Progetto Gaia Terra – ecovillaggio - Debora Sbaiz · 2019. 8. 9. · ciali. l’effetto...

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viaggio in verticale esperienza di decrescita di una donna che decide di tornare alla terra Debora Sbaiz

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  • viaggio in verticaleesperienza di decrescita di una donna

    che decide di tornare alla terra

    Debora Sbaiz

  • Dedicato ai miei angeli.

    Tutti ne hanno almeno uno.Io sono fortunata perché ne ho tre:

    Donatella e papà che mi sorridono dall’alto,

    mamma che s’illumina nel vedermi arrivare.

  • RingRaziamenti

    Ringrazio tutte le mie “reti di supporto”! tutte le persone e i gruppi attraverso i quali sono cresciuta e sono diventata quella che sono. Ringrazio mia madre e la mia famiglia; tutte le persone dell’azienda agricola protagonista di questi scritti, in particolare Paola, an-drea e Carla; la comunità di Contact improvisation che tanto mi ha ispirato e in particolar modo la comunità locale di cui faccio parte (FVg contact improvisation); il gaS (il Canneto di Portogruaro, Ve); il movimento transition town; le colleghe e gli insegnanti di Danza/movimento terapia e movimento autentico; il gruppo di supervisione di Psicodramma; tutti coloro che si sono rivolti a me per cercare aiuto e da cui io probabilmente ho preso almeno quanto ho dato; tutti coloro che con l’esempio mi hanno indicato la via e che hanno accolto le mie idee strampalate con un sorriso. grazie a tutti colo-ro che hanno letto la bozza di questo testo e che hanno corretto e commentato: giancarlo, Paolo, Claudio e Sil-vana, andrea, Paolo e Federica che ha donato molto del suo tempo nella realizzazione di questo progetto. grazie a maria per la magia delle illustrazioni e a Claudio per la bella foto.

  • inDiCe

    1. i PeRChé e i PeRCome ................................. pag. 11

    2. teRRa ................................................................. pag. 18

    3. oRzo DoRato ................................................. pag. 26

    4. Patate .................................................................. pag. 29

    5. Fango .................................................................. pag. 36

    6. il PRezzo Dei CaRDi .................................... pag. 41

    7. il PeSo Dell’intelletto .......................... pag. 47

    8. RaDiCChio ........................................................ pag. 55

    9. aVanti! ................................................................ pag. 61

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    PReFazione

    le riflessioni espresse da Debora nella parte iniziale del libro dovrebbero risuonare nella mente di ciascuno di noi come monito, come campanello d’allarme, costan-temente. negli ultimi decenni abbiamo perso comple-tamente il contatto con la natura, con il mondo reale, con la campagna e i suoi ritmi. abbiamo pensato di non averne bisogno, di essere autosufficienti grazie a super-mercati che offrono tutti i prodotti in ogni stagione e alla possibilità di acquistare online ricevendo a casa il giorno dopo qualunque bene o servizio. abbiamo cam-biato il nostro rapporto con il cibo, con la terra, con gli altri. Svolgiamo lavori dove la competizione e la ‘stra-tegia’ sono alla base del successo; viviamo accelerando tutti i processi per ottenere un reddito e un appagamen-to materiale immediato; lavoriamo, lavoriamo, lavoriamo senza gratificazione se non quella economica, e spesso nemmeno quella. la crisi, intellettuale più che economi-ca, ci attanaglia. Ci sembra di non avere vie d’uscita. Pri-vilegiato è chi vede che cambiare si può; occorre mettersi a cercare la forma più consona, quella che più ci risuona.

    Chi conosce Debora personalmente sa quanto traspa-ia in lei la tensione verso il cambiamento e la voglia di volare. nel libro questo percorso è carico di delusioni e

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    gratificazioni alternate al lavoro sodo, tipico della vita di campagna, a volte ripetitivo a volte creativo, ma cosparso di continue scoperte e soddisfazioni. Un testo piacevole da leggere sia per la scrittura scorrevole che per i conte-nuti freschi, intensi, ricchi di entusiasmi ed emozioni.

    ho cercato di leggerne un poco alla volta per farlo durare più a lungo, da gustare quasi fossero gocce di pre-zioso rosolio. Desidero ringraziare Debora per la voglia di condividere il suo cammino personale con l’augurio che possa portare ispirazione, coraggio e determinazione a tutti noi che stiamo cercando la nostra strada verso un cambiamento.

    Stefano Soldati

    Cofondatore dell’Accademia Italiana di Permaculturawww.laboa.org

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    Fatti e persone sono reali. Alcuni nomi sono stati cambiati a protezione dei soggetti stessi.

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    1. i PeRChé e i PeRCome

    il 2013 è stato un anno di grande sperimentazione individuale. l’anno si è aperto con il Transition Town Trai-ning (www.transitionitalia.wordpress.com), avevo aderito al movimento locale già nel 2012 contestualmente all’a-desione al gruppo di acquisto Solidale (gaS) di Por-togruaro (www.ilcanneto.org). il training ha decisamente rafforzato in me la motivazione di poter fare qualcosa di più per l’ambiente. ho da sempre la mania del risparmio energetico e alimentare: in parte erano retaggi assorbiti dai miei genitori che avevano entrambi patito la fame negli anni della seconda guerra mondiale. ma le implicazioni più profonde delle scelte alimentari che tutti noi compia-mo giornalmente si sono svelate in tutta la loro gravità in questi anni di approfondimento e studio. io, che formal-mente non mi sono mai occupata di politica, ho iniziato a comprendere quanto le nostre scelte alimentari orientino la vera politica, ovvero quella del popolo e dell’ambiente in cui abita. ho compreso che posso essere solidale con gli uomini e l’ambiente acquistando prodotti da coltiva-tori diretti che abbiano una certa etica lavorativa e che producano non sfruttando e non inquinando l’ambiente. oppure posso acquistare prodotti che abbiano come uni-co obiettivo il profitto per il quale l’azienda è disposta a

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    sfruttare lavoratori, terra e ambiente come se fossero di sua proprietà (!). Questa è una bella questione da porsi: di chi è la terra coltivata? È davvero solo dell’azienda che ha un contratto in mano? Di chi è l’acqua che viene inquina-ta dai prodotti chimici usati: concimi, pesticidi, erbicidi, fungicidi, diserbanti, etc.? Di chi è l’aria che si impregna di sostanze tossiche? Di chi sono le api che stiamo fla-gellando ostinandoci a supportare monocolture intensive (vedi film: Un mondo in pericolo, regia di markus imhoof)? Chi paga davvero il prezzo della perdita della biodiversità, della desertificazione dei terreni, dell’inquinamento delle falde, dell’estinzione sempre più massiccia di fauna e flo-ra? Di chi è la salute che viene compromessa da tutte le sostanze nocive che finiscono nel nostro piatto?

    (l’agenzia per la Ricerca sul Cancro - agency for Re-search on Cancer – iaRC - il braccio dell’organizzazione mondiale della Sanità che si occupa dell’ambito oncolo-gico, ha emesso un verdetto pesante su cinque pesticidi molto usati in agricoltura. Si tratta di un erbicida, gli-fosato e due insetticidi, malathion e diazinon, dichiarati probabili cancerogeni per l’uomo… - leggi tutto l’artico-lo: www.ilfattoalimentare.it/glifosato-monsanto-cancero-geno.html).

    tutte queste informazioni hanno iniziato a pesare sempre di più sulle mie scelte. nell’ultimo periodo in cui lavoravo con persone, che a me si rivolgevano per essere aiutate nella ricerca di una maggiore consapevolezza di sé e per risolvere problemi personali, mi ritrovavo a pensare di poter mettere le mie energie al servizio di una causa più grande e più ambiziosa: “salvare” madre terra. ovvero,

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    unirmi alle voci che cantano fuori dal coro, il ritornello della necessità dell’imminente cambiamento (vedi il rap-porto redatto dal WWF sull’impronta ecologica e la per-dita di biodiversità, www.wwf.it/news/?10840/living-Pla-net-report-WWF-2014). ho iniziato ad osservare la mia vita più da vicino, ho zoomato da prima sulle mie finanze: come libera professionista di Danza/movimento terapia, Counselor e insegnante di Contact Improvisation, le entrate non erano ingenti, vivevo. Parte del problema è la predile-zione per settori di nicchia e quindi assai poco commer-ciali. l’effetto ‘crisi’, che incentiva le persone a tagliare il “superfluo” non aiutava in tal senso, in più si aggiungeva anche la cancellazione dei “minimi” che faceva lievitare la tassazione annuale in maniera per me spropositata (fino al 31/12/2011 i liberi professionisti che non superavano un certo reddito godevano di un regime fiscale semplificato che garantiva un abbattimento dei costi amministrativi. erano poi stati eliminati e ora i “minimi” sono stati rein-trodotti). la parte, comunque più grossa del problema, rimaneva l’organizzazione del lavoro, ahimè estremamente inefficiente. Dovendo lavorare “a progetto”, spesso la set-timana si presentava con momenti di corse pazzesche per poter incastrare le diverse attività nelle varie sedi, e mo-menti di stasi. il risultato di tutto quel correre, oltre alle troppe ore alla guida, erano: spese nei mezzi di trasporto, nell’affitto di vari spazi, nei corsi di aggiornamento obbli-gatori, nella supervisione, nel commercialista, nelle tasse! Quello che continuano a dirci gli esperti di economia è che tutta questa spesa è in effetti la parte virtuosa della nostra economia: più spese = più Pil!!

    osservando con più distacco la mia vita ho iniziato

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    a chiedermi dove fosse la leva per fermare la giostra im-pazzita sulla quale stavo… perché volevo semplicemente scendere! la conclusione alle mie riflessioni era sempli-ce: girare molto generando guadagni e spese equivaleva a stare fermi sul posto senza fare niente! Questo non dava guadagni, ma non dava nemmeno spese per cui il bilancio rimaneva pressoché invariato. Bastava inventarsi qualche piccola entrata di tanto in tanto e la mia vita stava in pie-di ugualmente… con un guadagno di tempo notevole da dedicare a progetti per un futuro migliore! essendo cre-sciuta con l’“arte di arrangiarmi”, piccoli lavori occasio-nali non mi era difficile trovarli, come non mi era difficile ridurre ulteriormente il mio tenore di vita già modesto.

    ho fatto mente locale sui miei veri bisogni: guardan-doli da vicino si riducono davvero a pochi. l’appartamento dove vivo fortunatamente mi è stato messo a disposizione gratuitamente dalla mia famiglia; già nel 2006 ho deciso di uscire dalla dipendenza dal gasolio e installare una stu-fa a pellet che mi garantisce di stare ad una temperatura compresa tra i 15/18 °C, quando non “tira Bora” (vento tipico del nord-est italia), ma alla quale mi sono ormai abituata. Da molti anni non acquisto vestiti, gran parte di essi mi giunge dalla mia famiglia, avendo io la stessa taglia di mia sorella e mia cognata! non mi trucco, per la cura della persona uso olii naturali che io stessa miscelo, per pulire la casa utilizzo per lo più la lisciva, da me realizzata facendo bollire per ore la cenere della stufa con acqua, e l’aceto bianco. Di recente ho acquistato, inoltre, alcuni panni in microfibra che puliscono le cose più impensate solo con aggiunta di acqua. non sono mai stata una gran frequentatrice di bar e ristoranti, peraltro, lavorando per

