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Profili di (Ir)Responsabilità da Reato delle Persone Giuridiche Rispetto ai Fatti di c.d. «Caporalato». (Art. 603-bis c.p. e D. lgs. 231/2001 a confronto) di Alberto Giuliani* Il «caporalato» rappresenta un fenomeno criminoso complesso che si svolge su scala transnazionale mediante il reclutamento massivo di prestatori di la- voro, spesso migranti irregolari. Essi vengono collocati presso datori di lavoro conniventi in condizioni intollerabili di sfruttamento: le situazioni alloggiative degradanti, i metodi di sorveglianza vessatori, l’assenza di presidi antinfortuni- stici, i ritmi di lavoro estenuanti e la retribuzione palesemente sproporzionata costituiscono un’offesa permanente alla dignità delle vittime. Negli ultimi de- cenni è stata registrata l’esistenza di un’economia sommersa parallela rispetto al mercato del lavoro legale. Si assiste, in particolare, all’impiego della struttu- ra dell’ente collettivo per la realizzazione dello sfruttamento: essa costituisce l’organizzazione primaria dei datori di lavoro che occupano la manodopera; i «caporali» stessi se ne servono come copertura per il collocamento delle vittime. Tale funzionalizzazione illecita della persona giuridica assicura, inol- tre, alle imprese aderenti al «caporalato» un risparmio sul costo del lavoro e una maggiore competitività rispetto ai concorrenti rispettosi della legalità. La tutela penale contro il «caporalato», affidata al delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis cod. pen.), si scontra, tuttavia, con l’assenza di una responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D. lgs. 231/2001 ed è su tale vuoto normativo che si sviluppa la riflessione critica. Il «caporalato» rappresenta un fenomeno criminoso complesso che si svolge su scala transnazionale mediante il reclutamento massivo di prestatori di lavoro, spesso migranti irregolari. Essi vengono collocati presso datori di lavoro con- niventi in condizioni intollerabili di sfruttamento: le situazioni alloggiative degradanti, i metodi di sorveglianza vessatori, l’assenza di presidi antinfor- tunistici, i ritmi di lavoro estenuanti e la retribuzione palesemente spropor- zionata costituiscono un’offesa permanente alla dignità delle vittime. Negli ultimi decenni è stata registrata l’esistenza di un’economia sommersa parallela rispetto al mercato del lavoro legale. Si assiste, in particolare, all’impiego della struttura dell’ente collettivo per la realizzazione dello sfruttamento: essa costituisce l’organizzazione primaria dei datori di lavoro che occupano la ma- * Dottore magistrale in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova. Si occupa in partico- lare di compliance e risk management in tema di responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche. vol legal papers - n 6_2015_3b.indd 269 17/12/15 11:47

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Profili di (Ir)Responsabilità da Reato delle Persone Giuridiche Rispetto ai Fatti di c.d. «Caporalato». (Art. 603-bis c.p. e D. lgs. 231/2001 a confronto) di Alberto Giuliani*

Il «caporalato» rappresenta un fenomeno criminoso complesso che si svolge su scala transnazionale mediante il reclutamento massivo di prestatori di la-voro, spesso migranti irregolari. Essi vengono collocati presso datori di lavoro conniventi in condizioni intollerabili di sfruttamento: le situazioni alloggiative degradanti, i metodi di sorveglianza vessatori, l’assenza di presidi antinfortuni-stici, i ritmi di lavoro estenuanti e la retribuzione palesemente sproporzionata costituiscono un’offesa permanente alla dignità delle vittime. Negli ultimi de-cenni è stata registrata l’esistenza di un’economia sommersa parallela rispetto al mercato del lavoro legale. Si assiste, in particolare, all’impiego della struttu-ra dell’ente collettivo per la realizzazione dello sfruttamento: essa costituisce l’organizzazione primaria dei datori di lavoro che occupano la manodopera; i «caporali» stessi se ne servono come copertura per il collocamento delle vittime. Tale funzionalizzazione illecita della persona giuridica assicura, inol-tre, alle imprese aderenti al «caporalato» un risparmio sul costo del lavoro e una maggiore competitività rispetto ai concorrenti rispettosi della legalità. La tutela penale contro il «caporalato», affidata al delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis cod. pen.), si scontra, tuttavia, con l’assenza di una responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D. lgs. 231/2001 ed è su tale vuoto normativo che si sviluppa la riflessione critica. Il «caporalato» rappresenta un fenomeno criminoso complesso che si svolge su scala transnazionale mediante il reclutamento massivo di prestatori di lavoro, spesso migranti irregolari. Essi vengono collocati presso datori di lavoro con-niventi in condizioni intollerabili di sfruttamento: le situazioni alloggiative degradanti, i metodi di sorveglianza vessatori, l’assenza di presidi antinfor-tunistici, i ritmi di lavoro estenuanti e la retribuzione palesemente spropor-zionata costituiscono un’offesa permanente alla dignità delle vittime. Negli ultimi decenni è stata registrata l’esistenza di un’economia sommersa parallela rispetto al mercato del lavoro legale. Si assiste, in particolare, all’impiego della struttura dell’ente collettivo per la realizzazione dello sfruttamento: essa costituisce l’organizzazione primaria dei datori di lavoro che occupano la ma-

* Dottore magistrale in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova. Si occupa in partico-lare di compliance e risk management in tema di responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche.

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nodopera; i «caporali» stessi se ne servono come copertura per il collocamento delle vittime. Tale funzionalizzazione illecita della persona giuridica assicura, inoltre, alle imprese aderenti al «caporalato» un risparmio sul costo del lavoro e una maggiore competitività rispetto ai concorrenti rispettosi della legalità. La tutela penale contro il «caporalato», affidata al delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis cod. pen.), si scontra, tuttavia, con l’assenza di una responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D. lgs. 231/2001 ed è su tale vuoto normativo che si sviluppa la riflessione critica.

1. Il Reato di Intermediazione Illecita e Sfruttamento del Lavoro, c.d. Delitto di «Caporalato» (Art. 603-bis c.p.)

La c.d. «Manovra-bis» del 2011 (D.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in L. 14 set-tembre 2011, n. 148) ha introdotto all’art. 603-bis c.p. il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, c.d. reato di «caporalato».

È ivi punito con la pena della reclusione da cinque a otto anni e della multa da 1.000 a 2.000 Euro «chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione ovvero recluti manodopera organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione».

È su tale norma che fa perno la reazione penale contro il «caporalato», fenome-no noto alla cronaca e diffuso trasversalmente sul territorio nazionale con maggior intensità nei settori dell’agroindustria e dell’edilizia1.

I «caporali» svolgono un’attività di intermediazione illecita tra i fattori economi-ci del mercato del lavoro. Da un lato, infatti, reclutano prestatori – spesso soggetti particolarmente vulnerabili2 quali stranieri irregolari o inoccupati – attratti dalla

1 Per un approfondito inquadramento storico e sociologico del fenomeno del «caporalato», v. L. LIMOCCIA, A. LEO, N. PIACENTE, Vite Bruciate di Terra. Donne e Immigrati. Storie, Testimonianze, Proposte Contro il Caporalato e l’Illegalità, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997, p. 77; L. LEOGRANDE, Uomini e Caporali. Viaggio tra i Nuovi Schiavi nelle Campagne del Sud, Mondadori, Milano, 2008; F. CRASTOLLA, «Aspetti Sociologici e Giuridici in Tema di Caporalato», in Giurisprudenza Agraria Italiana, 1983, p. 380; G. MONTANARA, «Collocamento dei Lavoratori Agricoli e “Caporalato”», in Giurispru-denza Agraria Italiana, 1982, p. 513; M. G. VIVARELLI, «Il Caporalato: Problemi e Prospettive», in Dir. Pen. Proc., 2009, p. 8, Allegato 1, p. 35.2 La «particolare vulnerabilità» va riferita ad una condizione di disagio sociale ed economico che co-stringe le vittime ad emigrare dal proprio territorio e le rende facilmente assoggettabili a fenomeni di sfruttamento da parte di organizzazioni criminali transnazionali. Tale nozione è stata oggetto di plurimi documenti normativi a livello internazionale, tra cui la Convenzione OIL sui lavoratori migranti n. 143 del 24 giugno 1975; Convenzione OIL sui lavoratori migranti n. 97 del 1 luglio 1949 (disponibile su www.ilo.org); la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, 12-15 dicembre 2000 (anch’essa disponibile su treaties.un.org); la Decisione quadro 2002/629/GAI del Con-siglio dell’Unione Europea, 19 luglio 2002, in materia di tratta di esseri umani; la Direttiva 2009/52/CE

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promessa illusoria di un riscatto sociale e personale; dall’altro, tali persone costitui-scono oggetto di scambio rispetto alla continua domanda di manodopera giornaliera e stagionale a basso costo, sollecitata da parte di datori di lavoro conniventi.

