in maniera eccedente e , che per tale eccedenza, è privo di causa solvendi. In tal caso la prova del difetto di causa solvendi si desume dalla difformità quantitativa rispetto ad un obbligo esistente. In definitiva provato il fatto positivo del pagamento e dell’ammontare effettivamente dovuto ,da detti fatti positivi ancorchè non esattamente contrari a quello negativo da provare, il difetto della causa solvendi per l’eccedenza, si desumerà, in via presuntiva ex art.2729 c.c cioè il fatto negativo contrario della mancata giustificazione del pagamento per l’eccedenza.

Il convenuto con azione di danno il quale intenda chiedere l’accertamento della inesistenza di ulteriori danni, oltre a quelli espressamente pretesi dall’attore , ha l’onere di fornire la prova negativa che questi danni ulteriori non esistono. Cassazione 23 dicembre 1991 n.13872

L’assicuratore che sta in giudizio in base al patto di gestione della lite, quale mandatario in rem propriam, è responsabile verso l’assicurato anche oltre il limite del massimale di polizza allorquando ritardi o rifiuti di risarcire il danno senza che ciò trovi ragionevole ed obiettiva giustificazione in relazione alla duplicità di interessi tutelati, ovvero quando la gestione della lite da parte sua sia tale da arrecare pregiudizio all’assicurato per l’eccessiva cura dei propri interessi ovvero ancora quando si tratti di una gestione dilatoria , indolente o comunque non caratterizzata dalla cura diligente dei comuni interessi:; in tal caso spetta all’assicurato-il quale ritenga non diligentemente tutelato il proprio interesse- dimostrare il fatto obiettivo del detto comportamento negativo, dilatorio dell’assicuratore ed il pregiudizio subito mentre all’assicuratore incomberà l’onere di provare che il pregiudizio è dipeso da causa a lui non imputabile( ad esempio perché la richiesta del danneggiato era manifestamente eccessiva ovvero per essere ragionevolmente contestabile la responsabilità dell’assicurato)

Nel contratto di assicurazione contro i danni che preveda ipotesi di esclusione della garanzia assicurativa l’onere della prova incombe sull’attore anche riguardo ai fatti che il convenuto alleghi riconducibili ad una di tali ipotesi, né può dirsi che ponendo a carico dell’attore

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l’onere di provare che non si è verificata la dedotta ipotesi di esclusione della garanzia assicurativa, si finisce con il gravarlo di una prova negativa, impossibile o sommamente difficile, dal momento che il fatto negativo, desumibile dallo specifico e positivo fatto contrario deve essere provato attraverso la dimostrazione di quest’ultimo (Cassazione 20.2.98 n.1790).

In materia di rapporti agrari La prova della circostanza della mancata vendita di fondi rustici di imponibile superiore

a lire mille nel biennio precedente che costituisce una della condizioni cui è subordinata l’insorgenza del diritto di prelazione agraria, spetta a chi esercita il relativo diritto, a nulla rilevando che si tratti di un fatto negativo, comportando ciò non già l’inversione dell’onere della prova, ma soltanto che essa deve essere fornita mediante la prova dei fatti positivi contrari: Tale prova nella specie può essere data anche mediante testimoni( che dimostrino la conservazione della proprietà di tali fondi per tutto il biennio o mediante presunzioni come la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ma può essere anche documentale mediante la produzione di una certificazione della conservatoria dei pubblici registri immobiliari attestante l’assenza di trascrizioni contro il soggetto che chiede di avvalersi della prelazione nel biennio) cassazione 2028 del 19.2.93.

Tale requisito della mancata alienazione nel biennio precedente di fondi rustici con imponibile fondiario superiore a lire mille , pur essendo previsto espressamente con riferimento alla prelazione del coltivatore, deve intendersi esteso anche alla prelazione del confinante, in considerazione della ratio ispiratrice della prelazione in materia agraria, diretta alla formazione di imprese agricole di proprietà di coltivatori diretti e dell’accorpamento di fondi al fine di migliorare la redditività del terreni per cui non sarebbe giustificato favorire nell’acquisto di fondi alieni chi, avendo venduto terreni proprio nel biennio precedente, ha mostrato con tale suo comportamento di non avere di mira la coltivazione della terra come fine principale del proprio reddito: la prova di tale requisito trattandosi di una condizione dell’azione deve essere fornita da colui che esercita il diritto di prelazione a nulla rilevando che si tratti di un fatto negativo perché questa circostanza non implica affatto inversione dell’onere della prova ma soltanto che questa sia fornita attraverso al prova de fatti positivi contrari.

Il concedente che esercita il diritto di ripresa del fondo, ai sensi dell’art.42 della legge 3

maggio 82, n.,203, ha l’onere di provare anche se equiparato a coltivatore diretto secondo la disposizione dell’art.7 comma secondo, della medesima legge, tutte le condizioni richieste dal citato articolo 42 e tra queste , quella negativa di non essere nel godimento, a qualsiasi titolo, di altri fondi, che con le colture in atto possano assorbire più della metà della forza lavorativa sua e della famiglia(art.42 lettera d) perché la negatività del fatto da provare non comporta l’esclusione del relativo onere probatorio o l'’inversione dello stesso, ma solo la necessità, per la parte onerata, di provare i fatti positivi contrari (cassa. 4336 del 9.4.93)

In tema di licenziamento di una pluralità di lavoratori per giustificato motivo oggettivo,

l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di un altra utilizzazione dei lavoratori licenziati va assolto, concernendo un fatto negativo, mediante la dimostrazione – fuori da un rigido prefissato sistema di prova – di fatti positivi corrispondenti, come il fatto che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica dei lavoratori licenziati( tale dimostrazione deve concernere tutte le sedi dell’attività aziendale, essendo sufficiente la limitazione dell’azienda

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cui erano addetti i lavoratori licenziarti solo nel caso di preliminare rifiuto dei medesimi a trasferirsi altrove ( Cass. 2881 del 10.3.92)

Il legittimario che propone l’azione di riduzione ha l’onere di allegare e comprovare tutti

gli elementi occorrenti per stabilire se sia o meno avvenuta ed in quale misura la lesione della quota di riserva, e quindi anche l’inesistenza del patrimonio del de cuius di altri beni oltre quelli che formano oggetto dell’azione di riduzione in relazione agli atti di ultima volontà o di liberalità ritenuti lesivi della quota di riserva, ( cassazione. 11432 del 17.10.92)ovvero che detti beni seppur esistenti sono insufficienti ad integrare la quota di riserva.. Il legittimario pretermesso dovrà quindi dimostrare che non esistono altri beni caduti in successione legittima ,onere che potrà essere assolto mediante la produzione della denuncia di successione, dell’ultima dichiarazione dei redditi del de cuius, di certificazione della conservatoria dei pubblici registri immobiliari, del verbale di inventario ove il legittimario, parzialmente pretermesso ( qualora l’istituito non sia coerede) abbia dovuto procedere all’accettazione beneficiata , quale condizione dell’azione di riduzione o mediante presunzioni ( dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà redatta ai sensi della legge 4.1.68 n.15)

La prova dei fatti negativi soggiace quindi lla regola generale di cui all’art.2697 c.c

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Deduzione ed ammissione della prova testimoniale; Poteri istruttori del giudice DECADENZE

deduzione Prima della novella del 90 secondo un costante orientamento giurisprudenziale le nullità e le

decadenze attinenti alle modalità di deduzione ed assunzione della prova testimoniale di cui all’art.244 ,(abrogato ,al 2 e 3 comma dal 30 aprile 95) si riteneva avessero carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pubblico ma nell’esclusivo interesse delle parti, e quindi non fossero rilevabili d’ufficio dal giudice, e, se non eccepite tempestivamente dalla parte interessata ai sensi dell’art.157 c.p.c, dovessero perciò considerarsi sanate per acquiescenza ove la parte stessa non le avesse denunciate con la prima difesa successiva al loro verificarsi( o alla conoscenza delle nullità stesse) cosicchè non potessero neppure essere dedotte come motivo di impugnazione, nemmeno dal contumace costituitosi in appello, una volta che in primo grado la prova fosse stata ammessa ed espletata senza opposizione (cass.civ. 13011 del 30.12.93, 29.3.95,n.3710). Cassazione n.9952 del 13.10.97 afferma che il giudice del gravame deve astenersi dall’esaminare la questione se prospettata, per la prima volta, con i motivi di impugnazione avverso la sentenza relativa al grado del giudizio in cui si assume verificata la nullità (Cass.Civ 21 febbraio 95 n.1864 ha ribadito tale principio a proposito della tardività dell’eccezione relativa all’irritualità dell’indicazione di un teste in sostituzione di un altro proposta solo in comparsa conclusionale da una parte che nulla aveva obiettato al momento della sostituzione e della conseguente escussione).( per la rilevabilità ex officio della violazione dell’art.244 cpc con riferimento alla mancata specificità dei fatti sui quali il teste è chiamato a deporre Dondi, la prova testimoniale nel processo civile). Ancora Cassazione n.6432 del 1.7.1998 ribadisce che i vizi attinenti alla deduzione, tempestività, alla ammissione ed all’assunzione della prova testimoniale in quanto concernenti materia affidata alla disponibilità delle parti, sono relativi e quindi sanabili per acquiescenza della parte a vantaggio della quale la stessa si sia svolta: pertanto quando l’atto istruttorio sia stato compiuto senza opposizione della parte che ha assistito all’escussione, la nullità, ove esistente ,deve considerarsi sanata.( la pronuncia si riferisce sempre ad un a controversia soggetta al regime previgente alla novella del 90 in quanto cassa con rinvio Tribunale Milano del 5 maggio 95). Contra cassazione del 20.3.98 n.2935 che afferma il potere dovere del giudice di merito di rilevare i casi di inammissibilità della prova indipendentemente dall’istanza della parte interessata fin quando la prova non abbia avuto concreto inizio; la Corte non ravvisa alcuna violazione degli art.157 e 244 nella declaratoria di inammissibilità della dedotta prova per testi effettuata dai giudici di merito non essendo necessaria alcuna eccezione di parte per consentire al giudice di ritenere inammissibile la dedotta prova per testi priva dell’indicazione delle persone che la parte intende escutere sui capitoli formulati; osserva ancora che il codice di rito prevede anche in altre ipotesi l’attribuzione al giudice di poteri officiosi in ordine all’istruzione probatoria come si evince dagli art.208 e 104 disp.att cpc. Curiosamente la Corte pur pronunciandosi in relazione ad una controversia promossa con atto di citazione notificato il 3 dicembre 87 e quindi soggetta al vecchio rito invoca l’art.184 ,nuovo testo , osservando che detta norma nello stabilire che il giudice ammette i mezzi di prova se ritiene che siano ammissibili e rilevanti, gli attribuisce un potere officioso di sindacare l’ammissibilità della prova.

Secondo Cassazione 20 febbraio 96 n.1315 ed 11.2.2000 1519 qualora la parte nel richiedere la prova testimoniale, non abbia indicato i testi da escutere ed il giudice non si sia avvalso del potere discrezionale conferitogli dalla legge di concedere alla parte medesima un termine per la indicazione degli stessi, la prova deve essere dichiarata inammissibile, anche d’ufficio, per violazione di un precetto di carattere processuale attinente alla regolarità del contraddittorio e la decisione sul punto non è sindacabile in sede di legittimità.L’esercizio del potere discrezionale circa l’assegnazione di un termine , di carattere perentorio,per formulare o integrare le indicazioni relative alla persone da interrogare , preclude la possiblità di ulteriori dilazioni . L inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova rilevabile anche d’ufficio e non sanabile nemmeno sull’accordo delle parti . Cassazione 7.3.2001 n.3343

Ed in tale solco si colloca la recente Cassazione sezione I 6 aprile 2004 n.6778 Il regime della sanatoria delle nullità per acquiescenza potrebbe trovare applicazione in ordine : - 1)alla indicazione delle persone da escutere come testi ( ma la recente massima appena

richiamata 6778 /2004 pare in assoluto contrasto con tale conclusione ) ed alla loro capacità a deporre come osservato a proposito della incapacità), La mancata deduzione delle persone da escutere come testi nel termine di cui all’art.184 cpc determina ora la decadenza dalla prova, rilevabile ex officio dal giudice (custode del sistema di preclusioni destinato a scandire i tempi del nuovo processo) perché in quel momento la preclusione scatta ed è definitiva salve le ipotesi di remissione in termini di cui all’art.184 bis cpc.

- - 2)alla genericità e non specificità della prova; - - 3)alla estensione della prova escussa a fatti non inclusi nei capitoli ammessi( che in assenza di

tempestiva e reiterata eccezione di parte determina la sanatoria del vizio)

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In particolare sul punto 2 la disciplina della deduzione contenuta nell’art.244 c.p.c postula che la prova per testi sia articolata mediante indicazione specifica dei fatti, dedotti in capitoli separati e delle persone da escutere su ciascun capitolo;

L’indicazione specifica dei fatti ( sui quali ciscun teste deve essere interrogato) risponde ad una duplice esigenza :quella di consentire al giudice di valutarne la ammissibilità e la conducenza come precisato ora dal testo novellato dell’art.184 c.p.c e quella di consentire all’avversario di controdedurre articolando eventuale controprova.( la prova deddotta in modo incompleto è inammissibile salvo il potere discrezionale ed insindacabile del giudice, nella vigenza del 3 comma dell'’art 24l di assegnare alla parte un termine per integrare la fomulazione difettosa ( cassazone sezione III 5 luglio 2004 n.12292)

Il requisito della specificità dei fatti è assolto mediante l’indicazione delle modalità essenziali di svolgimento dei fatti e delle relative circostanze di tempo e di luogo e la relativa deduzione può avvenire anche per relationem come quando si richiamino circostanze già capitolate nell’atto introduttivo del giudizio o nei verbali di causa.

L’art.102 delle disp. di attuazione cpc consente infatti espressamente che nell’ordinanza ammissiva dell’interrogatorio o della prova testimoniale di non ripetere i capitoli se il giudice fa riferimento a quelli contenuti nell’atto di citazione o nella comparsa di risposta o nei processi verbali.

Il giudice è facultato, ai sensi dell’art.245 c.p.c ad apportare integrazioni ai capitoli di prova volte a chiarirne il contenuto,nel rispetto del principio della disponibilità della prova sancito dall’art.115 c.p.c e ad emendare i capitoli dalle parti inammissibili.

L’esigenza di specificazione dei fatti sui quali i testimoni devono deporre deve ritenersi soddisfatta se, ancorchè non precisati in tutti i loro minuti dettagli, i fatti stessi siano esposti nei loro elementi essenziali, per consentire al giudice di controllare l influenza e la pertinenza della prova offerta e per mettere in grado la parte contro cui è diretta di formulare un adeguata prova contraria dal momento che l’indagine sulla specificità, istituzionalmente demandata al giudice di merito ed incensurabile se congruamente motivata, va condotta non in modo rigorosamente formalistico ma in relazione all’oggetto della prova e quindi non soltanto alla stregua della letterale formulazione dei capitoli articolati dalla parte istante ma ponendo altresì il loro contenuto in relazione agli altri atti di causa ed alle deduzioni dei contendenti avuto riguardo alla concreta materia del contendere nonché tenendo conto della facoltà di chiedere chiarimenti e precisazioni ai testi, ai sensi dell’art.253 cpc(Cass.n. n.10272 del 29.9.95 e 10371/95) , affidata alla diligenza del giudice istruttore e dei difensori sì da consentire a controparte di contrastarne la prova mediante la deduzione e l’accertamento di attività e comportamenti di carattere diverso ( cassazione , sez. lav. 28 agosto 2003,n.12642)

Il Pretore di Bari nell’ordinanza del 6 marzo 97( Foro Italiano 98, I , 1694) ha ritenuto che non assolva a tale requisito una prova testimoniale non formulata per articoli separati e specifici ma genericamente riferita alle circostanze di fatto indicate in narrativa in una fattispecie in cui la parte espositiva della citazione dedicata all’esposizione dei fatti constava di cinque pagine e non era articolata per punti distinti o comunque caratterizzati dalla deduzione di circostanze di fatto ben individuate o individuabili bensì per periodi complessi al cui interno non erano distinguibili né scorporabili dati obiettivi da argomentazioni logiche, valutazioni e giudizi soggettivi del deducente per cui era materialmente impossibile addivenire all’enucleazione degli specifici capitoli di prova da valutare in funzione dei rispettivi criteri tipici di ammissibilità .

Controverso quali siano le conseguenze della mancanza di specificità della prova. Un certo orientamento è favorevole alla tesi della definitiva sanatoria per inerzia della parte interessata a far valere la nullità della prova per omessa specificazione dei fatti, con l’applicazione

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del regime di cui all’art.157, secondo comma( cassazione 6396/79, 684/92).Altro orientamento ponendo in risalto i poteri del giudice di direzione del processo e di sollecita definizione dello stesso evitando lo spreco di attività giurisdizionale con l’espletamento di attività istruttoria inutile e superflua propende per la rilevabilità ex officio della nullità della prova dal momento che la mancata specificazione dei fatti impedisce al giudice di apprezzare se il mezzo istruttorio sia conducente e strumentale alla tesi difensiva della parte che lo ha dedotto ( cassazione 2435/90),

Altrettanto controverso se dichiarata inammissibile per mancanza di specificità una prova dal giudice di primo grado questa , dedotta con una formulazione più specifica in sede di gravame ,possa essere ammessa dal giudice di appello in quanto prova nuova ovvero se tale carattere di novità debba essere escluso salvo il potere del giudice di appello di sindacare ove viziata la pronuncia impugnata sul punto relativo alla declaratoria di inammissibilità ove questa formi oggetto di specifica censura.

Con la nuova formulazione dell’art.345 ( che ricalca l’art.437 cpc) sancendo l’inammissibilità della nuove prove salvo che non abbiano il requisito della indispensabilità (ovvero che non sia stato possibile proporre in prime cure per causa non imputabile) il contrasto non può ritenersi superato giacchè il giudice di appello potrebbe ammettere la prova, ricapitolata in modo specifico, che si riveli indispensabile ai fini della decisione sempre a condizione che ad essa possa riconoscersi il requisito della novità al quale è subordinata la valutazione della sua indispensabilità.

A proposito della novità della prova nel rito del lavoro il giudice di appello non può, a norma dell’art.437 ammettere nuovi mezzi di prova ( ad eccezione di quelli ritenuti indispensabili ai fini delle decisione) ma non incontra limiti in relazione ai mezzi di prova non nuovi perché già regolarmente dedotti in primo grado , dovendo tra questi ricomprendersi quelli di fatto non acquisiti , benchè regolarmente ammessi, sempre che non sia intervenuta una decadenza e che la relativa istanza sia stata riproposta con il ricorso dell appellante o con la memoria difensiva dell’appellato ; peraltro la decadenza dall assunzione della prova si verifica soltanto per effetto di un provvedimento del giudice in tal senso , emesso su istanza della controparte, mentre non può ritenersi rinuncia implicita all’ammissione dei testi richiesti il semplice silenzio serbato dalla parte richiedente dopo l ammissione atteso che la legge non prevede un obbligo per la parte di insistere per l’assunzione di una prova regolarmente indicata e ammessa e che la rinuncia alla prova deve essere esplicitata dala parte che l’aveva indicata e produce effetto solo in seguito all’adesione delle altre parti ed al consenso del giudice .

Il requisito della specifica indicazione delle persone da assumere come testi deve essere assolto, a norma del’art.244, 1 comma cpc mediante la indicazione delle loro generalità con l’indicazione del nome e cognome( e non invece ad esempio della loro qualifica o mansioni lavorativa).

Tale requisito assolve alla funzione di consentire al giudice di ridurre le liste sovrabbondanti e di consentire al giudice l’eliminazione dei testi la cui deposizione è vietata , di disporre l’eventuale prova delegata in conformità dello schema di cui all’art.203 cpc per i testi da escutere fuori del circondario, di porre in condizione la controparte di eccepire eventuali incapacità o inattendibilità del teste..

Il pretore di Bari nella menzionata ordinanza del 6 marzo 97 ha escluso che fosse stato rispettato tale requisito in un caso in cui una delle parti, una società ,aveva indicato anziché le generalità dei testi la loro qualifica e mansione professionale svolta all’interno della società datrice di lavoro.

Osserva il Pretore che sia la finalità di garanzia del pieno diritto di difesa della controparte, sia dell’esercizio integrale del sindacato del giudice sull’ammissibilità della prova, sottostante alla prescrizione della indicazione specifica delle persone da assumere quali testimoni risulterebbe elusa da un indicazione della qualifica e mansioni ( ad esempio capo magazziniere,

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direttore del personale) tale da consentire per un verso l’identificazione della persona del teste solo successivamente al momento dell’ammissione della richiesta istruttoria, e per altro verso il mutamento ad libitum del teste da parte dell’interessata alla quale nella specie essendo un azienda industriale spettava il potere organizzativo interno del proprio personale( con la possibilità di individuare un soggetto piuttosto che un altro quale titolare di una determinata qualifica di lavoro) senza che ciò sia compiutamente ed effettivamente verificabile in sede di assunzione della prova.

Il Pretore conclude che per effetto dell’abrogazione del secondo e terzo comma dell’art.244 cpc da un lato e dall’altro della perentorietà dei termini assegnati dal giudice alle parti , a loro richiesta ex art.184 cpc l’omessa o generica indicazione dei testi nel termine anzidetto determina la decadenza della parte dal potere di richiedere la prova.

L’art.244 ( a differenza del codice del 1865 che stabiliva che i procuratori delle parti dovevano notificarsi a pena di nullità l’indicazione del nome, cognome condizione e residenza delle persone da escutere) tace sui dati da menzionare a proposito dei testimoni e richiede solamente che l’ indicazione sia specifica atta a consentire cioè una sicura , inequivoca e sollecita identificazione del teste( Zanzucchi, D’Onofrio).Si ritiene sufficiente l’indicazione del nome e cognome e non indispensabile quella della residenza.

Non soddisfa i requisiti di specificità nell articolazione della prova per testi fissati dall’art.244 cpc comma 1, l’indicazione dei testi effettuata non attraverso la specificazione della generalità dei medesimi , ma per mezzo di un generico riferimento alla titolarità della funzione ( Cassazione 17 gennaio 2002 n.438)

La Corte Costituzionale con ordinanza del 26 febbraio 93, n.75 ha dichiarato manifestamente infondata, con riferimento all’art.10 della costituzione, con riferimento all’art.6 paragrafo 3, lettera d) della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali del 4.11.50, ratificata e resa esecutiva con legge 848/55 ,la questione di legittimità costituzionale dell’art.244, 1 comma nella parte in cui non prevede, che oltre al nome ed al cognome delle persone specificamente indicate sui singoli capitoli di prova sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata, l’altra parte abbia diritto alla precisazione della residenza delle persone indicate come testi, come elemento essenziale per individuarli e reperirli.

Osserva il giudice remittente che l’omessa indicazione della residenza delle persone citate a testimoniare impedirebbe alla controparte di ottenere tempestivamente, prima della pronuncia sull’ammissibilità e rilevanza della prova, la convocazione di tali persone anche come testi di prova contraria in violazione del principio di parità delle armi. La Corte nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione osserva che la propria giurisprudenza costante esclude le norme internazionali pattizie, ancorchè generali, dall’ambito normativo dell’art.10 della costituzione poiché il principio di adeguamento automatico dell’ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute deve intendersi riferito esclusivamente alle norme consuetudinarie.

In ordine alla rilevabilità ex officio della decadenza della prova per mancata indicazione dei testi ove il giudice non si sia avvalso del potere discrezionale di assegnare un termine per indicarli vedi la richiamata cassazione 1315/96 ed in senso contrario e cioè per la esclusione delle rilevabilità ex officio delle decadenze derivanti dall’inosservanza di tali formalità sanabili per acquiescenza della parte interessata ad eccepirle le richiamate cassazione 9952/97 e 21 febbraio 95 n.1864 con specifico riferimento alle formalità relative all’indicazione dei testimoni ed ancora cassazione 1.7.98 n.6432.

A proposito della indicazione delle persone da escutere come testi e della loro intimazione,la giurisprudenza di legittimità sembra voglia imprimere una impostazione meno

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rigorosa alle formalità dell’assunzione della prova testimoniale nelle controversie soggette al rito del lavoro.

Con la sentenza del 13 gennaio 97n.264 delle Sezioni Unite la Corte di cassazione ha affermato che l’omessa indicazione nel ricorso introduttivo delle “generalità delle persone da interrogare sui capitoli di prova per testimoni concreta una mera irregolarità e non comporta decadenza;ne consegue che il giudice di primo grado, ove ritenga il mezzo istruttorio pertinente e rilevante ai fini della decisione deve indicare alla parte tale irregolarità assegnandole termine perentorio per provvedere a sanarla; il giudice d’appello cui venga denunciata l’illegittima decadenza dalla richiesta istruttoria, se riscontra la sussistenza del vizio deve trattenere la causa e decidere sull’istanza ammettendo ed assumendo la prova ove ricorra ogni altro ulteriore requisito con assegnazione di termine perentorio per l’indicazione dei testi ove la parte non via abbia ancora provveduto nel giudizio di primo grado o con l’atto di gravame”.

Cass., sez. un., 13-01-1997, n. 262. Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l’atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli

di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l’enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all’esercizio del potere-dovere di cui all’art. 421, 1º comma, c.p.c.; con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all’art. 420 stesso codice, il pretore, ove ritenga l’esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando a tal fine la particolare disciplina prevista dal 5º comma della norma da ultimo citata, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma; il giudice d’appello, cui venga denunciata l’illegittima sanzione di decadenza dall’istanza di prova testimoniale, pronunciata in violazione dell’esposto principio, ove riscontri l’effettiva sussistenza del vizio, deve, coerentemente con l’effetto devolutivo del gravame e con la regola della conversione dell’invalidazione nell’impugnazione, trattenere la causa e provvedere sulla detta istanza, ammettendo, ove ricorra ogni altro necessario requisito, la prova stessa e disponendo l’assunzione conformemente al disposto dell’art. 437, 1º e 2º comma, c.p.c.; né la mancanza, per il giudizio di appello, di disposizioni analoghe a quelle dell’art. 420, 6º comma, esclude il carattere perentorio del termine fissato, ex art. 421, 1º comma, c.p.c., alla parte che non abbia già provveduto a completare la propria istanza istruttoria nel corso del giudizio di primo grado o con l’atto introduttivo di quello di gravame.

La sentenza risolve il contrasto giurisprudenziale circa la necessità di indicare o meno le persone da escutere come testi sin dalla prima difesa a pena di inammissibilità della richiesta istruttoria.

Il precedente orientamento di segno contrario (Cass. 8124/92 e 3903/88) riteneva l’incompatibilità del termine perentorio dell’ ultimo comma dell’art.244 cpc(abrogato dal 30.4.95) con il regime di immediatezza e concentrazione proprio del rito del lavoro e l’impossibilità di esercizio del potere del giudice ex art.421,2 comma, cpc in funzione sanante di preclusioni già verificatesi o di lacune istruttorie concludendo per la irrimediabile decadenza della parte dalla prova testimoniale nel caso di omissione della indicazione de testi ( ritenendo che nell’indicazione dei mezzi di prova andasse ricompresa anche l’indicazione dei testi se ne emetteva tuttalpiù l’indicazione tardiva solo per gravi motivi ex art.420 cpc e comunque dietro autorizzazione del giudice ).

L’orientamento meno rigoroso , intendendo i mezzi di prova di cui all’art.414 cpc sotto il profilo squisitamente oggettivo, con esclusione dei soggetti da interrogare ,escludeva la incompatibilità dell’art.244,ultimo comma cpc con il rito speciale ; faceva poi leva sul potere di differimento della prova con termine per deposito di memorie di cui al 6 comma dell’art.420 , escludendo così che la integrazione della richiesta istruttoria contrastasse con i principi di

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immediatezza e concentrazione tipici del rito del lavoro e sulla finalità, desumibili dall’art. 421,2 comma, del conseguimento della verità storica, facendo rientrare tra i poteri del giudice di disporre d’ufficio mezzi di prova anche quello di autorizzare l’indicazione tardiva dei testi (Cass. 2521/87 e 3282/87).

La sentenza a Sezioni Unite supera detto contrasto giurisprudenziale ravvisando l’ammissibilità della indicazione successiva dei testi non alla stregua dell’ultimo comma dell’art. 244,abrogato dal 30.4.95,ma sulla scorta del combinato disposto del 6 dell’art.420 e del primo comma dell’art.421 cpc;l’omessa indicazione delle persone da assumere come testi comporta mera irregolarità della istanza istruttoria,sanabile ai sensi del 1 comma dell’art.421 cpc, mentre il 6 comma dell’art.420 prevede espressamente la possibilità di differimento della prova con termine perentorio per assegnazione di memorie.

Osserva la Corte che vi è una “macroscopica differenza” tra il caso in cui la parte indicando nel proprio atto introduttivo la prova testimoniale come mezzo specifico di cui intende avvalersi per dimostrare i fatti sui quali fonda le sue pretese formuli, a tal fine appositi capitoli, ma ometta di indicare il nome dei testimoni ed il caso in cui essa non formuli alcuna istanza volta all’utilizzazione di detto mezzo istruttorio;nel primo caso v’è il compimento di una attività diretta in modo esaustivo alla definizione del thema probandum e del tipo di prova cui si vuole affidarne lo svolgimento dall’altra un’assoluta inerzia la quale, attesi gli oneri che l’art. 414, n. 5, c.p.c. impone alla parte, non integra alcun apporto a quella tendenziale completezza degli elementi oggettivi della controversia che il rito speciale mira a conseguire con anticipo rispetto all’udienza di cui all’art. 420 stesso codice, in guisa da consentirne il più proficuo svolgimento, nell’osservanza del principio di concentrazione.: si verifica quindi in detta ipotesi una mera irregolarità suscettibile di rimedio giacchè al giudice del lavoro-che ritenga per altro verso ammissibile e rilevante la prova per testi articolata dalla parte- compete il potere dovere di cui all’art,421 ,1 comma di indicare alle parti in ogni momento le irregolarità dei loro atti che possono essere sanate e di assegnare ad esse un termine per provvedervi consentendo alla parte che abbia formulato i capitoli di prova, di completare, nel termine perentorio assegnatole,la deduzione istruttoria con l’indicazione dei testi.

Ciò che fa difetto nella prima ipotesi non è, dunque, una specificità di deduzioni che

risponda alla suddetta tendenza, ma soltanto un elemento che consenta l’immediata ammissibilità della prova prescelta, indipendentemente da qualsiasi ulteriore iniziativa della parte interessata; la specifica indicazione del mezzo non può direttamente risolversi nella sperimentazione dello stesso, poiché la sua proposizione non è completa rispetto al “modo” imposto dalla norma (art. 244, 1° comma, c.p.c.) di previsione del medesimo.

Si verifica così una situazione che rispetto a questo modello è ancora “irregolare” ed inidonea a conseguire il concreto risultato dell’assunzione, dichiaratamente perseguito dalla parte.

Di qui la seconda considerazione: l’art. 421, 1° comma, c.p.c. istituisce un potere-dovere del giudice del lavoro di indicare “alle parti in ogni momento le irregolarità” dei loro atti che possono essere sanate e di assegnare ad esse un termine per provvedervi, salvi gli eventuali diritti quesiti.

Ed allora, nell’esercizio di tale potere, al giudice – che ritenga, per altro verso, ammissibile e rilevante la prova per testi articolata dalla parte – compete di indicare a questa la necessità di completare, nel termine a tal fine assegnatole, la deduzione istruttoria con l’indicazione dei testi, trattandosi, appunto, di una irregolarità suscettibile di rimedio e non preclusa da avversi diritti quesiti.

Né varrebbe obiettare, come talora si è fatto, che qui non di irregolarità si tratterebbe, ma di inammissibilità della prova, essendo palese che in tal modo si confonderebbe l’effetto con la

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causa, della quale, invece, deve tenersi conto in sede di applicazione della norma di sanatoria: in altri termini, il permanere dell’incompletezza determinerebbe l’inammissibilità, ma esattamente tale è il risultato che detta norma tende ad evitare, in un’ottica di collaborazione fra giudice e parte e di affidamento al primo del compito di verificare che il buon andamento del processo non venga compromesso da vizi formali ai quali sia ancora possibile porre rimedio.

Del resto, questo svolgimento della vicenda processuale, lungi dal costituire una evenienza anomala rispetto alla struttura ed alle finalità del rito speciale, trova nella disciplina del medesimo la fonte stessa della sua plausibilità, ben coordinandosi, nella descritta situazione, l’esercizio del potere-dovere di cui all’art. 421, 1° comma, c.p.c., con la previsione dell’art. 420 stesso codice, in ordine agli aspetti temporali di esecuzione dell’attività istruttoria.

Nel sistema elaborato da quest’ultima norma, l’ammissione dei mezzi di prova già proposti dalle parti e di quelli che esse non abbiano potuto proporre prima, nonché la loro immediata assunzione nella stessa udienza di discussione (comma 5°) costituisce soltanto una delle possibili eventualità, ancorché “primaria”, ma certamente non l’unica, come reso palese dalla circostanza che il comma 6°, espressamente prevedendo che ciò possa risultare impossibile, dispone che, in tal caso, il giudice “fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell’udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive”.

Il riferimento alle “note difensive” è, d’altra parte, un indice che rende pienamente palese come non solo l’assunzione della prova, ma anche la pronuncia del provvedimento di ammissione della medesima possa essere differito ad un’udienza successiva alla prima.

Non può, per altro verso, omettersi di osservare che il sistema normativo introdotto dalla l. n. 533 del 1973 se pur non attua un sistema inquisitorio puro, tenda a contemperare, in considerazione della particolare natura del rapporto di lavoro e degli interessi in discussione, alcuni dei quali riguardanti diritti di rilevanza costituzionale, il principio dispositivo, che obbedisce alla regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, col principio inquisitorio che tende alla ricerca della verità reale mediante una rilevante partecipazione ed un’efficace azione del giudice nel processo (Cass. 8 novembre 1991, n. 11915, 20 aprile 1995, n. 4432,). Ed una siffatta tendenza offre, un criterio ermeneutico generale, per l’identificazione dell’esatta portata del sistema delle preclusioni, nel senso di riconoscerne l’attenuazione rispetto ad adempimenti di ordine formale che presuppongano già assolti tempestivamente gli oneri di allegazione immediatamente funzionali all’esigenza, tutelata dal sistema stesso, di una precisa delimitazione, prima dell’udienza di discussione, dei termini oggettivi della controversia e delle relative necessità istruttorie, sempre che il loro svolgimento successivo al compimento degli atti introduttivi della lite risponda ad eventualità coerenti con la struttura propria del rito speciale.

Aggiungasi che il completamento della deduzione istruttoria avviene nella piena osservanza del principio del contraddittorio, garantita dal sistema dell’assegnazione di apposito termine per l’incombente di cui trattasi e dalla possibilità che la controparte svolga, prima dell’assunzione della prova, quelle difese, deduzioni ed istanze che siano conseguenza del detto completamento.

Il rimedio alla lacuna formale in questione è, quindi, tutto interno al sistema del rito speciale e perciò senza che sia necessario ipotizzare l’operatività del 3° comma dell’art. 244 c.p.c., che, con disposizione (riconosciuta costituzionalmente legittima da Corte cost. n. 106 del 1973) abrogata, con effetto dal 30 aprile 1995, dall’art. 89 l. 26 novembre 1990 n. 353, prevedeva la possibilità che il giudice istruttore concedesse alla parte istante un termine perentorio per l’integrazione dell’istanza di ammissione della prova testimoniale.

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In sintesi, dunque, può formularsi il principio per cui, qualora la parte abbia, con l’atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l’enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all’esercizio del potere-dovere di cui all’art. 421, 1° comma, c.p.c.; con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all’art. 420 stesso codice, il pretore, ove ritenga l’esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando, a tal fine, la particolare disciplina dettata dal 5° comma della norma da ultima citata, col corollario della decadenza della sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma.

Il giudice di appello, cui venga denunciata l’illegittima sanzione di decadenza dall’istanza di prova testimoniale pronunciata in violazione dell’esposto principio, ove riscontri l’effettiva sussistenza del vizio, deve, coerentemente con l’effetto devolutivo del gravame e con la regola della conversione dell’invalidazione nell’impugnazione, trattenere la causa e provvedere sulla detta istanza, ammettendo, ove ricorra ogni altro necessario requisito, la prova stessa e disponendone l’assunzione in conformità al disposto dell’art. 437, 1° e 2° comma, c.p.c. Né la mancanza, per il giudizio di appello, di disposizioni analoghe a quelle dell’art. 420, 6° comma, esclude la perentorietà del termine fissato ex art. 421, 1° comma, stesso codice alla parte che non abbia già provveduto a completare la propria istanza istruttoria nel corso del giudizio di primo grado o con l’atto introduttivo di quello di gravame. Invero, come le sezioni unite hanno già rilevato (v., in motivazione, la citata sentenza n. 6841 del 1996), in fattispecie diversa, ma ugualmente soggetta all’ambito di applicazione della sanatoria di cui a quest’ultima disposizione, alcuni termini, pur non espressamente definiti perentori, hanno matrice identica a quella di termini formalmente definiti tali, sicché non è possibile escludere in senso assoluto ed in tali casi l’applicazione estensiva degli art. 152 e 153 c.p.c. per i termini perentori e deve correlativamente riconoscersi che una situazione siffatta ricorre appunto nel caso di quelli assegnati per fini di sanatoria di irregolarità, in quanto la potenziale idoneità preclusiva dello scopo dell’atto che è da esse inficiato trova ostacolo soltanto nella residuale opportunità offerta alla parte di provvedere a quanto necessario, onde, in difetto di tempestiva realizzazione del rimedio, l’irregolarità finisce per consolidarsi in modo irreversibile.

Nel caso di specie, il giudice a quo, confermando sul punto la sentenza di primo grado, aveva ritenuto di non poter consentite la sanatoria della lacunosa deduzione dell’istanza di prova testimoniale formulata dal ricorrente e pertanto ha erroneamente omesso di fare applicazione della disciplina processuale, che consentiva il rimedio sopra specificato. Pertanto, la decisione di rigetto dell’appello , fondata esclusivamente sulla ragione della mancanza (derivante dall’impossibilità di assunzione di quella oggetto della suddetta istanza irregolare) di prova dei fatti costitutivi del diritto vantato dall’attore, si palesava effettivamente inficiata dal vizio denunciato con il primo ricorso, sì da dovere essere cassata con rinvio ad altro giudice pergli adempimenti istruttori necessari .

. Il rimedio alla lacuna formale è dunque tutto interno al sistema del rito speciale senza

necessità di ipotizzare l’operativita dell’art.244,3 comma, abrogato dall’art.89 della legge 353/90 con effetto dal 30 aprile 95.(Il pretore - ora giudice del lavoro - che ritenga pertinente e rilevante la prova testimoniale dedotta ,deve indicare all’istante la riscontrata irregolarità che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio, applicando il 6

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comma dell’art.420 che prevede la possibilità di assegnazione di un termine perentorio per il deposito di note difensive, col corollario della decadenza dalla prova nella sola ipotesi di inottemperanza allo spirare di detto termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma).

La sentenza delle sezioni unite si segnala per il superamento dell’indirizzo meno

restrittivo, in quanto ha ravvisato l’ammissibilità dell’indicazione successiva dei testi non alla stregua dell’ultimo comma dell’art. 244 c.p.c. (del resto abrogato a partire dal 30 aprile 1995 dall’art. 89 l. 353/90) ma sulla scorta dell’ interpretazione del 6° comma dell’art. 420 e del 1° comma dell’art. 421 c.p.c., in combinato disposto.

Ad avviso delle sezioni unite l’omessa indicazione delle generalità dei testimoni comporta mera irregolarità dell’istanza istruttoria, sanabile ai sensi del 1° comma dell’art. 421 c.p.c.; il 6° comma dell’art. 420, d’altra parte, prevede espressamente la possibilità di differimento della prova con termine perentorio per assegnazione di memorie, che assicura il contraddittorio ed evita (stante la previsione di perentorietà del termine assegnato, non contenuta nell’art. 421, 1° comma) possibili conseguenze dilatorie.

Non sussistono, per contro, ragioni per ravvisare diritti quesiti dalla controparte (art. 421, 1° comma) in ordine alla decadenza dal mezzo istruttorio, richiesto ancorché in forma irregolare.

Corte di cassazione ,sez.III con sentenza del 1 aprile 97 n.3275 ha enunciato il

principio che nei giudizi che si svolgono secondo il rito speciale delle controversie di lavoro, il giudice che nell’udienza di discussione, ammette la prova testimoniale ne dispone l’immediata assunzione in quanto ciò sia reso possibile dalla presenza delle persona da interrogare, diversamente fissa altra udienza a norma dell’art.420 cpcp, comma 6, per la quale la parte ha l’onere,sanzionato dalla decadenza prevista dall’art.104 disp.att. cpc di chiedere l’intimazione dei testimoni ammessi secondo la disposizione detta dall’art.250 cpc.

Cass., sez. III, 16-04-1997, n. 3275. Nel rito del lavoro, per effetto del combinato disposto dell’art. 202, 1º comma,

c.p.c. (che prevede che il g.i. fissi una udienza di assunzione delle prove che non abbia potuto assumere contestualmente alla loro ammissione), dell’art. 420, 5º e 6º comma, c.p.c. (che prevede nel processo del lavoro la concentrazione in una sola udienza dell’ammissione e dell’assunzione delle prove, ma consente in caso di necessità di fissare altra udienza) e dell’art. 250 dello stesso codice (che consente alle parti di citare i testimoni a mezzo di ufficiale giudiziario, solo in forza del provvedimento del g.i. di ammissione della prova testimoniale e di fissazione all’udienza di assunzione), vige il principio che il giudice provvederà nella stessa udienza di ammissione della prova testimoniale alla audizione dei testi, comunque presenti, ma non potrà dichiarare decaduta la parte dalla prova per la mancata presentazione di essi, essendogli consentito di poterli citare solo in forza del provvedimento di ammissione, con la conseguenza che il giudice dovrà fissare altre udienze per la prosecuzione della prova.

L’orientamento più intransigente, nel rilievo che il giudice tendenzialmente deve ammettere ed assumere la prova e l’intimazione dei testi deve essere richiesta dalla parte- e non d’ufficio ex art.420,10 comma,cpc- giungeva ad imporre alla parte interessata la citazione dei testimoni già alla prima udienza di discussione e nell’ipotesi che in tale udienza il giudice ammetta la prova e disponga per la sua immediata assunzione, la parte che non abbia richiesto la rituale

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intimazione dei testimoni e non si presenti a tale udienza decade dalla prova(cass.civ. 29 aprile 94, n,4261 e 7 giugno 95, n.6368).

Con la citata sentenza n.3275 la Corte ha ritenuto che dal combinato disposto degli

artt.202,1 comma, e del 5 e 6 comma dell’art.420 deve desumersi la regola che il legislatore al 5 comma abbia previsto una direttiva(quella dell’assunzione del mezzo di prova nella stessa udienza in cui è stato ammesso)ed al 6 comma il comportamento da osservare quando tale direttiva si riveli inapplicabile(cioè il differimento ad altra udienza).

L’art.202 ,1 comma che disciplina l’assunzione dei mezzi di prova in generale nel rito ordinario, prevede che,il giudice istruttore quando dispone i mezzi di prova,se non può assumerli nella stessa udienza,stabilisce il tempo,il luogo ed il modo dell’assunzione:assume i mezzi di prova nella stessa udienza in cui li dispone se ciò è possibile,altrimenti stabilisce quando, dove e come assumerli.

L’art.420, stabilisce, al 5 comma ,la direttiva- ammissione ed assunzione di mezzi di prova alla stessa udienza -ed ,al 6 comma, la regola di condotta da tenere ove la direttiva non possa essere osservata.

Tale soluzione secondo la Corte è l’unica coerente con l’art.250 che consente solo l’intimazione dei testi già ammessi ma è anche preferibile sul piano sistematico perchè evita di applicare una sanzione -quale la decadenza dalla prova -per un omissione quando è ancora incerto se la prova sarà ammessa o meno e consente di contemperare il valore dello svolgimento sollecito del processo con quello dello svolgimento ordinato, leale e corretto,evitando di rendere aleatoria la posizione della parte ,facendo dipendere l’ammissione della prova da un evento imprevedibile ed incerto, costituito dal complessivo svolgimento dell’udienza e dalla possibilità che il giudice abbia la disponibilità di tempo per interrogare in quell’udienza i testimoni, cosicchè alla parte viene imposto di tenere un comportamento allo scopo effettivo di evitare un rischio quello di decadenza dalla prova e non di esercitare un diritto quello di vederla assumere. Sul piano pratico evita l’inaccettabile risultato cui il precedente orientamento conduceva e cioè quello di imporre all’istante un inutile e costosa attività ed al contempo costringere i testimoni a tenersi a disposizione dell’autorità giudiziaria nel caso quest’ultima decida di ascoltarli e possa farlo all’udienza (V.Farnararo; F.P.Luiso).L’obbligo di citare i testimoni alla prima udienza non è quindi esigibile anche perchè non si può chiedere ad un terzo una prestazione gratuita nell’interesse della giustizia prima di essere certi che tale prestazione sia effettivamente richiesta e prima di sapere con sicurezza che la loro escussione avverrà effettivamente all’udienza per la quale sono stati convocati. Tutte le volte in cui il giudice non possa disporre l’assunzione dei testimoni alla stessa udienza di discussione la parte dovrebbe altrimenti intimare i testimoni e questi avrebbero l’obbligo di comparire per tutto l’arco del giudizio e per ciascuna delle udienze in cui questo si articola senza che sappiano se debbono essere ascoltati e sino a quando il giudice ascoltandoli o dichiarandone non rilevante e pertinente l’audizione li liberi da tale soggezione.(Luiso).

In sintesi, la decisione in rassegna ha dapprima osservato che, ben essendo possibile

procedere all’istruzione del processo in più udienze, la regola per cui la parte ha l’onere di citare i testi per la prima udienza di discussione (e, conseguentemente, per le ulteriori udienze nel caso di rinvio) “finisce per tradursi in un formalismo, giacché essa non può non ingenerare nei testimoni la resistenza a non comparire inutilmente”; formalismo che, tra l’altro, danneggia la parte “debole” (nel cui interesse è prevista la possibile concentrazione dell’istruttoria in unica udienza), costretta ad inutile e dispendiosa attività processuale.

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Il revirement operato dalla terza sezione (che, sembra inserirsi in una linea di

sdrammatizzazione delle formalità proprie della prova testimoniale nel rito lavoro: v. sez. un. 13 gennaio 1997, n. 262,, in punto di omessa indicazione delle generalità dei testimoni) è auspicato da parte della dottrina: in particolare LUISO (Il processo del lavoro, Torino, 1992, 204) ha criticato l’orientamento sino ad oggi costante della Cassazione sia con riguardo alla sua inconciliabilità con la previsione dell’art. 250 c.p.c. sia (con argomentazioni di carattere sistematico ed empirico non dissimili da quelle recepite dalla decisione in rassegna) per l’inaccettabile risultato cui tale orientamento, nella pratica, conduce, e cioè quello di imporre all’interessato una inutile e costosa attività e, nel contempo, costringere i testimoni a “tenersi a disposizione” dell’autorità giudiziaria “per il caso che a quest’ultima piaccia ascoltarli”

In ordine al requisito di cui all’art.244 c.p.c della indicazione delle persone da

interrogare al giudice è consentito di ridurre le liste testimoniali sovrabbondanti e di escludere i testi che non possono essere sentiti per legge (art.245);nel caso di mancata indicazione dei singoli capitoli sui quali i singoli testi devono essere sentiti ciascuno di essi va interrogato su tutte le circostanze capitolate.

L’indicazione dei testi ha valore inderogabile e preclude l’assunzione di testi ulteriori e diversi e la sostituzione dei testi deceduti con altri indicati.

Unica deroga a tale principio è rappresentata dalla facoltà del giudice di chiamare a deporre i soggetti cui altro teste si sia riferito per la conoscenza dei fatti ai sensi dell’art.257 c.cp.c.

L‘escussione di un teste non indicato con le modalità e nei termini di cui all’art.244 c.cpc. determina la nullità della deposizione che tuttavia, essendo posta ad esclusiva tutela dell’interesse della parti e non per ragioni di ordine pubblico,soggiace al regime delle nullità relative e quindi deve ritenersi sanata se la controparte non la eccepisce tempestivamente ovvero vi presta acquiescenza anche tacita.

A proposito del potere di riduzione delle liste sovrabbondanti, in base ad un preventiva valutazione di superfluità della prova data la difficoltà di una valutazione aprioristica di superfluità dell’audizione del teste, a parte l’ipotesi di liste assolutamente pletoriche, è invalsa la prassi di rimettere alla parte deducente, con l’ordinanza ammissiva della prova, la scelta dei testi , già specificamente indicati nel termine perentorio assegnato ovvero menzionati negli atti introduttivi, nel limite numerico massimo fissato dal giudice( ad esempio ammette la prova di cui ai capitoli …. delle note istruttorie depositate il….. con i testi indicati per detto capo che riduce ad un numero massimo di ….). Altrimenti al giudice è sempre consentito , a norma dell’art.209 di dichiarare chiusa l’istruzione probatoria nel caso di superfluità dell’ulteriore esame testimoniale in relazione agli esiti della prova espletata non essendo tale potere precluso dal mancato esercizio di quello preventivo di riduzione delle liste sovrabbondanti.