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    molti anni la sera, avevo dovuto rinunciare anche ad anda-re al cinema e a teatro. il viaggio mi ha sempre attirato ed è stato spesso via di fuga e momento di rigenerazione dallo stress generato dalla giostra che girava, ma dal momento in cui aveva smesso di girare, mi sentivo grata alla vita di aver avuto la possibilità di aver viaggiato a lungo e di aver vissuto negli USa per 6 anni. Sentivo di aver viaggiato ab-bastanza in “orizzontale” ed era tempo di iniziare a viag-giare in “verticale”, ovvero mettere radici. già dall’estate del 2011 ho sviluppato il progetto di comprare terra per costruire un eco villaggio, mi sono detta: “Se sono pronta per comprare terra, sono pronta per fermarmi!”. all’auto non ero disposta a rinunciare, ma potevo ottimizzare gli spostamenti e i consumi. Restavano le spese per la salute, molto variabili si sa, e il cibo. Per la prima si spera sem-pre di non dover andare da esperti e specialisti, da più di 20 anni ho scelto di curarmi con sistemi alternativi alla medicina ufficiale con buoni risultati, ovviamente i costi sono più elevati, perché i prodotti non sono mutuabili. in tutto ciò mi è molto d’aiuto l’alimentazione sana e questo ci riconduce al secondo punto: il cibo. mi piace cucinare e spesso preferisco portarmi via un contenitore con dei cibi preparati evitando tavole calde qualora io mi trovi in giro per lavoro. Prediligo il cibo semplice e biologico da tanti anni, costa di più ma lo considero parte delle mie “buone abitudini” per stare in salute. Per ridurre i costi di questo settore bisognava avere l’orto in modo da auto-produrre, ma abitando in un appartamento potevo concedermi solo dei vasi, per cui su questo punto attendevo la così detta “illuminazione”!

    a volte la meta da raggiungere è chiara, ma il percorso

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    si materializza a poco a poco mettendo a frutto conoscen-ze, incontri e informazioni che “casualmente” arrivano al momento giusto. a marzo del 2013 si sono verificati due eventi, rivelatisi chiave per un ulteriore cambiamento di stile di vita: ho partecipato ad una conferenza sul crudi-smo e ad un seminario dal titolo “agricoltura e decrescita felice” organizzato dal movimento per la Decrescita Felice di Portogruaro (www.decrescitafelice.it/?s=portogruaro) di cui già conoscevo gli organizzatori. Senza pensarci su due volte e in un moto d’incoscienza sono diventata vega-na/crudista dall’oggi al domani (non fatelo!!). in una sola mossa avevo eliminato gran parte dei consumi alimentari tradizionali: zuccheri, farine, prodotti raffinati, prodotti animali e loro derivati. Praticamente avevo semplificato la mia spesa, limitandola esclusivamente al negozio dell’or-tofrutta, rifornito magari anche di semi oleosi e frutta secca.

    alla conferenza sull’agricoltura uno dei relatori ave-va particolarmente richiamato la mia attenzione per la semplicità e la chiarezza con cui esponeva i concetti. Ci aveva fatto vedere delle slides che mettevano a confronto due terreni: uno a coltura convenzionale e l’altro a coltura biologica, dove era stata incorporata al terreno sostanza organica. le immagini dicevano più di mille parole. Sicco-me il relatore era friulano, residente non troppo lontano da dove abito, subito ho avuto la prontezza di chieder-gli di visitare l’azienda. al termine del suo intervento, mi sono quindi avvicinata per prendere contatti e così sono tornata a casa con il numero di un’azienda biologica locale che produce orticole, dalla quale mi sarei potuta rifornire e anche, chissà, imparare qualcosa.

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    2.teRRa

    È una bella giornata di fine aprile, ancora un po’ umida di piogge recenti, ma gradevole. andrea mi aspet-ta fuori dal capannone mentre ultima le faccende della mattinata prima di dedicarsi a me. Facciamo un breve giro sotto il capannone che funge da rimessa per i mez-zi agricoli. Da un lato dello stesso stanno ultimando la costruzione di un magazzino destinato in parte, per con-servare quei prodotti che si raccolgono in estate, e che si mantengono per mesi e mesi, e in parte, per portarvi i prodotti freschi, lavarli e prepararli nelle “borse”. Questa azienda agricola ha fatto varie scelte ‘poco commerciali’, le definirebbe qualcuno, ovvero di “lavoro etico”, ci ten-go a sottolineare. «abbiamo scelto di non avere una cella frigo» dice andrea, lo guardo con un po’ di sospetto, immaginando che questa scelta possa essere stata dettata anche da una scarsa disponibilità economica. «Perché?» chiedo, «perché se un’azienda ha la cella frigo finisce per utilizzarla, mentre noi vogliamo consegnare un prodotto fresco, ovvero raccolto in giornata. È facile che i finocchi per esempio, si conservino anche due settimane in frigo, ma un prodotto di questo tipo non si può considerare “fresco” se non da frigo! gran parte delle proprietà nu-tritive se ne sono andate». lo guardo con ammirazio-

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    ne! eccome se mi piace questo ragionamento! Da neo crudista quale sono ho letto molto materiale riguardo il potere del cibo “vivo”, ovvero carico di elettroni (o energia elettrochimica, come dice Robert o. Young, nel libro Il miracolo del ph alcalino, nuova editrice apulia / BiS edizioni, 2011). Secondo questo studio il cibo non ap-porta solo sostanze chimiche al nostro corpo. esso for-nisce all’organismo tanta più di quella preziosa energia che accresce la forza vitale, quanto più gli ortaggi sono “raccolti e mangiati” e non depositati (e magari dimenti-cati!) nel frigo, dove perdono gran parte del loro poten-ziale. altra scelta originale è di non vendere alla grande distribuzione, né ai negozi, né al dettaglio, ma esclusiva-mente ai gaS, ovvero a gruppi di persone che acquistano un prodotto di qualità, il più possibile locale, stagionale e che hanno un rapporto diretto col produttore. Que-ste sono le caratteristiche di un nuovo mercato in cui al centro dello scambio c’è un rapporto di fiducia, cosa per niente scontata soprattutto nella logica della gran-de distribuzione, dove impera l’obiettivo del profitto a tutti i costi (per maggiori informazioni sulla proposta di legge presentata in Friuli Venezia giulia per la costi-tuzione di un terzo mercato, quello appunto solidale, www.forumbenicomunifvg.org). le persone che si rivol-gono ad andrea sanno di poter ordinare all’inizio della settimana una “borsa” da 3-5-8 kg di verdure miste, ma verranno a conoscenza, solo al momento della consegna nel giorno stabilito, cosa conterrà… in un certo senso è come estendere le sorprese dell’uovo di Pasqua a tutto l’anno!! i vantaggi per il produttore sono molteplici, sia dal punto di vista economico che organizzativo. tengo

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    a sottolineare che viene svolto un approfondito studio volto al recupero di varietà autoctone, questo si riflet-te sulla crescita della consapevolezza del consumatore. Chiarisco meglio attraverso un esempio. Preparare un numero variabile di borse per un qualsiasi giorno della settimana, richiede una pianificazione della quantità di ortaggi che dovrà essere raccolta quella mattina stessa, in base a ciò che è presente nel campo, e pronto da rac-cogliere. in un certo senso è la natura stessa che decide cosa andrà nelle borse in quella data settimana, e così sempre. tutto ciò riduce la pressione e sgrava il lavoro di andrea e Paola, sua moglie. i pomodori si troveranno nella borsa al momento della loro massima maturazio-ne, né prima né dopo, così come le fragole, i fagiolini, i radicchi, le zucchine, etc. in questo modo l’agricoltore non è costretto a rispondere alla domanda dei consu-matori, ma può dialogare con loro, istruirli sulla stagio-nalità, sull’andamento delle colture in corso, sulle even-tuali problematiche contingenti e questo gli consente di dedicarsi al recupero della biodiversità. il consumatore “tradizionale”, o chi frequenta abitualmente il super-mercato, è stato purtroppo viziato dal sistema in cui il mercato gli offre gli stessi ortaggi tutto l’anno: pretende di mangiare i pomodori a novembre o le mele a giugno, dando per scontato che tutto ciò sia normale. Col siste-ma delle borse non solo l’agricoltore può fare meglio il suo mestiere, ma il consumatore impara a cucinare cibi di cui si era dimenticato, o può apprendere ricette nuove per una dieta realmente variata. nel corso dell’anno an-drea è capace di offrire circa 90 specie diverse di ortaggi, tra cui alcune qualità autoctone che ben si adattano al

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    nostro clima autunnale. il rischio di mangiare pomodori e zucchine tutto l’anno è di essere sempre più legati al trasporto delle merci da altre zone d’italia o da altri pae-si, dove questi ortaggi possono crescere. Questo produce due macro problemi. il primo: l’impatto ambientale della nostra alimentazione rimane molto alto. Senza entrare in tutti i passaggi, che rendono quel tipo di agricoltu-ra dipendente dal petrolio, pensiamo Solo all’impatto ambientale del trasporto delle merci che arrivano magari dal Cile e devono essere ridistribuite nei supermercati di tutta italia. il secondo: gli agricoltori locali che non possono produrre certi ortaggi, a causa del clima rigido per esempio, rischiano di essere danneggiati economica-mente in primis, ma anche nell’intimo, nella loro profes-sionalità, ridotti a vittime del mercato stesso, perdendo quel ruolo nobile di abili produttori di cibo locale, ricco, vario e abbondante tutto l’anno. Questi macro problemi hanno, com’è intuibile, tutta una serie di ricadute poco edificanti sulla cultura: molti non sanno quali ortaggi si-ano di stagione (belli i sondaggi nelle scuole sulla frutta e verdura di stagione condotti dallo chef Jamie oliver nelle scuole inglesi, vedi in inglese sottotitolato www.ted.com/talks/jamie_oliver). il danno più grave però è sulla biodiversità: di anno in anno, si perdono i semi di varietà non adatte al trasporto o cadute in disgrazia nei gusti della gente. Se il consumatore non richiede più una certa varietà, l’agricoltore non la semina più perché sa di non poterla vendere, e il risultato è ovvio: in breve i semi non circolano più se non nell’orto di qualche raro nonno che ancora si auto-produce i semi (vedi il rapporto sulla perdita di biodiversità redatto dalla Fao, organizzazio-

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    ne delle nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricol-tura, www.fao.org/news/story/it/item/46829/icode).

