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Produzione ed evoluzione dei saperi scientifici Un quadro di riferimento per comprendere la natura della scienza Ezio Roletto

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Produzione ed evoluzionedei saperi scientifici

Un quadro di riferimento per comprendere la natura della scienza

Ezio Roletto

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I edizione: aprile 2009

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INDICE

7 Premessa

11 Introduzione

15 Cap. 1 La scienza tra empirismo e razionalismo

39 Cap. 2 I metodi della scienza

59 Cap. 3 Evoluzione dei saperi scientifici: continuità o rotture?

95 Cap. 4 Il sapere scientifico: oggettivo o soggettivo?

105 Cap. 5 Mondo empirico e mondo delle idee: quale relazione?

117 Cap. 6 Metodo scientifico o strategia della ricerca scienti-fica?

127 Cap. 7 Epistemologia e insegnamento delle scienze

149 Cap. 8 Scienza, tecnologia, etica

167 Cap. 9 Interrogativi e concetti di base in epistemologia

189 Cap. 10 Conclusione

191 Bibliografia

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Se qualcosa concorda con il senso comune, quasi sicuramente non è scienza.

(L. Wolpert)

Epitaffio per uno scienziato: Spese tutta la sua vita a cercare di compren-dere la natura, ma il senso comune gli fu sempre d’ostacolo.

(J. Meade)

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LA SCIENZA TRA EMPIRISMO E RAZIONALISMO

“Val più la pratica della grammatica” recita un noto detto popolare che esprime un giudizio di merito sui due modi, l’esperienza pratica e lo studio teorico, mediante i quali gli esseri umani possono acquisire saperi e abilità da utilizzare nell’attività quotidiana. La stessa contrap-posizione si presenta quando si affronta il problema dell’origine del sapere scientifico; questo viene prodotto dagli esseri umani i quali ri-corrono essenzialmente a due strumenti: la facoltà di “ragionare” e la facoltà di entrare in contatto con il mondo mediante i sensi, ossia di “osservare” il mondo, come si dice abitualmente. Gli studiosi che hanno indicato l’uso della ragione come unico e necessario fonda-mento della conoscenza sono classificati come razionalisti; quelli che pongono le basi della scienza nell’uso dei sensi, e quindi nell’osservazione della natura, sono classificati come empiristi. Que-sto non significa che gli empiristi non facciano uso della ragione. Si-gnifica che i razionalisti ritengono possibile produrre idee di natura scientifica senza disporre di dati d’osservazione, mentre gli empiristi ritengono che senza dati di osservazione non sia possibile produrre alcuna idea di natura scientifica. All’interrogativo Qual è l’ingrediente di base per elaborare conoscenze scientifiche? i razionalisti rispon-dono “il ragionamento”; gli empiristi ribattono “l’osservazione”.

Nel sedicesimo secolo, alcuni studiosi avevano avviato una rifles-sione sulla possibilità di definire un “metodo scientifico” generale al quale ricorrere per produrre saperi scientifici. Nel XVII secolo, i princi-

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pali esponenti di questo movimento del metodo furono l’anglosassone Francis Bacon e il francese Réné Descartes. Il primo esaltò il ruolo dell’osservazione dei fatti e il ragionamento induttivo o sintetico – che va dal particolare al generale – mediante il quale sarebbe possibile giungere a un insieme di principi generali; il secondo esaltò la mate-matica come regina delle scienze e propose un modo di ragionare deduttivo o analitico – che va dal generale al particolare – caratteriz-zato da un rigore logico tale da eguagliare la certezza del ragiona-mento matematico. Le loro opere costituiscono due esempi significa-tivi del cambiamento ormai in atto nel modo tradizionale di concepire la natura, cambiamento che prese per l’appunto avvio nel Rinasci-mento e che si affermò decisamente nell’Illuminismo (XVIII secolo). Le opposte riflessioni di questi due studiosi tendevano a un obiettivo comune: fare in modo che lo studio della natura potesse svolgersi ed esprimersi in totale autonomia e fosse libero dai condizionamenti del-la metafisica e della religione.

1. L’EMPIRISMO

Uno dei tentativi di differenziare la scienza da altre forme di cono-scenza è consistito nel riconoscere alla scienza basi solide fondate su fatti oggettivi. Questa corrente di pensiero, che individua il mondo come fondamento delle idee, prende il nome di empirismo. I filosofi empiristi riconoscono alle informazioni raccolte con i sensi un ruolo fondamentale nell’acquisizione di conoscenza; essi ritengono che la conoscenza scientifica sia raggiunta tramite le facoltà percettive, os-sia grazie all’esperienza personale, e progredisca accumulando le in-formazioni raccolte in questo modo. La conoscenza scientifica è quindi una conoscenza provata: le sue leggi e le sue teorie derivano rigorosamente dai fatti empirici acquisiti mediante osservazioni ed esperimenti. La scienza si basa sulle informazioni che i nostri sensi sono in grado di cogliere: le pure speculazioni di natura filosofica, le opinioni personali o le preferenze non sono ammesse. Le conclusioni della scienza, ossia i principi generali che riguardano le cause dei fe-nomeni, non sono semplici opinioni, perché costituiscono lo sbocco di analisi e ragionamenti appropriati condotti su dati oggettivi: i fatti non si discutono e quindi la conoscenza scientifica che se ricava è ogget-tiva. Di conseguenza, la conoscenza scientifica è attendibile perché oggettivamente dimostrata. Idee di questa natura cominciarono a dif-

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fondersi durante il XVII secolo, nel quale si produsse un passaggio storico che ha caratterizzato tutta la cultura fino ai giorni nostri. La di-stinzione determinatasi allora tra cultura umanistica e cultura scienti-fica portò in primo piano l’esigenza di sviluppare un metodo intellet-tuale basato sulla comprensione distaccata e obiettiva della realtà: questo è il motivo per cui il 1600 viene di solito indicato come il seco-lo della “rivoluzione scientifica”.

Il filosofo inglese Francis Bacon (1561–1626), italianizzato in Ba-cone, è un tipico rappresentante dell’empirismo classico, per il suo modo di caratterizzare la scienza, precisandone sia il metodo sia le finalità. Egli suddivise la conoscenza in tre categorie che corrispon-dono ad altrettante facoltà dello spirito:

• la storia corrisponde alla memoria; • la poesia corrisponde alla fantasia; • la filosofia corrisponde alla ragione e comprende anche la filosofia

della natura. Secondo Bacone, gli studiosi della natura non dovevano curarsi né

delle parole, né dell’autorità tradizionale, ma unicamente delle cose. Egli riteneva che per comprendere la natura fosse necessario inte-ressarsi direttamente delle entità e dei fenomeni che essa realmente comprendeva, e fu un pioniere tra coloro che tentarono di sistematiz-zare il procedimento scientifico in un metodo che garantisse l’individuazione delle reali cause dei fenomeni. «La scienza deve es-sere ricavata dalla luce della natura e non dalle tenebre dell’antichità […] La cosa migliore consiste nell’esaminare la materia, la sua con-formazione e i mutamenti della conformazione stessa, i suoi processi e le leggi che seguono tali processi»1. Gli studiosi della natura avreb-bero dovuto lasciare da parte ogni pensiero filosofico, perchè dalla fi-losofia potevano ricevere soltanto contributi insignificanti: «Al nostro spirito non servono ali ma suole di piombo». Egli pensava a una scienza pragmatica, il cui oggetto non era né la conoscenza astratta dei filosofi greci e degli scolastici3 né le pratiche magiche degli alchi-misti, ma una conoscenza utile che ha inizio nella natura. Gli scien-

1 Citato in Butterfield, p. 120. 3 Scholasticus veniva chiamato, nel Medioevo, colui che insegnava nelle Scholae (scuole).

