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IL COUNSELING (Antonino Minio – Pietro Salerno) La ricerca va sempre avanti e nell’urgenza operativa della promozione della persona, sta radicando nella nostra cultura due nuovi concetti fecondi, integrazione e pluralismo, che daranno il via ad una grande sfida: permettere alle cose belle di fondersi con altre cose belle e ricreare altrettante cose belle. Storicamente l’incontro è stato utile agli uomini e l’intreccio delle culture ha migliorato le condizioni dell’umanità. Appunto per questo in campo psicopedagogico l’integrazione pluralista è una realtà praticata soprattutto per alleggerire il disagio umano e le problematiche esistenziali. In linea generale tale approccio è un costrutto teorico trasversalmente unificante. È un’azione terapeutica in cui prendono residenza nella stessa casa modelli e approcci differenti, ma compatibili. È come arredare un appartamento mettendo insieme più stili, con grazia e buon gusto. Praticamente chi educa costruisce un progetto di aiuto sul soggetto singolo, via via che questi va manifestandosi e definendosi. Tale orientamento integrazionale produce un risultato che prescinde dai singoli elementi psicologici presi in prestito dalle varie teorie. È un’ottica metodologica che si rinnova in continuazione perché è guidata dalla flessibilità, alla cui base c’è una visione multicomprensiva della persona secondo la prospettiva olistica, contestuale, ecosistemica, sinergica. Un operatore del benessere per produrre salute deve agire a più livelli, servendosi di più modelli e creando un trattamento pluralistico integrato. (cfr. M. Bassi – Il problema del trattamento tra eclettismo e specificità – CIC 1990; A. Pennati – Verso la mente integrazionale – Neuroetica 2012) La comprensione si affida all’uso creativo del singolo cervello, ma sarà la quantità e la qualità della conoscenza che c’è dentro a farlo funzionare e a farlo orientare verso decisioni che funzionano. L’occhio fenomenologico osserva ciò che si fa evidente al suo sguardo, liberandosi dalle classificazioni precostituite. Ad esempio, di fronte alla parole “generale” tutti pensiamo ad una persona molto anziana; è vero ma non possiamo estenderla agli antichi greci: per loro generale voleva dire il più forte, il più giovane. Del resto chi ha capito la psicologia non segue la parcellizzazione, ma fa ermeneutica. Esce dai limiti delle teorizzazioni. Fa sforzi creativi per conciliare l’apparente inconciliabile. Entra nelle dinamiche delle differenze generando nuove conoscenze, altri orizzonti, altre speranze. Un evento traumatico non sfocia sempre e necessariamente in quel determinato esito fissato dalla psicopatologia classica. C’è sempre una circolarità interattiva dei fattori coinvolti verso una multifinalità imprevedibile, che organizza i pensieri e i comportamenti. Qualsiasi sistema, momento per momento, può intensificarsi fino a diventare l’aspetto motivante prevalente, il modello operativo interno. Nessuna mappa spiega l’intera persona. L’individuo non è traducibile in schemi. La persona non è schematizzabile. La parola non definisce l’essere. In un unico modello non c’è mai tutto. Non esiste un solo modo di vedere il mondo. Appunto per questo in psicologia tutto ciò che funziona è terapia. Gli antichi pastori non si fermarono a trasformare il latte in un unico formaggio: facevano sperimentazione senza saperlo ed oggi esistono più di duemila tipi di formaggio, di cui circa quattrocento sono di denominazione italiana. La conoscenza non ha fine. Ogni modo di pensare è provvisorio.

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IL COUNSELING (Antonino Minio – Pietro Salerno)

La ricerca va sempre avanti e nell’urgenza operativa della promozione della persona, sta radicando nella nostra cultura due nuovi concetti fecondi, integrazione e pluralismo, che daranno il via ad una grande sfida: permettere alle cose belle di fondersi con altre cose belle e ricreare altrettante cose belle. Storicamente l’incontro è stato utile agli uomini e l’intreccio delle culture ha migliorato le condizioni dell’umanità. Appunto per questo in campo psicopedagogico l’integrazione pluralista è una realtà praticata soprattutto per alleggerire il disagio umano e le problematiche esistenziali. In linea generale tale approccio è un costrutto teorico trasversalmente unificante. È un’azione terapeutica in cui prendono residenza nella stessa casa modelli e approcci differenti, ma compatibili. È come arredare un appartamento mettendo insieme più stili, con grazia e buon gusto. Praticamente chi educa costruisce un progetto di aiuto sul soggetto singolo, via via che questi va manifestandosi e definendosi. Tale orientamento integrazionale produce un risultato che prescinde dai singoli elementi psicologici presi in prestito dalle varie teorie. È un’ottica metodologica che si rinnova in continuazione perché è guidata dalla flessibilità, alla cui base c’è una visione multicomprensiva della persona secondo la prospettiva olistica, contestuale, ecosistemica, sinergica. Un operatore del benessere per produrre salute deve agire a più livelli, servendosi di più modelli e creando un trattamento pluralistico integrato. (cfr. M. Bassi – Il problema del trattamento tra eclettismo e specificità – CIC 1990; A. Pennati – Verso la mente integrazionale – Neuroetica 2012) La comprensione si affida all’uso creativo del singolo cervello, ma sarà la quantità e la qualità della conoscenza che c’è dentro a farlo funzionare e a farlo orientare verso decisioni che funzionano. L’occhio fenomenologico osserva ciò che si fa evidente al suo sguardo, liberandosi dalle classificazioni precostituite. Ad esempio, di fronte alla parole “generale” tutti pensiamo ad una persona molto anziana; è vero ma non possiamo estenderla agli antichi greci: per loro generale voleva dire il più forte, il più giovane. Del resto chi ha capito la psicologia non segue la parcellizzazione, ma fa ermeneutica. Esce dai limiti delle teorizzazioni. Fa sforzi creativi per conciliare l’apparente inconciliabile. Entra nelle dinamiche delle differenze generando nuove conoscenze, altri orizzonti, altre speranze. Un evento traumatico non sfocia sempre e necessariamente in quel determinato esito fissato dalla psicopatologia classica. C’è sempre una circolarità interattiva dei fattori coinvolti verso una multifinalità imprevedibile, che organizza i pensieri e i comportamenti. Qualsiasi sistema, momento per momento, può intensificarsi fino a diventare l’aspetto motivante prevalente, il modello operativo interno. Nessuna mappa spiega l’intera persona. L’individuo non è traducibile in schemi. La persona non è schematizzabile. La parola non definisce l’essere. In un unico modello non c’è mai tutto. Non esiste un solo modo di vedere il mondo. Appunto per questo in psicologia tutto ciò che funziona è terapia. Gli antichi pastori non si fermarono a trasformare il latte in un unico formaggio: facevano sperimentazione senza saperlo ed oggi esistono più di duemila tipi di formaggio, di cui circa quattrocento sono di denominazione italiana. La conoscenza non ha fine. Ogni modo di pensare è provvisorio.

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Socrate decretò: “Esiste un solo bene: la conoscenza; c’è un solo male: l’ignoranza. La vera saggezza sta in colui che sa di non sapere”. (A. Minio - Prospettive per un approccio terapeutico globale - Biopsyche n.11/1979 - Catania). Non siamo solo calamità e pericolo, ma anche immaginazione e avventura. Una sfortuna può essere trasformata in fortuna. Un evento negativo possiede una propria intrinseca positività. Chi sa guardare il disagio vi riconosce qualche segnale migliorativo. Piaget disse: “Freud si è concentrato solo sulla distruttività dell’emozione… Io ho scelto la positività dell’intelligenza senza fermarmi solo su essa… Ho sempre detestato qualsiasi allontanamento dalla globalità della realtà e per questo ho evitato le trappole dell’inconscio”. L’essere umano è un agente attivo che impegna tutto se stesso nel costruire il suo stare nel mondo. È un direttore d’orchestra e non un semplice suonatore di tromba. Non si muove con le rabbie ideologiche fortemente disgreganti, che violano i diritti umani alla libera esistenza. Accumula conoscenze e informazioni per aprire sentieri multidirezionali, in cui ogni punto è correlato agli altri. Ha coscienza che utilizzare solo la “specializzazione” senza l’integrazione delle altre discipline può diventare un guaio per la salute. Un bravo medico “dietologo” è un pessimo medico se non è anche un buon “medico generalista”: l’organismo non lavora a scompartimenti stagno, ma tutti i suoi organi sono interdipendenti, comunicano e si influenzano. La salute è sintesi, non analisi. Chi più sa, meglio agisce. Da parte nostra abbiamo sempre notato che chi viene da un’altra cultura si presenta con una già filtrata, sporcata o tradita. Quindi un formatore non può applicare il suo unico modo di vedere la vita perché le personalità si plasmano attraverso una continua interazione tra individui e ambienti nuovi. Chi resta chiuso dentro la propria unica conoscenza si condanna a rimuginare le proprie umiliazioni intellettuali primitive. Allora il buonsenso ci ha suggerito che l’integrazione diventa positiva se è vissuta come un fatto d’intelligenza allargata sia dell’ospite che dello straniero. L’inclusione si alimenta con gesti di rispetto per chi parla e per chi ascolta. All’inizio ognuno va con il proprio passo; alla fine si può camminare verso l’obiettivo con lo stesso passo. Si sta insieme per vivere bene e meglio. L’incontro serve per favorire l’armonia, non per armare le differenze né per accentuare le contrapposizioni né per accendere le polemiche. Lo psichiatra romano Luigi Cancrini ha detto: “L’immagine che ognuno ha di sé è un mosaico che prende forma in base alle risposte che riceve dagli altri”. Un proverbio cinese recita: “I maestri aprono l’uscio, ma devi entrare da solo”. Nella storia della psicologia i comportamenti problematici sono stati “visti” in modo molto diverso a seconda del modello seguito; c’è stata una forte tendenza centrifuga, dovuta alla rigidità delle grandi scuole di pensiero; ogni teoria è stata costruita in opposizione alle altre. Da tale atteggiamento sorge l’improduttiva inclinazione a fabbricare muri, a dividere le conoscenze in ambiti, a separare il corpo dalla mente, a scollare l’emozione dalla cognizione. Di conseguenza le scienze psicologiche rischiano di diventare scienze autolimitanti con tutte le loro trecento forme di psicoterapie accreditate, senza contare le moltissime non accreditate. Nel corso degli ultimi cento anni i ricercatori si sono posti il problema di cosa osservare e capire, quali concetti considerare attendibili e quali obiettivi perseguire.

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In tal modo la psicologia ha elevato molti sbarramenti tra la normalità e la patologia, tra il conscio e l’inconscio, tra l’aspetto comportamentale e la psicodinamica, tra il verbale e il non verbale. Una volta creato il confine, un elemento di un certo settore viene letto come più valido di un altro. In tal modo nasce la divisione dei domini della conoscenza, la guerra tra oggettivismo e interpretazionismo. L’oggettivismo afferma che la conoscenza esiste indipendentemente dall’attività cognitiva e percettiva della persona, cioè la conoscenza si apprende. Invece secondo l’interpretazionismo non esiste nessuna conoscenza data e indipendente dal conoscitore, cioè persona e conoscenza non sono separate, ma tutto avviene nell’ambiente: interpretare è tirare a indovinare. A complicare il dibattito, alcuni epistemologi hanno inventato il problema delle tante verità: verità storica, verità narrativa, verità pensata, verità ricostruita… Ma tutti questi ostacoli a che cosa servono? Di certo mantengono le rigidità. Mantengono il rancore relazionale. Si ripete quello che avviene nel nostro corpo quando odiamo: entra in tensione, s’irrigidisce e i suoi confini rispetto al mondo diventano più marcati; mentre si distende quando siamo aperti, affettuosi e amichevoli. Che senso ha circondarsi di limiti? Qualsiasi linea di confine segna i territori di due campi opposti, mettendoli potenzialmente in conflitto. I confini si dissolvono quando le parti accettano l’ipotesi che ciò che sembra opposto condivide qualche fondamentale unità e utilità. Allora che senso ha creare poteri e antagonismi? La competizione tra i diversi modelli teorici in psicologia ha avuto origine nel 1920 con Freud, il quale ai suoi allievi soleva dire: “Un dogma può sopravvivere solo mangiandosi i dogmi rivali”. Nel campo della psicoterapia psicoanalitica nel 1993 Hillman è stato il primo a combattere il prevalere dei conflitti intrapsichici, riassumendo il risultato dei suoi studi nella seguente frase: “Se ti guardi indietro, non guardi in avanti”. Nella vita, infatti, ogni persona è legata all’altra in un processo dialettico continuo, in cui ciascuno definisce l’altro e ciascuno è definito dall’altro. Diventiamo allo stesso tempo autore e prodotto di una struttura che interagisce con la struttura degli altri. Allora perché confondere i propri strumenti concettuali limitati con la realtà di quel singolo paziente? Il poeta statunitense Ezra Pound ha scritto: “L’incompetenza si manifesta con l’uso di troppe parole”. (cfr. modello dei fattori comuni di Frank del 1961; terapia transteorica di Prochaska e Di Clemente del 1992; effectiveness o efficacia clinica, cioè esito di una terapia nella pratica e non negli studi di ricerca di Roth del 1997) Riportiamo qualche fatto che è servito a svegliare i ricercatori dal dogmatismo fideistico dei grandi sistemi psicoterapeutici. Dalla loro analisi timidamente è venuto fuori l’orientamento verso la strategia integrazionale. Nel 1905 lo psicologo georgiano Shepard Ivory Franz dimostrò che una “funzione cognitiva” può essere costruita, anche con un paziente colpito da una paralisi che gli aveva tolto l’uso del linguaggio. Nel 1909 l’austriaco Sigmund Freud risolvette il comportamento problematico di Hans, un bambino di cinque anni che aveva paura che i cavalli lo mordessero, ricorrendo al “complesso edipico inconscio” (paura di perdere il proprio organo genitale con il morso di un cavallo). Nel 1924 gli psicologi statunitensi John Watson e Mary Cover Jones riuscirono a far superare la paura dei conigli in Peter, associando uno stimolo piacevole contemporaneamente allo stimolo nocivo. Ovviamente sono tre fatti con tre diversi modi di risolvere una situazione problematica attraverso l’uso di tre approcci psicoterapeutici dominanti, ma differenti tra loro: cognitivismo, psicoanalisi, comportamentismo. Nella pratica professionale ogni educatore usa solo l’approccio che conosce. Quindi la soluzione di una difficoltà è affidata solo a ciò che si conosce. Stando così le cose, è inevitabile l’esposizione al rischio. Non c’è la ricerca di nuovi spazi conoscitivi. Sono rare le idee che restano sempre forti; molte lentamente diventano deboli, s’ammalano, scompaiono. Nessuna teoria è immortale né prevalente. Nel 1930 nacque un interesse diffuso di conoscere l’intero universo delle scuole di psicoterapie.