A proposito dei poteri istruttori del giudice del lavoro si segnala la recentissima

Cassazione sezioni Unite civili del 13 maggio –17 giugno 2004 n.11353 “ nel rito del lavoro , ai sensi di quanto disposto dagli artt.421 e 437 cpc, l’esercizio del potere istruttorio d’ufficio del giudice pur in presenza di verificatesi decadenze preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa , non è meramente discrezionale ma si presenta come un potere dovere , sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova avendo l’obbligo in ossequio a quanto prescritto dall articolo 134

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del cpc e dal disposto dall’art.111 costit , primo comma sul, giusto processo regolato dalla legge – di sollecitare le ragioni per le quali reputi di fare ricorso all’uso dei poteri istruttori o , nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga invece di non farvi ricorso . Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice , con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche , ovvero ammettendosi una prova contro la volontà della parte di non servirsi di detta prova , o infine in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia , ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata

Le Sezioni Unite sono chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale sulla questione concernete l’entità degli oneri di allegazione e probatori gravanti sui lavoratori che richiedono il riconoscimento della causa di servizio ( per malattie professionali non tabellate) per ottenere l’ equo indennizzo a causa delle patologie dalle quali assumono di essere affetti;tali tematiche una volta individuati gli oneri di allegazione e probatori scaturenti dal disposto dell’art.414 cpc e gli oneri di contestazione del convenuto involgono il contenuto e l’operatività dei poteri istruttori di ufficio del giudice del lavoro riconosciuti dall’art.421 comma secondo e 437 comma secondo : nella fattispecie scrutinata dalle sezioni Unite il Tribunale di Bari, aveva accolto l’appello proposto avverso la sentenza impugnata rigettando la domanda rimarcando che il lavoratore aveva l’onere di provare ai sensi dell’art.2967 c,c non solo il tipo di mansioni svolte ed il loro concreto atteggiarsi ma pure la sussistenza di tutte quelle condizioni e modalità( durata , condizioni ambientali, intensità e durata del lavoro ) cui far risalire con nesso di causalità la malattia da cui risultava affetto : il lavoratore ricorrente dopo aver premesso che le mansioni di guardiano non risultavano contestate da controparte addebita al Tribunale di aver riscontrato una carenza probatoria ignorando così la richiesta di prove . in ordine alla condizioni e modalità di lavoro ed agli agenti patogeni dello tesso – formulata in primo grado e rinnovata in appello (prova per testi con i compagni di lavoro ed i rappresentanti sindacali di categoria sulla quale il Tribunale avrebbe opposto un netto rifiuto non sorretto da adeguata motivazione che pertanto costituiva violazione di legge come tale censurabile in sede di legittimità

Le Sezioni Unite si soffermano sui due orientamenti contrastanti Il primo non ritiene il lavoratore gravato da alcun particolare onere di allegazione in

ordine alle circostanze poste a fondamento della domanda essendo sufficiente l’indicazione della mansioni spiegate che hanno causato la menomazione della sua integrità fisica ( cassazione 1823/2003 11035/2001)

Il secondo ritiene che invece sul lavoratore gravi l’onere di provare con precisione i fatti costitutivi del diritto dimostrando la riconduciblità dell infermità alle modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita variabili in relazione al luogo di lavoro, ai turni di servizio all’ambiente di lavoro ( 9539/2003,8884/2003) detto indirizzo che richiede una completa specificazione in ricorso dei fatti costitutivi della domanda si fonda sul rilievo che le modalità di svolgimento delle mansioni inerenti ad una qualifica non configurano un fatto notorio che non necessita di prova atteso che esse sono variabili in dipendenza ,del concreto posto di lavoro, della sua localizzazione geografica , dei turni di servizio e dell ambiente in generale e sull’ulteriore considerazione dell’assoluta irrilevanza della mancata contestazione con la comparsa di costituzione di primo grado della modalità delle prestazione lavorativa allorquando dette modalità non siano state concretamente precisate ed ancora che nelle cosiddette patologie ad eziologia multifoattoriale il nesso di causalità tra attività lavorativa ed evento ,in assenza di un rischio specifico non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico ma

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esige una dimostrazione quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte , alle condizioni di lavoro ed alla durta ed intensità dell’esposizione a rischio .

Le sezioni unite manifestano di condividere il secondo indirizzo . osservano al riguardo che in base al combinato disposto dell’art.414 , n.4 cpc – equivalente all’art.163 n.4 cpc - e420, 1 comma, l’attore deve indicare fin dall’atto introduttivo gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della domanda atteso che in base all’art.420 può modificare la domanda giudiziale solo ove ricorrano gravi motivi e su autorizzazione del giudice . L eventuale nullità del ricorso , per mancata specificazione degli elementi costitutivi posti a fondamento della domanda , non individuabili anche attraverso l esame complessivo del ricorso e della documentazione allegata, ne determina la nullità, tuttavia sanabile ex art.164 , 5 comma cpc con l’assegnazione di un termine perentorio per la rinnovazione del ricorso o la integrazione della domanda e la non tempestiva eccezione del convenuto ex art.157 cpc del vizio dell’atto stante l’applicabilità al rito del lavoro dell’art.156 dovendo ritenersi e l atto abbia raggiunto il suo scopo ( le sezioni unite si soffermano sull avvicinamento tra i due riti avendo il processo ordinario acquisito alcune delle caratteristiche che avevano contrassegnato la specificità della legge 553/3( monocraticità del giudice, obbligatorietà dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione, pagamento di somme non contestate , esecutorietà sentenza di primo grado) e di contro il rito del lavoro in mancanza di deroga normativa o di incompatibità strutturale rimane un giudizio a cognizione ordinaria inquadrabile nel generale sistema del cpc con l’’applicazione oltre che delle norme generali del libro I anche di quelle del libro II se non incompatibili con le peculiarità connotanti il rito del lavoro sezioni Unite 2166/1988). Ma la eventuale sanatoria del ricorso non vale rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova che devono essere specificati ai sensi dell’art.414 n.5 ed anche quando a seguito dell intervento del giudice ex art.164 comma 5 siano stati emendati i vizi dell’edictio actionis cio non può comportare il superamento delle preclusioni afferenti ai mezzi istruttori maturate con il deposito del ricorso consentendo al convenuto di eccepire il mancato rispetto della norma codicistica sull’onere della prova

Le sezioni Unite sottolineano come la decadenza dalle prove riguardi non solo il convenuto ( art.416 ,3 comma) ma anche l’attore ( articolo 414 , n.4) sulla base della lettera dell’art.420 comma 5 che contempla la possibilità nel corso della prima udienza che le parti chiedano nuovi mezzi di prova solo ove non abbiano potuto proporli prima , ed il carattere paritario della disciplina dell’attività difensionale delle parti quanto alla sanzione di decadenza , previsto in modo in modo implicito, ma non per questo meno chiaro richiamando Corte Costituzionale 13/1977 e la simmetria tra le due parti del processo sottolineate nel corso dei lavori delle commissioni parlamentari della V VI legislatura allorchè si contrappone l’obbligo del convenuto di “vuotare il sacco” fin da principio con quello analogo dell’attore “di dire senza riserva fin dall atto introduttivo “tutto ciò che attiene alla sua difesa “ nell’ambito di quella reciproca collaborazione che che ispira il rito del lavoro nei sui caratteri di concentrazione immediatezza ed oralità che impone l onere di ciascuna parte di specificare nei primi rispettivi atti non solo i fatti posti a fondamento della domanda ma , alla stregua del principio di eventualità - anche i mezzi di prova- relativi ai fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni - di cui intende avvalersi prima di sapere se i fatti cui le prove si riferiscano saranno contestati da controparte ( a differenza della novella del 90 attributiva di una consequenzialità temporale tra la fase delle allegazione e quella delle attività istruttoria. Il rigido sistema di preclusioni per quanto attiene all’allegazione dei fatti ed all’onere della prova ha indotto il legislatore del rito del lavoro ad attribuire al giudice di appello – in un area in cui risulta rafforzata l’esigenza di un accertamento pieno dell’esistenza dei fatti controversi per il carattere indisponibile o

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semidisponibile delle situazioni soggettive coinvolte - incisivi poteri d’ufficio in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova ove siano indispensabili ai fini della decisione della causa La necessità di completezza nell indicazione dei fatti costitutivi e dei mezzi probatori ad avviso delle SSUU trova puntuale riscontro nella specifica disciplina dell’equo indennizzo .

Le sezioni Unite richiamano la proprio precedente pronuncia 76172002 già prima illustrata ,sulla disciplina della non contestazione ( la contestazione non può essere generica ma deve essere puntuale precisa , circostanziata , onnicomprensiva e dettagliata come prescritto dal 3 comma dell’art.416 a differenza del testo dell’articolo 167 )osservando che la tendenziale irreversibilità ed irrevocabilità della non contestazione “ del fatto costitutivo del diritto” ( criterio non estensibile però ai fatti dedotti in funzione esclusivamente probatoria – cioè delle circostanze dedotte al solo scopo di dimostrare l esistenza dei fatti costitutivi che hanno una rilevanza che si esaurisce sul piano istruttorio operando sulla formazione del convincimento del giudice ) si pone in coerenza con la struttura del processo del lavoro finalizzato a far si che nell udienza di discussione la causa giunga delineata in modo compiuto per quanto attiene all’oggetto ed alle esigenze istruttorie per la tendenziale unicità dell udienza di discussione - diversamente da quella di prima comparizione e xaret.180 . in modo da consentire la immediata definizione del giudizio perseguibile in ragione della circolarità tra oneri di allegazione , di contestazione e di prova . A proposito dei poteri istruttori del giudice le SSUU rimarcano come con l’art.421 comma secondo si è inteso affermare che è caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca delle verità materiale di guisa che allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine il giudice - ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova ma ha il potere dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti

Le SSUU ribadiscono che i poteri d’ufficio del giudice del lavoro possono essere esercitati pur in presenza di verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di un esplicita richiesta delle parti dando atto dell’esistenza di due diversi indirizzi sul concreto esercizio di tali poteri l’uno che li rimette all’assoluta discrezionalità del giudice del lavoro la cui decisione si sottrae al sindacato di legittimità anche sotto il profilo del difetto di motivazione (3549/1994 e le recente 3505/2002 , ,omesso esercizio fa ritenere che il giudice abbia per implicito considerato sufficienti le risultanze probatorie già acquisite Cassazione 3505/2002) l’altro indirizzo che configura l’esercizio di tali poteri non come meramente discrezionale bensì obbligatorio ove sussistano ragionevoli probabilità di accertare la verità materiale con l’unico limite della necessaria allegazione dei fatti ad opera della parte ( cassazione 3026/99 8220/2003 e 9034/2000 secondo cui il potere ‘d’ufficio è volto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie intese come complessivo materiale probatorio complessivamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado con la conseguenza che in tale caso non si pone alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della parte essendo la prova nuova disposta d'ufficio solo l’approfondimento , ritenuto indispensabile di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo; in particolare per cassazione 9596 del 1 ottobre 1997 anche nel rito del lavoro l’attore ha l’onere di dimostrare tutti i fatti costitutivi del diritto del quale chiede la tutela senza poter frazionare la prova testimoniale nei due diversi gradi del giudizio di merito , dall’altra parte il giudice non può sopperire alla carenze probatorie imputabili alle parti in quanto il suo potere di ammettere d’ufficio mezzi di prova ex art421 cpc è finalizzato a sopperire a difficoltà oggettive nell acquisizione delle prove ovvero a chiarire ed eliminare incertezze ;

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(nella fattispecie scrutinata dalla Suprema Corte in cass. 9596/97 in una vicenda in cui dinanzi alla contestazione globale dell’ente assicuratore circa la prestazione dell attività lavorativa subordinata idonea per l iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli la lavoratrice aveva omesso di articolare ed espletare prova testimoniale volta a dimostrare il numero di giornate lavorative annue ;la SC ha confermato la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda per la genericità delle deposizioni testimoniali assunte in prime cure e l inammissibilità di una nuova articolazione della prova in appello );

le SSUU mostrano di condividere il secondo indirizzo perché tali poteri funzionalizzati al contemperamento del principio dispositivo con quello di ricerca della verità materiale non possono essere esercitati in modo arbitrario dovendo il giudice in ossequio agli artt,134 cpc e111 costituzione esplicitare le ragioni per le quali reputa di fare ricorso a tali poteri o di non farvi ricorso nonostante l’esplicita richiesta delle parti .

Il relativo provvedimento è censurabile in sede di legittimità ex art.360 5 comma , per vizio di motivazione, allorchè non sia sorretto da congrua e logica spiegazione nel disattendere la richiesta di mezzi istruttori ovvero ex art.360 n,3 allorchè il giudice del lavoro abbia esercitato i poteri istruttori sulla base del proprio sapere privato con riferimento a fatti non allegati dalle parti e non acquisiti al processo in modo rituale ad esempio in sede di interrogatorio libero allorquando superando il principio di legalità della prova abbia dato ingresso nel giudizio alle cosiddette prove atipiche o , in violazione del principio del dispositivo abbia ammesso una prova contro la volontà già espressa in modo chiaro dalle parti di non servirsi di detta prova ovvero, ove in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia , venga ammessa d'ufficio una prova volta a sminuirne l efficacia e la portata specialmente nei casi i cui - –come avviene per la prova per testi - un corretto esercizio del contraddittorio e del diritto di difesa impone alle parti di espletare la prova un unico cotesto temporale ( cassazione 11002/2000)

Le SSUU respingono il ricorso poichè il lavoratore ricorrente , limitandosi ad affermare di svolgere le mansioni di guardino non aveva neppure allegato le circostanze fattuali( vibrazioni, scuotimenti , sottoposizione a turni irregolari) cui addebitava in relazione causale con le mansioni svolte la malattia da cui era affetto circostanze che avrebbero dovuto essere specificate in ricorso unitamente all’indicazione dei mezzi di prova non potendo tali carenze essere superate per mezzo della consulenza che essendo strumento di valutazione - ad opera di persone dotate di particolari cognizioni – di fatti già dimostrati non poteva costituire un mezzo di prova o di ricerca di fatti che devono essere provati dalle parti ( la consulenza tecnica è un mezzo istruttorio e non una prova vera e propria sottratta alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito cassazione 17 febbraio 2004 n.3004); riteneva poi infondata la censura sul mancato esercizio dei poteri officiosi in quanto – in mancanza di una prova testimoniale articolata per specifici capi- una tale iniziativa non era consentita non risultado allegati o comunque acquisiti in giudizio i fatti ( concrete modalità di esercizio dell attività lavorativa) in relazione ai quali avrebbe dovuto spiegarsi l attività istruttoria e non risultando neppure che fossero state individuate in maniera certa le persone che avrebbero dovuto deporre come testimoni

Nella ricerca del difficile equilibrio tra poteri inquisitori - più penetranti nel rito del lavoro che in quello ordinario ,finalizzati alla ricerca della verità materiale in un area del contenzioso che investe diritti caratterizzati dall elemento della indisponibilità e della semidisponibilità - ed il principio di disponibilità della prova ex art.115 cpc in una sistema improntato ad una rigida scansione di decadenze ( art414, 416 e 430) le SSUU ribadiscono il limite della necessaria allegazione delle parti e della necessaria motivazione dell esercizio dei

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poteri officiosi( o del non esercizio in caso di sollecitazione della parte) e della censurabilità del relativo provvedimento in sede di legittimità per vizio di motivazione o per violazione di legge .

La prova contraria e indiretta Mentre con la prova diretta si intendono dimostrare i fatti primari costitutivi della pretesa , la

prova diretta contraria verte su identici di segno antitetico rispetto a quella diretta e la parte che la deduce si limita a indicare i nominativi del testi da ascoltare , in chiave negativa, sui capitoli indicati per la prova diretta , la prova indiretta contraria è dedotta su circostanze diverse da quelle offerte dalla controparte attraverso le quali argomentare l’insussistenza e l’inefficacia dei fatti oggetto della prova diretta e quindi è idonea a paralizzarne gli effetti

Ha un regime del tutto diverso nelle cause soggette al “vecchio” ed al “nuovo” rito. Nelle prime(prima dell’abrogazione del 2 comma dell’art.244 c.p.c ad opera dell’art.89

l 35390 )al fine di garantire l’unità della prova cioè di evitare la frammentazione in fasi successive del giudizio di testimonianze vertenti sulle stesse circostanze la parte contro la quale era articolata una prova aveva l’onere, nella prima risposta – intesa come la prima deduzione orale o scritta successiva all’atto o all’udienza in cui era stata richiesta la prova testimoniale - di indicare le persone che intendeva far interrogare e di dedurre in articoli separati le circostanze su cui dovevano rispondere salva la facoltà del giudice di assegnare un termine perentorio per integrare tali indicazioni(terzo comma).

Una nuova formulazione di capitoli non era necessaria per la prova contraria(cioè di segno opposto a quella dedotta dall’avversario,essendo sufficiente solo la indicazione dei testi da escutere sui capitoli già dedotti dall’avversario)ma solo per la prova contraria indiretta vertente cioè su circostanze diverse da quelle articolate dall’avversario ma dalle quali poter argomentare l’insussistenza o inefficacia dei fatti oggetto della prova diretta e quindi idonee a paralizzare gli effetti di questa(ad esempio formulata una prova testimoniale volta a suffragare una domanda di risoluzione di un contratto di vendita per vizi occulti della merce fornita, viene proposta una controprova intesa a dimostrare la decadenza dall’azione per la mancata denuncia dei vizi entro il termine di cui all’art.1495 ,1 comma c.c.).

L’onere relativo sorgeva dopo che erano stati compiutamente dedotti dall’avversario sia i fatti che le persone da interrogare.

La decadenza dalla prova contraria indiretta o diretta, in mancanza di termine assegnato dal giudice si verificava, qualora, la parte nella prima risposta non provvedesse ad indicare le persone da escutere e gli specifici capitoli di prova(nel caso di prova indiretta).

Qualora il giudice si fosse avvalso del potere discrezionale, esercitabile anche d’ufficio e sottratto al sindacato di legittimità, di assegnare un termine per formulare o integrare tali indicazioni,- dichiarato perentorio dal terzo comma -e ritenuto non prorogabile neppure con il consenso delle parti, a causa del divieto di cui all’art.153 c.p.c.la decadenza si verificava con la sua inosservanza.

Sulla decadenza dalla prova la giurisprudenza è incerta ritenendo che questa dovesse essere tempestivamente eccepita mediante l’opposizione all’espletamento della prova ed in caso di assunzione- mediante l’eccezione di nullità della prova assunta- ritenendosi in mancanza la nullità relativa sanata per acquiescenza(21.2.95,n.1864)

Tale orientamento si fonda sul menzionato principio che i limiti alla deduzione, ammissione ed all’assunzione della prova testimoniale non sono stabiliti per ragioni di ordine pubblico ma per la tutela dell’interesse della parti e pertanto la loro eventuale violazione non è rilevabile d’ufficio ma solo ad istanza di parte.

Secondo altro orientamento(cass.civ.5.1.72) l’inosservanza del termine era rilevabile d’ufficio e non poteva essere sanata nemmeno per accordo delle parti.

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Per il principio di unità e concentrazione della prova sancito dall’art.244 c.p.c, per la prova testimoniale ed esteso dalla elaborazione giurisprudenziale , quasi per osmosi ai mezzi di prova nella disponibilità delle parti, dopo l’ammissione di una prova testimoniale, a parte l’ipotesi dell’assunzione di testi di riferimento , della rinnovazione dell’esame testimoniale e del confronto, poteva essere ammessa altra prova per testi solo quando abbia per oggetto fatti nuovi e sopravvenuti e comunque indipendenti da quelli della prova già espletata mentre era inammissibile(anche in appello per il distinto profilo della mancanza del requisito novità)la prova che anche in modo indiretto, si palesi preordinata a contrastare, completare o integrare le risultanze di quella già dedotta e assunta e cioè a determinare, attraverso nuove modalità e circostanze una diversa prospettazione dei fatti già oggetto dello stesso mezzo istruttorio nella precedenti fasi del processo. Il requisito della novità della prova in appello costituisce infatti una proiezione del principio di unità della prova in quanto inteso a escludere che la facoltà di articolazione di mezzi istruttori in secondo grado prevista dall’art.345 2 comma c.p.c valga ad ovviare a decadenze e preclusioni verificatesi nel pregresso stadio del processo(cass.Civ.3502/87 e 5620/89).

La riforma della l. 26 novembre 1990 n. 353, ha integralmente ripristinato l’originaria struttura dell’appello quale revisio prioris instantiae con conseguente tendenziale soppressione dello ius novorum e quindi con preclusione di nuove eccezioni e di nuovi mezzi di prova.

Il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova è stato, tuttavia, attenuato dal nuovo testo dell’art. 345, ultimo comma, c.p.c., il quale, come nel processo del lavoro (art. 437, 2° comma, c.p.c.), ha fatto salva la possibilità che il giudice d’appello possa ammettere nuovi mezzi di prova nell’ipotesi in cui li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa oppure nel caso in cui la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

“.tenuto conto del principio di infrazionabilità delle prove , è inammissibile in appello la prova

testimoniale preordinata a contrastare , completare o confortare le risultanze di quella dedotta ed assunta in primo grado e cioè a determinare , attraverso nuove modalità e circostanze una diversa valutazione dei fatti che sono stati oggetto dello stesso mezzo istruttorio nelle precedenti fasi del processo , mentre l’accertamento in ordine alla novità della prova è rimesso all’apprezzamento di fatto del giudice di merito come tale non censurabile in sede di legittimità cassazione , sezione III 28 maggio 2003, 8526. Il requisito del novità esige un raffronto di essa con le risultanze delle deposizioni già acquisite , indipendentemente dalla diversità dei capitoli formulati, per cui deve esserne negata l’ammissione quando la prova testimoniale sollecitata in appello , pur vertendo su circostanze non comprese nei capitoli della prova espletata in primo grado riguardi fatti che hanno formato oggetto delle deposizioni rese dai testi anche su domande della parti ammesse dal giudice (Cassazione 1..12.1997 n.12140 )ed è inammissibile la prova che abbia per oggetto circostanze del tutto diverse e distinte da quelle assunte in primo grado ma direttamente o indirettamente preordinata ad inficiare le risultanze di quella già espletata in detta fase onde determinarne una diversa valutazione all’esito dell espletamento del medesimo mezzo istruttorio ;non è perciò consentito chiedere in appello lo stesso mezzo di prova su fatti idonei a contraddire e neutralizzare quelli già accertati con quel mezzo di prova o idonei a modificare ed integrare le risultanze delle prove raccolte in primo grado ; è quindi ammissibile il mezzo di prova non esperito in primo grado oppure già esperito ma su fatti diversi da quelli della prova richiesta in appello , ferme restando le eventuali preclusioni e decadenze. Maturate in prima istanza.

Una volta accertata la novità della prova occorre verificare la ricorrenza del requisito della indispensabilità ovvero della causa non imputabile ( cioè dell ‘impossibilità della parte senza sua colpa , di proporle in prima istanza: il primo non è altra che l applicazione al giudizio di appello del generale rimedio restitutorio di cui all’art.184 bis cpc tanto che alcuni autori ravvisano la superfluità dell’inciso do cui all’art.345 , comma 3 in virtù del generale richiamo di cui all’art.359 alla norme del giudizio di primo grado di più difficile definizione il concetto di indispensabilità : Si ritiene tale ad esempio il fatto la cui esistenza o inesistenza non sia stata accertata nella sentenza di primo grado ad esempio quando il giudice ha ritenuto di poter decidere la causa sulla scorta di una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito ovvero la

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prova di un fatto decisivo indipendentemente dal fatto che sia volto alla conferma o alla riforma della sentenza impugnata

Il problema della nuove prove in appello deve quindi fare i conti con il detto principio di infrazionabilità della prova . Il thema probandum e decidendum in appello hanno l’ampiezza conferita loro dalle parti mediante le impugnazioni principali ed incidentali promosse sicchè , normalmente il giudice di secondo grado eredita in tutto o in parte il materiale cognitorio di primo grado e le prove ed esercita il proprio giudizio sugli stessi fatti conosciuti dal primo giudice .

Può accadere però che in appello il thema decidendum e probandum devoluti al giudice dell’impugnazione subiscano un ampliamento per effetto della deduzioni di fatti ( ad esempio secondari o dedotti a sostegno di eccezioni rilevabili d ufficio) consenti dall’art.345 in quest’ultimo caso la parte che deduce nuovi fatti deve avere la possibilità di dimostrarne il fondamento ;altrimenti si violerebbe il dito alla prova e si incorrerebbe in un irrimediabile contrasto con la’rt.24 costituzione ;nei ,imiti in cui viene ammessa l allegazione di nuovi fatti in appello le parti potranno dedurre tutti i mezzi di prova ammissibili e rilevanti ai fini della decisione della causa con tutti gli strumenti che la legge mette a disposizione delle parti e del giudice nel giudizio di primo grado . I limiti all’ammissione di nuove prove in appello non si applicano quindi ai mezzi istruttori diretti a dimostrare l’esistenza o l inesistenza di fatti di cui sia ammessa l’allegazione per la prima volta dinanzi al giudice di secondo grado

Le nuove prove in appello debbono essere compiutamente articolate negli atti introduttivi . TRIBUNALE DI GENOVA; ordinanza, 23-12-1997 È inammissibile la prova testimoniale dedotta per la prima volta in appello dal

contumace in primo grado quando negli atti introduttivi del giudizio manchi l’indicazione delle persone da sentire come testimoni.

Nel caso di specie, il collegio, in merito alla prova testimoniale dedotta dalla parte rimasta contumace in primo grado, pur ritenendo “astrattamente indispensabile e dunque ammissibile” tale mezzo istruttorio, ha deciso per la sua inammissibilità a causa della mancata indicazione nell’atto di appello delle persone da sentire come testimoni.

Con tale decisione il giudice d’appello ha, sostanzialmente, confermato quanto già osservato in dottrina, ovvero che le nuove deduzioni istruttorie consentite nel giudizio di secondo grado devono essere formulate nell’atto di appello o nella comparsa di risposta, atteso che il collegio deve provvedere alla loro ammissione nella prima udienza di trattazione, ai sensi degli art. 352, 1° comma, e 356, 2° comma, c.p.c., fissando con ordinanza un’udienza davanti a sé, nella quale le prove debbono essere assunte

In analogia con quanto disposto ex art. 184, 3° comma, e 359 c.p.c., qualora invece la prova sia disposta d’ufficio il collegio dovrà però dar termine anzitutto alle parti per dedurre “i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi”, pronunciandosi in una nuova udienza sulla loro ammissione e, solo successivamente, procedere all’assunzione

Nelle cause ”nuovo rito” il regime introdotto dalla novella ha abrogato il 2 e terzo

comma dell’art.244, mantenendo fermo il primo sicchè, restando immutate le modalità di deduzione della prova testimoniale, ha incluso il regime di deduzione della prova testimoniale in quello generale disciplinato dagli artt.183,184 e 184 bis c.p.c ed il potere del giudice di assegnare il termine di cui al 3 comma dell’art.244 c.cp.c nel più generale potere del giudice di assegnare ad istanza di parte, ex art.184 cpc, un termine entro il quale indicare documenti e nuovi mezzi di prova nonchè altro termine per l’eventuale deduzione di controprova.

L’indicazione di prova contraria, sia diretta che indiretta , va fatta nel secondo termine perentorio che il giudice concede alle parti senza che necessiti richiesta in tal senso.L’art.184 non prevede termini fissi nè limiti minimi o massimi entro i quali debba operare il potere dovere del giudice di adeguamento temporale del termine alle esigenze effettive del singolo caso ed alla varietà della fattispecie, la determinazione cronologica dei termini è demandata all’apprezzamento discrezionale dell’istruttore in considerazione della complessiva dimensione e complessità del

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thema probandum( è evidente che un termine troppo breve determinerebbe una illegittima compressione del diritto di difesa mentre una eccessiva dilatazione temporale del termine ove non giustificata dalla complessità delle esigenze probatorie ovvero dal particolare carico del ruolo istruttorio si risolverebbe nella violazione dei doveri di sollecito svolgimento del processo di cui all’art.175 cpc)

L’abrogazione del secondo comma del’art.244, che assoggettava la richiesta di prova contraria alla prova per testi dedotta dall’attore nel termine coincidente con la prima difesa porta a ricondurre questa preclusione nel comune regime preclusivo concernente tutti i mezzi di prova di cui all’art.184. Pertanto alla prova testimoniale richiesta con gli atti introduttivi o ai sensi dell’art.184, comma 1, la parte può contrapporre qualunque altro mezzo di prova ( diverso dalla prova testimoniale contraria come ad esempio una richiesta di esibizione le cui risultanze siano idonee a contestare il contenuto della prova testimoniale diretta) mediante richiesta dell’altro termine previsto dall’art.184, comma 1, citato per l’indicazione di prova contraria. Deve ritenersi infatti che il secondo termine di cui all’art.184, 1 comma, non riguardi esclusivamente la prova contraria a quella dedotta nel rispetto del primo termine perentorio previsto dalla stessa norma ma genericamente la prova contraria rispetto a tutte le prove fino a quel momento dedotte e quindi negli atti introduttivi o impropriamente nelle memorie ex art.183, 5 comma (come è prassi della classe forense)

A ben vedere il nuovo regime temporale cui è assoggettata la prova contraria potrebbe in taluni casi spezzare quel nesso di contestualità che alla stregua dell’abrogato regime di cui all’art.244 , cpc esisteva tra prova diretta e prova contraria4

Secondo l’ormai consolidato orientamento della dottrina e della giurisprudenza l’espressione “nuovi mezzi di prova “ richiesti nei termini di cui all’art.184 va infatti intesa senza alcuna limitazione circa l’ambito della novità in quanto prescinde totalmente da un legame necessario tra l’indicazione di nuove prove e l’introduzione di fatti nuovi in sede di trattazione oppure di modifiche o precisazioni delle domande ed eccezioni: Nessun controllo può poi esercitare il giudice sulla effettiva necessità di nuove deduzioni istruttorie non potendosi rinvenire nel sistema adottato dalla novella un potere autorizzativo del giudice per l’esercizio delle attività probatorie quale si rinviene invece nel rito del lavoro( art.420, 5 comma)quanto al potere del giudice di amettere nuovi mezzi di prova.. Viene in tal modo conferito all’aggettivo “nuovi” il più ampio significato di prove mai indicate prima, non solo ulteriori o diverse o integrative rispetto a quelle prime formulate che abbiano ad oggetto sia fatti allegati con gli atti introduttivi sia altri fatti allegati nell’esercizio dello ius variandi 5

Può quindi verificarsi che dedotta una prova per testi nell’atto introduttivo del giudizio l’avversario deduca una prova contraria solo nelle memorie di cui all’art.184 ,1 comma cpc dopo lo svolgimento dell’udienza ex art.180 e dell’udienza di trattazione e lo scambio delle note di cui all’appendice di trattazione scritta ex art.183, 5 comma, in un ambito temporale ben lontano dalla prima difesa con l’indubbio meno di quel vincolo di stretta contestualità tra prova diretta e contraria che caratterizzava il previgente impianto processuale. Tale vincolo di contestualità investe ovviamente solo la fase di ammissione e non quella di assunzione della prova: ai sensi del’art.202 cpc, secondo comma, il giudice legittimamente può differire la prosecuzione dei mezzi di prova il cui espletamento non si esaurisca nell’udienza fissata e poiché tale norma è applicabile anche alla prova testimoniale, il giudice non è obbligato ad assumere la prova contraria nella medesima udienza di assunzione di quella diretta né tale differimento viola i principi dell’unità e

4 Corder “ Quaderni del Consiglio Superiore della magistratura” , anno 1999 5 Tribunale di Roma , ordinanza del 3 gennaio 98, Comoglio, Lapertosa

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contestualità della prova testimoniale ovvero l’art.184 cpc che fissa delle preclusioni per le deduzioni istruttorie non per l’espletamento dei mezzi istruttori. ( v. cassazione 7682/1999)

In conseguenza dell’abrogazione dei commi secondo e terzo dell’art.244 cpc ad opera dell’art. 89 della legge 26.11.90, n.353 la parte che chieda l’ammissione di prova per testimoni contraria deve provvedere all’indicazione specifica delle persone da interrogare, a pena di decadenza, entro il termine perentorio assegnato dal giudice a norma del novellato art.184 cpc ( Pretura di Firenze, ordinanza del 18.5.98, Foro It., 1998, Parte I, 48, che ha ritenuto che le modalità di deduzione della prova, ai sensi del novellato art.244 c.p.c a seguito dell’abrogazione dei commi 2 e 3 del detto articolo,, prevedono l’indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti posti ad oggetto della testimonianza, con conseguente abrogazione della previsione che riguardava la possibilità di indicare i nominativi dei testi in cancelleria, ha dichiarato la parte convenuta decaduta dalla richiesta di audizione del teste di prova contraria per decorrenza dei termini perentori assegnati ex art.184, secondo comma, così anche Pretura di Bari, 6 marzo 97, Foro t. 1998,I, 1694): Di contrario avviso parrebbe la massima di Cassazione 7682 del 19.7.1999 secondo cui la parte che deposita la lista testimoniale dopo la scadenza del termine assegnatole dal giudice non incorre in alcuna decadenza perché l’art.184, secondo, comma, del cpc prevede la perentorietà del termine per indicare nuovi mezzi di prova non per indicare i nomi dei testi di una prova già ammessa. . Ma a parte la considerazione che la pronuncia concerne un ricorso proposto avverso una sentenza del giudice di pace6 e va riguardata con riferimento a tale rito , la lettura dell’intera sentenza ridimensiona la portata dirompente della massima. Esaminando il quarto motivo del ricorso – che respinge- con cui si deduce violazione e falsa applicazione degli artt.184 e 244 comma 1 cpc per avere il giudice di pace omesso di dichiarare una della parti decaduta dalla prova benchè avesse depositato la lista dei testimoni fuori del termine perentorio concesso la Corte afferma “premesso che l’art.184, comma 2, prevede il carattere perentorio del termine per indicare nuovi mezzi di prova e non per indicare il nome dei testimoni relativamente ad una prova testimoniale ammessa il motivo appare del tutto generico, in quanto il ricorrente enuncia solo la data dell’ordinanza con la quale il giudice di pace aveva concesso alle parti il termine per depositare la lista dei testimoni ma non indica analiticamente come prescritto il contenuto e gli estremi degli atti processuali che pretende essere viziati”; l’affermazione di cui in premessa appare quindi più un obiter dictum che la vera enunciazione di un principio che scardinerebbe il sistema di preclusioni delineato dall’art.184.

I principi di speditezza e concentrazione processuale cui la fase istruttoria è inspirata nel nuovo rito inducono ad escludere che, a parte l’ipotesi dello jus superveniens, dopo l’ammissione di prova testimoniale e soprattutto dopo lo spirare dei due termini anzi indicati, di carattere perentorio, la cui inosservanza è ora rilevabile d’ufficio in base al nuovo regime di preclusioni introdotto dalla riforma, possa essere ammessa altra prova testimoniale sia pure su fatti autonomi e di diverso rilievo processuale rispetto a quelli che hanno formato oggetto della prova già ammessa.

Ammissione della prova e intimazione dei testi Con l’ordinanza ammissiva della prova il giudice esercita il potere discrezionale di

ridurre le liste di testi sovrabbondanti ed elimina quelli che non possono essere sentiti per legge. Tuttavia il giudice non è tenuto a sentire tutti i testi ammessi anche quando non abbia esercitato tale potere in quanto ai sensi dell’art.209 c.p.c può ritenere chiusa l’istruzione quando ritenga superflua l’audizione degli altri testi ammessi in relazione alle risultanze istruttorie già acquisite. La 6 la sentenza rigetta il ricorso avverso la sentenza del giudice di pace di Bisceglie dell’8.1.97 che aveva deciso un opposizione a decreto ingiuntivo introdotta con citazione del 6.11.1995.

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riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti costituisce un potere tipicamente discrezionale del giudice di merito ( non censurabile in sede di legittimità) che può essere esercitato anche nel corso dell’espletamento della prova , potendo il giudice non esaurire l’esame di tutti i testi ammessi , qualora , per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova:: tale ultima valutazione non deve necessariamente essere espressa potendo desumersi per implicito dal complesso della motivazione della sentenza . Ne consegue che il mancato espletamento di siffatto mezzo istruttorio può, semmai, riflettersi negativamente, sulla motivazione, e quindi essere denunziato sotto il profilo della violazione dell’articolo 360 , comma primo , n.,5 cpc ma non può essere direttamente contestato Cassazione Civile sezione lavoro 16 agosto 2004 ,15955 e 16 maggio 2000 n.6361)

Nell’ordinanza ammissiva non è necessaria la ripetizione dei capitoli di prova già dedotti dalle parti essendo sufficienti il riferimento a quelli indicati negli atti introduttivi o nei verbali d’udienza o nelle memorie.

L’ordinanza ammissiva della prova, se pronunciata fuori udienza, va comunicata solo alle parti costituite.

Con sentenza n.9402 del 25.9.97 la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art.292 cpc per contrasto con l’art. 24 della costituzione nella parte in cui non prevede la notifica al contumace dell’ordinanza ammissiva della prova testimoniale perché dall’espletamento di essa- assunta e valutata dal giudice- non gli deriva nessuna automatica conseguenza negativa, a differenza invece del tacito riconoscimento della scrittura privata disposto dall’art.215, n.1 cpc e che ha costituito il fondamento della declaratoria di incostituzionalità dell’art.292 nella parte in cui non prevedeva la notifica al contumace degli atti in cui la scrittura privata veniva indicata ovvero del verbale di udienza attestante la produzione di essa( Corte Costituzionale n.250 del 28.11.86 e 317 del 6 giugno 89)

L’ordinanza ammissiva era soggetta al reclamo al collegio di cui all’art.178 per le cause vecchio rito mentre è ora ,per le cause nuovo rito, solo modificabile o revocabile dal giudice che l’ha pronunciata oltrechè sottoposta al vaglio del collegio per le cause con riserva di collegialità.

La mancata proposizione del reclamo ex art.178 c.p.v avverso l’ordinanza che respingeva l’istanza di ammissione di una prova non impediva il successivo controllo del collegio sull’ordinanza stessa ,semprechè la parte interessata avesse riproposto la questione in sede di precisazione delle conclusioni, restando in caso contrario la cennata questione preclusa anche in sede di impugnazione(acss.5618/95).

Nel vigore delle novella del 90 l’ordinanza è sempre revocabile ma la parte che si oppone ad una prova testimoniale , oltre a dover tempestivamente sollevare detta sua eccezione, deve poi dolersene anche in sede di precisazione delle conclusioni chiedendo la revoca dell ordinanza ammissiva ex art.178 comma 1 ( nuovo testo) perché il giudice cui compete la decisione di tutta la causa provveda a detta revoca dell ordinanza , restando in caso contrario preclusa la possibilità di decidere in ordine all’ammissibilità o all inammissibilità della prova e cosi provvedere all’eventuale revoca dell ordinanza con l ulteriore conseguenza che la cennata questione non può più essere riproposta in sede di impugnazione Cassazione sezione III 24.11.2004 22146.

L’ordinanza istruttoria relativa all’ammissione di una prova, anche qunado prenda in esame questioni attinenti a presupposti , condizioni processuali o profili di merito, è provvedimento tipicamente ordinatorio, con funzione strumentale e preparatoria rispetto alla futura definizione della controversia, priva come tale di qualunque efficacia decisoria e quindi

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insuscettibile di impugnazione davanti al giudice superiore e, tanto meno, di ricorso per cassazione; Cassazione civile , sezione II 12 marzo 2001 n.3601.

La decisione delle questioni di ammissibilità e rilevanza della prova non pregiudica l’integrità del potere decisorio dell’organo giudicante al quale viene lasciata tutta la responsabilità del giudizio definitivo su tutte le questioni nelle quali si articola il giudizio comprese quelle che concernono l’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova (Mario Conte , le prove nel processo civile Giuffrè) ;

E’ stata pure abolita,per le cause soggette al nuovo rito, l’ipotesi di rimessione al collegio per la sola decisione in ordine all’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova prevista dal vecchio testo dell’art.187 c.p.c

Una volta ammessa la prova la parte istante dovrà procedere all’intimazione dei testi a mezzo dell’ufficiale giudiziario almeno tre giorni prima dell’udienza in cui sono chiamati a comparire, a norma dell’art.250 c.p.c ,salva l’ipotesi di riduzione dei termini nei casi d’urgenza ai sensi dell’art.103 delle disp. di attuazione.

La mancata intimazione dei testi determina la decadenza dalla prova, ai sensi dell’art.104 cpc (. oltre all’ipotesi di decadenza fissata per tutti i mezzi di prova dall’art.208 c.p.c per il caso di mancata comparizione delle parti ad istanza delle quali la prova è stata ammessa) ma ove il giudice ritenga giustificata l’omissione soccorre il rimedio restitutorio di cui all’art.104, 2 comma , disp.att. cpc, (fissazione di una nuova udienza per l’assunzione).

Per cassazione 17841 del 24.11.2003 “l’ordinanza di chiusura della fase istruttoria e di remissione della causa al collegio , adottata dal giudice istruttore immediatamente dopo la rituale e tempestiva eccezione di decadenza dall’assunzione della prova , ai sensi dell’art.104 disp.att per la mancata intimazione dei testimoni deve ritenersi contenente un legittimo provvedimento implicito di decadenza dal diritto all’ulteriore assunzione della prova testimoniale restando escluso che la parte possa articolare gli stessi mezzi istruttori in secondo grado ai sensi dell’art.345 cpc non essendo concessa tale facoltà per ovviare a decadenze e preclusioni verificatesi nel pregresso stadio del processo “

Secondo Il Tribunale di Roma, 18.11.97, la decadenza discendente dalla mancata osservanza dell’art.104 disp.att, cpc è rilevabile d’ufficio in considerazione del nuovo disposto dell’art.208 cpc che ha svincolato tale declaratoria dall’intervento di espressa richiesta di parte.

TRIBUNALE DI NAPOLI; ordinanza, 22-03-2000 La decadenza derivante dalla mancata intimazione dei testimoni è rilevabile d’ufficio. “ Ai sensi del combinato disposto degli art. 250 c.p.c., 103 e 104 disp. att. c.p.c., la

mancata citazione dei testi, senza giusto motivo, importa una decadenza delle parti dalla prova; l’art. 104 disp. att. c.p.c., in particolare, recita: “. . . questi [il giudice] la dichiara [la parte che ha omesso la citazione] decaduta dalla prova”.

Prima della riforma del codice di rito, attuata con la l. 26 novembre 1990 n. 353 e successive modificazioni, nonostante la formulazione della disposizione ora richiamata sembrasse orientare per una rilevabilità d’ufficio della decadenza, era, al contrario, pacifico in giurisprudenza che la stessa fosse rilevabile soltanto su eccezione di parte; ciò alla luce di una lettura complessiva del sistema processuale, degli interessi sottesi allo stesso e dell’art. 208 c.p.c., in particolare, il quale ancorava all’istanza della parte comparsa il rilievo dell’analoga decadenza, stabilita per il caso in cui la parte su istanza della quale doveva iniziarsi o proseguirsi l’assunzione della prova non fosse comparsa all’udienza (cfr., ex plurimis, Cass. 30 novembre 1989, n. 5264,: la decadenza dalla prova testimoniale, tanto nell’ipotesi prevista dall’art. 208 c.p.c., quanto nell’ipotesi di cui all’art. 104 disp. att. c.p.c., è predisposta non già per ragione di ordine

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pubblico, ma per la tutela degli interessi delle parti, sicché, con riguardo alla seconda ipotesi, deve essere eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce l’inattività che ne costituisce il presupposto di fatto, quando non vi sia motivo alcuno che possa importare la necessità di rinviare all’udienza successiva la proposizione della eccezione).

Ora, però, a seguito dell’entrata in vigore della l. 353/90 e successive modificazioni, il quadro normativo risulta sensibilmente modificato rispetto a quello preesistente, sicché si rende necessario ritornare sul precedente orientamento al fine di verificarne la rispondenza o meno all’assetto normativo attuale.

La l. 353/90, in effetti, ha cadenzato l’attività assertiva ed asseverativa delle parti per mezzo di una serie di decadenze, che introducono delle vere e proprie barriere preclusive all’accesso nel processo dei fatti e delle richieste istruttorie (cfr. art. 183 e 184 c.p.c., nel testo novellato); e ciò a differenza del sistema precedente nel quale era consentito alle parti di modificare le proprie domande ed eccezioni sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, e così insieme al thema decidendum di innovare anche il thema probandum.

Essa, inoltre, è intervenuta sulla formulazione dell’art. 208 c.p.c., eliminando l’inciso relativo all’istanza di parte, prima presente, e stabilendo che il g.i. dichiara la parte decaduta dal diritto di far assumere la prova, salvo che l’altra parte presente non ne chieda l’assunzione.

Ne consegue che, in questa fattispecie, la decadenza è rilevata d’ufficio dal giudice, salva la facoltà dell’altra parte di chiedere comunque l’assunzione della prova, e così agendo di fare la stessa “propria”.

Si tratta di un’applicazione del principio di acquisizione della prova al processo, il quale opera non solo in fase di decisione – per cui il giudice deve valutare tutte le risultanze istruttorie comunque ottenute e quale che sia la parte su iniziativa o istanza della quale si sono formate (cfr., ex plurimis, Cass. 24 giugno 1995, n. 7201,) – ma anche a monte, nella fase dell’assunzione stessa dei mezzi di prova.

Il meccanismo è simile a quello previsto dall’art. 245, 2° comma, c.p.c., il quale regola la rinuncia fatta dalla parte all’audizione dei testimoni da essa indicati, stabilendo che la stessa non ha effetto se l’altra parte non vi aderisce e se il giudice non vi consente. Anzi, la formulazione dell’art. 208 c.p.c., non è che una conseguenza ragionevole e necessaria rispetto a quella dell’art. 245 c.p.c., perché è evidente che se la parte non può rinunciare ai propri testi non deve poterlo nemmeno fare in maniera indiretta, ad esempio non presentandosi all’udienza destinata alla loro audizione o non citandoli affatto.

La parte che ha indicato la prova testimoniale può rinunziarvi a condizione che le altre parti vi

aderiscano ed il giudice vi consenta. Ai sensi dell’art.245 ,2 comma c.p.c ,in base al principio di acquisizione processuale le parti ed il

giudice hanno dunque diritto ad utilizzare tutti i mezzi istruttori ammessi ed acquisiti al processo per cui la rinunzia non produce effetto se non vi sia il consenso di tutti i soggetti del processo compreso il giudice.

La rinunzia può essere effettuata anche mediante atto stragiudiziale notificato alle altre parti. Nel caso in cui il giudice non consenta alla rinuncia, l’intimazione del teste viene effettuata dal

cancelliere. Quando la rinunzia accettata dalle parti sia stata consentita dal giudice, questi conserva sempre la

facoltà di disporre in seguito l’audizione del teste a norma dell’art.257 2 comma.c.p.c Cassazione Civile , sezione II 19 agosto 2002 , 12241 pare delineare la possibilità di una rinuncia

implicita ala prova ( cosi come di una tacita accettazione della controparte e di un tacito consenso del GI ” Qualora la parte che abbia indicato un teste richieda la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni , la stessa manifesta con tale inequivoco comportamento la sua volontà di rinunciare all’audizione del teste stesso e se la controparte aderisce alla richiesta di remissione della causa al collegio in sostanza accede alla rinuncia al teste”.Tale rinuncia acquista poi efficacia per effetto del consenso del giudice implicitamente espresso con il provvedimento di chiusura dell’istruttoria e di remissione della causa

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in decisone per cui compete solo al collego , con giudizio non sindacabile in sede di legittimità , ordinare la riapertura dell’istruttoria , revocando l’ordinanza del giudice istruttore

Di diverso avviso pare cassazione sez. lav. 8 agosto 2003 n.12004 che nell affermare che nel rito del lavoro una decadenza a carico della parte per la mancata comparizione all’udienza fissata per l’espletamento della prova si produce soltanto per effetto di provvedimento emesso in tal senso dal giudice su istanza della controparte comparsa, mentre non può ritenersi rinuncia implicita all assunzione dei testi richiesti il semplice silenzio serbato dalla parte richiedente dopo l ‘ammissione atteso che la legge non prevede obbligo per la parte di “insistere” per l assunzione di una prova regolarmente indicata ed ammessa e che la rinuncia alla prova deve essere esplicitata dalla parte che l aveva indicata e produce effetto solo in seguito all adesione della altre parti ed al consenso del giudice

Le due pronunce paiono però prendono tuttavia in considerazione due situazioni non del tutto omogenee la prima l’ipotesi di una rinuncia tacita alla prova dedotta e non ancora ammessa , la seconda alla prova già ammessa.

La prova testimoniale già articolata e rinunciata in primo grado è inammissibile in appello non vertendosi in un ipotesi di prova nuova ex art.345 cpc cassazione sezione II, 19 agosto 2002 , n.12241

E’ da ritenere sul piano interpretativo che l’istanza fatta dall’altra parte, ai sensi dell’art.