Il termine serviva anche per indicare sia il metodo didattico utilizzato, sia il contenuto dell’insegnamento (la filosofia scolastica, un tentativo di conciliare il pensiero dei filosofi greci con la dottrina cristiana).

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ziati, sosteneva, non devono comportarsi né come i ragni, che rica-vano tutto dal proprio corpo, né come le formiche, che accumulano provvigioni; essi devono raggruppare i fatti e classificarli al fine di ri-cavarne leggi, così come le api producono il miele a partire da ciò che estraggono dai fiori.

Bacone sosteneva che un’autentica filosofia della natura era pos-sibile soltanto fondandola su una base di fatti osservati, forniti sia dall’esperienza sia dagli esperimenti: la prima dava accesso a ciò che accadeva nel mondo; i secondi erano realizzati per produrre fenome-ni che era impossibile, o comunque non facile, osservare nel corso normale della natura. Quindi egli esaltava l’aspetto operativo e speri-mentale della scienza; i pregiudizi speculativi e le costruzioni artificio-se dei filosofi dovevano essere sostituiti con l’osservazione scrupolo-sa e la sperimentazione sistematica, due guide sicure per gli scien-ziati. L’esperimento assumeva un ruolo centrale, perché solo grazie a questo gli studiosi potevano ottenere dalla natura le risposte che cer-cavano: «I segreti della natura si risolvono molto più rapidamente o-perando su di essi che non lasciando che seguano il loro corso».

Quando lo scienziato si trova a dover scegliere tra due ipotesi con-traddittorie ed esita di fronte alla scelta, come il viandante smarrito all’incrocio di due strade, non ha che una soluzione: mettere a punto un esperimento tale da costringere la natura a pronunciarsi per l’una o per l’altra ipotesi; questa sollecitazione decisiva della natura è chiamata “esperimento cruciale”. Gli scienziati dovevano quindi im-pegnarsi a “espugnare” la natura, sia per comprenderne i fenomeni, sia al fine di produrre le invenzioni tecniche capaci di rafforzare ed e-stendere il domino dell’uomo sul mondo. Quello di Bacone è uno “sperimentalismo utilitaristico” e la base del suo pensiero è pratica: dare all’umanità il potere sulle forze della natura per mezzo della scienza e della tecnica. Per questi motivi, egli viene presentato come il filosofo della rivoluzione industriale.

Bacone propose una serie di tecniche mediante le quali osservare, verificare e registrare in modo adeguato i fatti relativi alla natura che dovevano costituire un fondamento sicuro per le speculazioni dei filo-sofi della natura sulle cause dei fenomeni. Quindi i fatti in questione non dovevano essere idealizzati o influenzati da aspettative di tipo teorico, ma dovevano essere accertati e riportati esattamente come si presentavano. Egli riteneva che fosse possibile pervenire a una vera conoscenza della natura soltanto se la mente fosse stata guidata e disciplinata dal “metodo” corretto. Questo doveva procedere dalla co-

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noscenza accumulata dei fatti osservati e sperimentali alle verità ge-nerali, applicando un procedimento induttivo ed empiricamente fonda-to. Questa era la ragione per cui i fatti riportati dovevano essere at-tendibili: se le fondamenta fossero state difettose, l’intero edificio co-struito su di essi avrebbe potuto crollare. I sensi non istruiti rischiava-no di trarre in inganno; era quindi necessario disciplinarli attraverso un metodo affinché permettessero di raccogliere un ampio ventaglio di fatti affidabili su cui la ragione filosofica avrebbe potuto lavorare con ragionamenti induttivi.

Bacone intendeva l’induzione autentica come un ragionamento che “interpreta” l’esperienza, soffermandosi a lungo su di essa ed e-levandosi in seguito ai principi generali con una progressione lenta. Egli è il primo di una lunga serie di filosofi della natura che ritennero di poter pervenire alla verità scientifica mediante l’induzione, un tipo di ragionamento che procede dal noto verso l’ignoto e la cui natura è ampliativa, in quanto la conclusione alla quale si giunge amplia la co-noscenza contenuta nelle premesse. Si possono distinguere diversi tipi di induzione, a seconda che il ragionamento muova da tutti i casi possibili (induzione completa), da un solo caso o da una parte di tutti i casi possibili (induzione per semplice enumerazione). Bacone cercò di mettere a punto un procedimento per induzione che fosse più effi-cace e più affidabile dell’induzione per enumerazione semplice che Bertrand Russel spiega con questa parabola2:

C’era una volta un agente del censimento che doveva elencare i nomi di tutti gli abitanti di un certo villaggio gallese. Il primo che interrogò si chiamava William Williams; e così il secondo, il terzo, il quarto, …. Infine l’agente si dis-se: “Tutto ciò è noioso; evidentemente si chiamano tutti William Williams. Scriverò così e mi prenderò un giorno di vacanza”. Però aveva torto: ce n’era uno solo che si chiamava John Jones. Questo dimostra che possiamo andare fuori strada, se crediamo troppo ciecamente all’induzione per semplice enu-merazione.

L’induzione di questo tipo è problematica, perché raccoglie i casi in cui un determinato evento E manifesta la proprietà P, trascurando pe-rò sia i casi in cui, pur essendo E presente, P non compare, sia i casi in cui, in assenza di E, è presente P. Bacone ritiene l’induzione per enumerazione «qualcosa di puerile [che] conduce a conclusioni incer-te […] senza pervenire ad alcun risultato»3.

2 Russel, p. 712. 3 Citato in Boniolo, Vidali. p. 55.

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Bacone era convinto di avere trovato il modo di migliorare il ragio-namento induttivo ricorrendo alla induzione per eliminazione. Negli al-tri tipi di induzione, i casi vengono utilizzati per pervenire alla genera-lizzazione finale, mentre nell’induzione per eliminazione i casi vengo-no utilizzati come setaccio critico per eliminare le ipotesi non accetta-bili. Bacone riteneva questo tipo di ragionamento particolarmente a-datto per le scienze della natura, in quanto «capace di spiegare e a-nalizzare l’esperienza e di giungere a conclusioni necessarie attra-verso le dovute esclusioni ed eliminazioni»4. Nell’induzione per elimi-nazione si deve andare oltre le osservazioni per giungere a definire la natura dei corpi e le relazioni che ne regolano le trasformazioni; si tratta quindi non tanto di generalizzare, quanto piuttosto di individuare la causa del fenomeno indagato.