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Man mano che si assemblavano le conoscenze, in alcuni psicoterapeuti spuntò l’audacia di applicare le tecniche più importanti e più convincenti, presenti nelle varie psicoterapie. Tale indirizzo era seguito in silenzio negli studi psicoterapeutici senza affacciarsi nella stanze ufficiali della cultura di primo piano. Nel 1950 lo psicanalista tedesco Eric Erikson presentando la sua teoria interpersonale afferma che ogni individuo si evolve secondo i propri tempi: le sue otto fasi dello sviluppo non sono uno schema fisso e rigido; non sono mai rifiutate del tutto, ma vengono integrate in un “insieme funzionante”. Nel 1976 si affermò la terapia multimodale del sudafricano Arnolds Lazarus. Era una pratica di eclettismo tecnico, cioè un terapeuta prende in prestito metodi e tecniche da qualsiasi scuola terapeutica e li adatta ai bisogni specifici del paziente. Nel 1970 alla base della scuola di formazione del CePASA di Spoleto è stata posta la psicologia a orientamento integrazionale, tenendo come punto forte la psicologia umanistica (cfr. Freedheim D. – Storia della psicoterapia – Magi 1998 pag. 1040). Nel 1989 Jeffrey Young, psicoterapeuta newyorkese, ha sviluppato la schema therapy o “terapia delle trappole” per trattare pazienti con problemi caratteriali che non rispondevano pienamente alla terapia cognitivo-comportamentale standard. L’assunto centrale è l’esistenza di bisogni emotivi fondamentali che, se frustrati nell’infanzia, danno origine a mode o schemi disfunzionali precoci, ai quali il paziente risponde con stili di coping disfunzionali. Il trattamento è finalizzato alla modificazione degli schemi e degli stili di coping, e al soddisfacimento dei bisogni emotivi precedentemente frustrati. Per arrivare a questi obiettivi la schema therapy si avvale di tecniche cognitive, comportamentali, esperienziali e della relazione terapeutica. Nasce dall’integrazione di assunti teorici e tecniche tratti da altri approcci terapeutici, quali la psicologia della gestalt, la psicoanalisi e la teoria dell’attaccamento. Tale modello terapeutico si caratterizza per quattro aspetti fondamentali: - un’esplorazione accurata delle esperienze infantili e adolescenziali ritenute all’origine dei problemi psicologici attuali; - l’uso di tecniche emotive-esperienziali (imagery); - centralità della relazione terapeuta-paziente, considerata un fondamentale strumento di cambiamento e assessment; - grande attenzione agli stili di coping disfunzionali, il cui cambiamento è un bersaglio dell’intervento terapeutico. Nel 1990 finalmente si arrivò all’approccio integrato per eccellenza, quello della psicoterapia applicata: si fa un progetto ritenuto efficace e utile per il soggetto, in seguito alla “percezione” avuta durante i colloqui e in base alle “aspettative” del cliente. Tale pratica si è affermata come movimento delle psicoterapie integrate. All’inizio fu erroneamente interpretato come approccio eclettico dove i campi teorici restano separati l’uno dall’altro: se ci si dedica ad un campo si rinuncia all’altro. Poi tutto si è chiarito. Integrare non vuol dire unire molte tecniche diverse in modo casuale, senza una struttura unificatrice. Un progetto terapeutico personalizzato opera al suo interno con una bilanciata combinazione di strategie e tecniche. Le psicoterapie integrate non sono affatto una miscela di teorie finalizzate a creare confusione teorica e pratica, ma hanno una loro coerenza interna, in quanto utilizzano una “tecnica” prescindendo dalla teoria su cui si appoggiano. C’è un sapiente intreccio che nel progetto acquista senso sulla persona. Ciò che funziona non ha colore né bandiera. Un esempio: di fronte ad un comportamento di iperattività potrei usare tecniche di auto-istruzioni, controllare le fantasie paurose che ci sono dietro con la desensibilizzazione sistematica, esplorare le dinamiche inconsce ecc. Una psicoterapia integrata non sceglie un intervento casualmente, ma dopo aver osservato con lente polifocale, a 360°, si prefigge di creare il miglior piano di trattamento, costruendolo ad hoc, ad personam. Il terapeuta utilizza differenti terapie affinché i metodi usati interagiscano all’interno del paziente per produrre un risultato superiore a quello ottenibile con una terapia specifica. In pratica si allestisce un gradevole piatto con vari ingredienti che fanno armonia e danno piacevolezza al gusto.

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Le tecniche scelte rispondono a un principio di integrazione concettuale: si uniscono insieme concetti in modo nuovo e originale, senza effetti contrastanti, senza danni collaterali, senza ricadute secondarie. C’è un produrre qualcosa d’intelligente da metodi differenti. C’è il superamento delle rigidità schematiche dei singoli approcci psicoterapeutici. C’è il superamento della trappola degli standard esageratamente severi. C’è la rottura del dominio di una teoria sull’altra. C’è una validità euristica che rifiuta la conoscenza secondo compartimenti-stagno. Non c’è segregazionismo, ma un effetto caleidoscopio che non divide la conoscenza in settori distinti e separati. Tutti i concetti psicoterapeutici, infatti, possono essere soggetti a revisione. Tutte le strategie e le tecniche sono intercambiabili. Tutte le psicoterapie hanno qualcosa che funziona. (cfr. Chambon O. – Cardine M. – Le basi della psicoterapia eclettica ed integrata – Sovera 2002; Giusti E. – Germano F. – Psicoterapeuti generalisti – Sovera 2006; Agnostopoulos K. – Germano F. – Tumiati C. – L’approccio multiculturale – Sovera 2009) Nella visione psicodinamica un principio afferma che il cambiamento avviene appena il soggetto raggiunge un insight sul problema di cui non ha consapevolezza. Molte volte è la fiducia in sé che permette l’evoluzione attraverso l’insight. Questo apprendimento può essere sollecitato da varie fonti e in tanti modi (indagine, introspezione, interpretazione, associazione, aiuto diretto a capire, modellamento, training, role-playing, comprensione, empatia). Allora il termine “psicodinamica” non sta più ad indicare che gli eventi traumatici “reali”, accaduti nell’infanzia, hanno un impatto sulla mente, ma significa che molti desideri, costruiti dalla mente, influenzano il modo in cui gli eventi dell’infanzia sono costruiti e vissuti. Nel film La gabbianella e il gatto, la protagonista impara a volare solo quando riconosce che “vola solo chi osa farlo”. L’esperienza insegna che alla base delle professioni psicoterapeutiche c’è una missione comune: - diminuire l’angoscia e il disagio - migliorare l’autocontrollo e l’adattamento - favorire l’autoriconoscimento, l’autoaccettazione, l’autostima, l’autonomia. Di conseguenza scegliere il modello psicologico integrazionale implica l’optare per un’interprofessionalità arricchita e arricchente. È sapere come far confluire con saggezza psicoanalisi, comportamentismo, cognitivismo, psicologia umanistica, psicodinamica… Il successo dipenderà dalla personalità e dalla cultura del professionista, dal tipo di disturbo, dalla gravità e complessità del problema, dalla personalità del paziente, dal tipo di modello d’intervento creato, dalla pianificazione terapeutica ed anche dal fattore tempo, dalle priorità, dall’accessibilità, dalla disponibilità al cambiamento, dal livello di opposizione alle richieste (reattanza), dallo stile di coping (locus of control cioè percezione della responsabilità all’interno o all’esterno di sé, tendenza all’evitamento, incostanza). Paradossalmente più che una scienza, la psicoterapia diventa un’arte. (cfr. M. Golfried – Dalla terapia cognitivo-comportamentale all’integrazione delle psicoterapie – Sovera 2000; L. Greenberg – J. Watson – G. Lietaer – Manuale di psicoterapia esperienziale integrata – Sovera 2000; S. Santostefano – Psicoterapia integrata per bambini e adolescenti I/II – Sovera 2002; E. Giusti – Psicoterapie: denominatori comuni – Angeli 2011) Lo sfondo culturale su cui poggia il seguente volume è quello integrazionale. Nelle scienze sociali, pedagogiche e psicologiche, il termine integrazione indica l’insieme di processi che rendono l’individuo felice membro di una comunità, di una società, di un popolo, dell’umanità. Si tratta della visione di un ambiente dove prevale la socializzazione dei saperi e dei comportamenti, senza prevalenze. Culturalmente non si socchiudono timidamente le finestre, ma si spalancano alla solidarietà antropologica, morale ed etica (cfr. interdisciplinarietà, interprofessionalità, dialogo interculturale...). Praticamente si accentua l’attenzione verso la singola persona, non più studiata astrattamente e genericamente: l’individuo non è un numero ma un valore e resta sempre il centro del dibattito.

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In tal modo le scienze della formazione diventano la speranza dell’impossibile. Cosa fa un individuo per risollevarsi dopo una grossa difficoltà? Il più delle volte aspetta che passi la burrasca. Se fa qualche tentativo, lo fa per pochi giorni. Tenta senza arrivare in fondo. Abbandona il campo. Ripete, senza accorgersene, ciò che non funziona. Vorrebbe che la fastidiosa situazione si trasformasse velocemente e senza troppi sforzi. In realtà le cose serie non si gestiscono così. Per cambiare un comportamento bisogna modificare l’attuale modo di percepire e di pensare. Bisogna trovare idee nuove e motivazioni valide, malgrado le inclinazioni inconsce sostenute dalla psicoanalisi e i condizionamenti sociali sostenuti dal comportamentismo. Ora consideriamo utile precisare alcuni termini del vocabolario o glossario psicologico. Psichiatra: è un medico con specializzazione in psichiatria. Si occupa delle forme più gravi di malattia mentale e può naturalmente utilizzare i farmaci. Psicoterapeuta: fa diagnosi e terapie per curare il paziente, cercando di eliminare la patologia di cui soffre. Non utilizza farmaci. Ha una laurea in Psicologia o in Medicina e una specializzazione successiva cinquennale in psicoterapia. Dovrebbe avere una preparazione multidisciplinare per affrontare tutte le varie sfaccettature che caratterizzano i disturbi psichici, i disagi, le difficoltà esistenziali. Psicoanalista è colui che esercita la psicoanalisi come modello di psicoterapia, con espresso riferimento alla teoria freudiana o post-freudiana. È uno psicologo psicoterapeuta o un medico psichiatra che opera nel settore della psicoterapia psicodinamica, con precise opzioni di setting e con finalità non solo terapeutiche, ma spesso anche conoscitive. Il training per divenire psicoanalisti è molto lungo, selettivo e complesso; segue solitamente procedure di selezione e linee guida di formazione rigorosamente stabilite dalle diverse società psicoanalitiche nazionali e internazionali, e prevede sempre per il candidato molti anni di analisi personale e analisi didattica. Psicologo clinico: si occupa dello studio del caso singolo, sia che si tratti di singoli individui, gruppi o organizzazioni, al fine di progettare un intervento psicologico-clinico volto a perseguire uno sviluppo ed un maggior adattamento degli individui nel proprio contesto. Psicologo è laureato in psicologia e iscritto all’albo professionale degli psicologi: può fare diagnosi, interventi di prevenzione, ma non terapia e non può utilizzare farmaci. Consulente è qualsiasi operatore di mediazione e di relazione d’aiuto (es. counselor) che non usa strumenti d’indagine psicologica e di psicoterapia. Abitualmente il suo intervento è breve e non supera i dieci colloqui. Si occupa di risolvere problemi: non tratta l’interno della “persona”. Il counseling è l’aiuto più breve e più agile per uscire dalla trappola dello spaesamento, della rassegnazione, dell’indolenza, dell’impotenza appresa. Basta saltare lo steccato e saggiare le praterie vergini. Basta riappropriarsi della volontà. Basta allenarsi ad apprendere un efficace stile di reazione. Basta opporsi ai pensieri limitanti. Basta evitare il pensiero negativo perché è la matrice di tutti i disordini psicologici e psicosomatici. Chi si arrende al pessimismo comincia a creare una catena mentale che porta a un fallimento devastante. Mentre chi sceglie come abitudine l’ottimismo diventa una persona che si automigliora continuamente. La storia è piena di storie di individui che hanno realizzato cose meravigliose usando semplicemente l’entusiasmo, la volontà e la tenacia nel mantenere fisso l’obiettivo da raggiungere. Michelangelo non avrebbe dipinto la Cappella Sistina se non fosse stato disposto a soffrire sdraiato per mesi sulla schiena. Gli esseri umani progrediscono, malgrado le avversità. (cfr. S. Smiles – Self-help – Treves 1903)

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Il counseling è una forma di self-help. Nella nostra cultura l’autoaiuto è esistito da sempre: dalla Bibbia alle Meditazioni di Marco Aurelio. Oggi il fenomeno è esploso e non è facile contare i libri di “psicologia tascabile” che si stampano ovunque. C’è un filo rosso che accomuna tutte le professioni di self-help: orientare l’umanità verso la condivisione della felicità per evitare la disperazione silenziosa dei singoli individui. Dobbiamo prendere atto delle difficoltà della vita, ma non possiamo lasciare che esse ci definiscano. Per quanto avversa sia una situazione c’è sempre una via d’uscita. L’esistenza ha un significato per tutti. (S. Boezio – La consolazione della filosofia – Carabba 2010; V. Frankl – Uno psicologo nel lager – Ares 1987) L’operatore che si occupa di self-help crea un ponte tra la paura e la gioia di vivere. Promuove la fiducia nello sforzo personale e spinge a diventare persone migliori. Lo scrittore statunitense Philip Dicks, quando era in Italia e creava romanzi di fantascienza, scrisse: “All’inizio i simboli del divino si manifestano sotto forma di ciarpame”. Ciò che percepiamo spazzatura spesso non è spazzatura. Sotto le apparenze si nascondono i germogli. Un desiderio realistico diventa possibile solo se si ha il coraggio di provarci. (cfr. il film “Abraham Lincoln” di Griffith del 1930) Tutto cambia o crolla in un mondo che va troppo veloce, ma spetta al singolo individuo governare le rivoluzioni e gestire il piano della propria vita senza farlo dipendere da un’istituzione. L’evoluzione ha luogo per differenziazione e non per alienazione. L’esistenza è una tavola vergine sulla quale solo ogni persona scrive la propria storia. Nietzsche scrisse: “Le nature attive non agiscono secondo il conosci te stesso, ma sono guidate dal desidera un io e diventerai un io. Sei come pensi di essere: pensieri e azioni cattive danno risultati cattivi; pensieri e azioni buone producono risultati buoni. La forza che muove il mondo è la rettitudine, non la corruzione”. Raddrizziamo noi stessi per scoprire che l’universo va bene. Quindi vivere meglio dipende soltanto da ognuno di noi: ampliamento della scelta e volontà per l’attuazione. La traduzione della parola “counseling” fatta dall’Oxford Dictionary recita:

“consiglio da un consigliere-consulente”. È evidente che è una definizione insostenibile sia sotto il profilo linguistico che come presentazione professionale. Rispondere alla domanda “Di cosa ti occupi il counselor?” con un “Sono un consigliere-consulente” è un indiscutibile segno di superficialità in quanto con i termini “consigliere” o “consulente” daremmo una informazione errata: nel counseling c’è la totale astensione dal fornire precetti al proprio assistito. La parola counsel deriva dal latino consilium (consiglio, giudizio, consultazione) ed è ovvio che il termine si riferisca alla pratica di dare consigli o pronunciare giudizi. Invece il counseling è diverso dal dare consigli perché è una professionalità riferita all’aiuto offerto ad una persona che ne ha bisogno, dove non vengono forniti consigli diretti. In realtà le parole counseling e counselor non sono traducibili in lingua italiana, perché entrerebbero in conflitto con altri ruoli professionali già esistenti: consulenti finanziari, consulenti estetici, mediatori, arredatori... Sono due termini che vanno considerati come parole internazionali con un loro specifico significato e tali debbono rimanere per non perdere valore e originalità e per non indebolire il loro peso culturale. ��� L’associazione britannica del counseling e della psicoterapia (BACP) nel 2000 si è così espressa: “Si stabilisce una relazione di counseling quando una persona (counselor) offre tempo, attenzione e rispetto ad un’altra persona temporaneamente nel ruolo di cliente. Compito del counseling è fornire al cliente l’opportunità di esplorare, scoprire e rendere chiare modalità di vivere più proficue e improntate all’ottenimento di un maggiore benessere”.