208 c.p.c., diretta all’assunzione della prova non impedisce la decadenza della parte originaria, ma più semplicemente impedisce che la prova fuoriesca dal processo. Ciò si verifica perché la parte, che richiede l’assunzione, fa propria la prova della parte decaduta, assumendone consequenzialmente gli oneri connessi, quali, ad esempio, la citazione dei testimoni per l’udienza successiva fissata dal giudice ex art. 208 c.p.c..

Questo significa che la decadenza della parte inerte comunque si verifica, ma, ciò nonostante, la prova può rimanere nel processo a condizione che l’altra parte abbia interesse e manifesti lo stesso in forma esplicita, chiedendo al giudice di procedere all’assunzione del mezzo istruttorio (sia pure originariamente introdotto da quella poi decaduta).

In sintesi, occorre tenere distinto il profilo della decadenza della parte dalla prova da quello dell’esclusione della prova dal processo, che non è una conseguenza necessaria del primo.

La valutazione complessiva degli intervenuti mutamenti normativi spinge, quindi, a considerare che la celebrazione del processo sia nella disponibilità delle parti soltanto quanto al se dello stesso, ma non anche quanto ai tempi e alle sue modalità di svolgimento. La rigidità del sistema viene ad essere temperata dalla possibilità di remissione in termini, ora resa più ampia dall’art. 184 bis, ma già prevista nella formulazione originaria dell’art. 208 c.p.c., nonché dell’art. 104 disp. att. c.p.c.

L’interpretazione risulta avvalorata ancora ove si consideri che l’introduzione di un rigido sistema di preclusioni processuali, al fine di cadenzare le tappe del processo e, quindi, di accelerarne l’iter, risulterebbe frustrata, oltre che priva di senso, se si ammettesse che è nella disponibilità delle parti il quando assumere le prove dei fatti allegati.

Che questa sia la direzione tracciata dalla novella del 1990, risulta confermato anche dal fatto che scopo della riforma del codice di rito era proprio quello di porre mano ad una situazione di estrema inefficienza del processo civile ed ai tempi estremamente lunghi dello stesso; riforma peraltro imposta anche dalle numerose pronunce di condanna dello Stato italiano, operate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per violazione dell’art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955 n. 848.

Alla luce delle considerazioni ora svolte, non appare più sostenibile la tesi che gli interessi sottostanti alle norme citate siano riconducibili unicamente alla tutela degli interessi privati delle parti, come tali nella loro esclusiva disponibilità; al contrario, la normativa è chiaramente funzionale ad esigenze di ordine pubblico e ciò rende possibile il rilievo d’ufficio della decadenza

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dalla prova per mancata citazione dei testi (, Trib. Napoli 24 giugno 1999; Trib. Roma 18 novembre 1997, ).

Al quesito se alla fattispecie in esame sia applicabile o meno analogicamente l’art. 208 c.p.c. – nella parte il cui consente alla parte comparsa di far assumere la prova, che, significa dichiarare al giudice di provvedere di propria iniziativa alla citazione dei testi per una diversa udienza – può darsi risposta affermativa , proprio in base al ragionamento sopra sviluppato per gli art. 208 e 245 c.p.c. (. . la mancata citazione dei testimoni non deve essere un modo indiretto per rinunciare ai testi, senza il controllo dell’altra parte e del giudice; perché “la decadenza sancita dall’art. 104 disp. att. c.p.c. a carico della parte che non ha citato i testimoni non opera se l’altra parte, in virtù del principio di acquisizione processuale, di cui all’art. 245 c.p.c., assume l’onere di chiamare i testimoni non citati”), ma non può dubitarsi che, in ogni caso, la parte originaria decada dal diritto di far assumere la propria prova.

Ciò, peraltro, pone il problema di stabilire se l’istanza dell’altra parte, che pur non impedendo la decadenza di quella originaria, consente tuttavia alla prova di rimanere nel processo, possa essere formulata in maniera implicita, con la semplice manifestazione della volontà di “associarsi o di non opporsi” alla richiesta di “rinvio in prosieguo prova” per mancata comparizione dei testi non citati, ovvero richieda una diversa forma.

Si ritiene e che l’istanza in parola, sia pure non abbisognando di formule “sacramentali”, non possa che essere avanzata in modo esplicito, dovendo consistere in una manifestazione chiara e non equivoca della volontà di “fare propria” la prova della parte decaduta, con assunzione quindi dei relativi oneri, quali appunto la citazione dei testimoni per l’udienza successiva.

L’ordinanza del Tribunale di Napoli anzi citata, si segnala per aver affrontato, alla

luce della riforma del codice di rito di cui alla l. 353/90 e successive modificazioni, il tema della rilevabilità o meno d’ufficio, da parte del giudice, della decadenza per la mancata intimazione dei testimoni e per essere giunta a ritenere, proprio in considerazione del mutato quadro normativo, che si tratti di una decadenza rilevabile (non più esclusivamente su eccezione di parte bensì anche) d’ufficio.

Nei medesimi termini, Trib. Roma 18 novembre 1997, anche, Cass. 4 maggio 1991, n. 4906 la quale ha ritenuto che “la norma dell’art. 208, 1° comma, c.p.c. . . . è applicabile anche nel rito del lavoro introdotto dalla l. n. 533 del 1973” e che “tale provvedimento di decadenza deve essere emesso d’ufficio dal giudice”.

TRIBUNALE DI ROMA; sentenza, 18-11-1997 “In considerazione del nuovo testo dell’art. 208 c.p.c., la decadenza derivante dalla

mancata intimazione dei testimoni, ai sensi dell’art. 104 disp. att. c.p.c., deve ritenersi rilevabile d’ufficio”. Prima della riforma del ’90, invece, la giurisprudenza aveva affermato la natura relativa della decadenza in questione, subordinandone il rilievo alla tempestiva eccezione di parte: Cass. 30 novembre 1989, n. 5264,

Precedentemente alla riforma del 1990 la Cassazione aveva, infatti , ritenuto che “la decadenza dalla prova testimoniale, tanto nell’ipotesi prevista dall’art. 208 c.p.c. (mancata comparizione della parte ad istanza della quale deve iniziarsi e proseguirsi la prova), quanto nell’ipotesi di cui all’art. 104 disp. att. c.p.c. (mancata intimazione dei testi da escutere), è predisposta non già per ragione di ordine pubblico, ma per la tutela degli interessi delle parti, sicché, con riguardo alla seconda ipotesi, deve essere eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce l’inattività che ne costituisce il presupposto di fatto, quando non vi sia motivo alcuno che possa importare la necessità di rinviare all’udienza successiva la

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proposizione dell’eccezione” (così la citata Cass. 30 novembre 1989, n. 5264, , Cass. 25 gennaio 1974, n. 194, ).

La mancata intimazione assume rilievo nel caso di mancata comparizione del teste; la

comparizione del teste rende irrilevante l’eventuale mancata intimazione. E sana ogni vizio della intimazione dello stesso

Nei casi di interruzione del giudizio la decadenza della prova per mancata intimazione

dei testi tre giorni prima dell’udienza fissata per la loro escussione non può essere pronunciata ove il procuratore all’udienza dichiari l’esistenza dell’evento interruttivo ovvero se,verificatasi l’interruzione dopo l’ammissione della prova, la parte non faccia chiamare i testi all’udienza di prosecuzione del giudizio interrotto fissata dal g.i.

Si ritiene che l’11 comma dell’art.420 , cpc non comporti alcuna deroga all’onere della parte di chiedere all’ufficiale giudiziario l’intimazione dei testi da interrogare (rito del lavoro, rito locativo, controversie agrarie) dovendo l’ufficio provvedere alle notificazioni e comunicazioni occorrenti solo per la chiamata di terzi, e secondo un certo orientamento, per i mezzi istruttori disposti d’ufficio ai sensi dell’art.421 cpc, (interrogatorio libero di persone incapaci di testimoniare) dal momento che in tale caso l’ufficio quale assuntore dell’iniziativa assume gli oneri corrispondenti alle comunicazioni e notificazioni .

Se il teste regolarmente intimato non compare decorsa un’ora da quelle fissata per la sua comparizione il giudice ordina una nuova intimazione oppure dispone l’accompagnamento coattivo:nella prassi si suole indicare nella seconda intimazione la diffida che non comparendo si disporrà l’accompagnamento coattivo.

Con tali provvedimenti il giudice applica una pena pecuniaria(4.000 -10.000)con ordinanza costituente titolo esecutivo e reclamabile entro tre giorni allo stesso giudice che decide con ordinanza non impugnabile.(art.255 cpc e 106 disp.att. cpc)

Se il teste è impedito a comparire per gravi ragioni di salute ovvero esentato dal’obbligo di presentarsi per legge (cardinali, grandi ufficiali dello Stato ) il giudice si reca nella sua abitazione o nel suo ufficio e se questi sono posti fuori della circoscrizione del tribunale delega il giudice del luogo.(giudice istruttore con la entrata in vigore del D:L 19 febbraio 98, n.51)(art.255 cpc, 105 disp.att)

Una volta ammessi i testi , il giudice ha l’obbligo e non la facoltà di interrogarli ( pur avendo la scelta tra il rinnovo dell’intimazione e l adozione del provvediento di accompagnamento ) venendo meno tale dovere solo per effetto delle decadenza della parte che li abbia indicati ( art.208 cpc e 104 disp.att cpc ) o se quedsta vi abbia rinunciato con il consenso del giudice e l adesione delle altre parti. ( Cassazione 14.6.2002, n8580)

=================== In conclusione all’udienza fissata per l’assunzione possono verificarsi varie situazioni: 1)mancata comparizione di entrambe le parti ( va applicato l’art.309 cpc) 2)assenza della parte che ha richiesto la prova e del teste ( decadenza ex officio dalla prova ex art.208 ,salvo che la controparte non richieda l’assunzione rinnovando l’intimazione) 3)assenza della parte che ha richiesto la prova e presenza del teste ( decadenza dalla prova ex officio ex art.208 salvo che l’avversario non chieda l assunzione del teste medesimo) 4)presenza della parti ed assenza dei testi in quanto non citati ( decadenza dalla prova ex art.104 disp. Att salvo che l ‘omissione non sia dipesa da giustificato motivo che

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legittimi l’applicazione del rimedio restitutorio di cui al comma secondo del citato art.104 ) 5)presenza della parti ed assenza dei testi sebbene regolarmente citati : il giudice disporrà nuova intimazione - in caso di legittimo impedimento del teste a comparire - o l’accompagnamento coattivo del teste ; ( Mario Conte, le prove nel processo civile, Giuffrè) ;se la parte che lo ha indicato manifesta che il legittimo impedimento del teste a comparire ha carattere non transitorio -es impossibilità di deambulare per motivi di salute o età avanzata - il giudice ne disporrà l audizione presso il suo domicilio o in altro luogo di temporanea dimora ( es:casa di riposo ) ; -è fatto salvo il ricorso alla prova delegata ex art. 203 e 204 cpc ed alla rogatoria attiva ove ne sussistano i presupposti

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Poteri officiosi del giudice sulla prova testimoniale- testi di riferimento ex art.281 ter e 257 cpc

Quando tra le deposizioni testimoniali vi sono divergenze il giudice, d’ufficio o su istanza

di parte, può disporre il confronto dei testi;si tratta di facoltà discrezionale affidata al giudice il cui esercizio è insindacabile in sede di legittimità.

Il confronto ha luogo mediante lettura delle deposizioni già rese dai testi. Altre facoltà discrezionali esercitabili d’ufficio dal giudice, insindacabili in sede di

legittimità (cass.Civ.2320/95 e 10371/95) sono: - quella di disporre l’audizione di testi dei quali si sia ritenuta l’audizione superflua o di

cui si sia consentita la rinuncia; -quella di disporre un nuovo esame dei testi già interrogati, al fine di chiarire la loro

deposizione(su eventuali espressioni scarsamente intelligibili ma sempre sulle medesime circostanze oggetto del provvedimento di ammissione) o di correggere precedenti irregolarità come per esempio ove si sia verificata la violazione del principio del contraddittorio per la mancata comunicazione del precedente provvedimento emesso dal g.i. fuori udienza con cui ,sciogliendo la riserva formulata all’udienza precedente, provvedeva all’ammissione della prova

quella di assumere testi di riferimento cioè le persone alle quali il teste si sia riferito nella sua deposizione per la conoscenza dei fatti semprechè si tratti di un soggetto ben identificato(in tal caso l’intimazione è fatta dal cancelliere).E’ una deroga al principio della disponibilità della prova trattandosi di un potere di integrazione della prova testimoniale esercitabile d’ufficio nell’interesse superiore della giustizia. allorchè le risultanze istruttorie non siano sufficienti. L’esame dei testi di riferimento va condotto entro i limiti del riferimento operati dal teste già assunto e non può estendersi a fatti diversi salva la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti.

Il giudice può avvalersi discrezionalmente di tale potere ma il fatto che non se ne avvalga non integra violazione della norma che lo prevede mentre un difetto di motivazione non è configurabile se manchi una sollecitazione della parte al giudice ad avvalersene. Pertanto la parte che non abbia rinnovato in sede di precisazione delle conclusioni la richiesta di ammettere i testimoni di riferimento a noma dell’art.257 cpc non può addebitare al giudice di merito il mancato uso di tale potere, censurandone in sede di legittimità la decisione per vizio di motivazione “ quando un provvedimento costituisce esplicazione di un potere discrezionale , il mancato esercizio di tale potere non integra violazione della norma che lo prevede “( Così Cassazione, sez,III 26 giugno 97,n.5706 che ha escluso il difetto di motivazione in un caso ,in cui ,esaurita l’assunzione della prova delegata, le ricorrenti in Cassazione non avevano rinnovato al collegio che aveva disposto la prova ,la richiesta di ammettere i testi di riferimento). Condivide tale orientamento anche la recente cassazione Civ. sezione III 1 agosto 2002 11436 nel senso che l esercizio del potere di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni previsto dall’art.25 cpc, esercitabile anche nel corso del giudizio di appello, in virtù del richiamo dell art359 cpc, involge un giudizio di era opportunità che non può o formare oggetto di censura in sede di legittimità neppure sotto il profilo del difetto di motivazione . L’integrazione ex officio della prova testimoniale ai sensi dell’art.257 , coma primo cpc -norma applicabile anche nel rito del lavoro- costituisce una facoltà discrezionale che il giudice può esercitare quanto ritenga che dall’escussione di altre persone , non indicate dalla parti ma presumibilmente a conoscenza di fatti , possa trarre elementi per la formazione del proprio convincimento : ne consegue che la chiamata di testimoni (o il rigetto delle relativa istanza di parte ) nel caso che ad essi altri testi si siano riferiti per la conoscenza dei fatti , costituendo esercizio di una facoltà siffatta ( che

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presuppone l’ apprezzamento di merito delle risultanze istruttorie , è incensurabile in sede di legittimità, anche sotto il profilo del difetto di motivazione cassazione 1 agosto 2000 n.10077.

L’esercizio di tale potere anche in appello ,( come in genere dei poteri di cui all’arrt.257 , comma 2 ) in base al disposto dell’art.359 cpc costituisce esplicazione del principio di unità ed infrazionabilità della prova e rientra nei poteri di rinnovazione parziale o totale dell’istruzione di cui all’art.356 cpc“ il principio di unità ed infrazionabilità della prova , come non preclude l escussione in appello di testimoni ritualmente indicati in primo grado e depennati dal primo giudice con la riduzione di lista sovrabbondante , cosi non impedisce al giudice di avvalersi della facoltà di ordinare d’ufficio la chiamata a deporre dei cosiddetti testi di riferimento ( cassazione sezione I , 14 gennaio 2000 , n.346).

A proposito del potere di disporre d’ufficio la prova testimoniale il decreto legislativo

n.51 del 19 febbraio 98 ha abrogatol’art.312 cpc trasponendone il contenuto nell’art.281 ter cpc assegnando al tribunale in composizione monocratica i poteri antecedentemente riservati al Pretore ed al giudice di pace.

Rispetto alla novella del 90 che aveva istituito il giudice monocratico in tribunale, nelle materie non espressamente riservate al collegio ,aventi carattere tassativo, creando gli opportuni raccordi tra organi decidenti, nel caso di connessione tra cause attribuite al giudice unico e cause di spettanza del collegio, il decreto legislativo propone due diversi modelli processuali per i procedimenti dinanzi al tribunale: l’uno per la decisione collegiale ricalcato dalla normativa attuale e l’altro per la decisione del giudice monocratico che recepisce -in conformità dell’art.1, numero 1, lettera e) della legge delega- le disposizioni speciali per il Pretore.

L’innovazione di vero rilievo, per quanto attiene alla fase istruttoria, è costituita dall’attribuzione al giudice monocratico della facoltà di disporre d’ufficio la prova testimoniale formulando i capitoli qualora le parti si siano riferite nell’esposizione dei fatti a persone in grado di conoscere la verità.

A tale innovazione di cui all’art.281 ter del decreto legislativo fa riscontro l’abrogazione del testo dell’art.312 cpc che attribuiva tale facoltà al Pretore.

Deve per converso escludersi la facoltà di disporre d’ufficio la prova testimoniale in tutte le ipotesi di riserva di collegialità.

Al di là di tali differenze già la novella del 90 prevedeva un sostanziale parallelismo tra procedimento pretorile e procedimento dinanzi al giudice unico del tribunale.

La legge istitutiva del giudice unico si inspira alla generalizzazione del modello pretorile dinanzi al giudice monocratico del tribunale donde tali facoltà ,riservate al pretore, vengano assorbite nel procedimento dinanzi al giudice monocratico del tribunale. che ha dunque il potere di disporre d’ufficio la prova per testimoni sia nell’ipotesi che le indicazioni riguardo alle prove da assumere provengano da altri testi ( in base all’art.257 ) sia che provengano dalle stesse allegazioni delle parti(art.312 e dal 2.6.99 articolo 281 ter) : il Tribunale oltre al potere di assumere testi di riferimento ai sensi dell’art.257 cpc sulla base delle circostanze riferite da altri testi già escussi può ora dunque disporre d‘ufficio la prova sulla base delle circostanze allegate negli atti difensivi ( al giudice di pace sono pure applicabili, in quanto compatibili, le norme vigenti dinanzi al giudice monocratico del tribunale).

In buona sostanza al procedimento dinanzi al Tribunale sono estese le disposizioni di cui all’abrogato art.312,sulla formulazione d’ufficio della prova testimoniale- e quelle sulla possibilità di decisione a seguito di trattazione orale della causa -già vigenti per il procedimento dinanzi al pretore e che costituivano le residue differenze apprezzabili tra procedimento dinanzi al tribunale ed al pretore .Tale estensione scaturisce dell’art.1 lettera e) della legge delega che prevede che ,

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quando il Tribunale operi in composizione collegiale si osservino le disposizioni previste per il procedimento dinanzi al Tribunale e quelle previste per il rito pretorile quando operi in composizione monocratica.. L’attribuzione di tale potere solo al tribunale in composizione monocratica e non anche al tribunale in composizione collegiale cui è demandata la maggior parte delle controversie in materia di diritti indisponibili e quelle ritenute di particolare rilievo è apparsa una grave incongruenza( Carratta, poteri istruttori del tribunale in composizione monocratica)

Il potere discrezionale di cui all’art.312 cpc non deroga ai limiti sostanziali di ammissibilità della prova testimoniale di cui all’art.2721 c.c e seguenti né alle norme che disciplinano l’assunzione della prova testimoniale e le decadenze nell’assunzione della prova e relative preclusioni processuali per cui non potrebbe disporsi d’ufficio una prova per la quale sia già stata pronunciata la decadenza.( cassazione 3949/85) ovvero una prova che si imbatta nei divieti di cui agli artt.2721 e seguenti cc giacchè la norma di cui al’art.281 ter non accorda al tribunale in composizione monocratica la latitudine di poteri , sotto il profilo dell’ampiezza ed incisività, che invece è riconosciuta al giudice del lavoro dall’art.421 cpc che consente l’ammissione di ufficio di ogni mezzo di prova, in qualsiasi momento anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile.

Le condizioni alle quali è subordinato l’esercizio di tale potere sono che le parti nell’esporre i fatti abbiano fatto riferimento a circostanze rilevanti per le proprie ragioni e domande e, nella versione dei fatti medesimi posti a fondamento della propria tesi , a persone che appaiano in grado di conoscere la verità su quelle circostanze: Il giudice può esercitare i suoi poteri officiosi nei limiti dei fatti allegati dalle parti che siano da ricomprendere tra i fatti bisognosi di prova con esclusione quindi dei fatti pacifici e non contestati ;alla stregua di tale premessa il dies a quo per l’esercizio di tale potere officioso è quello dell’esperimento dell’interrogatorio libero delle parti ( Carratta opera citata) Il problema interpretativo più spinoso è l’individuazione del dies ad quem per l’esercizio di tale potere cioè dei tempi per l’iniziativa officiosa in relazione alla compatibilità di tale potere con il regime delle preclusioni ;si tratta cioè di appurare se i giudice con una sua iniziativa officiosa possa sopperire alle lacune difensive delle parti anche quando i termini di decadenza siano per esse maturati, questione ricca di svariate implicazioni sotto il profilo del rispetto del principio dell’onere della prova e del principio dispositivo e soprattutto della posizione di imparzialità e di terzietà del giudice nel suo ruolo di direzione ed impulso del processo. Il problema è risolto nel senso della non superabilità delle preclusione dal citato autore che mette in risalto come l’esercizio del potere officioso debba esplicarsi nel rispetto del “potere monopolistico.” delle parti nell’allegazione dei fatti di causa e come si differenzi dalla disciplina del processo del lavoro dove la possibilità di esercizio in qualsiasi momento dei poteri officiosi può legittimare la dilatazione dei termini per il loro esercizio anche oltre il maturare delle preclusioni. Il rispetto del principio di allegazione e lo stesso dato testuale dell’art.281 ter laddove subordina l’ammissione officiosa della prova testimoniale all’ipotesi che nella esposizione dei fatti di causa le parti si siano riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità induce a concludere che detto potere officioso si incanali entro binari ben determinati - sotto il profilo subiettivo- dall’individuazione delle persone da sentire come testimoni con quelle indicate come a conoscenza delle verità - e sotto quello obiettivo -dall’allegazione dei fatti ad iniziativa delle parti che quindi devono trovare ingresso nel processo o mediante gli atti introduttivi o in sede di interrogatorio libero ;

Il Thema probandum cui va riferita la conoscenza delle parti deve quindi essere pur sempre costituito dai fatti allegati dalle parti. Secondo un orientamento dottrinario la necessità di allegazione dei fatti ad opera delle parti varrebbe solo in riferimento ai fatti giuridici principali in quanto finalizzati all’individuazione della domanda o della situazione sostanziale dedotta in

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giudizio mentre il giudice potrebbe acquisire d’ufficio la prova relativa ai fatti secondari non allegati in ordine ai quali si delineerebbe un potere inquisitorio del giudice in ordine all’accertamento della verità ( Taruffo)

Il riferimento all’esposizione dei fatti vale a delimitare non solo i profili oggettivi e soggettivi della prova testimoniale ma anche i limiti temporali entro i quali è possibile l’esercizio di un siffatto potere che non può estendersi oltre il termine concesso alle parti per l’allegazione e la prova dei fatti di causa . L’alternativa che si impone è quella di verificare se il potere officioso possa esplicarsi nell’ambito delle barriere temporali fissate per le preclusioni istruttorie oppure se sopravviva all’eventuale decadenza in cui sia incorsa la parte che abbia omesso di dedurre la prova testimoniale nei termini a lei concessi, soluzione questa ultima che inciderebbe nell’equilibrio tra i poteri delle parti e quelli del giudice provocando una sorta di remissione in termini della parte negligente fuori da presupposti dell’art.184 bis. con una sostanziale neutralizzazione del sistema delle preclusioni. L’autore citato , pur nel silenzio del dato testuale ( dell’art.281 ter cpc e nel previgente sistema dell’art.317 il cui testo è stato poi trasferito nel’art.312 cpo )esclude questa seconda soluzione, muovendo da considerazioni di carattere sistematico :

1) l’art.317 citato, ,va posto in stretta correlazione con l’abrogazione dell’art.316 (il pretore ed il conciliatore potevano indicare alle parti “in qualsiasi momento “le lacune ravvisate nell’istruzione ed indicare le irregolarità di atti e documenti che potevano essere riparte: L’abrogazione dell’art.316 che viene in parte recuperato dal vigente articolo 182 quanto alla regolarizzazione degli atti e documenti manifesta l’intendimento del legislatore di limitare nel tempo ed alla fase iniziale del processo il potere di chiedere la regolarizzazione degli atti

2) l’assenza nell’art.281 ter dell’inciso “in qualsiasi momento” che invece compare nell’art.421 cpc che non è affatto casuale ed impone all’interprete di vincolare l’esercizio del potere istruttorio officioso al pieno rispetto delle preclusioni istruttorie poste al potere delle parti di allegare e provare i fatti di causa con la conclusione che il limite temporale alla possibilità per il giudice di disporre d’ufficio la prova testimoniale non può essere individuato oltre il termine ultimo concesso alle parti per l’allegazione e la prova dei fatti di causa .

Il potere di cui all’art.312 cpc è quindi un potere di integrazione istruttoria che non contraddice al principio dispositivo del processo ma integra le insufficienze e lacune dell’istruzione probatoria trattandosi di un potere inquisitorio del giudice nell’istruzione probatoria configurato come potere sussidiario, non sostitutivo dei poteri di parte, che è esercitabile solo allorchè le parti abbiano già adempiuto all’onere di allegazione dei fatti rilevanti per l’accoglimento delle domande, uno strumento inteso a far testimoniare all’interno del processo persone che dalle affermazioni delle parti risultano essere a conoscenza dei fatti ma che le parti abbiano omesso di indicare come testi e non come rimedio alla colpevole inerzia delle parti ; La previsione non è infatti rivolta a favorire la deresponsabilizzazione delle parti inducendole ad un comportamento passivo che finisca per addossare incongruamente al giudice compiti che primariamente spettano ad esse e che sono dalle parti più facilmente assolvibili ( si pensi ad esempio alla conoscenza che solo le parti possono avere delle possibili cause di incapacità del teste) con il pericolo di una distruzione surrettizia del sistema delle preclusioni . Tale estensione della iniziativa officiosa del giudice in materia probatoria va quindi inquadrata nell’impalcatura della novella del 90 come modificata dalla legge di conversione del 95 ,che con la scansione temporale del processo attraverso il meccanismo delle preclusioni, mira a stabilire un equilibrata sistemazione tra componente pubblicistica del processo ( in relazione alle esigenze di rilievo pubblicistico di spedito ed ordinato svolgimento del processo)e componente privatistica ( in un processo sorretto del principio dispositivo) (vedi Carratta opera citata)

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Tale iniziativa officiosa va concepita come potere-facoltà e non come potere-dovere del giudice cosicchè il suo mancato esercizio e la diretta applicazione delle regole sulla distribuzione dell’onere probatorio al caso dedotto in giudizio non sia suscettibile di essere sindacato in sede di gravame :in questo modo le parti saranno stimolate a compiere la loro attività istruttoria entro le preclusioni stabilite non potendo a priori sapere se una loro eventuale inerzia sarà o no colmata dall’iniziativa di ufficio ( Chiarloni, Luiso) e si eviterà un sproporzionata dilatazione dei poteri di controllo dei giudici di gravame dinanzi al quale la parte che abbia omesso di dedurre i mezzi di prova a sua difesa potrebbe ottenere una sorta di remissione in termini al di fuori dei presupposti e della disciplina dell’art.184 bis cpc. Infatti non è possibile riconoscere in capo alle parti l’esistenza di un vero e proprio diritto processuale all’esercizio del potere officioso del giudice perché il testo cdell’art.281 ter espressamente parla di potere e non di dovere del giudice Potrà semmai costituire oggetto di censura il mancato rispetto dei limiti imposti dal legislatore (cause rientranti tra quelle attribuite al tribunale in composizione collegiale anzichè monocratica) di quelli temporali, ( l’argine temporale delle preclusioni) di quelli oggettivi e soggettivi dell’esercizio di tale potere ( esercitabile nell’ambito dei fatti allegati e delle persone indicate come in grado di conoscere la verità)

^^^^^^^^^^^^ In sede di prima applicazione del “nuovo” art. 281 ter c.p.c., si tenterà di fornire un

quadro dei possibili problemi applicativi che potranno insorgere con riferimento alla stessa e di verificare, al contempo, se il legislatore, con l’attribuzione al giudice monocratico di tribunale di tale potere istruttorio d’ufficio, con conseguente attenuazione del principio della disponibilità della prova , abbia “inteso prendere una decisa posizione sulla sostanza e sulla misura dei poteri del giudice nel processo ordinario” .

CORTE COSTITUZIONALE; ordinanza, 14-03-2003, n. 69 ( In Foro Italiano con

nota critica di Costanzo Cea che si richiama infra ) È manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di

legittimità costituzionale dell’art. 281 ter c.p.c., nella parte in cui non si applica ai giudizi demandati al tribunale in composizione collegiale, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost

Osserva nella specie il Giudice delle leggi che essendosi maturate le preclusioni

istruttorie a carico delle parti, il giudice rimettente ( Tribunale di Grosseto ) opinando non potersi attribuire alcuna rilevanza probatoria alla relazione del curatore, ritiene che sarebbe necessario disporre d’ufficio la prova testimoniale sui fatti ( consistenza dei beni aziendali) di cui il custode dell immobile di proprietà della società fallita risulta dalla medesima relazione essere a conoscenza, ma che simile prova ufficiosa non gli è consentita dalla vigente disciplina dell’istruzione del processo civile, giacché l’art. 281 ter c.p.c. — a norma del quale “il giudice può disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nell’esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità” — è applicabile soltanto nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 281 bis c.p.c.), mentre, nella specie, trattandosi di una causa di responsabilità contro un amministratore di società, la decisione, ai sensi dell’art. 50 bis, n. 5, c.p.c., è riservata al tribunale in composizione collegiale;

che nella mancata estensione del potere di deduzione ufficiosa della prova testimoniale al giudice istruttore nel procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, il giudice a quo ravvisa un vizio di legittimità costituzionale del citato art. 281 ter c.p.c., vizio che sarebbe legittimato a dedurre davanti a questa corte, trattandosi di norme delle quali, quale giudice

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istruttore civile, egli dovrebbe fare applicazione per l’emanazione di provvedimenti rientranti nei suoi poteri, ovvero di norme che escludono poteri da lui rivendicati;

che la questione sarebbe rilevante, in quanto la norma impugnata è applicabile, ai sensi dell’art. 135 d.leg. 19 febbraio 1998 n. 51 (norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), ai procedimenti pendenti davanti al tribunale alla data di efficacia del medesimo decreto, nei quali non siano già state precisate le conclusioni, come nel caso di specie, ed in quanto, essendo stata chiusa l’istruzione probatoria, ma non essendo ancora state invitate le parti a precisare le conclusioni, sarebbe ammissibile — secondo un diffuso orientamento interpretativo, cui egli aderisce — la deduzione della prova testimoniale d’ufficio; inoltre sussisterebbero le condizioni per l’applicabilità della norma, in quanto i fatti su cui la prova verterebbe sono stati esposti dalla parte attrice e la persona, che dei fatti medesimi sarebbe a conoscenza, è stata da essa indicata; e tali fatti, in mancanza di tale mezzo istruttorio, resterebbero indimostrati, sicché la controversia dovrebbe essere decisa in base alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.;

che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente sostiene che la differenziazione, che la norma introduce fra il procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale e quello davanti al tribunale in composizione monocratica, in punto di poteri istruttori ufficiosi, non è ragionevolmente giustificabile e, quindi, comporta violazione del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., in quanto, se la ratio del previgente art. 317 c.p.c. (poi trasfuso nell’art. 312 c.p.c.), che attribuiva al pretore ed al conciliatore (poi al giudice di pace) il potere di disporre d’ufficio la prova testimoniale, poteva essere ravvisata nell’opportunità che, nelle cause di minor valore (quali appunto quelle di competenza di detti giudici monocratici), nelle quali sono in giuoco gli interessi dei cittadini meno abbienti e meno colti, il giudice si avvicini a loro, per supplire con più larghi poteri alla loro inesperienza ed alla minor facilità che essi hanno di giovarsi dell’opera di validi difensori (come si legge nella relazione del guardasigilli al codice di procedura civile del 1940), la medesima ratio non può più essere scorta nel nuovo art. 281 ter c.p.c., avendo questo, nell’ambito della riforma istitutiva del giudice unico di primo grado (attuata col d.leg. 19 febbraio 1998 n. 51), reso di generale applicazione il potere in questione in ogni controversia in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, senza che abbia più alcun rilievo il valore della causa;

che, ad avviso del rimettente, la ragione giustificatrice della nuova norma va individuata nell’“interesse pubblico a che si formi una decisione giusta”, ma tale interesse è ravvisabile tanto nelle cause in cui la decisione è demandata al giudice monocratico, quanto in quelle in cui la decisione è riservata al giudice collegiale, sicché la diversità di disciplina fra il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e quello davanti al tribunale in composizione collegiale “configura una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni sostanziali identiche, posto che l’esigenza sottintesa dal potere officioso de quo è ravvisabile” sia nelle cause che debbono essere decise dal giudice monocratico sia in quelle che debbono essere decise dal collegio;

che il giudice a quo ravvisa, altresì, nella norma dell’art. 281 ter c.p.c. una violazione dell’art. 24 Cost., che garantisce il “diritto dalla prova”, il quale “non può farsi coincidere soltanto con il diritto della parte ad introdurre i fatti rilevanti nel processo e a provarli con i mezzi istruttori da essa proposti”, ma implica “il diritto della parte ad avvalersi di ogni mezzo di prova esperibile nel processo”, laddove nel procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, “la irragionevole limitazione del potere officioso del giudice in punto di prova testimoniale del terzo ex art. 281 ter, oltre a realizzare una disparità di trattamento censurabile per le ragioni in precedenza già indicate, si traduce anche in una violazione del diritto alla prova nella accezione proposta”.

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Considerato che il Tribunale di Grosseto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 281 ter c.p.c., in relazione agli art. 3 e 24 Cost., in quanto non applicabile nelle cause riservate alla cognizione del tribunale in composizione collegiale;

che la questione appare irrilevante, non essendo condivisibile l’assunto dal quale muove il rimettente circa l’utilizzabilità del potere officioso di cui all’art. 281 ter c.p.c. fino al momento della precisazione delle conclusioni;

che, al contrario, pur prevedendo la norma che il giudice abbia esclusivamente il potere di formalizzare in un capitolo di prova la fonte di prova (quanto ai fatti allegati e quanto ai testi) indicata, ma non formalizzata, dalla parte, tale potere si risolve pur sempre in un’eccezione al principio della disponibilità delle prove (art. 115, 1° comma, c.p.c.) svincolata, ormai, dalla natura bagattellare della causa, la quale eccezione, per giunta, si inserisce in un processo governato dal principio di preclusione;

che, conseguentemente, in nessun caso il potere officioso di cui all’art. 281 ter c.p.c. potrebbe — senza attribuire al giudice un arbitrario (più che discrezionale) potere di disporre, per lasciarle o non definitivamente maturare, delle decadenze istruttorie nelle quali una parte fosse incorsa — essere esercitato oltre i limiti della fase istruttoria, ferma l’applicabilità del disposto dell’art. 184, ultimo comma, c.p.c.;

che il rimettente dà esplicitamente atto dell’essersi, nel caso di specie, maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti e, quindi, dell’essersi maturata una situazione processuale in presenza della quale l’applicabilità dell’art. 281 ter c.p.c. vulnererebbe il principio di parità delle armi delle parti in causa, mai potendo il potere officioso del giudice risolversi in un mezzo per aggirare, in favore di una parte ed in danno dell’altra, gli effetti del maturarsi delle preclusioni;

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata, per la sua irrilevanza nel giudizio a quo, manifestamente inammissibile.

Visti gli art. 26, 2° comma, l. 11 marzo 1953 n. 87 e 9, 2° comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 281 ter c.p.c. sollevata, in relazione agli art. 3 e 24 Cost., dal Tribunale di Grosseto con l’ordinanza in epigrafe.

La questione di costituzionalità sollevata viene dichiarata inammissibile per difetto di

rilevanza, Nella vicenda in esame non si è in presenza di un’ipotesi di irrilevanza oggettiva,

riscontrabile quale che sia la prospettiva da cui la si esamini; bensì di un caso di irrilevanza che definirei soggettiva o variabile, la cui esistenza, cioè, dipende dalla soluzione che si dà al problema dei limiti temporali in cui possono essere esercitati i poteri di iniziativa probatoria ex art. 281 ter c.p.c.

Sicché il messaggio che proviene da palazzo della Consulta appare chiaro: se si vuole che venga esaminato il merito della vicenda di costituzionalità, la questione deve essere sollevata quando non siano ancora spirati i termini per le preclusioni probatorie, (evenienza che appare alquanto sporadica dato che di per sé l’art. 281 ter c.p.c., , non sembra destinato a frequenti applicazioni pratiche) anche se il giudice a quo dovesse per ventura ritenere che la scadenza di tali termini non rilevi ai fini dell’esercizio del potere istruttorio ufficioso.

. - A stare al decisum della Corte costituzionale, il primo problema che si pone è quello di accertare fino a quando il giudice possa esercitare il potere istruttorio conferitogli dall’art. 281 ter c.p.c.

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Partiamo dall’ipotesi più ricorrente nella pratica, quella, cioè, in cui le parti abbiano chiesto i termini ex art 183, ultimo comma, e, all’udienza successiva, quelli previsti dall’art. 184, 1° comma.

Orbene, in tal caso le preclusioni probatorie maturano con lo spirare di questi ultimi termini, sicché quando il giudice è chiamato a provvedere sulle richieste probatorie delle parti è evidente che, a seguire pedissequamente il dictum della Consulta, non potrebbe più esercitare il potere riconosciutogli dall’art. 281 ter c.p.c.

Quindi quel potere, se vuol ritenersi ritualmente speso, deve essere esercitato in precedenza.

Ma quando? Verrebbe da dire all’udienza fissata ai sensi dell’art. 183, ultimo comma, c.p.c. In tal caso, però, va osservato che l’esercizio del potere di iniziativa istruttoria è

decisivamente condizionato all’iniziativa delle parti, giacché se esse non fanno richiesta del termine ex art. 184 c.p.c. e chiedono l’ammissione dei mezzi istruttori già richiesti negli atti introduttivi , il potere in questione non sarebbe più esercitabile essendo le preclusioni istruttorie già maturate.

Sicché, posto che il giudice non sa se tale richiesta sarà avanzata, è opportuno che egli, prima ancora di concedere i termini ex art. 183, ultimo comma, valuti se sia il caso di avvalersi di quel potere.

Ne conseguirebbe che il giudice dovrebbe valutare tale possibilità non solo prima ancora di conoscere le richieste probatorie definitive delle parti (le quali potrebbero avvalersi della facoltà di chiedere i termini ex art. 184 c.p.c.), ma addirittura prima ancora che le parti abbiano esercitato lo ius variandi, alla cui attuazione è finalizzata la richiesta dei termini ex art. 183, ultimo comma, c.p.c.

- Il rilievo fatto alla pronuncia de qua ( Cea , nota citata ) è che non sembra che il giudice delle leggi abbia tenuto nella doverosa considerazione l’invito della dottrina a tener ben distinte, nell’ambito delle disposizioni miranti ad assicurare la concentrazione del processo, quelle rivolte precipuamente al giudice da quelle di cui sono destinatarie direttamente le parti.

Nella specie, aver affermato che il potere conferito al giudice dall’art. 281 ter non è esercitabile quando ormai sono maturate le preclusioni probatorie, significa dire, implicitamente ma inequivocabilmente, che la spendita di quel potere è condizionata dallo spirare di termini di cui sono direttamente destinatarie solo le parti.

Se invece, più correttamente, si limita l’indagine alle sole disposizioni che impongono al giudice di provvedere entro un certo termine (gli esempi solitamente fatti sono quelli di cui agli art. 186, 190 bis, 275, 321), ci si accorgerà che si è in presenza di norme spesso violate e comunque prive di sanzioni, almeno sul piano strettamente processuale .( l’esercizio dei poteri officiosi da parte del giudice è in taluni casi considerato incensurabile in sede di legittimità , v. la copiosa giurisprudenza a proposito dell’art.257 cpc)

Peraltro, sempre a voler essere fedeli al dato positivo, appare difficile non consentire con chi ritiene “che i poteri officiosi del giudice non possano subire l’incidenza restrittiva di preclusioni o decadenze, da cui invece sono normalmente colpiti i poteri delle parti a seconda delle fasi o dei momenti processuali, se non laddove la legge lo preveda espressamente in via eccezionale (cfr., ad es., gli art. 38, 1° comma, 40, 2° comma, e 289, 1° comma, c.p.c.)” .

Quest’ultima affermazione trova significativo riscontro proprio nel settore delle iniziative probatorie ufficiose, posto che non mi sembra che ci sia alcuno che dubiti della possibilità di ordinare l’ispezione ex art. 118 o di assumere le informazioni ex art. 213 quando siano già maturate le preclusioni probatorie; non senza dimenticare — che il problema non si pone neppure nelle ipotesi ex art. 240, 257, 1° comma, e 421, 2° comma, c.p.c.

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A tal proposito l’autore si sofferma ad esaminare la previsione dettata dall’art. 257, 1° comma, anche perché, come l’art. 281 ter, riguarda la possibilità di ammettere d’ufficio prove testimoniali.

Appaiono facilmente intuibili le differenze tra le due norme in questione. L’art. 281 ter si applica solo nei giudizi demandati al giudice in composizione monocratica e prevede che il giudice può ammettere la prova testimoniale, formulandone i capitoli, quando le parti nell’esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità. L’art. 257, 1° comma, invece, si applica in tutte le controversie soggette al rito ordinario (quale che sia la composizione del giudice) e presuppone che sia stata già espletata una prova testimoniale, giacché richiede che alcuno dei testi si sia riferito ad altre persone che conoscono i fatti.

Nonostante tali differenze, le due norme hanno molto in comune. Infatti, come emerge dalla lettera della legge, non è detto che la prova testimoniale ex

art. 257, 1° comma, debba essere ammessa sugli stessi capitoli sui cui è stato ascoltato il teste che abbia fatto riferimento ad altre persone.

Si pensi all’ipotesi in cui, mentre la prova abbia avuto ad oggetto fatti principali, il teste faccia riferimento ad un fatto secondario idoneo a provocare l’inferenza presuntiva che possa portare all’accertamento del fatto principale ancora incerto: ebbene, in tal caso non pare che ci siano limiti al potere del giudice di procedere ex art. 257, 1° comma.

Ma se così è, è evidente la possibilità di accomunare l’art. 281 ter e l’art. 257, 1° comma, c.p.c., giacché, pure in virtù di tale ultima norma, il giudice potrà ascoltare un teste diverso da quello proposto dalle parti anche su fatti a loro volta difformi da quelli sui quali è stata articolata e ammessa la prova.

Ed infine, sempre con riferimento ai poteri istruttori ufficiosi, si pensi al significato che assume l’art. 184, ultimo comma, c.p.c.

Che senso avrebbe questa previsione se il giudice, per la spendita dei suoi poteri ufficiosi ex art. 281 ter, fosse vincolato alle preclusioni probatorie previste per le parti? A meno che non si voglia affermare che l’art. 184, ultimo comma, è applicabile in tutti i casi di iniziative probatorie ufficiose diverse da quelle contemplate dall’art. 281 ter; in tal caso, però, ci si dovrebbe far carico di fornire una razionale spiegazione al perché ci siano casi in cui il potere del giudice di iniziativa istruttoria sia vincolato al rispetto delle preclusioni probatorie e casi in cui ciò non avvenga.

Secondo l’autore non è corretto confondere, nell’ambito delle disposizioni miranti ad assicurare la concentrazione del processo, quelle rivolte al giudice con quelle di cui sono destinatarie soltanto le parti. Ed ancora, con riferimento alle ipotesi di poteri ufficiosi conferiti al giudice, si è potuto accertare che essi non subiscono l’incidenza restrittiva di preclusioni o decadenze se non laddove la legge lo preveda espressamente. Ed infine, con riferimento precipuo al tema delle iniziative probatorie ufficiose, una rapida verifica d’ordine sistematico consente di accertare che il potere ufficioso del giudice non è soggetto alle preclusioni previste per le parti.

- Da tempo un’autorevole dottrina ha creduto di individuare il vero fondamento dei poteri istruttori ufficiosi nell’intento del legislatore di ridurre il rischio di una sentenza fondata sulla meccanica applicazione della regola di giudizio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) ; ed in effetti il catalogo normativo delle ipotesi di iniziative istruttorie ufficiose innanzi individuato rende tale affermazione pienamente plausibile.

In tale prospettiva è evidente che i poteri di iniziativa istruttoria officiosa assumono una funzione integrativa o complementare di quella delle parti, sicché, in quanto diretti a colmare le

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lacune dei risultati delle prove fornite dalle parti, inevitabilmente “presuppongono in qualche modo l’esaurimento dell’istruzione svolta all’insegna del principio dispositivo” .

Il vero problema, pertanto, non è tanto quello di assoggettare a preclusioni l’esercizio del potere ufficioso del giudice, giacché la ratio della previsione di tali poteri è tale da richiedere che il loro esercizio sia consentito (solo) quando ormai si sia esaurita l’istruttoria svolta all’insegna del principio dispositivo; quanto quello di evitare che la coesistenza di poteri del giudice non limitati e poteri delle parti fortemente circoscritti da un rigido sistema di preclusioni porti a conseguenze inaccettabili .

Conseguenze inaccettabili che così vengono individuate: a) superamento del divieto di scienza privata; b) violazione della disciplina sostanziale del rapporto dedotto in giudizio; c) aggiramento, a favore di una parte e in danno dell’altra, degli effetti del maturarsi delle preclusioni .

Ovviamente, il profilo più controverso in quanto strettamente connesso al tema trattato dalla pronuncia che si riporta, è quello indicato sub c).

Orbene il superamento di questo limite, diversamente da quanto opinato dal giudice delle leggi, non deriva dall’essere stato esercitato il potere officioso a preclusioni ormai maturate, quanto piuttosto dal fatto che la fonte di prova da utilizzare sia ricavata dal giudice da un atto che la parte non aveva più il potere di compiere (si pensi ad un’allegazione tardiva).

Peraltro, con l’obiettivo di circoscrivere meglio i poteri di iniziativa probatoria ufficiosa, si è ulteriormente precisato che, una volta esaurita l’istruttoria svolta all’insegna del principio dispositivo, in tanto legittimamente il giudice potrà spendere il suo potere ufficioso in quanto le prove già raccolte non consentano la ricostruzione del fatto rilevante, che invece continua a rimanere incerto, di tal che la definizione della causa avverrebbe con l’applicazione della regola formale di giudizio sancita dall’art. 2697 c.c. .

Come è facilmente intuibile, lo scenario delineato introduce un problema estremamente complesso e tuttora controverso: quello dei limiti al potere di allegazione dei fatti.

Secondo gli orientamenti prevalenti , l’allegazione dei fatti secondari e di quelli principali operanti ipso iure è consentita anche al di là delle preclusioni ex art. 183 e 184 c.p.c. sino alla precisazione delle conclusioni.

L’iniziativa probatoria ufficiosa ex art. 281 ter, sebbene attivata dopo il maturarsi delle preclusioni probatorie, non potrebbe considerarsi illegittima tutte le volte che si ricolleghi ad allegazioni ritualmente effettuate.

In altre parole, anche a voler dar credito alla tesi minoritaria restrittiva del potere di allegazione dei fatti, quel che è rilevante non è tanto il momento in cui il potere officioso venga esercitato, quanto piuttosto se lo stesso si fondi su fatti ritualmente o no acquisiti.

Detto questo, l’autore citati non ha dubbi nel ritenere consentita la spendita dei poteri istruttori ufficiosi a preclusioni istruttorie maturate per le parti.

Infatti, se la ratio di tali poteri va ricercata nell’intento di ridurre il rischio di decidere la controversia in base alla regola formale di giudizio ex art. 2697 c.c.; se l’esercizio di tali poteri è considerato legittimo soltanto quando, nonostante le prove raccolte, il fatto rilevante è ancora incerto; ebbene, se si conviene su tali presupposti, se si vogliono evitare inutili e pericolose sovrapposizioni tra poteri delle parti e poteri del giudice, non solo i poteri istruttori ufficiosi possono, ma addirittura devono essere esercitati solo quando si è esaurita l’istruttoria svolta all’insegna del principio dispositivo.

La correlazione tra regime di preclusioni e iniziative probatorie ufficiose non è nel senso indicato dalla pronuncia in epigrafe (vale a dire spendita dei poteri ufficiosi nei limiti delle preclusioni probatorie previste per le parti), ma proprio in senso opposto.

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Il propendere per un modello processuale tendenzialmente chiuso, quale è quello fondato su un regime di preclusioni (ed ovviamente, quanto più le preclusioni sono rigide, tanto più è accentuato il tasso di chiusura del processo: si pensi al rito del lavoro), rende più consistente il rischio di scarto tra verità effettiva e verità processuale e di decisione della controversia in forza di applicazione della regola di giudizio ex art. 2697 c.c.