I «caporali» trattengono poi una cospicua parte della retribuzione percepita dalle vittime quale compenso per tale attività di intermediazione, che , inutile a dirsi, spesso oltrepassa il cinquanta per cento della paga giornaliera complessiva.

I datori di lavoro assumono quindi i prestatori «in nero», senza alcuna garanzia o riconoscimento di tipo previdenziale o assicurativo.

Essi sono poi sottoposti a ritmi di lavoro estenuanti e a condizioni ambientali estremamente precarie, sprovvisti di alcuna tutela per la propria sicurezza e inco-lumità personale.

Il ruolo dei «caporali» si protrae spesso anche oltre il mero collocamento delle vittime presso i datori di lavoro: essi, infatti, svolgono in molti casi una stretta atti-vità di sorveglianza delle vittime direttamente «sul campo» e per conto dei datori di lavoro utilizzatori della manodopera3.

Recenti indagini condotte da associazioni di categoria hanno evidenziato una diffusione capillare del fenomeno, sempre più complesso e organizzato secondo logiche e meccanismi autonomi, tanto da potersi parlare di una vera e propria eco-nomia sommersa e parallela rispetto ai circuiti del mercato del lavoro legale4.

Non a caso, infatti, il «caporalato» è spesso connesso con altre gravi attività cri-minose come la tratta internazionale di persone e la criminalità di stampo mafioso,

del Parlamento europeo e del consiglio dell’Unione Europea, 18 giugno 2009, recante norme minima circa l’impiego al lavoro di stranieri irregolari; la Direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea, 5 aprile 2011, anch’essa in tema di tratta di esseri umani e protezione delle vittime; la Convenzione di Lanzarote del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, 25 ottobre 2007 (documenti tutti disponibili su eur-lex.europa.eu).3 I «caporali» sono spesso responsabili dell’organizzazione e del coordinamento dell’attività di sor-veglianza e sfruttamento delle vittime, incaricandosi tra l’altro, del trasporto dei prestatori negli spo-stamenti dai luoghi di lavoro ai punti di raccolta. Cfr. amplius E. LO MONTE, «Osservazioni sull’Art. 603-bis c.p. di Contrasto al Caporalato: Ancora una Fattispecie Enigmatica», in AA. VV., Scritti in Onore di Alfonso Stile, ESI, Napoli, 2014, p. 953; E. ROCCELLA, «La Condizione del Lavoro nel Mondo Globalizzato fra Vecchie e Nuove Schiavitù», in Ragion pratica, 2010, p. 419.4 Secondo l’indagine condotta da FLAI CGIL Nazionale, le sei province più soggetto ad impiego di stranieri irregolari con metodi di sfruttamento sarebbero Foggia, Bolzano, Verona, Trento, Latina, Ragusa. Peraltro, secondo le elaborazioni del rapporto su dati ISTAT, l’irregolarità nelle posizioni lavorative nel settore agroindustriale avrebbe registrato nel 2012 una crescita pari al 25%. Il valore aggiunto dell’economia sommersa sul PIL nazionale ammonterebbe al 17,5%, in crescita rispetto agli anni precedenti (v. amplius il «Secondo Rapporto Agromafie e Caporalato», disponibile su www.rasse-gna.it). Cfr., altresì, L. LEOGRANDE, «Caporalato tra Passato e Presente», in Primo rapporto FLAI-CGIL Agromafie e Caporalato, p. 22, disponibile su www.rassegna.it; M. DI LECCE, «Note sui Profili Penali della c.d. “Economia Sommersa”», in Riv. Giur. Lav., n. 4, 1980, p. 91.

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da cui derivano le metodologie di intimidazione caratterizzanti lo sfruttamento dei lavoratori e di cui costituisce la modalità di interferenza sul mercato del lavoro.

Sin dal secondo dopoguerra è stata avvertita la necessità di un’azione penale di contrasto al fenomeno, che è stata attuata in un primo momento con le L. 29 aprile 1949, n. 264 e 23 ottobre 1960, n. 1369, ora entrambe abrogate. Esse hanno introdotto delle contravvenzioni che punivano lo svolgimento di attività di inter-mediazione e interposizione tra manodopera e datori di lavoro da parte di soggetti non autorizzati5.

Tale sistema sanzionatorio ha poi subito delle modifiche da parte della L. 24 giugno 1997, n. 196 (c.d. «Pacchetto Treu») e del successivo D. lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. «Biagi»), che hanno tuttavia mantenuto inalterata la natura con-travvenzionale e l’ambito di applicazione di tali ipotesi criminose6.

Tuttavia, la mancanza di riferimenti espliciti alle particolari metodologie di sfrut-tamento che distinguono i fatti di «caporalato» da altre violazioni delle procedure amministrative per l’esercizio delle attività di intermediazione di lavoro ha eviden-ziato ben presto l’inadeguatezza di tale apparato punitivo nel contrasto al fenomeno; solamente le ipotesi più gravi di asservimento, ove la libertà personale delle vittime era totalmente annichilita, venivano ricondotte nell’area di applicazione del più grave delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600 c.p.)7.

5 Cfr. E. ROMEI, «L’Elisir di Lunga Vita del Divieto di Interposizione», in Riv. It. Dir. Lav., n. 2, 2005, p. 730, il quale chiarisce come intento del legislatore penale del 1949 e del 1960 fosse quello di san-zionare ogni dissociazione tra la figura del datore di lavoro formale e quella dell’utilizzatore effettivo delle prestazioni lavorative.6 In particolare il D. lgs. 276/2003 ha operato un fenomeno di abrogatio sine abolitione rispetto alle fat-tispecie contravvenzionali precedenti, riformandone la formulazione, tuttavia mantenendo inalterata la struttura essenziale degli illeciti. Cfr. amplius G. MORGANTE, «Quel che Resta del Divieto di Intermedia-zione ed Interposizione di Manodopera nelle Prestazioni di Lavoro dopo la Riforma Biagi», in Dir. Pen. Proc., n. 6, 2006, p. 733; L. PERINA, «Il Divieto di Intermediazione e Interposizione nelle Prestazioni di Lavoro dopo il D. lgs. 10 settembre 2003 n. 276», in Mass. Giur. Lav., 2004, p. 331; L. CALCATERRA, «Il Divieto di Interposizione nelle Prestazioni di Lavoro: Problemi Applicativi e Prospettive di Riforma», in R. DE LUCA TAMAJO (a cura di), I Processi di Esternalizzazione. Opportunità e Vincoli Giuridici, ESI, Napoli, 2002, p. 127; F. MANTOVANI, «Commento all’Art. 18», in E. GRAGNOLI, A. PERULLI (a cura di), La Riforma del Mercato del Lavoro e i Nuovi Modelli Contrattuali. Commentario al Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, Cedam, Padova, 2004; M. PEDRAZZOLI, «Commento agli Artt. 18-19», in ID. (a cura di), Il Nuovo Mercato del Lavoro, Torino, 2004, p. 234; P. RAUSEI, «Somministrazione Illegit-tima e Sanzioni», in Guida alle Paghe, 2008, 1, p. 32; F. CARPELLI, «Somministrazione Fraudolenta», in E. GRAGNOLI, A. PERULLI (a cura di), id., p. 433; F. BUONADONNA, G. TRAMONTANO, «Il Reato di Somministrazione Abusiva di Manodopera», in Fisco, n. 22, 2006, p. 3405.7 V. sul punto Cass. Pen., 24 settembre 2010, n. 40045 (in CED Cassazione Penale 2010). Cfr., altresì, L. PICOTTI, «Nuove Forme di Schiavitù e Nuove Incriminazioni Penali fra Normativa Interna ed Inter-nazionale», in L’Indice Penale, n. 1, 2007, p. 15; F. RESTA, «I Delitti Contro la Personalità Individuale, alla Luce delle Recenti Riforme», in Giur. Merito, n. 4, 2006, p. 1046; S. ALEO, «La Repressione Penale

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Diversamente, il fenomeno del c.d. «caporalato grigio» (che ricomprende fatti di sfruttamento più mascherato e di intensità minore, rispetto ai quali non vi era adeguata risposta sanzionatoria da parte delle contravvenzioni di cui al D. lgs. 276/2003) restava di fatto impunito – era prevista la sola pena dell’ammenda, peraltro con la possibilità di pagamento ridotto mediante il riscorso all’oblazione.