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Nel 2006 la federazione delle associazioni italiane di psicoterapia (FAIP) ha dichiarato: “Il counseling è una relazione d’aiuto che muove dall’analisi dei problemi del cliente e si propone di costruire una nuova visione di tali problemi e di attuare un piano d’azione per realizzare le finalità desiderate dal cliente: prendere decisioni, migliorare relazioni, gestire emozioni e sentimenti, superare conflitti…”. Nel 2005 Annamaria Di Fabio espone in ordine cronologico ben trenta definizioni differenti su cosa significhi counseling. Le caratteristiche che le accomunano sono le seguenti: - attenzione alla prevenzione e alla non direttività; - enfasi sul comportamento sano delle persone e sulla loro capacità di adattarsi attraverso la mobilitazione delle proprie risorse (ottimismo e psicologia positiva); - valorizzazione del concetto di salute come relazione e come adattamento. Anche se il termine counseling ha una gran varietà di significati, si deve convenire che è un’attività di competenza relazionale fondata su principi di una o più teorie psicologiche. La traduzione italiana che meglio corrisponde all’effettiva professione del counseling è relazione di aiuto, colloquio di aiuto, cioè un’attività di orientamento e di supporto verso quelle persone che evidenzino disagi di comunicazione e di relazione sociale, un sostegno professionale per chi è in una situazione di crisi ed è momentaneamente bloccato. Il focus è sul cliente: è lui che diventa protagonista della sua vera trasformazione. Il counselor generalmente esplica i seguenti compiti: - può indicare le opzioni di cui il soggetto dispone, - può aiutarlo a seguire quella che sceglierà, - può insegnare ad esaminare dettagliatamente una situazione o un comportamento e a trovare un punto da cui è possibile originare un cambiamento all’interno di una cornice dentro cui lavorare (framework, setting). Qualunque approccio o modello di counseling si segua, lo scopo fondamentale è l’autonomia del cliente. È una pratica dialogica che si applica in diversi ambiti professionali: psicologico, pedagogico, sociosanitario, aziendale, formativo… in quanto il counselor è capace di intervenire con competenza nell’aiutare a risolvere un problema o una difficoltà esistenziale dove il soggetto necessita di un sostegno per riprendere consapevolmente la trama della sua vita o per rimettere in gioco scelte evitate o dimenticate. La competenza gli deriva dalla formazione secondo un’ottica molteplice di modelli e di approcci metodologici capaci di contestualizzare l’intervento. (cfr. F. Nanetti – Il counseling: modelli a confronto – Quattroventi 2003) Il primo ad usare il termine “counseling”, nel 1908, è stato l’americano Frank Parson, padre dell’orientamento. Egli per counseling intendeva una metodologia di indirizzo vocazionale per assistere i giovani nella scelta della vita scolastica e professionale. Il counseling come viene inteso oggi, nacque negli Stati Uniti nel 1930 soprattutto con Rogers durante i percorsi di reinserimento sociale dei reduci di guerra. In Europa approdò attraverso l’Inghilterra dopo il 1940 come strumento di supporto nel volontariato e nei “consultori di psicologia”. In Italia i primi germogli spuntarono nel lontano 1920 all’interno del lavoro dell’assistente sociale; cambiò volto nel 1970 attraverso l’azione della psicologia umanistica sino a diventare nel 1990 un movimento fondato sull’intuizione geniale di Carl Rogers che “se una persona si trova in difficoltà, il miglior modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare”. Le correnti culturali che hanno contribuito a creare la professione sono da ricercarsi -nell’esistenzialismo che nacque dalla fenomenologia del moravo Edmund Husserl (Il senso della realtà dipende dalla persona che lo cerca); si affermò con il tedesco Martin Heidegger (L’essere non può definirsi: ogni definizione lo limita. Tutto evolve e cambia); terminò con il francese Jean Paul Sartre (Ogni verità e ogni azione implicano una soggettività umana e un ambiente. La vita non è permeata da nessun significato: esso va ricercato, trovato, creato);

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- nella terza forza della psicologia (quella della psicologia umanistica che si volle distinguere dalla psicanalisi e dal comportamentismo), creata e favorita dall’americano Abraham Maslow, il quale cercò di dimostrare che “la persona umana è in grado di perseguire i massimi valori e le aspirazioni come l’amore, l’ottimismo…” sottolineando la fenomenologia esistenziale, le tematiche della consapevolezza, i processi di autorealizzazione; - nella feconda esperienza dell’americano Rollo May, medico e psicologo esistenzialista, che fu il primo a parlare ufficialmente di counseling, pubblicando nel 1939 il primo libro sul counseling (L’arte del counseling); May si è sempre battuto per l’idea che “il counselor può solo guidare a ritrovare la libertà di essere se stessi”. Rogers un anno dopo introdurrà il termine counselor al posto di terapeuta e il termine di cliente anziché paziente; - nell’acuta critica dell’americano Albert Ellis, psicoterapeuta cognitivo-emotivo-comportamentale che, pur contrastando il counseling, impreziosì l’aspetto delle analisi delle convinzioni razionali e irrazionali; - nella terapia della Gestalt fondata dal medico psichiatra berlinese Fritz Perls (Alla persona bisogna far scoprire, esplorare e sperimentare la sua interezza per fare un’esperienza globale: sensoriale, emotiva, sociale, spirituale… In tal modo ognuno può integrare quello che già è con quello che potrebbe divenire, completando così un’esperienza piena). Riassumiamo brevemente la storia del counseling. Negli USA si hanno informazioni sull’attività di counseling all’inizio del 1900; infatti alcuni operatori sociali adottavano il termine counseling per meglio definire l’attività di orientamento professionale dei reduci della guerra (ricollocamento lavorativo). Nel 1908 c’è la prima attestazione dell’uso del termine counseling, per indicare un’attività rivolta a problemi sociali o psicologici (cfr. Frank Parson). Nel 1951 la parola counseling viene utilizzata da Carl Rogers per indicare una tipo di relazione con cui il cliente è assistito nelle proprie difficoltà senza rinunciare alla libertà di scelta e alla propria responsabilità. Proprio in questo periodo nasce la Division of Counseling Psychology dell’APA (American Psychological Association) e l’American Personnel and Guidance Association. Questa nuova professione viene fortemente influenzata dalle varie scuole di pensiero. C’è l’antico primo movimento di orientamento e guida professionale che punta sul miglioramento della scelta professionale alla fine delle scuole superiori (cfr. test attitudinali che misurano gli interessi professionali e che orientano i meccanismi decisionali). C’è il movimento psicoterapeutico del 1920 che orienta il counseling verso la soluzione dei problemi personali e sociali (cfr. teorie psicoanalitiche della personalità). C’è il movimento della psicologia umanistica del 1950 che sposta l’ottica sull’esistenzialismo umanista e sulla relazione d’aiuto: libertà di scelta dell’individuo, importanza del dialogo io-tu, impegno individuale, responsabilità personale. C’è il movimento orientato sulla salutogenesi del 1960 che sottolinea il principio della prevenzione dei problemi psicologici non negli ospedali, ma sul territorio e nei centri di igiene mentale poco costituitisi; infatti tale cambiamento diventa epocale: si passa da un modello centrato sulla malattia ad un modello orientato alla salute dell’individuo (cfr. prevenire è meglio che curare della psicologia del benessere) alla cui base vi è una concezione sostanzialmente positiva dell’essere umano. Il concetto di crisi perde quel suo aspetto negativo e si focalizza maggiormente sul concetto di “transizione” ovvero spaesamento evolutivo, alternativa possibile, occasione di cambiamento. A tutt’oggi l’obiettivo della psicologia della salute è migliorare la qualità della vita e le abilità sociali necessarie. In Italia i primi corsi di counseling risalgono al 1976 (counselor matrimoniale) e al 1980 (counselor pedagogico); negli anni successivi si sono allargati ad altri settori professionali (medici, infermieri, allenatori sportivi, formatori vocazionali, promotori della pastorale, operatori psicosociali, animatori, volontari). Questo nuovo professionista a largo spettro non opera rimedi curativi di nessun genere, non fa psicoterapia né pratiche di psicologia e… genericamente non usa mai il prefisso psico se non acquisito per competenza. Va evidenziato che il counseling psicologico prevedendo la diagnosi, il sostegno, la riabilitazione è una

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attività di esclusiva competenza del ruolo professionale dello psicologo (che ha seguito una formazione per counselor). Il counseling medico prevedendo la diagnosi, la prescrizione di farmaci, gli esami specialistici, i ricoveri spetta alla professione del medico (che ha seguito una formazione per counselor). La nascita italiana del counseling è rintracciabile intorno al 1920 nella storia dell’assistenza sociale. Tali iniziative assistenziali, formalmente costituitesi nel 1929, hanno un carattere di volontariato filantropico femminile. Nel 1970 alcune scuole di psicoterapia iniziano a formare figure professionali orientate alla relazione e centrate sull’individuo. Sarà nel 1990 che le competenze del counselor vengono definite dagli statuti di alcune associazioni professionali e proprio il 18 maggio del 2000 il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) inserisce il counseling tra le professioni non regolamentate. Attualmente il percorso di regolamentazione del counseling è fortemente osteggiato dall’ordine degli psicologi, ma non è più un ostacolo in quanto la professione di counselor è stata disciplinata dalla legge 4 del 14 gennaio 2013. Il counselor ha un solo nemico: il rischio dell’assunzione della posizione del brigante ateniese Procuste, il quale possedeva due letti, uno molto corto e l’altro troppo lungo, e tormentava i viandanti stirando quelli di bassa statura sul letto lungo o amputando le parti che sporgessero dal letto corto di coloro che avevano un’alta statura. Nel counseling non esiste la tentazione di ridurre le persone ad un solo modo di pensare e di agire. Tutti i sistemi di pensiero poggiano su punti di vista che permettono comunque al sistema di funzionare. Il filosofo austriaco Paul Feyerabend disse: “Molte scoperte possono avvenire a dispetto delle conoscenze scientifiche esistenti… Quindi occorre evitare la cecità professionale e credere nell’ermeneutica che punta sui significati nascosti in ogni processo… La stessa diagnosi in due persone non vuol dire la stessa cosa”. (cfr. C. Edelstein – Il counseling sistemico pluralista – Erickson 2007) Le relazioni umane generano i conflitti legati al potere o alla diversità, oppure sviluppano una rete affettiva attraverso numerose forme di aiuto o di solidarietà. Ovviamente incontrare l’altro può diventare amore o violenza, sostegno o contrasto, cura od oppressione. Per questo, ad esempio, il popolo ebraico ha 613 linee-guida per regolare i rapporti umani, i cristiani fanno prevalere la virtù della carità (agape), i musulmani riconoscono il diritto del mendicante a ricevere l’elemosina: ogni credente è responsabile dei suoi fratelli. Il counseling nasce proprio dall’attenzione verso la persona. Però questa emergente attività professionale non va confusa con la “psicoterapia”, né con il semplice “dare consigli” né con una “pratica seriosa”. È un comportamento d’aiuto. Cercare aiuto negli altri è un’operazione naturale, soprattutto quando si è in difficoltà. Lo facciamo tutti. Nella vita quotidiana aiutare gli altri è un tratto frequente. Il counseling poggia su questa constatazione e diventa un’attività professionale che struttura i tentativi da fare, servendosi di azioni di facilitazione e di agevolazione e abbracciando varie modalità strategiche (informazione, istruzione, consulenza, azione diretta, incoraggiamento, verifica, confronto, approvazione, riflessione, liberazione, rilassamento). Aiutare gli altri si trasforma in un rendere la gente capace di cambiare o nell’assistere qualcuno a saper gestire meglio la sua vita. Per Rogers aiutare è un “modo di essere” con l’altra persona, per cui un titolo certificato non sostituisce la capacità personale e la pedagogia dell’esperienza sul campo. Il counseling poggia sulle competenze psicorelazionali e comunicative del singolo professionista: quando due vite s’incontrano e si ascoltano bisogna saper coniugare gli apprendimenti di base, gli orizzonti culturali, il sapere agito, la dimensione interiore e biografica. Chi cerca aiuto desidera sostegno o informazione, non vuole un “direttore”. Appunto per questo l’aiuto va visto come un processo sottile e complesso in cui due persone stanno genuinamente a contatto in attesa di effettuare un cambiamento. Il counselor va immaginato con un operatore di gioia, pieno di onestà, vitalità, umorismo, sensibilità,