Sicché, se la ricerca della verità effettiva, ancorché tendenziale, resta pur sempre un obiettivo cui mira il sistema, è evidente che proprio nei sistemi processuali chiusi si sente di più l’esigenza di affiancare ai poteri delle parti anche le iniziative probatorie del giudice. quale strumento teso a ridurre i rischi di applicazione della regola formale di giudizio ex art. 2697 c.c. e, conseguentemente, di scarto tra realtà effettiva e realtà processuale .

E mentre l’ordinanza della Consulta 14 marzo 2003 n.69/ 2003 pare comunque

indicare che tale potere istruttorio non sarebbe esercitabile una volta che siano già maturate le preclusioni istruttorie gli orientamenti delle giurisprudenza di merito in rassegna sul punto non appaiano affatto univoci :

TRIBUNALE DI FOGGIA; ordinanza, 04-11-1999 Il giudice può disporre d’ufficio la prova testimoniale, ai sensi dell’art. 281 ter c.p.c., sia

nel caso di persone cui le parti hanno fatto riferimento, ma non sono state indicate come testi, sia nel caso in cui la persona che appare conoscere la verità è stata indicata come testimone da una o entrambe le parti

Anche nel caso di ammissione d’ufficio della prova testimoniale valgono i limiti all’ammissibilità della stessa di cui al codice civile

L’ammissione d’ufficio della prova testimoniale deve inserirsi in un contesto temporale immediatamente conseguente alle richieste istruttorie delle parti

TRIBUNALE DI UDINE; sezione distaccata di Palmanova; ordinanza, 14-07-2003 Il potere d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c. non è esercitabile una volta che siano già

maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti (nella specie, l’attore, in sede di interrogatorio formale, si era riferito alla conoscenza dei fatti di causa che avrebbe avuto la sua segretaria).( La pronuncia pare condividere le preoccupazioni e le argomentazioni -arbitrarietà del potere giudiziale, aggiramento in favore di una parte ed in danno dell’altra degli effetti del maturarsi delle preclusioni, violazione del principio della parità delle parti in causa- che avevano ispirato Corte costituzionale. 69/2003)

TRIBUNALE DI CHIAVARI; ordinanza, 06-03-2001 La disposizione di cui all’art. 281 ter c.p.c. deve essere interpretata in senso

rigorosamente restrittivo e non può, pertanto, consentire alle parti di sollecitare il giudice ad introdurre nel processo fatti nuovi e diversi da quelli prospettati negli atti introduttivi (atto di citazione e comparsa di risposta), mediante l’indicazione, tra l’altro, di testimoni non menzionati in tali atti.

TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE; ordinanza, 02-07-2003

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Il potere istruttorio ufficioso ex art. 281 ter c.p.c., in quanto diretto ad integrare il materiale probatorio offerto dalle parti, è esercitabile solo quando siano già maturate le decadenze istruttorie a carico delle stesse.

TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA; sentenza, 13-01-2003 Il potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c. deve essere esercitato dal

giudice al fine di evitare, per quanto possibile, l’applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c

TRIBUNALE DI NAPOLI; ordinanza, 30-09-2002 Il potere istruttorio ufficioso ex art. 281 ter c.p.c. è esercitabile anche dopo il maturarsi

delle preclusioni ex art. 184 c.p.c., non per sostituire la parte inerte nella deduzione dei fatti principali, ma per rendere più specifica, completa e precisa la formulazione della prova articolata (nella specie, la prova testimoniale ufficiosa è stata ammessa su una circostanza indicata nell’atto di citazione, ma non inserita nei capitoli su cui è stata chiesta la prova)

TRIBUNALE DI BOLOGNA; sezione distaccata di Imola; sentenza, 03-05-2002 La prova testimoniale d’ufficio ex art. 281 ter c.p.c. non può essere ammessa con

riferimento a fatti allegati tardivamente dalle parti (nella specie, il giudice d’appello ha ritenuto illegittimo l’esercizio del potere istruttorio ufficioso da parte del giudice di pace diretto a provare l’esistenza di un fatto secondario riferito dal convenuto nel corso dell’interrogatorio formale ) la pronuncia si sofferma sui rapporti fra allegazione dei fatti e potere del giudice di disporre d’ufficio la prova testimoniale ai sensi dell’art. 281 ter c.p.c.),

Il potere istruttorio ufficioso ex art. 281 ter c.p.c. non è esercitabile per dimostrare l’esistenza di fatti idonei a contrastare la fondatezza della domanda tutte le volte che l’istruttoria svolta sia tale da comportare il rigetto della domanda.

Le pronunce si soffermano su taluni profili problematici posti dall’esercizio del potere

istruttorio d’ufficio attribuito dall’art. 281 ter c.p.c. al giudice unico di tribunale, in composizione monocratica, e soprattutto su quello relativo alla esercitabilità o meno di tale potere una volta che siano maturate le preclusioni istruttorie previste per le parti la Corte costituzionale che, con l’ordinanza 14 marzo 2003, n. 69 (Foro it., 2003, I, 1631, e Giur. it., 2003, 1330, , ha ritenuto “manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 281 ter c.p.c. nella parte in cui non si applica ai giudizi demandati al tribunale in composizione collegiale, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost.” in quanto “in nessun caso il potere officioso di cui all’art. 281 ter c.p.c. potrebbe — senza attribuire al giudice un arbitrario (più che discrezionale) potere di disporre, per lasciarle o non definitivamente maturare, delle decadenze istruttorie nelle quali una parte fosse incorsa — essere esercitato oltre i limiti della fase istruttoria” e nel caso di specie “il rimettente dà esplicitamente atto dell’essersi ... maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti e, quindi, dell’essersi maturata una situazione processuale in presenza della quale l’applicabilità dell’art. 281 ter c.p.c. vulnererebbe il principio di parità delle armi delle parti in causa, mai potendo il potere officioso del giudice risolversi in un mezzo per aggirare, in favore di una parte ed in danno dell’altra, gli effetti del maturarsi delle preclusioni”.

L’ordinanza del Tribunale di Foggia ( commentata da Fabiani in Foro Italiano 2000 , I

2093 con una nota le cui osservazioni qui si richiamano ) si segnala quale prima espressione – o quanto meno fra le prime – dell’esercizio da parte del giudice unico di tribunale, in composizione

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monocratica, del potere istruttorio d’ufficio attribuitogli dal d.leg. 51/98 con riferimento alla prova testimoniale . Tale decreto legislativo, recante “norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado”, ha previsto, infatti, fra le disposizioni relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica di cui all’art. 68 – e, più precisamente, con l’introduzione dell’art. 281 ter c.p.c. – che il giudice possa “disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità”, consentendo, al contempo, a tale previsione di trovare applicazione anche con riferimento ai procedimenti pendenti davanti al tribunale alla data di efficacia del d.leg. 51/98 con riferimento ai quali, come nel caso di specie, non siano già state precisate le conclusioni .

A tal fine, non può non partirsi dalla constatazione per cui la previsione di cui all’art. 281 ter c.p.c. non rappresenta una innovazione di carattere assoluto, essendosi il legislatore, in effetti, limitato a “richiamare”, nel dettare le “nuove” norme sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, una disposizione già presente nel nostro ordinamento, quale, in particolare, l’art. 312 c.p.c., il quale, in forza della modificazione di cui alla l. 374/91 – istitutiva del giudice di pace –, attribuiva il medesimo potere istruttorio d’ufficio al pretore ed al giudice di pace, in ciò, limitandosi, peraltro, a sua volta, a riprendere altra previsione già presente nel nostro ordinamento, rappresentata dall’art. 317 c.p.c. (nella versione antecedente alla l. 353/90) . Cosicché, trovandoci, dunque, di fronte ad una previsione normativa non “nuova in assoluto” ma che si limita a riprendere, con riferimento al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, una previsione già presente nel nostro ordinamento, anche se dettata con riferimento al procedimento davanti al pretore ed al giudice di pace (ed ancor prima al conciliatore), i possibili problemi applicativi che potranno insorgere con riferimento alla stessa possano distinguersi, in linea generale ed in estrema sintesi, in “vecchi” e “nuovi”, o meglio in:

a) problemi legati alla previsione normativa in quanto tale (e, cioè, al tenore letterale di cui alla stessa – rimasto invariato, salva la sostituzione dei termini “pretore” e “giudice di pace” con quello di “giudice” –);

b) problemi legati all’inserimento della stessa nel mutato contesto del giudice unico di cui al d.leg. 51/98.

Il primo gruppo di problemi sembra essere fondamentalmente rappresentato, sia pur nei suoi molteplici aspetti, dalla individuazione dei limiti di questo potere istruttorio d’ufficio.

A tal proposito, ed andando con ordine, un primo fondamentale limite è sicuramente rappresentato dal divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice , quale “limite esterno assolutamente invalicabile” desunto “dal combinato disposto del 1° e 2° comma dell’art. 115 c.p.c.” che non consente al giudice di ricercare autonomamente le fonti materiali di prova e/o fatti non acquisiti (legittimamente) al processo e che, secondo taluna dottrina, non dovrebbe incontrare un limite neanche nella notorietà del fatto .

Cosicché, chiaramente, in forza di tale divieto, il giudice non potrà mai esercitare il potere di cui all’art. 281 ter c.p.c. con riferimento a fatti e/o fonti di prova che non risultino già acquisiti al processo; l’impossibilità, cioè, per lo stesso, di acquisire autonomamente al processo fatti e/o fonti di prova, gli impedisce, inevitabilmente ed a maggior ragione, di farli oggetto della prova che possa disporre d’ufficio.

Del resto, occorre tenere presente come ci si trovi, pur sempre, di fronte ad un potere attinente alla prova del fatto e non (anche) alla sua allegazione, destinato, in quanto tale, ad incidere sull’onere della prova e non (anche) sull’onere di allegazione .

. Ulteriori limiti derivano dalla stessa lettera della norma, la quale, a differenza dell’art. 421 c.p.c. di cui al rito del lavoro, non prevede il potere del giudice di disporre d’ufficio “in qualsiasi momento” l’ammissione di “ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice

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civile” (ad eccezione del giuramento decisorio), bensì esclusivamente la “prova testimoniale” ove “le parti” nella “esposizione dei fatti” si siano “riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità”.

Per cui, chiaramente: 1) il giudice può disporre d’ufficio la sola prova testimoniale (e non “ogni mezzo di

prova” come per il rito del lavoro); 2) può farlo solo ove siano state le parti ad essersi riferite, nella esposizione dei fatti, a

persone in grado di conoscere la verità, non essendo, dunque, sufficiente – a differenza, anche qui, del rito del lavoro – che ciò sia ricavabile dall’intero materiale di causa legittimamente acquisito ; pur dovendosi, a tal proposito, sottolineare come: conformemente a quanto ritenuto da taluna dottrina, non è necessario che questo “riferimento” emerga da atti scritti potendo anche emergere da dichiarazioni orali , ed in particolare da quanto affermato dalle parti in sede di interrogatorio libero rimane pur sempre salva, in un’ottica tendente a guardare più in generale ai poteri istruttori d’ufficio spettanti al giudicante, la previsione di cui all’art. 257 c.p.c. in forza della quale il “riferimento” ad altre persone a conoscenza dei fatti di causa può provenire (anche) da “alcuno dei testimoni”;

- la prova va, comunque, dedotta per capitoli – cui fa espressamente riferimento la norma –, per cui, in sostanza, con le modalità di cui all’art. 244 c.p.c., pur essendosi sottolineato, in dottrina, come alla intimazione dei testimoni debba provvedere, comunque, la parte ai sensi dell’art. 104 disp. att. c.p.c. e non l’organo giudiziario ;

permangono, come, del resto, sottolineato anche dalla pronuncia in epigrafe, i limiti c.d. sostanziali di ammissibilità della prova testimoniale di cui al codice civile ; anche in ciò è di aiuto la differente formulazione della norma in esame rispetto all’art. 421 c.p.c.

Ma qual è la ratio sottesa a tale potere ed al recente intervento legislativo in materia.? A tal proposito, pur dovendosi preliminarmente dare atto di come la dottrina e la

giurisprudenza prevalenti abbiano sempre sottolineato il carattere “discrezionale” di tale potere ( vedi però il diverso avviso espresso dalla citata SSU 11353 del 17 giugno 2004 per i poteri istruttori del giudice del lavoro ) ritenendo, in particolare, che il suo mancato esercizio non possa formare oggetto di gravame e che lo stesso non sia suscettibile di sindacato in sede di legittimità l’estensione, da parte del legislatore, di una previsione normativa quale quella in esame al processo ordinario davanti al tribunale (in composizione monocratica) induce a riflettere sulle considerazioni svolte, a suo tempo, da taluna dottrina in ordine alla “miscela pericolosa” rappresentata dalla “coesistenza tra poteri del giudice non limitati e poteri delle parti fortemente circoscritti da un sistema di preclusioni rigide” ( Fabbrini) . Per quanto, infatti, la novella del novanta non abbia inciso sul rito ordinario, in termini di preclusioni, in modo così incisivo come era avvenuto per il rito del lavoro, sicuramente ha apportato in parte qua rilevanti modifiche rispetto al rito previgente.

La dottrina , tende a ravvisare un “metro per l’esercizio del potere del giudice”, tanto in positivo quanto in negativo, nella esigenza di “evitare, per quanto possibile, l’applicazione dell’art. 2697 c.c.” , ossia di decidere la causa ricorrendo alla regola formale di giudizio di cui alla norma appena citata ; cosicché: “tutte le volte che le prove raccolte consentono la ricostruzione del fatto rilevante, i poteri istruttori – compresi quelli affidati all’iniziativa del giudice – devono considerarsi estinti e non ulteriormente esercitabili”, mentre “tutte le volte, invece, che il fatto da provare è rimasto incerto, il giudice, se ha poteri probatori legittimamente spendibili, non può arrivare all’applicazione dell’art. 2697 prima di avere speso i poteri che ha” .

Tale impostazione, secondo detta dottrina dovrebbe trovare una sua logica anche alla stregua dei più recenti interventi legislativi in materia.

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Il legislatore, infatti, con la novella del novanta ha chiaramente inteso uniformare il rito ordinario ad un sistema di preclusioni più rigido rispetto a quello previgente, in tal modo, inevitabilmente, accrescendo il rischio di decisioni fondate proprio sul ricorso alla regola formale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. , per cui, ben possono ricostruirsi, in quest’ottica, come “correttivi” a questo rischio, gli interventi diretti ad attribuire al giudice poteri istruttori d’ufficio: quello “originario” relativo al giudizio d’appello, attraverso la modificazione dell’art. 345 c.p.c., che ha ripreso il concetto di “indispensabilità” della prova di cui al rito del lavoro (art. 437 c.p.c.) quello più recente, qui in esame, relativo al giudizio di primo grado, che ha attribuito al giudice monocratico di tribunale il potere di disporre d’ufficio la prova testimoniale (nei limiti di cui sopra). Avendosi, per l’effetto, dunque, più in generale, un “correttivo”, per così dire, “crescente”, consentendosi di evitare il ricorso alla regola formale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.: in primo grado, solo ricorrendo alla prova testimoniale disposta d’ufficio; in appello, anche attraverso il ricorso ad altri mezzi di prova indicati dalle parti .

Tale ricostruzione, nell’individuare un “metro di esercizio” del potere in esame, evita che lo stesso sia rimesso alla totale discrezione del giudice, oltre a consentire di risolvere il profilo direi più discusso con riferimento a tale potere, ossia quello del suo limite temporale

. Il problema del limite temporale del potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c., e, cioè, della individuazione del momento ultimo fino al quale lo stesso possa essere esercitato, si traduce, in estrema sintesi, in un duplice quesito, ossia se tale potere:

1) sia soggetto ai medesimi limiti temporali previsti per le parti; 2) possa essere esercitato anche con riferimento a prove testimoniali rispetto alle quali

la parte sia decaduta: distinguendo, a tal proposito, l’ipotesi in cui la decadenza si sia verificata in forza della previsione di cui all’art. 184 c.p.c. da quella in cui si sia verificata, invece, in forza della previsione di cui all’art. 208 c.p.c.

Sul punto non sussisteva uniformità di vedute con riferimento al previgente art. 312 c.p.c. e, stando ai primi interventi in materia, non sussiste neanche con riferimento al “nuovo” art. 281 ter, pur essendosi sottolineato, in entrambi i casi, a prescindere dalla posizione sostenuta, come trovi, comunque, applicazione il disposto di cui all’art. 184, ultimo comma, in forza del quale “nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi” .

Con riferimento al previgente art. 312 c.p.c., infatti: parte della dottrina era giunta a ritenere che il potere in esame non fosse soggetto ai medesimi limiti temporali previsti per le parti e non trovasse neanche un limite nella decadenza di cui all’art. 184 c.p.c. ; altra dottrina aveva sostenuto, invece, la soluzione diametralmente opposta ; altra dottrina, ancora, infine, pur sottolineando “l’assenza di qualsiasi limite temporale” all’esercizio del potere in esame , aveva ritenuto che lo stesso non potesse “essere certo disposto in funzione surrogatoria o correttiva di quella dedotta dalle parti ed ammessa dal giudice per la quale, ad esempio, sia stata pronunciata la decadenza” .

Con riferimento al “nuovo” art. 281 ter c.p.c., nei primi interventi, se un autore, pur sottolineando come l’ammissione d’ufficio “non può essere usata per ‘sanare’ eventuali decadenze in cui siano incorse le parti”, ha ritenuto che “tale facoltà discrezionale non influisce sulle regole dell’assunzione e delle decadenze ed è esercitabile senza limiti temporali, anche (e soprattutto) dopo il passaggio in decisione della causa” , altri autori, invece, sono giunti a ritenere “che, in difetto di ogni indicazione normativa, questo potere non potrà essere esercitato oltre i limiti della fase istruttoria, che valgono per il giudice come per le parti” .

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Quest’ultima impostazione, tendente ad assoggettare anche il potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c. alle preclusioni istruttorie previste per le parti, non convince alcuni autori ( Fabiani) che osservano che all’opposta conclusione conduce:

a) anzitutto, la ricostruzione di tale potere – più sopra sostenuta – non quale potere meramente discrezionale ma quale potere-dovere da esercitarsi, ad opera del giudice, ogni qual volta, al fine di decidere la controversia, dovrebbe ricorrere alla regola formale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., in tale ottica, infatti, tale valutazione trova la sua più idonea collocazione proprio dopo che le preclusioni in capo alle parti sono ormai maturate;

b) in secondo luogo, la lettera della previsione normativa di cui all’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c. – cui va ricollegata la previsione di cui all’art. 281 ter c.p.c. –, la quale, in tanto sembra avere senso, o meglio, una reale portata precettiva, in quanto si riferisca ad un momento temporale in cui le parti non potrebbero più dedurre determinati mezzi di prova.

Senza che ciò possa compromettere l’imparzialità del giudice - che risulta, invece, sicuramente rafforzata dall’impostazione qui sostenuta, tendente ad escludere il carattere meramente discrezionale del potere in esame – ed il principio del contraddittorio, sussistendo, a quest’ultimo proposito, per l’appunto, la previsione di cui all’art. 184, ultimo comma, in forza della quale “nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi”.

Ulteriore problema applicativo nasce dal riparto “interno” fra giudice monocratico e collegiale , problema che nel sistema introdotto dalla novella del 90 era affrontato solo al momento della decisione, non sussistendo sino a quel momento diversità di rito applicabile, ciò non è più possibile nel sistema delineato dal d.leg. 51/98, il quale, nel diversificare il rito applicabile davanti al tribunale in composizione monocratica, riprendendo, con riferimento a quest’ultimo, alcune delle caratteristiche proprie del “vecchio” processo dinanzi al pretore (art. 68 che introduce gli art. 281 bis ss. c.p.c.), impone che la suddetta verifica avvenga ben prima della decisione .

Ciò posto, il reale problema che si pone, , è rappresentato dalla individuazione delle conseguenze, o meglio della sanzione, per l’ipotesi in cui il potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c. sia stato esercitato sulla base dell’erronea “delibazione” in limine litis della questione relativa al riparto “interno” fra giudice monocratico e collegiale. ; in altri termini, ci si chiede cosa succeda ove, dopo che tale potere istruttorio d’ufficio sia stato esercitato (evidentemente nel presupposto che l’esito della “delibazione” sia stato nel senso che la causa andava trattata e decisa dal tribunale in composizione monocratica), ove successivamente, in primo grado o in appello, si rilevi, invece, che la causa deve (nel primo caso) o doveva (nel secondo caso) essere decisa dal tribunale in composizione collegiale; può tenersi comunque conto, ai fini della decisione, delle prove raccolte? ( dato che l’applicazione dell’art. 281 ter c.p.c., nelle cause riservate al giudice monocratico, presenti aspetti fortemente pubblicistici, si sottolinea tuttavia da più parti la “notevole incongruenza” fra le materie riservate al giudice monocratico e quelle riservate al giudice collegiale, “nelle quali il carattere pubblicistico è evidenziato dalla partecipazione necessaria al giudizio del p.m. e che, essendo sottratte al rito ex pretorio, sfuggono al potere di iniziativa del giudice, come accentuato dall’art. 281 ter c.p.c.”, sia perché le controversie demandate al giudice in composizione monocratica non possono essere considerate cause bagattellari, sia perché in quelle demandate al giudice in composizione collegiale sono individuabili situazioni sostanziali caratterizzate da marcati profili di indisponibilità).

Si ritiene che, in tal caso, il tribunale in composizione collegiale o il giudice d’appello –

rispettivamente nel primo e nel secondo caso – “dovrà depurare il processo delle prove acquisite d’ufficio

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sulla base di un potere non previs to dalla legge” . Così PROTO PISANI, Giudice unico togato di primo grado e tentativi della giustizia civile di uscita dal tunnel, in Foro it., 1998, V, 341 ss., spec. 345 s.; ma v. anche OLIVIERI, Il giudice unico di primo grado nel processo civile (tribunale monocratico e collegiale sede principale e sezioni distaccate), in Giust. civ., 1998, II, 463 ss., spec. 474, il quale, dopo avere sottolineato come, a differenza di quanto accadeva dopo la riforma del 1990, “ora la diversità di composizione fra tribunale monocratico e tribunale collegiale comporta una diversità di rito, particolarmente significativa in ordine ai poteri istruttori del giudice, giacché soltanto nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica il giudice istruttore può d’ufficio disporre la prova testimoniale”, ritiene che “qualora il collegio si trovi investito della decisione di una causa in virtù dell’art. 281 octies c.p.c., e perciò a seguito di un ripensamento del giudice istruttore, non potrà – in necessaria applicazione analogica dell’art. 427, 2° comma, c.p.c. – tener conto dell’eventuale prova testimoniale disposta d’ufficio dal giudice istruttore”. Contra, invece, CAPONI, Il processo civile dopo l’istituzione del giudice unico di primo grado, in CAPONI-GENOVESE-GIARDA-SPANGHER, La riforma del giudice unico, Milano, 1999, 34 ss., spec. 45 s., il quale, muovendo dal presupposto per cui le nullità derivanti dall’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale – e più precisamente dell’art. 50 quater c.p.c. – non sono rilevabili (anche) d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio di primo grado, ma, piuttosto, sanabili e rilevabili solo ad istanza di parte fino all’ingresso della causa in fase decisoria, giunge a ritenere che la nullità derivante dall’erroneo esercizio del potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c., in una causa devoluta alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, “ha rilevanza solo se il vizio è stato tempestivamente eccepito ex art. 157, 2° comma, c.p.c., altrimenti si sana, cosicché il collegio può tener conto anche delle prove raccolte ex art. 281 ter c.p.c.”; aggiungendo, altresì, con riferimento all’ipotesi in cui il collegio tenga conto, nonostante la tempestiva eccezione di nullità, delle prove raccolte, che il rilievo della nullità “in sede di impugnazione risulta condizionato all’esplicito inserimento tra i motivi d’appello”.

Altri possibili problemi applicativi con riferimento al “nuovo” art. 281 ter c.p.c. potrebbero porsi con riferimento all’ambito di applicazione di tale previsione normativa, o meglio avuto riguardo all’individuazione del giudice al quale il legislatore abbia voluto attribuire tale potere istruttorio d’ufficio. Premesso, infatti, che tale potere è stato sicuramente attribuito al giudice monocratico di tribunale e non anche al tribunale in composizione collegiale qualche dubbio pare possa insorgere in ordine all’attribuzione dello stesso anche:

a) al giudice onorario aggregato di tribunale (c.d. g.o.a. di cui alle sezioni stralcio): posto che l’art. 135 d.leg. 51/98 – più sopra riportato – nel prevedere che i “procedimenti pendenti davanti al tribunale alla data di efficacia del presente decreto legislativo sono definiti . . . sulla base delle disposizioni introdotte dal presente decreto” – fra le quali vi è, per l’appunto, l’art. 281 ter –, non opera distinzioni di sorta fra gli stessi (limitandosi ad escludere i giudizi d’appello ed i giudizi con riferimento ai quali, alla data di efficacia del decreto, siano già state precisate le conclusioni o che siano stati, comunque, trattenuti in decisione, per i quali prevede l’applicazione delle disposizioni anteriormente vigenti), ponendo, dunque, il problema di stabilire, in via interpretativa, se la norma in esame – e più in generale quelle regolanti il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica – debba trovare applicazione anche con riferimento alle cause di “vecchio” rito devolute alle sezioni stralcio in relazione alle quali non fossero già state precisate le conclusioni o che non fossero state, comunque, trattenute in decisione alla data di efficacia del d.leg. 51/98 ;

b) al giudice di pace: posto che è venuta meno la previsione espressa di cui al previgente art. 312 c.p.c. e che, dunque, la soluzione positiva potrebbe essere argomentata solo ricorrendo alla previsione più generale di cui all’art. 311 c.p.c., il quale, nella versione di cui al d.leg. 51/98, testualmente prevede che “il procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in quanto applicabili” (norme fra le quali vi è, per l’appunto – anche – l’art. 281 ter, in ordine al quale si tratta, dunque, di stabilire se lo stesso sia o meno “applicabile” al procedimento davanti al giudice di pace).

Quest’ultimo problema pare di più agevole soluzione, dovendosi ritenere che il legislatore abbia eliminato la previsione espressa solo in quanto ultronea – e non al fine di far

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venire meno il potere ivi previsto –, stante il disposto dell’attuale art. 311 c.p.c., che già consente di arrivare all’attribuzione del potere (pur in assenza di previsione espressa),.

Alla luce del quadro più sopra delineato, che il legislatore, con l’intervento in esame, non abbia “inteso prendere una decisa posizione sulla sostanza e sulla misura dei poteri del giudice nel processo ordinario”.

A tale conclusione, infatti, sembra condurre, oltre la delimitazione – sia in termini quantitativi che qualitativi – più sopra condotta del potere di cui all’art. 281 ter c.p.c., anche alla luce di un raffronto con il potere di cui all’art. 421 c.p.c. , la ricostruzione dello stesso non quale mero potere discrezionale ma quale potere-dovere il cui “metro di esercizio” è rappresentato dall’esigenza di evitare il ricorso alla regola formale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.

In tale ottica, infatti, deve, ritenersi che l’intento del legislatore sia stato solo quello di introdurre un “correttivo” all’aumento del ricorso a tale regola formale di giudizio (con conseguente divaricazione tra fatto esistente e fatto accertato) prodotto dalla introduzione, ad opera della novella del novanta, di un sistema di preclusioni rigide con riferimento al rito ordinario. Cosicché, a ben vedere, anche la compressione del principio della disponibilità della prova in tal modo realizzata è più limitata e circoscritta di quanto potrebbe apparire a prima vista.

Del resto, se il legislatore avesse realmente voluto “prendere una decisa posizione sulla sostanza e sulla misura dei poteri del giudice nel processo ordinario”, non si sarebbe limitato a riproporre, con riferimento al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, il previgente art. 312 (ex 317) c.p.c. ma avrebbe anche “ripescato” il vecchio art. 316 c.p.c. ossia una norma che, nell’attribuire al pretore il potere di indicare alle parti in ogni momento anche le “lacune che ravvisa nell’istruzione”, pur lasciando in capo a queste ultime l’onere di colmare tali lacune, consentiva al giudice, quanto meno potenzialmente – alla stregua, cioè, del suo tenore letterale –, di incidere sull’andamento del processo .

La breve rassegna delle pronunce di merito anzi elencate appare sintomatica dei contrasti interpretativi sul punto :

La pronuncia del Trib. di Udine si limita sostanzialmente a prendere atto di quanto ritenuto dalla Corte costituzionale e, conformemente a tale impostazione, ritiene dunque non sussistenti nella specie i presupposti per l’esercizio del potere d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c., non essendo questo esercitabile una volta che siano maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti (ormai maturate).

La pronuncia del Trib. Nocera Inferiore, invece, espressamente “disattende l’interpretazione dell’art. 281 ter c.p.c. fornita da Corte cost. 14 marzo 2003, n. 69”; ritenendo peraltro opportuno riagganciarsi, non all’interpretazione propugnata da una delle prime pronunce di merito intervenute in materia (ossia Trib. Foggia 4 novembre 1999, secondo cui “l’ammissione d’ufficio della prova testimoniale deve inserirsi in un contesto temporale immediatamente conseguente alle richieste istruttorie delle parti”), in quanto inidonea ad addivenire “ad un sufficiente grado di certezza operativa circa il dies ad quem”, ma “all’interpretazione offerta dalla Cassazione in ordine al potere di disporre d’ufficio la prova per testi, concesso al pretore o al conciliatore dal previgente art. 317 c.p.c.” secondo cui “la facoltà discrezionale del pretore ex art. 317 c.p.c. di disporre d’ufficio la prova testimoniale con formulazione dei relativi capi — anche in relazione a circostanze già dedotte in comparsa dalla parte —” può “esercitarsi senza limiti temporali, e addirittura pure dopo il passaggio in decisione della causa mediante remissione della causa sul ruolo”, per cui “l’unico limite di ammissibilità al riguardo sarebbe costituito dal richiamo a circostanze idonee a colmare la lacunosità dell’istruttoria espletata e dal riferimento a persone che appaiono in grado di conoscere la verità”.

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“ Del resto, il potere officioso offerto dall’art. 281 ter c.p.c., in quanto integrativo del materiale probatorio fornito dalle parti, è per sua essenza esercitabile sol quando siano già maturate le decadenze istruttorie a carico delle stesse; e, ovviamente, una soluzione che decidesse di contenere temporalmente l’ambito di esercitabilità giudiziale del potere ex art. 281 ter c.p.c. entro “la fase istruttoria” dovrebbe valere ad un tempo per tutti gli altri mezzi di prova disponibili d’ufficio: l’ordine di ispezione ex art. 118 c.p.c., l’ordine di esibizione di scritture contabili ex art. 2711 c.c., l’assunzione di nuovi testimoni e la rinnovazione dell’esame ex art. 257 c.p.c., il potere di disporre il giuramento suppletorio ed estimatorio ex art. 2736 c.c., i poteri istruttori del giudice del lavoro ex art. 421 e 437 c.p.c. Mentre ancora una volta la Suprema corte sostiene che i poteri del giudice di disporre d’ufficio i mezzi di prova che il codice gli riserva non conoscono preclusioni e, anzi, presuppongono proprio il previo espletamento delle prove tempestivamente dedotte dalle parti (Cass. 25 novembre 2002, n. 16571, id., 2003, I, 466). ”

La pronuncia del Trib. Reggio Emilia, nel ritenere che “il potere istruttorio d’ufficio di

cui all’art. 281 ter c.p.c. deve essere esercitato dal giudice al fine di evitare, per quanto possibile, l’applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.”, sembra seguire in pieno la strada indicata da quella dottrina che ha ritenuto sia proprio questo il metro di esercizio del potere istruttorio d’ufficio in esame . “. Occorre premettere che, secondo autorevole dottrina, il potere di ufficio del giudice deve essere esercitato per evitare, per quanto possibile, l’applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.; in altri termini la situazione che consente l’intervento di ufficio del giudice è quella della semiplena probatio che, non a caso, consente di deferire ex officio il giuramento suppletorio ”

Tale pronuncia ritiene, nella sostanza, conformemente a tale impostazione, che: — si tratti di potere del giudice non soggetto alle preclusioni istruttorie previste per le

parti; — il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa delle parti sia assicurato dall’art.

184, 3° comma, c.p.c. in forza del quale “nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi”.

È quanto si ricava, in particolare, dalla lettura dello ‘svolgimento del processo’ (esercizio del potere istruttorio d’ufficio in esame dopo che erano già state assunte le prove orali richieste dalle parti ed assegnazione alle stesse dei termini di cui al citato art. 184, 3° comma, c.p.c.).

La pronuncia del Trib. Napoli ritiene “non .. convincente l’orientamento secondo cui il

potere officioso del giudice ex art. 281 ter c.p.c. dovrebbe essere esercitato entro il limite previsto per le stesse parti per articolare le proprie richieste istruttorie”, in quanto “la norma, così come i vecchi art. 312 e 317 c.p.c., non individua limiti temporali ... e non pare logico rinvenire tali limiti nel sistema, in quanto così ragionando sarebbe sminuita oltre misura la stessa funzione integrativa dei poteri istruttori del giudice e si renderebbe di fatto inapplicabile la novità dell’art. 281 ter c.p.c., contro la stessa volontà del legislatore di estendere la portata della disposizione a tutti i giudizi pendenti davanti al tribunale in composizione monocratica”.

Ponendo al contempo in rilievo come, nemmeno si può paventare il rischio di una incoerente contraddizione col principio generale dell’onere probatorio, poiché tale obiezione sembra facilmente superabile nel senso che l’integrazione officiosa è consentita non per sostituire la parte, inerte nella deduzione dei fatti principali, ma per rendere più specifica, completa e

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precisa la formulazione della prova articolata, altrimenti inidonea a conseguire il risultato voluto dalla parte ” ;

La pronuncia del Trib. Bologna pone, infine, l’accento sui “rapporti” fra allegazione

dei fatti ad opera delle parti (limiti temporali) ed esercizio da parte del giudice del potere attribuitogli dall’art. 281 ter c.p.c., affermando la possibilità di ammettere la prova testimoniale d’ufficio di cui a tale norma solo sui fatti allegati dalle parti “entro i termini stabiliti per le allegazioni dei fatti di causa (art. 163, 167, 183 c.p.c., nonché, quanto al procedimento davanti al giudice di pace, art. 320 c.p.c.), ossia non oltre il maturare delle preclusioni di merito, o, al più, con le deduzioni istruttorie ex art. 184, 1° comma, c.p.c.”.

“ Si tratta dunque di verificare, preliminarmente, la ritualità o meno dell’esercizio

del potere officioso da parte del giudice, e ciò con riferimento all’art. 281 ter c.p.c. introdotto nel codice di procedura civile a decorrere dal 2 giugno 1999 (l’art. 312 c.p.c., di contenuto sostanzialmente analogo, è stato abrogato dalla riforma del giudice unico), applicabile al procedimento davanti al giudice di pace in virtù del rinvio disposto dall’art. 311 c.p.c.

Uno dei termini più dibattuti riguarda l’esistenza o meno di un limite temporale entro cui esercitare il potere officioso previsto dall’art. 281 ter c.p.c.; si discute inoltre dei criteri per il controllo sull’esercizio del potere discrezionale de quo.

Nel caso di specie, è pacifico che il giudice di primo grado ha disposto d’ufficio la prova per testi quando erano già maturate le preclusioni istruttorie: infatti era stata esaurita l’assunzione delle prove tempestivamente proposte (dal solo attore).

Ciò premesso, il potere previsto dall’art. 281 ter c.p.c. non risulta essere stato ritualmente esercitato, considerato che:

a) da un lato, vi è contraddizione tra l’affermata insufficienza del risultato delle prove proposte dall’attore e l’ammissione d’ufficio dei testi a controprova su cap. dell’atto di citazione: l’applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. avrebbe dovuto portare il primo giudice al rigetto della domanda senza necessità di assumere testi a prova contraria su fatti che lo stesso giudice riteneva non dimostrati;

b) dall’altro, la prova testimoniale è stata disposta su un fatto tardivamente allegato dalla convenuta. L’art. 281 ter c.p.c., nel quale manca l’inciso “in qualsiasi momento” di cui all’art. 421, cpv., c.p.c. (concernente però l’esercizio del potere spettante al giudice, e non tanto l’attività assertiva della parte), consente al giudice di disporre d’ufficio la prova per testi “quando” le parti “nell’esposizione dei fatti” si sono riferite a persone in grado di conoscere la verità. La norma non precisa entro quale momento il giudice può esercitare il potere istruttorio, e neanche entro quale momento ad opera delle parti può avvenire, con effetti utili ai fini della deduzione officiosa della prova, il c.d. riferimento alle persone informate sui fatti (“quando nell’esposizione dei fatti”). Ai fini della presente decisione assume rilevanza la seconda questione, alla quale può darsi risposta in base ad un argomento sistematico e ad uno letterale.

L’art. 281 ter c.p.c., di generale applicazione davanti al giudice monocratico, si inserisce in un sistema ispirato al principio di preclusione: alla luce del regime graduato di preclusioni introdotto dalla novella del 1990, è ragionevole ritenere che il “riferimento” previsto dalla norma in esame possa essere fatto dalle parti entro i termini stabiliti per le allegazioni dei fatti di causa (art. 163, 167, 183 c.p.c., nonché, quanto al procedimento davanti al giudice di pace, art. 320 c.p.c.), ossia non oltre il maturare delle preclusioni di merito, o, al più, con le deduzioni istruttorie ex art. 184, 1° comma, c.p.c. (in via di obiter dictum si è affermato che “l’ammissione di ufficio della prova testimoniale, se non si vuole stravolgere il sistema di preclusioni previsto dall’art. 184 c.p.c., deve inserirsi in un contesto

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temporale immediatamente conseguente alle richieste istruttorie delle parti”: così Trib. Foggia, ord. 4 novembre 1999, Foro it., 2000, I, 2093, che aveva disposto d’ufficio l’esame come teste di una persona più volte menzionata da entrambe le parti e indicato dal convenuto come teste ma su altre circostanze, diverse da quelle poi capitolate dal giudice). Ciò potrà avvenire in occasione dell’interrogatorio libero, ma non durante l’assunzione delle prove ammesse e più precisamente in sede di interrogatorio formale, finalizzato alla confessione (v. il diverso caso previsto dall’art. 257 c.c.).

Sul piano dell’interpretazione letterale, si osserva che l’“esposizione dei fatti” (formula impiegata anche dall’art. 281 ter c.p.c.) ad opera dell’attore deve essere contenuta, a pena di nullità, nella citazione (art. 163, 3° comma, n. 4, e art. 164, 4° comma, c.p.c.); che il convenuto ha l’onere di svolgere le proprie difese, prendendo posizione sui fatti affermati dall’attore, nella comparsa di risposta (art. 167 c.p.c.); che la definizione del thema decidendum e del thema probandum avviene all’udienza di trattazione, o nell’eventuale appendice scritta, sulla base dei fatti allegati dalle parti (art. 183 e 320 c.p.c.).

Al contrario, nel caso di specie la difesa della convenuta si era tradotta nella semplice contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda, tant’è che nella comparsa di costituzione non v’è alcun cenno a fatti impeditivi, modificativi o estintivi, e che la convenuta, neppure comparsa a rendere l’interrogatorio libero, aveva omesso di formulare istanze istruttorie. Soltanto nel corso dell’interrogatorio formale (e non libero, , ossia nella fase dell’istruzione probatoria in senso stretto, la convenuta ha affermato che nel giorno e nell’ora indicati dall’attore essa si trovava (non nel cortile del condominio di via T., ma) a casa propria, in compagnia di amici, ospiti a pranzo.

Dunque, la prova testimoniale è stata disposta d’ufficio su un fatto tardivamente allegato, narrato dalla convenuta solo durante l’interrogatorio formale, oltretutto in assenza di una pur minima iniziativa istruttoria ad opera della convenuta stessa.

L’esercizio del potere istruttorio ufficioso in ordine a fatti allegati oltre il limite temporale come sopra ricostruito, con riferimento al maturare delle preclusioni di merito, non consente di valutare ai fini della decisione le testimonianze disposte d’ufficio.

Peraltro, anche sotto il profilo sub a) non pare sussistessero i presupposti per l’applicazione dell’art. 281 ter c.p.c., se è vero, come osservato in dottrina, che la ratio della norma è quella di attenuare (ma non superare) il principio di disponibilità della prova e di mitigare il rigore conseguente alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. A quanto si desume dagli atti di causa, ossia dalla motivazione dell’ordinanza (riletta anche alla luce della seentenza), il primo giudice ha ritenuto di disporre d’ufficio la prova sull’alibi offerto dalla convenuta perché egli riteneva che le deposizioni dei testi G. e B. contenessero “affermazioni e risposte non convincenti e, comunque, non probatorie in relazione a quanto asserito da parte attrice” (il dubbio del giudicante riguardasse la datazione del fatto, descritto invero in maniera del tutto coerente dai testi indotti dall’attore, lo si ricava dalla motivazione dell’ordinanza 15 dicembre 1999, tutta imperniata sulla ritenuta necessità di assumere testi in ordine a giorno ed ora dei fatti attribuiti alla convenuta. Ma se il dubbio sul valore probatorio da assegnare alle deposizioni G. e B. derivava dall’incertezza dei testi circa la data del fatto, al giudicante si presentavano due alternative: il rigetto della domanda (art. 2697 c.c.) o un’integrazione istruttoria volta a colmare quelle lacune e vincere il dubbio. L’ammissione ufficiosa di testi a prova contraria, invece, non appare coerente con questa prospettiva. Tant’è vero che il primo giudice ha respinto la domanda dell’attore pur ritenendo non credibili le deposizioni dei testi assunti d’ufficio a dimostrazione dell’alibi offerto dalla convenuta: il che equivale a dire che secondo l’iter logico-giuridico seguìto dal giudicante non vi erano ragioni per attivare i poteri istruttori d’ufficio.

Secondo la valutazione delle risultanze istruttorie di seguito illustrata non vi era invece necessità di attivare il potere di cui all’art. 281 ter c.p.c. perché le prove raccolte su istanza dell’attore consentono di ricostruire il fatto posto a fondamento della domanda.”

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La stessa decisione non prende invece espressamente posizione sull’altro problema di cui si occupano le altre pronunce in epigrafe, ossia quello relativo alla “esistenza o meno di un limite temporale entro cui esercitare il potere officioso previsto dall’art. 281 ter c.p.c.”, pur ponendo in rilievo il legame esistente fra i presupposti per l’esercizio di tale potere istruttorio d’ufficio e la regola di cui all’art. 2697 c.c.; il che sembrerebbe far propendere il giudicante, sia pur implicitamente, per l’idea tendente a sottrarre il suddetto potere alle preclusioni istruttorie previste per le parti.

Anche la pronuncia del Tribunale di Bologna, dunque, che pur si preoccupa di circoscrivere i confini del potere istruttorio d’ufficio in esame sotto il profilo della tempestività dell’allegazione di parte dei fatti che possono costituirne oggetto, sembrerebbe svincolarne l’esercizio, sotto il profilo temporale, dalle preclusioni istruttorie previste per le parti.

Per il Tribunale di Chiavari quest’ultima norma, che introduce poteri istruttori azionabili

d’ufficio dal giudice, deve essere oggetto d’interpretazione in senso rigorosamente restrittivo al fine di evitare che venga ad essere vulnerato il corollario della celerità del processo sancito nell’attuale formulazione dell’art. 111 Cost. mediante l’aggiramento di eventuali decadenze istruttorie;

“ — la disposizione de qua non può pertanto consentire alle parti di sollecitare il giudice ad introdurre nel processo fatti nuovi e diversi da quelli prospettati in atto di citazione, mediante indicazione tra l’altro di testimoni non menzionati nell’atto introduttivo del giudizio, le generalità dei quali cioè non appaiono nella citazione o nella comparsa di risposta;

— d’altronde per un approccio ermeneutico restrittivo, limitante l’assunzione di prove d’ufficio ai soli fatti originariamente controversi, appare decisivo il fatto che l’art. 281 ter ponga come presupposto per l’operatività del potere d’ufficio l’indicazione di testimoni “... nella esposizione dei fatti” operata dalle parti, con una dizione esattamente identica a quella contenuta nel 3° comma, n. 4, dell’art. 163 c.p.c., che impone (a pena di nullità ex art. 164 c.p.c.) la presenza nella citazione dell’“esposizione dei fatti”;

— ( nel caso in esame si deve rilevare che nell’atto di citazione, nella parte contenente l’esposizione dei fatti, viene fatto richiamo a due documenti contenenti una fattura emessa dalla ditta P C, ed una dichiarazione di S Di, che consentono di ritenere che tali persone possono conoscere la verità in ordine ai fatti (pagamenti) effettuati dagli attori);

. L’ordinanza in epigrafe, nel soffermarsi sul potere del giudice monocratico di disporre

d’ufficio la prova testimoniale di cui al “nuovo” art. 281 ter c.p.c. — introdotto dal d.leg. 51/98 — (su cui E. FABIANI, Sul potere del giudice monocratico di disporre d’ufficio la prova testimoniale ai sensi dell’art. 281 ter c.p.c., in Foro it., 2000, I, 2093; CARRATTA, Poteri istruttori del tribunale in composizione monocratica, in Giur. it., 2000, 658; CAVALLONE, in Riv. dir. proc., 2000, 93, ) si segnala per avere ritenuto che tale previsione debba essere interpretata “in senso rigorosamente restrittivo, al fine di evitare che venga ad essere vulnerato il corollario della celerità del processo sancito nell’attuale formulazione dell’art. 111 Cost. mediante aggiramento di eventuali decadenze istruttorie”, per cui detta disposizione non potrebbe, in particolare, “consentire alle parti di sollecitare il giudice ad introdurre nel processo fatti nuovi e diversi da quelli prospettati in atto di citazione, mediante indicazione tra l’altro di testimoni non menzionati nell’atto introduttivo del giudizio, le generalità dei quali cioè non appaiono nella citazione o nella comparsa di risposta” ( sul punto la citata Trib. Foggia, ord. 4 novembre 1999, Foro it., 2000, I, 2093, la quale ha ritenuto, da un lato, che il giudice possa disporre d’ufficio la prova testimoniale, ai sensi dell’art. 281 ter c.p.c., “sia nel caso di persone cui le parti hanno fatto riferimento, ma non sono state indicate come testi, sia nei casi in cui la persona che appare

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conoscere la verità è stata indicata come testimone (da una o entrambe le parti), ma non su tutte le circostanze su cui è opportuno che venga ascoltata”; dall’altro lato, che “l’ammissione d’ufficio della prova testimoniale, se non si vuol stravolgere il sistema di preclusioni previsto dall’art. 184 c.p.c., deve inserirsi in un contesto temporale immediatamente conseguente alle richieste istruttorie delle parti”).

Detta ricostruzione della previsione normativa di cui all’art. 281 ter c.p.c. non pone problemi nella parte in cui ritiene che tale norma non può consentire al giudice di introdurre nel processo “fatti nuovi e diversi” da quelli allegati dalle parti.( secondo il citato Tribunale di Foggia l’ammissione d’ufficio della prova testimoniale, se non si vuole stravolgere il sistema di preclusioni ex art. 184 c.p.c., deve avvenire in un contesto temporale immediatamente conseguente alle richieste istruttorie delle parti; per Trib. Chiavari, ord. 6 marzo 2001, , ai fini dell’esercizio del potere istruttorio ufficioso ex art. 281 ter, alle parti non è consentito sollecitare il giudice per introdurre nel processo fatti nuovi e diversi da quelli previsti dagli atti introduttivi (citazione e comparsa di risposta).

