problemi di lavoro MI SENTO UN FALLITO - slosrl.it · informatica e telecomunicazioni, ... e...

4
una città 11 Paola Fontana, ex dipendente della sede di Pregnana Milanese di Agile-ex Eutelia, oggi è coordinatrice di un progetto sperimentale nell’ambito delle politiche attive del lavoro, che prevede la creazione di gruppi di auto aiuto tra persone senza occupazione. Alida Franceschina svolge attività di counseling individuale e di formazione collettiva, spe- cializzata nel sostegno alla ridefinizione di progetti professionali femminili. Sergio Be- vilacqua, consulente di direzione, è esperto di cambiamento organizzativo, di gestione dei conflitti nelle organizzazioni e di politi- che attive del lavoro. Oggi fai la “facilitatrice” in alcuni gruppi di auto aiuto per persone senza lavoro, dopo essere passata anche tu per la stessa esperienza. Puoi raccon- tare? Paola. Ho avuto una vita lavorativa stabile, fin troppo, fino al 2010; laureata in lingue, nel 1986 avevo cominciato a lavorare in un’azienda che allora si chiamava Honey- well Bull, ditta di computer poi diventata multinazionale francese, nel sito di ricerca e sviluppo di Pregnana Milanese. Ho co- minciato facendo traduzioni e localizzazioni di software dall’inglese all’italiano, poi sono passata a scrivere documentazione tecnica, fino a diventare responsabile di questo gruppo fino al 2003. Rimasta a casa per un anno in maternità, quando sono rientrata ho cambiato funzioni, ho fatto un po’ di marketing, attività commerciale e supporto tecnico alla vendita. È stata una vita lavo- rativa bella, in cui ho investito molto, ci te- nevo al mio lavoro, fino a che, nel 2006, la casa madre ha deciso di vendere la filiale italiana alla famiglia Landi, proprietaria e fondatrice di Eutelia, che qualche mese pri- ma aveva acquisito anche la Getronics Ita- lia. Da lì è cambiato tutto: banalmente sia- mo passati da una multinazionale a un’azienda padronale; ci siamo subito resi conto che non erano interessati a questo business. All’inizio non abbiamo reagito, anche perché c’era veramente un clima di terrore, provvedimenti disciplinari, lettere di richiamo, rappresentanti sindacali licen- ziati... Nel loro piano dichiarato, questa nuova azienda, complessivamente duemila perso- ne, doveva diventare il più grande polo di informatica e telecomunicazioni, salvo poi decidere, nel 2009, che l’IT non era più di loro interesse. Così c’è stata questa cessione di ramo d’azienda e il passaggio a una “bad company”. Da quel momento non ci hanno più pagato lo stipendio. Esasperati, a fine 2009 abbiamo occupato tutte le sedi azien- dali. È partita Roma, dopo due giorni si so- no aggiunte Pregnana, Ivrea, Torino... noi puntavamo a mandarli via e ad arrivare all’amministrazione straordinaria, anche se ci rendevamo conto che la situazione era molto, molto grigia. È stato anche un mo- mento molto intenso, perché dopo anni di vessazioni e silenzio, finalmente stavamo facendo qualcosa e poi era un po’ come tor- nare ragazzi: l’occupazione, stare dentro l’azienda, mangiare e dormire insieme, far manifestazioni in giro; insomma, dal punto di vista delle relazioni fra di noi è stato un periodo importante, anche positivo. Poi però sono arrivati i commissari, i quali hanno guardato i conti e hanno detto: qui non ce n’è per nessuno. Per cui è iniziata la cassa integrazione per quasi tutti noi. Ora, finché siamo stati tutti assieme a lottare, in qualche modo abbiamo retto, nel momento in cui ciascuno si è trovato da solo a casa propria a fare i conti con il fatto che non sa- remmo più tornati indietro, che il lavoro non c’era più, varie persone hanno comin- ciato a crollare. La gente stava male; qual- cuno non usciva più di casa, alcuni colleghi per un periodo non hanno