    Presto mi ritrovo in macchina con andrea al volante, che mi porta in giro per le strade sterrate che conducono alle sue coltivazioni. Ci fermiamo davanti agli appezza-menti e con il solo gesto della mano, lanciata in avanti, o a volte solo con lo sguardo, mi indica le varietà. in parte faccio finta di seguire tutte le informazioni che mi sta fornendo: sono affascinata, ma anche mortificata per la mia stessa ignoranza nel non riconoscere le piantine dei vari ortaggi. mentre a voce alta continuo a pronunciare: «ah! ah ha!» a casaccio, dentro di me tutti gli ortag-gi stanno vorticosamente girando come in un frullatore che va troppo veloce per riconoscere i singoli ingredienti prima che siano ridotti ad una poltiglia uniforme. Però mi piace! Sento che c’è una bella atmosfera, vedo filari davanti a me di non so più che cosa, ma osservo belle tonalità di verde, foglie e piantine di diversa dimensione, ed è tutto molto vario, non come i tristi campi inna-turalmente marroni senza nemmeno un’erbaccia a fare capolino. in natura non esistono campi marroni, a meno che non siano stati accuratamente diserbati chimicamen-te dall’uomo.

    in un altro giro andrea mi porta a vedere un campo sul quale non coltivano, ma preservano la biodiversità: è un campo dove spargono diversi tipi di semi e lasciano che la natura faccia il suo corso. tutto ciò mi colpisce particolarmente, perché è lontano dalle logiche di sfrut-tamento a cui siamo abituati: a volte vediamo in cam-pagna seminatrici che passano sul ciglio dei fossi o a ridosso degli argini pur di seminare una fila in più. Qui

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    la terra si “spreca”, si lascia riposare, si lascia che faccia quello che deve fare e si sta in osservazione. Quell’atteg-giamento sano verso la natura dal quale il nostro delirio di onnipotenza ci ha allontanato. andrea mi racconta che sono seguiti da un tecnico che li aiuta nel difficile compito di preparare il terreno e seguire la crescita delle piantine trapiantate. «Finalmente», mi dice entusiasta, «abbiamo trovato un tecnico che risponde “non so” alle nostre domande! Di solito i tecnici sanno sempre tutto: ti dicono cosa devi fare, che prodotto devi spruzzare, e poi se segui per filo e per segno le loro indicazioni e le cose non migliorano danno la colpa al tempo, al terre-no, al lavoro non eseguito con perizia... un tecnico che ammette di non sapere è la persona giusta di cui ti puoi fidare!». Se lo dice lui non si può che essere d’accordo!

    Per fare un ortaggio nutriente, la terra per prima dev’essere alimentata di tutte quelle sostanze minerali che andranno a nutrire la pianta e, di conseguenza, noi che mangiamo la pianta stessa. Se l’arricchimento del terreno avviene in maniera chimica il gioco è relativa-mente facile… ma poi si sappia che così saremo nutriti da derivati del petrolio! Se invece il nutrimento del terre-no avviene attraverso sistemi che rispecchiano la natura, allora occorre tempo e pazienza perché il terreno va la-sciato riposare. oltre al meritato riposo, uno dei sistemi per arricchire la terra, è il sovescio: una coltura che viene seminata, fatta crescere, tagliata, lasciata sul campo e poi incorporata nel terreno attraverso il lavoro di macchine che non girano la zolla di terra, ma che smuovono solo la parte superficiale del terreno per renderlo morbido al tra-pianto (è ormai comprovato che l’aratura profonda dei

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    terreni, 40 cm e oltre, è il miglior modo per accelerare la desertificazione, infatti tutti i microorganismi anaerobi che vivono a 30-40 cm di profondità vengono portati in superficie e a contatto con l’aria periscono e lo steso dicasi per quelli aerobi che vengono di colpo a trovarsi in assenza di ossigeno nel fondo della zolla rivoltata). a questo processo di nutrimento del terreno contribuisce l’esperienza del contadino, la rotazione delle colture e i nostri piccoli aiutanti sotterranei che collaborano nel “digerire” le sostanze che vengono incorporate nel ter-reno in modo che siano biodisponibili alle radici della piantina. Questi aiutanti non pagati sono i lombrichi e tutti quei microrganismi che sanno adattarsi al terreno e sanno compiere il lavoro raffinato di preparare “pran-zetti” succulenti per le radici delle piantine che non di sola terra, sole e acqua possono vivere (i microrganismi aiutano e facilitano la metabolizzazione delle sostanze minerali presenti nel terreno, per esempio: azoto, calcio, carbonio, etc.). Sottolineo quanto sia violento procedere con il deparassitaggio, com’è di norma nelle monocoltu-re o colture intensive, sterminando tutti questi ottimi compagni di lavoro. Come dice andrea: «nella coltura intensiva si tenta di creare il “vuoto” nella terra, mentre noi tentiamo di creare una felice connivenza tra fattori vitali». adesso, mentre scrivo, i passaggi mi sono più chiari perché ho visto con i miei occhi e l’esperienza in-segna sempre più di mille parole.

    al primo incontro mi sentivo molto affascinata, come davanti ad un processo miracoloso del quale capivo poco e niente, ma era indubbio che fosse importante e neces-sario comprenderlo più a fondo, se davvero ero pronta a

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    cambiare vita e a comprare terra. andrea ha convertito la sua azienda agricola al biologico circa dieci anni fa in se-guito alla nascita del primogenito, Paola allora lavorava come fisioterapista. il loro è stato un progetto comune per rinnovare l’azienda e forse per contribuire al benes-sere ambientale e offrire ai figli un mondo meno inqui-nato e cibo più genuino. Questa scelta di cui ora è chia-ra l’importanza, all’inizio poteva essere stata avvicinata come un mero tentativo di cambiare “stile” produttivo per vedere cosa sarebbe accaduto e quali nuovi mercati si sarebbero aperti. io stessa, a volte, lasciandomi guidare dall’istinto, intraprendo strade di cui solo a posteriori riesco a riconoscere la vera importanza ed il processo in-sito nel percorso. Davanti ad una scelta non è possibile vagliare in principio tutte le conseguenze, sfaccettature e ricadute. tornati al capannone, a fine giro, mi pro-pongo ad andrea come volontaria per imparare da loro l’arte del coltivare, in cambio avrei ricevuto una cassa, o due, di verdura raccolta durante la mattinata. la rispo-sta affermativa non ha tardato ad arrivare e mi chiedo ancora quale strana alleanza e rapporto di fiducia fos-simo riusciti a stabilire in poco più di un’ora di visita e di dialogo. È una pura magia accordare la fiducia ad un perfetto estraneo avendo la sensazione che andrà tutto bene! Sono ancora super grata ad andrea e Paola per aver accettato la sfida ed essersi fidati.

    ed ecco fatto! Per me, un altro passo verso la mia ricerca di decrescita: mi ero procurata i pasti della set-timana al costo del sudore della fronte! ero soddisfatta e gongolante, pronta a tuffarmi dentro questa nuova avventura!

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    3.oRzo DoRato

    oggi è una giornata speciale. andiamo a raccogliere l’orzo. io non ho mai visto un campo di orzo, non saprei distinguere l’orzo dal grano, per cui scendo dall’auto e chiedo subito informazioni. andrea colma volentieri le mie lacune, prende delle spighe in mano e mi mostra varietà diverse: dice che qui sono state seminate 2500 varietà antiche. Solo una parte del campo ha germinato, per cui il raccolto che faremo non è destinato né alla vendita, né alla tavola, ma ad essere ri-seminato il pros-simo ottobre.

    mi metto all’opera: inizio a raccogliere indiscrimina-tamente con l’obiettivo di riempire la cassetta più velo-cemente possibile. Procedo come una macchina, le mie mani afferrano le spighe, le strappano dallo stelo e le gettano nella cassetta. testa bassa e mani veloci scansan-do le altre erbe con e tra le quali l’orzo è cresciuto. la sensazione d’urgenza che mi pervade è data dal fatto che siamo in tre a raccogliere le spighe a mano e il campo è grande… non ce la faremo mai!

    andrea torna verso di me dopo un giro di ricognizio-ne, avanza tra le spighe come un animale nel suo habitat. io sono orgogliosa di mostrare una cassetta riempita già all’80%. guarda la cassetta e con la sua aria pacata mi

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    dice: «Va bene… adesso farai un lavoro diverso», mi por-ge una cassetta vuota, e continua: «adesso raccoglierai solo le spighe che ti piacciono… le altre lasciale stare».

    la consegna è “strana” ma mi piace, alzo la testa e allungo lo sguardo. in un solo istante il paesaggio vibra di colori, odori e suoni, me l’ero perso fin qui. inizio a camminare lasciandomi accarezzare le gambe dalle spi-ghe dorate, dal sorghetto, da altre erbe e fiori, ognuno con la sua tonalità e bellezza. Un gallo canta in un re-cinto vicino e si sente il rintocco delle campane. Con le dita sfioro le spighe, il mio sguardo zooma di nuovo sul particolare. guardo le diverse forme, vengo attratta da un spiga allungata e doratissima ricurva su se stessa. ha un’aria triste, mi ricorda il salice piangente. Poi il mio occhio cade sull’orzo bruno, andrea dice che potrebbe essere una qualità pregiata da coltivare. la prendo. C’è anche una spiga più “cicciotta” che sta eretta come una sentinella in ascolto: è più corta ma ha file da quattro chicchi attorno allo stelo, anziché due come la prima.

    le mie mani procedono indugiando, tutto si è rallen-tato e la mente ha iniziato a porsi domande. Stiamo se-lezionando l’orzo da piantare ad ottobre, dalla mia scelta dipende ciò che continuerà ad essere coltivato o meno. Sento di non avere competenze.

    Basta farsi guidare dall’intuito? io sono una terapeu-ta, naturalmente vado incontro alle persone disagiate e che non hanno ancora capito come mettere a frutto le loro potenzialità. Sarò attratta allo stesso modo dalle spighe più malaticce solo per la spinta inconscia di dar loro una seconda possibilità? mi chiedo se i miei non-ni sarebbero stati contenti di me. le selezioni vengono

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    fatte, per quanto ne sappia, per mandare avanti le varietà più forti e che danno più cibo: spighe lunghe con tanti bei grani grossi e sani, ma non è la consegna che andrea mi ha dato. mi sento confusa, ma decido semplicemente di fare del mio meglio.

    a fine mattina andrea carica le tre casse e segna in ognuna i nostri nomi: Carla, andrea e Debora. mentre mi accompagna all’auto lasciata alle serre, gli confido i miei timori. lui ascolta e non dice nulla. Quando arri-viamo si ferma e un attimo prima che io apra la porta per saltar giù, comincia a dirmi: «Vedi quel radicchio? È stato selezionato da un esperto, lui ti può dire tutto sul radicchio fin dalle prime foglioline che spuntano. Se è tardivo o precoce, se ha bisogno di più o meno acqua, che tipo di sapore avrà… quando fa la selezione sceglie le piante che considera migliori: robuste, sane e buone; poi prende anche delle qualità che non sceglierebbe mai, nella consapevolezza che benché lui sappia molto, la na-tura ne sa di più... per cui stai serena». lo ringrazio e continuo con le mie riflessioni verso casa.

    il giorno dopo c’è un sole glorioso sopra le nostre teste, fa brillare le spighe dorate ancora di più. Siamo di nuovo in tre a raccogliere orzo a mano: stessa consegna di ieri. mi sento in pace con la natura e con il mio com-pito. i miei sensi sono aperti. mentre i miei occhi e le mie mani colgono le spighe sento che sto facendo la cosa giusta. oggi so che i miei nonni sarebbero stati contenti di me. mi sento un ponte tra loro ed i “miei figli”, sto preservando la biodiversità per le generazioni a venire. mi sento particolarmente centrata e sento che tutto è come deve essere.