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rispetto, delicatezza, attenzione. È un attore sociale ospite nel mondo dell’altro, un collaboratore temporaneo di un utente impegnato nella propria modificazione, un tecnico di debriefing come uscita dalla vertigine delle scelte, delle indecisioni, delle emozioni e come ingresso nel terreno dell’analisi propria e altrui e del modello all’interno del quale si svolge il gioco. È un professionista qualificato che esercita una professione che dovrebbe essere acquisita da tanti altri: assistenti sociali, avvocati, medici, infermieri, insegnanti, volontari del sociale, consulenti matrimoniali, manager, educatori di comunità, pedagogisti, terapisti della riabilitazione, consiglieri d’orientamento scolastico e professionale, addetti alla prevenzione del suicidio, dello stalking, della violenza… Per i differenti tipi di facilitazione ovviamente sono richieste abilità differenti e specifiche competenze, alla cui base ci sono i tratti descritti da Rogers: l’empatia, il calore umano, la sincerità della comunicazione, la concretezza, l’immediatezza, l’ipseità o sentirsi compreso e accettato. Recita un antico proverbio cinese: “Quando la persona giusta usa mezzi sbagliati, questi agiscono in modo giusto; quando la persona sbagliata usa mezzi giusti, questi agiscono in modo sbagliato”. (cfr. S. Murgatroyd – Il counseling nella relazione d’aiuto – Sovera 2008) James Hillmann ha scritto: “Cent’anni di psicoanalisi non hanno migliorato il mondo, che va sempre peggio. Un vuoto psicologismo ha fatto approdare ad un introspezionismo solipsistico, narcisistico, edonistico, superficiale… mettendo da parte e dimenticando la grande filosofia, la cultura religiosa (re-ligere), i problemi dell’etica, l’attaccamento ai valori, le nuove esperienze, le altre dimensioni… Molti interventi terapeutici si sono concentrati sulla ricerca di un benessere senza progetto, senza interrogativi sul senso della vita… L’obiettivo di molti modelli psicoterapeutici non ha idee nobili”. Victor Frankl ha scritto: “Se ho un perché posso sopportare qualsiasi come… Se posso trascendermi tutto mi può diventare sopportabile”. Quindi le vie della ricerca del benessere vanno aperte alla crescita esistenziale. E qui s’innesta il counseling come rottura paradigmatica, come superamento di una prassi. Chi si occupa di benessere sa che la vera salute sta nel curare l’esistenza intesa come ricerca di qualcosa; si orienta più sullo studio del benessere che sulla terapia; non pone l’accento nel privilegiare l’eliminazione della morbosità attraverso diagnosi e rimedi psicoterapeutici. Vivere è un perenne cercarsi e ricercarsi. Counseling è un processo dialogico attivo, caratterizzato dall’integrazione di molteplici modelli di psicologia dell’educazione, dall’abilità comunicativa al fine di aiutare la persona che chiede aiuto in diversi settori in cui incontra difficoltà o disagio. Non c’è la ristrutturazione di quadri psicopatologici definiti. C’è il chiarimento di un sistema di pensiero. C’è la risoluzione di una crisi momentanea. C’è la presa di una decisione. C’è il sostegno a raggiungere una meta. C’è una corretta appropriazione della propria vita. C’è il ritrovamento di un proprio benessere interiore. I principali modelli di counseling sono centrati - sulla relazione (analisi transazionale, orientamento transpersonale, ottica sistemica), - sull’approccio esistenziale (gestalt, fenomenologia), - sulla ridefinizione dei significati (cognitivismo, costruttivismo). Si lavora sulla relazione, sull’esperienza dell’autenticità dell’esserci qui e ora, senza riferimenti diretti al mondo intrapsichico e senza interpretazioni causalistiche. Si attua un dialogo caratterizzato da reciprocità e scambio attivo di sollecitazioni intellettuali. Si sperimenta insieme un’autentica autorivelazione. Ci si libera dall’idea di un supposto sapere sull’altro per rendersi disponibili all’incontro. Si diventa partecipi dei reciproci misteri. Non c’è lo studio dell’altro con strumenti scientifici (atto d’imperdonabile superbia), ma ci si basa

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sull’evidenza e sullo scambio autentico. È un meraviglioso viaggio nella provvisorietà dei nostri saperi, dove tutto può essere messo in gioco per produrre attività riparative incentrate sull’amore, sulla gratitudine, sulla sana preoccupazione che sono virtù lontane dall’avidità, dall’invidia, dal potere, dalla manipolazione, dalla pretesa, dalla severità, dall’esagerazione, dal bisogno di riconoscimento a tutti i costi. L’inautenticità mantiene lo spaesamento perché costringe a una frammentazione interiore dove in ogni momento c’è il rischio di perdersi. Per questa ragione, il counselor invita a cambiare senza mai perdere la propria identità, senza far prevalere “quello che pensa o dirà la gente”. Secondo la prospettiva esistenziale, un percorso di evoluzione personale scorre dalle modalità false e abitudinarie ai modi nuovi e rassicuranti di essere. Il soggetto non si percepirà “gettato nel mondo” per recitare un copione, ma sarà “scrittore e protagonista della propria vita”. In tal senso il counseling è disvelamento delle false coscienze, delle maschere, delle ombre; è pratica dell’autenticità, della ri-appropriazione di se stessi. Autenticità non è solo sincerità e spontaneità, ma è autoriconoscimento, autoaccettazione, autonomia, autostima. Quindi l’esperienza del counseling va definita come un passaggio dalla ripetizione alla creatività, dall’abitudine alla libera scelta. Il counseling è esperienza del futuro. Non si cerca ostinatamente la causa del proprio malessere esistenziale nel passato, ma si punta sulla scommessa del domani. Cambiare è tendere verso qualcosa che dovrà avvenire. Pertanto il focus dell’aiuto è l’assunzione responsabile di obiettivi negoziati, concreti e raggiungibili. È impegnarsi a portare a compimento dei compiti, non per compiacenza, ma per congruenza con ciò in cui si crede. È vivere il senso di responsabilità. Come? Evitando passivizzazione, eliminando la rinuncia, impedendo di lasciare che le cose accadano, riscattandosi dai propri limiti, emettendo comportamenti coerenti, energizzando la volontà. Il counseling è pratica del filosofare. Si re-impara a porsi ulteriori domande sul proprio modo di esistere, sul senso della fretta, sullo scoraggiamento, sull’ascolto ipercritico che va cercando negli altri tutto ciò che non funziona (cfr. Il Piccolo Principe). Il counseling è fiducia nelle risorse dell’altro. Il cliente esce dalla posizione di passività, di adesione acritica della realtà, di povertà di possibilità ed acquisisce una maggiore capacità di azione. Si implementa la speranza. Si sottolinea la capacità e non la mancanza. Si costruisce e non si contemplano le macerie. Si incrementano le condizioni di resilienza. Si prova l’autoefficacia. Si spinge a trovare alternative di soluzione del problema. Si aiuta a prendere decisioni per uscire dalla crisi. Si va oltre la paura frapposta ad ogni cambiamento. Si sbloccano le risposte corporee stabili (body script) pronte a sollecitare emozioni negative. Con il counseling il cliente si riappropria della forza per vivere. Nella pratica professionale, fare uso di abilità di counseling è un’attività di confine almeno tra due spazi: - lo spazio maggiore occupato dagli psicologi e dagli psicoterapeuti, - lo spazio minore dei professionisti dell’aiuto di base: informazione, consiglio, sostegno nel disagio, aiuto amichevole, mediazione, coaching, intervento di volontariato...

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Il counseling è un ombrello che copre tutte le professioni di supporto psicologico: counseling per l’infanzia, counseling per i giovani, counseling per gli studenti, counseling per i dipendenti, counseling coniugale, counseling cross-culturale, counseling di conciliazione, counseling di coppia, counseling di gruppo, counseling di profilassi, counseling di ri-valutazione, counseling esistenziale, counseling femminista, counseling genetico, counseling pastorale, counseling per gli anziani, counseling per i delinquenti, counseling per l’indebitamento, counseling per il cancro, counseling per il licenziamento, counseling per l’outplacement, counseling per l’aborto, counseling per la crisi dopo-stupro, counseling per l’aids, counseling per le catastrofi, counseling sulla crisi, counseling telefonico. (cfr. C. Feltham – W. Dryden – Dizionario di counseling – Sovera 2008; AA.VV. – Dizionario essenziale di counseling relazionale e personologico – Prepos 2012) Gli ambiti operativi del counselor professionista possono essere di varia natura: Counseling scolastico-pedagogico: in campo socio-educativo agevola la relazione insegnante-studente, insegnante-genitore, insegnante-altre figure professionali; cura i rapporti scuola-famiglia, elabora interventi nell’ambito della psicopedagogia (diagnosi, valutazione, metodologie didattico-educative, strategie d’intervento, progetti socio-pedagogici riabilitativi… scuola dei genitori, formatori sociali). Counseling aziendale: si sviluppano competenze teoriche e pratiche finalizzate alla formazione di figure professionali esperte in sviluppo delle risorse umane, selezione del personale, formazione in azienda. Vengono toccate le competenze di riferimento della psicologia del lavoro, delle organizzazioni e dello sviluppo della professionalità. La finalità centrale è quella di favorire un miglior dialogo tra l’organizzazione interna all’azienda, di agevolare la relazione interpersonale attraverso la valorizzazione dell’individuo nel suo contesto lavorativo e di sostenere il personale nei rapporti all’interno delle organizzazioni lavorative e nella frenesia e urgenza del lavoro. Si lavora sullo sviluppo delle persone all’interno delle aziende. Counseling di comunità: s’interessa della comunità nell’analisi delle relazioni interpersonali con specificità d’intervento all’interno della stessa (animatore di comunità, operatore delle tossicodipendenze); si occupa della mediazione tra autore del reato e vittima (mediazione penale); agisce sui singoli individui o gruppi, analizzando in un’ottica dinamica le relazioni tra individuo e società. Counseling filosofico: propone di usare il metodo filosofico nell’affrontare la lettura dei comportamenti e dei ragionamenti; usa la conoscenza filosofica per l’indagine e la soluzione di problemi non patologici (counselor esistenziale). Counseling religioso: interviene nelle crisi spirituali, a secondo della religione professata. Counseling nell’orientamento: offre strumenti relativi alla scelta scolastica, universitaria e professionale. Counseling interculturale: si rivolge a persone appartenenti a gruppi minoritari con l’obiettivo di favorirne l’inserimento, l’adattamento e l’integrazione (mediatore culturale); favorisce interventi transculturali. Counseling sportivo: si cura dell’assistenza, agevolazione, sostegno nell’inserimento di individui o di gruppi relativamente alla prestazione sportiva o all’attività ginnica. Counseling artistico: si approfondiscono le tecniche comunicazionali espressive e riabilitative che utilizzano i linguaggi dell’arte (art counselor); vengono fornite nozioni teorico-pratiche sulle artiterapie (danza, teatro, musica, pittura, poesia, altre forme creative integrate da indicazioni sugli aspetti psicopedagogici e psicofisiologici per agevolare il benessere dell’individuo attraverso le varie forme dell’arte). Counseling per la salute: include nella cura del paziente l’attenzione per le variabili psicosociali e insegna le abilità di relazione e di comunicazione con il paziente; mette in pratica le indicazioni dei Piani sanitari centrati sull’umanizzazione delle cure e sul miglioramento della qualità della vita orientando la formazione degli operatori sanitari e facendo acquisire la capacità di lavoro in equipe multiprofessionale; si occupa della relazione medico-paziente, del personale sanitario-paziente... Counseling negli stati avanzati di malattia: accompagna alla morte i malati terminali. Counseling social dreaming: fornisce competenze teoriche e pratiche sulla gestione dei gruppi attraverso le tecniche del “social dreaming”, che è una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza il contributo che i sogni possono offrire alla comprensione sulla situazione che stanno vivendo: non sfida il grande valore dell’approccio ai sogni della psicoanalisi classica, ma mette in rilievo la loro dimensione sociale. Counseling psicologico: assiste ogni individuo che si trova di fronte ad un disagio emergente non identificato per il quale esprime una richiesta di aiuto generalizzato sul campo (pronto soccorso psicologico) oppure on line (counselor telefonico/telematico); ha il compito di sostenere un momentaneo disagio della persona senza una precisa relazione di rapporto psicoterapeutico; sostiene il disagio della persona indirizzandolo quando è necessario verso uno specialista per una terapia specifica.

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Counseling sessuologico: tende ad agevolare la relazione della coppia nella loro intimità, agendo con l’educazione sessuale e sulle lievi difficoltà dell’intimità propri della sfera sessuale; fa attività di prevenzione con corsi di educazione alla vita nella scuola. Counseling antistalking: è d’aiuto nei centri antiviolenza, presso un osservatorio minori sostenendo individui o gruppi che abbiano subito traumi o siano stati coinvolti in stupri, maltrattamenti o siano vittime di violenze, abusi, persecuzioni, molestie. Counseling familiare: si occupa della mediazione di conflitti generati all’interno del nucleo familiare comunque costituito, cura le separazioni coniugali, porta equilibrio nelle disarmonie matrimoniali. Counseling giuridico-forense: cura la preparazione professionale per operare nel campo dell’assistenza del minore in posizione di disagio, fornisce strumenti necessari per affrontare le difficoltà della famiglia; orienta nei diritti dell’affidamento e dell’adozione; coadiuva con il legale nelle problematiche divorziali. Counseling massmediale (mediazione linguistica dei media). Counseling in naturopatia (medicina complementare). Il counseling è applicabile in tanti campi professionali e nei molteplici modelli ci sono ingredienti comuni: c’è il sentirsi ascoltati per davvero, non per professione; c’è l’interesse per l’altro; c’è lo sforzo di comprendere l’altro; c’è il sentirsi accolto da qualcuno; c’è la contentezza di vedere l’altro; c’è il piacere reciproco; c’è il sentirsi al sicuro; c’è la certezza che ciò che si dice nel colloquio resta segreto; c’è l’impressione vera di essere sullo stesso piano; c’è la percezione della parità; c’è il sentire che uno non ha il potere sull’altro o che sta su un piano superiore; c’è la consapevolezza di non essere giudicato; c’è il non sentirsi dire che si sta sbagliando o che si è sbagliato; c’è l’accettazione per quello che si è in quel momento; c’è la possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni e i propri sentimenti senza alcun pentimento; c’è trovare qualcuno con cui risolvere un problema. E ci sono tante altre cose. (cfr. Sanders P. – Counseling consapevole – Meridiana 2003) Per la verità il counseling si rivela utile per tutte quelle persone che non hanno disturbi mentali e che non sono portatori di disordini del comportamento o della personalità. Appunto per questo il soggetto che chiede aiuto è denominato cliente, cioè non è chiamato paziente. Sotto tale ottica un processo di counseling si caratterizza come un agile intervento a breve termine effettuato da un professionista con studi di alta formazione. Nella relazione d’aiuto, a differenza della psicoterapia, il counselor non ha l’obiettivo di andare a scavare nel passato del cliente, né di ristrutturare la personalità partendo dall’origine antico del suo malessere, ma si propone semplicemente di accompagnare la persona nella soluzione della difficoltà attuale. In Italia l’affacciarsi della figura del counselor nell’universo delle professioni di aiuto, ha indotto quasi tutte le scuole di psicoterapia a istituire al proprio interno, accanto ai tradizionali corsi quadriennali o quinquennali di formazione, corsi paralleli biennali o triennali di abilitazione al counseling. La figura professionale del counselor risponde alla persona che “non desiderando diventare psicologo o psicoterapeuta svolge un lavoro che richiede una buona conoscenza del comportamento umano”; pertanto deve essere all’altezza di sostenere in modo adeguato una relazione senza pregiudizi. Per questo ha un suo ruolo ben definito e non deve essere confuso con altre espressioni professionali. Conoscere la psicologia non vuol dire fare lo psicologo. Il sapere non implica l’essere. I confini tra psicologia e counseling sono precisi, ma non rigidi. Per evitare lo scontro tra psicologo e professioni limitrofe, il problema di differenziazione tra counseling, psicologia e psicoterapia va affrontato su ben altre frontiere: profondità del percorso terapeutico, durata del percorso, presenza di patologie. Nel counseling non si parla di diagnosi, né di terapia, né di patologia.