Una disciplina migliorata si è avuta successivamente con l’introduzione del delit-to di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.)8.

Bene giuridico tutelato da questa nuova ipotesi criminosa è la personalità indi-viduale9, laddove, peraltro, come infra si dirà, è mancata un’adeguata riflessione

del Traffico Internazionale delle Persone nel Quadro delle Problematiche Generali dell’Organizzazione e della Globalizzazione», in G. TINEBRA, A. CENTONZE (a cura di), Il Traffico Internazionale di Persone, Giuffrè, Milano, 2004; S. ALEO, Diritto Penale e Complessità. La Problematica dell’Organizzazione e il Contributo dell’Analisi Funzionalista, Giappichelli, Torino, 1999; V. MUSACCHIO, «Schiavitù e Tratta di Esseri Umani: Analisi del Fenomeno ed Esigenza d’una Normativa Penale Internazionale», in Dir. Famiglia, n. 1, 2003, p. 236; A. MONTANARI, «L’Attuazione Italiana della Nuova Direttiva 2011/36/UE: Una Nuova Mini-Riforma dei Delitti di Riduzione in Schiavitù e Tratta di Persone», in Diritto Penale Contemporaneo, 20 marzo 2014, disponibile su www.penalecontemporaneo.it.8 La vocazione «intermedia» del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro emerge a chiare lettere dalla relazione accompagnatoria dell’atto normativo. Il legislatore avrebbe, cioè, inteso porre un terzo presidio di tutela penale contro forme di sfruttamento non sufficientemente contrastate dalle contravvenzioni di cui al D. lgs. «Biagi», poiché troppo lievi, né riconducibili all’area di applica-zione del delitto di riduzione in schiavitù, del quale mancava l’elemento della totale compressione della libertà delle vittime. In questo senso, quanto alla configurabilità del reato di cui all›art. 603-bis c.p. (introdotto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 12, comma 1, conv. con L. 14 settembre 2011, n. 148), Cass. Pen., Sez. V, 04 febbraio 2014, n. 14591, ha precisato che il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. «è destinato a colmare l’esistenza di una vera e propria lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro e, in definitiva, è finalizzato a sanzionare quei comportamenti che non si risolvono nella mera violazione delle regole poste dal D. lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (v. in particolare, l’art. 18, quanto al versante punitivo), senza peraltro raggiungere le vette dello sfruttamento estremo, di cui alla fattispecie prefigurata dall’art. 600 c.p., come confermato dalla clausola di sussidiarietà con la quale si apre la previsione». V. amplius L. PISTORELLI, A. SCARCELLA (a cura di), «Relazione n. III/11/2011 dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione», disponibile su www.cortedicassazione.it. Cfr. altresì A. SCARCELLA, «Il Reato di “Caporalato” Entra nel Codice Penale», in Dir. Pen. Proc., n. 10, 2011, p. 1183; E. RACCA, P. RACCA, «Manovra di Ferragosto: Con la Conversione in Legge Spunta la Delega per l’Accorpamento dei Tribunali», in Guida al Diritto, n. 39, 2011, p. 10; E. SCORZA, «Le Novità Rilevanti per il Diritto Penale nelle Recenti Manovre “Anti-Crisi”», in Legislazione Penale, n. 1, 2012, p. 7; R. BRICCHETTI, L. PISTORELLI, «“Caporalato”: Per il Nuovo Reato Pene fino a Otto Anni», in Guida al Diritto, n. 35, 2011, p. 48; D. MANCINI, «La Tutela del Grave Sfruttamento Lavorativo ed il Nuovo Articolo 603-bis c.p.», 26 settembre 2011, disponibile su www.altalex.it; E. SCORZA, «Le Novità Rilevanti per il Diritto Penale nelle Recenti Manovre “Anti-Crisi”», in Legislazione Penale, n. 1, 2012, p. 7.9 In particolare, secondo Cass. Pen, Sez. V, 04 febbraio 2014, n. 14591 (in CED Cassazione Penale 2015) «oggetto di tutela di questa categoria di reati è, pertanto, lo stato di uomo libero, inteso come necessario presupposto per il riconoscimento dei singoli diritti di libertà. In altri termini ciò che viene tutelato non è una forma particolare di manifestazione della libertà del singolo, bensì il complesso delle

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attorno all’ulteriore interesse della genuina concorrenza tra le imprese, anch’essa attinta dall’attività dei «caporali».

Nell’obiettivo di un’azione penale trasversale ed efficace, la norma stabilisce al secondo comma alcune presunzioni espresse di sfruttamento10 e giunge così a indi-viduare quattro «spie» di «caporalato»: in primo luogo vi è la violazione sistematica della normativa in materia di orario di lavoro e ferie; seguono poi la corresponsione di una retribuzione palesemente inadeguata rispetto al lavoro prestato, la violazione della normativa in tema di sicurezza e igiene e infine la sottoposizione dei lavoratori a condizioni alloggiative disumane e a metodi di sorveglianza degradanti.

Al verificarsi anche solo di una di tali circostanze, opera un’inversione probato-ria che pone a carico del presunto «caporale» l’assolvimento della prova contraria dell’inesistenza degli elementi oggettivi tipici dell’illecito.

Desta tuttavia notevoli perplessità l’ulteriore scelta del legislatore del 2011 di non includere espressamente tra i soggetti attivi del reato i datori di lavoro utiliz-zatori della manodopera somministrata da parte dei «caporali». È, infatti, punita la sola attività di intermediazione «organizzata» 11, svolta «reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento».

La condotta dei datori di lavoro, infatti, rientra nell’area di rilevanza penale solamente a titolo di concorso esterno nel reato proprio dei «caporali».

manifestazioni che si riassumono in tale stato e la cui negazione incide sullo svolgimento della perso-nalità dell’individuo (…) L’esigenza avvertita dal legislatore di aggiungere il riferimento a quest’ultima nozione impone, infatti, di valorizzare, ai fini della configurabilità della fattispecie, qualunque condotta idonea a menomare la libertà di determinazione della vittima, attraverso l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità della stessa. (…) L’intimidazione, infatti, evoca, l’effetto di qualunque condotta palese, ma anche implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, purché idonea, in relazione alle circo-stanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali in cui questa opera, ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, al fine di ottenere risultati non consentiti attraverso prestazioni non dovute nell’an o nel quantum o nel quando».10 Cfr. P. RAUSEI, Ileciti e Sanzioni: Il Diritto Sanzionatorio del Lavoro, Ipsoa, Milano, 2011, p. 66, se-condo cui l’elenco è meramente orientativo, e non tassativo. Analogamente, S. FIORE, «(Dignità degli) Uomini e (Punizione dei) Caporali. Il Nuovo Delitto di Intermediazione Illecita e Sfruttamento del Lavoro», in AA. VV., Scritti in Onore di Alfonso Stile, ESI, Napoli, 2014, p. 890, ritiene le quattro «spie» di «caporalato» meramente indicative. Egli tuttavia osserva come la formulazione letterale di detti indici sintomatici di sfruttamento sia sovente generica e di dubbia interpretazione. In senso conforme anche E. LO MONTE, ibid.11 Dall’impiego dell’aggettivo «organizzata» con riferimento all’attività di intermediazione non discende la natura plurisoggettiva dell’illecito, dovendo tale caratteristica essere riferita più correttamente alle modalità di svolgimento della condotta: è richiesta, cioè, la prova della predisposizione ed organizzazio-ne minima dei mezzi di sfruttamento da parte dei caporali, anche in autonomia rispetto ad associazioni o circuiti criminali più complessi. Cfr. più diffusamente S. FIORE, id., p. 879.

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Tale formulazione normativa tanto appare irragionevole sotto il profilo della tecnica giuridica quanto tradisce gli stessi obiettivi di politica criminale della fat-tispecie: da un lato, la condotta dei datori di lavoro, che, di fatto, organizzano il lavoro delle vittime con modalità e condizioni di sfruttamento, non è, infatti, diretta-mente sanzionata; dall’altro, la punibilità di tali soggetti dipende strettamente dalla dimostrazione della sussistenza di ogni elemento tipico oggettivo e soggettivo della parallela responsabilità dei «caporali», il che limita fortemente l’efficacia dell’azione punitiva12.