Si tratta chiaramente di un potere del giudice avente natura istruttoria, destinato in

quanto tale ad incidere sulla sola prova dei fatti e non anche sulla allegazione degli stessi, in deroga, dunque, al principio di allegazione ed al divieto di utilizzazione della scienza privata da parte del giudice

Altrettanto non può dirsi, invece, con riferimento alla tendenza a: a) circoscrivere l’attività di allegazione dei fatti di causa ad opera delle parti ai soli atti

introduttivi del giudizio (atto di citazione e comparsa di risposta), dai quali dovrebbero anche emergere i nominativi dei testimoni; infatti: non sussiste uniformità di vedute in dottrina in ordine al termine ultimo entro il quale le parti possano allegare detti fatti e comunque detta attività non può ritenersi circoscritta agli atti introduttivi del giudizio; con specifico riferimento alla disposizione in esame (o meglio, per essere più precisi, con riferimento al previgente art. 312 c.p.c., il quale, in forza della modificazione di cui alla l. 374/91 — istitutiva del giudice di pace —, attribuiva il medesimo potere istruttorio d’ufficio al pretore ed al giudice di pace, nel riprendere l’art. 317 c.p.c. nella sua versione antecedente alla l. 353/90), si è avuto modo di porre in rilievo come:

— il “riferimento” della parte, nell’esposizione dei fatti, a persone in grado di conoscere la verità non debba necessariamente essere contenuto in atti scritti, potendo anche emergere da dichiarazioni orali ed in particolare da quanto dichiarato dalle parti in sede di interrogatorio libero (. CIVININI, Il nuovo procedimento davanti al pretore, in Quaderni Cons. sup. magistratura, 1994, fasc. 75, La riforma del processo civile, III, spec. 85);

— il giudice possa disporre d’ufficio la prova testimoniale anche quando la persona che appaia in grado di conoscere la verità non sia stata nominativamente indicata ma la sua identità possa, comunque, ricavarsi dal contesto dei fatti ;

Circa .l’assoggettamento del potere istruttorio d’ufficio attribuito dall’art. 281 ter c.p.c. al giudice alle preclusioni istruttorie previste per le parti; infatti, non sussiste uniformità di vedute in dottrina sul punto: a fronte dei sostenitori di tale impostazione (, con riferimento al previgente art. 312 c.p.c., LUISO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 309, 311; CAPPONI, in ACONE-CAPPONI-CECCHELLA-MANZO, Il giudice di pace, Napoli, 1992, 171); con riferimento al “nuovo” art. 281 ter c.p.c.,., non è mancato chi, anche di recente, facendo leva sulla ratio sottostante la disposizione in esame — che mira a consentire un “più compiuto accertamento della verità”, evitando in particolare che la controversia sia decisa ricorrendo alla regola formale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. (la quale costituirebbe, dunque, un “metro per l’esercizio” da parte del

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giudice, tanto in positivo che in negativo, del potere in esame) — ha sostenuto la non assoggettabilità del potere istruttorio d’ufficio attribuito dall’art. 281 ter c.p.c. al giudice alle preclusioni istruttorie previste per le parti (, da ultimo, in tal senso, E. FABIANI, Sul potere del giudice monocratico di disporre d’ufficio la prova testimoniale ai sensi dell’art. 281 ter c.p.c.,

In definitiva, solo la pronuncia del Trib. Udine finisce chiaramente per assoggettare,

conformemente al dictum della Corte costituzionale, anche il potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c. alle preclusioni previste per i poteri istruttori delle parti.

Le altre non si pongono in sintonia con tale impostazione.( L’indirizzo prevalente che la giurisprudenza di merito sembra dunque esprimere è nel senso della non assoggettabilità del potere istruttorio d’ufficio di cui all’art. 281 ter c.p.c. ai limiti temporali previsti per l’esercizio dei poteri istruttori delle parti) ma solo due delle pronunce in epigrafe, però, sono successive alla pronuncia della Corte costituzionale, per cui si tratterà di verificare:

— quali effetti realmente produrrà tale pronuncia sulla giurisprudenza di merito; — e, soprattutto, quale posizione assumerà la Suprema corte di cassazione quando

verrà chiamata ad affrontare tale delicata problematica. ^^^^^^^^^ Le parti devono aver fatto riferimento a persone che appaiono in grado di conoscere la

verità su quelle circostanze. La prova è quindi disposta con l’indicazione delle persone da assumere come testi e con formulazione dei capitoli: appare controverso a chi spetti attivarsi per provvedere all’intimazione dei testi , attività alla quale è collegata la sanzione della decadenza. Appare opportuno che nell’ordinanza ammissiva della prova il giudice specifichi quale delle parti deve curare l’intimazione.

Secondo una certa dottrina la necessità di sentire nuovi testi, con riguardo all’applicazione dell’istituto di cui all’art.257 cpc andrebbe riferita anche all’ipotesi di terzi che abbiano fornito informazioni al ctu da questo menzionate ovvero in sede di ispezione ex art.262 o esperimento giudiziale o che siano menzionati in un documento esibito o prodotto. Va assegnato in tal caso termine per prova contraria o indiretta.

La rinnovazione dell’esame testimoniale, il confronto dei testi ,l’assunzione di testi di riferimento l’audizione di testi ritenuti sovrabbondanti o rinunciati ex art.257 cp e -con il decreto legislativo sul giudice unico-la formulazione d’ufficio dei capitoli di prova testimoniale, trattandosi di mezzi disposti d’ufficio ,comportano l’assegnazione di termini di cui al’art.184, ultimo capoverso. .

Strettamente correlato al potere del giudice di disporre d’ufficio mezzi di prova ( tra

cui i poteri previsti dall’art.257 e 281 ter ) è appunto l’istituto della riapertura dei termini (art.184, ultimo capoverso) che ha presupposti e disciplina del tutto diversi dal generale rimedio restitutorio della remissione in termini previsto dai precedenti commi dello stesso articolo

Al graduale e articolato sistema di preclusioni che caratterizza il nuovo processo è complementare un rimedio restitutorio contro la decadenza per fatto non imputabile, che soddisfa l’insopprimibile esigenza- che ricorre storicamente ogni qual volta si renda più rigorosa la disciplina temporale dello svolgimento del contraddittorio -di mitigare la rigidità del sistema in relazione alle nuove decadenze previste nella fase di trattazione e di istruzione della causa,offrendo una irrinunciabile garanzia di elasticità all’operatività delle barriere preclusive(Balbi, Interventi urgenti sul nuovo processo civile).

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Il nuovo processo civile come tutti i processi costruiti su decadenze ha quindi un meccanismo ripristinatorio del diritto al contraddittorio che consente il superamento delle decadenze in cui la parte dimostri di essere incorsa incolpevolmente che è costituito dalla norma di cui all’art.184 bis - istituto di carattere generale che rappresenta una misura di temperamento della rigidità del sistema-e da altri rimedi restitutori che mantengono il loro carattere di specialità. ll testo originario del’art.184 bis, introdotto dall’art.19 della legge 353/90 prendeva in considerazione le decadenze previste negli artt.183 e 184 cpc. La norma nel testo definitivo, privo del rinvio a tali previsioni,pare ora prestarsi a tutte le preclusioni ed a tutti i termini perentori interni al giudizio di primo grado e forse al giudizio di appello secondo alcuni autori(Proto Pisani) che ritengono superflua la previsione di cui all’art.345 cpc in virtù del rinvio operato dall’art.359 cpc, con la sola esclusione quindi dei termini di impugnazione. L’art.184 bis è quindi un rimedio restitutorio di valenza generale destinato ad operare all’interno di un grado del giudizio. Alla immutabilità degli effetti processuali prodotti dalla mancata osservanza dei termini perentori accordati per l’esercizio di un determinato potere processuale l’ordinamento contrappone un rimedio contro la decadenza incolpevole dal potere di compiere un atto nel termine perentorio prescritto, attraverso un formale procedimento incidentale modellato su quello di cui all’art.294 cpc sulla remissione in termini del contumace. Nell’attuale sistema processuale la inosservanza della disciplina temporale degli atti sottoposti ad un termine finale è sanzionata con la decadenza così come la inosservanza dei più importanti requisiti di forma è sanzionata dalla disciplina delle nullità processuali. La comminatoria della decadenza,privilegiando celerità e speditezza formale rispetto all’esercizio del diritto di difesa ,è bilanciata dalla diffusione dei rimedi restitutori delle decadenze(oltre a quello generale di cui all’art.184 bis, v’è quello speciale di cui all’art.294, rimessione in termini del contumace e quello di cui all’art.49, 2 comma, a proposito della remissione in termini dopo il regolamento di competenza) che si inseriscono nello svolgimento del contraddittorio ricostituendone l’effettività sì da far ritenere presente nel nostro ordinamento processualcivilistico un principio generale di scusabilità della decadenza non imputabile alla parte nel senso che gli effetti preclusivi del contraddittorio non possono prodursi in modo definitivo qualora la parte si sia trovata in particolari circostanze impeditive dell’esercizio del potere attribuitole. La tutela accordata dall’art.184 bis alla parte incorsa incolpevolmente in decadenze ha in comune con gli altri rimedi restitutori la finalità di ripristinare il contraddittorio. E’ limitata ad un grado del processo per quelle decadenze successive alla litispendenza in quanto mira al ripristino del contraddittorio già radicato mentre non si applica all’ipotesi di impedimento all’instaurazione tempestiva del giudizio che riguarda il problema dell’esercizio dell’azione(salva l’ipotesi di cui all’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo ed alla convalida di licenza o di sfratto disciplinate rispettivamente dagli artt.650 e 668 cpc)

Del tutto distinta dalla remissione in termini di cui all’art.184 bis cpc ancorata alla sussistenza della causa non imputabile,è la riapertura dei termini(automatica o ad istanza di parte ,al momento della disposizione officiosa del mezzo di prova o al’esito della prova ) prevista dall’art.184, ultimo capoverso.

L’art. art.184, 3 comma, ha previsto che quando vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre entro un termine perentorio assegnato dal giudice i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi.

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Tale riapertura dei termini mira ad assicurare il pieno dispiegarsi del contraddittorio nel caso in cui la prova venga ammessa su iniziativa d’ufficio in deroga al principio dispositivo che domina il processo civile.

Tra le fattispecie ipotizzabili: -l’ apprezzamento come prova libera della mancata prestazione del giuramento

suppletorio e la possibilità di acquisire nuove prove per effetto del ripristino dell’onere probatorio(contrastata dalla prevalente dottrina che come prima esposto considera la mancata prestazione del giuramento suppletorio comunque risolutiva della lite);

-l’ammissione di consulenza (grafica), in caso di disconoscimento delle riproduzioni meccaniche o delle fotocopie ovvero di disconoscimento di una scrittura prodotte in limine ,allo spirare dei termini dell’art.184, con conseguente istanza di verificazione e necessità di produrre gli originali o le scritture di comparazione:costituisce un ipotesi di riapertura dei termini per cui è necessario il ricorso all’art 184 ,ultimo capoverso, per consentire alle parti la deduzione di mezzi di prova relativi all’autenticità della scrittura disconosciuta ove non si ritenga che in base all’art.216, 1 comma, la riapertura dei termini sia automatica.

-la rinnovazione dell’esame testimoniale, il confronto dei testi ,l’assunzione di testi di riferimento l’audizione di testi ritenuti sovrabbondanti o rinunciati ex art.257 cp e -con il decreto legislativo sul giudice unico-la formulazione d’ufficio dei capitoli di prova testimoniale,trattandosi di mezzi disposti d’ufficio ,comportano l’assegnazione di termini per prova contraria o indiretta.. Secondo un certo orientamento dottrinario(Sabato, i poteri del giudice e delle parti,Frascati 27-29 ottobre 97)l’ammissione della testimonianza de relato non rientrerebbe tra le attività istruttorie soggette all’assegnazione dei termini di cui all’art.184, ultimo capoverso,dal momento che costituisce più che altro un ampliamento d’ufficio della prova già dedotta e capitolata ex art.244,1 comma ,con l’ammissione di nuovi testi ma non di nuovi capitoli di prova per cui avendo le parti avuto già modo di dedurre prova indiretta e contraria sui detti capitoli non vi sarebbe ragione di concedere loro nuovi termini.

Tale opinione può condividersi semprechè la audizione dei testi disposta d’ufficio non privi l’avversario della possibilità di dedurre la prova indiretta e contraria che non abbia potuto formulare in precedenza. Ad esempio se l’attore abbia articolato una prova per testi in atto di citazione con separati e distinti capitoli indicando testi diversi per ciascuno di essi ed in esito all’udienza di trattazione dichiari subito di rinunciare ad alcuni capi di prova(con l’accettazione della rinuncia di controparte ed il consenso del g.i)non vedo ragioni per inibire al convenuto -che sia stato posto nella condizione di non dover richiedere la prova contraria -di ottenere l’assegnazione dei termini di cui all’art.184 ultimo capoverso per la controprova ove l’istruttore ritenga di ammettere i capi di prova rinunciati con i testi a suo tempo indicati.

Secondo una certa dottrina la necessità di sentire nuovi testi con riguardo all’applicazione dell’istituto di cui all’art.257 cpc va riferita anche all’ipotesi di informazioni fornite da terzi al ctu e da questo menzionate e di informazioni fornite in sede di ispezione,art.262 o esperimento giudiziale. Va assegnato in tal caso termine per prova contraria o indiretta.

La concessione dei termini di cui all’art.184 ultimo comma dovrebbe pure escludersi nell’ipotesi di riesame dei testi già interrogati ai sensi dell’art.257,2 comma ultimo capoverso dal momento che il riesame è previsto allo scopo di consentire al giudice di ottenere chiarimenti sulla loro deposizione, di verificare l’attendibilità e la genuinità delle dichiarazioni rese in precedenza e di correggere irregolarità verificatesi nel precedente esame e non per ottenere nuovi e diversi elementi di valutazione, dovendo i testi essere risentiti, ove quanto dichiarato non fosse sufficientemente chiaro, sulle stesse circostanze in merito alle quali erano stati chiamati a deporre(Cass. 3 giugno 98 n.5457)

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Più frequente sarà il caso di fatti nuovi emersi nel corso dell’ispezione e della consulenza tecnica d’ufficio.:le parti hanno infatti diritto ad assistere all’espletamento di detti mezzi di prova ai sensi dell’art.206 cpc (che in aderenza all’art.24 della Costituzione, costituisce l’enunciazione generale del principio del diritto al contraddittorio nell’assunzione ed acquisizione della prova )e dell’art.194 cpc; tuttavia vi può essere l’interesse a dimostrare con diversi mezzi di prova(ad esempio con testimoni e documenti)non solo l’inesistenza dei fatti accertati a mezzo della ctu bensì l’esistenza di fatti diversi(modificativi, estintivi, impeditivi)da quelli accertati in sede di ctu di cui si rende necessaria la prova in conseguenza delle risultanze della ctu o dell’ispezione con il limite del divieto di immutazione del thema decidendum già cristallizzato a seguito del formarsi delle preclusioni assertorie.

In tal caso l’esercizio del diritto di difesa -sotto il profilo dell’assistenza e delle allegazioni difensive a contenuto tecnico mediante la presentazione di istanze ed osservazioni critiche delle parti e dei loro consulenti finalizzate alla richiesta di chiarimenti o addirittura alla rinnovazione della ctu- non sarebbe adeguatamente tutelato nell’ambito del sub-procedimento incidentale discipinato dagli artt.194 e 201 cpc.

La ctu, specie ove sia utilizzata come fonte oggettiva di prova,può dunque introdurre nel giudizio nuovi fatti in ordine ai quali le parti devono essere poste in condizione di poter esercitare il loro diritto di difesa.

Dalla ctu può sorgere la necessità di produrre nuovi documenti ove le operazioni peritali siano disposte dopo lo spirare dei termini assegnati ex art.184 cpc.

Si pensi al caso che il ctu descriva una situazione catastale difforme dallo stato dei luoghi e le parti chiedano di produrre documentazione attestante che detta evidenza catastale è frutto di errore nella voltura e che hanno presentato istanza di rettifica ;ovvero all’ipotesi in cui la ctu in materia di distanze tra costruzioni indichi un certo distacco tra edifici inferiore a quello prescritto dallo strumento urbanistico ed il convenuto, che assume la distanza superiore a quella di tre metri prescritta dall’art.873 c.c., chieda di provare che detto strumento è entrato in vigore solo in epoca successiva alla ultimazione della costruzione chiedendo termine per produzione di documenti.

Dall’ispezione o dall’ esperimento giudiziale,può scaturire la necessità di un ordine di esibizione.

Altra ipotesi potrà essere rappresentata dall’esigenza di contrastare le risultanze della richiesta di informazioni alla p.a. non avendo i litiganti alcun controllo su tale fonte di prova che si forma al di fuori del giudizio.

Nell’ipotesi di formulazione di capitoli della prova per testi ex art.312 cpc la riapertura dei termini per consentire la prova contraria appare necessaria,non potendo la parte essere posta,nel caso di deferimento d’ufficio in condizione diversa da quella riservatale nel caso di prova testimoniale direttamente articolata dalla controparte.

Il giudice assegnerà alle parti un termine perentorio per dedurre mezzi di prova che si rendano necessari in relazione alle prove disposte d’ufficio;potrà essere quindi dedotta prova contraria diretta(vertente sugli stessi fatti oggetto della prova d’ufficio) e prova contraria indiretta(vertente su fatti diversi dai quali possa dedursi in via congetturale, l’insussitenza dei fatti oggetto della prova d’ufficio).

Si discute se detti termini debbano essere assegnati d’ufficio ovvero ad istanza di parte e sulla loro durata.

Su quest’utimo punto ,nel silenzio della legge, considerato che il legislatore del 90 laddove ha voluto indicare espressamente la durata di un termine lo ha appositamente statuito(art.180 ultimo comma, articolo 183,5 comma)ritengo che- in analogia ai termini relativi

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alle prove nella disponibilità delle parti di cui all’art.184 1 comma- la loro durata sia rimessa all’apprezzamento discrezionale dell’istruttore anche in vista della possibilità di cui appresso si dirà di fissare un dies a quo mobile ancorato all’espletamento effettivo della prova mentre l’assegnazione dovrebbe presupporre la richiesta di almeno una delle parti.

All’apprezzamento discrezionale dell’istruttore deve pure ritenersi demandata la determinazione del momento di assunzione di detti mezzi (se durante o dopo l’espletamento di quelli disposti d’ufficio).

Nel caso di pluralità di mezzi officiosi-ancorchè disposti contestualmente -considerato che ciascuno di essi ha assoluta autonomia funzionale deve ritenersi che per ognuno possano essere assegnati termini distinti.

E’ controverso se i nuovi termini ex art.184 per dedurre mezzi di prova resisi necessari in relazione a quelli officiosi debbano essere accordati contemporaneamente all’ammissione dei mezzi officiosi-per cui il dies a quo coinciderà con la data di ammissione- ovvero in esito all’espletamento di detti mezzi. .A favore della seconda tesi chi osserva che solo dalle risultanze del mezzo officioso espletato potrà scaturire la necessità di riapertura dei termini come nei casi sopra indicati a titolo esemplificativo.(esito della ctu o dell’ispezione giudiziale).

A favore della prima tesi si è invece osservato che il tenore letterale della norma parrebbe indicare che il giudice nello stesso momento in cui dispone la prova d’ufficio debba assegnare alle parti il termine per la formulazione dei mezzi di prova che si rendano necessari dal momento che allude a mezzi “disposti” e non “espletati” ed all’assegnazione alle parti di termini per dedurre mezzi di prova che si rendano necessari in relazione ai primi e non all’esito dei primi;ed ancora si è osservato che il collegamento di detti mezzi all’esito della prova disposta d’ufficio introdurrebbe un attività deduttiva dominata dal principio di eventualità con una profonda ed ingiustificata differenza strutturale tra prove nella disponibilità delle parti(per le quali è escluso che la formulazione delle richieste istruttorie possa essere differita all’esito della prova assunta ad iniziativa dell’avversario) e prove officiose; si è osservato poi che la sottoposizione dell’assegnazione dei termini all’esito della prova officiosa muove dall’erronea considerazione della indeterminatezza dell’oggetto di quest’ultima,contestato da dottrina e giursprudenza che negano il carattere esplorativo della prova(la formulazione specifica dei quesiti e l’indicazione dei limiti ,nell’incarico al ctu ovvero nella richiesta di informazioni alla p.a ,dovrebbe far sorgere l’interesse a formulare la richiesta dei termini di cui all’art.184 ultimo capoverso contemporaneamente all’ammissione dei mezzi di prova). Tale eccezionale riapertura dei termini non consente poi l’introduzione nel giudizio di fatti principali non ricompresi nel thema decidendum(non sarà ammissibile una prova contraria indiretta volta a dimostrare fatti integranti un eccezione in senso stretto non formulata tempestivamente) per cui per l’ipotesi di emersione di fatti nuovi(ad esempio dalla richiesta di informazioni alla p.a) soccorrerebbe il rimedio restitutorio della rimessione in termini di cui all’art.184 bis ove ne ricorrano i presupposti(che restituisce alla parte che sia incorsa in decadenza per fatto non imputabile le medesime facoltà processuali che avrebbe potuto esercitare prima del verificarsi dell’evento impeditivo, mentre la riapertura dei termini prevista dall’art.184, ultimo comma,lascia impregiudicate le decadenze già verificatesi limitandosi a consentire il dispiegarsi del contraddittorio limitatamente alle deduzioni probatorie rese necessarie dai mezzi istruttori disposti d’ufficio).

Secondo un opinione intermedia tra queste due interpretazioni ,potendo l’esigenza della prova discendere dall’esito piuttosto che dall’ammissione della prova d’uffico ,il giudice dovrebbe aver cura di determinare il termine assegnato alle parti contestualmente all’ammissione della prova officiosa ma in modo che venga a scadere dopo l’espletamento della prova disposta

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d’ufficio(Luiso, la rifoma del processo civile):una sorta di dies a quo mobile, ad esempio un certo numero di giorni successivi al deposito dell’elaborato peritale o del verbale di ispezione.

In ultimo , data la sostanziale equiparazione tra prove costituite e prove costituende con la soggezione, in primo grado, della prova documentale al medesimo regime preclusivo previsto per le prove nella disponibilità delle parti può discutersi della possibilità di estendere la concessione dei termini di cui all’art.184 , ultimo capoverso, anche alla produzione documentale.

Analoghi criteri dovrebbero applicarsi nel giudizio d’appello nel caso di ammissione di nuovi mezzi istruttori officiosi da parte del collegio ai sensi dell’art.345. cpc.

Roma 8 febbraio 2005- Luciana Radete

La prova per testimoni

(Appendice)

Roma, 7-8 febbraio 2005 Relatore Luciana Elisabetta Razete Giudice della Corte di Appello di Palermo

Capacità di testimoniare Profili costituzionali - Valutazione della capacità a testimoniare( casistica): - Incapacità del rappresentante; - Posizione del Coniuge - Rilevabilità della incapacità Prova testimoniale civile e procedimento penale - possibili

interferenze , circostanze integranti elementi di reato, Divieti probatori Modalità di assunzione della prova Valutazione della prova testimoniale

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Capacità di testimoniare Profili costituzionali La testimonianza rientra nella categoria delle prove costituende perchè a

differenza delle prove precostituite come quella documentale si forma dinanzi al giudice chiamato a decidere la controversia.

La testimonianza è una dichiarazione di scienza resa da un soggetto per definizione estraneo alla controversia.

Egli non deve dunque essere parte attuale del processo nè potrebbe diventarlo perchè un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio ne determinerebbe ai sensi dell’art.246 c.p.c l’incapacità a testimoniare.

L’interesse che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio assunto dall’art. 246 cpc come elemento determinante l’incapacità a testimoniare, non è qualunque interesse di fatto ma solo quello che può autorizzare il soggetto ad essere parte nella causa cioè a chiedere ovvero a contestare un diritto soggettivo e quindi non deriva da posizioni giuridiche predeterminate( come ad esempio il rapporto di stretta parentela di cui infra) ma solo dalla effettiva esistenza di un interesse giuridico , personale concreto ed attuale ad agire o a contraddire all’altrui pretesa.

- Circa l'interpretazione del concetto di “interesse” tale da determinare l'incapacità a testimoniare ai sensi dell'art. 246 c.p.c giurisprudenza costante e ormai consolidata: Cass. 5 gennaio 1994, n. 32 secondo cui tale “interesse” è solo quello “giuridico, che comporta una legittimazione litisconsortile o principale ovvero secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri controinteressati” e giammai un “interesse di mero fatto”, nonché Cass. 26 maggio 1993, n. 5919 e 21 luglio 1993, n. 8131,le quali puntualizzano che l'interesse del terzo deve essere comunque “personale, concreto ed attuale”( v. pure, per un commento negativo sull'eccessivo formalismo mostrato talvolta dalla Cassazione, la cui interpretazione consolidata dell'art. 246 c.p.c. porterebbe ad “escludere la testimonianza di soggetti che sarebbero con ogni probabilità attendibili, benché formalmente legittimati ad intervenire”, ma non escluderebbe “la testimonianza di soggetti con ogni probabilità inattendibili perché hanno corposi interessi di mero fatto all'esito della causa”, Taruffo, Le prove, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, 285-287). In quest'ottica deve valutarsi l’apertura della giurisprudenza di merito che qualifica l’interesse giuridico, concreto ed attuale anche come non irrisorio, contenuta in App. Torino 11 giugno 1992 (con nota favorevole di E. Dalmotto, Interesse irrisorio in causa e capacità a testimoniare) secondo la quale l'interesse che determina l'incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. non deve essere comunque irrisorio, in assoluto ed in rapporto al valore della controversia: è il caso dei “pantaloni strappati”, in cui si esclude l’incapacità a testimoniare di un soggetto , che in un sinistro stradale aveva riportato danni all’abito, proprio in funzione dell’irrisorietà della pretesa risarcitoria di cui sarebbe stato titolare

La norma di cui al’art.246 c.cp.c è di carattere eccezionale non estensibile oltre i casi in essa esplicitamente considerati.

Non v’è dubbio che le cause di incapacità sono viste con disfavore dall’ordinamento e nella giurisprudenza costituzionale si afferma costantemente che il diritto alla prova come nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa non può farsi poggiare su una aprioristica esclusione del valore probatorio della testimonianza di alcuni soggetti fondata solo su motivi di sospetto e di non sincerità mentre la valutazione di attendibilità della prova può essere compiuta solo a posteriori dal giudice in base al suo prudente apprezzamento :

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in conformità di tale principio la Corte Costituzionale con sentenza del 23 luglio 74 n.248 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.247 cpc per contrasto con l’art.24 Costituzione ravvisando un illegittima compressione del diritto di azione e di difesa, limitando irragionevolmente il diritto alla prova che costituisce nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa, perchè discriminava la capacità del teste a seconda che questi fosse o meno in un determinato rapporto di parentela con la parte senza alcun riferimento specifico all’oggetto del giudizio ed agli interessi dedotti .

La Corte dichiara costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’art.24 della Costit.,” l’art.247 cpc secondo cui non possono deporre il coniuge, ancorchè separato, i parenti o affini in linea retta e coloro che sono legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione ( salvo che la causa verta su questioni di stato, di separazione personale o relative a rapporti di famiglia).

Osservando che il potere di agire in giudizio per la tutela del proprio diritto , così come il diritto di difesa, deve al pari di ogni altro diritto garantito dalla costituzione, essere regolato dalla legge ordinaria in modo di assicurarne la effettività la garanzia della tutela giurisdizionale viene compromessa se si nega o si limita alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice la realtà dei fatti ad essa favorevoli se le si nega o restringe il diritto di esibire i mezzi rappresentativi di quella realtà sentenza n.53 del 1966 ;è ben vero che l’esclusione o la limitazione della disponibilità di un mezzo probatorio ed in particolare del ricorso alla prova per testi sono state dalla corte ritenute costituzionalmente legittime se giustificate dalla esigenza di salvaguardare di altri diritti o altri interessi giudicati degni di protezione in base a criteri di reciproco coordinamento( sentenza 112 del 70) ma ciò non può dirsi per il divieto, sancito dalla norma denunciata, di assumere come testi alcuni più stretti congiunti delle parti, salvo che nelle cause relative a determinati rapporti ivi indicati.

Ricorre nella specie un giudizio preventivo, da parte del legislatore, di inattendibilità della deposizione – con una aprioristica valutazione negativa di credibilità -di chi è legato alla parte da stretto vincolo familiare in base ad indici di probabilità in contrasto con il principio del libero convincimento del giudice, principio secondo cui il valore probatorio della testimonianza è determinato con prudente apprezzamento a posteriori, caso per caso, nel rispetto del diritto alla prova che costituisce nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa”.

Osserva la Corte che detto divieto -che reca l’impronta di antichi istituti del processo canonico- si pone in contrasto con l’evoluzione giuridica delle moderne legislazioni straniere che in tema di prove tendono ad assicurare in misura sempre più larga, pur con alcune limitazioni inerenti alla cosiddette prove legali, il principio del libero convincimento del giudice respingendo il criterio di una aprioristica esclusione del valore probatorio della testimonianza di alcuni soggetti fondata soltanto su motivi di sospetto di non sincerità secondo indici di probabilità, affidandone invece la valutazione al prudente apprezzamento del giudice da compiersi a posteriori, caso per caso

La Corte ritiene invece “non fondata – in riferimento all’art.3 e 24 della costituzione –la questione di legittimità costituzionale- dell’art.246 perché il divieto di cui all’art.246 cpc è dettato in funzione del principio proprio del nostro ordinamento processuale civile di incompatibilità della posizione di teste e di parte nel giudizio non solo in senso formale ma sostanziale. La opposta regola dettata dal

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codice processuale penale che ammette la deposizione dell’offeso dal reato, anche se costituito parte civile, è in funzione della diversa rilevanza degli interessi che sono in giuoco in tale processo” donde la diversità di trattamento non viola l’art.3 della Costituzione. Il divieto di cui all’art.246 cpc mira ad impedire che il giudicato si formi con il contributo di chi potrebbe, secondo le regole del dirotto sostanziale, invocarne poi l’efficacia diretta o riflessa ed è quindi pienamente razionale e non mette in discussione il diritto di difesa né vulnera il principio di uguaglianza, per la differenza di trattamento rispetto al processo penale- in cui l’offeso del reato, anche se costituito parte civile, può essere chiamato a deporre come testimone

Osserva la Corte che la norma non vieta l’assunzione come testi di coloro che abbiano un qualsiasi interesse che possa indurre a far sospettare della loro sincerità a riguarda solo le persone che abbiano nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio( ha quindi una portata ed una ratio ben diversa da quelle che erano proprie dell’allegazione a sospetto prevista dall’art.237 del codice di procedura civile del 1865).

Tale antitesi non è vista dal legislatore soltanto con riguardo a colui che sia già parte in senso formale o sostanziale del giudizio cioè quella in nome della quale o contro la quale viene chiesta l’attuazione della legge ma anche rispetto al titolare o contitolare della situazione giuridica dedotta in giudizio da altro soggetto, il quale ultimo sia legittimato a farla valere in nome proprio, e rispetto al titolare di una situazione giuridica dipendente, sotto il profilo sostanziale, da quella dedotta in giudizio cioè dei soggetti che possono, secondo i casi spiegare intervento in giudizio sotto forma di intervento litisconsortile, o adesivo autonomo o sotto forma di intervento adesivo dipendente o partecipare al giudizio ai sensi dell’art.111 cpc ,secondo capoverso.

Anche se chi versa in un delle predette situazioni sostanziali non intervenga in giudizio, il legislatore lo ha ai fini della capacità di testimoniare assimilato alla parte. Se l’intervento è già avvenuto la incapacità a testimoniare discende dalla qualità di parte che assume l’interventore mentre nell’ipotesi di intervento posteriore alla testimonianza questa perderebbe il suo valore probatorio anche se non esistesse la norma di cui al’art.246 cpc che appare dettata con riguardo alla prospettiva di chi si mantenga estraneo al giudizio e ciò nonostante, per la particolare situazione giuridica che a lui fa capo, è in condizione secondo le regole del diritto sostanziale, di potere poi invocare a proprio favore l’efficacia diretta o riflessa del giudicato formatosi col contributo della propria testimonianza.

Con sentenza dell’11 giugno 75 n.139 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.248 cpc concernente i limiti di audizione dei minori degli anni quattordici.

Interessante notare che il giudice remittente ( ordinanza del tribunale di Napoli del 6 dicembre 72) aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’art.247 cpc in relazione agli articoli 3 e 24 della costituzione nella parte in cui consentiva l’audizione dei minori degli anni quattordici solamente nei casi in cui sia resa necessaria da particolari circostanze, limitazione che ad avviso del giudice a quo violerebbe, nel raffronto con la diversa disciplina processuale penale prevista per gli stessi soggetti, il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge ed il diritto di difesa. La Corte afferma che il principio di eguaglianza è applicabile quando vi sia omogeneità di situazioni da regolare legislativamente ed in modo unitario e coerente

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e che l’eccezione del principio può essere consentita solo quando si tratti di situazioni che, pur derivando da basi comuni, differiscano tra loro per aspetti distintivi particolari.

Sulla base di tale principio, ancorchè si rilevi che le modalità di esercizio del diritto di difesa possano essere legittimamente disciplinate in modo diverso perché corrispondenti alle caratteristiche di ciascun procedimento, non è apparsa razionale la distinzione operata dal legislatore, ai fini dell’ammissione della prova testimoniale dei minori degli anni 14, tra processo civile e processo penale.

Circa i criteri di audizione del minore si ricorda che in materia di rimpatrio

dei minori con il ritorno nella loro residenza abituale la sentenza 15 novembre 1997, n. 11328, , affronta la questione dei criteri di valutazione dell’età (ma sul punto già la sentenza n. 507 del 1997 aveva affermato che non può ritenersi che sei anni siano un’età sufficiente) e del grado di maturità del minore, tali che sia opportuno tener conto del suo parere ai sensi del 2° comma dell’art. 13 della convenzione dell’Aja, enunciando il principio che il minore deve avere compiuto un’età in mancanza della quale le nozioni di comune esperienza sconsigliano la sua audizione, onde evitargli traumi psichici che la tenera età può rendere pericolosi e che sarebbero del tutto ingiustificati, non potendo comunque, in tale età, egli ritenersi capace di scelte libere e razionali, da farsi prevalere sulla presunzione del suo interesse a ritornare presso il soggetto affidatario, nella sua residenza abituale;

Trib. min. Roma 23 dicembre 1996,in conformità con quanto affermato dalla

sentenza 9499/98, ha ritenuto rilevante, ai fini dell’accertamento delle condizioni ostative all’ordine di rimpatrio la valutazione del minore in ordine al rientro nello Stato di residenza abituale.

La mancata audizione del minore viene considerata ostativa al riconoscimento dele decisioni relative alla responsabilità genitoriale dal regolamento 2201/2003 ( GUCE 338/2003; competenza ,riconoscimento ed esecuzione delel decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale ) in vigore dal 1 marzo 2005 quanto all’articolo 23 che cosi recita “ le decisioni relativa alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute nei casi seguenti ( B )se salvo i casi di urgenza la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato , in violazione dei principi fondamentali di procedura dello stato membro richiesto ( il rinvio quanto alle modalità di assunzione della prova alla lex loci è reso palese anche dai punti 19 e 20 del preambolo “ l’audizione del minore è importante ai fini dell’applicazione del presente regolamento , senza che detto strumento miri a modificare le procedure nazionali applicabili in materia ; l’audizione di un minore di un altro stato membro può essere effettuata in base alle modalità previste dal regolamento n.1206/2001 ( GU L174 del 27 .6..2001 )relativo alla cooperazione tra le autorità giudiziarie degli stati membri nel settore del’assunzione della prova in materia civile e commerciale “

Si discute se nel processo minorile debba considerarsi la relazione del servizio sociale non come mero mezzo di ricerca di prove ma come una fonte di prova da cui al di fuori di qualsiasi contraddittorio trarre elementi di prova utili per il giudizio; ciò in aperta contraddizione con le linee portanti del codificato,costituzionale e non, che vogliono l’audizione diretta del testimone e

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l’esclusione di tutte le testimonianze indirette. In aperta contraddizione con la giurisprudenza relativa agli art. 213 c.p.c., 96 disp. att. c.p.c. che esclude da quell’ambito e da quell’utilizzabilità documenti relativi non a fatti propri della pubblica amministrazione che non potrebbero provarsi altrimenti, ma ad avvenimenti di cui la pubblica amministrazione è stata testimone come qualsiasi privato soggetto. Né può trascurarsi d’altra parte che se è vero che il 2° comma dell’art. 111 Cost. nei processi in genere impone il contraddittorio tra le parti e non nella formazione della prova come invece nel processo penale (art. 111, 4° comma, Cost.) è anche vero che gli art. 336 c.c. e 10 l. 184/83, così come novellati dagli art. 37 e 10 l. 149/01 prevedono la necessità dell’assistenza di un difensore anche a spese dello Stato nonché la facoltà di esso difensore — nelle procedure di adottabilità — di “partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale ...”; .( Piero Tony , Foro Italiano 2002)

Nella successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di

compatibilità della norme sulla incapacità a testimoniare e sul diritto di astensione ed i precetti costituzionali la Corte pare però abbandonare tale prospettiva( vedi infra a proposito del diritto di astensione dei prossimi congiunti).

Con la sentenza n.62 del 24.2.95 la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.246 per preteso contrasto con gli artt.24 e 3 Costituzione ( sollevata dal Pretore di Torino con ordinanza del 2.6.94)nella parte in cui prevede l’incapacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione dei beni per le cause aventi per oggetto il conseguimento di entità patrimoniali suscettibili, a norma dell’art.159 c.c ,di essere incrementate o decurtate in dipendenza del giudizio in cui è parte l’altro coniuge. La Corte ha escluso il contrasto osservando che la diseguaglianza è un effetto della stessa volontà dei coniugi liberi di optare per il regime di separazione e quello di comunione il quale ultimo comporta, tra le altre conseguenze ,anche l’incapacità a deporre prevista dall’art.246 c.p.c a causa della possibile legittimatio ad causam del coniuge comunista.

La Consulta difende irremovibilmente il principio della incapacità a testimoniare delle persone aventi nella causa un interesse idoneo a legittimare la loro partecipazione al giudizio, non riscontrando rispetto a questi soggetti un irragionevole compressione del diritto di azione e difesa quand’anche la testimonianza sia l’unico mezzo a disposizione della parte per provare un fatto costitutivo.( Corte Costituzionale ordinanza n.75 del 28.3.97).

Nella specie il giudice remittente., il conciliare di Robbio, dubitando della legittimità costituzione dell’art.246 c.c, in un procedimento in cui era stata chiesta la testimonianza dell’amministratore di una srl che era parte nel giudizio quale unica prova disponibile per dimostrare un fatto costitutivo esprime l’avviso che l’esclusione aprioristica dell’unica prova rilevante ai fini del decidere, verrebbe a ledere il principio dell’integrale garanzia della difesa, in quanto impone che il testimone sia sempre un terzo non interessato rispetto al rapporto controverso ed inoltre sarebbe priva di ogni ragionevole fondamento perché eccessivamente compressiva del diritto alla prova.

La Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale del’art.246 .c.p.c. nella parte in cui non consente di assumere come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, poiché quand’anche la testimonianza del terzo interessato sia l’unico strumento a disposizione della parte per provare un fatto costitutivo, la sua incapacità a testimoniare non concreta una violazione dell’art.24 Costituzione in un ordinamento

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in cui –salve le eccezionali ipotesi di iniziativa officiosa – l’assolvimento dell’onere probatorio resta imprescindibilmente a carico della parte.

La Consulta esclude la pretesa irragionevolezza della norma censurata in quanto l’art.246 cpc viene ad esprimere , nella forma di una presunzione assoluta di incapacità a testimoniare della parti anche potenziali, l’insuperabile antinomia tra teste e titolare dell’interesse fatto valere che trova la sua ratio nel bilanciamento tra i contrapposti diritti di difesa, attuato dal legislatore nel disciplinare i modi di partecipazione al processo (e nell’esigenza di evitare alla parte il dilemma di giurare il falso o di dire il vero ledendo un proprio diritto).

Non può ignorarsi che detto indirizzo di discosta dal diverso orientamento espresso dalla Corte Europea di Strasburgo nel caso Dombo Beheer nel quale - esaminando un fattispecie sostanzialmente analoga a quella esaminata dalla Consulta -la Corte di Strasburgo (sentenza del 27 ottobre 93 Dombo Beheer contro Paesi Bassi) ha ritenuto che laddove la prova non è possibile altrimenti, ferma rimanendo la prudente valutazione del giudice, non si può dichiarare inammissibile l’unica e sola prova a disposizione di una delle parti persino laddove ciò possa condurre all’inosservanza della normativa interna sulle prove , principio che può condurre anche all’ammissione della testimonianza eventualmente anche della parte( non consentita nel nostro ordinamento).

La Corte afferma tale principio affrontando la questione della rilevanza della regola nemo in propria causa testis esse debet sotto il profilo della garanzia del diritto fondamentale alla prova, come manifestazione essenziale del diritto di azione e di difesa sancito dall’art.6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.(Cedu) in base alla quale ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei.

La ricorrente Dombo Beheer società olandese a responsabilità limitata aveva stipulato un accordo con la Nederlandsche Middestandsbank per ottenere facilitazioni di credito e successivamente il tetto di massimo scoperto veniva elevato in base ad una transazione verbale; a seguito di ulteriori sviluppi dei rapporti finanziari tra la Dombo e la banca si apriva un procedimento civile nel corso del quale si delineavano versioni contrastanti sugli elementi salienti dell’accordo verbale.

Nel caso sottoposto alla Corte di Strasburgo la Corte di Appello Olandese non aveva consentito al direttore generale della srl di essere sentito nella qualità di teste, poiché in tale ruolo parificato alla parte sostanziale, mentre analogo divieto non aveva esteso al gestore di una succursale della banca , unica presente al momento della stipula dell’accordo verbale concluso per ottenere facilitazioni di credito. La Corte di Strasburgo affermando il superiore principio condannava lo stato olandese per aver violato l’art. 6 della CEDU nella parte cui prevede che ogni persona ha diritto ad un equa udienza al fine della determinazione dei suoi diritti di carattere civile e per aver infranto il principio della parità della armi nel processo civile e del diritto di difendersi provando, regola giurisprudenziale elaborata dalla Corte in relazione all’interpretazione del concetto di equo processo( sentenza 27 .10.93 Dombo Beheer contro Paesi Bassi, in Giurisprudenza Italiana 1996).

Parrebbe che il diritto processuale olandese fosse inspirato alla regola nemo in propria causa testis esse debet ,codificata molti altri ordinamenti europei ed in particolare dei paesi di civil law ed insieme a ciò prevedesse la positiva assimilazione

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alla parte del rappresentante organico della persona giuridica ai fini della incapacità a testimoniare con conseguente esclusione del direttore generale della società Dombo dallo status di testimone.( la disciplina delle prove nel diritto olandese è stata poi modificata, a decorrere dal 1.4.88 con l’entrata in vigore della legge 3 dicembre 87, consentendo alla parte di testimoniare nella causa propria con l’abolizione degli istituti del giuramento decisorio e suppletorio( Tonolli , note a Corte Europea dei diritti dell’uomo del 27 ottobre 93)

Tale regola , tipica degli ordinamenti di civil law ( dove ancora sopravvive nell’ordinamento francese, spagnolo, belga , svizzero) risale ad un epoca in cui al giuramento dei testimoni si riconosceva un valore religioso così solenne ( per il rigore delle forme in cui veniva resa la dichiarazione e per l’efficacia intimidatrice della gravità delle conseguenze che potevano derivare a chi avesse giurato il falso) che da un canto si avvertiva l’esigenza di proteggere una parte dalle conseguenze dello spergiuro e l’altra dal rischio che il giudice potesse sentirsi obbligato a dar credito alle dichiarazioni rese in quanto prestate sotto giuramento ed è stata progressivamente abbandonata nell’evoluzione storica della disciplina delle prove degli ordinamenti anglosassone e statunitense , di quelli di lingua tedesca e nei sistemi di socialdemocrazia socialista con una sempre maggior espansione del principio del libero convincimento del giudice e con la sostanziale parificazione processuale della dichiarazione giurata della parte a quella del terzo.

La decisione della Corte di Strasburgo suscita non poche perplessità : afferma infatti la corte di non essere chiamata ad esaminare in astratto il diritto olandese relativo alle prove nel processo civile giacchè la disciplina delle condizioni di ammissibilità della testimonianza è regolata primariamente dal diritto interno ma che compito della Corte è quello di verificare se i procedimenti giudiziari nel loro complesso , ivi comprese le modalità di ammissione delle prove, siano equi ai sensi dell’art.6 della Cedu ( non quindi sulla base di un particolare aspetto del processo a meno che non costituisca un elemento decisivo per una valutazione generale della procedura nel suo insieme)

Argomenta ancora la Corte che nelle controversie concernenti , opposti interessi privati, il requisito della uguaglianza delle armi, inteso come giusto equilibrio tra le parti comporta che ciascuna parte debba disporre di una ragionevole opportunità di esporre il proprio caso – comprese le prove – a condizioni che non la pongano in posizione di sostanziale svantaggio nei confronti della controparte e che compete alle autorità nazionali garantire che in ciascuna causa sia rispettato il requisito del processo equo. Conclude la Corte che nel caso in esame, poichè solo due persone erano presenti alla stipula dell’accordo verbale oggetto di contestazione, il rappresentante della società ed il rappresentante della banca ,e che solo al secondo fu consentito di testimoniare, mentre tale possibilità fu negata al primo in funzione del rapporto di rappresentanza organica che lo legava alla Dombo e che aveva indotto la Corte olandese ad identificarlo con la società ricorrente medesima, quest’ultima fu posta in una situazione di sostanziale svantaggio rispetto alla banca e di conseguenza vi è stata violazione dell’art,6 della Cedu.

Parrebbe che nella sua sintetica motivazione la Corte voglia far intendere che- ferma restando la validità delle disciplina interna del processo olandese che ben può prevedere che nei procedimenti aventi come parte una persona giuridica, ogni soggetto che la rappresenta possa essere identificato con essa, e quindi escluso dal

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formale status di testimone- nella specie la esclusione della deposizione del legale rappresentante della srl ,unico strumento di prova a disposizione della Dombo Beheer, ne determinava una posizione di sostanziale svantaggio rispetto alla controparte risolvendosi nella negazione del diritto di difendersi provando: quindi laddove la prova non è possibile altrimenti, non può dichiararsi inammissibile l’unica prova idonea a dimostrare l’assunto di una delle parti anche se ciò comporta la disapplicazione della normativa interna sulle prove e quindi la testimonianza anche della parte.( Tonolli , nota a Corte Europea dei diritti dell’uomo, 27 ottobre 93)

La CEDU è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n.848 successiva all’entrata in vigore del codice di procedura civile vigente, Orbene le norme di diritto internazionale automaticamente immesse nel nostro ordinamento grazie all’art.10, 1 comma della Costituzione, come norme del diritto internazionale riconosciute , sono solo ed esclusivamente le norme internazionale consuetudinarie e cioè quelle che appartengono al cosiddetto diritto internazionale generale;( vedi anche ordinanza della Corte Costituzionale n.75/93) le norme pattizie di origine convenzionale non usufruiscono invece del meccanismo di adattamento automatico al diritto interno ed assumono il rango della fonte che in concreto le immette nel nostro ordinamento. Tale fonte, per la Cedu è la legge di esecuzione e quindi il rango delle norme internazionali di origine convenzionale è quello della legge ordinaria per cui – fermo restando che trattandosi di decisione concernente uno Stato diverso dall’Italia è escluso il dovere di conformazione di cui all’art.53 7 della Cedu - ci si chiede tuttavia se la disposizione convenzionale di cui all’art.6 della cedu, come sopra interpretata dalla Corte di Strasburgo, possa prevalere sulla norma codicistica ad essa anteriore( Tonolli , nota a Corte Costituzionale n.75 del 978 secondo cui la Corte Costituzionale sarebbe potuta pervenire a diverse conclusioni se il giudice remittente avesse prospettato la questione con richiamo alla Cedu come interpretata dalla Corte Europea ritenendo che il giudice a quo avrebbe potuto evitare la rimessione disapplicando l'art.246 cpc ritenendo prevalente su di esso l'art..6 , paragrafo 1 della Cedu come interpretato dalla corte di Strasburgo, ratificata e resa esecutiva con legge 848/1955, successiva all'entrata in vigore del codice di procedura civile vigente).

Nella previsione di cui all’art.421, 4 comma cpc , e nella introduzione in sede di udienza di trattazione dell’interrogatorio libero delle parti da cui potere attingere argomenti di prova ,alcuni autori intravedono la tendenza dell’ordinamento al superamento della tradizionale incompatibilità tra la posizione di parte e quella di teste: una sorta di apertura verso la testimonianza della parte nel processo che comunque si muove nel senso di allontanarsi dal sistema aprioristico delle prove legali e di consentire alle parti la più ampia utilizzazione di tutti i mezzi istruttori a loro disposizione con la piena garanzia del contraddittorio(la concessione dei termini di cui all’ultimo capoverso dell’art.184 cpc in relazione all’esercizio dei poteri officiosi del giudice ne è un ulteriore riprova) , ed al giudice la massima estensione dei propri poteri istruttori autonomi e la piena espansione del principio del libero convincimento in ordine all’accertamento dei fatti.

Ma la Consulta sconfessa tale prospettiva :Corte cost., ord. 10 dicembre 1987, n. 494, Foro it., 1988, I, 673: dichiara manifestamente inammissibile la questione di

7 L’art.53 della Cedu impegna gli Stati contraenti a conformarsi alle decisioni della corte nelle controversie nelle quali siano parti e - nei casi in cui la Corte accerti che la normativa interna violi una o più disposizioni della Cedu - l’obbligo di far cessare i suoi effetti , al fine di conformarsi alla decisione della Corte. Nella sentenza 20.11.91 Vermeire contro Belgio la Corte di Strasburgo aveva affermato che la libertà di scelta riconosciuta allo Stato quanto ai mezzi per adempiere i propri obblighi in base all’art.53 non gli permette di sospendere l’applicazione della convenzione in attesa di tale riforma. 8 In Giurisprudenza Italiana 1997, pag.383-389

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legittimità costituzionale relativa all'art. 246 (rito ordinario: incapacità a testimoniare di soggetti aventi un interesse alla causa che legittimerebbe la loro partecipazione al giudizio), che viene sollevata dal giudice a quo in riferimento all’art.3 e 24 della costituzione nella parte in cui non consente che le persone incapaci di testimoniare a norma della stessa disposizione possano essere liberamente interrogate sui fatti di causa come invece è previsto dall’art.421 cpc per il rito del lavoro. La questione è ritenuta concernere scelte discrezionali del legislatore (giudicate dalla corte non irragionevoli); per di più, secondo la corte, l'esclusivo raffronto col rito del lavoro non può essere fondatamente operato, vista la natura speciale di esso.