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Si parla solo di componenti sane, di spinta al benessere, di impegno attivo a modificare se stessi. Storicamente e parallelamente anche lo stesso approccio sistemico nasce come risposta ad una cultura psichiatrica intrapsichica medicalizzante; la stessa terapia familiare inizia con il social worker (assistente sociale). Questi nuovi approcci e il counseling, infatti, respingono il concetto di patologia mentale e seguono i concetti nuovi di salute, di benessere, di qualità della vita, di crescita personale, di cambiamento. La psicologia non dovrebbe divedere, ma unire. Non dovrebbe affermare principi lobbistici-corporativi camuffati da battaglia per diritti. La ricerca del benessere della persona funziona meglio soprattutto nella condivisione. Tutti i corsi triennali di counseling sono una scuola di psicologia e non di psicoterapia. L’art.1 dell’ordinamento della professione di psicologo, Legge 56/89, dice: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”. Allo psicologo, per legge, vengono riconosciuti precisi ambiti di intervento professionale con persone, gruppi ed organizzazioni. Interventi che non riguardano la “malattia mentale” e la “patologia”, come avviene nella psicoterapia. La psicologia e lo psicologo hanno una propria dignità professionale e precisi spazi di intervento riconosciuti per legge. ��� L’avvio della professione di psicologo è sicuramente complesso ed impegnativo, ma non dipende dall’essere o meno “terapeuti”, quanto dal padroneggiare gli strumenti della professione e dal sapersi proporre in modo efficace. Quindi la scuola di counseling fa diventare “counselor” e non “psicologi” né “psicoterapeuti. Purtroppo su confini e ambiti professionali c’è molta confusione, e su questa confusione sono fiorite molte figure limitrofe al campo di intervento dello psicologo. In pratica lo psicologo, in quanto tale, di per sé è già un esperto nel counseling e nella relazione d’aiuto. È già un “counselor”. La proposta della scuola di formazione dell’associazione CePASA del Spoleto, fondata da Antonino Minio nel 1975, ha il quadro di riferimento teorico nell’ambito della “psicologia ad orientamento integrazionale” (cfr. Freedheim D. – Storia della psicoterapia – Magi 1998 pag. 1040), tenendo come punto forte la psicologia umanistica. In pratica, è un percorso che permette di raggiungere una competenza concreta e operativa nella professione di counselor e che insegna a regolare le dinamiche emotive, ad agevolare la relazione d’aiuto e soprattutto a potenziare le competenze teoriche e pratiche necessarie nell’acquisizione di abilità comunicative nei vari ambiti professionali, nel rispetto del codice etico e deontologico di riferimento. In questo senso, l’iniziativa è un efficace strumento rivolto a chiunque intenda svolgere un’attività a forte componente interpersonale, ma è anche una risorsa che permette di apprendere una nuova professione d’aiuto da svolgere in strutture pubbliche e private sia in ambito pedagogico che psicologico, sanitario, aziendale. L’iter formativo è pensato in modo tale da armonizzare tra loro - una solida formazione teorica finalizzata all’acquisizione delle conoscenze da spendere nei vari contesti professionali, - l’apprendimento di competenze contestualizzate, - la crescita personale centrata sull’elaborazione dei propri vissuti e sulla capacità di comprendere le dinamiche formative… Si tratta di acquisire un tipo di consulenza fondata sui concetti rogersiani (ascolto attivo, empatia, onestà, accettazione incondizionata, competenza flessibile, empowerment) e sulla piena attenzione rivolta alle risorse interne e alle potenzialità inespresse della persona. In tal senso non c’è un modello rigido. C’è un territorio dove confluiscono una pluralità di metodologie operative flessibili ed orientate alla definizione di un percorso dello sviluppo personale e in gruppo. Quindi, non è il counselor a definire qual è il modello adatto al cliente, ma sarà il cliente stesso a scegliere e ad orientarsi verso la definizione del modello da lui ritenuto più adatto e più efficace.

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Carl Rogers, il padre riconosciuto del counseling, ha detto: “Mi sembra che sarebbe una cosa orribile dover professare una serie di opinioni per poter continuare la propria professione. Per questo ho sempre desiderato di trovare un campo dove la mia libertà di pensiero non possa essere limitata”. Pertanto, il counseling è un processo fortemente trasversale e interdisciplinare senza che la molteplicità pregiudichi la qualità dell’intervento. Il counselor non è un esperto onnipotente, ma un agile facilitatore delle “dinamiche” che intervengono all’interno di una relazione d’aiuto. Non considera l’individuo come portatore di problemi, ma soprattutto come origine delle soluzioni. (cfr. A Minio – Identità e approccio integrazionale – CePASA 2014) L’attuale polemico e aggressivo scontro tra associazioni di counselors e associazioni di psicologi è dovuto alla piccinerie umane e a specifici interessi di mercato. Nell’esercizio di un’attività non è il titolo acquisito che fa il reato, ma l’uso illecito. Non c’è responsabilità della scuola che l’ha formato, ma esclusivamente della singola volontà. Non si può punire la famiglia se un proprio membro diventa un delinquente. Gli psicologi non possono arrogarsi il monopolio del trattamento del disagio. Le discipline del benessere, per loro natura, sono aperte e non corporative. Rispetto alla sentenza n. 10289 del tribunale di Milano del 2 agosto 2011 che vieta la formazione all’uso di strumenti psicologici a non-psicologi (art. 21 del codice deontologico) c’è da dire che la conoscenza di strumenti psicologici a persone estranee non equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione, altrimenti dovrebbe essere vietata la lettura e la vendita di tutti quei libri che lo fanno, dovrebbero essere bandite tutte le innumerevoli professioni d’aiuto gestite da sacerdoti, educatori, guide spirituali, pedagogisti ecc. Il counselor non fa diagnosi psicologica, non fa prognosi psicologica e non usa tecniche d’intervento finalizzate a modificare l’universo psicologico del cliente. Lo stesso Eugenio Calvi in un’intervista del 2009 ha affermato: “Non tutte le osservazioni, non tutti i colloqui e non tutti i tests hanno finalità di esclusiva competenza dello psicologo”. Infine la cornice del counseling è ben definita da alcuni criteri che ne connotano la distinzione tra l’attività professionale di psicologo e quella di counselor: - il numero delle sedute che in casi eccezionali arrivano a circa 10 colloqui; - il metodo inferenziale che si contrappone a quello induttivo dell’approccio clinico; - l’utilizzo di domande strettamente necessarie a stipulare il contratto di lavoro in cui il professionista sottoscrive di fare un’azione di counseling (si segue un protocollo che il cliente sottoscrive e riguarda l’informativa al trattamento dei dati, informativa sul tipo di intervento che il soggetto farà, il relativo consenso informato); - l’adattamento delle tecniche alla tipologia del cliente e in funzione del problema da risolvere; - l’intervento sulle emozioni non è un oggetto di lavoro profondo, ma una naturale espressione della natura umana all’interno di una relazione. Quindi per difendere uno spazio professionale non si ricorre alla “macelleria” culturale. Problemi, discrepanze e dissensi andrebbero negoziati. Una professione emergente non può essere cancellata, ma soltanto regolamentata. C’è da aggiungere che una sentenza contro qualche “cattivo counselor” (cfr. caso Francesco Abela di Ravenna del 2010) nel nostro sistema giudiziario non ha un’efficacia vincolante per i giudizi successivi. Una pecora nera non fa nere le altre pecore. I conti si fanno solo con l’art. 1 della legge 56 del 1989, la quale recita che “la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico”, cioè la professione di psicologo si fonda sulla conoscenza dei processi mentali e delle funzioni psichiche e sui relativi strumenti di ricognizione. Per dirlo in maniera più chiara, lo psicologo legge le attività mentali utilizzando schemi e teorie proprie delle scienze psicologiche. Invece il counselor al suo intervento dà un’impostazione prevalentemente pedagogica. Non nascondiamoci dietro l’ipocrisia o la malafede.

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L’uso di certi vocaboli della lingua italiana non sono di esclusivo monopolio dello psicologo. L’ascolto e l’utilizzo della parola sono mezzi a disposizione di tutti (cfr. sacerdoti, docenti, educatori). Nel sociale l’unica strada per produrre benessere non è quella esclusiva della psicologia: ci sono anche religione, filosofia, pedagogia, sociologia, antropologia, associazionismo. Se non fosse così la professione psicologo incorrerebbe nella violazione delle regole della concorrenza, nell’abuso di posizione dominante. Conoscere la psicologia non vuol dire fare lo psicologo; al limite il counselor esperto sfrutta la teoria e non la terapia di un modello psicologico. La conoscenza della psicologia è un bene comune e si è dimostrata un valore aggiunto nella formazione di molte figure professionali. Nella terminologia operativa il counselor usa termini come - “abitudinariamente preoccupato” al posto di “ansioso”, - “abitudinariamente impaurito” al posto di “fobico”, - “abitudinariamente triste” al posto di “depresso”, - “abitudinariamente portato a…” al posto di “ossessivo-compulsivo”. Insegnare la psicologia non implica il preparare il terreno alla commissione del reato di esercizio abusivo della professione, anzi al contrario, cioè serve a guardarsi dall’inciampare in esso. Ogni insegnamento è lecito e non può essere vietato a meno che s’insegni l’illecito (es. insegnare a rubare…). Alcune discipline (psicologia generale, psicologia dello sviluppo, psicologia sociale) non insegnano nessuna tecnica né alcun atto professionale riservato: i contenuti sono gli stessi che si insegnano nei licei, nelle università, in pedagogia, nei corsi di formazione degli operatori socio-assistenziali. Analizzare un problema è un atto di ricognizione biografica che attiene alle scienze dell’investigazione giacché non implica l’analisi dei processi psichici, ma dei procedimenti relazionali. Avere una nuova visione del problema è una competenza delle scienze della programmazione per cui si pianifica un’esplorazione dialogica dei futuri possibili e si riorganizzano degli scenari mediante tranquillizzazione, sostegno e incoraggiamento. Migliorare una relazione è tipica delle scienze pedagogiche, sociologiche, antropologiche e filosofiche che insegnano il miglioramento della conoscenza di sé e degli altri, la tolleranza, la disponibilità, l’integrazione, la mediazione, la dialogicità. Superare conflitti significa anche lasciarli alle proprie spalle (cfr. amore cristiano, etica non violenta ghandiana). Prendere decisioni appartiene all’ambito della logica e significa semplicemente “prendere decisioni” perché hanno un senso e perché producono dei risultati. Dall’atto della sua costituzione ad oggi il counseling è l’ennesima professione affine alla mondo della psicologia, ma svincolata dalla professione di psicologo, come è già avvenuto per la mediazione familiare, la pedagogia declinata nei suoi vari campi, la musicoterapia. La professione di counselor si occupa di salutogenesi e cura la promozione della salute nei diversi ambiti della vita personale e sociale (famiglia, scuola, lavoro, medicina di base, sport). Quindi qualsiasi modello di counseling si rivolge alla rapida prevenzione del disagio e alla veloce distrazione dallo spaesamento. Come? - Offrendo un aiuto agile e immediato per trovare sollievo in un momento difficile. - Instaurando una relazione d’aiuto. - Proponendo di costruire insieme un modo nuovo di vedere il problema. - Scegliendo un piano di azione che attui gli obiettivi desiderati. Il lavoro dello psicologo ha necessità di tempo per ristrutturare l’intimo e riorganizzare il profondo, ha bisogno di molti colloqui ravvicinati per ricostruire il sistema cognitivo-emotivo danneggiato, mentre l’intervento del counselor è breve e si esaurisce in pochi incontri non ravvicinati ma distanziati nel tempo. L’obiettivo generale del counseling è quello di educare accompagnando la persona verso la decisione più adatta alla propria situazione personale, lavorativa, familiare, scolastica, sociale. Il counselor non ha il compito di curare qualcuno né alcunché.

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Operando per differenze possiamo precisare alcune definizioni tra consulenza e counseling. Il consulente attraverso le proprie conoscenze esprime un proprio parere di competenza su un quesito di ordine tecnico; mentre il counselor attraverso le proprie conoscenze e competenze è in grado di favorire la soluzione a un quesito che crea disagio esistenziale e/o relazionale ad un individuo o un gruppo di individui. Ad esempio, lo psicologo del lavoro si occupa della selezione del personale, mette a disposizione dell’azienda le sue conoscenze tecniche relative alla struttura della personalità, e in base a tests psicoattitudinali, proiettivi, colloqui ecc. seleziona il miglior elemento che possa ricoprire un determinato ruolo in base alle esigenze specifiche dell’azienda in questione. Al contrario, il counselor aziendale è un professionista al quale tutti i dipendenti dell’azienda si possono rivolgere in caso di difficoltà relazionali tra colleghi o difficoltà esistenziali che possono compromettere la propria attività lavorativa e la propria vita. C’è ancora da aggiungere che counseling e guidance sono due modalità di intervento educativo. Guidance è l’insieme dei servizi che concorrono alla formazione personale sotto vari aspetti, in quanto guida di orientamento a più dimensioni (educativa, terapeutica, culturale, professionale) per dare la possibilità all’individuo di trovare soddisfazione a tutte le sue esigenze di formazione. Counseling è la parte centrale del programma di guidance ed è definito come un’azione di sostegno terapeutico allo scopo di creare un’autonomia decisionale, attraverso l’esame di tutti i fattori coscienti (gusti, interessi, aspirazioni, atteggiamenti, convinzioni) e inconsapevoli (dinamiche personali). Lo scopo è di mettere l’individuo in condizione di operare delle scelte più serene ed autonome attraverso una visione allargata e realistica di sé e dell’ambiente. La stessa differenza tra counseling e consiglio è netta; nel consiglio c’è un rapporto paritario, un accordo sul tema, un suggerimento di modificazione; mentre nel counseling c’è il rapporto con un esperto, la ricerca di una strategia, l’orientamento a rendere possibile un cambiamento. La competenza del counselor è nella relazione. L’obiettivo è indirizzare la persona verso una possibile soluzione di una problematica presente in un determinato ambito o nata da difficoltà relazionali che possono impedire la libera espressione individuale. Certe diffidenze dello psicologo sul counselor professionista sanno di “infantilità”: risentono di una rivincita postuma sulla cultura italiana; la psicologia è stata disprezzata dai filosofi Croce e Gentile con la conseguenza di avere avuto poco valore; come disciplina autonoma si è svegliata solo nel 1971 con l’istituzione della laurea in psicologia e con la costituzione dell’albo nel 1989; nella vicina Francia la laurea esisteva già dal 1944. Il tempo dovrebbe maturare certe rigide e intransigenti “posizioni”. Per Carl Rogers il counseling è un atteggiamento di interesse aperto e non giudicante, una disponibilità integrale senza pregiudizi o preconcetti, un modo di essere e di fare che diventa un incoraggiamento continuo all’espressione spontanea dell’altro, un’intenzione autentica di comprendere l’altro nella sua propria lingua, di pensare con le sue parole, di scoprire il suo universo soggettivo, cioè uno sforzo costante per rimanere realistici e obiettivi e per controllare tutto ciò che avviene durante un colloquio centrato sul cliente. Tutto ciò richiede una formazione specifica e un metodo specifico. Non basta la buona volontà né la libera esperienza. La relazione d’aiuto consiste nell’incontro tra due persone “vere” in cui il counseling è l’aiuto adeguato alla persona. Per Roger Mucchielli il counseling si basa sull’intuizione rogersiana secondo la quale se una persona si trova in difficoltà, il miglior modo di aiutarla non è quello di dirgli “cosa fare”, quanto quello di aiutarlo a comprendere la sua situazione e a gestire il problema prendendo da solo le responsabilità delle scelte. Il colloquio d’aiuto, dunque, è inapplicabile nel caso di tutti coloro che fanno affidamento soltanto sulle loro forze per risolvere i problemi della loro esistenza poiché rifiutano l’aiuto e chi lo presta. L’operatore, perciò, deve facilitare l’espressione dell’altro cominciando con l’ascoltarlo e con l’osservarlo. Il rischio maggiore nell’ascoltare è quello di interpretare, di credere di comprendere quando, invece, sono i nostri significati che vengono proiettati sulla situazione dell’altra persona. Il saper ascoltare non può essere disgiunto dal saper osservare.