L’assenza di sanzioni penali dirette a carico dei datori di lavoro ostacola poi anche il conseguimento degli obiettivi di prevenzione generale, poiché, di fatto, la sostanziale impunità di tali soggetti non disincentiva il flusso della domanda di ma-nodopera illegale a basso costo che continua ad alimentare l’attività dei «caporali».

Per altro verso, il sistema delle pene accessorie, previste dal successivo Art. 603-ter c.p., in dipendenza della condanna per il delitto in esame, risulta orientato proprio nel senso opposto, quello cioè di sanzionare direttamente le imprese utiliz-zatrici della manodopera: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, il divieto di concludere contratti di appalto e di fornitura di opere, riguardanti la pubblica amministrazione, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti ed erogazioni pubbliche, infatti, sono sanzioni che rivestono tipicamente una forte efficacia deterrente e punitiva proprio nei confronti dei datori di lavoro che ricor-rano alla manodopera irregolare.

Si è detto inoltre che l’Art. 603-bis c.p. ha introdotto al secondo comma una descrizione minuziosa di circostanze di fatto per effetto delle quali opera una presunzione di tipicità: ciò conferisce senz’altro valore e contenuto alla nozione di «sfruttamento», tuttavia a volte l’imprecisa formulazione letterale non rende agevole individuare con precisione i confini concreti di applicazione degli indici sintomatici di sfruttamento.

Non è chiaro, in particolare, quali siano i criteri per valutare la sproporzione della retribuzione corrisposta rispetto al lavoro prestato. L’individuazione del coefficiente che fa scattare la punibilità, infatti, è rimessa unicamente al libero ap-prezzamento del giudice, che dovrà di volta in volta stabilire cosa debba intendersi per «palese» difformità rispetto ai contratti collettivi nazionali, ovvero per «spro-

12 Cfr. R. BRICCHETTI, L. PISTORELLI, ibid., secondo cui l’azione punitiva avrebbe dovuto svolgersi se-condo due direttrici: da un lato sanzionando adeguatamente il reclutamento dei prestatori da parte dei «caporali», dall’altro le condotte di organizzazione dell’attività lavorative delle vittime, svolta sotto il comando diretto dei datori di lavoro. V. altresì F. BACCHINI, «Il Nuovo Reato di cui all’Art. 603-bis c.p.: Intermediazione Illecita con Sfruttamento della Manodopera», in L’Indice Penale, n. 2, 2011, p. 645.

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porzione» con riguardo direttamente alla qualità e alla quantità della prestazione svolta dalla vittima13.

Vi è poi la difficoltà di comprendere quale sia il pericolo ulteriore per la salute e la sicurezza dei lavoratori che dovrebbe aggiungersi alla violazione della normativa antinfortunistica per integrare il terzo indice sintomatico di «caporalato».

La lettera della norma esclude, infatti, la rilevanza della semplice mancata ado-zione dei presidi di tutela dell’incolumità dei lavoratori, ma al tempo stesso omette di individuare quale sia il quid pluris che aggraverebbe la situazione di pericolo e giustificherebbe, per contro, la presunzione di «sfruttamento», con conseguente inversione dell’onere della prova.

Ciò che è certo, ad ogni modo, è che tale ulteriore requisito andrà necessaria-mente individuato al di là della «semplice» messa in pericolo dei lavoratori, posto che quest’ultima costituisce già il rischio presupposto alla base del sistema norma-tivo contenuto nel D. lgs. 81/2008 in materia di incolumità e sicurezza sul lavoro.

Resta pur sempre oscuro quale sia l’ulteriore «terzo livello» di «grave pericolo» da cui deriva l’applicabilità della circostanza aggravante prevista al terzo comma dell’Art. 603-bis c.p., laddove il fatto sia commesso «esponendo i lavoratori in-termediati a situazioni di grave pericolo avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».

Il legislatore ha in ogni caso escluso che integrino ipotesi di «caporalato» prassi «ordinarie» di assunzione «in nero» di lavoratori, quali ad es. «colf» o badanti, così da ricomprendervi solamente fenomeni più gravi di sfruttamento.

Non rileva, inoltre, una singola non conformità rispetto alle prescrizioni dettate in materia antinfortunistica, stante il richiamo espresso a più «violazioni» della normativa, pur non sistematiche, confermando l’irrilevanza penale di episodi isolati.

13 Sui possibili criteri interpretativi al fine di individuare la portata della nozione di «retribuzione proporzionata», si veda L. DEL VECCHIO, «Retribuzione Sufficiente e Condizioni Territoriali: Gli Orientamenti della Giurisprudenza», in ADL, 2003, p. 317; M. DELL’OLIO, «La Retribuzione», in I Soggetti e l’Oggetto del Rapporto di Lavoro, Utet, Torino, 1986, p. 49; C. GALIZIA, «La Giusta Retribu-zione tra Punti Fermi e Questioni Aperte», in DLM, 2009, p. 597; G. GIUGNI, «Prefazione a M. L. DE CRISTOFARO», in La Giusta Retribuzione, Il Mulino, Bologna, 1971; E. GRAGNOLI, «La Retribuzione e i Criteri della Sua Determinazione», in La Retribuzione, 2011, p. 1; S. HERNANDEZ, «I Principi Costitu-zionali in Tema di Retribuzione», in Quaderni ADL, n. 2, 1998, p. 9; P. ICHINO, «I Primi Due Decenni del Diritto del Lavoro Repubblicano: Dalla Liberazione alla Legge sui Licenziamenti», in Il Diritto del Lavoro nell’Italia Repubblicana, Giuffrè, Milano, 2007, p. 3; P. ICHINO, «La Nozione di Giusta Retribuzione nell’Articolo 36 della Costituzione», in Riv. It. Dir. Lav., 2010, p. 719; A. PIOVESANA., «Commette Estorsione l’Imprenditore che Impone ai Lavoratori Retribuzioni “Rantasma” e Rimissioni in Bianco», in Lav. Giur., 2010, p. 1088; G. RICCI, «La Retribuzione Equa e Sufficiente nelle Aree Socio-Economicamente Depresse: La Visione “Socialmente Avanzata” della Cassazione», in Lav. Dir., 1995, p. 523; E. ROCCELLA, I Salari, Il Mulino, Bologna, 1986.

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D’altra parte sarebbe stato opportuno includere tra gli indici sintomatici di sfrut-tamento anche la sussistenza di ipotesi di appalti fittizi, notoriamente alla base di fenomeni di «caporalato» soprattutto nel settore delle attività di c.d. «facchinaggio».

La norma sconta, inoltre, un insoddisfacente recepimento delle Direttive 2009/52/CE in materia di «sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di la-voro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare» e 2011/36/UE concernente «la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime»14.

Tali fonti sovranazionali, nel definire il «caporalato» un problema transnazionale al pari di fenomeni come tratta di persone e criminalità organizzata, ne avevano sollecitato una disciplina uniforme tra gli Stati membri. I singoli legislatori interni avrebbero poi dovuto armonizzare il trattamento sanzionatorio del «caporalato» con la disciplina riferita a tali fenomeni criminosi.

Ciononostante, deve registrarsi la mancata estensione al delitto di «caporalato» delle peculiari disposizioni processuali applicabili ai gravi delitti contro la personali-tà individuale quali il maggior termine di durata delle indagini preliminari, le moda-lità di tutela anche psicologica del minore nella fase di «discovery» e in particolare durante l’incidente probatorio, la preclusione all’accesso al rito del patteggiamento.

Non sembra, pertanto, che la fattispecie criminosa introdotta dalla «Manovra-bis» del 2011, peraltro in tema di «stabilizzazione finanziaria», sia adeguata e soddisfacente rispetto alle più ampie esigenze di tutela connesse al fenomeno del caporalato, così che si deve auspicare un nuovo intervento legislativo di riforma e coordinamento della norma di cui all’art. 603-bis c.p. rispetto agli imperativi di tutela ad oggi ancora disattesi.

2. L’Intermediazione Illecita e il Tipo Criminologico della Persona Giuridica a Confronto: Quale Interesse e Quale Vantaggio per l’Ente Collettivo

Suscita, tuttavia, maggiori perplessità la mancata previsione di una responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) in dipenden-za della commissione del delitto di «caporalato» nell’interesse o a vantaggio di enti collettivi.