Il giudice remittente (ordinanza del Pretore di Lecco dell’11.12.86) si doleva di non potere considerare come risposte ad interrogatorio libero quanto meno al fine di trarne argomenti di prova, in analogia a quanto stabilito dal combinato disposto degli artt.116, secondo comma e 117 cpc le deposizioni rese da alcuni testi escussi pur essendo incapaci di testimoniare in quanto aventi nella causa un interesse che poteva legittimare la loro partecipazione al giudizio.

Osserva la Corte che non appare irragionevole la scelta effettuata dal legislatore nell’esercizio del suo potere discrezionale nel senso di non potere accordare fiducia alle dichiarazioni rese da chi abbia nella causa un interesse qualificato e che non può essere fondatamente instaurato l’esclusivo raffronto con la disciplina dettata per il processo del lavoro, rispetto al quale sono peraltro dettate apposite cautele, stante la sua natura speciale.

La norma di cui all’art.421, 4 comma cpc con la possibilità di sentire liberamente le persone inabilitate a testimoniare ai sensi dell’art.246 cpc ( a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art.247,deve ritenersi implicitamente abrogata la inclusione dei soggetti cui sia vietato testimoniare in forza del citato articolo 247 ) presuppone infatti la necessità - nel senso della indispensabilità della dichiarazione - e l’efficacia di tali dichiarazioni non è quella propria della deposizione testimoniale ma quella dei semplici argomenti di prova - inidonei da soli a sorreggere il convincimento del giudice se non integrati da un mezzo di prova in senso stretto - in quanto alla loro funzione ed efficacia è sempre essenziale la parzialità della loro provenienza (Luiso, Montesano). Il secondo autore in particolare dissente da coloro che hanno definito testimonianza atipica il mezzo istruttorio previsto dal nuovo art.421 , 4 comma, che secondo l’autore è invece uno strumento col quale le dichiarazione dell’incapace o degli incapaci a testimoniare vengono usate quali argomenti di prova hanno cioè una funzione ed una efficacia cui è sempre essenziale la parzialità della loro provenienza come le dichiarazioni ancor più partigiane rese in sede di libero interrogatorio ex art.117 cpc9

: La Corte costituzionale chiude la porta all'interrogatorio libero dei terzi interessati nel rito civile ordinario (in Riv. dir. proc., 1988, 812). Poiché, tuttavia, attraverso l'interrogatorio libero di terzi interessati non si raggiunge alcuna garanzia di attendibilità delle dichiarazioni che essi abbiano reso, dovrebbe probabilmente prevedersi che chi è legittimato a intervenire possa essere sentito sotto giuramento, e il problema finisce per estendersi all'ammettere o meno la testimonianza giurata della parte in causa propria. . In tal senso non sono mancate voci critiche della dottrina : Cappelletti prendendo lo spunto dalla sentenza della Corte Costituzionale n.190 del

9 Luigi Montesano, Rivista di diritto processuale , anno 1975

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1971 che ha dichiarato la legittimità costituzionale delle norme che consentono la deposizione della parte offesa del reato nel corso del processo penale, osserva che il nostro ordinamento è viziato dall’antinomia che da un lato vieta nel processo civile la testimonianza delle parti e dall’altro ammette la testimonianza della parte civile nel processo penale ed auspica che, parallelamente ad altre legislazioni, sia introdotta anche nel processo civile una forma di testimonianza della parte liberamente valutata dal giudice 10 Fortemente critiche le posizioni della dottrina sulla legittimità costituzionale , in relazione agli art.3 e 24 della costituzione, delle normativa processuale penale che impone la testimonianza della parte civile e delle persona offesa del reato, rispetto all’art.246 cpc che vieta la testimonianza delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, questione dichiarata manifestamente infondata con la citata corte costituzionale 190 del 71 per l’evidente disparità di trattamento nel processo penale tra gli apporti probatori dell’imputato ed il contributo probatorio della persona offesa e della parte civile che viola ,nella prospettiva del diritto alla prova, il contraddittorio processuale ed il diritto di difesa. Si propone de iure condendo di restituire alla parte civile ed alla persona offesa dal reato il loro ruolo naturale di parti introducendo per tali soggetti un interrogatorio non preceduto da giuramento, sostanzialmente analogo a quello cui è sottoposto l’imputato.11

>>>>>>><<<<<<<<< Valutazione dell’incapacità a testimoniare La capacità deve essere valutata con riferimento al momento in cui la

deposizione viene assunta pertanto ove il teste successivamente alla deposizione diventi parte( per successione mortis causa della parte originaria ovvero assuma la qualità di legale rappresentante della società di capitali che è parte nel giudizio) tale circostanza non inficia la validità della sua deposizione.

Analogamente il legale rappresentante della persona giuridica che cessa dalla carica riacquista la capacità a testimoniare.

Si ritiene capace il curatore del fallimento già cessato dall’incarico per chiusura della procedura concorsuale, chiamato a testimoniare in un giudizio promosso contro un terzo dall’assuntore di un concordato fallimentare ( cassazione 226 del 2 marzo 98)

Sono stati elaborati due diversi tipi di incapacità : quella di chi è parte attuale nel processo e quella di chi ha un interesse

concreto e attuale che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio: parte potenziale.

Per la prima ipotesi: incompatibilità tra la posizione di parte attuale e quella di teste possono ricordarsi esemplificativamente le seguenti ipotesi:

il fallito è incapace a testimoniare nella cause relative a rapporti economici ricadenti nella procedura concorsuale la cui apertura determina la perdita della legittimazione processuale attiva e passiva del fallito che però mantiene la titolarità attiva e passiva dei rapporti compresi nel fallimento e quindi la qualità di parte in senso sostanziale nelle controversie relative a tali rapporti donde la sua assoluta

10 Nota a Corte costituzionale 30 novembre 1971 n.190, rivista di diritto processuale, anno 1972 11 Aimonetto, Parte civile e persona offesa nella disciplina del diritto alla testimonianza , Riv. Italiana di dir. e proc, penale ,1978

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incapacità a testimoniare per la incompatibilità tra la posizione di parte e di teste nelle cause promosse dal fallimento o contro di esso( Pretore di Taranto 5.2.1993).

Corte di cassazione del 23 ottobre 73 n.2711 nega appunto tale capacità al fallito in quanto egli è non solo parte in senso sostanziale ma anche parte formale del giudizio, non essendo il curatore sostituto processuale o sostanziale del fallito, ma soltanto un organo fallimentare che agisce nell’interesse della giustizia.( Carbon , rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1978)(ed anche cassazione 19.5.1989 n.2404)

Nei casi previsti dall’art.43 della legge fallimentare quando i fatti del processo civile sono relativi a circostanze che possono essere considerate elementi costitutivi o anche prove di fatti penalmente rilevanti che interessano il fallito in quanto dagli stessi potrebbe dipendere un imputazione di bancarotta, questi può intervenire in giudizio avendo interesse a contraddire tutto ciò che potrebbe danneggiarlo in sede penale ed, anche in tale diversa prospettiva, il fallito è incapace a testimoniare nelle controversie di diritto patrimoniale (così Bronzini in Nota a Tribunale di Firenze del’11 aprile 1978 12che esclude per il fallito la possibilità di deporre come testimone nei processi per revocatoria proprio in quanto egli potrebbe intervenire avendone interesse ed anche cassazione 24.10.1983 n.6247 che- in un giudizio di simulazione di una vendita di un bene immobile effettuata immediatamente prima della dichiarazione di fallimento- in relazione all’art.216 l.f. ha ritenuto che la deposizione del fallito non avrebbe dovuto essere ammessa)

Per gli enti collettivi: Per le società dotate di personalità giuridica l’incapacità colpisce solo la

persona fisica costituita, per statuto o per atto costitutivo, come legale rappresentante della società o che comunque sarebbe legittimata a farlo; (Cassazione del 17.7.98 n.7028)

nelle società di persone prive di personalità giuridica, l’incapacità colpisce i soci solidalmente e illimitatamente responsabili dell’adempimento delle obbligazioni sociali e quindi nelle sas i soci accomandatari e quelli accomandanti che si siano indebitamente ingeriti nella gestione della società nonostante il divieto di cui all’art.2320 c.c.,e ,nelle snc e nelle società irregolari tutti i soci

per le associazioni non riconosciute che sebbene prive di personalità giuridica costituiscono un soggetto autonomo e distinto dagli associati sono incapaci le persone legittimate a stare in giudizio :quindi il presidente ed il direttore a differenza dei semplici componenti dell’associazione tranne che questi non abbiano assunto responsabilità personale e solidale, ai sensi del’art.38 c.c., avendo agito in nome e per conto dell’associazione;

per il condominio è decisiva la configurazione giuridica del condominio e la ricostruzione preliminare del rapporto tra amministratore e condominio:

l’opinione largamente dominante è che questo sia un ente collettivo di gestione ,privo di personalità distinta da quella dei suoi componenti, e che il rapporto esistente tra l’amministratore ed i singoli condomini sia assimilabile al mandato con rappresentanza dei proprietari dell’edificio, ma è un modello di rappresentanza volontaria del tutto peculiare quanto alla sua fonte legale ed alla relativa specifica

12 In “Il diritto fallimentare e delle società commerciali” anno 1978

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determinazione ex lege dei poteri e delle attribuzioni dell’amministratore. La capacità processuale attiva dell’amministratore è limitata alle attribuzioni indicate dall’art.1130 c.c salvi i maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio e dall’assemblea, mentre quella passiva si estende a tutte la azioni concernenti parti comuni dell’edificio.

In realtà nel condominio si delinea una situazione mista di comproprietà e di concorso di proprietà individuali configurandosi come una struttura organizzativa che riproduce, sia pure in embrione, il modello tipico delle associazioni ,provvedendo ad un attività di gestione secondo organi e poteri stabiliti ex lege senza che peraltro si possa attribuire al condominio una soggettività paragonabile a quella delle associazioni anche non riconosciute in quanto manca qualsiasi traccia di autonomia patrimoniale e la collettività dei condomini non esprime un entità distinta dalle persone fisiche che la compongono. Il condominio non è quindi un soggetto giuridico dotato di propria personalità distinta da quella di coloro che ne fanno parte bensì un semplice ente di gestione che opera in rappresentanza e nell’interesse comune dei partecipanti, limitatamente al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino. Ne deriva che l’amministratore, per effetto della nomina ex art.1129 c.c ha soltanto la rappresentanza ex mandato dei vari condomini e che la sua presenza non priva questi ultimi del potere di agire personalmente a difesa dei propri diritti sia esclusivi che comuni(così Cassazione 14 dicembre 93 n.12304, in Archivio Locazioni 1994).13 Cassazione 28 ottobre 95 n.11278 in sintonia con tali principi afferma che i condomini che non hanno partecipato al giudizio di primo o di secondo grado in quanto rappresentati nel processo dall’amministratore del condominio, possono proporre impugnazione , in luogo dell’amministratore medesimo non impugnante14

Da tale fondamentale premesse deriva che per le cause relative alle cose e servizi comuni v’è una legittimazione concorrente dell’amministratore e dei singoli condomini, sia sotto il profilo passivo -giacchè l terzo può agire nei confronti dell’amministratore in forza della rappresentanza attribuitagli dall’art.1131 c.c. e dei singoli condomini obbligati diretti verso il terzo sia sotto il profilo attivo -giacchè l’amministratore è legittimato a tutela dell’interesse comune dei condomini così come il singolo condomino è legittimato ad agire anche da solo,contro i terzi, nell’interesse della comunione(e senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri condomini): si pensi ad esempio alle azioni per la tutela del decoro architettonico dell’edificio in cui legittimato a promuovere l’azione è sia il singolo condomino, trattandosi di controversia concernente la proprietà comune, sia l’amministratore entrambi dunque incapaci di testimoniare.

L’amministratore ed i condomini sono invece capaci di deporre per le controversie che non hanno per oggetto diritti relativi alle cose comuni come ad esempio quelle relative alle immissioni moleste eccedenti la normale tollerabilità ovvero quelle relative alle distanze legali tra porzioni immobiliari di proprietà esclusiva che investono solo interessi individuali dei condomini;

Cassazione 12739/92 esclude la legittimazione concorrente o aggiuntiva del singolo condomino rispetto all’amministratore, secondo una regola generalmente 13 Amadei, Il punto sulla rappresentanza degli enti collettivi, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile 1999 14 In Guida al diritto, n.3/96, vedi De Tilla, il Diritto Immobiliare, il Condominio, Tomo III, pag.569

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valida in tutte le cause relative a rapporti sociali o interni di enti collettivi, là dove il teste, indipendentemente dagli effetti processuali della sua deposizione che risulti favorevole ad una delle parti piuttosto che ad un'altra, non possa dirsi portatore di un concreto interesse personale a partecipare al giudizio sia pure ad adiuvandum ed in una controversia promossa dai condomini per impugnare una deliberazione assembleare - non vertendosi in causa relativa a diritti sulle cose comuni - afferma la legittimazione passiva esclusiva dell’amministratore cui compete ex art.1131 cc il potere di difenderne la validità escludendo la concorrente legittimazione del singolo condomino e la conseguente violazione dell’art.246 cpc nel caso di assunzione di quest’ultimo come teste.

In materia di diritti collettivi la corte di Appello di Roma (23.7.1991 15)ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.246 cpc sollevata con riferimento agli artt.3 e 24 della costituzione nella causa proposta per la rivendica di beni demaniali ritenendo che i cittadini utenti siano incapaci di testimoniare in quanto la sentenza emessa in materia di usi civici in contraddittorio con il Comune fa stato anche nei confronti dei cives da quest’ultimo rappresentati( si è in presenza di una titolarità diffusa di un diritto di godimento su beni demaniali o privati che sfugge alla dimensione individuale ed assume rilievo solo nella dimensione collettiva ma il diritto collettivo spetta sempre al singolo sia pure uti civis e cioè quale membro della comunità e non personalmente come individuo). Secondo cassazione 7865/90 sono invece capaci i cittadini uti cives interessati ad una servitù di uso pubblico nell’ambito di un procedimento che abbia ad oggetto tale servitù in quanto portatori di un mero interesse generico e diffuso.

Incapacità del rappresentante L’interesse a partecipare al giudizio, richiesto dal’art.246 cpc, a fine di

determinare l’incapacità a testimoniare e che costituisce un aspetto particolare dell’interesse ad agire di cui all’art.100 dello stesso codice, deve essere valutato in concreto, in relazione alla situazione giuridica che forma oggetto del giudizio

In caso di rappresentanza (legale , organica o volontaria) colui che nello stesso processo agisce come rappresentante della parte non può testimoniare. Il rappresentante essendo in giudizio come parte è legittimato a rendere le dichiarazioni proprie della parte e così anche - laddove ne ricorrano i presupposti - a rendere confessione e a prestare giuramento ma non a rendere testimonianza che è considerata attendibile proprio e nella misura in cui provenga da terzi imparziali ed abbia per oggetto circostanze cadute sotto la loro diretta percezione sensoriale.

L’esistenza di un rapporto di rappresentanza organica, al momento della deposizione testimoniale, per la immedesimazione tra la persona giuridica ed il suo organo rappresentativo, determina l’incapacità a testimoniare del legale rappresentante.

L’incompatibilità deriva non dalla semplice qualità di rappresentante ma dalla spendita di essa nel processo sin tanto che sussista sia tale qualità che tale spendita; partendo da tale premessa si afferma che il rappresentante è capace di assumere la qualità di teste nello stesso processo nel momento in cui cessa di stare in giudizio -perché sostituito quale legale rappresentante di una società -salvo non permanga in

15 Giustizia Civile , anno 1991, pagina 214

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concreto un effettivo interesse in capo allo stesso che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio.

Si è ritenuto ad esempio che l’amministratore di una srl sia capace di testimoniare nella causa in cui è parte il curatore di un fallimento di altra srl nella quale però prima della dichiarazione di fallimento svolgeva le funzioni di amministratore lo stesso soggetto chiamato a deporre, in quanto trattasi di persona fisica che non avendo più alcun rapporto di natura organica con la società sottoposta alla procedura concorsuale non è da considerare incapace ai sensi dell’aert,246 tranne che non si configuri, in concreto, un suo interesse alla partecipazione al giudizio ove ad esempio la curatela proponga azione di responsabilità nei suoi confronti ( Ferrero , il diritto fallimentare e delle società commerciali, 1982).

Sono invece perfettamente capaci i singoli soci di una società a responsabilità limitata in base al principio secondo cui l’incapacità a testimoniare dev’essere commisurata alla titolarità di un interesse giuridico attuale e concreto che legittimi ex art.100 cpc la partecipazione del teste al giudizio mentre l’esistenza di un interesse di fatto idoneo ad influire sulla veridicità della testimonianza attiene unicamente all’attendibilità del teste da apprezzarsi insindacabilmente dal giudice di merito (A. Melucco nota a Tribunale di Roma 7 maggio 90 n.10119 16)

Pertanto il procuratore ed in genere il mandatario, di una delle parti in causa, non può ritenersi senz’altro incapace a testimoniare, nei giudizi relativi al negozio giuridico da esso compiuto e che interessano la parte che ha conferito la procura o il mandato per compiere una determinata attività negoziale, essendo necessario, invece che il procuratore o il mandatario sia attualmente titolare di un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio nel quale viene richiesta la sua testimonianza (.cassazione 25.5.64 n.1273 e 388 del 24.2.64).

L’ordinamento processuale infatti non fa derivare l’incapacità a testimoniare da posizioni giuridiche determinate, ma solo dalla effettiva esistenza di un interesse personale ed attuale ad agire a contraddire all ‘altrui pretesa..

Per la sussistenza dell’incapacità del procuratore ad negotia o del mandatario in genere è necessario che essi si presentino titolari in proprio di un interesse personale ed attuale, idoneo a legittimare una loro partecipazione al giudizio quale è l’interesse derivante dalla contestazione del diritto alla provvigione o dalla prospettazione di una responsabilità del mandatario verso il mandante per la cattiva condotta e per il non felice esito dell’affare. Alla stregua di tali criteri può essere risolta la problematica relativa ala capacità a testimoniare di chi abbia reso il libero interrogatorio quale procuratore speciale della parte.

Secondo Andrioli ,il rappresentante volontario non è incapace di testimoniare anche se potrebbe essere convenuto in garanzia impropria dal mandante : infatti le due cause ad esempio quella proposta da un terzo nei confronti del mandante per l’adempimento di un contratto concluso dal mandatario e quella proposta dal mandante nei confronti del mandatario per l’inesatto adempimento del mandato, si fondano su due rapporti diversi ed il rappresentante ha un interesse solo riflesso ad una determinata soluzione della causa principale che non lo legittima a partecipare al giudizio in quanto l’esito di questo, di per sé non è idoneo ad arrecargli pregiudizio:

Dal rappresentante volontario va tenuto distinto il sostituto processuale perché mentre il primo non è parte e quindi non è aprioristicamente escluso dal novero dei soggetti capaci di testimoniare il secondo, pur non essendo titolare della posizione giuridica fatta valere il giudizio, è parte in senso processuale ed è quindi incapace di testimoniare.

Invero tutte le volte in cui la legge consente ad un soggetto di esercitare anche giudizialmente un diritto altrui o di ingerirsi nella sfera giuridica altrui( come nell’azione surrogatoria che integra uno dei casi di sostituzione processuale di cui all’art.81 cpc) ciò avviene non per consentire la mera sostituzione processuale nell’esercizio dell’azione ma perché in tal modo si rende concretamente possibile la difesa del diritto o l’esercizio del potere giuridico spettante al cosiddetto sostituto. A causa della interferenza tra rapporti giuridici sostanziali la legge ,in determinati casi, concede ad un soggetto il potere di far valere in giudizio un 16 In Temi Romana, anno 1990

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diritto di altri perché ciò costituisce lo strumento più idoneo per tutelare il suo diritto. Il cosiddetto sostituto processuale , pur ingerendosi in altra posizione giuridica sostanziale, agisce sempre per la difesa di una posizione giuridica propria e tale azione esercita in virtù di una facoltà espressamente conferitagli dalla legge ( ad esempio il creditore nell’azione surrogatoria pur ingerendosi nella posizione giuridica del proprio debitore, agisce a tutela del proprio credito).

Ecco perché il sostituto acquista autonomamente la qualità di parte e quindi tutti gli oneri, diritti ed obblighi processuali ( e quindi lo status che ne determina la incapacità a testimoniare) ad essa inerenti ed ecco perché la sua legittimazione, ancorchè disgiunta dalla titolarità della posizione giuridica sostanziale dedotta in giudizio ( in deroga al principio per cui la qualità di parte nel processo è indissolubilmente legata alla titolarità della posizione di diritto sostanziale) ,si fonda su un proprio diritto e cioè su un potere di azione riconosciutogli dalla legge ( Monteleone: Profili sostanziali e processuali dell’azione surrogatoria, Milano 1975, Diritto processuale civile, teoria generale,1994).

L’apprezzamento dell’esistenza, l’oggetto ed i limiti del mandato, sia l’individuazione dell’attività effettivamente compiuta dal mandatario o dal rappresentante nella qualità conferitagli, sia l’accertamento della sussistenza o meno di un concreto interesse ad intervenire nel giudizio, involgono indagini di fatto ed apprezzamenti discrezionali che sono rimessi al potere proprio ed esclusivo del giudice di merito e si sottraggono ad ogni sindacato di legittimità. Nel caso in cui il rapporto di rappresentanza organica cessi o inizi nelle more del giudizio sorge il problema della compatibilità tra deposizione resa quale teste ( quando la carica non era ancora stata assunta o era già cessata) e l’eventuale dichiarazione avente natura confessoria: non vi è dubbio che il valore di prova legale della confessione non può essere inficiato dalla testimonianza che anzi se successiva( nel caso in cui cessi dopo la confessione il rapporto di rappresentanza organica e quindi l’ex legale rappresentante acquisti la capacità a testimoniare) dovrebbe essere dichiarata inammissibile mentre nell’ipotesi opposta, in cui dopo la deposizione testimoniale il teste assume la qualità di legale rappresentante e renda la confessione o il giuramento decisorio, dette prove legali .travolgeranno inevitabilmente la precedente deposizione testimoniale

La seconda ipotesi, incompatibilità tra la posizione di teste e quella di parte potenziale del giudizio riguarda coloro che pur essendo estranei al processo hanno nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio cioè la legittimazione a proporre una domanda o a contraddirvi -che è l’interesse previsto dall’art.100 c.p.c-ovvero ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati e quindi l’interesse che consente l’intervento volontario o iussu iudicis ai sensi degli artt.105 e 106 c.p.c A proposito dell’intervento la dottrina non è univoca delineandosi accanto ad un interpretazione restrittiva che limita l’ambito dei soggetti colpiti da incapacità alle forme di intervento principale ed adesivo autonomo , aventi un grado di legittimazione simile a quello delle parti principali(Andrioli, Liebmnann) un interpretazione estensiva che ritiene colpiti da incapacità coloro che sono legittimati a qualsiasi forma di intervento ( anche adesivo dipendente Zanzucchi)

L’interesse deve essere giuridico, personale, concreto e attuale.e va valutato con riguardo al thema decidendum quale fissato dalle parti con le loro domande ed eccezioni così come prospettate a prescindere dal loro fondamento ed in astratto cioè a prescindere dalla esistenza e sopravvivenza in concreto del diritto che il teste potrebbe far valere in giudizio:non rileva dunque la decadenza o la prescrizione dalla quale il diritto azionato dal teste potrebbe essere colpito in quanto trattandosi di eccezione in senso proprio, rimessa alla disponibilità della parte e non rilevabile d’ufficio ,non può rendere il teste carente di interesse a partecipare al giudizio.

E’ giuridico l’interesse del soggetto che potrebbe essere chiamato in garanzia dal’attore o dal quale il convenuto potrebbe pretendere di essere garantito e che quindi dell’esito del giudizio potrebbe sopportare le conseguenze dirette ed immediate nella propria sfera giuridica sicchè potrebbe trovarsi nell’alternativa di giurare il falso, ovvero affermando il vero, di ledere un proprio diritto o interesse giuridicamente rilevante;

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L’interesse giuridico comporta una legittimazione litisconsortile o principale o secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri controinteressati e giammai un interesse di mero fatto,Cass.5 gennaio 94, n.32 26 maggio 93,n. 3919 e 21 luglio 93,n.8131 che puntualizzano che l’interesse del terzo deve essere personale, concreto ed attuale e- secondo la citata Appello Torino dell’11 giugno 92 - non deve essere comunque irrisorio sia in assoluto che in rapporto al valore della controversia:. La Corte ha ritenuto irrisorio e non rilevante l’interesse che un teste avrebbe potuto avere nella causa ( dove l’attore lamentava che per il fatto ingiusto altrui aveva subito la distruzione dell’automobile e danni alla persona) a cagione di alcuni danni riportati al proprio abbigliamento la cui lacerazione era dipesa dal medesimo fatto ingiusto posto a fondamento della domanda attorea( la Nuova giurisprudenza Civile commentata anno 1993, pag.979).

Sempre in tema di illecito aquiliano: Si ritiene incapace a deporre nel processo promosso contro il terzo responsabile dal proprietario di

un veicolo che abbia subito danni a seguito di un sinistro stradale la persona che trovandosi a bordo del veicolo medesimo, abbia subito danni a seguito del sinistro medesimo ed il conducente di un autoveicolo coinvolto in uno scontro, il quale abbia subito danni, sia pur lievi anche se ha dichiarato di non voler agire per il risarcimento( Pretura di Catania del 13.3.95 e del 26.2.1996 ); è invece capace a deporre il conducente che non abbia subito danni sempre che il terzo responsabile non abbia proposto domanda riconvenzionale: poiché l’interesse a partecipare al giudizio previsto dall’art.246 cpc come causa di incapacità a testimoniare, si identifica con l’interesse a proporre la domanda e a contraddirvi, di cui all’art.100 cpc ,va negata la capacità a deporre del conducente di un autoveicolo, nel giudizio vertente sulla responsabilità del proprietario per evento dannoso derivante dalla circolazione del veicolo medesimo a nulla rilevando, ove si tratti di fatto configurante reato , che nei confronti del conducente non sia stata promossa l’azione penale ;il conducente del veicolo , rimasto coinvolto nel sinistro stradale, ai sensi del’art.2054 c.c. è infatti sempre titolare dal lato attivo o passivo dell’obbligazione da atto illecito, dedotta in giudizio, e come tale può sempre assumere, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, anche con intervento ad adiuvandum, la qualità di parte del processo ( Pretura di Torino del 27.6.96 17);

Di diverso avviso la sentenza n.69 del 28.12.1998 del Giudice di pace di Casamassima18 secondo cui il conducente non proprietario di un veicolo coinvolto in un incidente stradale, laddove non abbia riportato lesioni personali o danni ad oggetti di sua proprietà esclusiva e non, oppure non abbia comunque provveduto personalmente e direttamente a riparare i danni del veicolo da lui condotto, ben può essere ammesso come teste nel relativo giudizio, configurandosi in tal caso un problema di attendibilità che spetta al giudicante vagliare diligentemente.

Nel nuovo rito, ai sensi dell’art.268 cpc l’intervento volontario proponibile dopo la scadenza del termine di costituzione delle parti è solo quello adesivo dipendente; quello principale o litisconsortile si imbatterebbe nella sanzione di inammissibilità perché la proposizione di domande autonome ,oltre il termine di costituzione del convenuto, scardinerebbe le barriere preclusive stabilite dalla novella .Il momento preclusivo dell’intervento non viene più ora infatti individuato nella remissione della causa al collegio ma nella precisazione delle conclusioni e ,come già affermato dal secondo comma dell’art.268 ,il terzo che intervenga in un giudizio già pendente deve accettare il processo nello stato in cui si trova e non può sottrarsi agli effetti delle preclusioni già verificatesi a carico delle parti. L’intervento principale o litisconsortile con cui l’interveniente propone una domanda nuova è quindi consentito solo nel termine di costituzione del convenuto per cui il decorso del termine previsto dall’art.166 impedisce al terzo, interveniente in via principale o litisconsortile, di svolgere un attività che non è più consentita ad alcuna delle parti ossia la proposizione di quella domanda nuova che costituisce il suo atto di ingresso del processo. Solo l’intervento adesivo è ammissibile oltre il limite di cui all’art.166 cpc perché in tal caso il terzo non propone una domanda autonoma ma si limita a chiedere l’accoglimento di quella della parte adiuvata per cui non è soggetto alle preclusioni di cui all’art.166, 167 dovendo però sottostare alle limitazioni derivanti da altre preclusioni istruttorie verificatesi medio tempore.

Nell’intervento ad adiuvandum il terzo non fa valere un proprio autonomo diritto ma si limita a sostenere le ragioni della parte adiuvata sicchè l’intervento

17 In archivio giurisprudenza circolazione sinistri stradali , anno 1996, pagina 647 18 in archivio giuris prudenza circolazione sinistri stradali anno 1999, pag.251

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adesivo non amplia l’oggetto della lite. Il terzo per poter intervenire ad adiuvandum deve essere titolare di una legittimazione secondaria o dipendente che non consentendogli di agire autonomamente sul rapporto dedotto in giudizio dall’attore renda ammissibile il suo intervento una volta che quel rapporto sia stato dedotto dal legittimato in via principale; la posizione processuale del terzo è quindi subordinata a quella della parte adiuvata le cui domande ed eccezioni costituiscono i limiti entro cui possono esplicarsi i poteri dell’interveniente;( solo nell’intervento litisconsortile l’intervento del terzo è indipendente dalla sussistenza delle condizioni dell’azione in capo all’attore e conseguentemente il legittimato può sostituirsi in corso di causa al non legittimato (cass. 11828/90).

Incapace-una volta venuta meno con la pronuncia della Corte costituzionale

n.248 del 74 il divieto sancito dall’art.247- è il coniuge in regime di comunione dei beni nelle controversie promosse dall’altro coniuge dalle quali dipenda l’attribuzione di entità patrimoniali destinate ad incrementare il patrimonio comune;

Con la citata sentenza del 25 febbraio 95 n.62 la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.159 e 246 cpc nella parte in cui prevede la incapacità a testimoniare dei coniugi in presunto regime di comunione legale dei beni,di cui alla sez.III del capo VI del libro I del codice civile, beni che possono essere incrementati o decurtati in dipendenza del giudizio in cui è parte l’altro coniuge,in riferimento agli artt.3 e 24 Costituzione:

La Corte richiama la propria precedente sentenza 248 del 74 che aveva ritenuto ingiustificato il divieto di cui all’art.247 cpc perchè discriminava la capacità dei testimoni sulla base di un giudizio preventivo fatto dal legislatore di inattendibilità della deposizione resa da chi è legato alla parte da stretto vincolo familiare affermando invece la legittimità costituzionale dell’art.246 cpc secondo cui non possono essere sentire come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.

La Corte ha ritenuto di non condividere la tesi del giudice remittente secondo cui il combinato disposto degli artt. 159 c.c. e 246 cpc determinerebbe la surrettizia reviviscenza dell’illegittimo divieto dell’art.247 c.p.c a suo tempo reputato dalla consulta in contrasto col diritto alla prova costituzionalmente garantito nell’art.24( tesi condivisa da una parte della dottrina secondo cui la comunione dei beni tra coniugi determinando l’interesse reciproco all’esito delle liti in cui sia parte l’altro coniuge e che abbia ad oggetto beni della comunione reintroduce di fatto il divieto di testimonianza del coniuge basato su ragioni meramente soggettive ossia sulla qualità di marito e moglie)19

Osserva al riguardo la Corte Costituzionale che l’art.159 stabilisce quale regime patrimoniale della famiglia ,in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’art.162, quello della comunione dei beni, regime che fa sorgere quell’interesse conducente alla possibile legittimazione a partecipare al giudizio di cui è parte altro comunista e dunque l’incompatibilità tra due posizioni processuali in funzione delle quali è prevista l’incapacità a testimoniare di cui all’art.246 c.c.

19 Dominici , nota a Corte costituzionale n.62/95, Giurispr. It.1995, pag.573-577

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La diversità tra i due regimi patrimoniali non è determinata dalla legge ma dalla volontà delle parti cui è rimessa la facoltà di optare per il regime convenzionale di separazione dei beni ovvero per quello (vigente per norma suppletiva di legge) della comunione che comporta tra le tante conseguenze anche la cd. incapacità prevista dall’art.246 c.c.donde va esclusa la denunziata violazione dell’art.3 Cost. per asserita disparità di trattamento tra i coniugi nei cui riguardi vige il regime legale di comunione e quelli che hanno invece compiuto la scelta in favore del regime di separazione dei beni rispetto ai quali ultimi non sarebbe applicabile l’art.246 c.c.

Già cass. 7 marzo 84.n.1594 aveva affermato che non sussiste alcuna contraddittorietà nel ritenere che un soggetto- sebbene non sia litisconsorte necessario nella causa- sia tuttavia incapace di testimoniare per la possibilità del suo intervento in giudizio e tale è la posizione del coniuge che si trovi in regime di comunione dei beni con l’altro coniuge, rispetto ad una controversia da cui dipenda l’attribuzione o meno a quest’ultimo di entità patrimoniali destinate ad incrementare il patrimonio comune.

Il rapporto di coniugio come ogni altro vincolo di parentela verrà in rilievo ,in concorso con ogni altro utile elemento ,al fine di della verifica della maggiore o minore attendibilità delle deposizione testimoniale che, nel caso di coniugio, dovrà essere particolarmente penetrante (cass.18 aprile 94,n,3651)

Con sentenza del 14 febbraio / 9-10-97 n9786 la Cassazione nel ribadire la soggezione dell’eccezione di incapacità a testimoniare, nel caso di escussione come teste del coniuge, al regime delle nullità relative, afferma il principio che se oggetto di una controversia è la violazione della disciplina delle distanze di una costruzione dal confine, il coniuge del convenuto, in regime di comunione legale dei beni con questo, non è incapace di testimoniare perché l’incremento eventuale del patrimonio comune non è strettamente connesso e direttamente dipendente dall’oggetto della controversia, intrapresa nei confronti dell’altro coniuge , controversia che tende in via diretta non ad incrementare o a diminuire il patrimonio di quest’ultimo ma al rispetto delle distanze delle costruzioni dai confini, e perciò l’interesse del coniuge escusso è di mero fatto, influente sulla valutazione della veridicità della sua testimonianza e quindi della sua attendibilità, ma inidoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio.

Questo il caso :Tizio conviene in giudizio Caio dolendosi che costui nel realizzare un complesso immobiliare nel fondo limitrofo abbia usurpato una porzione del suo fondo violando altresì la disciplina dei distacchi legali prescritta dagli strumenti urbanistici chiedendo la rimessione in pristino del proprio fondo. Caio assume di aver agito in buona fede e propone domanda riconvenzionale di attribuzione ex art.938 c.c della porzione di area occupata . I giudici di primo grado accolgono la domanda rigettando la riconvenzionale; la sentenza confermata dai giudizi d’appello viene gravata da ricorso per cassazione da Caio che tra i vari motivi del ricorso lamenta che sia stata presa in esame dal giudice di merito la deposizione della propria moglie nonostante che costei avesse dichiarato di essere in regime di comunione legale dei beni ( la moglie aveva reso dichiarazioni sostanzialmente sfavorevoli al marito dichiarando che costui aveva intrapreso i lavori di costruzione senza alcuna misurazione e li aveva continuati nonostante si fosse accorto dell’invasione).

Il supremo collegio disattende tale motivo del ricorso escludendo qualsiasi violazione dell’art.246 cpc in quanto l’essere il coniuge escusso come teste in regime

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di comunione legale dei beni con il convenuto non comporta nella specie l’incapacità del teste per l’esistenza di un interesse del primo idoneo a legittimare .la sua partecipazione al giudizio, trattandosi di un interesse non strettamente connesso e direttamente dipendente dall’oggetto della controversia, quindi in ordine al quale l’interesse del coniuge escusso quale teste è solo di mero fatto ad un determinato esito di essa il che incide soltanto sulla valutazione della veridicità della testimonianza e non sulla capacità a testimoniare

La decisione suscita qualche perplessità perché se se può ritenersi che il rispetto delle distanze legali non determini un incremento attuale del patrimonio dell’altro coniuge tuttavia non v’è dubbio che l’accoglimento della domanda riconvenzionale di accessione invertita alla quale la prova del teste ,preteso incapace, era strumentale vertendo sulla esistenza dello stato soggettivo di buona fede dell’occupante era senz’altro suscettibile di determinare un incremento immediato della consistenza del patrimonio comune per l’acquisizione di una porzione del fondo altrui ; è probabile allora -ancorchè la lettura integrale della sentenza non confermi e non smentisca tale interpretazione - che l’immobile costruito da Caio fosse realizzato nell’esercizio di una sua impresa, forse edile, soggetta al regime di cui all’art.178 c.c e quindi l’entità patrimoniali oggetto della lite fossero destinate ad incrementare solo la comunione de residuo.20

Tale interpretazione sarebbe coerente con l’ormai consolidato orientamento della Cassazione a proposito della titolarità della costruzione realizzata su suolo o su altro edificio personale di proprietà esclusiva di uno dei coniugi che afferma- per gli acquisti a titolo originario - la prevalenza del regime di accessione su quello di comunione esentando la costruzione eretta su suolo appartenente ad uno solo dei coniugi dal regime di comunione e riconoscendo a quest’ultimo, proprietario del suolo, la proprietà esclusiva del manufatto salvo il diritto di credito del coniuge comunista .21

Tale lettura della decisione giustifica l’esclusione della configurabilità dell’interesse concreto ed attuale del coniuge del convenuto e quindi dell’incapacità a testimoniare in relazione alla possibilità di acquisizione di una porzione del fondo dell’attore se questa acquisizione patrimoniale è destinata solo ad incrementare la comunione de residuo in virtù della quale il coniuge non imprenditore vanta solo un diritto di credito, correlato alle eventuali attività residue dopo la liquidazione, ( da cui l’interesse di mero fatto all’esito del giudizio che non è causa di incapacità) e non attribuisce invece al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione nei confronti dei beni aziendali essendo la sua posizione subordinata al pieno soddisfacimento dei creditori dell’impresa. Non sussiste quindi alcun diritto reale della comunione nei confronti dei beni e degli incrementi di impresa di cui è menzione nell’art.178 c.c. che sarebbe incompatibile con la ratio della norma ed il coniuge non imprenditore non può rivendicare alla comunione se non un diritto di credito residuale al soddisfacimento degli altri creditori.22

20 Paolo Corder “La prova per testimoni “ in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura Anno 1999 n.108, Volume secondo. 21 Così Cassazione 11-6-91 n.6622, 14-3-92 n.3141,25.11.93 n.11663 22 Tribunale di Camerino, 5-8-88; in dottrina Finocchiaro, Riforma del diritto di famiglia Milano 1979, e Burdese, Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, Padova 1989

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(In verità nulla di specifico sulla destinazione del bene dice la suprema Corte: a proposito della comunione de residuo si è andato delineando nella giurisprudenza di legittimità un orientamento meno formalistico di quello invalso nella prassi notarile nel senso di ritenere che nel regime della comunione legale tra i coniugi, perché i beni acquistati da uno dei coniugi cadano in comunione c.d. de residuo, ovvero solo al momento dello scioglimento della stessa e non al momento del loro acquisto, e nei limiti in cui sussistano a tale momento, è sufficiente che siano destinati all'esercizio dell'impresa, ancorché di tale destinazione non si faccia espressa menzione nell'atto di acquisto(- Cass., sez. I, 21-05-1997, 4533/1997, Cassazione 29-11-86 n.7060 già aveva escluso che nell’atto di acquisto dovesse risultare la destinazione all’impresa ed il consenso dell’altro coniuge e che l’opponibilità ai terzi della situazione del bene dipendesse dalla sua trascrizione)

Ritornando alla sentenza 9786 del 97 probabilmente la Corte rilevando la sanatoria per acquiescenza della nullità ( che peraltro non avrebbe potuto essere fatta valere anche sotto altro profilo perché eccepita dalla stessa parte che aveva indicato il teste incapace e quindi dalla stessa parte che aveva dato causa alla nullità) non ha ritenuto di approfondire tale aspetto.

L’insussistenza, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 247/74 del divieto di testimoniare sancito per i parenti e per gli altri soggetti indicati dall’art.247 cpc, pur se comporta l’impossibilità di una aprioristica valutazione di non credibilità delle deposizioni rese dalle persone indicate da tale norma, non esclude che il vincolo di parentela possa, in concorso con ogni altro elemento, essere verificato , ai fini della maggiore o minore attendibilità delle deposizioni rese; la valutazione delle risultanze della prova testimoniale ed il giudizio di attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni di essi invece che di altri involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Cass 6816 del 13 luglio 98). Ma non a discutere ogni singolo elemento né a confutare tutte le deduzioni avversarie ( cassazione 11 giugno 2004 11234)

Nel senso dell’operatività del divieto di cui allart.246 nei confronti del coniuge comunista i seguenti casi:

- in un giudizio promosso da uno dei coniugi in regime di comunione per l’esecuzione in forma specifica di un preliminare sottoscritto dal solo attore con cui si chiede il trasferimento ex art.2932 in suo favore dell’immobile oggetto della promessa di vendita l’altro coniuge sarà incapace a testimoniare poichè l’effetto costitutivo della sentenza determinerebbe automaticamente l’acquisizione al suo patrimonio di metà dell’immobile;

-in tema di cessazione della locazione di immobile ad uso abitativo è controverso se il coniuge possa o meno assumere la qualità di teste, secondo cassazione giacchè l’incapacità di cui all’art.246 cpc ricorre quando la persona chiamata a deporre abbia nella causa un interesse che sia tale da coinvolgerla nel rapporto controverso non in linea di fatto ma quale titolare di situazioni giuridiche, attive o passive che possano essere pregiudicate in caso di mancata partecipazione al giudizio non sussiste l’incapacità a testimoniare di coloro che possono essere ammessi dal conduttore al godimento del bene locato, atteso che costoro non avendo partecipato alla costituzione del relativo rapporto sono estranei al contratto di

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locazione e non hanno alcuna legittimazione a tale giudizio :in senso contrario Pretura di Taggia,20.5.88 Tribunale di Palermo 30.4.97,nel rilievo che il coniuge del conduttore è titolare di una posizione giuridicamente rilevante tale da non poter essere fatta valere autonomamente, nei confronti del locatore,ma che legittima l’eventuale intervento ex art.105 del codice di rito:il coniuge potrebbe vantare ,ai sensi dell’art.6 della legge 392/78,il diritto all’assegnazione della casa coniugale,in caso di separazione, ed in caso di decesso dell’altro coniuge, il diritto a succedergli nella titolarità del contratto,posizioni tutte che delienano un suo interesse qualificato,giuridicamente rilevante,a che la controversia si concluda in un certo modo il quale, pur non potendo legittimare un intervento autonomo in assenza di una posizione giuridica indipendente, legittimerebbe però l’intervento di cui al 2 comma dell’art.105(ad adiuvandum) onde impedire che nella propria sfera giuridica possano ripercuotersi conseguenze dannose derivanti da effetti riflessi o indiretti del giudicato.

In tema di sinistro stradale il coniuge è incapace di testimoniare quale

titolare di un interesse giurdico che ne legittimi a la partecipazione al giudizio solo se comproprietario della vettura danneggiata ( nella specie affrontata da Cassazioine sezione III 10 giugno 2004 n.11002 in cui l’attore si era affermato proprietario esclusivo dell’autovettura , la Suprema Corte ha affermato che non vi fossero elementi per affermare che la vettura rientrasse nella comunione dei beni tra coniugi ( l’incapacità a testimoniare deve esssere provata dalla parte che la deduce ) per cui è stata cassata - anche tenuto presente che non rientrano tra i beni delle comunione quelli ottenuti a titolo di risarcimento del danno – la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto nulla la testimonianza del coniuge dell’attore

Con la citata sentenza n. 248 del 74 la Corte costituzionale ha preso esplicita

posizione manifestando di aderire all’orientamento giurisprudenziale che intende accreditare una “larga interpretazione” del’art.246 cpc nel senso di ricomprendervi qualsiasi forma di possibilità di intervento nel rilievo che il divieto di cui all’art.246 si fonda sull’efficacia estensiva del giudicato , quanto meno in utilibus rispetto alle persone che dichiara incapaci di testimoniare, e si inquadra, per una razionale assimilazione di esse alle parti, nello stesso principio vigente nel nostro ordinamento processuale civile che esclude la testimonianza della parti in causa

Si è infatti riconosciuta l’incapacità a testimoniare anche nei confronti dei portatori di un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio anche in veste di intervenienti ex art.105 c.p.c non solo quindi per far valere un proprio diritto nei confronti di tutte le altre parti ma anche soltanto per sostenere le ragioni di alcune delle parti(intervento adesivo).L’interesse non deve essere di fatto bensì giuridico nel senso che tra adiuvante ed adiuvato deve sussistere un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale,tal che la posizione soggettiva del primo in questo rapporto possa essere -in via indiretta e riflessa- pregiudicata dal disconoscimento delle ragioni che il secondo sostiene contro il suo avversario in causa(cass.,Civ.23 12.93,n,12758).

L’interesse deve essere concreto ed attuale nel senso che deve riferirsi al rapporto dedotto in giudizio cioè tale da coinvolgere il soggetto indicato come teste nel rapporto controverso. (Cass.Civ.3.2.95 n.1314 ha affrontato l’ipotesi

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dell’impugnazione di un licenziamento illegittimo in cui il lavoratore licenziato per aver gravemente danneggiato dei beni aziendali deduceva di aver obbedito ad un preciso ordine del capo squadra;a fronte della richiesta del datore di lavoro di sentire come teste il suddetto caposquadra il lavoratore ne eccepiva l’incapacità perchè egli avrebbe potuto partecipare al giudizio; nella fattispecie la corte ha ritenuto che il teste non avesse un interesse tale da consentire il suo intervento nel giudizio che aveva ad oggetto esclusivamente la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro.).

Concreto ed attuale è l’interesse a partecipare al giudizio - relativo all’accertamento di una servitù pendente tra l’acquirente ed il proprietario del preteso fondo servente – configurabile in capo all’alienante del fondo che , abbia dichiarato, nell’atto di vendita, l’esistenza di una servitù acquistata per usucapione, a vantaggio delle particelle trasferite che può essere coinvolto dagli acquirenti nel giudizio( quale chiamato in garanzia) per vedersi riconoscere le dichiarate qualità dei beni venduti o intervenire direttamente per sostenerne le ragioni ( cassazione 29 aprile 1998 n.4350)

La possibilità di un ipotetica rivalsa nei confronti del soggeto chiamato a testimoniare non esclude la sua capacità ex art.246 come afferma Corte di Cassazione nelle recente sentenza15 marzo 2004 n.5232

Nella fatispecie scrutinata il gestore del servizio di Telefonia non aveva fornito in sede giudiziale i dati relativi ale utenze il cui costo aveva addebitato all’ attore (che ne assumeva la estraneità alla propria linea telefonica ) per incapacità tecnica delle centrale di rilevarli : osserva la Corte che la presunzione di buon funzionameto del sistema di rilevazione e contabilizzazione del traffico telefonico subisce un affievolimento in considerazione dell impossibilità in cui è posto il chiamante di verificare l appartenenza a sè delle chiamate contabilizzate e nel contempo di fornire l immediata e facile prova della loro estraneità ;ne consegue l’espansione della facoltà dell utente di provare contro la suddetta presunzione attraverso ogni mezzo possibile ;nè la mera o ipotetica possibilità che l ‘attore chiami in causa colui che egli stesso indica come testimone - in tal caso la moglie e la figlia che avrebbero potuto essere chiamate a rispondere delle telefonate effettuate addebitate all’utenza dell’attore - per ottenere la rivalsa nel caso in cui l azione sia respinta rende il soggetto indicato incapace di testimoniare Quanto al giudzio di inattendibilità di altri testi indicati come parenti o commensali dell’attore la Corte ricorda che il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla loro credibilità involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito che nel dichiarare inattendibile la testimonianza ha però il dovere di indicare in modo congruo e logico le ragioni del proprio convincimento con riferimento al contenuto delle testimonianze ed alla qualità di chi le ha rese e non al mero rapporto esistente tra i testimoni ; la particolare qualifica del testimone è circostanza di per sé neutra, priva di intrinseco significato rispetto al giudizio relativo al contenuto della testiminanza soprattutto in un contesto in cui alla parte non è fornita alcuna possibilità di provare rispetto all’affievolita presunzione rispetto alla quale , diversamente, resterebbe completamente disarmata , con conseguente vulnus del suo inviolabile diritto di difesa .

L’interesse di mero fatto non da luogo ad alcuna incapacità di testimoniare.