Bacone proponeva di impostare il lavoro dello scienziato in questo modo: moltiplicare (repetitio) e variare (variatio) le esperienze empiri-che; estenderle (extensio) all’insieme del campo empirico preso in considerazione; trasferirle (translatio) a campi empirci collaterali; pra-ticare la soppressione (compulsio) di una variabile e notare le conse-guenze sul fenomeno studiato. Infine, si devono combinare (copula-tio) più esperienze e, grazie all’applicazione (applicatio) delle cono-scenze, mettere in evidenza nuove proprietà5. Secondo Bacone, lo studioso della natura deve procedere lentamente, come se salisse una scala gradino dopo gradino, in modo da formulare le ipotesi solo al termine di un’ordinata raccolta di dati e proporre la teoria solo a seguito di un’accurata sperimentazione. Il metodo da seguire nella ri-cerca della verità dovrebbe essere fondato sia sui sensi sia sull’intelletto. I fenomeni osservati non devono essere semplicemente enumerati, ma classificati in funzione di criteri stabiliti in precedenza, ossia compilando apposite Tavole: di presenza, di assenza, dei gradi o comparative e di esclusione. In questo modo, lo scienziato opera una scelta tra le osservazioni, isolando, mediante esclusioni opportu-ne, i fatti privi di importanza; al termine di questa operazione, sarà possibile formulare un’ipotesi provvisoria sulla natura del fenomeno osservato; essa deve essere plausibile, non in contraddizione con le informazioni raccolte nelle Tavole. Il ragionamento per induzione permette di portare alla luce le “qualità elementari” delle cose, che Bacone chiama forme; è grazie alle relazioni che si possono stabilire

4 Citato in Boniolo, Vidali. p. 55. 5 Vergnioux, p. 76.

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tra le forme, che gli studiosi pervengono a spiegare i fenomeni natu-rali.

Ecco, ad esempio, come Bacone applica il proprio procedimento per capire quale sia la natura del calore6. Nella “Tavola delle presen-ze” vengono elencati tutti i casi in cui il calore si manifesta associato ad altri eventi, ad esempio: i raggi del sole, i raggi del sole riflessi e condensati come negli specchi ustori, le meteore infuocate, i fulmini, le eruzioni vulcaniche, ecc. Nella “Tavola di differenza o d’assenza in casi vicini” sono riportati casi, analoghi ai precedenti, nei quali però il calore è assente, anche se sarebbe logico, in base ai dati della tavola precedente, aspettarsi la sua presenza: i raggi della luna e delle co-mete (i quali come quelli del sole sono luminosi, ma non sono caldi), i raggi solari riflessi nelle regioni polari, i fuochi fatui, ecc. Successiva-mente, nella “Tavola dei gradi o dei confronti” vengono riportati i casi in cui il fenomeno si manifesta con diversa intensità: in questo caso si tratta di fenomeni in cui il calore – la sensazione di caldo, per meglio dire – aumenta o diminuisce. L’analisi di questi elenchi avrebbe dovu-to rivelare qualche caratteristica sempre presente nei corpi caldi, sempre assente nei corpi freddi e presente in diversa misura nei corpi intermedi tra quelli caldi e quelli freddi. In questo consiste, secondo Bacone, il vero ragionamento per induzione, grazie al quale si pervie-ne a eliminare tutti i casi che non hanno “resistito” all’analisi. Ciò che rimane è «la forma affermativa, solida, vera, ben determinata, […] la cosa in se stessa spogliata di tutto ciò che non la costituisce vera-mente»7.

Partendo dalle informazioni raccolte, Bacone sviluppa in questo modo il proprio ragionamento8:

Non si può dire nulla sul calore del sole, dal momento che nevi perenni sono presenti sulle montagne più alte, nonostante siano vicine al sole… Il ca-lore delle piume, della lana, dello sterco di cavallo sono in relazione con il ca-lore animale, di cui è molto misteriosa l’origine […] Dato che l’acqua bollente è molto calda senza essere luminosa, questo permette di ritenere un alibi il fe-nomeno della luce […] I sensi possono ingannare a proposito del calore, per-ché a una mano fredda l’acqua tiepida sembra calda, mentre una mano calda trova fredda la stessa acqua. Il gusto è ancora meno concludente. Il vetriolo brucia le stoffe, ma diluito nell’acqua ha un gusto acido e non provoca sulla lingua una sensazione di calore […] Rimane dunque soltanto ciò che gli occhi possono vedere e le orecchie intendere, vale a dire l’agitazione frenetica e il

6 Boniolo, Vidali, p. 56. 7 Citato in Vergnioux, p. 78. 8 Citato in Bachelard, 1993, p. 58.

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movimento interiore della fiamma e il mormorio dell’acqua bollente. Ecco due confessioni che si possono rinforzare con l’aiuto della tortura, e questa tortura è il mantice, con l’aiuto del quale l’agitazione e il movimento della fiamma di-ventano così violenti che la si sente rumoreggiare allo stesso modo dell’acqua che bolle. Lo sventurato calore, così pressato dal giudice, è costretto a la-sciarsi strappare la confessione che è un essere inquieto, tumultuoso e fatale all’esistenza civile di tutti i corpi.

Bacone giunge quindi alla conclusione che l’unica ipotesi che so-pravvive è quella secondo la quale il calore consiste in un movimento estremamente rapido delle piccole particelle dei corpi. Oggi la scien-za ci dice che il movimento delle particelle è legato all’intensità di cal-do, cioè alla temperatura, e non al calore che, peraltro, non è che una modalità di trasferimento dell’energia da un sistema a un altro.

La scienza di Bacone è essenzialmente qualitativa e dipende inte-ramente dalle impressioni sensoriali. Egli era molto diffidente nei con-fronti dei ragionamenti deduttivi e questo spiega la sua scarsa consi-derazione per la matematica che riteneva estranea al mondo materia-le e quindi incapace di descriverlo efficacemente. Anche quando ri-tiene necessario procedere a conteggi, a pesate o a misure di varia natura, Bacone non attribuisce ai numeri un’importanza particolare e comunque ritiene i dati quantitativi sempre meno importanti delle os-servazioni di carattere qualitativo9: «Si tratta solo di misure – egli so-stiene – che indicano il quanto, non il come o il perché». La sua scienza si richiama a un saper fare pratico, fondato su brancolamenti sperimentali; si tratta di una pratica sistematica di interrogazione della realtà e rappresentò, al tempo in cui venne concepita, una novità rivo-luzionaria. Il metodo induttivo di Bacone è una generalizzazione dei fatti, una costruzione di “principi generali” ricavati direttamente dai fe-nomeni della natura. Dai principi vengono derivate, per via deduttiva, conseguenze logiche; queste devono necessariamente essere con-fermate dall’esperienza, altrimenti i principi stessi non sono validi.

Bacone presentò una sorta di “manifesto programmatico” che fu all’origine di una rivoluzione intellettuale senza precedenti, la quale ha incoraggiato gli esseri umani a pensare con la propria testa, re-stando fortemente ancorati ai fatti ed evitando di perdersi nel regno delle pure speculazioni teoriche. Nel diciassettesimo secolo, le idee che egli propose erano veramente rivoluzionarie, essendo formulate in un contesto di pensiero nel quale la risoluzione dei problemi era

9 Citato in Blanché., p.8.

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essenzialmente di natura metafisica: si ricercavano infatti le “cause ultime” degli eventi naturali. Inoltre, in un mondo nel quale l’alchimia e le pratiche magiche erano abituali, i princìpi di Bacone possono esse-re oggi ritenuti decisamente molto avanzati e risolutamente moderni.