14 Per una disamina chiara ed efficace del contenuto della Direttiva 2011/36/UE, cfr. F. SPIEZIA, M. SIMONATO, «La Prima Direttiva UE di Diritto Penale sulla Tratta di Esseri Umani», in Cass. Pen., n. 9, 2011, p. 3197.

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È noto, infatti, come il «caporalato» non costituisca più un fenomeno «micro-economico» che risponde cioè a logiche di condotta di singoli intermediari isolati che rincorrano la marginalizzazione di un profitto illecito personale derivante dal trattenimento di parte della retribuzione delle vittime. Tale lettura appartiene al passato, poiché l’attività di tali soggetti, rientrante a pieno titolo nella criminalità d’impresa, si svolge ora su scala transnazionale tramite organizzazioni complesse ed in stretta connessione con fenomeni di tratta di persone e di immigrazione irrego-lare, spesso mediante l’appoggio di sodalizi di stampo mafioso.

I «caporali» operano oggi quali agenti «macro-economici», capaci di deviare in maniera diffusa i fattori del mercato del lavoro e di spostare il momento di incontro tra domanda e offerta a coordinate intollerabili e gravemente pregiudizievoli per i prestatori in cerca di occupazione15.

Il «caporalato» costituisce poi manifestazione di un’economia «sommersa»16, che è indice dell’insufficienza del sistema legale a soddisfare bisogni ed esigenze della collettività e del mercato. D’altra parte, la mancanza di un intervento penale coordinato ed efficace favorisce la creazione di zone di impunità e diviene essa stessa catalizzatrice involontaria delle prassi criminose.

È poi l’impresa utilizzatrice della manodopera ad essere la responsabile princi-pale delle condotte di sfruttamento elencate all’art. 603-bis c.p., in particolare della sistematica retribuzione in modo iniquo e sproporzionato, della violazione della normativa in materia di orario di lavoro, riposo e ferie, della mancata predispo-sizione di presidi di sicurezza e igiene e infine della sottoposizione dei lavoratori a condizioni di sorveglianza o a metodi degradanti durante lo svolgimento delle prestazioni. Attività tutte poste in essere al fine di abbattere illecitamente il costo del lavoro, per presentare i propri beni o servizi sul mercato a prezzi competitivi, ottenendo il duplice effetto di massimizzare i profitti e ostacolare l’azione di even-tuali rivali falsando i normali meccanismi di leale concorrenza.

Il movente economico e imprenditoriale non costituisce, pertanto, il solo retro-terra d’azione dei «caporali», quanto il metodo ed il fine ultimo dello sfruttamento.

La stessa relazione ministeriale al D. lgs. 231/200117, nel decifrare le motivazioni della scelta del tipo criminologico dell’ente collettivo quale destinatario della nota

15 E. LO MONTE, ibid.16 M. DI LECCE, id., p. 91.17 In particolare, afferma la relazione ministeriale al D. lgs. 231/2001: «Dal punto di vista della politica criminale, le istanze che premono per l’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi ap-paiono infatti ancora più consistenti di quelle legate ad una pur condivisibile esigenza di omogeneità e di razionalizzazione delle risposte sanzionatorie tra Stati, essendo ormai pacifico che le principali e più pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa. L’incremento ragguardevole dei reati dei “colletti bianchi” e di forme di criminalità a questa assimi-

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responsabilità amministrativa18, ha evidenziato, peraltro, la precisa volontà del legi-slatore di punire ogni forma di «funzionalizzazione» occasionale o prevalente della struttura organizzativa della persona giuridica al fine di commettere reati o di trarre vantaggio dal verificarsi di essi, sino a ritenere rilevante la «colpa in organizzazione».

Tale è anche la ratio della disposizione di cui all’art. 8 D. lgs. cit. che sancisce il principio di autonomia della responsabilità della persona giuridica, la quale sussiste anche laddove l’autore materiale del reato non sia identificabile o perseguibile.

Il fenomeno del «caporalato» qui descritto costituisce proprio un fenomeno tra-sversale che abbraccia ogni forma di funzionalizzazione illecita dell’ente collettivo.

All’interno del tipo criminologico della persona giuridica devono, infatti, distin-guersi da un lato i casi di «impresa intrinsecamente illecita, il cui oggetto sia cioè proiettato in modo specifico verso la commissione di reati», dall’altro le ipotesi in cui la commissione di reati, pur non costituendone la finalità principale, rientri comunque «nell’ambito della sua diffusa politica aziendale».

Tale ultima categoria, a sua volta, va suddivisa sulla base degli illeciti indirizzati specificamente al conseguimento di ingiusti profitti da una parte, e dall’altra delle violazioni che conseguono «a reati espressivi di una colpa di organizzazione».

Nel Decreto dunque si riscontra sia l’ipotesi della persona giuridica utilizzata quale copertura dell’attività illecita degli intermediari e per tale motivo esclusiva-mente finalizzata allo sfruttamento delle vittime, sia l’impresa datoriale, utilizzatrice della manodopera, che diviene il luogo e lo strumento dello sfruttamento delle vittime, al fine di conseguire illeciti guadagni o risparmi di spesa.

Non vi è, inoltre, difficoltà nell’individuare i profili dell’interesse e del vantaggio degli enti collettivi rispetto alla commissione del delitto di cui all’art. 603-bis c.p.

Da un lato, infatti, vi è il profitto derivante alle organizzazioni dei «caporali» dalla decurtazione di parte della retribuzione percepita dalle vittime; dall’altro, il riferimento è al risparmio di spesa connesso all’assunzione irregolare dei prestatori da parte dei datori di lavoro utilizzatori della manodopera.

Tale ultimo aspetto rende, tra l’altro, evidente la portata offensiva del «capora-lato» rispetto al bene giuridico della leale concorrenza tra le imprese, intesa quale manifestazione della libertà di iniziativa economia privata tutelata all’art. 41 Cost.

labili, ha di fatto prodotto un sopravanzamento della illegalità di impresa sulle illegalità individuali, tanto da indurre a capovolgere il noto brocardo, ammettendo che ormai la societas può (e spesso vuole) delinquere. La complessità del modello industriale post-moderno è anzi notoriamente contraddistinta dall’incremento dei centri decisionali, da una loro accentuata frammentazione e dall’impiego di “scher-mi fittizi” a cui imputare le scelte e le conseguenti responsabilità».18 Cfr. amplius AA. VV., Il Soggetto Autore del Reato: Aspetti Criminologici, Dogmatici e di Politica Criminale, Cedam, Padova, 2013.

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Proprio per la crescente diffusione anche a livello transnazionale, il «caporalato» è, infatti, in grado di determinare una distorsione delle normali dinamiche di do-manda e offerta dei mercati del lavoro e della commercializzazione di beni o servizi nei confronti degli utenti finali, entrambi terreni di scontro sui quali hanno gioco facile le imprese conniventi con gli intermediari abusivi, potendo beneficiare di illecite economie derivanti dall’abbassamento del costo del lavoro, che consentono loro di vendere i propri prodotti a prezzi maggiormente competitivi.

Avrebbe, pertanto, trovato ragione l’introduzione del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nel novero dei reati presupposto di cui al D. lgs. 231/2001, stante l’esigenza di prevenire la crescente elusione dei meccanismi di legalità che regolano la concorrenza e l’esercizio dell’attività produttiva, oltre che di contrastare lo sfruttamento e l’illecita compromissione della dignità umana e lavorativa delle vittime, soprattutto ove siano espressione della politica aziendale degli intermediari e delle imprese aderenti al sistema del «caporalato».

L’estensione di tale responsabilità amministrativa delle persone giuridiche sa-rebbe stata, infine, conforme alla scelta del legislatore della c.d. «Manovra-bis» del 2011 di introdurre talune pene accessorie all’art. 603-ter c.p., aventi una vocazione dichiaratamente economica, rivolte, cioè, ad ostacolare la prosecuzione di un’attività di impresa da parte dei fautori della condotte di «caporalato»19.

3. Le Proposte di Legge Inattuate del Quinquennio 2006-2011 Volte all’Introduzione della Responsabilità delle Persone Giuridiche per il Delitto di «Caporalato»

Il quinquennio dal 2006 al 2011 è stato caratterizzato da molteplici proposte le-gislative volte a contrastare il fenomeno del «caporalato», tutte accomunate dall’in-troduzione di misure punitive sia nei confronti delle persone fisiche sia degli enti collettivi che avessero tratto un interesse o vantaggio dalla commissione degli illeciti.