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    4.Patate

    ormai è da parecchie settimane che presto il mio aiuto in azienda. ogni mattina è diversa, non so mai quale sia il programma della giornata e quali piantine saranno così generose da riempire le mie mani di frut-ti colorati. entro in serra e Carla mi accoglie con il suo solito buon umore, un “buon giorno” e un sorriso. Carla, dipendente fedele e responsabile abita in paese, condivide oltre al lavoro anche alcuni momenti sociali legati alla vita paesana. Paola ha sempre le mani impe-gnate con qualcosa, spesso maneggia un coltello ed è lei che ha in mente il programma. Dopo il saluto dice: «Datterini!» mi spiega di iniziare dal fondo e di lasciar perdere quelli minuscoli ovvero, se proprio non riesco a lasciarli sulla pianta, posso fare delle cassettine per me. ormai mi conoscono bene e accolgono le mie “ma-nie” con umorismo! mi piange parecchio il cuore la-sciar marcire sulla pianta, qualcosa che potrebbe essere cibo perfettamente commestibile, solo non adatto allo smercio. Questa mia attitudine l’hanno notata imme-diatamente: raccoglievo l’insalata che veniva destinata alle galline: «galline? me la mangio io!».

    in realtà capisco il non senso della cosa: la natura è abbondante, spesso si fa anche fatica a raccogliere tut-

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    to, per cui bisogna procedere con razionalità e prendere le cose che possono essere presentabili al consumatore. Un giorno andrea mi ha detto: «il problema è che vuoi mangiare solo tu…» è una frase su cui sto ancora ri-flettendo e che ho imparato ad apprezzare. i prodotti delle piante infatti non li mangiamo solo noi, animaletti di varia natura e i preziosissimi microrganismi si nutro-no parimenti. il benessere del ciclo produttivo dipende soprattutto da questo microcosmo. trovo fondato che dobbiamo mangiare tutti, che tutti abbiamo il diritto di farlo. Quello che io considero uno “spreco alimentare” probabilmente si presta a soddisfare bisogni che la natu-ra non annuncia con cartelli pubblicitari o spot tV, ma essenziali. la riflessione su cosa sia uno spreco o no, co-munque, tiene spesso impegnata la mia mente. Rimane il fatto che di questi prodotti, che non sono presentabili per la vendita, potrebbero fruire numerose famiglie. la distanza culturale che separa la maggioranza delle per-sone da una vita più naturale, fa sì che non concepiamo minimamente la possibilità di nutrirci di frutta e verdura non “perfetta”.

    Per raccogliere i datterini, praticamente mi immergo da sotto nel filare, che assomiglia ad un folto cespuglio, e tento come posso di coordinare i movimenti occhio-mano. il rosso del pomodoro a volte si scorge appena dentro una selva di foglie o un intrico di rami. la natura è abbondante ma non sempre rende le cose facili alla rac-colta! Quando sono lì, inginocchiata a terra, con la testa dentro la pianta, arriva almo, il padre di andrea. Viene ad aiutare anche se l’età, i dolori e piccoli incidenti non gli permettono la costanza di cui disponeva un tempo.

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    Sorride dicendo: «ha visto il sorgo che abbiamo pianta-to?». in realtà non ho prestato attenzione e confesso su-bito la mia distrazione. il suo viso radioso sembrerebbe confermare che abbiamo fatto un buon lavoro, se il suo costume glielo permettesse mi strizzerebbe l’occhio! ab-biamo circa quaranta anni di distanza anagrafica e proba-bilmente oltre sessanta di esperienza agricola, per cui lo considero un maestro. il giorno che abbiamo seminato “a spaglio”, Paola mi chiede: «Sai seminare?» «Certo!» rispondo spavalda sperando che sia chiara l’ironia. ho fatto molte cose nella vita: mi sono occupata principal-mente del benessere delle persone, devo aver seminato nel cuore di qualcuno qualche piccola consapevolezza, o un nuovo concetto, o un dubbio, ma seminare la terra l’ho fatto poco e comunque non su larga scala. andrea mi chiama: «mi ha detto Paola che sai seminare… ecco qua!» e mi mette in mano un sacchetto di piccoli semi scuri. lo guardo e dico: «Beh, come sempre parto dal presupposto di avere due mani e buona volontà per cui tutte le cose sono possibili a farsi: tu mi mostri come si fa e io lo faccio come te!». ovviamente, l’esperienza di anni non si può ridurre ed imparare in due minuti, ma essere un’analista del movimento mi aiuta a cogliere dettagli delle movenze del corpo che velocizzano l’ap-prendimento. andrea chiama suo padre: «tu insegnis tu come si semenee alla frute?», almo prende il sacchetto e lo adagia in un cesto che appende al braccio sinistro. Con la mano destra prende un pugno di sementi e dise-gnando un piccolo arco da destra a sinistra, con un colpo secco del polso fa scivolare i semi dal cavo della mano lungo l’indice che tiene ad uncino. Una fila ordinata di

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    semi zampilla come per magia fuori dal suo pugno e cade spargendosi a terra. almo è paziente, mi spiega la tecnica e vedendomi un po’ in ansia mi rassicura. mi dà il cesto in mano e mi dice: «Provi lei, adesso». io son lì che come al solito ho mille dubbi, essere una persona abituata al processo critico di osservazione non aiuta per niente! l’atteggiamento di almo mi rasserena, sono persone che sanno profondamente che per imparare bisogna fare, ma-gari sbagliare, ma fare. lo guardo fisso mentre prendo il cesto, lui accoglie il mio sguardo in un modo che sento fermo ma caldo. immergo la mano nel seme lucido, fre-sco e scivoloso: provo uno strano piacere già a questo contatto. Stringo il pugno facendo scivolare tra le dita il seme in eccesso e poi guardo avanti, riproduco il gesto con la mano e sorprendentemente il seme zampilla allo stesso modo. lo vedo volare verso terra. «Così?» chiedo, almo risponde: «Sì, segua con gli occhi dove va il seme, così lo può spargere ovunque» dopo aver detto questo si allontana. mi verrebbe da obiettare: «ma davvero crede che io sia capace?». lanciare un pugno è stato facile, se-minare in modo uniforme mi sembra un’impresa impos-sibile. eppure ancora una volta osservo la serenità con la quale permettono che io impari, rischiando che il lavoro realizzato da mani inesperte venga fatto male. il risul-tato finale potrebbe essere un campo seminato troppo rado con conseguente spreco di terra o troppo fitto con conseguente spreco di semi e sofferenza delle piantine in crescita. Questo atteggiamento ha un valore inestimabile e non so nemmeno quanto ne siano consapevoli. Vivere a contatto con processi naturali rende naturali anche i processi umani o, forse, sono solo persone fuori dalla

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    norma. oggi almo mi insegna ancora un’altra cosa: ad osservare ciò che il mio lavoro produce e da lì capire come posso migliorarlo. ho chiesto poi ad andrea di guardare assieme il campo. mi ha spiegato che ho se-minato troppo fitto, le piante soffrono un po’, fanno fatica a svilupparsi, competono per luce e nutrimenti. mi stringe un po’ il cuore apprendere questo, ma so che è il prezzo da pagare per imparare.

    Sento Paola e Carla che si muovono velocemente in serra, c’è un po’ di urgenza di finire presto per andare a concludere un altro lavoro prima che arrivino le piogge. il cielo è coperto, oggi, c’è una brezza fresca che prean-nuncia cambiamenti climatici. Bisogna andare nel campo a raccogliere le patate. Scopro che quest’attività è una delle più attese nella stagione estiva, la pioggia potreb-be innescare processi di germogliazione per cui bisogna dissotterrarle al momento giusto. Ci siamo proprio tutti nel campo: andrea, Paola e i loro figli giovanni e anna, Carla, almo, il cuginetto lorenzo ed io. giovanni, un bambino di dieci anni è in sella al trattore, mi fa un ef-fetto misto di ammirazione e impressione vederlo là con lo sguardo serio e penetrante di un adulto. i suoi piedi arrivano a mala pena ai pedali, per esercitare un po’ di forza deve spostare il peso dell’intero corpicino su di essi. lo vedo avanzare tracciando sapientemente un sol-co drittissimo che lascia intravvedere mucchietti di pa-tate ai due lati. e la raccolta inizia! tutti si accaparrano circa tre metri di fila per raccogliere le patate e riporle nella cassetta. lavoriamo in fila indiana in modo tale che quando uno di noi termina il suo tratto, “sorpassa” gli altri e si colloca a capofila per ricominciare da là. Questo

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    diventa un gioco, con i bimbi che aiutano e così ogni volta che si supera bisogna fare il suono della freccia (simulando la guida) per segnalare il sorpasso. Siamo tutti di buon umore mentre afferriamo le patate in vista e poi con le mani ricopriamo il solco rivoltando le zolle a caccia di ulteriore “bottino”. a tratti, alcune gocce di pioggia scendono sulle nostre teste chine. lanciamo dei commenti al cielo scongiurando di non fare una seconda doccia, ma nessuno di noi accenna ad interrompere il lavoro. Dopo circa due ore di impegno condiviso, an-drea propone di proclamare vincitore colui che troverà l’ultima patata. io e i bambini, giocando, pretendiamo di aver trovato l’ultima; di comune accordo i bambini cedono il primato a me che sono l’ultima arrivata, nuo-va a queste sfide! Poi festeggiamo: andrea prende dal campo vicino una bella anguria ovale, e utilizzando una cassetta rovesciata come tavolo, inizia ad affettarla lì sul posto. tutto è così naturale e al contempo speciale… mi tolgo i guanti impolverati e addento la mia fetta. il succo rosso invade la bocca, dissetante e delizioso, siamo tutti intenti a gustare questo frutto e questo momento. Vengono fatti, qua e là, brevi commenti ironici sulle cose più disparate, ma fondamentalmente stiamo festeggian-do il lavoro fatto con una semplicità che da tempo non provavo. il tempo sembra essersi fermato: per me non c’è niente di meglio al mondo che essere lì, in piedi, sul campo, ad assaporare il frutto del nostro lavoro.