detto niente a ca- sa continuando a uscire la mattina e a rien- trare la sera come niente fosse, c’è chi ha fatto pensieri molto brutti. Io personalmente ero arrabbiata nera, ma non sapevo bene come sfogarla, questa rab- bia. Mio marito e mio figlio un po’ hanno pagato il conto di questa cosa. Personal- mente non avevo mai preso in considerazio- ne il fatto di poter non lavorare, era fuori del mio orizzonte, per cui dopo un mese sta- vo veramente “sclerando”. Io abito a Castel- lanza, in provincia di Varese, dove c’è una comunità terapeutica per persone con pro- blemi di dipendenza. Sono andata lì e ho detto: “Fatemi far qualcosa”. E mi sono messa a fare volontariato. Dall’altra parte, nella nostra azienda noi avevamo un’organizzazione sindacale molto attiva che faceva di tutto per tenere insie- me le persone e così si è resa conto del ma- lessere diffuso fra di noi. Un giorno è arri- vato Corrado Mandreoli, responsabile delle Politiche sociali della Camera del Lavoro di Milano, e ci ha proposto di prenderci uno spazio dedicato per parlare un po’ di come stavamo vivendo questa cosa. Siamo rima- sti un po’ perplessi perché nei posti di lavo- ro non usa raccontarsi di come si sta, le co- se personali, però da un lato avevamo rotto il ghiaccio con l’occupazione, dall’altro ci rendevamo conto che bisognava far qualco- sa, reagire, per cui abbiamo accettato. A parte l’impasse iniziale, già dal secondo incontro una collega ha rotto il ghiaccio mettendosi a piangere: questa situazione aveva messo in crisi la sua relazione col fi- glio adolescente, col marito... da lì siamo partiti tutti a raccontare. La perdita del lavoro rimette in gioco tante dimensioni... Paola. Effettivamente vengono fuori pro- blemi che non hanno a che fare solo col la- voro: è un po’ come se tutti i nodi venissero al pettine. Durante quegli incontri si è par- lato di lavoro, ma anche del rapporto con la madre con l’Alzheimer, col figlio disabile, della morte del marito... ci siamo proprio raccontati tutto. Questa cosa è servita: in- tanto abbiamo smesso di stare ognuno a ca- sa propria a rimuginare senza costrutto. E poi il solo raccontare ti aiuta a ripensare al- la tua esperienza, e l’ascolto degli altri spesso ti fa vedere il tuo stesso vissuto in una luce diversa. Io in quei mesi ho capito che non volevo più lavorare nel mondo pro- fit, ne avevo abbastanza, e invece mi piace- va molto l’idea di far qualcosa nel terzo set- tore, magari proprio nel campo del sostegno alle persone che vivevano un disagio come il mio. A quel punto, interrogandomi su co- me riqualificarmi da un punto di vista pro- fessionale, ho trovato un bellissimo corso in Bicocca su economia civile e no profit, e per la tesi mi sono occupata proprio della pro- gettazione di un nuovo servizio rivolto alle persone che hanno perso il lavoro. In que- sta ricerca ipotizzavo l’idea di usare i grup- pi di auto aiuto come strumento di politica attiva. Avevo in mente un gruppo che non fosse solo di parole, in cui si parla di sé e si affrontano i propri nodi personali, ma an- che un luogo di facilitazione rispetto all’ac- a parte l’impasse iniziale, già dal secondo incontro una collega ha rotto il ghiaccio mettendosi a piangere Accompagnare chi ha perso il lavoro significa anzitutto ascoltare e dare coraggio, anche con la propria testimonianza; un mondo delle politiche attive che nella corsa a proporre “azioni”, spesso scoordinate, sembra aver rimosso la cultura della presa in carico vera, che parte dalla relazione con chi in qualche modo vive un lutto; la schizofrenia di un sistema in cui i centri per l'impiego non hanno rapporti con le aziende. Intervista a Paola Fontana, Alida Franceschina, Sergio Bevilacqua. MI SENTO UN FALLITO problemi di lavoro