Va precisato, tuttavia, che nessuno di tali provvedimenti è mai entrato in vigore anche a causa di un brusco arresto del dibattito parlamentare su tale reato per la

19 Circa la vocazione economica di tali pene accessorie, cfr. l’analisi sistematica svolta da P. PISA, Le Pene Accessorie. Problemi e Prospettive, Giuffrè Editore, Milano, 1984; S. LARIZZA, Le Pene Accessorie, Cedam, Padova, 1986; S. LARIZZA, «Pene Accessorie», in Dig. Disc. Pen., Torino, 1995; P. DE FELICE, Natura e Funzioni delle Pene Accessorie, Giuffrè, Milano, 1988; G. DE FRANCESCO, «Le Nuove Pene Interdittive Previste dalla Legge 689/1981: Una Svolta nella Lotta alla Criminalità Economica?», in Archivio Penale, 1984, p. 411; E. DOLCINI, «Commento al Titolo II del Libro I: Delle Pene», in A. CRE-SPI, G. FORTI, G. ZUCCALÀ, (a cura di), Commentario Breve del Codice Penale, Cedam, Padova, 2011.

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repentina introduzione governativa dell’attuale fattispecie di intermediazione ille-cita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.) ad opera del D.L. 138/2011, conv. in L. 148/201120.

Ad ogni modo, un primo disegno di legge (A.S. 1201 del 2006, «Interventi per contrastare lo sfruttamento di lavoratori irregolarmente presenti sul territorio nazionale») proponeva, in particolare, l’estensione della responsabilità amministra-tiva di cui all’art. 25-quinquies del D. lgs. 231/2001 – già prevista per il delitto di riduzione in schiavitù – anche al reato di grave sfruttamento lavorativo, pressoché corrispondente all’attuale delitto di cui all’art. 603-bis c.p., ma che avrebbe dovuto essere inserito al secondo comma dell’art. 600 c.p.21

Ne derivava l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da trecen-to a ottocento quote oltre alle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 del D. lgs. cit. Tale proposta normativa non è tuttavia giunta a compimento, a causa della prematura interruzione della legislatura nel maggio del 2008.

Si sono intervallate poi ulteriori proposte di legge aventi identico tenore (A.C. 1263 e A.C. 3527 del 2008), che prevedevano anche l’estensione della responsabi-lità amministrativa a norma dell’art. 25-septies del D. lgs. cit., ove le condotte di «caporalato» fossero poste in essere con violazione delle norme in materia antin-fortunistica22.

Nei confronti dell’ente responsabile trovava applicazione anche in questo caso una sanzione pecuniaria non superiore a 250 quote, oltre alle sanzioni interdittive per un periodo non superiore a sei mesi.

20 Per una diffusa disamina dei testi delle proposte di legge riguardanti l’introduzione del delitto di «caporalato» susseguitesi dal 2006 al 2011, cfr. A. GIULIANI, I Reati in Materia di «Caporalato», Inter-mediazione Illecita e Sfruttamento del Lavoro, Padova University Press, Padova, 2015, p. 119.21 Cfr. M. ARENA, «Sfruttamento della Manodopera e Responsabilità dell’Ente», in I Reati Societari, Rivista sul D. lgs. 231/2001 e sul Diritto Penale d’Impresa, 4 dicembre 2011, disponibile su www.rea-tisocietari.it; M. ARENA, «Ulteriori Novità sullo Sfruttamento della Manodopera», in ibid., 31 maggio 2007; M. A. PASCULLI, «Responsabilità Sociale versus Responsabilità Penale dell’Impresa: Studio sui Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo quali Strumenti di Legalità Preventiva e/o di Strategia Etico-Integrata in Ordine alle Fattispecie Negate e Realizzate dal D. lgs. 231/2001 e Successive Modifi-cazioni», in La Responsabilità Amministrativa delle Società e degli Enti, n. 4, 2010, p. 41. 22 Le proposte di legge del 2008 modificavano, inoltre, la rubrica legis dell’art. 25-septies del D. lgs. 231/2001, mediante l’addenda delle parole «grave sfruttamento dell’attività lavorativa», alle parole «omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro»; A. ROSSI «Art. 25-septies D. lgs. 231/2001, Art. 30 D. lgs. 81/2008 e Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo: Ambiti Applicativi e Rapporti», in La Responsabi-lità Amministrativa delle Società e degli Enti, n. 2, 2009, p. 7; in giurisprudenza Cass. Pen, Sez. IV, 28 settembre 2012, n. 40070 (in Dir. Giust., 2012).

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L’azione punitiva operava, cioè, lungo due direttrici: attraverso la punizione degli enti collettivi responsabili o avvantaggiati dalle condotte di «caporalato» sia in quanto tali e lesive della dignità personale delle vittime, sia quali violazioni delle prerogative di tutela della sicurezza e dell’incolumità dei lavoratori.

Ciononostante, anche tali iniziative legislative non hanno superato lo scoglio delle commissioni parlamentari.

Due proposte di legge successive (A.S. 2584 e A.C. 4469 del 2011 contenenti «misure volte alla penalizzazione del fenomeno d’intermediazione illecita di mano-dopera basata sullo sfruttamento dell’attività lavorativa»), accanto all’inserimento nel codice penale del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – peraltro in una formulazione pressoché identica a quella attualmente in vigore – proponevano l’inserimento di un catalogo di reati presupposto «in materia di tutela del lavoro e della leale concorrenza tra impresa» all’art. 25-decies del D.lgs. 231/2001, in cui avrebbero dovuto trovare collocazione anzitutto i delitti di c.d. «caporalato» (art. 603-bis c.p.) e di occupazione illecita di stranieri irregolari nell’i-potesi aggravata da sfruttamento (art. 22, comma 12-bis del D. lgs. 286/1998).

Tale scelta normativa intendeva contrastare gli effetti pregiudizievoli del «capo-ralato» rispetto ai valori della libera concorrenza e del diritto di iniziativa economica privata, interessi che prima di allora avevano sistematicamente ceduto il passo alle preminenti esigenze di protezione del bene giuridico della dignità umana e lavora-tiva delle vittime.

Il dibattito parlamentare attorno a tali proposte di riforma fu tuttavia brusca-mente interrotto dall’entrata in vigore del D.L. 138/2011, conv. in L. 148/2011, che introdusse il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nella formulazione attualmente in vigore, per la quale, lo si ribadisce, non vi è alcuna previsione di responsabilità degli enti collettivi in conseguenza della commissione del reato di «caporalato» nel loro interesse o vantaggio.

4. La Responsabilità degli Enti Collettivi in Relazione al Delitto di Illecita Occupazione al Lavoro di Stranieri Irregolari (Art. 22 comma 12-bis del D. lgs. 286/1998)

La mancanza di una responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per il delitto di «caporalato» risulta ancor più irragionevole laddove essa è invece prevista in relazione al reato di occupazione illecita di lavoratori stranieri irregolari (art. 22, comma 12-bis del D. lgs. 286/1998 e art. 25-duodecies del D. lgs. 231/2001,

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così come modificato dal D. lgs. 109/2012, in attuazione della Direttiva Europea 2009/52/CE).23

Il riferimento è, in particolare, all’ipotesi di occupazione al lavoro di cittadini di paesi terzi (rispetto all’UE) privi di regolare titolo di soggiorno svolta mediante l’im-piego delle condizioni di particolare sfruttamento, previste quali circostanze aggra-vanti del delitto di «caporalato» (art. 603-bis, co. 3, c.p.): ad esempio, l’occupazione di più di tre lavoratori ovvero di minori in età non lavorativa, nonché l’esposizione delle vittime a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

La scelta del legislatore di circoscrivere l’applicabilità delle sanzioni a carico delle persone giuridiche solamente a tale ipotesi normativa è ad ogni evidenza insufficiente.

Da un lato, infatti, una lettura rigorosa della fattispecie esclude la responsabilità degli enti a norma del D. lgs. 231/2001 in presenza di forme di sfruttamento per così dire «ordinarie», pur riconducibili alle c.d. «quattro spie» di «caporalato» (art. 603-bis, comma 2, c.p.): solamente, infatti, le più gravi condizioni di sfruttamento di cui al successivo terzo comma dell’art. 603-bis c.p. sono idonee a integrare gli elementi tipici del reato presupposto di occupazione al lavoro caratterizzata da sfruttamento (art. 22, comma 12-bis del D. lgs. 286/1998).