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    5.Fango

    Piove, piove, e ancora piove! È stato un autunno gri-gio e umido, il primo da me vissuto così a contatto con la terra. mi chiedevo come avremmo fatto a lavorare in ogni stagione: la risposta non ha tardato ad arrivare, una volta finita l’estate e le sue giornate infuocate, il tem-po ha continuato semplicemente a scorrere ed a mutare. D’estate, l’orario in cui iniziamo a lavorare si aggira at-torno alle sei e finiamo prima di mezzogiorno: sul cam-po ci sarebbe altrimenti troppo caldo per stare sotto il sole, e l’aria in serra sarebbe decisamente bollente! l’ab-bigliamento è semplice: nessuno di noi si cura se con un acquazzone ci bagnamo un po’ anzi, lo viviamo come un momento per rinfrescarci! Sapendo che la lana tiene sta-bile la temperatura corporea, mi sono spesso presentata al mio arrivo in serra, di prima mattina, con una maglia di lana, suscitando l’ilarità di tutti! «Se ti troviamo sve-nuta tra i filari di pomodori ti togliamo semplicemente la maglia e rinvieni!!» imperterrita ho continuato a spe-rimentare come stava il mio corpo nella lana sotto il sole, io direi che è da provare! Un piacevole sudore inumidisce la pelle e dona un effetto rinfrescante… beh, rinfrescan-te forse è un’espressione esagerata con una temperatura che si aggira attorno ai 32-34°C! Diciamo, piuttosto,

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    un effetto umido, ecco! l’estate, dai mille colori e sapo-ri, regala un’ampia varietà di verdure e uno spuntino a metà mattina lo rimediamo sempre! Penso di aver messo in bocca di tutto! Dai radicchi ai broccoli, dai piselli freschi appena usciti dal loro baccello agli asparagi, dalle zucchine ai fagiolini! ogni tanto Paola, vedendomi ma-sticare, commenta: «Simpri che mastie qualchi cjose!» e se Carla è nei paraggi comincia immediatamente con la gag del distributore automatico nelle pause aziendali: «Certo che queste macchinette sono proprio mal riforni-te, mai che si trovasse un panino con la soppressa!», «eh sì» le dò corda: «È da protestare in direzione assieme agli armadietti per cambiarci»; «hai ragione, anch’io questa mattina non sapevo dove appendere la giacca!», risponde lei indicando con la mano la giacca appesa al manico del-la pala conficcata nel terreno. Su questi finti argomenti possiamo andare avanti ad oltranza, ridendo di niente e lasciando l’immaginazione spaziare dalle ricreazioni sco-lastiche alle cene di lavoro: ogni metafora è buona per rallegrare la mattinata. Carla è davvero geniale nel creare battute dal nulla e portare a tutti una ventata di leggera ironia. assume espressioni, che trasmettono simpatia: le si disegnano sul volto predisponendo al divertimento, quello sano e genuino. alle volte è sufficiente un suo sguardo o una sua mossa per suscitare in me il riso ancor prima che lei parli!

    alle porte dell’autunno, la mente ha cominciato ad affollarsi di pensieri e preoccupazioni su cosa avrei do-vuto indossare da lì a poco per lavorare nel campo in ogni circostanza. Vedevo che gli altri compagni inizia-vano a sfoggiare belle giacche impermeabili complete di

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    cappuccio e soprattutto di pantaloni. il motivo per cui indossassero i pantaloni impermeabili, sopra i propri, e sopra gli stivali, si è reso evidente alla prima uscita in campo, dopo un’abbondante pioggia. Camminando nel fango, lo stivale affonda, la terra si attacca in maniera così salda, che talvolta si cammina con zolle enormi di argilla attaccate attorno al piede! Stile “palla da carcera-to”! Quando ci si china a raccogliere la verdura e le cas-sette, il fango s’intrufola ovunque, soprattutto dentro gli stivali e sui pantaloni. Presto ci si ritrova con i pantaloni inumiditi con la sensazione di essersela fatta addosso! Dopo questa esperienza, ripetuta un paio di volte, ini-ziavo davvero a pensare di dover “far spese” provvedendo all’acquisto di pantaloni e giacca, come si addice ad una vera contadinella! Uno di quei giorni, mentre tornavo a casa, ho avuto l’illuminazione: la tuta da moto!! avevo acquistato, parecchi anni prima, una sorta di scafandro per viaggiare in moto e ripararmi dalla pioggia. anche se la forma non assomigliava a quella che avevo visto indos-sare a loro, il materiale era lo stesso. «l’importante è che sia impermeabile» mi son detta!

    alla successiva occasione mi sono presentata con il mio tutone, che ho infilato sotto gli occhi divertiti di Carla e Paola che scuotevano la testa! almo, visto che lo scafandro era abbondante e il cavallo scendeva fino ad arrivarmi quasi alle ginocchia, è arrivato con un pez-zo di spago con il quale ha realizzato una bella cintura! Da quel momento ero pronta anche per il bagnato più ostinato e, come i bambini che si eccitano al momento di giocare all’aperto con ogni intemperie, anch’io non vedevo l’ora di fare la mia prima uscita sotto la pioggia!

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    «guarda com’è contenta!» commenta Paola, scorgendo il mio sorriso durante la vestizione, mentre ci accingiamo ad affrontare il mal tempo, «Che bello!» esclamo «non vedo l’ora!» ovviamente non so cosa mi aspetta e pro-babilmente questa è la sostanziale differenza tra la loro e la mia espressione. Devo dire che nonostante i piedi gelati, le mani bagnate dentro i guanti, gli occhiali rigati che impediscono la vista, c’è un senso di beatitudine, a starsene lì, sotto l’acqua, a tagliare finocchi, verze e cappucci. il ritmo della pioggia che ticchetta sugli abiti è come un mantra ripetitivo ed ipnotico che dona uno strano senso di pace e di fusione con il tutto. arresi agli agenti atmosferici siamo tutti più calmi. l’atmosfera è quasi surreale, grigio tutto attorno, terra sotto e acqua sopra. ho la sensazione di essere invincibile e vinta allo stesso tempo, potente dentro la protezione offerta dal mio scafandro e nullità davanti alle gesta del creato. mi son chiesta se anche gli animali, che vivono sempre que-sto contatto stretto con la natura, si sentano così.

    Dopo settimane di pioggia le strade sterrate diventa-no impraticabili per il furgone sul quale di solito cari-chiamo le cassette piene dopo il raccolto estivo. Da una stagione all’altra tutte le abitudini cambiano e il lavoro si rinnova. eccoci in questo bel quadro al levare del pallido sole: andrea seduto in sella al trattore che deve avere i suoi anni ma fa ancora un onesto lavoro. Paola, Carla ed io, sedute dietro sul carro di legno al traino, gambe pen-zolanti e cassette ammassate tutto attorno a noi! mentre le grandi ruote del trattore avanzano nel fango, percor-rendo ormai il solco profondissimo che si è venuto a creare nel terreno, zolle di diverse dimensioni si staccano

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    dalla ruote volando in tutte le direzioni. generalmente verso il carro agganciato dietro, ovvero verso di noi! «ah, visto come siamo fortunate?! le signore “bene” scucio-no un sacco di soldi per fare i fanghi… e noi li abbiamo gratis!». Paola ed io diamo man forte a Carla e gridiamo ad andrea che ce ne tiri ancora sul viso: «Qui! Qui! Che non ho finito di farmi la maschera di bellezza!». mi sen-to parte di un quadro fuori dal tempo, o dentro al tempo eterno. le cose semplici, che sono appannaggio di tutte le culture del mondo e di tutti i tempi, sono quelle legate alla produzione di cibo, alla terra. mi sento parte di una grande famiglia che origina ancor prima dei miei nonni materni, anche loro contadini, e che si estende alle nuove generazioni. tutti, proprio tutti dipendiamo da questa terra e dai suoi frutti.

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    6.il PRezzo Dei CaRDi

    È una bella giornata autunnale, i campi sono inondati dal sole e potrebbe essere una delle ultime giornate così miti. Una improvvisa gelata comprometterebbe la pro-duzione dei cardi, così oggi ci apprestiamo a portarli in serra. Detto così sembra una cosa semplice! Per la mag-gior parte delle persone “mettere dentro” le piante signi-fica spostar vasi, ma nel nostro caso dobbiamo togliere delicatamente una pianta dal terreno e… che pianta! ma avete un’idea di quanto siano grandi le foglie dei cardi?! mi ricordano le piante tropicali viste nei documentari! Un lungo doppio filare di piante rigogliosissime attende ingenuo un esercito (!) di otto, forse dieci braccia, se arrivano i rinforzi; necessitano di essere portate al ri-paro per poi essere vendute e consumate anche in pieno inverno, probabilmente fino a febbraio. Prima di tutto occorre raccogliere con lo spago le foglie, che se ne stan-no aperte a prendere quanto più sole possibile, in modo da proteggere il gambo che deve rimanere bianco e croc-cante. Ciò che si ottiene è un enorme involtino crudista! la legatura viene eseguita da due persone. Una da una parte e una dall’altra a raggruppare le foglie e a scherzare quando, a turno, si viene punti dalle spine che si trovano sulle foglie enormi difficili da contenere. Dopo aver ma-

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    novrato a lungo, una delle due persone abbraccia la pian-ta come se fosse un’amante e nel frattempo l’altra stringe lo spago in due punti per fissare saldo il cardo. «Chissà che pensieri si fanno quelli che ci vedono abbracciati in questo modo!» commenta Carla col suo solito spirito sagace! Dopo aver fatto questo lavoro per un paio di ore, che per fortuna avevamo già iniziato una settimana prima, è il momento di tagliare il terreno con la pala per estrarre la pianta, compresa la sua radice intera. C’è da ringraziare che il terreno sia abbastanza morbido, ma re-sta comunque un lavoro molto impegnativo. la fetta di terra va incisa a fondo e delle radici va preservato solo il cuore. la pianta viene così estirpata e adagiata sul terre-no per una rifinitura alla forma della zolla che contiene la radice; tale operazione viene praticata con la sciabola. a questo punto il cardo è pronto per essere sollevato e riposto provvisoriamente sul carro. le piante vengono ammassate alla meno peggio e presto è necessario lan-ciarle praticamente sopra i primi strati che già ricoprono il pianale. il carro viene quindi trasportato nella serra ed i cardi vengono posati gli uni accanto agli altri in un letto di terra appositamente scavato per contenere le radici. Per fortuna la combriccola è allegra e questo aiuta a sudare meglio! oggi c’è maria con noi: è la festa del patrono e le scuole sono chiuse. anche lei vuole aiutare e per questo si tenta di lasciarle le piante più piccoline in modo da coinvolgerla. le abbiamo insegnato a tagliare con il coltello le fette di terra attorno alle radici in modo da ricavarne panetti abbastanza regolari. maria è brava e come un piccolo chirurgo passa da una radice all’altra. al secondo giro di carro andrea mi chiede: «a quanto li do-