Molti studiosi della natura si sono richiamati a Bacone e hanno contribuito all’affermazione della posizione empirista nel corso del XVIII secolo. Questo è, per esempio, il caso di Newton (1642-1726) il quale era dell’idea che «il compito della filosofia sembra consista in ciò: a partire dai fenomeni del moto indagare sulle forze della natura, e a partire da queste forze dimostrare gli altri fenomeni». Newton ri-teneva che compito della scienza fosse pervenire a caratterizzare le regolarità della natura in leggi «dedotte», come egli diceva, dall’osservazione del comportamento reale dei corpi: «tutto ciò che non si ricava dai fenomeni è un’ipotesi, e le ipotesi tanto metafisiche che fisiche non possono essere prese in considerazione nella filosofia che si occupa degli esperimenti […] La cosa più esatta è di non a-vanzare ipotesi e di descrivere i fenomeni sulla base di esperimenti e osservazioni, secondo il metodo induttivo»10.

Però questo modo di concepire la scienza comportava l’abbandono della ricerca delle cause fisiche. La forza gravitazionale era esprimibile in termini matematici, ma Newton era perfettamente consapevole della cosa, tanto da affermare: «Non sono stato in grado di scoprire la causa della […] gravità a partire dai fenomeni, e non formulo ipotesi»11. Secondo Newton, i principi generali sono affidabili perché si tratta di fatti d’esperienza generalizzati. Anche Darwin fu un convinto sostenitore dell’empirismo. Nella sua autobiografia, scrive di aver lavorato sul problema della variazione degli animali e delle pian-te, sia allo stato domestico sia in natura, «secondo i principi baconia-ni: senza seguire alcuna teoria raccolsi quanti più fatti mi fu possibi-le».

2. IL RAZIONALISMO

Se Bacone aveva insistito sulla necessità di «ripulire la mente dal-le opinioni dei filosofi», René Descartes (italianizzato in Cartesio, 1596-1650) andava oltre nella determinazione di liberarsi da ogni in-

10 Citato in Vavilov, pp. 151-152 11 Citato in Shapin, p. 59

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segnamento che provenisse dal passato, dai sistemi e dalle idee ere-ditate dall’antichità. Nella sua opera Discours de la méthode (1637) viene consacrata la separazione tra la Chiesa e la Ragione: egli parla di leggi che un Dio perfetto e giusto ha posto nella natura, ma limita il ruolo del legislatore celeste a garante della razionalità che nella natu-ra è insita. Il mondo è comprensibile perché Dio lo ha creato tale. Senza di lui, l’uomo non potrebbe avere fiducia in nulla, non potrebbe credere nemmeno in una proposizione geometrica; Dio è la garanzia che la realtà non è tutta un’illusione dei sensi. Inoltre, gli esseri umani possono comprendere il mondo perché la capacità di giudicare «se-condo ragione», ossia in modo razionale, è stata distribuita in modo eguale tra tutti, anche se può essere offuscata dai pregiudizi e dalle illusioni della fantasia.

In base a questi principi, Cartesio si propone di dedurre tutto l’universo da Dio, grazie a un procedimento chiaro e certo in ogni suo passaggio. Egli pensa che per riuscire a conoscere la natura, non si debba fare riferimento al dogma, ma al metodo che traccia il cammi-no della conoscenza riunendo i vantaggi della filosofia, della logica e della matematica. Per Cartesio, come per Bacone, il metodo è tutto: solo il metodo rende possibile ed efficace la conoscenza del mondo della natura, ma per i due studiosi le regole per il metodo giusto va-riano sensibilmente. Bacone esalta il metodo induttivo che giustifica l’accumulazione di osservazioni ed esperimenti. Cartesio invece attri-buisce maggior rilevanza alla teorizzazione razionale rispetto all’accumulazione di fatti particolari e quindi ritiene che l’unico ragio-namento in grado di portare alla verità scientifica sia quello deduttivo, i cui principi fondamentali egli riassume in quattro precetti12:

1. non accettare per vera nessuna cosa che non si presenti allo spiri-

to così chiaramente e così distintamente da non avere alcuna oc-casione di metterla in dubbio;

2. suddividere ogni difficoltà in tante piccole parcelle per meglio risol-verla;

3. organizzare i pensieri in modo ordinato, partendo sempre dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi, per salire poi a poco a poco fino alla conoscenza dei più composti;

4. effettuare ovunque classificazioni così complete e rassegne così generali da essere sicuro di non omettere alcunché.

12 Descartes R., p 26

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L’idea di fondo era che «tutte le cose che possono essere cono-sciute da parte degli esseri umani si susseguono allo stesso modo, e che se si conserva l’ordine opportuno per dedurle le une dalle altre, non ne esistono di così lontane alle quali non si pervenga, o di così nascoste che non le si scopra»13.

L’adesione fideistica alle Sacre Scritture e al dogma è sostituita dal dubbio e dal pensiero analitico; quest’ultimo dovrebbe permettere di costruire una scienza della natura nella quale riporre una fiducia as-soluta. La conoscenza del mondo non dipende, come ritenevano gli empiristi del suo tempo, dalla enumerazione e classificazione di og-getti inerti, esseri viventi e fenomeni. La scienza deve essere fondata con la stessa esattezza di un principio matematico; essa deve pre-sentarsi, per quanto riguarda l’universo fisico, come un meccanismo perfetto. Se Bacone riteneva la matematica estranea al mondo mate-riale, e quindi incapace di descriverlo in modo efficace, Cartesio adot-tò il punto di vista opposto. Dal momento che i sensi sono per lo più ingannevoli e che l’unico strumento certo per acquisire conoscenze è la matematica, occorre individuare il metodo proprio della matematica ed estenderlo a tutte le discipline. La conoscenza della natura può essere raggiunta solo facendo astrazione dai sensi; le scienze devo-no essere rifondate attraverso un metodo semplice, comune a tutte, basato sulla matematica e sulle leggi della meccanica. Il mondo può essere conosciuto solo grazie alla costruzione di modelli matematici e meccanici che ne spieghino il funzionamento e conducano alla cono-scenza adeguata e coerente dei molteplici fenomeni naturali.

Secondo Cartesio, «il pensiero e l’estensione sono le cose princi-pali che costituiscono la natura della sostanza intelligente e corporea [...] L’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea; il pensiero costituisce la natura della sostanza che pensa»14. Egli ritiene quindi che in tutto l’universo vi sia

un’unica materia che noi conosciamo solo perché essa è estesa. La natu-ra della materia consiste in questo soltanto che si tratta di una sostanza este-sa in lunghezza, larghezza e profondità e occupa tutti gli spazi immaginabili [...] Non vi possono essere atomi, ossia parti di corpi o di materia che siano indivisibili. Per quanto piccole possano essere queste parti, dato che debbono essere estese, non ne esiste alcuna che non possa essere ancora divisa in due o in un più gran numero di altre più piccole […] Si deve concludere che vi è una certa sostanza estesa in lunghezza, larghezza e profondità che esiste

13 Descartes R., p 26 14 Descartes R., p. 119

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attualmente nel mondo, e con tutte le proprietà che noi sappiamo appartener-le. E questa sostanza estesa è ciò che viene detto il corpo o la sostanza delle cose materiali15.

I mutamenti della materia dipendono unicamente dalla natura stessa, e non da qualche agente a essa esterno, come Dio. Quindi le regole secondo cui avvengono questi mutamenti sono le “leggi della natura”. La fisica di Cartesio, esposta nell’opera Principi di Filosofia (Principia Philosophiae), è rigidamente meccanicistica: i due soli in-gredienti che costituiscono il mondo sono la materia e il movimento. La materia si riduce a estensione e si identifica con essa. L’unica dif-ferenza che esiste tra la materia e lo spazio occupato dalla materia è la mobilità. Questo significa che un corpo materiale è una forma dello spazio che può essere trasportata da un luogo all’altro senza perdere la propria identità. Quindi Cartesio concepisce il mondo come costitui-to da spazio e moto, e identifica lo spazio con la materia. Questo im-plica una serie di conseguenze:

1. l’estensione indefinita del mondo; 2. la divisibilità all’infinito della materia; 3. l’impossibilità del vuoto.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la posizione di Cartesio è radicale: lo spazio vuoto è impossibile perché il vuoto è un nulla; il nulla non ha proprietà né dimensioni e, se ci fosse, sarebbe un nulla esistente, ossia una realtà contraddittoria.