Tanto significa che l’impresa utilizzatrice della manodopera non incorrerà in sanzioni pur avendo tratto un interesse o un vantaggio dalla commissione di fatti di «caporalato», ad esempio mediante violazione della normativa in tema di sicurezza

23 In particolare, tale illecito punisce «il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto nei termini di legge il rinnovo, revocato o annullato, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato. Le pene sono aumentate da un terzo alla metà: a) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre; b) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa; c) se i lavoratori occupati sono sottoposti alle altre condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’articolo 603-bis del codice penale». Per una disamina critica della fattispecie, L. MASERA, «La Nuova Disciplina Penale in Tema di Contrasto allo Sfruttamento del Lavoro degli Stranieri Irregolari: L’Inizio di una Diversa Politica Criminale in Materia di Immigrazio-ne?», in Dir. Imm. Cittadinanza, 2010, p. 3; V. MUSACCHIO, «Caporalato e Tutela Penale dei Lavoratori Stranieri: Problemi e Proposte di Riforma», in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 2, 2010, p. 135; M. PAGGI, «La Tutela degli Immigrati Irregolari Vittime di Grave Sfruttamento in Ambito Lavorativo: Un Per-corso ad Ostacoli per l’Effettivo Recepimento della Direttiva 52/2009», in Dir. Imm. Cittadinanza, n. 14, 2012, p. 4; M. FERRERO, G. BARBARIOL, «Prime Note sulla Normativa Italiana per la Protezione delle Vittime di Tratta e di Grave Sfruttamento dopo l’Attuazione della Direttiva 2009/52/CE», in S. FORLATI (a cura di), La Lotta alla Tratta di Esseri Umani fra Dimensione Internazionale e Ordinamento Interno, Jovene, Napoli, 2013, p. 91.

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e igiene ovvero di orario di lavoro, o ancora attraverso l’occupazione sistematica di prestatori sottopagati e in condizioni di sorveglianza degradanti.

Si tratta, tuttavia, di una disparità di trattamento irragionevole e ingiustificata che contraddice gli imperativi – anche internazionali (Direttiva Europea 2009/52/CE) – di tutela delle vittime di fronte a prassi di sfruttamento certamente gravi come quelle codificare al comma secondo dell’art. 603-bis c.p.

Dall’altro lato, esulano dall’area tipica della fattispecie presupposto (art. 22, comma 12-bis del D. lgs. cit.) anche i fatti di sfruttamento posti in essere a danno di cittadini italiani o di stranieri comunitari, ovvero in possesso di un regolare titolo di soggiorno sul territorio nazionale, che non rientrano tra i potenziali soggetti attivi del reato.

Si badi, tuttavia, come la presenza di un valido titolo di soggiorno diviene spesso motivo di ulteriore sfruttamento, posto che, una volta sequestrato il documento dai «caporali», ne viene minacciata la distruzione quale deterrente per assicurare l’asservimento e la permanenza delle vittime, che continueranno a lavorare alle dipendenze di tali intermediari, proprio per il timore di perdere la legittimazione a soggiornare sul territorio.

Ciò non bastasse, la nozione di «occupazione» che circoscrive l’area tipica del reato di cui art. 22, comma 12-bis del D. lgs. 286/1998 è generica e imprecisata: non è chiaro cioè se essa faccia riferimento alla sola conclusione di un rapporto di lavoro subordinato, o se includa, in virtù di un’interpretazione estensiva, anche le più moderne e diffuse forme di outsourcing ed esternalizzazione, tra cui subappalto, affitto di ramo di azienda, ecc.

Certo è che la fattispecie di occupazione di stranieri irregolari mediante sfrutta-mento non può esaurire l’azione penale contro gli enti collettivi avvantaggiati dalle condotte dei «caporali».

L’ampliamento dello spettro dei reati presupposto in materia di sfruttamento di esseri umani costituisce, peraltro, un obiettivo prefissato anche dalla recente Direttiva 2011/36/UE, che ha imposto agli Stati Membri l’adozione di misure di contrasto coordinate anche nei confronti delle persone giuridiche, verso ogni forma di sfruttamento e indebita compressione della dignità umana dei lavoratori.

Ciononostante, neppure il D. lgs. 4 marzo 2014, n. 24, di recepimento tardivo dei principi contenuti nella Direttiva, ha posto rimedio a tale vuoto di tutela, che resta pertanto da colmare. Il legislatore ha, infatti, limitato il proprio intervento alla pur pregevole riforma dei delitti di tratta di persone (art. 601 c.p.) e acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.) senza tuttavia attuare l’atteso coordinamento della disciplina specifica dettata in tema di «caporalato» come sollecitato dalle norme comunitarie.

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5. La Disparità di Tutela Contro il «Caporalato» Rispetto alla Disciplina della Responsabilità degli Enti Collettivi per i Reati in Materia di Sicurezza e Salute dei Lavoratori (D. lgs. 81/2008)

Vi è poi un ulteriore argomento a sostegno dell’estensione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in relazione ai fatti di «caporalato», che verte attorno alla particolare attenzione notoriamente dedicata dal legislatore del D. lgs. 231/2001 al tema della tutela penale della sicurezza e della salute dei lavoratori.

A tal riguardo, l’art. 25-septies del D. lgs. cit. prevede la responsabilità da reato degli enti collettivi in dipendenza della commissione dei delitti di omicidio colposo e lesioni personali commessi con violazione della normativa antinfortunistica (artt. 589 e 590 c.p.).

La materia della sicurezza sul lavoro è poi l’unica rispetto alla quale il legislatore ha espressamente dettato i requisiti minimi del modello di organizzazione e gestio-ne, tale da essere idoneo a manlevare la persona giuridica dalla responsabilità am-ministrativa. L’art. 30 del D. lgs. 81/2008 impone a tal fine l’adozione di dettagliate procedure di controllo e gestione degli infortuni, dei presidi di prevenzione nonché un sistema di monitoraggio continuo di tali protocolli.

L’importanza cruciale attribuita dal legislatore alla tutela delle prerogative essen-ziali dei lavoratori è poi testimoniata dal fatto che la responsabilità amministrativa è prevista non solo per i casi di «funzionalizzazione» volontaria dell’ente collettivo alla commissione di illeciti, quanto soprattutto in relazione a violazioni colpose, an-che non sistemiche, della normativa antinfortunistica, dalle quali emerga una «colpa in organizzazione» dell’impresa.

Il disvalore insito nell’esposizione dei lavoratori a situazioni di pericolo per la loro incolumità personale giustifica, infine, un aggravamento del trattamento san-zionatorio a carico degli enti collettivi – basti osservare come dalla commissione del relativo reato presupposto derivi l’applicazione alle persone giuridiche di una sanzione amministrativa non inferiore a mille quote, soglia che costituisce, invero, il limite massimo dell’ammontare della sanzione irrogabile in dipendenza di gravissimi delitti presupposto in tema di terrorismo, criminalità organizzata e reati contro la personalità individuale.

Tale scenario getta non poche ombre sulla scelta del legislatore del D.L. 138/2011, conv. in L. 148/2011 (c.d. «Manovra-bis») di non includere tra i reati presupposto di cui al D. lgs. 231/2001 anche il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.).

La violazione – anche non sistematica – delle disposizioni in materia antinfor-tunistica è, infatti, elevata a presunzione espressa di sfruttamento, costituendo una

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spia di «caporalato», superabile solo assolvendo la prova contraria (art. 603-bis comma 2 c.p.).

Tuttavia il legislatore non ha previsto sanzioni penali dirette a carico degli enti collettivi ove venga consumato il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro con le anzidette modalità lesive della salute e della sicurezza dei lavo-ratori, non essendo tale illecito ricompreso tra i reati presupposto di cui al D. lgs. 231/2001.

Nell’economia regolata dal «caporalato», la violazione delle disposizioni antin-fortunistiche non è dovuta ad inefficienze del ciclo di produzione e non è neppure il caso di una scarsa cultura della sicurezza, al più rimproverabile a titolo di colpa.

Nel contesto criminoso in esame trova, infatti, compiuta espressione un dise-gno di sfruttamento, ove il mancato riconoscimento delle prerogative dignitarie dei lavoratori è oggetto di una volontà cosciente e preordinata dei «caporali», che considerano le vittime quali meri fattori produttivi da sfruttare. Tanto spiega le particolari metodologie di sfruttamento e intimidazione adoperate nei confronti dei prestatori, così come l’assenza di scrupoli nel sostituire i lavoratori con altri nuovi giunti, ove non dovessero più sostenere gli estenuanti ritmi produttivi o incorressero in un infortunio a causa dell’inesistenza di presidi di protezione.