Transcript of problemi di lavoro MI SENTO UN FALLITO - slosrl.it · informatica e telecomunicazioni, ... e...

una città 11

Paola Fontana, ex dipendente della sede diPregnana Milanese di Agile-ex Eutelia, oggiè coordinatrice di un progetto sperimentalenell’ambito delle politiche attive del lavoro,che prevede la creazione di gruppi di autoaiuto tra persone senza occupazione. AlidaFranceschina svolge attività di counselingindividuale e di formazione collettiva, spe-cializzata nel sostegno alla ridefinizione diprogetti professionali femminili. Sergio Be-vilacqua, consulente di direzione, è espertodi cambiamento organizzativo, di gestionedei conflitti nelle organizzazioni e di politi-che attive del lavoro.

Oggi fai la “facilitatrice” in alcunigruppi di auto aiuto per persone senzalavoro, dopo essere passata anche tuper la stessa esperienza. Puoi raccon-tare?Paola. Ho avuto una vita lavorativa stabile,fin troppo, fino al 2010; laureata in lingue,nel 1986 avevo cominciato a lavorare inun’azienda che allora si chiamava Honey-well Bull, ditta di computer poi diventatamultinazionale francese, nel sito di ricercae sviluppo di Pregnana Milanese. Ho co-minciato facendo traduzioni e localizzazionidi software dall’inglese all’italiano, poi sonopassata a scrivere documentazione tecnica,fino a diventare responsabile di questogruppo fino al 2003. Rimasta a casa per unanno in maternità, quando sono rientrataho cambiato funzioni, ho fatto un po’ dimarketing, attività commerciale e supportotecnico alla vendita. È stata una vita lavo-rativa bella, in cui ho investito molto, ci te-nevo al mio lavoro, fino a che, nel 2006, lacasa madre ha deciso di vendere la filialeitaliana alla famiglia Landi, proprietaria efondatrice di Eutelia, che qualche mese pri-ma aveva acquisito anche la Getronics Ita-lia. Da lì è cambiato tutto: banalmente sia-mo passati da una multinazionale aun’azienda padronale; ci siamo subito resiconto che non erano interessati a questobusiness. All’inizio non abbiamo reagito,anche perché c’era veramente un clima diterrore, provvedimenti disciplinari, letteredi richiamo, rappresentanti sindacali licen-ziati...Nel loro piano dichiarato, questa nuovaazienda, complessivamente duemila perso-ne, doveva diventare il più grande polo diinformatica e telecomunicazioni, salvo poi

decidere, nel 2009, che l’IT non era più diloro interesse. Così c’è stata questa cessionedi ramo d’azienda e il passaggio a una “badcompany”. Da quel momento non ci hannopiù pagato lo stipendio. Esasperati, a fine2009 abbiamo occupato tutte le sedi azien-dali. È partita Roma, dopo due giorni si so-no aggiunte Pregnana, Ivrea, Torino... noipuntavamo a mandarli via e ad arrivareall’amministrazione straordinaria, anche seci rendevamo conto che la situazione eramolto, molto grigia. È stato anche un mo-mento molto intenso, perché dopo anni divessazioni e silenzio, finalmente stavamofacendo qualcosa e poi era un po’ come tor-nare ragazzi: l’occupazione, stare dentrol’azienda, mangiare e dormire insieme, farmanifestazioni in giro; insomma, dal puntodi vista delle relazioni fra di noi è stato unperiodo importante, anche positivo.Poi però sono arrivati i commissari, i qualihanno guardato i conti e hanno detto: quinon ce n’è per nessuno. Per cui è iniziata lacassa integrazione per quasi tutti noi. Ora,finché siamo stati tutti assieme a lottare, inqualche modo abbiamo retto, nel momentoin cui ciascuno si è trovato da solo a casapropria a fare i conti con il fatto che non sa-remmo più tornati indietro, che il lavoronon c’era più, varie persone hanno comin-ciato a crollare. La gente stava male; qual-cuno non usciva più di casa, alcuni colleghiper un periodo non hanno detto niente a ca-sa continuando a uscire la mattina e a rien-trare la sera come niente fosse, c’è chi hafatto pensieri molto brutti.

Io personalmente ero arrabbiata nera, manon sapevo bene come sfogarla, questa rab-bia. Mio marito e mio figlio un po’ hannopagato il conto di questa cosa. Personal-mente non avevo mai preso in considerazio-ne il fatto di poter non lavorare, era fuoridel mio orizzonte, per cui dopo un mese sta-vo veramente “sclerando”. Io abito a Castel-lanza, in provincia di Varese, dove c’è unacomunità terapeutica per persone con pro-blemi di dipendenza. Sono andata lì e hodetto: “Fatemi far qualcosa”. E mi sonomessa a fare volontariato.Dall’altra parte, nella nostra azienda noi