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E’ di mero fatto e non giuridico l’interesse che hanno i creditori di una delle parti a che la controversia sia risolta in senso favorevole al loro debitore rendendosi altrimenti più difficoltosa l’esazione del loro credito,

in materia di controversie d lavoro - l’interesse che il prestatore di lavoro subordinato ha a che sia decisa in

un certo modo una causa pendente tra altre parti, del tutto analoga, per le questioni di fatto e di diritto affrontate, a quella pendente tra lo stesso teste ed una delle parti del giudizio in cui è chiamato a deporre ,ad esempio lo stesso datore di lavoro . Nelle controversie tra datore di lavoro e suoi dipendenti possono quindi essere sentiti come testimoni altri dipendenti che abbiano instaurato a loro volta separati, autonomi giudizi, sia pur con identiche questioni di fatto e di diritto,( cosiddette deposizioni a incrocio) ovvero siano stati parti di giudizi connessi a quello in cui sono chiamati a testimoniare, tutti instaurati contro il comune datore di lavoro ( Santagata, nota a Cassazione 14 luglio 93, n.7800, Giustizia Civile 1993).. il giudizio ha ad oggetto i diritti e gli obblighi nascenti da quel determinato contratto di lavoro concluso tra quel lavoratore e quel datore di lavoro e ciò anche se i giudizi vengano riuniti trattandosi di connessione impropria. Per Cassazione 6932/97 l'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare a norma dell'art. 246 c.p.c. è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che comporta o una legittimazione principale a proporre l'azione, ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio proposto da altri cointeressati; ne consegue che la circostanza che penda una diversa (anche se, eventualmente, analoga) controversia tra un teste e taluna delle parti in causa, non vale a determinare la sussistenza di un interesse dello stesso teste - rilevante ai sensi del cit. art. 246 c.p.c. - nella causa in cui viene escusso e non comporta quindi di per sé la sua incapacità a testimoniare o l'inutilizzabilità della testimonianza assunta. Cass., sez. lav., 04-03-1997, 1887/1997 ribadisce che la giurisprudenza della Corte è, invero, costante nell'affermare che l'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare a norma dell'art. 246 c.p.c non si identifica con l'interesse, di mero fatto, che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, pendente tra le altre parti (cfr. Cass. 13 agosto 1987, n. 6932, la quale ha altresì precisato che neppure l'eventuale riunione delle cause connesse - per identità di questione - può far insorgere l'incapacità delle rispettive parti a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione unicamente incidere sulla attendibilità delle relative deposizioni che spetta al giudice di merito di deliberare; v., altresì, Cass. 1º aprile 1995, n. 3846; 2 gennaio 1995, n. 32; 5 gennaio 1994, n. 32; 26 maggio 1993, n. 5919; 30 maggio 1990, n. 5079; 8 agosto 1990, n. 7990; 28 novembre 1989, n. 5203; 18 marzo 1989, n. 1369, 17 gennaio 1987, n. 387, 28 giugno 1986, n. 4340).Vero è, d'altro lato, che la valutazione delle risultanze della prova testimoniale e il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri - come la scelta tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione - involgono apprezzamenti di fatto

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riservati al giudice del merito il quale, nel porre a fondamento della decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (v. ex multis Cass. 14 aprile 1994, n. 3498 e, più recentemente, Cass. 12 aprile 1996, n. 3461; 12 marzo 1996, n. 2008; 6 sett. 1995, n. 938411234/2004 )

- - secondo un diverso indirizzo la capacità del teste è conservata solamente nel caso in cui i giudizi rimangano distinti perché con la riunione la qualità di parte si comunica a tutti i soggetti originari ed il teste divenuto parte deve essere ritenuto incapace di deporre ( cassazione 387/87)

- Corte cost. 22 aprile 1980, n. 64, ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità dell'art. 421, ultimo comma, c.p.c. nella parte in cui, in caso di riunione di cause connesse, consente al giudice di interrogare liberamente persone che, essendo testi in una causa e parti nell'altra, sarebbero incapaci a testimoniare ex art. 246 c.p.c.: l'infondatezza della questione è relativa alla stessa interpretazione offerta dal giudice a quo, perché, come ha spiegato in motivazione il giudice delle leggi — rel. Andrioli —, laddove la riunione di controversie in materia di lavoro sia solo per identità di questioni la parte/teste non è privata della sua capacità a testimoniare sotto vincolo di giuramento ;

Nel giudizio possessorio è di mero fatto l’interesse dei familiari del possessore o del detentore all’esito della controversia, apprezzabile in sede di valutazione dell’attendibilità della loro deposizione (Cass.Civ.n.11.04.89,n,1714) almeno che non siano danti causa del possessore perché potrebbero intervenire in giudizio ad adiuvandum del loro avente causa.

In conformità del principio secondo cui l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare comporta una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati è considerato di mero fatto L’interesse dell’avvocato con riguardo al giudizio instaurato dal proprio cliente nei confronti della controparte per ottenerne la condanna al pagamento di spese e competenze dovute all’avvocato stesso per attività professionale extraprocessuale in quanto quest’ultimo non risulta portatore di un interesse che ne legittimi l intervento sia pur soltanto ad adiuvandum nel processo Cassazione 4.4.2001 4984 .

E’ di mero fatto l’interesse del padre naturale nel procedimento di disconoscimento di paternità legittima ;il preteso padre naturale può essere ammesso a testimoniare non sussistendo in lui un interesse giuridico, personale, concreto ed attuale alla promozione od all’intervento in giudizio( Corte di Appello di Milano 18.3.97 23), ma semmai, solo un interesse di mero fatto all’esito della controversia

Nel giudizio per la dichiarazione di paternità naturale è invece incapace a rendere testimonianza la madre essendo legittimata a spiegare intervento adesivo dipendente (Tribunale di Roma 13-2-1984).

23 il diritto di famiglia e delle persone anno 1998, pag.1451

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La parte che eccepisce l’incapacità, ai sensi dell’art.2697 c.c. ha l’onere di dimostrare la sussistenza della situazione di fatto che da luogo all’incapacità, ad esempio il regime di comunione vigente tra i coniugi ovvero la qualità di socio accomandante gestore della sas,in forza di procura conferitagli, del soggetto indicato come teste salvo che la parte avversaria ammetta o non contesti tale circostanza.

L’incapacità a testimoniare – derivante dall’esistenza in un soggetto dellaa qualità di parte ,anche virtuale, e di testimone è sancita non per ragioni di ordine pubblico ma nell’esclusivo interesse delle parti e pertanto la relativa eccezione, qualificata come eccezione processuale in senso proprio 24(che ai sensi dell’art.157, ultimo comma, non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa cioè da chi abbia dedotto come testimone la persona che poi assume incapace)soggiace al regime delle nullità relative;non è rilevabile d’ufficio e deve essere opposta al momento dell’assunzione della prova o nella prima difesa successiva all’ escussione , per cui se la parte interessata ad eccepirla è presente, deve essere sollevata a pena di decadenza, nella stessa udienza di assunzione della testimonianza altrimenti ( allorquando la parte interessata ad eccepirla non sia stata presente a mezzo del suo procuratore all’udienza di escussione e quindi non abbia avuto notizia del motivo di incapacità) nell’udienza successiva , o quanto meno, nella prima istanza o difesa successiva ( sezione III 20 novembre 2003 n.17613 e 19.3.2004 5550) e deve essere poi riproposta in sede di precisazione delle conclusioni (cassazione 14.1.1977 n.189 e 30.5.90 n.5079, Pretura di Eboli 387 del 15.7.1991 e l arecete cassazione sezione I 19.3.2004 n.5550).In difetto la nullità deve ritenersi sanata (e l’eccezione rinunziata nel caso di mancata riproposizione in sede di precisazione delle conclusioni) e l’eccezione non può più essere sollevata neppure in sede di gravame e quindi nè in sede di legittimità nè in grado di appello.( Cassazione 15 febbraio 98 n.1572) L’eccezione deve essere poi proposta come apposito motivo d’appello. La tempestività e la ritualità della deduzione relativa alla incapacità del teste, - che deve essere formulata in maniera espressa ed autonoma rispetto alla stessa ammissibilità della prova – vanno infatti ragguagliate, in applicazione del’art.157, secondo comma, al momento di espletamento della prova medesima con onere di rilievo subito dopo l’assunzione o al più tardi, nel caso di assenza del procuratore della parte interessata in sede di escussione, nell’udienza successiva. Di conseguenza in ipotesi di reiezione dell’istanza da parte del giudice, il carattere di eccezione processuale in senso proprio, comporta la necessità della riproposizione in sede di precisazione delle conclusioni- verificandosi altrimenti sanatoria per rinuncia tacita all’eccezione, ai sensi dell’art.157, 3 comma, e ulteriormente, in caso di appello, dell’espressa doglianza in conformità del principio devolutivo ( così la citata cassazione 3155 del 2 aprile 99 in nota).

( per ultimo si segnala cassazione 11 settembre 1999 n.9680 secondo cui “la nullità conseguente all’eventuale incapacità a testimoniare non può essere rilevata se non ad istanza di parte e ,ai sensi dell’art.156, secondo comma, cpc solo nella prima difesa o istanza successiva all’assunzione. Essa pertanto non può essere dedotta per la prima volta in appello, se la testimonianza è stata assunta in primo grado, neppure dal contumace in tale giudizio”).

24 vedi Cassazione ,sezione I ,2 aprile 1999 n.3155

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Per effetto della sanatoria della nullità la deposizione del teste incapace diviene utilizzabile ancorchè l’incapacità sanata possa refluire sul giudizio di attendibilità della deposizione dopo un rigoroso vaglio critico della stessa.

La ratio cui si inspira il sistema è quella di ancorare la eccezione e quindi la conseguente sanatoria al momento in cui la parte interessata a far valere la incapacità ha conoscenza della causa di incapacità al fine di dirimere speditamente ,attraverso la immediata comminatoria delle decadenze e la sottoposizione al regime delle nullità relative ,le questioni relative alla capacità dei testi..

Alla stregua di tale criterio non è necessario un relativo di incapacità preventivo all’assunzione della prova giacchè le cause di incapacità potrebbero emergere proprio dalla deposizione ma allorchè la parte interessata abbia già conoscenza della causa di incapacità (perché ad esempio il teste è già indicato nell’atto introduttivo la cui narrativa renda palese all’avversario il suo interesse al giudizio )la relativa eccezione deve essere eccepita , a pena di decadenza, prima della pronuncia del provvedimento di ammissione della prova; in caso contrario la nullità del provvedimento di ammissione resta sanata ex art.157, 3 comma cpc (Tribunale di Alessandria del 19..4.96); alla parte che sollevato l’eccezione preventiva incombe comunque l’onere di reiterare l’eccezione ,non accolta , subito dopo l’ordinanza di ammissione della prova giacchè l’art.157 cpc presuppone il compimento di un atto nullo e quindi non è opponibile in relazione ad un atto futuro.

La regola generale è che la nullità della testimonianza resa da persona incapace ex art.246 cpc deve essere eccepita, a pena di decadenza, subito dopo l’espletamento della prova ai sensi dell’art.157., comma 2, giacchè , talora, solo in sede di identificazione dei testimoni e di richiesta di chiarimenti di cui all’art.252 cpc possono emergere cause di incapacità non palesatesi in precedenza in sede di indicazione dei testi ,per cui , in siffatta ipotesi la parte, a mezzo del suo procuratore deve essere posta in condizione di formulare, all’udienza di assunzione, la relativa eccezione; conseguentemente in deroga a tale regola generale la comminatoria di decadenza non opera nel caso in cui il procuratore della parte interessata ad eccepire l’incapacità non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorio e quindi non abbia avuto modo notizia del motivo di incapacità; in quest’ultimo caso la nullità può essere eccepita all’udienza successiva senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, a norma dell’art.246 cpc, possa ritenersi comprensiva della eccezione di nullità delle testimonianze comunque ammesse ed assunte nonostante quella previa opposizione.(giurisprudenza costante vedi cassazione 4.8.90 n.7869 e per ultimo cassazione 11253 del 17.12.96 e Cassazione 5534 del 20.6.97).

Nell’ipotesi in cui, dedotta da una parte la prova testimoniale ed articolata nelle note istruttorie di cui all’art.184 completa dell’indicazione dei testi , l’avversario nella propria nota di replica deduca l’incapacità di uno dei testi ed il g.i ammetta ed assuma la prova nonostante l’eccezione, in assenza del procuratore della parte che ha rilevato l’incapacità all’udienza di assunzione della prova escussa ad iniziativa della parte che l’aveva dedotta, occorrerà l’espressa eccezione di nullità della prova assunta nonostante tale preventiva opposizione.

L’accoglimento dell’eccezione di incapacità del teste determina la nullità della deposizione e dell’eventuale sentenza che su questa si basi avendo utilizzato la deposizione del teste incapace ai fini della decisione.

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L’orientamento che afferma la rilevabilità ad istanza di parte della incapacità a testimoniare è vivacemente contrastato dalla dottrina (Andrioli, Liebmann) secondo cui la materia disciplinata dall’art.246 cpc rientra nelle regole del giudizio che attengono alla formazione del libero convincimento del giudice su cui non può incidere il comportamento omissivo ed inerte della parte. Il potere del giudice di escludere coloro che non possono essere sentiti per legge a norma del 1 comma dell’art.245 cpc pare però fare implicito riferimento agli artt.247 e 248 cpc ormai dichiarati incostituzionali

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Prova testimoniale civile e procedimento penale , possibili interferenze – circostanze integranti elementi di reato, La questione investe due possibili profili: il divieto di testimoniare in sede civile su fatti per i quali il testimone sia imputato in sede penale (art. 246 c.p.c.)ovvero su fatti da cui possa scaturire l’inizio dell’azione penale a carico del teste che se ne riconosca autore.

Corte cost., ord. 31 marzo 1988, n. 390, G.U., 1ª s.s., 13 aprile 1988, n. 15: ha ordinato la restituzione degli atti al giudice a quo per il riesame del requisito della rilevanza ( sotto il profilo dell’accertamento dell’ effettiva qualità di imputati dei testimoni) nella questione relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c. (“Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”), sollevata in riferimento agli art. 2, 3 e 24 Cost.. Ad avviso del giudice rimettente, Corte di Appello d Roma ,ordinanza del 25 ottobre 1983 la norma impugnata, nella parte in cui non prevede il divieto di testimoniare in sede civile sui fatti per i quali il testimone sia imputato in un processo penale, contrasterebbe a) con il principio del nemo tenetur contra se edere che riceverebbe nell’art.2 Costituzione riconoscimento e tutela, b)sarebbe i contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art.3 Costit. in quanto riserverebbe, ingiustificatamente al teste-imputato nel processo civile un trattamento diverso da quello che l'art. 348, 3° comma, c.p.p. contempla nella medesima fattispecie, nel processo penale e c)infine violerebbe l'art. 24 Cost., costituendo ostacolo alla ricerca della verità (e quindi al corretto svolgimento del processo civile) l'eventuale testimonianza di un teste-imputato cioè di un soggetto imputato di un reato avente per oggetto un fatto identico ovvero connesso, in tutto o in parte, con quello che forma oggetto della prova testimoniale . La medesima questione era già stata sollevata dal Tribunale di Torino nel 1976, e decisa con sentenza di rigetto nel 1983 (sent. n. 85, Foro it., 1983, I, 1512).

La circostanza che il teste , in relazione ai fatti sui quali viene chiamato a deporre, si possa trovare nell’alternativa di ammettere o negare la commissione di un reato, non implica di per sé incapacità a testimoniare, non rientrando nelle previsioni dell’art.246 cpc, né invalidità della testimonianza, ma spiega rilevanza solo sotto il profilo dell’eventuale giustificazione del rifiuto della deposizione, a norma dell’art.256 cpc, ovvero della valutazione dell’attendibilità della deposizione stessa.( cassazione 7998 dell’8.8.90): Le dichiarazioni rese nel procedimento civile che riferiscano in ordine ad eventi integranti elementi di reato, perseguibili di ufficio, impongono infatti all’istruttore civile , in quanto ricevute nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali , e quindi quale pubblico ufficiale, ai sensi del’art. 331, quarto comma cpp la trasmissione degli atti al Pm.; dalle dette dichiarazioni, per quanto non utilizzabili nel procedimento penale a fini probatori, ai sensi dell’art. 63 cpp.può sempre scaturire il promuovimento di un indagine penale.

Cassazione 1341 del 3.2.93 ribadendo il principio che l’incapacità a testimoniare prevista dall’art.246 cpc ricorre solo quando la persona chiamata a deporre abbia nella causa un interesse concreto ed attuale che sia tale da coinvolgerla nel rapporto controverso o da legittimare la sua assunzione della qualità di parte , in senso processuale e sostanziale, nel giudizio, e che invece non ricorre tale incapacità quando tale persona sia portatore di un interesse di mero fatto ad un determinato esito del giudizio stesso: afferma che nella controversia relativa alla legittimità di un licenziamento del lavoratore per danneggiamento di materiale dell’azienda, non sussiste l’incapacità a testimoniare di altri dipendenti dello stesso datore di lavoro, ancorchè a carico degli stessi possano profilarsi, in relazione al fatto suindicato, omissioni loro imputabili come illeciti penali, atteso che la Corte Costituzionale, con sentenza n.85 del 1983 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.246 cpc, in relazione all’art.384, secondo comma, c.p. nella parte in cui non prevede l’incapacità a deporre nel giudizio civile di chi è imputato di un fatto reato su circostanze relative e connesse al fatto medesimo. Osserva la Corte che non sussiste violazione del principio di eguaglianza perché non sono giuridicamente comparabili ed ancor meno equiparabili la posizione dell’imputato del processo penale e la situazione della parte e del legittimato all’intervento nel processo civile: una cosa è “nemo testis in causa propria” cui si ispira l’art.246 cpc e un'altra è”nemo tenetur edere contra sé” che permea l’art.384 c.p. Né l’imputato nel procedimento penale può dirsi offeso nel diritto di difesa per essere costretto al dilemma di autoaccusarsi o di esporsi a responsabilità penale per falsa testimonianza perché gli soccorrerebbe la causa di

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non punibilità di cui all’art.384, comma primo c.p. e , più a monte, l’art.376 c.p.(sentenza della Corte Costituzionale n.85 del 29.3.1983 che ha dichiarato costituzionalmente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.246 cpc in relazione all’art.384, comma, secondo c.p. - casi di non punibilità- sollevata, in riferimento agli art.3 e 24 , II comma della Costituzione dal tribunale di Torino con ordinanza emessa il 5.11.1976).

Nel solco dei principi costituzionali anzi delineati deve pure escludersi che ricorra un ipotesi di incapacità a testimoniare ( o una causa legittima di astensione) nel caso in cui il teste, non imputato, si trovi comunque dinanzi al dilemma di autoaccusarsi prestando dichiarazioni che attengano a circostanze di fatto integranti elementi di reato a suo carico ovvero di giurare il falso negandole :al giudizio civile non è certo estensibile il principio , consacrato dal secondo comma dellart.198 , cpp secondo cui il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale, né può configurarsi nei confronti del giudice civile alcun obbligo di interrompere la deposizione testimoniale in presenza di dichiarazioni indizianti. Il riferimento dell’art.63 cpp all’ipotesi che dinanzi all’autorità giudiziaria una persona non imputata ovvero non sottoposta ad indagini renda dichiarazioni indizianti ed all’obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di interromperne l’esame avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potrebbero essere svolte indagini ed invitandola a nominarsi un difensore si riferisce sempre agli organi giudiziari, ( giudicanti e requirenti ) che esercitano funzioni penali e non certo all’istruttore civile sul quale incombe l’obbligo sancito dall’art.331 , numero quattro, nel caso di fatti configuranti un reato perseguibile di ufficio di redigere e trasmettere senza ritardo la denuncia al pubblico ministero. Il regime di cui all’art.63 c.p.p. non è dunque estensibile nei confronti di un atto( la deposizione testimoniale in sede civile) perseguente finalità probatorie del tutto diverse da quelle proprie del processo penale non essendo ricavabile nel processo civile una norma che imponga al giudice di sospendere l’acquisizione di un atto dell’istruzione probatoria in funzione di esigenze teleologiche esclusive del processo penale (vedi anche corte costituzionale 136/95 che formula tale osservazione a proposito dell’interrogatorio formale).Le dichiarazioni indizianti ancorchè possano innescare l’avvio dell’azione penale , restano sempre inutilizzabili a norma dell’art.63 cpp.

L’ordinamento processuale tuttavia in taluni casi mira ad evitare di porre il soggetto dinanzi all’alternativa se autoaccusarsi autore di un illecito o giurare il falso: è il caso dell’art.2739 c.c in tema di giuramento decisorio; il divieto di giurare su un fatto illecito, sancito dall’art.2739 c.c. opera proprio nei confronti dell’autore del fatto illecito e non anche del soggetto leso dal momento che, qualora sia tale soggetto a prestare giuramento non si pone il problema per scongiurare il quale il legislatore ha posto il divieto di evitare al giurante il dilemma di confessarsi autore di un fatto illecito o di giurare il falso Cass.Civ.26 giugno 92, 7995 e cass. 15 luglio 98,n.6911.

Il cosiddetto privilege against self incriminaton ( diritto al silenzio)si fa strada anche nell’esperienza comunitaria ancorchè sia azzardato parlare già di un principio facente parte delle tradizioni culturali comuni. Con la decisione del 18.10.89 la Corte di giustizia delle Comunità Europee afferma che in fase di investigazione preliminare la commissione Cee non può imporre ad un impresa di fornire risposte che potrebbero portarla ad ammettere l’esistenza di una infrazione alla regole sulla concorrenza.. I giudici del Lussemburgo si sforzano di superare il deficit di legittimazione democratica imputato alla comunità per la mancata previsione nei trattati istitutivi, di norme a protezione dei diritti fondamentali soprattutto in ragione del ruolo attribuito alla corte di giustizia di tutela delle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri ,ruolo poi consacrato nel preambolo dell’atto unico. L’area di maggiore sensibilità verso le tradizioni costituzionali comuni è rappresentata dal difficile equilibrio tra la preoccupazione degli organi comunitari di sortire gi obiettivi economici del trattato e quello dei soggetti individuali di vedersi garantito un trattamento equo ( assume carattere emblematico il filone dei “competition cases “ conosciuti oltre oceano come costituzional rules of Community law). Nel caso in questione veniva in discussione il “privilege against self incrimination” o diritto al silenzio ,principio che non affonda radici abbastanza profonde nei singoli sistemi nazionali al punto da indurre i giudici del Lussemburgo a cercare il medesimo risultato attraverso la via, meno diretta ma egualmente efficace, del diritto alla difesa, Si’ dunque alla richiesta di informazione anche se questa potrebbe portare all’accertamento di una condotta anticompetitiva, no invece alla richiesta di risposte che potrebbero mettere l’impresa inquisita nella condizione di ammettere l’infrazione che compete alla commissione provare.

La considerazione che le dichiarazioni rese dal teste nel procedimento civile che indichino in sé l’esistenza di un fatto storico integrante gli estremi di reato sarebbero del tutto inutilizzabili contro il teste, nel procedimento penale che venisse promosso a suo carico in forza della previsione dell’art.63 cpp è oggi pienamente confortata dal precetto costituzionale di cui ai commi 4 e 5 del nuovo articolo 111 della costituzione introdotto con la legge costituzionale del 23.11.1999 n.2, entrata in vigore il 7 gennaio 2000, che afferma la piena soggezione del processo penale, nella formazione della prova, al principio del contraddittorio riservando al legislatore la disciplina dei casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

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In ordine al profili di incostituzionalità dell’art.246 per violazione dell’art.3 e 24 costit.( diritto di difesa e principio di eguaglianza) in relazione al diverso trattamento di chi abbia nel processo un interesse giuridico concreto ed attuale rispetto al processo penale in cui l’offeso del reato, anche se costituito parte civile , può essere chiamato a deporre vedi paragrafo 3 Corte costituzionale n.248/74.

Il rifiuto del teste di prestare la solenne dichiarazione di cui sopra ed il suo rifiuto di deporre così come il fondato sospetto che non abbia detto la verità impongono al giudice di denunciarlo al pubblico ministero, ai sensi dell’art.256 c.cp.c. Non è invece più consentito l’arresto del teste mendace o reticente poichè gli artt. 380 e 381 del nuovo cpp e dell’art.214 disp.di coordinamento dello stesso codice ( dl 271/89) hanno abrogato le disposizioni che prevedevano l’arresto o la cattura da parte di organi giudiziari che non esercitano funzioni penali., in conformità della nuova disciplina prevista dagli artt.207( testimoni sospettati di falsità e reticenza, testi renitenti) e 476, 2 comma ( esclusione dell’arresto del testimone in udienza per reati concernenti il contenuto delle sue deposizioni)cpp dell’88 per il teste, renitente, falso o renitente nel processo penale .

La presentazione di un denuncia per falsa testimonianza non determina la sospensione necessaria del procedimento civile in attesa delle definizione di quello penale, mancando il presupposto della pregiudizialità ma solo la sospensione facoltativa se la testimonianza ha per oggetto circostanze rilevanti per la soluzione del procedimento civile.

Ai fini della sospensione del procedimento civile, l’influenza della decisione del giudice penale circa l’esistenza del reato di falsa testimonianza è configurabile quando la verità dei fatti, oggetto della deposizione testimoniale, costituisca dato immediato e diretto per la formazione del convincimento del giudice( cassazione 22.2.74 n. 516)

In sede di apprezzamento della prova il giudice di merito non ha l’obbligo di disattendere le deposizioni testimoniali a causa della denuncia presentata in sede penale contro le persone escusse, poiché solo l’accertata sussistenza del reato di falsa testimonianza in sede penale vieta di tener conto di dette deposizioni, essendo in tal caso l’inattendibilità dei testimoni oggetto necessario della dichiarata falsità o reticenza ( cassazione 1797 del 27.3.79 e 22.1.94 n.622). Ma mentre nel caso di sentenza irrevocabile di condanna ( alla quale si ritiene possa equipararsi la sentenza di patteggiamento)al giudice è fatto divieto di tener conto della deposizione incriminata essendo la sua inattendibilità conseguenza diretta della stessa condanna non per questo nell’ipotesi contraria in cui il teste incriminato venga prosciolto dal menzionato reato ( così come nelle ipotesi di declaratoria di estinzione del reato, per prescrizione, per morte del reo etc) il giudice civile è tenuto ad attribuire fede in modo assoluto alla deposizione giacchè , per effetto del principio del libero convincimento ,egli rimane libero di valutarne l’attendibilità secondo il suo prudente apprezzamento( cass. 6.6.81, n.3674) nell’ambito del corretto esercizio del potere discrezionale di valutazione delle prove spettante al giudice di merito che può legittimamente negar fede ad una deposizione senza che sia necessario il preventivo accertamento della falsità in sede penale..

Falsità e attendibilità sono concetti ben diversi tra loro che corrispondono a due distinte situazioni giuridiche e, pertanto, mentre l’accertamento della prima ha le sue ovvie ripercussioni sulla seconda per l’autorità promanante dal giudicato penale, la esclusione del reato di falsa testimonianza lascia impregiudicato ogni apprezzamento sull’attendibilità della testimonianza stessa in sede civile, perché, indipendentemente dalla sussistenza di un illecito penale, la erronea rappresentazione del vero esclude l’attendibilità della deposizione..

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Divieti probatori La regola generale è che il risultato dimostrativo dei mezzi di prova sottostà

al libero apprezzamento del giudice. Le eccezioni sono date da tutte le ipotesi in cui un determinato mezzo di

prova è prequalificato nella sia capacità dimostrativa direttamente dal legislatore o in positivo e avremmo allora la fattispecie delle prove legali( giuramento confessione, atto pubblico, scrittura provata riconosciuta) o in negativo in presenza delle fattispecie in cui la stessa ammissione della prova è preclusa come nel caso del divieto di giurare sugli oggetti di cui all’art.2739, 1 comma cpc, o della limitazione all’escussione dei testimoni di cui agli artt.2721 e seguenti c.c).

I limiti sostanziali di ammissibilità sono costituiti dai divieti sanciti dagli artt.2721 -2723 c.c e dall’art.1417 c.c. in tema di simulazione:

Nonostante la mancata rivalutazione dell’importo di lire 5000 non si ritiene ammissibile, ai sensi dell’art.2721 c.c la prova testimoniale di contratti di notevoli valore economico che di regola vengono documentati per iscritto salvo che la qualità delle parti ed in particolare i rapporti tra le stesse, e la natura del contratto possa far ritenere superato tale limite. Ai medesimi criteri(qualità delle parti , natura del contratto) è ispirata la deroga al divieto di cui all’art.2723 c.c( patti posteriori alla formazione del documento cioè che apportino aggiunte o modifiche destinate a regolare diversamente il rapporto nel presupposto della persistenza o prosecuzione del medesimo, cassazione 3537/96). Non soggiacciono dunque a tale limite gli accordi diretti ad estinguere il rapporto- accordo risolutorio come nel caso della risoluzione consensuale- che può desumersi implicitamente dal comportamento concludente delle parti( si pensi al caso di una locazione soggetta alla disciplina codicistica - di box auto- o di un comodato immobiliare, documentati per iscritto, in cui si voglia provare per testi ,la circostanza della consegna ed accettazione delle chiavi del locale senza riserve, quale comportamento sintomatico dell’accordo risolutorio).

L’interdizione all’ascolto dei testimoni, qualora la circostanza sulla quale siano chiamati a deporre sia rappresentata da un patto orale, aggiunto o contrario a quelli che risultano da un atto scritto, affonda le sue radici nell’art.1341 del codice civile napoleonico e riposa sulla constatazione di comune esperienza che se uno o più soggetti si sono determinati a manifestare per tabulas la loro volontà negoziale è davvero improbabile che abbiano accompagnato la redazione del documento con la convenzione di altre clausole enunciate verbis tantum e nell’ipotesi di simulazione non riprodotte nella cosiddetta controdichiarazione scritta. L’improbabilità del fatto si traduce processualmente nel timore legislativo di lasciare affidata ad una prova tendenzialmente rischiosa, quale è la testimonianza, la dimostrazione di ciò che si affermi essere al di fuori della regolarità. dell’id quod plerunmque accidit.

Il divieto sancito dall’art.2722 cc di provare con testimoni patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento- cioè un accordo complementare volto ad ampliare o modificare il contenuto della convenzione e non invece un mero fatto storico volto a chiarire il contenuto di un negozio di dubbia interpretazione - si riferisce al documento contrattuale ossia formato da entrambe le parti e racchiuso in una convenzione per cui tale divieto non opera ove si tratti di scrittura che provenga da un sola parte e contenga una dichiarazione unilaterale come nel caso della quietanza o della ricognizione di debito (Cassazione 22 febbraio 69, n.609, 8 febbraio 74, n.373 21 maggio 92 n.6142) Ancora Cassazione Civile , sezione III 9 marzo 95, n.2747(in

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Foro Italiano , parte prima sez.I , 236 con commento critico di Alberto Ronco) ribadisce che il limite di ammissibilità della prova testimoniale codificato dall’art.2722 c.c non opera qualora il documento, dal contenuto confliggente con l’ipotetico risultato della prova costituenda, sia costituito da una scrittura privata firmata da una sola parte( nella specie fideiussione sottoscritta dal solo garante e prova testimoniale diretta a dimostrare la pattuizione di una condizione sospensiva all’obbligazione di garanzia., costituita dall’aumento del fido concesso al garantito).

Osserva ancora la Corte nella citata 2747/95 che tale limite, salvo che la prova abbia per oggetto l’esistenza di un negozio per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam ,non è dettato da ragioni di ordine pubblico ma mira unicamente alla tutela di interessi privatistici e può formare oggetto di rinuncia anche tacita desumibile dal comportamento della parte contro la quale la prova è assunta( Cass. 16 aprile 71, n.1087, 15 ottobre 75, èn.3349, 10 luglio 80, 4396) e che non può non riconoscersi una rinuncia tacita allorchè sia lo stesso controinteressato a dedurre una prova per testi al di là dei limiti posti dall’art.2722 c.c.. enunciando così il principio che il limite di ammissibilità della prova testimoniale codificato dall’art.2722 c, .costituisce l’oggetto di un potere di eccezione che spetta esclusivamente alla parte ed all’esercizio del quale la parte stessa, può implicitamente rinunciare (potendo ravvisarsi tale rinuncia nell’aver chiesto l’ammissione della prova testimoniale).

La Corte osserva che nel caso sottoposto alla sua attenzione la limitazione di prova per testi non era invocabile perchè il documento era costituito da una scrittura proveniente da una sola parte contenente un atto unilaterale quale la dichiarazione fideiussoria sottoscritta su un modulo predisposto dall’istituto di credito e che il limite alla prova testimoniale, stabilito nell’interesse delle parti, era stato oggetto di rinuncia tacita tenuto conto che una prova testimoniale era stata espletata su un capitolo articolato dallo stesso Monte dei Paschi e con l’audizione di un suo direttore di agenzia( che aveva riferito di aver informato i garanti che con la sottoscrizione della fideiussione erano pure tenuti a garantire le precedenti esposizioni debitorie e non solo l’ampliamento del fido).

In ordine al termine in cui l’inammissibilità va dedotta e specularmente al termine entro il quale si ha decadenza o rinunzia alla relativa eccezione, valgono i principi relativi alla rilevabilità delle nullità relative di cui all’art.157 cpc per cui la questione della inammissibilità non è rilevabile di ufficio né dopo l’espletamento della prova né può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità(Cass.23349/75) Ci si chiede se con il regime di preclusioni, introdotto dalla novella del 90 , il tempo per la spendita dell’eccezione di inammissibilità possa ora essere individuato in quello assegnato per la deduzione della prova contraria e quindi nel secondo termine di cui all’art.184 cpc.

A tali divieti fanno eccezione le tre ipotesi contemplate dall’articolo 2724 c.c.(1, principio di prova per iscritto,2 impossibilità materiale e giuridica di procurarsi una prova scritta 3 perdita incolpevole del documento che forniva la prova).

Affinchè la prova testimoniale sia ammessa in deroga ai limiti sanciti dagli artt 2721-2723 c.c è necessario che la parte richiedente deduca e dimostri la sussistenza di una delle tre ipotesi previste dall’art.2724 c.c. non potendo il giudice rilevarle d’ufficio nè ravvisarne una diversa da quella indicata dalla parte.

Perchè sussista il principio di prova scritta a norma dell’art.2724 c.c è necessario che la scrittura di riferimento provenga dalla persona contro cui è fatta valere o da un suo rappresentante(Cass.24 gennaio 92,n.802)(ad esempio dalla

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persona contro cui la domanda di accertamento della simulazione è principalmente diretta Cass .11 agosto 97,n.7470)e che esista un nesso eziologico tra lo scritto ed il fatto controverso - dal quale scaturisca la verosimiglianza di quest’ultimo, non essendo sufficiente un vago riferimento ad esso contenuto nel documento- mentre è necessario che lo scritto concerna non direttamente il fatto da provare ma un fatto diverso da quello che si vorrebbe sovvertire con la prova testimoniale(Cass. 22 marzo 90 ,n.401, 7 aprile 98 n.3583).( ad esempio, proposta domanda di risoluzione di un contratto di locazione per morosità del conduttore, costituirebbe principio di prova scritta la ricevuta di pagamento trimestrale del canone di locazione rispetto al patto orale di pagamento con cadenza trimestrale, posteriore al contratto originario e contrario al patto in questo contenuto di pagamento mensile della pigione).

Il principio di prova scritta non può essere desunto dallo stesso atto impugnato: quando per il negozio non è prevista la forma scritta, il documento contenente la dichiarazione non sottoscritta dalle parti, comunque inidoneo a valere come scrittura privata, costituisce principio o elemento di prova scritta(Cass.29.3.92,n1936) che può anche essere desunto da lettere o documenti provenienti dalla controparte(Cass.29 aprile 80,n.2833).

Invece per Cassazione 23 luglio 98 n.7209 , ai fini dell’ammissibilità della prova testimoniale ai sensi dell’art. 2724, 1 comma c.c. la prova, pur incompleta, deve corrispondere al requisito indispensabile della scrittura privata e perciò essere munita della sottoscrizione del soggetto da cui proviene. Così per Cassazione.26 gennaio 87. n.720 non costituisce principio di prova scritta una bozza contrattuale priva delle sottoscrizioni delle parti .

Il giudizio in ordine all’attitudine degli scritti a rendere verosimile il fatto allegato (perchè comprovante la causa simulandi) si risolve in un apprezzamento di fatto che , se sorretto da motivazione adeguata ed immune da qualsiasi vizio logico,non è in alcun modo suscettibile di sindacato in sede di legittimità(vedi per Cass. 7470/97 che-in un caso di simulazione relativa in cui l’apparenza non atteneva alla titolarità del diritto di proprietà dell’immobile bensì al carattere oneroso anzichè gratuito del negozio di trasferimento intercorso tra i contraenti- ha ritenuto ravvisabile il principio di prova scritto in un testamento olografo preso in considerazione dai giudici di merito perchè comprovava inequivocabilmente l’intento di liberalità che animava la testatrice nei confronti dell’istituito e che illuminava la causa simulandi dell’apparente contratto di vendita dissimulante in realtà una donazione ).

Per i contratti per i quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem l’ipotesi di cui all’art,2724 n.3 (perdita incolpevole del documento) è l’unica nella quale, in deroga al’art.2725 c.c., sia ammessa la prova testimoniale e quindi per presunzioni ex art.2729 c.c.;in tutte le altre ipotesi la prova testimoniale non è ammessa salvo che non abbia finalità meramente interpretative del contratto intese a chiarire la volontà contrattuale in relazione all’ambito soggettivo delle diverse pattuizioni come ad esempio per la esatta identificazione e localizzazione dell’immobile oggetto del contratto ovvero qualora il contratto sia invocato solo come mero fatto storico( ad esempio dal mediatore che afferma la conclusione del contratto di compravendita immobiliare per ottenere la provvigione in relazione alla conclusione dell’affare) e non come fonte regolatrice del rapporto controverso.

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Il regime probatorio dettato dall’art.2725 c.c.per i contratti per i quali la forma scritta sia richiesta ad substantiam ovvero ad probationem ,pur conformandosi ai comuni limiti sopra richiamati, si atteggia tuttavia diversamente:

Per i primi(forma scritta ad substantiam)i limiti all’ammissibilità della prova testimoniale sono dettati per ragioni di ordine pubblico per cui la mancata produzione del documento,unico mezzo di prova- a parte l’eccezionale ipotesi di cui all art.2724 c.c- è rilevabile d’ufficio in qualsiasi grado e stato del procedimento anche in sede di legittimittà(Cass.Civ.10 aprile 90,n.2988)

per i secondi(forma scritta ad probationem) le limitazioni probatorie operano solo quando le parti non siano d’accordo sull’esistenza ed il contenuto del contratto giacchè il requisito della forma scritta non concerne l’esistenza del contratto ma solo la prova di questo;non operano quindi quando la conclusione ed il contenuto del contratto siano pacificamente ammessi;inoltre poichè le limitazioni all’ammissione della prova testimoniale sono dettate non per ragioni di ordine pubblico ma a tutela di interessi privati, la loro violazione non può essere rilevata d’ufficio ma soggiace al regime delle nullità relative per cui occorre che la parte si opponga all’ammissione della prova prima del suo espletamento e l ‘inammissibilità deve poi essere eccepita dalla parte interessata nella sua prima difesa o istanza successiva a norma dell’art.157,secondo comma c.c.

Occorre dunque la preventiva opposizione, in mancanza della quale, la doglianza successiva all’espletamento della prova deve ritenersi tardiva rendendo la prova definitivamente acquisita al processo; per evitare tale effetto non è sufficiente tuttavia la sola preventiva opposizione occorrendo che la relativa eccezione sia proposta nella prima istanza o difesa successiva all’espletamento della prova,in difetto sanandosi definitivamente la nullità relativa;l’eccezione deve poi essere riproposta in sede di precisazione delle conclusioni,rimanendo altrimenti preclusa la sua proposizione sia in appello che in cassazione, dovendosi ravvisare una rinuncia tacita a far valere l’inammissibilità della prova;inoltre, se le limitazioni all’ammissione della prova testimoniale e per presunzioni valgono comunque, salvo l’ipotesi di perdita incolpevole del documento,la confessione, il giuramento e l’interrogatorio, a differenza dei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam, sono sempre ammessi. Cassazione 12 maggio 1999, nn.4690 ricalca tale criterio interpretativo affermando che in tema di prova testimoniale dei contratti, il principio per cui le nullità riguardanti l’ammissione e l’espletamento della prova in violazione degli articoli 2721 e seguenti c,c hanno carattere relativo, onde , non essendo rilevabili d’ufficio restano sanate se non eccepite dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi cosi come prescritto dall’art.157 cpc trova ovvia deroga soltanto nel caso in cui la scrittura sia imposta dalla legge a pena di nullità e cioè non per la prova ma per l’esistenza stessa del contratto :nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza dei giudici di merito che in base a prove testimoniali aveva deciso nel senso che si era concluso un contratto di affitto di un autorimessa attrezzata: in relazione all’affitto di azienda infatti la scrittura è richiesta ad probationem tantum e non ad substantiam e sempre che il contratto sia riferibile ad un impresa soggetta a registrazione . Tale pronuncia si conforma all’indirizzo prevalente ancorchè non univoco della giurisprudenza di legittimità: secondo Cassazione del’8-3- 97 n.2101 infatti l’inammissibilità di una prova testimoniale per contrasto con le norme che la vietano ( art.2722 -2725 cpc) non è sanata dalla

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mancata tempestiva opposizione della parte interessata perchè la sanatoria per acquiescenza riguarda soltanto le decadenze e nullità previste per la prova testimoniale dall’art.244 cpc ( modalità di deduzione ed assunzione della prova, indicazione dei testimoni e loro capacità a testimoniare)e non anche la prova testimoniale erroneamente ammessa, conseguentemente la relativa eccezione può anche essere utilmente formulata anche dopo l’espletamento della prova vietata( nella specie con i motivi di appello mentre l’assunzione era avvenuta in primo grado).La sentenza de qua sembra propendere per la tesi della rilevabilità ex officio dei limiti sostanziali di ammissibilità della prova testimoniale sia quando la forma scritta sia richiesta ad substantiam che ad probationem: il patto da provarsi con testimoni per cui la prova testimoniale era stata ritenuta inammissibile dal giudice di appello ( Corte di appello di Napoli) riguardava infatti i limiti e le condizioni relative alla corresponsione di un compenso professionale per un attività di progettazione e direzione ad un tecnico designato dall’assemblea dei condomini per l’eliminazione dei danni prodotti all’edificio dal sisma del’80 e quindi un patto contrario o aggiunto al contenuto del verbale assembleare e la corte di appello aveva ritenuto inammissibile la prova nonostante la manata eccezione dell’avversario ; La Corte Suprema ha confermato la sentenza osservando che la deliberazioni condominiali devono risultare in forma documentale ad subastantiam quando la delibera incide su diritti reali immobiliari e ad probationem in tutti gli altri casi ( cassazione 30.5.78 n. 2747 e 24.7.76 n.2969 )e che l’inammissibilità della prova non poteva ritenersi sanata dalla non opposizione al suo espletamento; la sanatoria riguarda solo le nullità e decadenze previste dall’art.244 cpc, modalità di deduzione ed assunzione della prova, indicazione dei testimoni e loro capacità a testimoniare e non anche la prova testimoniale erroneamente ammessa( v. anche cassazione 23.8.1986 n.5143).

Al regime della rilevabilità ad istanza di parte soggiace la violazione dei divieti probatori di cui all’art.2726 c.c a proposito della remissione del debito e del pagamento, atti negoziali unilaterali cui si applicano le limitazioni probatorie di cui agli art.2721 c.c e seguenti che riguardano i contratti e che non sono estensibili invece agli altri atti unilaterali a contenuto patrimoniale quali la disdetta e la ricognizione di debito.

Secondo cassazione 8 giugno 2004 n.1089 i limiti della prova testiminiale posti dagli artt.2721 e 2726 cc non si applicano quando si ratat di provare un versamento di somme fatto senza causa e la prova appaia ampia e circostanziata sia in ordine al fatto in sè che all individuazione della persona che ne ha tratto benficio

Lascia perplessi l’ipotesi della rilevabilità ex officio della inammissibilità della prova testimoniale nei casi in cui sia questa rivolta a dimostrare l’esistenza ed il contenuto di un contratto in tutte quelle ipotesi di fattispecie negoziali in cui i requisiti formali siano predisposti a tutela del contraente debole( locazioni, contratti conclusi dai consumatori fuori dai locali dell’impresa o a distanza, multiproprietà). Quid iuris quando il contraente “debole” non faccia valere la nullità, la prova potrà essere ammessa e se ammessa utilizzata ? Prendiamo ad esempio il caso della multiproprietà che si atteggia talora anche come diritto personale di godimento dell'immobile e dei servizi comuni per una determinata frazione spazio-temporale (come ad esempio nel caso della multiproprietà azionaria o alberghiera) in cui il requisito della forma scritta non deriva quindi dal disposto dell’art.1350 c.c. -non comportando il trasferimento di un diritto reale ma l’acquisizione di un diritto

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personale di godimento di tipo collettivo turnario a favore di un certo numero di soggetti- ma dalla espressa disciplina dettata dal decreto legislativo 9.11.98 n.427 “attuazione della direttiva 94/47 Ce del 26 ottobre 1994 concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili”.25 L’intento perseguito dal legislatore comunitario e da quello nazionale è senza dubbio quello di apprestare la massima tutela al consumatore comunitario e permea l’intera normativa. La legge 24 aprile 1998 n.128 , recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europea, cosiddetta legge comunitaria 1995-1997 aveva previsto all’art.41 che l’attuazione della suddetta direttiva fosse ispirata ai seguenti criteri di delega: consegna all’acquirente di un documento informativo il più dettagliato possibile, redazione del contratto per iscritto, possibilità per l’acquirente dell’esercizio del diritto di recesso senza alcuna penalità, risoluzione di diritto dell’eventuale contratto di concessione di credito nell’ipotesi di recesso, inefficacia delle clausole contrattuali o dei patti aggiunti di rinuncia ai diritti dell’acquirente o di esonero di responsabilità del venditore, sanzioni per l’operatore commerciale nell’ipotesi di violazione del decreto delegato, obbligo del venditore di fornire garanzie patrimoniali di tipo fideiussorio bancario o assicurativo per l’ultimazione dei lavori di costruzione del bene immobile in favore dell’acquirente, previsione di un foro territoriale inderogabile nelle ipotesi di controversie derivanti dall’applicazione delle norme del decreto delegato. In sede di trasposizione della 25 La legge 128/98 non offre una definizione del contratto di multiproprietà né individua una precisa natura giuridica del diritto oggetto del contratto limitandosi a definirlo come l’accordo – di efficacia minima triennale – con il quale a fronte del pagamento di un determinato prezzo una parte costituisce o trasferisce a favore dell’altra un diritto reale ovvero un altro diritto avente ad oggetto il godimento di un bene immobile per un periodo determinato o determinabile dell’anno, non inferiore ad una settimana ( vedi relazionde al decreto legislativo 427/98) e con il suo ampio riferimento al trasferimento di diritti reali o di godimento intende ricomprendere nell’ambito applicativo della nuova discliplina le diverse forme di multiproprietà offerte dall’esperienza contrattuale come la multiproprietà azionaria , residenziale e alberghiera: la prima è regolata da due contratti ( sottoscrizione delle azioni e contratto attributivo di un diritto personale di godimento) che sottendono e disciplinano due diverse operazioni economiche e due diverse scelte negoziali, l’acquisto della qualità di socio con i diritti ed i doveri tipici ad essa inerenti ed il conseguimento di un diritto personale di godimento su una frazione spazio temporale del bene appartenente alla società da cui scaturiscono tutte le altre situazioni soggettive attive e passive con un collegamento funzionale tra i due contratti che rende reciprocamente interdipendenti le vicende modificative o estintive dell’uno o dell'altro ,Corte di Appello di Venezia del 30.6.94, Tribunale di Belluno del 7.3.90. la vendita di azioni incorporanti il diritto di multiproprietà non comporta né la costituzione né il trasferimento a titolo oneroso di diritti reali ma solo del diritto al godimento turnario del’immobile collegato alla titolarità di azioni ovvero di una quota di partecipazione alla società. Appello Roma 12.5.86 Diversa la cosiddetta multiproprietà immobiliare a scopo residenziale caratterizzata dal godimento collettivo turnario a favore di un numero determinato di soggetti identificati in modo da garantire a ciascuno, per le esigenze più varie ,lo scopo turistico, di soggiorno e di riposo per un periodo di tempo ed in un unità immobiliare predeterminata ,contrassegnata dalla contitolarità di concorrenti diritti di proprietà che rappresenta una figura di condominio su cosa indivisibile (Trib. di Napoli 21.3.89 ). Con la prima si acquista un diritto di godimento turnario dell’immobile collegato alla qualità di socio in base alla titolarità di azioni o quote di partecipazione( multiprpeetà azionaria diretta) ovvero ad un apposita convenzione tra i soci( multiproprietà azionaria indiretta),ma la proprietà del’immobile rimane alla società, nella secondo si acquista la quota di proprietà dell’immobile indiviso secondo il regime proprio delle cose comuni e quindi un diritto reale. Infine nella multiproprietà alberghiera il godimento non è diretto ma esercitato attraverso un gestore, appunto un impresa alberghiera che offre servizi di tipo alberghiero. Il decreto legislatovo sembra ricomprendere con l’ampia locuzione di cui all’art1 i menzionati schemi contrattuali limitandosi a prevedere che il termine multiproprietà possa essere utilizzato dal venditore , nel documento informativo, nel contratto e nella pubblicità commerciale solo quando il diritto oggetto del contratto sia un diritto reale ed escludendone l’uso negli altri casi ( articolo 4 , 1 comma,del dl)

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direttiva nel diritto interno il legislatore nazionale nell’esercizio della delega si è attenuto a tali criteri ispirandosi alla massima protezione del consumatore con la previsione addirittura della possibilità di recesso ad nutum- ignota ai contratti concernenti beni immobili ad eccezione del comodato precario- con divieto del venditore di esigere dall’acquirente somme a qualsiasi titolo fino alla scadenza del termine per l’esercizio del diritto di recesso .Ci si chiede allora se ad esempio difetti il requisito della traduzione di cui all’art.3 ( traduzione nella lingua italiana ed in una delle lingue dello Stato membro in cui risiede l’acquirente o a scelta di quest’ultimo nella lingua o in una delle lingue dello stato di cui egli è cittadino purchè si tratti di lingue ufficiali dell’unione europea) ovvero quello della menzione della fideiussione nel contratto, prescritto a pena di nullità dal’art.7, secondo capoverso del decreto legislativo, e nessun rilievo venga sollevato dall’acquirente alla cui protezione è destinata la prescrizione ,se la prova possa ritenersi ammissibile ovvero se debba rilevarsene ex officio la inammissibilità.