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    vremmo vendere secondo te?». Senza esitare, e anche non avendone la minima idea: «almeno 50 euro al kilo dopo tutto questo lavoro!». ovviamente sono consapevole di averla sparata grossa: nessuna verdura viene venduta al giusto prezzo se rapportata al lavoro che è stato neces-sario per produrla. Ciò vale soprattutto nei casi in cui la filiera di distribuzione si allunghi e agli agricoltori venga riconosciuta poco più che una miseria. i commenti sui maggiori costi dei prodotti biologici non tengono conto del fatto che il lavoro manuale su piccoli appezzamenti non ha niente a che vedere con le produzioni su larga scala di monocolture per le quali si utilizzano macchine. È opportuno ricordare che nelle produzioni estensive in agricoltura convenzionale il lavoro viene svolto da mano-dopera straniera a costo di sopravvivenza, come nel caso dei pelati da salsa. i prezzi non sempre corrispondono alla qualità e all’eticità della produzione. in quest’ultimo caso si dovrebbe iniziare a pensare che dietro il costo di una scatola di pelati si nasconde un costo sociale molto alto che paghiamo tutti... anche coloro che non fanno uso di scatolette!

    ad un tratto un gemito cattura la mia attenzione, mi volto e vedo andrea inginocchiato a terra; Paola si avvi-cina ma lui, stringendo i denti: dice che non è niente. È evidente che ha danneggiato la schiena facendo il lavoro più duro: quello di estrarre la pianta dal terreno. Dopo il primo attimo di gelo collettivo, andrea è il primo a scherzarci sopra: «avevo bisogno di una scusa per non fare sempre io il lavoro di forza!». Paola e Carla colgono subito l’ironia e iniziano a protestare stando al gioco. andrea si dice disponibile a continuare a guidare il carro

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    e viene chiamato elia per tamponare l’emergenza. elia è un vicino che volentieri viene ad aiutare quando c’è un surplus di lavoro. non so bene come la loro relazione si sia creata nel tempo, ma mi sembra il classico ami-co “di casa” che in caso di necessità dà volentieri una mano. il lavoro continua per ore: andrea resta presente alla stregua di un buon comandante che non abbandona mai la nave, soprattutto nelle situazioni peggiori. all’una di pomeriggio i cardi sono tutti in serra, messi in piedi uno vicino all’altro nel letto di terra precedentemente preparato e coperti dal tessuto/non tessuto perché non prendano freddo. «Come dai frutus!» (bambini in friula-no), scherziamo.

    anche per oggi la mattinata è finita. al momento la soddisfazione supera la stanchezza, ma appena mi siedo in macchina per tornare a casa sento la schiena contratta e nuovamente rifletto sul “vero” prezzo dei cardi, così come degli altri prodotti di quest’azienda o di altre che hanno fatto scelte professionali ed etiche simili. Come la quantifichiamo la perdita di prodotti (circa il 40%) causata da un’improvvisa grandinata a novembre (a no-vembre?! totalmente fuori stagione!)? e come quanti-fichiamo la perdita di produzione dovuta alla fame dei caprioli, che trovandosi ormai del tutto senza habitat na-turale non trovano di meglio da fare che rivolgersi al “su-permercato biologico” nella notte? Come dargli torto, d’altronde? Una volta in campagna venivano lasciati mol-ti più boschi, c’erano siepi e filari di alberi a delimitare le proprietà e tutto ciò creava “corridoi” che permettevano agli animali selvatici di spostarsi da una zona all’altra in cerca di cibo e protezione. ora per ottimizzare i raccolti

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    tutto è stato spianato con il risultato di immense distese di campi dove non si intravvede nemmeno un alberel-lo per far posare gli uccellini. i danni causati quindi da elementi naturali, quali il maltempo e gli animali, sono solo parzialmente rimborsati dallo Stato dopo aver pre-sentato domanda e aver aspettato i tempi burocratici… che noi tutti conosciamo (circa due anni! e non sicura-mente per l’importo del danno subìto!). Sarebbe pos-sibile attivare un’assicurazione privata ma, come spesso accade, non ne vale la pena per estensioni piccole perché, i costi di un eventuale rimborso delle orticole, vengono stabiliti dalle assicurazioni che valutano meno di ciò che realmente vale il prodotto. inoltre la mole di lavoro per assicurare ogni singola varietà di ortaggio sarebbe co-spicua così che questi meccanismi non incentivano gli agricoltori a sottoscrivere le coperture assicurative. Que-ste perdite quindi sono considerate “rischio d’impresa”. Quando ho parlato di questo con andrea e Paola mi è sembrato di capire che loro considerano che ci sono anni migliori di altri e quando si verificano i danni in una qualche misura, almeno psicologicamente, sono già pre-parati. Forse, per chi è abituato al contatto diretto e na-turale con l’ambiente e la sua imprevedibilità, è una cosa normale. a me, che potrei essere “il topo di città”, pare sarebbero necessari più aiuti governativi a chi coltiva in un certo modo, invece la famosa PaC (Politica agricola Comunitaria), ovvero le regole che gli stati europei si sono dati in ambito agricolo, prevedono aiuti economi-ci solo per determinate colture e fino ad ora a nessuno importava “come” venivano coltivati questi prodotti (la nuova PaC in vigore dal 2014 al 2020, prevede dei cam-

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    biamenti detti greening che dovrebbe premiare il lavoro biologico e di preservazione ambientale vedi: www.po-liticheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBloB.php/l/it/iDPagina/287). le cose stanno lentamente cambiando, ma ad oggi non è stato riconosciuto il lavoro virtuoso dei pochi che, oltre a coltivare ortaggi, si preoccupano anche della fertilità della terra e di non deturpare l’ambiente. le logiche con le quali sono stati distribuiti gli incenti-vi in questo settore finora sembravano favorire i grandi proprietari terrieri e qualche bene prescelto (mais, latte, soia, vino, etc.) premiando, ribadisco, il “cosa” e non il “come”. Spesso, non sempre, i grossi imprenditori agri-coli che lavorano grandi estensioni si avvalgono dei pro-grammi di coltivazione più inquinanti perché orientati nelle loro scelte dalla resa e quindi dal profitto. Penso che avvalersi di macchinari sempre più tecnologici allon-tani sempre più il lavoratore dalla terra, che finisce per essere considerata un “oggetto”. altra cosa è lavorare più a contatto fisico con la terra facendo un lavoro pressoché artigianale, occupandosi di pochi ettari da percorrere a piedi, sentendo il profumo della natura attorno a se. ora le normative per gli incentivi stanno cambiando e sem-brano orientarsi meglio verso una maggior salvaguardia ambientale. lo vedremo con il passare ai fatti, e quindi nel prossimo futuro.

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    7.il PeSo Dell’intelletto

    non mi ricordo nemmeno bene cosa stessi facendo, forse “erba” (ovvero togliere le erbacce che crescono a ri-dosso delle piantine trapiantate o seminate) nelle carote, quando Paola mi dice: «ormai è un anno che vieni, pro-babilmente hai imparato ciò che dovevi e sarebbe bene che tu chiarissi le motivazioni per le quali continuare a venire», si capiva dal tono che il suo ragionamento era a fin di bene e che voleva con questo dire anche che se qualcuno fatica e prende un impegno deve sapere a cosa gli serva. ma il ragionamento mi ha colto alla sprovvista, e mi sono sentita un po’, come se da un momento all’al-tro, la mia esperienza lì fosse sul punto di finire, senza che io potessi farci molto. Sono quei momenti della vita in cui altri pretendono che tu faccia il punto della situa-zione... così a “caldo” senza preavviso, mentre sei chino a fare il tuo lavoro, per giunta! Continuo a muovere le mani proseguendo il mio compito meccanicamente poi-ché l’attenzione si è staccata da lì per essere trascinata altrove, nei meandri più reconditi della mia mente! la sensazione è quella di cercare il calzetto mancante dopo il bucato: «eppure la lavatrice non può averlo mangiato! C’era!». le motivazioni infatti ci sono, eccome! e ci ho riflettuto sopra molte volte, è stato anche argomento di

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    disquisizione con amici. in questo momento però sen-to di dover essere concisa e chiara, affermando ciò che è più semplice, banale e anche evidente: «Sembra tanto un anno, ma in verità ci sono ancora molte cose che mi sfuggono e che non so…», pausa lunga «e poi non vengo qui solo per imparare a seminare e raccogliere, vengo per dare concretezza a degli ideali».

    Paola, in effetti, non sa della spinta ideale che mi por-ta lì, a stare con la schiena ricurva e guida i cambiamenti e le mie scelte di vita. È doverosa una spiegazione che, forse per pudore o forse per non portare tutta l’attenzio-ne su di me e i miei bisogni, non ho dato prima. imparare a coltivare, per un verso è solo una parte del mio proget-to, l’altra era giunto il momento di svelarla. le spiego che in questo momento storico che stiamo attraversando è importante ristabilire delle priorità: «Sento che uno stile di vita privo di sprechi e consumi inutili è fonda-mentale per iniziare a fare qualcosa per l’ambiente che non sia solo parlare, parlare, parlare. negli anni ho fatto molti passaggi che mi hanno portato più vicino ad uno stile di vita essenziale. nella semplificazione dei bisogni e riorganizzazione delle abitudini c’è anche il desiderio di ottimizzare le energie: invece di lavorare per avere i soldi per comprare da mangiare, vengo direttamente alla fonte e scambio con voi il mio lavoro in cambio di ciò che serve per l’autosussistenza». Di fatto ciò che por-to a casa dall’azienda soddisfa approssimativamente il 60% dei miei bisogni alimentari. essere in azienda per me rappresenta una scommessa che faccio con me stessa e che lancio agli altri, che si può riassumere così: è pos-sibile vivere scambiando o lavorando direttamente per

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    coprire i propri bisogni primari? È una questione che mi affascina parecchio, mi hanno colpito molto tutti gli esperimenti compiuti da altri per vivere senza denaro e ad impatto zero (le mie fonti d’ispirazione: il film: No impact man di Colin Beavan; il movimento Freegan, www.fregan.info, capeggiato dall’attivista e scrittore tristram Stuart, il libro Vivere senza soldi di heidemarie Schwer-mer). onestamente devo ammettere di essere lontana dall’obiettivo, ma ci provo e mi dò ampio margine di miglioramento! Ragionando con amici su questi temi, mi sorprende che non ci siano più persone che chiedano alle aziende agricole di poter dare una mano in cambio di cibo. la mia esperienza di lavorare per ottenere in cambio non denaro ma cibo, non è un’idea particolar-mente originale o brillante: si faceva in passato quando la burocrazia non penalizzava, come invece avviene oggi, questi scambi in natura, ma si continua a fare anche oggi attraverso il “woofing” per esempio (www.wwoof.it). l’aspetto burocratico sicuramente penalizza la cultura dello scambio ma, a mio avviso, c’è anche una scarsa ca-pacità delle persone di reinventarsi e riadattarsi a nuovi schemi anche quelle senza lavoro e quindi maggiormente in “crisi”. Per quanto ne sappia, confrontandomi anche con amici che lavorano nell’ambito sociale, le persone che richiedono ai servizi territoriali un aiuto per la “spe-sa” sono in aumento («il numero di persone in diffi-coltà in italia è in continuo aumento. nel documento La povertà in Italia presentato lo scorso 14 luglio l’istat ha dichiarato che nel 2013, 6 milioni 20 mila persone sono in stato di povertà assoluta (quasi il 10% della po-polazione italiana!) tra cui 1 milione 434 mila minori