Cartesio si proponeva il fine di pervenire alla dimostrazione decisi-va, all’esclusione di ogni possibile alternativa. Il sapere scientifico, oggettivo e vero, è derivato da un numero limitato di principi a priori, di natura non solo fisica ma anche teologica, per cui la fisica di Carte-sio è obbligata a dipendere dalla metafisica. Partendo dai fondamenti del sapere (principi primi), gli scienziati stabiliscono, mediante ragio-namenti deduttivi, i principi generali di un sapere scientifico; da questi è poi possibile dedurre teorie e leggi oggettive. Stabilita la verità degli assiomi di partenza, anche tutto ciò che ne discende è vero, grazie al rigore della matematica e della logica.

In base a queste premesse, si comprende come mai Cartesio non tenesse in grande considerazione la sperimentazione; egli era con-vinto che l’oggettività del sapere scientifico trovasse il proprio fonda-

15 Descartes R., pp. 147-148

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mento nei principi a priori (gli assiomi iniziali) e quindi pensava di non avere bisogno del supporto di dati sperimentali. Cartesio non si è mai chiesto: «Quali sono i modi d’azione effettivamente seguiti dalla natu-ra?», perché il suo interrogativo era: “«Quali sono i modi d’azione che la natura deve seguire?». Secondo Cartesio, l’insieme di tutti i ragio-namenti possibili comprende necessariamente l’insieme di tutte le esperienze possibili; quindi la ragione da sola è in grado di distingue-re le esperienze possibili nella realtà da quelle che sono possibili solo nell’immaginazione. Di conseguenza, la sperimentazione non è indi-spensabile per produrre nuove conoscenze. L’interazione con la real-tà, ossia l’osservazione e la sperimentazione, può servire al massimo per verificare ciò che è stato dedotto, per evidenziare e confermare le teorie ricavate con il ragionamento deduttivo. Comunque, se un fatto empirico non è in accordo con un principio scientifico generale, non è sicuramente il principio che viene confutato o modificato. Lo scarto tra previsione teorica e fatto sperimentale dipende dall’imprecisione della misura o dalla scarsa affidabilità del dispositivo sperimentale: per ri-durre o eliminare lo scarto si dovrà intervenire su quest’ultimo e mi-gliorarne le prestazioni. Quelle proposte da Cartesio sono leggi alle quali la natura non può fare a meno di conformarsi.

La fisica che Cartesio ha elaborato a tavolino, applicando il proprio metodo assiomatico e deduttivo, è una fisica immaginaria che si è ri-velata essenzialmente sbagliata. Al contrario, raccoglieva continui successi quella proposta da Newton, il quale affermava che la legge di gravitazione era ricavata dall’osservazione del comportamento rea-le dei corpi senza avanzare nessuna ipotesi sulle possibili cause:

Che la gravità sia innata, intrinseca ed essenziale nella materia, di modo che un corpo possa agire a distanza su un altro attraverso il vuoto senza la mediazione di qualcos’altro […] mi sembra un’assurdità enorme e credo che nessun uomo che possieda facoltà di ragionamento in materia filosofica possa credere ad essa. […] La gravità deve essere provocata da un agente che e-sercita un’azione costante e conforme a determinate leggi, ma se questo a-gente sia materiale o immateriale è una questione che lascio alla considera-zione dei miei lettori.

Nelle Lettres Philosophiques Voltaire affronta sotto forma di dialo-go lo scontro tra la fisica di Cartesio e quella di Newton. L’autore si schiera a fianco del secondo e racconta che, sulla propria copia dei Principia Philosophiae di Descartes, Newton annotò a margine, come commento del testo, error, error, error,... finché, stanco di scrivere ovunque error, gettò via il libro. Tuttavia, il fatto che non fosse in gra-

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do di indicare l’origine della forza di gravità, ossia di proporre un meccanismo che potesse spiegare i fenomeni gravitazionali, attirò su newton le critiche di Leibniz16 e di Huygens, i quali scrissero, rispetti-vamente:

Alcuni amano ritornare alle qualità occulte […] ma poiché queste hanno

perso rispettabilità, essi cambiano il nome e le chiamano forze […] [La gravità è] una qualità occulta priva di senso che non potrà mai essere dimostrata, an-che se uno spirito, o Dio stesso, tentasse di spiegarla.

[La gravità] è una cosa che non posso ammettere, perché mi sembra di capire chiaramente che la causa di una tale attrazione non è spiegabile in ba-se ad alcun principio della meccanica né alle leggi del moto. Dal razionalismo classico si è in seguito passati al razionalismo

critico di Immanuel Kant (1724-1804), il quale si pose il problema di chiarire come si articoli il processo conoscitivo. L’esame che egli condusse lo portò a concludere che “conoscenza” non significa sem-plicemente ricevere dei dati sensoriali, ma significa elaborarli, ordinar-li, sintetizzarli secondo “forme a priori”, proprie di ogni soggetto pen-sante. Le forme a priori in base alle quali avviene il processo della conoscenza sensoriale sono quelle dello spazio e del tempo: lo spa-zio è la forma della sensibilità esterna; il tempo è la forma della sen-sibilità interna. Infatti noi non potremmo rappresentarci le cose come esterne a noi e come esterne fra loro, se non possedessimo già da prima la rappresentazione dello spazio in cui collocare gli oggetti. Una considerazione analoga vale anche per il tempo: per avere una percezione interna occorre collocarla nel corso della nostra coscien-za, cioè ordinarla secondo un prima e un dopo. Secondo Kant, spazio e tempo non sono né proprietà oggettive delle cose, né concetti empi-rici ricavati dall’esperienza. Essi sono intuizioni pure, condizioni a priori per la percezione di qualunque contenuto sensibile. Di conse-guenza, tutto il mondo della natura risulta il frutto di una sintesi, ope-rata sulla base dei dati percettivi dall’attività formatrice del soggetto conoscente. Secondo Kant, le forme a priori sono in grado di garanti-re la validità delle conoscenze autentiche raggiunte dalla ricerca scientifica: conoscenze che debbono essere considerate verità uni-

16 I rapporti tra Leibniz e Newton furono avvelenati dai contrasti su chi dovesse essere rite-

nuto l’inventore del calcolo infinitesimale. Leibniz pubblicò il proprio lavoro sull’argomento nel 1684; Newton aveva già messo a punto lo stesso procedimento di calcolo prima di Leibniz, ma non pubblicò nulla fino al 1687 e quindi Leibniz non poteva esserne al corrente.

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versali e necessarie perché non sono qualcosa di soggettivo e di provvisorio, ma valgono realmente per tutto il mondo della natura.