Non può farsi ricorso alla prova testimoniale per surrogare la mancanza di certificazioni per le quali sia prevista una forma tipica. Un ordinanza del Pretore di Verona del 25 settembre 97 dichiara l’inammissibilità della prova testimoniale volta a dimostrare che un atto difensivo sia stato depositato tempestivamente in cancelleria, sebbene del deposito non si rinvenga certificazione del cancelliere né altra traccia negli atti del processo.: Osserva in particolare il Pretore che il cancelliere è l’organo che svolge, in via esclusiva, alcune funzioni determinate assegnategli dalla legge nell’ambito del processo con particolare riguardo ai compiti di certificazione e di custodia e tra le funzioni sue proprie annovera quella di provvedere alla documentazione dell’attività giurisdizionale, di redigere i processi verbali e di ricevere le costituzioni in giudizio.

Le certificazioni pertanto che a qualsiasi titolo il cancelliere effettua nell’ambito del processo devono ritenersi espressione di una funzione di sua pertinenza esclusiva e non possono quindi ritenersi superabili da prova (costituenda )che, in senso contrario, le parti possano dare, poiché l’eventuale non corretto esercizio dei poteri doveri che gli organi processuali dovessero porre in essere non trova nel nostro ordinamento rimedio all’interno del processo stesso..

In ultimo -stante la frequente applicazione dell’istituto- giova ricordare i limiti di ammissibilità della prova per testi nella simulazione La disciplina è dettata dall’art.1417 c.c.

la prova per testimoni è ammessa senza limiti se questa è fatta valere dai creditori o dai terzi.

sono considerati terzi: il successore a titolo particolare delle parti contraenti a meno che sia stato a

conoscenza della simulazione ed abbia accettato la realtà definita dai contraenti nei loro rapporti;

il legittimario che agisce iure proprio esperendo insieme all’azione di simulazione,un’azione diretta alla reintegra della quota di riserva contro gli atti lesivi posti in essere dal de cuius nei confronti di altro erede o di terzo estraneo;

se l’erede agisce invece come semplice successore mortis causa,subentra nella medesima posizione giuridica del de cuius restando soggetto alle medesime limitazioni probatorie quand’anche la domanda di simulazione sia preordinata alla proposizione di un’azione di riduzione in separato giudizio;

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Ai fini della prova della simulazione di una vendita fatta dal de cuius, il legittimario può quindi essere considerato terzo solo quando, contestualmente all’azione di simulazione, sulla premessa che l’atto simulato comporti una diminuzione della sua quota di riserva ,proponga una domanda di riduzione della donazione dissimulata diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell’asse ereditario e che la quota spettantegli va calcolata tenendo conto del bene stesso: Per contro l’erede quando si limita a chiedere l’accertamento della simulazione, al fine di acquisire il bene all’asse ereditario per conseguire anche la quota disponibile, senza proporre la domanda di reintegrazione della quota di riserva, sul terreno dell’accertamento probatorio resta vincolato alla posizione del de cuius, nei cui rapporti subentra.(Cass 21 aprile 98 4024).

il curatore fallimentare che agisce per la riacquisizione alla massa fallimentare degli atti di alienazione posti in essere dal fallito;

il curatore assomma infatti in sè la rappresentanza del fallito e la legittimazione attribuita ai creditori del simulato alienante per cui può dedurre senza limiti la prova per presunzioni e per testimoni;

tra le parti è ammessa senza limiti quando è volta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato,prevalendo l’interesse pubblico alla scoperta ed alla repressione dell’illecito(Cass. 27 settembre 94,n.7878)(si pensi ad una vendita con patto di retrovendita dissimulante un mutuo usurario con patto commissorio vietato) valendo altrimenti le ordinarie limitazioni probatorie di cui agli art.2721 -2726 c.c.

L’accordo simulatorio rappresenta infatti un patto aggiunto o contrario al contenuto del contratto, di cui si allega che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea sicchè la prova testimoniale,in base al divieto sancito dell’art.2722 cc., non è ammissibile come pure quella per presunzioni e le parti hanno l’onere di munirsi di una controdichiarazione scritta..( Cassazione n.2633 del 16 settembre 1999 ancora una volta ribadisce che nella simulazione è inammissibile la prova testimoniale, in relazione all’esistenza di patti contrari al contenuto di un documento ove anteriori o coevi allo stesso).La domanda di simulazione qualora tenda all’accertamento di un negozio dissimulato non illecito incontra gli stessi limiti della prova testiminiale per cui se il contratto simulato è stata redatto per iscritto la prova per testi non è ammessa contro il contenuto del documento risolvendosi l’accordo simulatorio in un patto contrario contestuale alla conclusione del contratto simulato; l’anzidetto divieto si applica pertanto ai documenti contrattuali formati con l’intervento di entrambe le parti e non anche alle scritture provenienti da una sola parte o da un terzo come la bolla di consegna della merce o la fattura formata unilateralmente dal venditore dopo la conclusione del contratto ( cassazione sezione III 4 12.2002 1790

nella simulazione assoluta, oggetto della prova è l’inesistenza del contratto e l’accordo simulatorio non ha natura contrattuale ma solo ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparente per cui -non rientrando tra i negozi per i quali la forma scritta è richiesta ad substantiam o ad probationem -la prova testimoniale dell’accordo è ammessa in tutte le tre ipotesi di cui all’art.2724 c.c (e non solo nell’ipotesi di cui al numero 3)senza che vengano in considerazione i limiti più restrittivi di cui all’art.2725 c.c.e sono sempre ammissibili l’interrogatorio formale, il giuramento e la confessione.

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la simulazione assoluta può essere provata anche solo tramite indizi o presunzioni(Cass. 8 ottobre 93,n.9979).

nella simulazione relativa la controdichiarazione in cui deve essere consacrato l’accordo simulatorio rappresenta un vero e proprio contratto(il contratto dissimilato)e quindi deve rivestire la eventuale forma solenne richiesta ad substantiam dall’art.1350 c.c.;(assai frequenti nell’esperienza applicativa i casi di azioni di simulazione intese ad accertare la natura di atto di liberalità di un contratto di compravendita sovente ai fini della collazione ereditaria ovvero dell’esperimento dell’azione di riduzione).

Quando per l’accordo simulatorio è richiesto quest’ultimo requisito di forma in relazione alla tipologia del contratto in cui si risolve l’accordo stesso la prova testimoniale è ammessa solo nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento(art.2724,n,3) e non sono ammessi la confessione, l’interrogatorio formale ed il giuramento.

La prova della simulazione del prezzo della vendita integra un ipotesi di simulazione relativa parziale e non incontra tra le parti i limiti dettati dall’art.1417 c.c.(Cass. 24 aprile 96 n.3857 e 24 luglio 97, n.6933).L’accordo simulatorio investe solo uno degli elementi del contratto e cioè il prezzo mentre il contratto conserva inalterati gli altri suoi elementi;ad eccezione di quello interessato alla simulazione ;il negozio non è infatti nullo nè annullabile ma soltanto inefficace inter partes e gli elementi negoziali interessati dalla simulazione possono essere sostituiti o modificati ad integrationem con quelli effettivamenti voluti dai contraenti.

. La prova per testimoni del prezzo effettivo della vendita, non si imbatte quindi tra alienante ed acquirente, nei limiti di cui all’art.1417 c.c e non contrasta con il divieto posto dall’art.2722 c.c. in quanto la pattuizione di celare una parte del prezzo o comunque di indicare in contratto un prezzo diverso da quello reale concordato, non può essere equiparata- per la mancanza di una propria autonomia strutturale o funzionale- al contratto dissimulato ma ha natura e scopo semplicemente integrativi , sicchè ben può risultare anche da prove testimoniali e presunzioni(Cass. 88/256 e per ultimo Cassazione,sezione seconda civile 26 febbraio / 5 ottobre 1999 n.11055)

Contra Pretura di Pesaro del 4 maggio 1998 che, ha dichiarato inammissibile per contrasto con il combinato disposto degli artt.1417 e 2722 c.c una prova testimoniale relativa alla simulazione relativa parziale attinente al prezzo della vendita( con il rigetto della domanda attrice perché del tutto indimostrata) muovendo dalla considerazione che la simulazione sia assoluta che relativa fanno capo ad un unico istituto, distinguendosi le due ipotesi unicamente sotto un profilo dimensionale e cioè. per la estensione della difformità tra volontà apparente ed intenzione delle parti per cui entrambe le fattispecie devono essere ritenute del tutto analoghe per disciplina, caratteristiche ed effetti con la loro conseguente soggezione ai limiti di ammissibilità della prova testimoniale ed in particolare alla regola di cui all’art.1417 c.c. Osserva al riguardo il Pretore che il disposto codicistico non distingue mai tra simulazione assoluta e relativa, circostanze che depone per una concezione unitaria dell’istituto della simulazione e che nel caso di simulazione relativa il mancato travolgimento del negozio realmente voluto dalle parti non deriva da una differenza ontologica tra le due fattispecie ma dall’applicazione del generale principio di cui all’art. 1419, 2 comma c.c.; argomenta ancora il Pretore che non può essere provata tra le parti facendo ricorso a testimoni la simulazione relativa all’oggetto del contratto così come non può essere provata tra le parti , se non nei limiti di cui all’art.1417 c.c, la simulazione relativa all’aspetto soggettivo ( interposizione fittizia di persona) né il ricorso alla prova testimoniale può trovare ingresso in forza dell’asserita illiceità della pattuizione dissimulata che, va definita con riferimento

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all’art.1418, 1 e secondo comma c.c mentre .per costante orientamento giurisprudenziale non ricorre nel caso di evasione di un obbligo fiscale ( occultamento del corrispettivo).

Resta tuttavia fermo il divieto di prova testimoniale per l’acquirente di un bene convenuto in giudizio in revocatoria dal fallimento del venditore che intenda provare l’avvenuto pagamento di una somma superiore a quella indicata nel contratto che ha l’onere di provare l’esistenza del patto aggiunto o contrario al contratto anteriore o contestuale allo stesso, attraverso un documento di data certa che non solo dimostri l’avvenuto pagamento, ma che consenta anche per il suo contenuto, di ricollegare l’atto solutorio al negozio di cui costituirebbe esecuzione(Cass.2097/92).

Nel senso che le limitazioni previste dall’art.1417 c.c alla prova testimoniale tra le parti sono poste a tutela degli interessi privati e,possono quindi formare oggetto di rinuncia anche tacita Cass.22 maggio 97 n.4564 e 19 febbraio 97 n.1538.

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Modalità di assunzione della prova L’art.206 sancisce il diritto delle parti di assistere personalmente

all’assunzione dei mezzi di prova; Da tale fondamentale diritto che ,in conformità del principio sancito dall’art.24 della Costituzione,

costituisce estrinsecazione del diritto al contraddittorio nell’ammissione e nella assunzione della prova, possono talora derivare inconvenienti sul piano pratico perché le parti che sono protagoniste del processo, in sede di libero interrogatorio, talora dimenticano che la loro presenza alle udienza istruttorie è limitata ad una partecipazione silenziosa all’assunzione delle prove e che qualunque rilievo osservazione o intervento nell’ambito dell’espletamento delle prove che vengono assunte in udienza , deve passare attraverso la mediazione dei procuratori.

La parte non ha infatti lo ius postulandi se non assistita e difesa dal suo procuratore. Ne deriva che:

- qualunque osservazione , domanda o chiarimento al teste o all’interrogato va rivolta al giudice tramite il procuratore costituito ( l’art.84 delle disp. Disp att. chiarisce che in udienza le parti possono interloquire se autorizzate a farlo , dal giudice a mezzo dei loro difensori –ed ancora l’art.97 delle disposizioni di attuazione sancisce per il G.i il divieto di ricevere private informazioni sulle cause pendenti dinanzi a sè nonché memorie se non depositate in cancelleria : ai sensi dell’art.97 citato le istanze rivolte al g.i dalle parti direttamente dovrebbero quindi essere dichiarate irricevibili ed archiviate);

- l’assistenza alla prova non equivale a costituzione ed anzi secondo un certo orientamento, fuori dei casi in cui è ammessa la comparizione personale della parti, la facoltà di assistere personalmente all’assunzione della prova spetterebbe solo alle parti costituite;

- la presenza personale della parte non fa venir meno l’onere di comparizione del procuratore costituito, sanzionato dalla decadenza di cui all’art.208 cpc , a parte le conseguenze comminate dall’art.309 cpc;

- Nel caso di indebita interferenza delle parti nello svolgimento dell’attività

istruttoria che si svolge in udienza o comunque dinanzi al giudice fuori udienza(ad esempio ispezione giudiziale o esperimento giudiziale) il g.i che esercita i poteri di polizia delle udienze può farsi assistere dalla forza pubblica in base all’art.68, 3 comma cpc che include tale disposizione tra quelle relative agli ausiliari del giudice.

Ai sensi del’art.128, 2 comma il giudice nell’esercizio di tali poteri di polizia per il mantenimento dell’ordine e del decorro può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni. Tale potere definito per la udienza pubblica si ritiene pacificamente esercitabile anche in tutte le altre udienze.

Da notare che la disposizione è rivolta indistintamente a chi contravviene alle prescrizioni del giudice , quindi in casi estremi ove in udienza dovessero verificarsi fatti incresciosi, che turbino l’ordine ,(ad esempio un diverbio tra avvocati che superi i limiti di una civile seppur aspra polemica) l’ordine di allontanamento dall’aula può essere rivolto anche a loro.

L’art. 89 secondo comma vieta infatti ai difensori di usare espressioni sconvenienti ed offensive non solo negli scritti ma anche nei discorsi pronunciati dinanzi al giudice ma la sanzione della cancellazione si applica ovviamente solo all’ipotesi degli scritti difensivi donde eventuali espressioni gravemente sconvenienti dovranno essere sanzionate con l’allontanamento dall’aula ed in casi di particolare

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gravità segnalate all’autorità che esercita l’azione disciplinare art.88 ultimo comma(consiglio dell’ordine competente).

L’udienza istruttoria non è pubblica a norma dell’art.84 delle disp.at. e pertanto alla stessa devono assistere solo le parti, che devono assistere all’udienza in silenzio salvo che non ottengano dal giudice a mezzo dei loro difensori l’autorizzazione ad interloquire.

E’ invece pubblica( pubblicità di fronte ai terzi e pubblicità tra le parti) a pena a di nullità, ( che si ritiene però soggiaccia al regime delle nullità relative) l’udienza di discussone dinanzi al collegio in forza dell’espressa previsione dell’art.128 cpc nonchè dall’art.6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali , resa esecutiva con legge 848/55 e dell’art.14 del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici approvato dall’ONU il 16.12.66, reso esecutivo con la legge 88/77( discussione regolata dall’art.275, per la cause con riserva di collegialità e dall’art.190 bis per quelle attribuite al giudice unico).

In ordine al comportamento di chi interviene o assiste all’udienza istruttoria (parti e loro difensori, ausiliari del giudice) valgono le prescrizioni di cui all’art.129 cpc per cui se i moderni sistemi di sicurezza dovrebbero escludere che le parti portino armi o bastoni e se le diverse condizioni climatiche possono giustificare che vadano a capo coperto, è assolutamente esigibile, durante l’espletamento delle prove una partecipazione silenziosa e composta delle parti..

Il secondo comma dell’art.129 cpc infatti vieta di fare segni di approvazione o disapprovazione (sia verbali che mimici) e cagionare disturbo. Il rispetto di tale disposizione ,specie con riguardo alla prova testimoniale appare di fondamentale importanza giacchè i suggerimenti delle parti -o peggio dei difensori- minano la genuinità della prova , inoltre un clima di confusione e di tensione verbale mette a disagio anche il teste più sincero disorientandolo oltre a nuocere gravemente al decoro dell’udienza e quindi della funzione giurisdizionale.

Non è questa la sede per approfondire i profili psicologici dell’assunzione della prova, tuttavia è un dato che scaturisce dalla comune osservazione dell’esperienza quotidiana che nel contatto con le aule giudiziarie e con l’udienza il teste, specie se di modesta levatura culturale e sociale , sebbene munito delle migliori intenzioni, affronta un momento di forte tensione emotiva ( specie i soggetti più anziani o in condizione di maggiore debolezza che per la loro condizione sociale si trovino ad affrontare una situazione di difficoltà relazionale :si pensi ad esempio ai disabili o a coloro che siano abituati a parlare solo il dialetto) per cui se da un canto è compito del giudice assumere un atteggiamento cortese -seppur non eccessivamente familiare- ( da cui soprattutto traspaia la sua assoluta equidistanza dalle parti )che valga a rendere sereno il più possibile il teste e usare un linguaggio consono alla personalità del teste che -ove necessario- deve essere estremamente semplificato e scevro quanto più possibile, da tecnicismi- è anche necessario che la direzione dell’udienza avvenga con la dovuta autorevolezza , in un clima di ordine e di reciproco rispetto , per dare intanto al teste contezza della importanza e dignità del dovere civico cui è chiamato e per evitare dannosi disorientamenti e stati di confusione con la compromissione della genuinità e attendibilità della prova.

Pertanto oltre all’ammonimento di cui all’art.251 cpc sulle conseguenze penali delle deposizioni false e reticenti sarà opportuno avvertire il teste che deve rispondere solo alle domande del giudice e non instaurare alcun colloquio con altri(

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quindi mai alle domande che talora più o meno distrattamente gli avvocati rivolgono al teste direttamente ).

Infatti a norma del secondo comma dell’art.253 cpc è vietato alle parti ed al Pm (nei procedimenti in cui è previsto il suo intervento) di interrogare direttamente i testimoni.

In concreto nei non isolati casi in cui le parti interloquiscano, seppur non autorizzate dal giudice a norma dell’art.84 delle disposizioni di attuazione cpc durante l’assunzione della prova con cenni di approvazione o disapprovazione o tentando di instaurare con il dialogo con il teste sarà opportuno- previo ammonimento- ove si ripetano tali incidenti allontanarli dall’aula dando però atto a verbale del provvedimento adottato: sia perché occorre registrare l’effettivo andamento dell’udienza sia perché è indispensabile segnare i punti dell’esame testimoniale dove la deposizione potrebbe essere inficiata dal suggerimento pervenuto A norma dell’art.44 delle disp. Att. Cpc il processo verbale deve infatti riportare tutta le attività compiute dal giudice e dal cancelliere e quelle delle persone intervenute nell’atto. Il processo verbale di assunzione della prova, ai sensi dell 3 comma dell’art.207 cpc deve , ove opportuno(come certamente è nel caso di indebite interferenze delle parti in sede di assunzione della prova) descrivere il contegno della parte e dei testimoni.

Ai sensi dell’art.231 cpc e dell’art’art.253 , 3 comma cpc sia la parte in sede di interrogatorio formale che il teste, in deroga al principio generale per cui non possono servirsi di scritti preparati( che mira a salvaguardare la genuinità della risposta) possono essere autorizzate dal giudice istruttore ad utilizzare appunti o note quando facciano riferimento a nomi o cifre o quando particolari circostanze lo consiglino. Non vedo ostacoli all’applicazione di tale disposizioni, nei limiti indicati , anche all’assunzione dell’interrogatorio libero

Il processo verbale a norma del’art.44 cpc deve essere compilato anche per tutte le attività che si svolgono fuori dalle aule di udienza ispezione giudiziale, esperimento giudiziale, assunzione di teste a domicilio, esame dell’intedicendo presso il luogo di cura.: è redatto dal cancelliere sotto la direzione del giudice; ai sensi dell’art.130 cpc e dell’art.207 cpc in tema di processo verbale di assunzione della prova;l’assenza del cancelliere non è tuttavia causa di nullità del processo verbale ma determina una semplice irregolarità essendo il processo verbale comunque idoneo al raggiungimento dello scopo cui è destinato ai sensi dell’art.156 cpc( la presenza del cancelliere è tuttavia indispensabile in sede di autorizzazione alla presentazione della querela di falso per gli adempimenti di cui all’art.223 cpc sul processo verbale di deposito del documento impugnato).

Sotto il profilo dei requisiti formali , a norma del’art.46 il processo verbale deve essere redatto in modo chiaro e leggibile senza spazi in bianco ed abrasioni, eventuali aggiunte e modifiche (per errori od omissioni materiali verificatisi nel corso della verbalizzazione) devono essere controsiglate ed apposte in calce con note di richiamo senza cancellare la parte soppressa o modificata.

Per errori materiali od omissioni successivi alla verbalizzazione, non potendo applicarsi il procedimento di correzione degli errori materiali previsto dall’art.287 per le sentenze e per le ordinanze, il G.i , instaurato il contraddittorio tra le stesse parti e quindi richiamati i procuratori che erano presenti ed il cancelliere, il g.i potrà autorizzare la riapertura del verbale.

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I dichiaranti dovranno sottoscrivere ciascun foglio. Si discute se le parti debbano sottoscrivere le dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio a

seconda che alla redazione del verbale si ritenga applicabile la disciplina di cui all’art.130(processo verbale di udienza) ovvero quella di cui all’art.207 (processo verbale di assunzione) Data la valenza quantomeno indiziaria che le loro dichiarazioni possono assumere- come fonte di possibili argomenti di prova ai sensi dell’art.183, 1 e 2 comma e dell’art.116, 2 comma, cpc- opterei per la tesi affermativa : si dovrebbe altrimenti procedere alla lettura dell’intero verbale di cui , a norma dell’art.130 ultimo comma,di solito, non si dà lettura salvo istanza di parte.. Ove si ritenesse applicabile all’assunzione del libero interrogatorio la disciplina di cui all’art.207, come per l’esame testimoniale, le dichiarazioni delle parti andrebbero riportate in prima persona e lette al dichiarante che le sottoscrive, descrivendo, ove opportuno , il contegno della parte.

Giova ricordare che il valore probatorio delle risposte in sede di interrogatorio non formale non può che essere sussidiario e indiretto , meramente integrativo degli altri elementi raccolti ai fini del convincimento del giudice e semplice punto di partenza del ragionamento logico presuntivo, non potendo mai legittimare, in presenza di richieste istruttorie della parti, un provvedimento di chiusura dell’istruzione a norma dell’art.209 cpc, sulla scorta delle risultanze del libero interrogatorio, in quanto l’argomento di prova, per quanto persuasivo nella formazione del convincimento del giudice, non può mai consumare il diritto delle parti alla prova (Chiarloni) Se è pacifico che le dichiarazioni pro se abbiano una valenza probatorio minima, resta dubbia l’efficacia probatoria delle dichiarazioni contra se cioè ammissive di fatti sfavorevoli al dichiarante che , per l’espresso divieto di cui all’art.229 cpc non possono assumere valore confessorio (Cass. 1519 del 27.2.90 afferma che le dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio, che è istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di una funzione probatoria di carattere meramente sussidiario, non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art.229c cpc ma possono fornire al giudice solo elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite). Tuttavia si ammette che in materia di diritti disponibili le dichiarazioni della parte, a questa sfavorevoli, in sede di libero interrogatorio, valgano come confessione spontanea ove la dichiarazione sia resa in completa autonomia , quindi al di fuori delle risposte alle domande del giudice( e quindi in essa possa ravvisarsi l’animus confitendi, Proto Pisani, Redenti) e sia sottoscritta dalla parte (Cass.10 aprile 90, n.3035 afferma che una confessione spontanea è configurabile anche in sede di interrogatorio non formale, qualora risulti dal verbale che la dichiarazione della parte non sia stata provocata da una domanda del giudice ma resa autonomamente ed il verbale rechi la sottoscrizione personale della stessa parte, necessaria ai fini della prova della consapevolezza e volontà della dichiarazione, ossia, in sostanza del requisito della spontaneità (secondo tale orientamento le dichiarazioni contra se valgano comunque a far considerare al giudice pacifici i fatti ammessi in base ad un principio di non contestazione che rende estranei al thema controverso e quindi al thema probandum i fatti non contestati tra le parti.).

I testi prestano la solenne dichirazione di cui all’art.251 cpc . CORTE COSTITUZIONALE; sentenza, 05-05-1995, n. 149 È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 19 Cost., l’art. 251, 2° comma,

c.p.c.: a) nella parte in cui prevede che il giudice istruttore “ammonisce il testimone sull’importanza religiosa, se credente, e morale del giuramento e sulle”, anziché stabilire che il giudice istruttore “avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità e delle”; b) nella parte in cui prevede che il giudice istruttore “legge la formula ‘‘consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio, se

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credente, e agli uomini, giurate di dire la verità, null’altro che la verità’’”, anziché stabilire che il giudice istruttore “lo invita a rendere la seguente dichiarazione: ‘‘consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza’’”; c) nella parte in cui prevede: “quindi, il testimone, in piedi, presta il giuramento pronunciando le parole: ‘‘lo giuro’’. Con la decisione in rassegna ( Foro Italiano 95 con nota di Filippo Donati ) la Corte, dopo avere riconosciuto che il dovere di prestare il giuramento nel processo civile confligge con la libertà di coscienza del testimone la cui religione faccia divieto di giurare, ha dichiarato incostituzionale l’art. 251, 2° comma, c.p.c. ed ha sostituito la formula in esso contenuta con quella prevista dall’art. 497, 2° comma, c.p.p., che non prevede il giuramento del teste ma soltanto il suo “impegno” solenne a dire la verità.

Questa decisione rappresenta indubbiamente un ulteriore passo avanti verso la concreta realizzazione del “principio supremo di laicità dello Stato”.

Già la sentenza n. 117 del 1979 aveva rappresentato una decisiva svolta nella

giurisprudenza costituzionale “verso una concezione laica della libertà di coscienza” Con questa decisione la corte aveva chiarito che l’art. 19 Cost. garantisce anche la libertà di coscienza dei non credenti come aspetto “negativo” della libertà religiosa, ed aveva stabilito che la libertà di coscienza è violata ogni volta che sia imposto un obbligo generalizzato di compiere atti con significato religioso. Poiché tutti i giuramenti caratterizzati da una formula che prevede l’assunzione di un impegno di veridicità da assumere nei confronti di un Essere soprannaturale o supremo hanno almeno in parte significato religioso e ledono quindi la libertà di coscienza dell’ateo, la corte aveva stabilito che l’art. 251, 2° comma, c.p.c., nella parte in cui prevede l’assunzione di una responsabilità del teste “davanti a Dio”, deve essere integrato dall’inciso “se credente”. La corte aveva poi dichiarato, in via conseguenziale, l’illegittimità costituzionale degli art. 142 c.p.p. (ammonizione del giudice sul valore dell’atto prima dell’assunzione del giuramento), 316, 2° comma, c.p.p. (giuramento del perito), 329, 1° comma, c.p.p. (giuramento dell’interprete) e 449, 2° comma, c.p.p. (giuramento del testimone nel processo penale), aggiungendo l’inciso “se credente” anche alla formula di giuramento prevista da queste disposizioni.

Successivamente il quadro normativo di riferimento ha però subìto un’importante modificazione per effetto dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22 settembre 1988 n. 447), che ha sostituito la vecchia formula del “giuramento” del testimone con una di “impegno”, priva di riferimenti alla divinità. Una formula del genere, a differenza di quella del processo civile, tutela la libertà di coscienza anche dei testimoni la cui religione di appartenenza impedisce di pronunciare le parole “lo giuro”. Ad avviso della corte si è pertanto venuta a creare “una differente tutela del valore costituzionale della libertà di coscienza” a danno del testimone nel processo civile. Di qui una sentenza fortemente manipolativa che ha esteso anche al processo civile la formula dell’art. 497 c.p.p., relativa all’impegno solenne del teste a dire la verità.

. L’art. 497 c.p.p. è stato utilizzato quale tertium comparationis e la disciplina in esso contenuta è stata estesa alla testimonianza nel processo civile.

La Corte, già nella sentenza n. 234 del 1984, aveva riconosciuto l’incompatibilità della formula prevista dall’art. 251, 2° comma, c.p.c. con la libertà di

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coscienza del testimone la cui religione impedisce di giurare. In tale circostanza aveva però dichiarato inammissibile la questione perché “la decisione comportava una pluralità di soluzioni alternative, fra le quali soltanto il legislatore, nell’esercizio del suo insindacabile potere discrezionale, era autorizzato a scegliere”. Ciò significa che la formula dell’art. 251, 2° comma, c.p.c., benché riconosciuta lesiva della libertà di coscienza dei non credenti garantita dall’art. 19 Cost., non avrebbe potuto essere dichiarata incostituzionale se il legislatore non avesse provveduto, attraverso la modifica dell’art. 449 c.p.p., a determinare una disparità di trattamento tra il testimone nel processo civile ed il testimone nel processo penale. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge lesiva di un diritto fondamentale viene così a dipendere, paradossalmente, dall’intervento dello stesso legislatore cui è imputabile tale lesione.( L’esigenza di non invadere la sfera delle scelte riservate alla valutazione discrezionale del parlamento ha del resto indotto la corte a limitare l’emanazione di decisioni “additive” o “sostitutive” ai soli casi in cui la soluzione adeguatrice sia “univoca e costituzionalmente obbligata” )

La Corte ha ravvisato “una differente tutela del valore costituzionale della libertà di coscienza nei preliminari della testimonianza nei due distinti procedimenti” ed ha conseguentemente sanzionato “l’irragionevole disparità di trattamento in relazione alla garanzia della libertà di coscienza religiosa”.; la formula prevista dall’art. 251 c.p.c. lede dunque la libertà di coscienza del teste la cui religione impedisce di giurare. L’estensione della disciplina dell’art. 497, 2° comma, c.p.p. anche alle persone chiamate a testimoniare nel processo civile sembrerebbe dunque da interpretare come applicazione del principio secondo cui l’eguaglianza deve essere ripristinata attraverso il sacrificio della norma incostituzionale (nella specie, quella che prevede il giuramento).. La sentenza avrebbe cioè ritenuto che la formula dell’art. 497 c.p.p. sia più conforme al dettato costituzionale di quanto non lo sia quella dell’art. 251 c.p.c., concludendo pertanto nel senso che l’eguaglianza debba venire ripristinata attraverso l’estensione della norma che garantisce maggiormente la libertà di coscienza., applicando il principio secondo cui la soluzione “obbligata” per ripristinare l’eguaglianza è l’eliminazione della norma “meno” costituzionale.

La Corte tiene a precisare che “il particolare profilo sottoposto al presente giudizio, cioè l’irragionevole disparità di trattamento in relazione alla garanzia della libertà di coscienza religiosa, non consente di oltrepassare i confini del giuramento del testimone e di affrontare il problema del giuramento in generale (anche alla luce dell’art. 54 Cost. titolari di pubbliche funzioni, membri del governo, capo dello Stato )”.. - In sostanza, la corte non ha inteso dichiarare l’incostituzionalità in sé del giuramento, limitandosi a sanzionare una disparità di trattamento lesiva del principio secondo cui la libertà di coscienza, essendo un diritto inviolabile dell’uomo, “esige una garanzia uniforme o, almeno, omogenea nei vari ambiti in cui si esplica”.

Ai sensi del’art.252 cpc il giudice, nel procedere all’assunzione della prova

,deve invitare il teste a declinare le proprie generalità e ad indicare tutte quelle circostanze(rapporti di parentela, dipendenza, interesse nella causa) da cui possano sorgere cause di incapacità a testimoniare o comunque sospetti di parzialità del teste che incidano sull’attendibilità delle sue deposizioni. L’indicazione delle generalità non è necessaria per la parte cui è deferito l’interrogatorio formale o libero (l’unica ipotesi che rende necessaria l’esatta identificazione delle parte comparsa è infatti

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quella delle dichiarazioni di rinuncia agli atti e di accettazione della rinuncia essendo tali dichiarazioni finalizzate all’estinzione del giudizio e talora trasmesse al Conservatore dei pubblici registri Immobiliari per la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale).

Le dichiarazioni delle parti e dei testimoni devono essere riportate in prima persona nella forma del discorso diretto ( si ritiene nulla nel caso di giuramento decisorio la redazione del verbale nella forma del discorso indiretto anziché di quello diretto Cass. 5251/86)e nel modo più fedele possibile usando il linguaggio comune e le espressioni dello stesso dichiarante, riportando se necessario espressioni gergali o dialettali ove particolarmente pregnanti ed evitando comunque la tendenziale trasposizione concettuale nel linguaggio del verbalizzante delle espressioni del dichiarante.

Si discute se la verbalizzazione debba essere integrale o limitata alle circostanze capitolate; è pacifico che possa senz’altro essere esclusa la verbalizzazione di circostanze assolutamente irrilevanti e non pertinenti alla controversia.

Il giudice non è tenuto a dare pedissequa lettura del capitolato, tale prassi è ovviamente consigliabile quanto più complesso o articolato sia il fatto ad esempio descrizioni di natura tecnica,26 quando il fatto dedotto è naturalisticamente semplice il giudice potrà parafrasarlo e semplificarlo traducendo il linguaggio tecnico in linguaggio comune; l’unico limite è rappresentato dal divieto di introdurre nell’esame testimoniale circostanze non dedotte e l’unica deroga dal potere di porre domande a chiarimento( che dovrebbe essere esercitato ai fini della completezza della deposizione e per una più penetrante verifica dell’attendibilità della deposizione e non certo per supplire a deficienze probatorie o per introdurre fatti non capitolati) Talora il crinale tra semplice domanda a chiarimento –consentita- e circostanza non capitolata - non ammessa- è assai sottile ed è nella quotidianità dell’esperienza giudiziaria il punto di maggiore frizione nell’assunzione della prova: in assenza di tempestiva opposizione secondo il regime di cui all’art.157 cpc o in caso di rinuncia anche implicita all’eccezione come quando si discutano gli esiti e la rilevanza ed attendibilità delle deposizione, questa entra a far parte del materiale probatorio acquisito al processo.

Controverso se la risposta del teste possa essere limitata alla conferma e negazione dell’articolato. L’adozione di tale prassi è sconsigliata da Andrioli esprimendo la preoccupazione che la concisione della risposta possa ingenerare il dubbio che il teste non abbia realmente inteso il senso della propria dichiarazione.

Si aggiunga che tale prassi non consente una penetrante valutazione dell’istruttore sulla attendibilità della deposizione -non permettendogli di valutare gli elementi intrinseci di attendibilità della prova cioè la precisione, la chiarezza e la coerenza della deposizione, e gli elementi oggettivi estrinseci come ad esempio la posizione del teste rispetto ai fatti sui quali è chiamato a deporre - e peraltro potrebbe offrire spazio a deposizioni mendaci nel caso di preventivi illegittimi accordi sotterranei tra la parte che ha dedotto la prova capitolata ed il teste indicato.( una giurisprudenza ormai remota, cassazione 138/51, 59/3186 ritiene tuttavia ammissibile la conferma del capitolo posto che la legge non commina alcuna nullità

26 Corder, opera citata

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per tale tipo di verbalizzazione contra cassazione 2961/52 che ritiene nulla la prova assunta con tale tecnica ).

Il teste deve sottoscrivere il verbale ,se rifiuta, se ne fa menzione nel processo verbale che è sottoscritto solo dall’ufficio.

Nel caso di rifiuto di sottoscrizione il processo verbale è siglato dall’ufficio, potendo applicarsi l’art.126 ultimo capoverso cpc.

Il difetto di sottoscrizione non produce nullità del processo verbale né della singole dichiarazioni; per contestare la provenienza della dichiarazione dal suo autore apparente, in difetto di sottoscrizione, occorre proporre querela di falso così come quando si assuma che il contenuto del verbale non corrisponda alla realtà delle dichiarazioni ivi riportate.

Se la parte contesta la corrispondenza delle indicazioni di cui al processo verbale alle dichiarazioni realmente rese dal teste deve dunque proporre querela di falso dato che il processo verbale costituisce atto pubblico. Una pronuncia del Supremo Collegio mette però in discussione l’orientamento ormai risalente secondo cui per contestare la provenienza della dichiarazione dal suo autore apparente, in difetto di sottoscrizione, occorra proporre querela di falso così come quando si assuma che il contenuto del verbale non corrisponda alla realtà delle dichiarazioni ivi riportate: secondo cassazione 16 gennaio 1999, n.395 in ipotesi di pretesa non rispondenza al vero dei verbali redatti nel processo, per falsità materiale o ideologica, il giudice civile ha il potere- dovere di farne rapporto al procuratore della repubblica e, qualora egli ometta tale adempimento, le parti hanno facoltà di farne denuncia, ma non sarebbe proponibile contro tali atti la querela di falso civile, la cui esperibilità postula che il documento impugnato sia prodotto dalla parte e che questa possa disporre della sua utilizzazione, laddove i verbali del processo, destinati a documentare le attività in esso svolte non possono essere eliminati dal processo, né in tutto né in parte, a discrezione delle parti, nessuna delle quali ha , su di essi, alcun potere dispositivo.

A norma dell’art.44 delle disp. Att. Cpc il processo verbale deve infatti riportare tutta le attività compiute dal giudice e dal cancelliere e quelle delle persone intervenute nell’atto. Il processo verbale di assunzione della prova, ai sensi dell 3 comma dell’art.207 cpc deve , ove opportuno(come certamente è nel caso di indebite interferenze delle parti in sede di assunzione della prova) descrivere il contegno della parte e dei testimoni.

A norma dell’art.84 , 3 comma , disp. Att. Cpc. le parti o i loro difensori non possono dettare le loro deduzioni a verbale se non autorizzati dal giudice..

Dopo l’entrata in vigore della novella del 90 si impone l’abbandono delle deprecabili prassi invalse in passato secondo cui il verbale veniva redatto dai procuratori delle parti senza alcun controllo del giudice che invece anche ove autorizzi i difensori a compilare il verbale deve soprattutto verificare che le deduzioni rese siano pertinente alla scansione temporale del processo evitando ad esempio intempestive disquisizioni sull’ammissibilità e rilevanza della prova in sede di udienza di prima comparizione ovvero il deposito di documenti per i quali si sia già formata la preclusione.

I poteri di direzione dell’udienza disciplinati dal’art.127 cpc sono infatti orientati ad un ordinato e proficuo svolgimento della trattazione delle cause ed in tale ottica il giudice regola la discussione determina i punti sui quali essa deve svolgersi e la dichiara chiusa quando la ritiene sufficiente. Quindi è compito dell’istruttore

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assicurare il rispetto di quei canoni di tipicità ed oralità , di cui si è detto al paragrafo 1)che caratterizzano il nuovo processo evitando attività deduttive che esulino dalla fasi processuali tipiche(nell’esempio sopra ricordato una dissertazione sull’ammissibilità di una prova orale in sede di udienza ex art.180 cpc quando deve ancora procedersi alla verifica della regolare instaurazione del contraddittorio ed il deposito di memorie scritte che non rientrano tra quelle la cui deduzione è consentita nei termini assegnati). In sede di libero interrogatorio il giudice determinerà poi i punti sui quali deve svolgersi (art.127 e 183 cpc)concentrando l’esame delle parti sulle questioni controverse o rilevabili d’ufficio delle quali ritenga opportuna la trattazione, sollecitando la chiarificazione dei fatti principali allegati e l’emersione di fonti materiali di prova, invitando le parti a prendere posizioni sulle difese dell’avversario sulle quali non abbiano controdedotto negli atti difensivi per evitare maliziose contestazioni tardive ed a fornire chiarimenti su affermazioni tra loro logicamente incompatibili con evidenti riflessi sul thema probandum.

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la valutazione della prova testimoniale La testimonianza non costituisce prova legale bensì prova libera valutabile dal

giudice secondo il suo prudente apprezzamento. Non esistendo nel nostro ordinamento,al di fuori delle ipotesi della prova

legale, alcuna gerarchia delle prove, per cui gli esiti di alcune debbano necessariamente prevalere su quelli delle altre,il giudice potrebbe attribuire maggior peso ad una serie di elementi indiziari ad esempio sulla scorta di presunzioni gravi e concordanti che alle risultanze della prova testimoniale fermo restando l’obbligo di dare contezza delle ragioni del proprio convincimento con una motivazione logica e congrua.( cassazione 29.1.2002 n. 1071)

Stante la mancanza nel nostro ordinamento di una gerarchia di mezzi probatori che ponga la prova per presunzioni in una posizione inferiore rispetto alla altre prove,il giudice può dunque fare ricorso, anche in via esclusiva, alle presunzioni semplici ai fini della formazione del proprio convincimento nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli di individuare le fonti di prova,di controllarne l’attendibilità e la concludenza ed infine di scegliere tra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costituivi della domanda o dell’eccezione(Cass,civ. sez.lav.8 aprile 95,n,4078). L’apprezzamento del giudice di merito circa la rilevanza probatoria degli elementi indiziari ovverossia circa l’idoneità degli stessi elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendono secondo il principio dell’id quod plerumque accidit , è sottratto al controllo di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata, immune da vizi logici e giuridici ( Cassazione 14.2.2002 n. )2157

Il giudizio sull’opportunità di fondare la decisione sulla prova per presunzioni a differenza di altre prove rientra nei poteri del giudice di merito quando egli ritenga, con apprezzamento incensurabile se congruamente motivato, che gli elementi di fatto acquisiti non siano oggettivamente idonei a dimostrare l’assunto della parte o di una delle parti(cass,6556/95).

Valgono in tema di valutazione della prova testimoniale i principi generali sanciti dall’art.115 c.p.c dell’acquisizione processuale e dall’art.116 del libero convincimento del giudice.

In base al primo principio ogni emergenza istruttoria comunque acquisita all’incarto processuale ,può legittimamente essere utilizzata dal giudice, indipendentemente dalla sua provenienza e dagli obiettivi che la parte deducente si era prefissi con la sua deduzione senza che possa escludersi che gli elementi probatori forniti da una parte siano utilizzati come elementi probatori favorevoli all’altra parte. In virtù del principio di acquisizione processuale le risultanze istruttorie comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si siano formate, concorrono quindi tutte indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro. ( sul principio dell’oggettiva acquisizione degli elementi di prova vedi tra le tante Cassazione 4.09.2000 n.11559 ).

Le prove una volta acquisite non sono più prove di parte ma diventano prove del processo.(Pertanto ad esempio se in tema di accertamento dell’usucapione, i testi dedotti dall’attore per suffragare la propria domanda ,nel riferire dell’esercizio del possesso alludano ad atti interruttivi tali emergenze processuali potranno essere

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utilizzate a favore della tesi del convenuto che contrasta la domanda attrice eccependo l’interruzione della prescrizione acquisitiva).

Costituisce espressione del detto principio anche la facoltà concessa alla parte di chiedere al giudice l’assunzione della prova dell’avversario non comparso ai sensi dell’art.208 c.p.c(ad esempio nell’ipotesi di comunanza di testi) che evita che il giudice dichiari d’ufficio la parte decaduta dal diritto di far assumere la prova(nella cause vecchio rito la decadenza dalla prova per la mancata comparizione della parte che ne aveva chiesto l’assunzione non è rilevabile ex officio ma solo ad istanza di parte).

In virtù del secondo principio - a differenza delle prove legali come la confessione ed il giuramento decisorio dove è il legislatore a predeterminare in via generale ed astratta il valore di un mezzo di prova rispetto agli altri escludendo ,in sede di valutazione, ogni margine discrezionale dell’organo giudicante tenuto a considerare il fatto come dimostrato-il giudice è tenuto a formulare un giudizio di rilevanza e attendibilità della prova testimoniale dando contezza in motivazione delle ragioni per le quali ritiene alcune deposizioni più attendibili rispetto ad altre.

Vanno al riguardo presi in esame elementi intrinseci cioè la precisione, la chiarezza e la coerenza della deposizione, gli elementi oggettivi estrinseci come ad esempio la posizione del teste rispetto al sinistro ovvero le sue occasioni di accesso al fondo rustico di cui , ritornando alla fattispecie anzi indicata, si chieda accertarsi l’acquisto della proprietà per usucapione e gli elementi di natura soggettiva come l’età e le condizioni fisiche del teste, gli eventuali vincoli di parentela o di subordinazione rispetto ai contendenti ed il suo interesse di fatto all’esito della lite(come per esempio per il lavoratore subordinato nel caso sia chiamato a deporre come teste in altro procedimento promosso da altro dipendente ma vertente su analoghe questioni di fatto e di diritto).

Quel che conta è che la valutazione di attendibilità avvenga attraverso un rigoroso vaglio critico delle singole deposizioni, comparandole attraverso l’esame degli elementi oggettivi e soggettivi anzi richiamati, escludendo che si possa attribuire attendibilità ai testi dell’uno o dell’altra parte senza esporre le ragioni del proprio convincimento(la sentenza sarebbe altrimenti viziata per violazione dell’art.360 n.5 c.p.c) o che dinanzi a deposizioni confliggenti il giudice possa adottare un criterio meramente quantitativo, ritenendo credibili le deposizioni uniformi in maggior numero, potendo la decisione fondarsi invece anche su una sola deposizione difforme ma ritenuta attendibile perchè ad esempio resa da un soggetto del tutto disinteressato alla controversia che abbia fornito dichiarazioni precise , complete e circostanziate rispetto alla deposizione generica e con riferimenti imprecisi di più testi che ad esempio per le loro qualità soggettive, benchè capaci di deporre(ad esempio soggetti legati da stretti vincoli di parentela ai contendenti ovvero aventi interesse ad un certo esito della controversia)non offrano garanzie di attendibilità.

La testimonanza de relato cioè su circostanze che non sono cadute sotto la immediata e diretta percezione sensoriale del teste ma riferite da altri , ha un efficacia probatoria attenuata ed integra una prova indiziaria utilizzabile se corroborata da altri elementi: Si deve quindi valutare se le deposizioni de relato siano sorrette da altri elementi precisi e concordanti, che consentano di poter ritenere accertati i fatti riferiti, perché le deposizioni testimoniali hanno valore di prova solo in ordine a

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quanto fu sottoposto alle diretta percezione fisica del teste (Cassazione 10603 del 12.12.94) Si distingue la deposizione de relato actoris in cui vengono riferite dichiarazioni della stessa parte da quella in cui vengano riferite dichiarazioni di terzi.

Si ha la testimonianza de relato ex parte quando il teste riferisce indicazioni fornitegli da una delle parti che ,se favorevoli alla parte che le ha emesse, isolatamente considerate, sono del tutto prive di qualsiasi valenza probatoria,anche indiziaria,e possono costituire elemento di prova solo se suffragate da altri elementi oggettivi e soggettivi estrinseci precisi e concordanti che ne suffraghino la credibilità ( cassazione 26 aprile 2004 n.7926).

Cassazione del 14 febbraio 90 n.1095 riconosce che la deposizione de relato ex parte con la quale , cioè , il teste riferisce dichiarazioni resegli da uno dei contendenti, pur se priva di valore probatorio, isolatamente considerata, possa fornire al giudice utili elementi di convincimento ove suffragata da altre risultanze , oggettive e soggettive ad essa estrinseche nel caso in cui sia attinente a comportamenti intimi e riservati della parti non suscettibili di percezione diretta dei testimoni.( nella fattispecie presa in esame dalla corte in un procedimento di separazione giudiziale tra coniugi si condividono le conclusioni del giudice di merito che in considerazione del riscontro obiettivo delle condizioni fisiche della donna che presentava lividi diffusi effettuato dai testi avevano attribuito rilevanza probatoria a quanto dai testi riferito de relato per averlo appreso dalla donna circa le cause ( le percosse infertile dal marito) che tali condizioni avevano provocato.

Se invece il teste riferisce di informazioni della parte contra se cioè di contenuto contrario alla pretesa fatta valere dalla detta parte può ravvisarsi una confessione stragiudiziale valutabile alla stregua dell’art.2735 c.c. ovvero una semiplena probatio ai fini del deferimento del giuramento suppletorio. .

La deposizione de relato con riferimento ha dichiarazioni di terzi, ha sempre un valore probatorio attenuato( per quanto non nullo come , secondo la giurisprudenza più rigorosa ,la dichiarazione de relato actoris pro sè cioè di contenuto conforme alla pretesa fatta valere dalla parte) e necessita sempre di ulteriori riscontri .