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    e 888 mila anziani» – fonte: www.bancoalimentare.it/it/emergenza-alimentare-italia). Pertanto, visto che mi interessano tutti i progetti volti contro lo spreco alimen-tare, ho pensato di proporre alle assistenti sociali locali di coordinare un progetto che prevede il recupero degli scarti aziendali (ancora perfettamente commestibili e, aggiungerei, eccezionalmente salutari rispetto alle scato-lette solitamente ricevute come sussidio) a favore delle persone meno abbienti e che richiedono assistenza. ne avevo già parlato in azienda, quasi certa che ci sarebbe stata sensibilità verso questi argomenti, e infatti non mi sbagliavo. la presentazione del progetto è stata accettata favorevolmente da tutti e pareva realizzabile: mi sentivo al settimo cielo! a livello burocratico ho richiesto: una carta che tutelasse l’azienda in caso di controlli o in caso che qualcuno si fosse fatto male, e una lista di nominati-vi da contattare per capire l’interesse a partecipare a que-sto progetto. io mi ero offerta di organizzare le persone e di fare da ponte tra le esigenze dell’azienda e quelle del gruppo. la mia formazione e professione rientrano nel settore di aiuto alla persona; mi sembrava una garanzia di buona riuscita del progetto, oltre al fatto che avrei dedicato il mio tempo in forma del tutto gratuita. le cose sembravano evolvere velocemente perché la propo-sta piaceva ai servizi territoriali. io iniziavo già a pensare come organizzare il lavoro e volevo integrare anche nel progetto le mie poche conoscenze sulla raccolta e l’u-so di piante spontanee. Questa, è un’altra delle cose che contraddistingue il mio lavoro quando andiamo a ripu-lire dalle “erbacce” le piantine messe a dimora. C’è una pianta spontanea che si chiama Portulaca che è ricchissi-

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    ma di omega 3, ovvero il grasso che si trova solitamente nel pesce; capite bene che per una vegana poter trovare questi benefici nutrimenti in una pianta è una cuccagna! «ti tengo da parte la “Porcavacca”?!» dice Carla alzando la testa per vedere la mia smorfia divertita! mentre sia-mo chine a “fare erba”, ho sempre la cassettina accanto a me dove va a finire la Portulaca che infesta i campi e che io mangio tanto volentieri in insalata! tornando al progetto, dopo il primo entusiasmo collettivo, il tempo passava senza che nulla si concretizzasse. Dopo alcune telefonate in cui mi si chiedeva di pazientare, mi è stato detto che a livello formale non si riusciva a procurare un documento che coprisse l’azienda da eventuali danni. «Peccato!»: dico io. Si perdono continuamente occasioni a causa delle normative poco lungimiranza. e così molti prodotti di questa e di altre aziende, continuano a rima-nere sul campo o scartati e gettati nel compost, mentre chi ha la pancia vuota continuerà ad averla tale. Questo è l’assurdo degli sprechi di cui si parla spesso e per i quali si fa troppo poco per collegare surplus di beni alimentari da una parte e indigenza dall’altra.

    Secondo me per risolvere alcuni problemi del nostro vivere occorre cambiare prospettiva, e una delle visioni più adeguate per stare meglio tutti su questo pianeta è che siamo tutti connessi, che viviamo tutti sotto lo stesso cielo e su di un’unica terra, per cui il fare “rete” tra noi è indispensabile. Si parla spesso di “network” per dire che se potessimo realmente darci una mano l’un l’altro, lo scarto di uno potrebbe rappresentare la risorsa per un altro. i cambiamenti sul piano materiale spesso seguono una riflessione intellettuale profonda,

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    ci sono tante persone che con i loro scritti e le loro azioni aiutano ad aumentare la consapevolezza dello stato attuale delle cose e indicano delle possibili vie da seguire. tante delle sperimentazioni in atto oggi ed i movimenti ambientalisti nascono dal bisogno di dare risposte al riscaldamento globale, al picco del petrolio, al collasso ambientale e alla crisi crescente (sulla situa-zione ambientale suggerisco il documento redatto da scienziati di tutto il mondo che collaborano a questo progetto: l’Intergovernal Panel on Climate Change, www.ipcc.ch/report/ar5/syr/). Ciò che mi porta a scrivere la mia esperienza è il tentativo di fissare i miei passaggi, di dare un senso più compiuto al mio mettermi alla prova e soprattutto di tentare di unire la teoria alla pratica. Sentiamo parlare frequentemente ormai del ritorno de-gli “intellettuali” alla terra, ad un vivere semplice. È il tentativo di essere coerenti tra ciò che si pensa e la vita che si sceglie di fare. Riflessione e azione dovrebbero sempre andare di pari passo come nel precetto benedet-tino ora et labora. nonostante questo, a volte mi accorgo di dare ancora il meglio di me come intellettuale. ho passato anni ricurva sui libri, dentro sale convegni o in ricerca interiore in seminari residenziali. ancora oggi mi vergogno della lentezza nel compiere le mansioni in azienda. non capisco davvero come sia possibile che pur non distraendomi e non alzando mai lo sguardo da ciò che faccio, io resti sempre indietro rispetto agli altri. Certo, gli altri fanno questo tutti i giorni da vari anni e questo sicuramente incide, hanno visto i po-modori crescere nell’orto da quando erano bambini e questo ha creato quella competenza vissuta che io non

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    possiedo. Quella sicurezza nel dare per scontato cose e processi che, per quanto semplici, mi sono lontani. Questa differenza sarà forse colmabile un giorno con il mio crescente interesse, con la mia buona volontà, con il mantenere viva la curiosità, con l’esperienza sul cam-po e con l’amore per la terra. Questo esperimento in azienda mette in luce, anche per me, una grande verità, cui ho già accennato ma vale la pena di sottolinearlo: in tempi di crisi una delle risorse più grandi è saper fare buone relazioni. È sempre la rete che ci salva, non è così rilevante se non possiedo o non so fare qualcosa, se nel-la comunità c’è qualcuno che ce l’ha o sa farla. Uscendo da una mentalità individualista e abbracciando una di-mensione comunitaria possiamo scoprire quante risor-se e competenze circolino in un gruppo.

    Parlo anche di questo a Paola che ancora mi ascolta. le dico che in questo tempo, oltre che imparare, ho tentato di sviluppare con loro una buona relazione, di essere una persona fidata e di dare il mio contributo sincero. ammiro il loro lavoro, la loro scelta di passare da una agricoltura convenzionale a quella biologica, di mettersi in gioco per lavorare la terra con più rispetto e di proporre un modo alternativo di scambiare prodotti e conoscenze ai consumatori attenti a cui si rivolgono. le mie giornate in azienda sono un contributo minimo a supporto di agricoltori che hanno scelto una via al-ternativa che condivido e rispetto. oltre ad essere una consumatrice critica e consapevole, posso offrire le mie braccia e forse anche la mia penna a servizio di una nobile causa.

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    8.RaDiCChio

    È il mese di gennaio dell’anno 2015. il mio secondo inverno in azienda, eppure le cose ancora mi sorprendo-no. Sotto i guanti da lavoro ci sono ancora le belle mani di una donna che non è nata in campagna, che ne sta imparando ora i ritmi, i colori, gli odori. ogni inverno è diverso, ogni anno è diverso, sia fuori che dentro. l’an-no scorso ero occupata mentalmente ed emotivamente a seguire la salute di mia madre, le ischemie cerebrali per mesi le avevano ridotto di molto le capacità cogni-tive e io mi trovavo risucchiata nel suo mondo distorto con un senso d’impotenza infinito. la mia famiglia ed io ci muovevamo goffamente alla ricerca di una cura, o di una qualche soluzione, tutti i tentativi sembravano vani. Un anno fa venire in campagna a mettere le mani nella terra era per me una terapia dell’anima. era la mat-tina, una alla settimana, in cui mi potevo dedicare a cose semplici, concrete, vitali, dove le mie competenze coin-cidono col buon senso e dove le buone pratiche nascono dall’osservazione, dal lavoro di gruppo, dalla solidarietà. nei momenti di più grande sconforto attendevo la tap-pa settimanale in campagna, dove potevo almeno per un po’ fermare la mente che correva all’impazzata, stare più connessa alle sensazioni fisiche (il freddo, la fatica, il

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    movimento nel tagliare, nel riporre nella cassetta e nel portare sul carro) e meno a quelle emotive. era come se il lavoro a contatto con gli elementi naturali mi riequi-librasse e mi ridesse energia. l’anno scorso le condizioni esterne erano diverse; a novembre ha grandinato all’im-provviso e gran parte delle verdure nel campo si sono rovinate. la parziale fortuna di questa azienda consiste nell’aver creato una buona relazione con i consumatori critici dei gaS, con i quali è possibile dialogare. il danno è stato ridotto dal fatto che alcuni prodotti sono stati raccolti e consegnati ugualmente anche se non rispec-chiavano lo standard estetico a cui normalmente ci si attiene. Questo è stato possibile con prodotti come, ad esempio, finocchi e porri, impossibile invece, il recupe-ro dei radicchi che parevano passati sotto la lama di un frullatore. Quei radicchi che sono uno dei punti d’orgo-glio di andrea, perché una delle poche verdure che segue da seme a seme, ovvero durante l’intero ciclo produttivo della pianta fino ad ottenere il seme da ripiantare. Una ti-pologia di radicchi fa parte di una varietà che si continua a selezionare in queste terre da tempo, infatti l’hanno nominata “Stella”, dal fiume che bagna questi luoghi. il lavoro di recupero o di creazione di nuove varietà vegeta-li è la parte di ricerca sul campo che viene portata avanti da agricoltori che sono per me i veri detentori del sapere del “contado”, ovvero della campagna. la selezione di piante, dalle quali ottenere il seme per ripiantarlo l’anno successivo, è stata quasi interamente delegata ad azien-de specializzate, con il risultato evidente che le aziende agricole che producono ortaggi, cereali e frutta che sono alla base della nostra sussistenza, sono dipendenti dalle