La scelta del legislatore del 2011 risulta pertanto incoerente sul versante della politica criminale e della tutela della dignità e dell’incolumità dei lavoratori, doven-dosi rimarcare la necessità di un intervento normativo di adeguamento e coordina-mento della disciplina vigente.

6. La Responsabilità degli Enti Collettivi per il Delitto di «Auto-Riciclaggio» (Art. 648-ter.1. c.p.) ove Conseguente ai Fatti di «Caporalato»

L’art. 3 della L. 15 dicembre 2014, n. 186, ha introdotto all’art. 648-ter. c.p. il delitto di «auto-riciclaggio»24 e ha incluso tale fattispecie all’interno del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti collettivi già prevista

24 È ivi punito con la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 ad euro 25.000 «chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa». La pena è aumentata laddove tali fatti siano commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale, mentre la destinazione dei proventi illeciti al mero godimento personale esclude la punibilità.

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in relazione alle fattispecie di riciclaggio, ricettazione e impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita (art. 25-octies del D. lgs. 231/2001).

A fronte dell’introduzione di tale nuovo delitto è necessario chiedersi se sia ipotizzabile una responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi, espres-samente stabilita per tale reato presupposto, anche in relazione al delitto di inter-mediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.), ove il reato «e» dei fatti di «auto-riciclaggio» sia per l’appunto la fattispecie dettata a contrasto del fenomeno del «caporalato».

Il fatto che questo reato preveda quale elemento tipico la commissione di un de-litto non colposo, da cui siano derivati utilità o proventi successivamente reimpiegati in un’attività economica, potrebbe, cioè, estendere la responsabilità amministrativa da reato ai sensi del D. lgs. 231/2001 anche a fattispecie criminose non espressa-mente contemplate nel novero dei reati presupposto, ogni qualvolta tali reati costi-tuiscano un elemento tipico di questo delitto di «auto-riciclaggio».

In tale prospettiva, ben potrebbe integrare un fatto di «auto-riciclaggio» la con-dotta – tutt’altro che infrequente – dei «caporali», i quali impiegassero il denaro indebitamente prelevato ai lavoratori vittime di sfruttamento a sostegno della pro-pria attività economica o in esercizi imprenditoriali fittizi, spesso adoperati come copertura per i traffici e l’asservimento delle vittime, quali, ad esempio, agenzie di intermediazione lavorativa o di servizi turistici e di viaggio.

Di «auto-riciclaggio» dovrebbe senz’altro parlarsi anche rispetto alla condotta dei datori di lavoro, che, responsabili a titolo di concorso esterno nel delitto di inter-mediazione illecita e sfruttamento del lavoro, impiegassero poi i proventi derivanti da tale reato al fine di finanziare la propria attività di impresa sia iniettando tali uti-lità direttamente nel ciclo produttivo, sia investendole in diverse attività finanziarie.

Tale seconda ipotesi si interseca, peraltro, con questioni ermeneutiche di difficile soluzione: la (non) punibilità dei datori di lavoro da un lato; la necessità di chiarire la portata della nozione di «utilità» rilevante ai fini del delitto di «auto-riciclaggio» dall’altro.

Rispetto a quest’ultimo profilo, è, cioè, controverso se costituisca provento suscettibile di reimpiego illecito anche l’ipotesi del risparmio di spesa, quale po-trebbe derivare, come nel caso di specie, dal mancato assolvimento degli obblighi in materia previdenziale ed infortunistica nei confronti dei lavoratori vittime dello sfruttamento.

È poi facile ipotizzare che l’impiego e il trasferimento dei proventi dello sfrut-tamento posto in essere dai «caporali» si svolgano con modalità tali da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa, così come richie-sto ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa di «auto-riciclaggio» di cui all’art. 648-ter. c.p.

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È chiaro, tuttavia, che ammettendo tale interpretazione, non sarebbe possibile determinare a priori l’oggetto della tutela dalla fattispecie di «auto-riciclaggio», poi-ché, svincolata dalla difesa dei soli valori patrimoniali, essa finirebbe per abbracciare ogni interesse di volta in volta protetto da un illecito di tipo delittuoso25.

Per altro verso, l’apertura ad una forma di responsabilità ai sensi del D. lgs. 231/2001 rispetto a reati non direttamente ricompresi nel novero dei reati presup-posto di cui agli artt. 24 e ss. del D. lgs. cit. darebbe luogo ad un’eccessiva forzatura del principio di tassatività e tipicità della norma penale, come discendente dal prin-cipio di stretta legalità ribaditi all’art. 2 del citato decreto legislativo26.

È, pertanto, su tali questioni che si scontra anche la possibilità di affermare l’ap-plicabilità della responsabilità delle persone giuridiche anche in relazione al delitto di c.d. «caporalato».

Non pare poi che l’ingresso del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati presupposto possa avvenire solamente attraverso tale involuta ermeneutica: le chiare e univoche esigenze di tutela della dignità umana e lavora-tiva e della concorrenza tra le imprese richiedono, infatti, l’adozione di strumenti repressivi dedicati e di immediata applicabilità contro le condotte dei «caporali».

7. Conclusioni e Prospettive

Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.) rappresenta ad oggi un traguardo importante nella lotta al «caporalato».

Sotto il profilo della tecnica giuridica, tale fattispecie ha segnato l’abbandono di un sistema punitivo contravvenzionale inefficace rispetto alle prassi di sfruttamento lavorativo.

Il processo di rielaborazione normativa non deve, tuttavia, arrestarsi ma prose-guire mediante una riforma ragionata dell’architettura della norma, sia in termini di

25 Per un primo commento, cfr. in dottrina S. CAVALLINI, L. TROYER, «Apocalittici o Integrati? Il Nuo-vo Reato di Autoriciclaggio: Ragionevoli Sentieri Ermeneutici all’Ombra del Vicino Ingombrante», in Diritto Penale Contemporaneo, disponibile su www. penalecontemporaneo.it.26 M. ARENA, «L’Assedio al Principio di Tassatività dei Reati Presupposto ex D. lgS. 231/2001», in I Reati Societari, disponibile su www.reatisocietari.it, in nota a Cass. Pen., Sez. II, 28 ottobre 2009, n. 41488 e Cass. Pen., Sez. VI, 24 gennaio 2014, n. 3635, ribadisce l’operatività del principio di stretta tassatività anche con riferimento al sistema sanzionatorio di cui al D. lgs. 231/2001, in forza del quale non è ammessa l’estensione anche in via interpretativa del novero dei reati presupposto a illeciti non direttamente ricompresi dal legislatore nel catalogo di cui agli artt. 24 e ss del D. lgs. cit.; altresì F. D’ARCANGELO, «Il Ruolo della Responsabilità da Reato degli Enti nel Contrasto al Riciclaggio», in La Responsabilità Amministrativa delle Società e degli Enti, n. 4, 2008, p. 41.

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maggior chiarezza terminologica, sia, in particolare, nella direzione dell’estensione della responsabilità penale anche ai datori di lavoro responsabili dello sfruttamento della manodopera somministrata dai «caporali».

Con riferimento a tale ultimo profilo, è auspicabile, infatti, una riformulazione della fattispecie secondo uno schema punitivo «a doppio binario» che preveda, cioè, una pena a carico dei «caporali» intermediari ed anche dei datori di lavoro conni-venti – peraltro così come già previsto per le contravvenzioni di intermediazione e somministrazione abusiva e fraudolenta di manodopera di cui agli artt. 18 e ss. del D. lgs. 276/2003.

L’atteso intervento normativo dovrebbe, infine, transitare attraverso un aggior-namento del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al D. lgs. 231/2001, ad esempio mediante l’introduzione di un nuovo titolo dedicato alle fattispecie di reato contro il lavoro e la dignità dei prestatori, in cui troverà senz’altro posto il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

La direzione e il contenuto minimo di tale riforma già sono stati tracciati dalle numerose proposte di legge susseguitesi nel quinquennio 2006-2011 unitamente ai richiamati documenti normativi internazionali e in special modo europei in tema di contrasto allo sfruttamento personale e lavorativo.

Resta, pertanto, al legislatore il compito improrogabile di rendere effettiva la tutela penale di lavoratori particolarmente vulnerabili e di imprese che sempre più frequentemente sono attratti nelle maglie del «caporalato» e di un’economia som-mersa, espressione di sfruttamento e criminalità di impresa.

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