Mentre il razionalismo classico considera la ragione come un “ma-gazzino di idee”, Kant le attribuisce un “potere strutturante”: il nostro intelletto non scopre le leggi universali della natura, ma è esso a pre-scrivere le sue proprie leggi imponendole alla natura. Ecco cosa scri-ve Kant17 nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ra-gion pura:

Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su un piano inclinato, con un pe-so scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare dall’aria un peso, che egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta, e, più tardi, Stahl trasformò i metalli in calce, e questa di nuovo in metallo, to-gliendovi o aggiungendovi qualche cosa, fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che essa deve costringe-re la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per così dire, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo alla legge necessaria, che la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario quindi che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i principi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbiano valore di leggi, e dall’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi principi, per venire i-struita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piac-cia al maestro; anzi di giudice, che dal suo seggio costringa i testimoni a ri-spondere alle domande che egli loro rivolge. […] La ragione deve, senza fan-tasticare attorno ad essa, cercare nella natura, conformemente a quello che essa stessa vi pone, ciò che deve apprendere, e di cui nulla potrebbe da sé stessa sapere.

Rispetto al razionalismo classico, con il razionalismo critico si ha un primo ricupero dei dati di osservazione: gli oggetti naturali sono percepiti dai sensi e pensati dalla ragione che assume dunque un ruolo attivo, dinamico. Il mondo quale noi lo conosciamo è un’interpretazione dei dati di osservazione da parte degli scienziati; tale interpretazione è sviluppata nel quadro di teorie inventate da questi ultimi. Per il razionalismo critico, la razionalità non è qualcosa di concluso una volta per sempre, come la razionalità di Cartesio, ma è una razionalità aperta, in via di progressiva attuazione. È la raziona-lità concreta che si viene via via realizzando nel mondo, e che appar-

17 Kant E., pp. 18 sgg.

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tiene nel contempo sia al soggetto come pensante sia all’oggetto co-me pensato18.

3. IL POSITIVISMO

Il punto di vista empirista sull’origine della scienza è condiviso dai seguaci della corrente di pensiero chiamata positivismo. Auguste Comte (1798–1857), il più illustre rappresentante della filosofia positi-va, sosteneva: «Tutti coloro che dispongono di una mente che fun-ziona ripetono, come sosteneva Bacone, che la vera conoscenza ri-posa sui fatti osservati». L’essenza del punto di vista di Comte è rac-chiusa in questa frase, caratterizzata dal riferimento a Bacone e dalla precedenza delle osservazioni sulla conoscenza. Quale scopo deve proporsi la scienza? Cercare di comprendere la natura ultima della realtà e di spiegare i fenomeni risalendo alle loro cause, oppure limi-tarsi a descrivere ciò che si osserva? I positivisti ritengono che spetti alla metafisica interessarsi della ricerca delle cause e preoccuparsi della natura ultima delle cose; la scienza deve limitarsi a considerare le relazioni invariabili che legano tra di loro gli eventi osservabili; in al-tre parole, spetta alla scienza definire le leggi e le relazioni tra i feno-meni.

La scienza positiva parte dai fatti osservati e li lega mediante leggi scientifiche, mantenendo costantemente l’immaginazione subordinata all’osservazione. Questo significa che viene bandita ogni speculazio-ne a priori, ossia che precede l’osservazioni dei fatti; la scienza posi-tiva viene costruita sull’interpretazione a posteriori dei fatti osservati. Tuttavia Comte riconosce che la mente, per dedicarsi all’osservazione, ha bisogno di una teoria. Se non si è in grado di col-legare i fenomeni osservati a un principio generale, non soltanto risul-ta impossibile raggruppare le osservazioni isolate, e quindi ricavarne una qualche conclusione, ma non si è neppure in grado di coglierle. Comte dunque era ben consapevole del fatto che un’osservazione, per avere un qualche senso, deve integrarsi in un quadro teorico già disponibile. Ma come definire tale quadro teorico senza operare una qualche anticipazione sulla conoscenza?

È evidente che Comte si trova di fronte a una contraddizione che egli risolve in questo modo: prima di raggiungere la propria maturità

18 Geymonat, 1971, pp. 579-592.

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positiva, che la vedrà dedicarsi unicamente ai fatti, la mente di ogni essere umano attraversa uno stato primitivo nel quale tende ad ac-cordare una qualche importanza a speculazioni senza fondamento reale, ma che costituiscono l’architettura teorica di cui ha bisogno per interpretare le osservazioni che effettuerà in seguito. La nostra men-te, nella sua prima età, crede di potere dare risposta agli interrogativi fondamentali, relativi alle cause ultime; solo acquisendo la maturità si rende gradualmente conto che le sue pretese iniziali sono vane. Pe-rò, anziché rigettarle, la mente usa queste risposte come punto di ap-poggio per i suoi sforzi di comprensione del mondo. Quindi le teorie a priori, che non hanno diritto di cittadinanza nella scienza positiva pur essendo indispensabili al suo funzionamento, non sarebbero altro che i residui dei primi balbettamenti della nostra mente.

L’evoluzione della mente umana passa attraverso tre fasi che Comte definisce in questo modo:

Fase teologica o fittizia, nel corso della quale la mente si interessa

essenzialmente della natura intima degli esseri: le cause prime e fi-nali sono attribuite ad agenti sovrannaturali (dei, spiriti, ecc.).

Fase metafisica o astratta, la quale non sarebbe altro che una

semplice modificazione della precedente: gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, entità in grado di provocare i fenome-ni osservati (ad esempio, la forza vitale delle molecole organiche).

Fase scientifica o positiva, nel corso della quale la mente umana

riconosce l’impossibilità di pervenire a conoscenze assolute e rinun-cia a cercare le cause ultime dei fenomeni; gli scienziati, appoggian-dosi sull’osservazione e sul ragionamento, si limitano a scoprire le leggi naturali che regolano i rapporti esistenti tra i fatti e ne permetto-no la previsione.

Ad esempio, l’alchimia è il primo stadio della chimica; il secondo

stadio è quello della teoria del flogisto e il terzo quello delle leggi (per esempio, la legge delle combinazioni gassose di Gay-Lussac, la leg-ge delle proporzioni definite e costanti di Proust e quella delle propor-zioni multiple di Dalton, ecc.). Secondo Comte, per acquisire lo statu-to di scienza, ogni disciplina deve evitare assolutamente di “spiegare” i fenomeni, ossia di ricercarne le cause o le essenze. La scienza de-ve limitarsi a descrivere i fenomeni mediante leggi che esprimono le

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relazioni tra i fatti. Il positivismo è legato all’empirismo per il fatto di affermare l’esigenza di attenersi ai soli dati d’osservazione; inoltre il positivismo riconosce l’importanza del ragionamento, affermando che le scienze si sforzano, ricorrendo alla matematica, di collegare tra di loro, nel modo più semplice possibile, i dati sperimentali. È al connu-bio tra esperienza e ragionamento che si riferisce Auguste Comte quando scrive19: «Se è vero che una scienza diventa positiva solo fondandosi su fatti effettivamente osservati e la cui esattezza è gene-ralmente riconosciuta, è pure incontestabile che un settore qualsiasi delle nostre conoscenze diventa una scienza solo quando, mediante un’ipotesi, si sono messi in relazione tutti i fatti che ne costituiscono la base».