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    aziende produttrici di sementi. noi consumatori non ci pensiamo quasi mai a quanti e quali siano i passaggi che un ortaggio compie prima di saltare a cubetti dentro la nostra pentola, ma gli agricoltori tutti sanno che questa dipendenza potrebbe portare alla paralisi del sistema o meglio, alla sua manipolazione a vantaggio di pochi. Sta già succedendo per quanto riguarda alcune varietà di or-taggi e grani che sono state comprate da multinazionali e che ne detengono il marchio, e questo accade non solo nel campo degli ogm. la registrazione di una data va-rietà è una pratica sempre più in uso che viene effettuata anche da aziende di modeste dimensioni, con il rischio che presto non si potrà più coltivare certe varietà senza incorrere nel rischio di dover pagare i diritti a qualche azienda. Personalmente ritengo si tratti di pura follia… come se non fosse ovvio che la creatrice unica e sola di questi processi è la natura stessa! a lei dovremmo pagare le royalties per le creazioni che continuamente ci regala! Qui si apre uno dei temi più spinosi del sistema “cibo” su cui molto è stato scritto, e sul quale si accaniscono gli attivisti di tutto il mondo; va fermata quell’assurdità che impone che i semi non possano più essere scambiati o addirittura in certi casi autoprodotti, perché sono di proprietà di qualcuno che ci deve speculare sopra! a me sembra onestamente un’indebita appropriazione (riman-do alla lettura del Manifesto sul futuro dei semi, redatto da vari esperti tra cui l’ecologista e scienziata Vandana Shi-va che si batte in tutto il mondo per la salvaguardia dei semi e della biodiversità: www.navdanyainternational.it).

    la cosa che voglio sottolineare è che, pur scegliendo di non perseguire la via ogm, o le grandi lavorazioni

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    intensive con protocolli e sementi della monsanto, Pio-neer, Bayer e Syngenta, anche l’azienda biologica spesso non può permettersi di dedicare il tempo e l’attenzione necessaria al processo che porta all’ottenimento dei semi. Per ottenere il seme da un radicchio per esempio bisogna selezionare quelli migliori in campo, lasciarli andare a seme, ripararli perché non si congelino e proteggerli, per tutto il tempo di cui necessitano, per dar vita al fiore dal quale si ricaveranno i semi. Poi si aspetta che il fiore rin-secchisca e solo un momento prima che naturalmente il seme ceda al richiamo della terra, il contadino raccoglie il fiore e il suo prezioso contenuto, lo apre al fine di li-berare i semi (che in certe varietà sono piccoli più di una capocchia di spillo), dopo di che con la dovuta delica-tezza, vengono pilati in modo che si separino dalla loro cuticola di protezione. ecco il seme, che poi va protetto dall’umido, dalle muffe, dagli insetti...! ogni pianta ha il suo modo e il suo tempo di andare a seme e se si dovesse seguire ogni varietà in questo processo, si dovrebbe de-dicare una gran quantità di lavoro o assumere qualcuno che se ne occupi specificatamente. il 90% di ciò che alla fine viene coltivato in questa azienda si ottiene dal tra-pianto di piantine fornite da un vivaista certificato bio nei pressi di mestre in contenitori di polistirolo che ne contengono fino a 280.

    la preparazione del terreno in modo da nutrirlo di sostanza organica e micronutrienti è un altro dei lavori che forse si danno per scontato mentre paghiamo il con-to dell’ortofrutta alla cassa. i conti infatti spesso non tornano se guardiamo ai risultati nel lungo raggio di cer-te coltivazioni. mentre alcune aziende si preoccupano di

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    avere un terreno ricco di humus e di tutti quei microe-lementi che sono indice di vitalità del terreno: lombrichi in primis (80 al mq, in terreni ricchi)! altri agricoltori sono concentrati sul risultato del cassetto pieno a fine giornata, lasciando dietro di sé terreni sempre più impo-veriti e inquinati quando non interamente desertificati («ogni minuto il Pianeta perde 23 ettari di terreno fer-tile a causa della desertificazione mentre per 5,5 ettari la natura deve cedere il posto al cemento. lo rileva una ricerca dell’institute for advanced sustainability studies (iass) di Potsdam», www.ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/clima/2013/01/15/Forum-suolo-ogni-minuto-persi-23-ettari-terreno-fertile_8079925.html). noi alla cassa paghiamo 1,30 euro/kg le carote convenzionali anziché 1,80 euro/Kg le carote biologi-che… chi lo paga il costo ambientale che si nasconde nell’apparente – ed illusorio – risparmio di 50 centesi-mi?! Come dice un caro amico, i beni di consumo, tUt-ti, dovrebbero avere due prezzi in etichetta, il prezzo di mercato e il costo ambientale e sociale annesso per pro-durlo (e a volte smaltirlo), perché quello lo paghiamo tutti, volenti o nolenti.

    oggi sono qui, in questa fredda giornata di gennaio in piedi nel campo, dentro la mia tutona/scafandro an-tipioggia, coltello in mano e Paola mi dice: «Bene, ora raccogliamo quattro casse di radicchio». io guardo dove, con un cenno della testa, ha indicato gettando a terra le cassette vuote e vedo solo delle formazioni a palla mar-roni/marcio radicate a terra che “una volta”, mi dico, erano forse radicchio! «Dove lo vedi?!» replico sconso-lata. Paola, sempre paziente e forte nella cultura del fare,

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    taglia alla base uno di questi “cosi” e inizia a sfogliare; le foglie esterne marroni cadono, le sue mani si muovono esperte e veloci e, in men che non si dica, magia! Sotto una coltre di foglie marce si nasconde, come una perla nell’ostrica, una bella palla di radicchio rosso perfetta-mente commestibile e dai colori brillanti. Caspita! Da un anno all’altro mi ero dimenticata questo incantesimo! l’ottimismo mi è tornato, sarà anche oggi una raccolta produttiva, una delle ultime comunque. a fine mese in-fatti sul campo rimarrà troppo poco per poter offrire delle borse complete ai gruppi d’acquisto. Sono questi i mesi invernali in cui tradizionalmente il contadino a queste latitudini non ha molto da offrire: fa troppo fred-do sia in campo aperto che in serra. È il momento della progettazione e del cibarsi dei prodotti che si è riusciti a mettere via nei mesi precedenti... ancora qualche zucca, patata e cipolla, qualche porro e radicchio incrostati dal ghiaccio e ancora legumi e grani. non molto altro. Sono i mesi in cui anch’io torno ad una dieta più cotta e ad acquistare un po’ altrove, sempre biologico, s’intende!

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    9.aVanti!

    mentre la natura riposa e i contadini rallentano il loro ritmo, io lavoro assiduamente per coronare il mio sogno: comprare terra. il progetto che ho in mente da anni è articolato ma anche molto semplice: costruire una struttura ecologica che sia la casa di persone che vogliono vivere in modo semplice rispettando la na-tura, lavorare la terra per ricavarne cibo e accogliere chiunque voglia approfondire buone pratiche per il rispetto verso l’ambiente. È un progetto che si inseri-sce nel movimento globale della Permacultura (www.permacultura.it), ovvero tutte quelle pratiche agrico-le, sociali, economiche e costruttive che si pongono come obiettivo il rispetto del sistema dentro il quale viviamo, nella consapevolezza che il nostro è un pia-neta finito con risorse che non si possono sprecare ma, anzi, che vanno ottimizzate. guardo fiduciosa al futuro, so di essere fortunata a vivere in questo tempo con le potenzialità e le risorse che la vita stessa mi ha fornito. So che il processo di consapevolezza nei confronti dell’ambiente è appena iniziato, molto ho ancora da imparare soprattutto a livello pratico, ma la volontà non mi manca, la rete di supporto neppure e allora... avanti verso nuovi obiettivi!

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    BiBliogRaFia e SitogRaFia

    In ordine di citazione• www.transitionitalia.wordpress.com• www.ilcanneto.org• FILM:Un mondo in pericolo,regiadiMarkusImhoof-Svizzera,Germania,

    Austria2012• www.ilfattoalimentare.it/glifosato-monsanto-cancerogeno.html• www.wwf.it/news/?10840/Living-Planet-report-WWF-2014• www.decrescitafelice.it/?s=portogruaro• Libro: Il miracolo del ph alcalino,diRobertO.YoungeShelleyR.Young,

    NuovaEditriceApulia/BISEdizioni,2011• www.forumbenicomunifvg.org• www.ted.com/talks/jamie_oliver-filmato• www.fao.org/news/story/it/item/46829/icode• www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/287• Film:‘Noimpactman’,diColinBeavan,www.noimpactproject.org/movie/• Movimento:‘Freegan’,www.fregan.info,iniziatodall’attivistaTristram

    Stuart• Libro:‘Viveresenzasoldi’diHeidemarieSchwermer,AamTerraNuova

    Edizioni,Luglio2007,www.livingwithoutmoney.org• www.wwoof.it• www.bancoalimentare.it/it/Emergenza-Alimentare-Italia• http://www.ipcc.ch/report/ar5/syr• www.navdanyainternational.it• www.ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/clima/2013/01/15/

    Forum-suolo-ogni-minuto-persi-23-ettari-terreno-fertile_8079925.html

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    Ulteriorifontid’ispirazione:Siti da esplorare:• www.oneplanetfood.info• www.seedfreedom.info• www.ted.com• www.ecovillaggi.it• incontronazionale.economiasolidale.net

    Film documentario:• LemondeselonMonsantodiMarie-MoniqueRobin,tradottoinitaliano

    Il mondo secondo Monsanto,www.youtube.com/watch?v=DaiK6IXQseE• AdictedtoplasticdiIanConnacher,soloininglese,www.youtube.com/

    watch?v=tZnw-d_Axy8• HomediYannArthus-Bertrand,tradottoinitalianoLa nostra terra,

    www.youtube.com/watch?v=I1fQ-3-CEFg• ThefarmforthefuturediRebeccaHosking,sottotitolatoinitaliano

    Una fattoria per il futuro,www.youtube.com/watch?v=O4BouRFKfJc&feature=iv&src_vid=icZFYghEeUE&annotation_id=annotation_3654658777

    • MeatthetruthdiMarianneThieme,tradottoinitalianoin Carne: la verità sconosciuta,www.youtube.com/watch?v=dURtZEe5AII

    • FilmdiAnnieLeonard,attivistaamericana:‘lastoriadellecose’ (www.youtube.com/watch?v=-R6KYrO1b5A),‘lastoriadell’acquain

    bottiglia’ (www.youtube.com/watch?v=8_Qq6dBmRAs),‘lastoriadell’elettronica’

    (www.youtube.com/watch?v=HYYn-b7vQhY),‘lastoriadeicosmetici’(www.youtube.com/watch?v=oKPM55x9lyE),‘lastoriadellacrisieconomica’

    (www.youtube.com/watch?v=TFLvVaC3p2w)

    Trasmissioni rai:• www.scalamercalli.rai.it• www.report.rai.it

    Esperienze di donne audaci:• Esperienzadivivereadimpattozeroinitalia,www.paolamaugeri.com• Eco-merendaascuoladiMariaDeBiase• http://www.youtube.com/watch?v=DhJoGZBJgD8

  • Illustrazioni:maria Canci

    e-mail: [email protected]

    Progetto grafico e impaginazionewww.gio-lunazzi.com

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    Finito di stampare nel mese di giugno 2015