avevamo un’organizzazione sindacale moltoattiva che faceva di tutto per tenere insie-me le persone e così si è resa conto del ma-lessere diffuso fra di noi. Un giorno è arri-vato Corrado Mandreoli, responsabile dellePolitiche sociali della Camera del Lavoro diMilano, e ci ha proposto di prenderci unospazio dedicato per parlare un po’ di comestavamo vivendo questa cosa. Siamo rima-sti un po’ perplessi perché nei posti di lavo-ro non usa raccontarsi di come si sta, le co-se personali, però da un lato avevamo rottoil ghiaccio con l’occupazione, dall’altro cirendevamo conto che bisognava far qualco-sa, reagire, per cui abbiamo accettato. A parte l’impasse iniziale, già dal secondoincontro una collega ha rotto il ghiacciomettendosi a piangere: questa situazioneaveva messo in crisi la sua relazione col fi-glio adolescente, col marito... da lì siamopartiti tutti a raccontare.La perdita del lavoro rimette in giocotante dimensioni...Paola. Effettivamente vengono fuori pro-blemi che non hanno a che fare solo col la-voro: è un po’ come se tutti i nodi venisseroal pettine. Durante quegli incontri si è par-lato di lavoro, ma anche del rapporto con lamadre con l’Alzheimer, col figlio disabile,della morte del marito... ci siamo proprioraccontati tutto. Questa cosa è servita: in-tanto abbiamo smesso di stare ognuno a ca-sa propria a rimuginare senza costrutto. Epoi il solo raccontare ti aiuta a ripensare al-la tua esperienza, e l’ascolto degli altrispesso ti fa vedere il tuo stesso vissuto inuna luce diversa. Io in quei mesi ho capitoche non volevo più lavorare nel mondo pro-fit, ne avevo abbastanza, e invece mi piace-va molto l’idea di far qualcosa nel terzo set-tore, magari proprio nel campo del sostegnoalle persone che vivevano un disagio comeil mio. A quel punto, interrogandomi su co-me riqualificarmi da un punto di vista pro-fessionale, ho trovato un bellissimo corso inBicocca su economia civile e no profit, e perla tesi mi sono occupata proprio della pro-gettazione di un nuovo servizio rivolto allepersone che hanno perso il lavoro. In que-sta ricerca ipotizzavo l’idea di usare i grup-pi di auto aiuto come strumento di politicaattiva. Avevo in mente un gruppo che nonfosse solo di parole, in cui si parla di sé e siaffrontano i propri nodi personali, ma an-che un luogo di facilitazione rispetto all’ac-

a parte l’impasse iniziale, già dal secondo incontro una collega

ha rotto il ghiaccio mettendosi a piangere

Accompagnare chi ha perso il lavoro significa anzitutto ascoltare e dare coraggio, anche con lapropria testimonianza; un mondo delle politiche attive che nella corsa a proporre “azioni”, spessoscoordinate, sembra aver rimosso la cultura della presa in carico vera, che parte dalla relazionecon chi in qualche modo vive un lutto; la schizofrenia di un sistema in cui i centri per l'impiego nonhanno rapporti con le aziende. Intervista a Paola Fontana, Alida Franceschina, Sergio Bevilacqua.

MI SENTO UN FALLITOproblemi di lavoro

una città12

cesso ai servizi. Non bisogna dimenticareche le persone che arrivano a questi gruppihanno perso il lavoro e vogliono trovarneuno, quindi c’è una grande richiesta diorientamento, di informazioni. Questol’avevo sperimentato in prima persona. Co-sì come avevo scoperto che in giro per ilPaese c’era un grosso interesse per questeesperienze che evidentemente sopperisconoa un bisogno reale. Per farla breve, grazieall’interesse della dottoressa Zoppè, oggi di-rettore generale della provincia di Monza eBrianza, è partito l’iter per poter finanziarequesta sperimentazione e oggi questo è ilmio lavoro. Con modalità e formule diverse, tutti etre lavorate con persone che hannoperso il lavoro.Sergio. È dal ’94 che mi occupo di serviziper il lavoro. A quei tempi c’erano molti fi-nanziamenti. Dal lavoro con l’utenza neltempo siamo passati al lavoro con gli ope-ratori e le organizzazioni che offrono questiservizi per l’impiego, fino a occuparci anchedella cosiddetta governance, quindi dell’in-sieme dei sistemi.