Il positivismo rimane aderente ai fatti e si permette unicamente di generalizzare ciò che è stato osservato. Per i positivisti, non appar-tengono al campo delle scienze né le ricerche che mirano ad identifi-care le cause finali, di ordine metafisico, né quelle che si interessano delle cause nascoste dei fenomeni, della loro natura profonda. Ricor-rendo all’osservazione e al ragionamento, la scienza mira soltanto a scoprire le leggi effettive della natura, le quali sono unicamente “fatti generali”: nell’enunciarle non si fa che estendere, a tutti i tempi e a tutti i luoghi, alcune regolarità constatate empiricamente. Tali regolari-tà nei rapporti tra fenomeni rendono possibili le previsioni che, a loro volta, sono il fondamento dell’azione degli esseri umani sulla natura20: «Il carattere fondamentale della filosofia positiva è guardare tutti i fe-nomeni come se fossero soggetti a leggi naturali inviolabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minor numero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi. Ogni altra speculazione appartiene alla metafisica».

Solo in questo modo, la conoscenza scientifica si distingue dalle fantasticherie dei metafisici. Le ipotesi sono intese come anticipazioni dell’esperienza, al giudizio della quale devono sempre essere sotto-poste mediante esperimenti. Ciò è possibile soltanto se l’ipotesi ri-guarda unicamente i fenomeni così come vengono percepiti e non il modo in cui questi vengono prodotti, il meccanismo che permette di interpretarli. A loro volta, le teorie non sono produzioni intellettuali che permettono di comprendere un gran numero di fenomeni; esse non hanno di per sé alcun valore al di fuori di quello di essere legate ai

19 Citato in Kremer-Marietti A., p. 128 20 Citato in Le Strat S., p.34

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fatti, e non dicono nulla di più, a proposito della realtà, di quanto è già contenuto nei fatti sui quali esse si basano. Quindi le teorie sono ana-loghe alle leggi, dalle quali differiscono unicamente per il fatto di es-sere più generali. Una teoria non è una spiegazione, ma la traduzio-ne, in forma di assiomi, di un certo numero di leggi; è un sistema di proposizioni matematiche che hanno lo scopo di rappresentare, nel modo più semplice, completo ed esatto possibile, un insieme di leggi sperimentali.

Assegnando il primato assoluto ai fenomeni e al rapporto percetti-vo con i dati di fatto, i positivisti cercavano di mostrare che la scienza legittima è verificata e che la sua verità è provata da dati sensibili, ac-cessibili a ogni osservatore attento; la scienza è saldamente fondata su informazioni fornite dai sensi. Sono scientifici gli enunciati che comportano termini osservativi, relativi a caratteristiche la cui presen-za o assenza può essere rilevata tramite l’osservazione diretta. Poi-ché la sola cosa di cui ha senso parlare è ciò che si osserva, l’ipotesi di una realtà sconosciuta, indipendente dall’osservazione umana, è inutile. I fenomeni esistono, ciò che viene messo in dubbio sono le “cose nascoste”, come gli atomi proposti da Dalton per spiegare il comportamento della materia. Per questo motivo, l’epistemologia dei positivisti non può essere ritenuta realista; essa è qualificata come empirista, per la sua preoccupazione di non andare mai oltre l’esperienza e per il primato attribuito all’osservazione, e come feno-menista, per il fatto di limitarsi alla conoscenza dei fenomeni, senza mirare alle “cose in sé” che permettono di interpretarli.

I critici sottolineano che il positivismo, limitando il sapere scientifico alle sole leggi che regolano i fatti percepibili con i sensi21, ha ristretto il campo di indagine della scienza alla superficialità dei fenomeni. Inol-tre, essi sostengono che la grande debolezza del positivismo risiede nella sua risoluta negazione dell’intervento di qualsiasi conoscenza a priori nella costruzione delle teorie. Nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, nel modo di procedere sperimentale, nell’elaborazione delle ipotesi, nella scelta delle parole utilizzate, nello statuto accorda-to alle leggi, ai modelli e alle teorie, vi è qualcosa di arbitrario che di-pende dal modo in cui la mente umana si proietta sulla natura. In altre parole, si rimprovera ai positivisti di dimenticare che l’osservazione non è un atto passivo, ma attivo: per osservare non basta «essere at-tenti e avere i sensi sufficientemente acuti». Nell’ambito della scien-

21 Comte diffidava persino del microscopio come strumento per studiare la natura

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za, osservare non è vedere; l’osservatore scientifico non si limita a contemplare passivamente la natura, con i sensi in stato d’allerta, pronto ad afferrare il fatto che potrà essere oggetto di una nuova leg-ge. L’osservazione scientifica esige la partecipazione della mente che ne è all’origine e la indirizza secondo le proprie esigenze. L’osservazione non è mai una “constatazione” priva di ogni idea pre-concetta, ma il risultato di un “progetto”, di una volontà di ricostruzio-ne del reale.

4. L’EMPIRISMO LOGICO

L’empirismo logico fu una corrente di pensiero che influenzò diret-tamente o indirettamente tutta la riflessione sulla scienza per buona parte del XX secolo. La maggior parte degli studiosi che ne costituiro-no il nucleo principale, raccolti nel Circolo di Vienna e nella Scuola di Berlino, ebbero una formazione di base in qualche disciplina scientifi-ca afferente alle scienze della natura. La sua denominazione deriva dal fatto che coloro che vi aderirono si proposero di realizzare una sintesi tra empirismo e logica, saldando strettamente la riflessione e-pistemologica con l’indagine linguistica, in base all’idea che la lingua è il tramite fondamentale tra la realtà e il soggetto che la studia. I nu-clei principali degli interessi degli empiristi logici vanno dall’ unità del-la scienza (I vari rami della scienza hanno un fondamento unitario?) all’eliminazione della metafisica, dal criterio di significanza degli e-nunciati scientifici (Esiste un criterio per distinguere gli enunciati scientifici, ossia quelli provvisti di contenuto empirico, da quelli che ne sono sprovvisti?), all’analisi del linguaggio usato per formularli.

UNITÀ DELLA SCIENZA

Gli empiristi logici tentarono di arrivare a una caratterizzazione ge-nerale della scienza inglobante i metodi da seguire per produrla e i criteri da utilizzare per valutarla. Essi quindi intendevano giungere a definire la scienza in modo generale, perché pensavano che ve ne fosse una sola: la scienza della realtà empirica, caratterizzata dal me-todo seguito per elaborarla e dai criteri in base ai quali valutarla e di-stinguerla dalla non scienza. Essi sostenevano l’esigenza di costruire un linguaggio unitario, valido per tutti i rami della scienza; al fine di e-vitare che questi risultassero compartimenti stagni, si doveva garanti-

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re completa libertà di comunicazione tramite la fondamentale unità dei mezzi espressivi. Il linguaggio unitario era ritenuto lo strumento più efficace per abolire la distinzione tra scienze della natura e scien-ze dello spirito che impediva l’applicazione del metodo scientifico alle scienze sociali. Si apriva così la prospettiva di una fondamentale uni-tà delle scienze che avrebbe dovuto trovare espressione in un’enciclopedia della scienza unificata i cui primi fascicoli furono pub-blicati negli Stati Uniti, a Chicago, nel 1938.

ELIMINAZIONE DELLA METAFISICA

L’empirismo logico ebbe sempre una posizione decisamente anti-metafisica che lo avvicina al positivismo e che giustifica la sua deno-minazione come “neopositivismo” o come “positivismo logico”. Se-condo gli empiristi logici, la scienza deve avere una base empirica: il suo scopo non è comprendere e spiegare i fenomeni, facendo riferi-mento a un mondo esterno a quello immediatamente percepibile at-traverso i sensi, ma descrivere correttamente le osservazioni. Scopo dichiarato dei neopositivisti era difendere il primato del sapere scienti-fico e distinguerlo nettamente dalla metafisica, ritenuta un insieme di enunciati privi di valore conoscitivo. Tale convinzione era basata sul principio di verificazione, il quale permette di distinguere le proposi-zioni significanti da quelle non significanti, cioè la scienza dalla non-scienza.