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Essere centrati sul cliente non vuol dire essere affascinati da lui: significa comprenderlo, ma anche comprendere ciò che avviene “qui ed ora” nella relazione stessa. Non c’è fascinazione ma relazione. Comunemente si crede che “essere psicologi” sia intuire le motivazioni nascoste, scrutare l’inconscio, inventare diagnosi, manipolare le coscienze o violare le personalità. Il problema reale è là, senza un “sotto... il fatto”, un “dentro di te” né un “dietro alle tue parole”, ma ogni comportamento-problema bisogna vederlo, toccarlo... Spesso diamo importanza al significato razionale perdendo di vista il significato psicologico di quanto ci viene detto e ciò impedisce la comunicazione di aiuto. Per accedere al punto di vista dell’altro conviene sradicare il modo abitudinario di vedere e di porsi: significa capire ciò che è autenticamente vissuto dall’altro anche se non viene detto; significa conoscere le espressioni di ciò che è significativo (le espressioni della paura si traducono non soltanto in parole ma anche attraverso la mimica, la postura, il tono...); significa cogliere ciò che produce nell’altro il nostro atteggiamento senza proiettare le nostre impressioni; significa osservare l’evoluzione del rapporto interpersonale nel tempo. Per Bruno Giordani chi parla ha chiarissimo nella sua mente quello che deve comunicare, però è una chiarezza che esiste solo per lui. Le parole che usa valgono solo per la sua cultura, per il suo sistema linguistico. Chi riceve il messaggio può non possedere i medesimi punti di riferimento e può non saper tradurre. Da ciò nascono i fraintendimenti. I rimedi, pertanto, possono essere trovati nell’osservare l’interlocutore e adattarsi alle sue reazioni, nello scegliere le parole più congruenti, ma soprattutto nel capire il legame di relazione (simpatia, antipatia, tipo di considerazione, percezione sociale, preconcetti). Dell’altro si prende quello che dice senza vestirlo con le nostre abitudini di pensiero. Un buon operatore non si ferma a ciò che l’altro dice, ma si chiede perché me lo dice. Questo è ascolto comprensivo. Un esempio, tratto dall’esperienza psicologica, per capire. Al primo incontro un cliente può chiedere al suo terapeuta: “È cattolico?”. Un terapeuta intellettualizzante può rispondere “sì o no” oppure “questo non la riguarda”. Un terapeuta psicologo, invece, sicuramente risponderà: “Ritiene che sia importante, rispetto a ciò che mi vuole dire, occuparsi preliminarmente delle mie credenze religiose?”. Chi sa ascoltare si chiede perché un cliente pone determinate domande. Allora scopre che il cliente vuole essere rassicurato prima di affrontare un problema. In questo ascolto non si danno soluzioni né consigli. Anche se a livello logico la soluzione proposta potrebbe essere perfetta e ideale, in pratica potrebbe non essere efficace al vissuto del soggetto che non saprà risolvere il suo problema. Il colloquio d’aiuto mira ad allenare l’individuo a prendere decisioni accettandone le conseguenze. Per Costantino Iandolo il counseling serve per favorire la comprensione, l’adattamento e l’accettazione della malattia. Il servizio del counseling ha come scopo il supporto psicologico e affettivo per la persona malata e, in alcuni casi, anche per la famiglia. Per poter cominciare un intervento, il counselor deve inquadrare gli scenari, identificare il campo affettivo (emozioni, sentimenti, passioni) del paziente, individuare le problematiche e adeguare le risposte. Non è detto che tutti i pazienti abbiano bisogno o desiderio di usufruirne; in alcuni casi, infatti, il soggetto sofferente potrebbe trovarsi in una situazione così colma di problemi per cui il ritmo dell’intervento dovrebbe essere simmetrico ai ritmi del cliente. Ciò che conta soprattutto è facilitare la presa di coscienza partendo dall’ascolto della persona e lavorando con il colloquio sulle conoscenze per tranquillizzare, preparare o educare. In un colloquio, sia esso di aiuto o meno, si deve instaurare una situazione cosiddetta “senza memoria del passato né senza desiderio di fare cose successive”. Questo clima libera la relazione e fonde il colloquio personale con quello terapeutico.

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Il counseling, in verità, diventa un vero e proprio “consiglio” che un professionista sa usare per aiutare dopo aver prodotto nell’utente “coscienza e consapevolezza”. Ogni qualvolta opera, l’educatore aiuta a risolvere problemi. In tal senso si può parlare senza remore di una funzione terapeutica dell’ascolto: “mettendosi nella disposizione dell’ascolto l’educatore permette al paziente di raccontare la sua vita, di dare, attraverso il racconto, un senso ai fatti che si sono vissuti e di metterli in ordine per renderli chiari all’interlocutore, ma soprattutto a sé”. Secondo l’O.M.S. il counseling è un “processo di interazione e di dialogo duale attraverso il quale il consulente aiuta il consultante a prendere delle decisioni e ad agire di conseguenza, oltre a fornire un’accurata e attenta informazione ed un sostegno psicologico adeguato”. A proposito, le teorie di health counseling (consulenza sanitaria, colloquio d’aiuto alla salute) nascono in risposta alle esigenze manifestate dagli operatori sanitari di possedere un quadro teorico di riferimento e degli strumenti operativi per poter svolgere in modo più efficace ed efficiente il proprio lavoro. Nell’attività sanitaria, infatti, i diversi professionisti sono quotidianamente impegnati a rispondere ai bisogni specifici dell’utenza. Gran parte degli incontri tra operatore sanitario e paziente terminano con il fornire a questi ultimi specifiche raccomandazioni terapeutiche con lo scopo di salvaguardare il loro benessere psicofisico. Il counseling sanitario è diretto ad aiutare il paziente in un momento di crisi e di incoraggiare cambiamenti nel suo stile di vita proponendo azioni e comportamenti realistici, ed è volto a metterlo in grado di accettare informazioni ansiogene favorendo l’adattamento alle relative implicazioni: è interazione verbale e relazione umana. Non è una conversazione in cui ci si scambiano opinioni. Non è una discussione dove ognuno cerca di sostenere le proprie argomentazioni. Non è un’intervista in senso giornalistico. Non è un interrogatorio da tribunale che costringe l’altro ad un atteggiamento difensivo. Non è un’interrogazione scolastica. Non è una confessione che tende a colpevolizzare. Non mira ad una diagnosi vera e propria in cui le domande poste servono a far rientrare il caso in un contenitore predisposto perdendo il vissuto del paziente. Lo studio delle relazioni umane ai fini della crescita della persona e dello sviluppo della comunicazione ha portato al counseling visto come cambiamento dopo aver ascoltato. Secondo la “Pedagogia per il Terzo Millennio” il counseling è un incontro tra due persone (counselor e cliente) che grazie ad un dialogo orientato, instaurano una relazione di qualità, in un clima d’ascolto, che favorisce la capacità di individuare, riconoscere e ristrutturare il disagio estrapolando dal cliente stesso le risorse che occorrono per superarlo. ��� In questo processo, in cui la relazione è “il fattore di cura”, il cliente è protagonista del processo ed è guidato ad esaminare il suo problema da diversi punti di vista fino a scorgere nuove letture e diverse possibili soluzioni dello stesso. In pratica il counseling è una relazione d’aiuto il cui obiettivo è dare sostegno a chi si trova in un momento di difficoltà o di disagio; è una facilitazione del processo educativo (apprendere da tutto e da ogni cosa); è un modo di intervento sul campo, come forma di ricerca-azione che permetta il passaggio dal sapere al saper-fare per poter essere capaci di attivare le risorse interne del cliente che presenta un disagio. Negli ultimi anni, è rinato con forza l’interesse per gli studi pedagogici grazie, soprattutto, allo stimolo delle scoperte fatte dalla neurodidattica che ha segnalato l’esigenza di trasformare/migliorare alcuni strumenti operativi oramai obsoleti. A proposito la “Pedagogia per il Terzo Millennio” è un insieme di metodi e tecniche, che sfruttano i concetti di mediazione, traslazione e normalizzazione. La mediazione si riferisce alla capacità dell’educatore di “creare uno spazio vuoto” all’interno del quale l’essere umano possa fare esperienza della vita (con le sue leggi), degli oggetti e delle relazioni con l’altro, poggiandosi sull’attitudine dell’educatore di fare da “base sicura”, per favorire un’esplorazione libera ed orientata verso il miglioramento ed il consolidamento dei potenziali umani. La traslazione è la capacità di attingere all’intelligenza emotiva al fine di acquisire strumenti efficaci per sollecitare l’apprendimento da “tutto e da ogni cosa”. La normalizzazione è la capacità che ogni uomo ha di leggere e reinterpretare l’esperienza umana secondo

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prospettive più ampie ed efficaci per comprendersi e comprendere meglio la realtà che lo circonda, talvolta non facile da decodificare. In sintesi, il counseling definisce il processo di apprendimento, che si realizza tra il counselor ed i clienti (individuo, famiglie, gruppi, organizzazioni). ���Fonda la sua forza sul “contratto psicologico” tra persona e counselor. Oggi i più elevati criteri di qualità europei nel counseling mirano ad integrare il pensiero filosofico e psicologico d’oriente e d’occidente. Infatti molte scuole di formazione forniscono nozioni e metodologie che favoriscono concretamente ed efficacemente lo sviluppo delle potenzialità individuali sul piano bio-psico-spirituale, l’elaborazione degli elementi inconsapevoli, l’elevazione della consapevolezza. Lo scenario dell’intervento del counselor è la vita come viaggio e la conoscenza come mezzo di trasporto per arrivare alla meta che è l’amore. Pertanto l’operatore counselor amplia e integra la cultura del cliente, recupera e sviluppa le sue risorse, migliora le capacità comunicative e relazionali, innalza la qualità della vita, fa apprendere nuove abilità, insegna a stare in buona compagnia. Il drammaturgo greco Sofocle scrisse: “L’opera umana più bella è essere utile al prossimo”. Il counseling è una professione a sé stante con una propria apparecchiatura concettuale, con una pratica autonoma, con risultati efficaci in svariate aree. Tale preziosa attività discende dalla psicologia umanistica (pertanto non ha finalità terapeutiche: non è una terapia light, leggera e breve) e si connota in un indirizzo sociale e relazionale (il counselor non affronta il disagio in chiave di profondità di personalità, ma in chiave depatologizzante, cioè in chiave relazionale…): aiuta ���a superare quei ���problemi di relazione e/o di integrazione sociale ���che impediscono di esprimersi liberamente ���e d’interagire pienamente. Quindi nessuna confusione o conflitto con altre professioni differenti e differentemente regolamentate: il counselor non è psicologo, né psicoterapeuta, non attua consulenze psicologiche, non pratica terapie, non dispensa cure o farmaci, ma ha un suo ruolo di professionista che è in grado di fornire aiuto in merito a specifici problemi di ordine personale o professionale… difficoltà nel prendere decisioni… orientamento nelle scelte di vita… supporto nelle difficili fasi che si susseguono durante il ciclo di vita… gestione delle relazioni interpersonali… gestione della relazione con se stessi… sviluppo delle risorse e potenzialità… promozione e sviluppo della consapevolezza personale… gestione di emozioni, pensieri, percezioni e conflitti interni e/o esterni. Il counselor è un professionista con specifici requisiti scientifici e culturali quali - il diploma triennale di una scuola di Counseling, - l’accreditamento presso un relativo albo/elenco di professionisti, - l’aggiornamento continuo, - la supervisione del proprio lavoro, - una deontologia ed un’etica… (cfr. Hough M. – Abilità di counseling – Erickson 2008) In Italia questa professione è molto seguita - sia come un perfezionamento di un professionista in ambito psicologico, sanitario, scolastico, educativo, sociale, legale, aziendale; - sia come professione a sé stante (counselor, professional counselor, counselor formatore). Attualmente esistono varie associazioni di categoria che ne curano la formazione: SICO (società italiana di counseling) costituitasi nel 1993, EAC (european association for counselling) costituitasi nel 1994, FAIP (federazione delle associazioni italiane di psicoterapia) costituitasi nel 1996, CNCP (coordinamento nazionale counselor professionisti) costituitosi nel 2002, AURAC (associazione universitaria relazione d’aiuto e counseling) costituitasi nel 2005. In pratica l’intervento del counselor funziona così. Il primo colloquio serve per conoscersi e costruire un progetto dove

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- si definisce il disagio: Che idea ha il cliente del suo disagio? Che cosa ha tentato di fare per risolverlo? Perché è giunto alla conclusione di dover cambiare qualcosa? Cosa è “disposto a fare” per generare questo cambiamento? Che cosa potrà fare una volta che il disagio sarà risolto? Con chi condividerà la gioia di aver risolto il disagio? Come userà l’energia/il tempo che avrà a disposizione una volta risolto il disagio stesso? - si definisce quanto tempo occorre per risolvere il disagio: contratto chiaro in termini di obiettivi e di tempo necessario per portare a termine il processo; in generale la consultazione non supera i 10 incontri; - si allarga la propria griglia di rappresentazione del disagio: esplorazione delle credenze su se stessi, sul mondo e sugli avvenimenti; facilitazione nel rendere possibile la ri-attivazione e la ri-organizzazione delle risorse del soggetto; accrescimento della consapevolezza riguardo il vissuto personale e i relativi schemi comportamentali; rinforzo del senso di auto-efficacia, di autostima, di autonomia decisionale; - si lascia libertà di scelta nel ventaglio delle possibili soluzioni positive del “malessere”: approvazione e sostegno nella ri-scoperta delle risorse individuali per uscire dallo stato di disagio; apprendimento di una maggiore soddisfazione come persona che vive in un contesto sociale. In sintesi il cliente, dopo aver contattato telefonicamente il counselor, si accorda con lui sulla possibile data del primo incontro dove si vagliano le richieste del cliente e le risorse necessarie. Nella fase iniziale il cliente definisce il suo problema al counselor. Si fissano gli obiettivi e si mettono a punto le strategie per realizzare le mete. Quindi si lavora insieme affinché il soggetto possa sviluppare una maggiore autodeterminazione a livello personale e interpersonale. Su richiesta del cliente si possono affrontare problematiche specifiche come le dipendenze, i rapporti familiari, le relazioni affettive, la gestione del lavoro in equipe. Ogni sessione si conclude con un riepilogo di ciò che è stato fatto e dei passi che il cliente si è impegnato a compiere e che saranno rivisti nelle sedute successive per valutare i risultati, le conseguenze, le reazioni… in relazione alla tipologia delle aree esplorate. Sfruttando l’efficacia della metafora, in pratica il counselor è un marinaio esperto che, grazie alla conoscenza delle leggi fondamentali della navigazione e la capacità di leggere le carte nautiche, restituisce al cliente il timone della sua vita ���per condurla egli stesso dal territorio del problema a quello della risoluzione. All’inizio il cliente viene per parlare del suo problema, ma per la non conoscenza tra cliente-counselor nel colloquio iniziale s’instaura una corrente di ricerca dell’affidabilità. Accogliere e sentirsi accolto è un’operazione d’incontro delicata. È un gioco di attitudine percettiva che facilita l’espressione dell’altro e di attitudine percettiva che agevola la comprensione relazionale ed emotiva, che nella pratica possono essere disturbate da barriere o distrazioni di natura verbale, non verbale e paraverbale. L’interazione può essere inficiata da luci e rumori eccessivi, da sguardi troppo intensi o poco presenti, dalla presenza di persone in movimento, da rumori, dalla voce troppo alta o troppo bassa, dalla temperatura ambientale inadeguata, dalla fretta, dalla distanza tra operatore e cliente, dal toccare l’altro, dalla dichiarazione politica, religiosa, dai consigli immediati, dalle conclusioni affrettate, ecc. La professione dell’ascolto è un vero e proprio artigianato scientifico, nel senso che bisogna fare molta esperienza per apprendere veramente ad “ascoltare” l’altro in posizione di richiesta d’aiuto. Allora cosa fare? Ecco alcuni suggerimenti. La prima regola del counselor è la flessibilità dell’ascolto:

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- non interrompere l’esposizione della richiesta d’aiuto facendo domande; dare ampia possibilità di esprimersi senza interruzione: l’interruzione induce il cliente a raddrizzare ciò che dice; - permettere lo svuotamento su tutto ciò che il cliente vuole dire; - facilitare l’espressione del Sé, l’identità vera, inducendo dall’esterno marginale a parlare di sé stesso, di cosa prova, di come percepisce, di come sente la relazione; togliendo le artificiosità; facendo uscire dal caos. Spesso la debolezza si traveste d’umiltà; - osservare come il racconto si avvicina al problema: le domande adeguate si fanno a secondo della direzione dove si va; il cliente generalmente descrive la sua sofferenza non nella sua origine, ma attraverso gli effetti che subisce: non si distrugge un’erbaccia, tagliando i rami e le foglie, ma estirpando le radici; - dare segnali di apertura e di accettazione; non valutare ma riflettere sul materiale ascoltato; mettere insieme i dati percepiti per capire meglio; - offrire una soluzione come un nuovo punto di vista sull’origine del disturbo, su come si manifesta e sull’avvio alla soluzione; sottolineare che c’è un disturbo funzionale (counseling), e non strutturale (psicoterapia); impedire al cliente di trasferire il senso di responsabilità fuori di sé (è colpa di… non è determinante: conta solo come il soggetto reagisce); dire che da solo dovrà correggere la personalità distorta attraverso l’allargamento della sua visone della realtà; sottolineare la tendenza alla felicità. A Socrate fu detto: “Qual è il destino dell’uomo?” Rispose: “La felicità”. Tra la tendenza alla felicità e alla sua realizzazione a volte s’intromette qualche distorsione: il sadico cerca la felicità, che è piacere del dolore altrui; il masochista gode del piacere di soffrire. Nei disordini del comportamento c’è percezione scorretta, deformazione dei concetti seri: c’è l’impurità del puro. All’inizio il cliente racconta la “superficie”, ma ciò che c’è nel suo profondo lo dice quando sa di potersi fidare. La seconda regola è la delicatezza di relazione: I problemi appaiono distanti mentre s’accumulano in uno spazio dove c’è la direzione di comando. La libertà del soggetto non va forzata: forzare la volontà trasforma il counselor in nemico, in limite. È il cliente che deve capire l’impostazione disfunzionale che ha dato alla sua vita. È lui che deve accettare la legge del karma (remunerazione di ogni azione fisica o mentale). Mostrare dov’è il luogo del problema non è forzare l’altro ad agire. La libertà di agire non va mai infranta. Si offrono riflessioni più profonde, ma il lavoro deve farlo il soggetto. Non sono le parole che curano, ma la personalità che le pronuncia. Se è sincera (senza cera), senza inganno, senza trucco, senza maschera, senza forzatura, allora il counselor entra nei problemi e il cliente entra nella soluzione. Chi ha in mano la soluzione, anche se ha il fuoco sotto i piedi, ha l’entusiasmo di cantare. Chi è in purgatorio è pieno di gioia perché sa che andrà in paradiso. Chi prende consapevolezza della propria percezione distorta, è già fuori. L’individualità del cliente deve stare in primo piano. Jung affermava che il processo di individuazione mira a trasformare il seme individuale in quercia, cioè il counselor deve aiutare a ricercare il vero Sé, ad identificare l’immagine dell’individuo. La socialità (empatia universale) è finalizzata al rispetto dell’altro. Integrazione è star bene con gli altri; è vedere gli altri come elementi di ricchezza interiore e di evoluzione; è immaginare gli altri come nutrimento; è sentirsi parte della grande compagine umane e di tutta la natura. Viviamo tutti immersi nell’inconscio collettivo, che è il senatorio delle abitudini umane: l’individuo è un semplice fenomeno, l’espressione cosciente. Molto è nascosto alla nostra intelligenza. La ragione non ci offre tutte le spiegazioni esistenziali. Ci vuole l’intuizione per capire come funzioniamo. Quando un individuo diventa troppo individuale è problematico (egoismo) ed ha bisogno dell’aiuto degli altri. Gli manca il sentirsi parte del tessuto sociale, la percezione di membro dell’umanità.

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Staccarsi è un’operazione di rimozione, cioè nevrosi, l’avvertire un vuoto, una mancanza. La realizzazione spirituale (anima) è una spinta evolutiva ineliminabile. Tutti dobbiamo fare i conti con una dimensione che trascende la permanenza in questa vita. La fede è il prodotto del riconoscimento dell’anima. Se si terrà conto di tutto ciò, allora ciò che veramente disturba e non piace viene fuori. La terza regola è la chiarezza del compito e dell’intervento. Lavorare su un problema non significa fare lo psicologo, ma vuol dire aiutare a raggiungere un “obiettivo in qualche settore della vita, facendo prendere in prima persona il senso di responsabilità. Un counselor non dà ricette né scarica consigli (farebbe il consulente). Non scende nelle profondità dell’animo (farebbe lo psicoterapeuta). Un counselor professionista aggiunge qualcosa a quello che il soggetto sa ed è. In pratica aiuta a tirare fuori le risorse dell’individuo, estrae la grandezza che c’è in ogni persona (l’eroe dormiente), fa domande pertinenti, porge le migliori informazioni che occorrono, offre strumenti. Il compito del counselor è far scoprire dove il soggetto commette l’errore; portare a riconoscere le discrepanze da modificare, gli aggiustamenti da apportare, le riparazioni da fare quando vuole e se vuole tendere alla felicità; mette l’altro in condizione che ciò accada senza forzarlo; pone l’altro in condizione di comprendere il tipo di personalità che manifesta; spiega e convince che solo il nevrotico è preda di schemi e per questo non ha la libertà di pensare, progettare e costruire. Il counselor non forza la volontà del cliente, ma cerca di mostrare come muoversi verso una meta desiderata. Offre nuovi concetti. Presenta altri punti di vista. Non deforma, ma allarga gli orizzonti. Non abusa della libertà altrui, ma aiuta con il suo servizio di consulenza. Dà rifugio, ma non è un rifugio passivo. Svezza. Non fa addormentare tra le proprie braccia. Porta oltre il transfert. Non s’affoga insieme all’altro nel tentativo di salvarlo. Non instaura un rapporto fraterno, ma di aiuto. È il cliente che agisce. Il counselor restituisce all’essere un ulteriore sviluppo. Il counseling abbraccia molti modelli psicologici, dalle teorie comportamentiste alle psicodinamiche, dalle cognitiviste alle sistemiche sino a diventare pluralistico e integrativo per formare degli operatori tecnico-socio-assistenziali, agevolatori nella relazione d’aiuto. Il counselor non fa terapia ma aiuta attraverso interventi brevi - a capire se stessi (autostima), - a fare scelte decisionali importanti (problem solving), - a pianificare la propria vita disorientata (autoefficacia), - a cambiare i comportamenti insoddisfacenti (autosviluppo e autorealizzazione) privilegiando il rapporto paritario con il cliente, sollecitando il coinvolgimento del soggetto, considerandolo un co-esploratore esperto di ciò che cerca, aiutandolo a riconcettualizzare i problemi e a impegnarsi nel cambiamento trovando soluzioni adeguate… In breve il counselor, in modo divertente e solare, focalizza più la soluzione che il problema. Per questo resta sempre focalizzato sul cliente, incrementa le competenze nell’affrontare una difficoltà, usa in modo piacevole metafore, immagini, similitudini, casi stimolanti, letture accattivanti, idee nuove che spingono a fare qualcosa di diverso. Ogni counselor è una guida esperta che conosce le strade del cambiamento (cfr. Giusti E. – C. Montanari – Counseling professionale: dalla consulenza psicopedagogia alla terapia – Aspic 1993).

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Uno dei modelli più applicati è il counseling breve di John Littrell (università dello Stato di Iowa) che ha il compito di risolvere un problema nel minor tempo possibile, dalle cinque alle dieci sedute. Lo caratterizzano otto regole: 1 - Stabilire subito una buona relazione. La conversazione alla pari, tra amici, è preferibile alla discussione tra esperto-consulente, docente-discepolo. 2 - Limitare l’intervento nel tempo per favorire l’autonomia. Freud ha descritto un caso che si svolse in una sola seduta; più tardi questo sostegno a breve termine lo ritenne debole e insufficiente perché nel frattempo aveva elaborato le teorie psicoanalitiche. 3 - Focalizzare il colloquio sulla soluzione e non sul problema. Chi si fissa su un problema adotta già una posizione di sconfitta. Pertanto l’attenzione va centrata su ciò che funziona nella vita del soggetto e non su ciò che non ha funzionato o sulle difficoltà: è meglio lavorare su ciò che si vuole (futuro migliore) che parlare di ciò che non si vuole (passato negativo). Soffermarsi sul passato induce la mente a irrigidirsi sulle soluzioni non trovate o su posizioni inefficaci, mentre esplorare nuove possibilità fa assumere i ruoli di sognatore (desiderio), di realista (traducibilità del sogno), di critico (adattabilità alla realtà). Con tale atteggiamento chiunque è in grado di disporsi a modellarsi per il cambiamento. Non c’è paura, anzi si fa un’esperienza di liberazione. Il soggetto scopre di possedere risorse mai utilizzate perché non riconosciute. 4 - Basarsi sull’azione e privilegiare le cose concrete. Per cambiare il cliente va subito immerso in nuove esperienze. Ogni piccolo compito assegnato fa scoprire altri schemi di comportamento. Vivere è accendere i motori dell’azione. Vivere significa sperimentare azioni, sentimenti, pensieri. L’esperienza è la fondamentale risorsa di cui disponiamo. Il cambiamento è un viaggio dentro ciò che facciamo. 5 - Usare il contesto sociale per avere una mano nell’aiuto ed interagire con esso. Tutti viviamo immersi in contesti socialmente interattivi ed ecologici. Allora perché non sfruttarne il loro supporto? Perché non sperimentare la gioia di chiedere e ricevere aiuto dagli altri? Il sostegno altrui è importante soprattutto per chi è impegnato nel cambiamento. 6 - Orientare sulle eccezioni e sui dettagli che hanno funzionato tra le varie tentate soluzioni. Ascoltare chi ha un problema implica la scoperta e la catalogazione delle risorse del cliente: tutto ciò che funziona nella sua vita, le risorse che possiede, i punti-forza, le disposizioni al cambiamento, gli aspetti positivi. Si costruisce proprio partendo dalle eccezioni sui precedenti schemi di soluzione, sullo studio della parte più piccola che ha funzionato e che porta all’obiettivo reale, snocciolato in piccoli passi, sulla notazione di chi registra per primo un movimento positivo. 7 - Stimolare la vena umoristica. L’humour aiuta a guarire le ferite, permette di esplorare il presente con ottimismo, genera spontaneità. 8 - Finalizzare gli incontri alla crescita ponendo attenzione all’evoluzione delle idee. Ciò che accade fa parte di un ciclo personale di maturazione, di crescita. Non va letto come una disgrazia né come una catastrofe. È un segnale di risveglio. Infatti chi lotta con un problema tende a restare imprigionato in scoraggianti ripetizioni; le soluzioni sempre uguali non producono risultati; al contrario l’essere umano va educato alla possibilità di muoversi verso il nuovo, verso qualcosa di diverso; nessuno deve irrigidirsi nei momenti di transizione da una fase all’altra della vita.

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È il momento di rovesciare il cannocchiale. (cfr. J. Littrell – Il counseling breve in azione + DVD - Sovera 2010) Un poliziotto era stato costretto a lasciare il servizio perché aveva un tumore, la pressione alta, l’obesità… Si rivolse al dottor Milton Erickson per essere aiutato a mangiare di meno e a smettere di bere alcool e di fumare. Erickson gli disse: “Quando senti il desiderio di mangiare, vai in un negozio di generi alimentari distante due chilometri e acquista il cibo per un pasto… Quando vuoi bere un drink vai in un bar distante due chilometri; se poi hai voglia di un altro bicchiere percorri ancora altri due chilometri… Quando hai bisogno di acquistare un pacchetto di sigarette attraversa la città e compralo in periferia”. Il poliziotto si sentì preso in giro, s’arrabbiò e se ne andò sdegnato. Ma ai suoi amici parlò di Erickson come “l’unico psichiatra americano che sapeva quello che faceva”. Secondo Littrell per poter fare bene il lavoro di counselor occorre conoscere il cammino verso il cambiamento. Essere veloci riparatori di un disagio non significa affrontare il problema superficialmente e senza qualità, ma avere davanti un soggetto in condizioni di rispondere efficacemente alla difficoltà momentanea. Prescindendo dal modello d’intervento di counseling (tipo di problema, numero dei problemi, complessità, gravità, durata), in linea generale l’operatore si dovrebbe appoggiare su seguenti cinque principi: 1 - Utilizzare le mappe come guide flessibili e non come regole rigide. Generalmente ogni persona tenta di gestire i propri problemi, ma a volte le soluzioni che prova falliscono ed esasperano la situazione. Quando la soluzione adottata non scioglie il problema, il soggetto continua ad affrontarlo senza cambiare modalità. Questa è una trappola senza uscita. Allora come si comporta il counselor? Il counselor professionista conosce il territorio da attraversare e i procedimenti da utilizzare nei percorsi di cambiamento. Possiede mappe generali e mappe dettagliate per passare da una posizione ad un’altra. In parole più semplici, egli sa come rapportarsi con il cliente, conosce il processo di cambiamento richiesto, impegna sulla preparazione della soluzione e non sulla contemplazione dell’analisi. Principalmente il counselor lavora per far apprendere nuovi stili di vita e per insegnare ad andare avanti da soli. È una guida temporanea in un momento difficile. 2 - Lavorare in modo collaborativo. Il counselor usa un linguaggio semplice e comune, che ogni cliente è in grado di capire. Non usa il gergo psicologico. Sta in sintonia con la condizione attuale del cliente: - stadio della contemplazione cioè guarda senza agire, - stadio della preparazione cioè comincia a fare qualche prova, - stadio dell’azione cioè coopera e s’impegna, - stadio del mantenimento cioè dimostra responsabilità. 3 - Concordare gli obiettivi e le strade da percorrere. Chi s’impegna a risolvere un problema vuole sapere se lavora su obiettivi dichiarati e ben focalizzati o se lavora mediante le tecniche di problem solving. Conoscere le destinazioni è sempre un piacere. La realtà si affronta guardando alla meta, concordando i percorsi, evitando la ricerca di esperienze legate al viaggiare piuttosto che all’arrivare, vincendo l’ansia della conclusione rapida a tutti i costi. 4 - Inventariare e utilizzare le risorse necessarie. Il viaggio implica una preparazione positiva.