Come verificare se un enunciato è scientifico, ossia se ha senso, se è significante? Gli empiristi logici ritengono che gli enunciati lingui-stici siano significanti, ossia dicano qualcosa a proposito del mondo, quando si tratta di proposizioni osservative e quindi verificabili empiri-camente. Appartengono a questa categoria asserti quali “il sole splende” oppure “percepisco un tappeto verde”, legati alle sensazioni, grazie alle quali gli esseri umani entrano in contatto con il mondo e lo conoscono. Le sensazioni devono quindi essere ritenute l’unica real-tà; i veri elementi del mondo non sono le cose, ossia gli oggetti, i cor-pi fisici, giacché un oggetto non è che un insieme di sensazioni, un complesso di colori, suoni, pressioni, spazi, tempi, ecc.

Gli empiristi logici ammettono anche l’esistenza di enunciati la cui validità non dipende dall’esperienza, come quelli della logica e della matematica, ma sostengono che si tratta di proposizioni che non di-cono nulla a proposito del mondo, per cui risultano prive di valore co-noscitivo. La sola cosa di cui ha senso parlare è ciò che si osserva o

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si misura; per essere attendibile, la conoscenza deve essere posta in relazione con l’esperienza. Il fondamento della conoscenza non sono le idee, ma il linguaggio verbale che può essere controllato in modo più stringente e preciso. Una proposizione ha senso quando ogni sua parte può essere messa in corrispondenza con una entità macrosco-pica, un oggetto, una cosa; dato che le proposizioni metafisiche, quali “c’è un Dio” oppure “il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio”, non rispettano questa condizione, per i neopositivisti esse non hanno senso.

Se si accetta il postulato che hanno senso unicamente gli asserti verificabili in modo empirico, ne segue che:

1. le scienze della natura poggiano su solide basi, costituite dai fatti; 2. si dispone di un criterio che permette di operare una netta distin-

zione tra il linguaggio delle scienze empiriche, sensato e significa-tivo, e i linguaggi della metafisica e della religione, privi entrambi di senso e significato.

L’ipotesi di una realtà sconosciuta, celata dietro le sensazioni, è

inutile. Per gli empiristi logici, le affermazioni sulla realtà di un mondo esterno sono prive di senso, non essendo possibile verificare l’asserzione che esiste o non esiste un mondo indipendente dall’esperienza umana. Viene così scartata, come ipotesi ingiustifica-ta e non necessaria, l’esistenza della cosa in sé, indipendente dall’osservazione umana. Le scienze non studiano le cose in sé, ma i fenomeni, vale a dire ciò che ogni osservatore è in grado di cogliere; alla conoscenza scientifica si perviene unicamente descrivendo, nel modo più semplice possibile, le associazioni tra sensazioni.

DALLA VERIFICA ALLA CONFERMA

Inizialmente gli empiristi logici sostennero che gli enunciati signifi-canti erano quelli verificabili in modo completo e definitivo per via empirica; in seguito però divenne evidente che una tale concezione era troppo radicale e in aperto contrasto con la situazione reale della scienza che mostrava sempre più chiaramente, per esempio con al-cune previsioni della teoria della relatività, il suo carattere aperto, e-straneo alle rigide delimitazioni. Inoltre, affermare che un enunciato ha senso soltanto quando ogni sua parte può essere messa in corri-spondenza con una entità macroscopica comporta l’esclusione delle

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leggi dal sapere scientifico; non è possibile verificare empiricamente le leggi scientifiche, essendo queste formulate come enunciati uni-versali, non riconducibili quindi a un numero finito di osservazioni. Il processo di verificazione di un enunciato universale è infinito e non può mai essere portato effettivamente a termine. Per superare questa difficoltà, venne trasformata completamente l’idea positivista di legge scientifica. Se per i positivisti le leggi scientifiche hanno carattere di legame necessario e deterministico tra causa ed effetto, per gli empi-risti logici esse sono prototipi logici: non descrivono né il passato né il futuro del mondo, ma sono regole mediante le quali è possibile pro-durre asserti significanti su stati di cose mai sperimentati. In definitiva, le leggi scientifiche dicono solo come i fatti devono essere descritti. Si tratta di una concezione strumentale della legge scientifica.

Risultava pure problematico verificare empiricamente enunciati contenenti termini riferiti a entità non direttamente osservabili, come elettrone e neutrino. Secondo i neopositivisti, termini di questa natura, ossia teorici, non rimandano a entità reali; essi sono semplicemente strumenti per organizzare affermazioni relative alle cose alle quali fanno riferimento i termini osservativi. Le entità alle quali fanno riferi-mento i termini teorici sono, nella migliore delle ipotesi, utili finzioni. Molti chimici del XIX e del XX secolo hanno giudicato in questo modo la teoria atomica: uno strumento utile per ragionare sulla composizio-ne delle sostanze e sulle reazioni tra sostanze, soprattutto dal punto di vista quantitativo. Ma essi erano perfettamente convinti che gli a-tomi non esistessero. Ad esempio, Marcelin Berthelot scriveva nel 1866: «Il sistema atomico è un romanzo ingegnoso e sottile, una nuova convenzione del linguaggio». Ernst Mach, a sua volta, soste-neva che la teoria atomica metteva a disposizione un modello simbo-lico per rappresentare certi eventi, ma negava che si potesse attribui-re una realtà fisica agli atomi e alle molecole, entità non osservabili22:

Gli atomi non possono essere percepiti dai sensi, poiché, come tutte le sostanze, sono enti mentali. Anzi, si attribuiscono loro alcune proprietà che contraddicono quelle finora osservate da tutti. Certo, le teorie atomiche pos-sono anche servire a esporre una serie di fatti. Però gli scienziati, per i quali sono valide le regole metodologiche newtoniane, considerano teorie di questo genere come espedienti provvisori, e cercano di sostituirle con altre più vicine alla natura.

22 Citato in Ciardi M., p. 85

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Di fronte a queste difficoltà, gli empiristi logici riconobbero che gli enunciati scientifici non possono mai essere verificati definitivamente dall’evidenza osservativa e procedettero a una “liberalizzazione” del criterio di verificazione, sostituendolo con quello di conferma: non si parla più di verificabilità ma di confermabilità degli enunciati scientifici per via empirica. Però i critici dell’empirismo logico hanno mosso consistenti obiezioni al concetto di asserto osservativo, inteso come proposizione che descrive ed esprime correttamente le impressioni sensoriali. Essi hanno fatto notare che tali proposizioni sono formula-te mediante un linguaggio che è quello di una teoria; di conseguenza, gli eventi empirici non possono essere la base del sapere scientifico.

In definitiva, si riconosce all’empirismo logico il merito di avere sol-levato il problema del significato, saldando gli aspetti epistemologici con quelli linguistici nella decisa affermazione del nesso linguag-gio/realtà. Ne risulta che la scienza appare come un processo nel quale la lingua è profondamente coinvolta e i cui nodi epistemologici sono da ricercare nel rapporto tra parole e cose, senza che sia possi-bile separare nettamente i due piani.