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Quindi per cambiare occorre basarsi su ciò che funziona. Per questo bisogna scoprire in quali circostanze un problema non è un problema. Evidenziare precedenti successi, anche parziali, entusiasma e dà speranza. 5 – Confidare nell’abilità del cliente. Nell’ascolto il problema non s’identifica mai senza ignorare il parere del cliente sull’argomento. Il primo esperto del problema è lui, non noi. Evitiamo l’errore delle diagnosi tramite test. Evitiamo le teorie centrate sulla valutazione solo dei deficit. Sottolineando i punti deboli togliamo alla persona il diritto di esperto della propria vita. Un antico maestro di psicologia soleva dire: “La mia esperienza ti sta aiutando ad usare la tua”. Inoltre il counselor deve padroneggiare altri quattro passi chiave: 1 – Demistificare il counseling offrendo istruzioni su lavoro che si farà insieme. Il counselor non è un mago, né un prestigiatore o un illusionista. Lavora all’interno di un codice etico e una deontologia professionale. Aiuta la persona ad aiutarsi in futuro. È evidente che ciò che è apertamente comunicato viene raggiunto con più facilità. Non c’è percezione senza mappa. La chiarificazione orienta l’attenzione. Pertanto all’inizio chi non dà informazioni chiare e sufficienti sta chiedendo al cliente un atto di fede, un salto nel buio, cioè rischia di mettere in crisi il rapporto di fiducia. Per spingere a partecipare attivamente e coscientemente occorre dire ciò che si fa insieme: - si danno informazioni accurate sul counseling con i suoi obiettivi, le procedure, i possibili rischi; - si concretizza il problema e si fa descrivere la percezione che ha il cliente; - si identificano le tentate soluzioni messe in atto facendo scoprire le eccezioni e i piccoli superamento; - si stabilisce l’obiettivo di cambiamento; - si fa un piano d’intervento scegliendo i compiti, le tecniche, le strategie. Quando la finalità del counseling è chiara e quando si fissano i compiti per raggiungerla, tutto diventa più facile. 2 – Sottolineare le potenzialità e far leva sulle risorse. Osservare una persona e vederla soffrire non è una cosa bella. Per evitare le “atmosfere psicoterapeutiche” conviene ricorrere ai modelli di speranza. Come? Cercando le brevi vittorie. Esplorando le circostanze in cui i problemi sono stati superati, con quali modalità, in quali casi e cosa si è fatto. Richiamando alla memoria le eccezioni per far emergere e notare la forza interiore, l’intuito, i talenti. Facendo domande del tipo: - Prima di iniziare, può dirmi come vorrebbe che andassero le cose della sua vita? - Se un miracolo facesse scomparire il suo problema, come se ne accorgerebbe? - Se facesse un sogno dove le è spiegato il superamento delle sue difficoltà, cosa immagina abbia visto e sentito? - Immagini di essere capace di rispondere alla domanda come risolvere il problema; invece di dirmi “non lo so”, che risposta mi darebbe? La descrizione di un problema deve generare anche le soluzioni. In tale operazione si utilizza tutto ciò che serve a introdurre nuovi comportamenti, nuovi pensieri, nuove emozioni per sostituire i vecchi atteggiamenti e rimpiazzare i vecchi comportamenti. 3 – allenare a immaginare a costruire insieme il futuro immediato. Come un padre riesce in breve tempo a insegnare al proprio figlio il modo di allacciarsi le scarpe, allo stesso modo il counselor deve essere d’aiuto al cliente fissando l’obiettivo e i singoli passi da compiere per raggiungerlo. Co-creare il futuro.

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Co-pianificare il cambiamento. Co-costruire il presente. A proposito è utile la strategia Disney, utilizzata da Robert Dilts, un padre della PNL: “Per trasformare ciò che non esiste in una realtà bisogna assumere tre posizioni: sognatore, realista, critico”. Immaginare ciò che è possibile aiuta a trasformare un desiderio in obiettivo. Sognare vuol dire pensare a cose positive (non avere paura a indicare ciò che si cerca… non immaginare sempre il peggio… che senso ha ruminare ciò che non va e che non si vuole?). Cambiare significa individuare ciò che funziona e metterlo in pratica. Vivere è camminare verso il futuro e non marciare all’indietro. Agire significa assumere atteggiamenti che suggeriscono dignità soprattutto nei piccoli sforzi circoscritti, a breve termine ma orientati a lungo termine. I traguardi minimi sono meno spaventosi e focalizzano l’attenzione su ciò che è realizzabile. 4 – incoraggiare le piccole azioni di cambiamento. Ci sono molteplici modi per aiutare le persone a raggiungere i loro obiettivi (cfr. “Tecniche e strategie che decrementano o incrementano i comportamenti” a cura di Minio ). Ci sono modalità gentili e modalità ad effetto (cfr. Rogers, Whitaker). Ci sono metodi individuali e metodi di gruppo. Tutte queste modalità servono a far adottare atteggiamenti e comportamenti diversi da quelli consueti, poiché solo così è possibile interrompere gli invischiamenti creati dalle difficoltà, le rigidità prodotte dai problemi (pattern). Fare qualcosa di diverso incoraggia a esplorare nuovi modi di pensare e di agire, interrompe le precedenti modalità ripetitive. Fare cose diverse significa spostare la posizione attuale di 180 gradi soprattutto se il soggetto è aiutato a tenere sotto controllo l’obiettivo fissato. Dai un martello a un bambino e immediatamente ogni oggetto diventerà un chiodo. Ogni counselor ben formato sa come premere l’acceleratore, non per correre ma per andare avanti. Ecco sette orientamenti. 1 – Valorizzare gli aspetti piacevoli. Ogni cosa se presa con leggerezza equivale ad un gioco; se presa troppo seriamente diventa una fatica. Quindi il counselor nella sua attività professionale deve bandire l’eccessiva seriosità, la noiosità, la filosoficità. Deve adottare la tattica del passaggio dalla serietà dei problemi alla gioia delle soluzioni. Deve abituare il cliente a passare da uno stato di flusso negativo a uno positivo. Infatti il sorriso rende fluida la ricerca delle soluzioni, l’allegria si trasforma in un sedativo, il divertimento attiva il coinvolgimento, le “metafore rivitalizzanti” fanno passare dalla melanconia all’entusiasmo. 2 – Scambiarsi complimenti. Fare le congratulazioni per ciò che si fa. “Mi piace per come è… L’appoggio per quello che è e non per ciò che fa… Non ha senso scambiare ogni cosa per pietre, quando molte volte si tratta di polistirolo” sono frasi che servono ad incoraggiare, a disporsi ad agire, a fare qualcosa di diverso. 3 – Misurare e classificare i problemi. Una cosa è dire “sono teso”, altra cosa è dare informazioni concrete, specifiche, dettagliate come “tengo i denti stretti, non riesco a tenere fermi i piedi”. Dovrebbe essere buona consuetudine di ogni counselor aiutare il cliente a chiarire un disagio non ben definito. Per meglio concettualizzare le problematiche si possono usare i metodi della misurazione e della classificazione (dal colore rosso al colore verde… dalla bicicletta alla Ferrari… dall’1 al 10). Ciò serve al cliente per capire il punto dove si trova. 4 – Mettersi in contatto con le emozioni senza trascurare i comportamenti. “Mi sento veramente giù” è una metafora emotiva usata da molti clienti.

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È il loro linguaggio. Perché allontanarsi da loro linguaggio per imporgli il nostro? Perché assumere il ruolo di insegnante di grammatica delle emozioni? In realtà le emozioni non hanno un ruolo dominante nei processi di cambiamento. Pertanto vanno esplorate nell’ambito del problema, privilegiando ciò che può essere controllato (pensieri, comportamenti). L’enfasi eccessiva sulle emozioni andrebbe a discapito dei pensieri, dei comportamenti e dei significati che veicolano. Le emozioni vanno detronizzate senza cacciarle dal palazzo. Le emozioni sono considerate incontrollabili perché automatiche, mentre i comportamenti sono possibili di controllo. Quindi cambiando i comportamenti, cambieranno le emozioni. La terapia del giapponese Morita afferma: “Accetta i tuoi sentimenti, conosci i tuoi obiettivi, fai ciò che devi fare”. La preghiera della serenità nella terapia degli Anonimi Alcolisti recita: “Dammi la forza di cambiare ciò che posso cambiare e la forza di accettare ciò che non posso modificare… cioè dammi la forza di distinguere ciò che posso fare e ciò che non posso fare”. 5 – Non deragliare e non cambiare rotta. Allontanarsi dagli obiettivi porta inevitabilmente all’inefficacia e svia dal compito d’aiuto. Scivolare in una struttura concettuale di un altro tipo produce disorientamento e rende teoricamente sordi. “Sono proprio come mia madre” richiede una risposta in modo circoscritto e non una lunga analisi del passato biografico. È vero che le parole e le frasi del cliente automaticamente rimandano a modelli teorici studiati, ma bisognerebbe stare attenti a non farsi trascinare dentro. Bisogna tenere sempre presente il motivo della richiesta d’aiuto, prendendo come linea di confine la possibilità del cambiamento realizzabile. Il conduttore di un treno ha una destinazione ed è obbligato a seguirla. 6 – Saper interrompere senza pensare troppo al galateo. Nel counseling non c’è monologo ma dialogo, in quanto il counselor non è un ascoltatore all’infinito, ma ha il compito di focalizzare il tema. Appunto per questo ha il compito di interrompere quando il cliente produce “materiale irrilevante”, quando va in più direzioni, quando fa discorsi astratti e senza senso, quando parla esclusivamente degli altri, quando lavoro in maniera improduttiva. Il gestaltista invita a non divagare. Il comportamentista sposta il focus del discorso. Il rogersiano domanda scusa e chiede il permesso di verificare se ha ben capito ciò che è stato detto. Lo psicanalista Harry Stack Sullivan interrompeva i suoi pazienti in modo rispettoso, chiudendo gli occhi. 7 – Orientare l’intera persona verso una soluzione specifica. Fare il manovale è un’attività che coinvolge aspetti cognitivi, fisici, sociali… e comporta una serie di decisioni. Allo stesso modo nel counseling la persona viene impegnata nella sua globalità (cfr. Frankl). L’essere umano implicherebbe l’esplorazione delle diverse dimensioni dell’esistenza. Ma questo non è un compito facile. Nessuno è sicuro di quale sarà l’esito a lungo termine del proprio intervento. Siamo solo schemi nascosti di speranza. Noi non siamo la causa di ciò che accade. Il counselor è un agente sociale potenzialmente utile perché aiuta ad uscire dall’isolamento prodotto dal disagio. Nessuno vuole vivere come un perfetto estraneo con coloro con cui condivide la maggior parte del tempo. Nessuno vuole restare nell’isolamento. Tutti sentono il bisogno di vivere insieme. L’incontro, quindi, è un modo di stare insieme in piena sincerità e onestà per capire come funzioniamo. Nell’incontro si attualizza una comprensione compiuta.

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Vivendo nel gruppo si sperimentano relazioni umane autentiche. Chi conosce la verità della realtà non ha più paura della presenza del “doppio” perché le sicurezze interiori acquisite introducono alla consapevolezza e al cambiamento: nasce così la condivisione del tempo libero, la disponibilità all’amicizia, l’evoluzione dei comportamenti intimi in positività costruttive. La cultura dei legami è una “terza cultura”: è la forza che può frenare la contrapposizione tra uomo e uomo, tra genere e genere, tra categoria e categoria, tra classe e classe, tra razza e razza, tra uomo e società, tra umanità e tecnologia, tra visibile e invisibile, tra cose sommerse e cose andate perdute, tra microcosmo e macrocosmo. Non ha ragione uno e torto l’altro: sarebbe scontro frontale tra principi inconciliabili. La vita nasce dalla dissoluzione degli schemi personali. L’altro si ascolta senza aggiungere niente di nostro. Ascolto assoluto. Imparando ad ascoltare si ha una diversa consapevolezza della percezione dei sentimenti altrui; cambia la direzionalità della motivazione cioè dell’autodeterminazione e della realizzazione di sé; cambia l’atteggiamento verso le difficoltà e si sviluppa l’interdipendenza nella soluzione di problemi. La realtà comincia nella mente della persona, in quella mente che la conosce. Allora la vita si rivelerà a tutti nella misura in cui ognuno sarà capace di aprire se stesso. In che modo? - Si comincia con l’eliminazione della primitiva rigidità (blocchi, maschere, rifiuto di aprirsi, visione troppo schematica, schiavizzazione del passato). - Si passa alla esternizzazione dei problemi senza riconoscerli come sentimenti propri (espressione superficiale delle contraddizioni, visione del problema come esterno a sé, definizioni rigide). - Si prova il disgelo (comunicazione delle esperienze personali passate). - Si accetta il rifiuto della rigidità degli schemi (esplorazione di sé ora e qui, messa in discussione di ciò che si pensa). - Si sperimenta l’ammorbidimento (libertà di esprimere pensieri e sentimenti, esperienza immediata, critica dei propri schemi). - Si giunge all’accettazione di sé (presa di coscienza che tutto cambia, che tutto è un naturale fluire, un continuum esistenziale; coscienza di vivere una vita vissuta come movimento, dove si cresce facendo scelte reali).

Non nasconderti e vedrai il miracolo. Accostati ai tuoi sentimenti, parla con essi.

Capirai tante cose.

Entra nella tua vita con gli occhi aperti. Cerca di vedere come sei.

Occupati della persona che sei. Non avere paura di quello che sei.

Non arrabbiarti per quello che provi. Non compiangere te stesso, non buttarti giù, non fare il martire.

Non avere un’immagine irreale della vita. Tutto ciò non dà sicurezza.

Nella vita si incontrano insuccessi di sviluppo da cui si può imparare: tutti facciamo una quantità di sciocchezze, ma anche una quantità di cose buone.