A me colpisce sempre il fatto che in Italiasembra si debba ogni volta partire da zero.Oggi assistiamo a una desertificazione del-la cultura dei servizi per il lavoro, eppurenoi veniamo da un passato che ha scrittopagine importanti sulla presa in carico del-la persona senza lavoro; una cultura chepurtroppo è rimasta appannaggio di unapiccola élite di professionisti e operatori.Forse il vero nodo è che nelle politiche atti-ve del lavoro non si è mai deciso qual è lacultura di riferimento; siamo sempre vissu-ti alla luce e all’ombra della cultura giuri-dica, le politiche attive del lavoro le hansempre fatte i giuslavoristi in Italia.Alida. Più che una cultura giuridica io vedoun approccio di tipo adempitivo-burocratico. Sergio. Di qui il totale disagio delle personeche entrano in questi meccanismi, dove leprocedure semplicemente non contemplanola relazione con persone che portano undramma. Non è bastato il restyling archi-tettonico dei vecchi uffici di collocamento,brutti, polverosi, grigi e tristissimi, e la lorotrasformazione in centri per l’impiego, con-tinua a mancare totalmente una culturadella presa in carico. E dire che in passatoc’era stata anche una riflessione importan-te, frutto di alcuni fatti traumatici, come lacrisi dei cassintegrati Fiat, negli anni Ot-tanta, costata 150 suicidi fra i lavoratoriFiat e l’indotto, che avevano fatto sì che sistudiasse finalmente cosa volesse dire laperdita del lavoro. Quella riflessione si erapoi incrociata con le indagini al femminile

sull’uscita dal lavoro. Non dimentichiamoche le donne conoscevano bene quest’espe-rienza perché un tempo, nelle piccole e me-die aziende, all’arrivo di un figlio si perdevail lavoro. Era un bisogno su cui l’universofemminile aveva costruito anche dei servi-zi. Penso a tutto il gruppo di Retravailler,che aveva scritto pagine importanti in tuttoil territorio nazionale.Questa contaminazione aveva prodotto ap-punto una presa in carico della personasenza lavoro attenta alle sue esigenze. Ec-co, tutto questo capitolo del dramma deisuicidi e della riflessione femminile è statocompletamente rimosso. Io qui vedo una re-sponsabilità grossa di vari attori, tra cui ilsindacato che, a parte rari casi (come quelloraccontato da Paola), continua a occuparsidel lavoratore finché è sul posto del lavoro,ma nel momento in cui lo perde viene di-menticato; al massimo si contratta unabuonuscita. Alida. L’esperienza di Paola e le riflessionidi Sergio parlano di una realtà che ho cono-sciuto anch’io negli ultimi decenni, ed èquella delle esperienze di eccellenza chenon sono mai diventate sistema. Oggi il da-to è questo, con il risultato che le personeche perdono il lavoro sono lasciate sole, datutti i punti di vista, non solo dell’accompa-gnamento ma anche dei servizi.Io ho cominciato a occuparmi di orienta-mento nel ’98; i primi anni ho lavorato mol-to in grossi progetti fino a che il discorso siè interrotto: non c’erano più soldi perl’orientamento. Sono anche intervenuti deicambiamenti nella formazione professiona-le e tutta una serie di operatori è sparita la-sciando il posto a nuovi enti di formazione.C’è stato un lunghissimo dibattito sulla fi-gura dell’orientatore, da cui è uscita l’ideache la parola orientamento riguardasse fon-damentalmente il giovane che deve orien-tarsi nella scelta, non più il disoccupato ol’adulto. Coerentemente con questo approc-cio, l’orientamento è diventato patrimoniodel Miur, dell’università e ha smesso di es-sere un concetto significativo nell’accompa-gnamento delle persone attraverso le tran-sizioni, che è invece il vero tema oggi. A lungo siamo vissuti in questo vuoto totalefino a che improvvisamente la macchina siè rimessa in moto. Il problema è che anchetutti i nuovi progetti messi in piedi preve-dono delle “azioni” e non una presa in cari-co delle persone. Questo approccio non è pa-trimonio comune dei soggetti che, a vario ti-tolo, si occupano di chi ha perso il lavoro.Bisognerebbe finalmente mettere nellastessa filiera l’orientamento, l’assessment,la ricerca del lavoro, il sostegno, i serviziper l’impiego, ecc. Solo così si può lavorareeffettivamente per l’occupabilità delle per-sone. Invece ancora oggi quello che viene ri-conosciuto, e quindi finanziato, sono quasiunicamente delle azioni front-office nei con-

fronti delle persone. Di presa in carico, dicostruzione di un sistema, di relazioni checreano effettivamente rete sul territorio, ionon vedo niente. Dicevi che è cambiato anche lo statod’animo delle persone rispetto al pas-sato.Alida. Se confronto i partecipanti al primocorso di orientamento che ho fatto nel ’99con il gruppo che sto seguendo adesso, vedoproprio persone diverse. Allora i cassainte-grati, soprattutto gli uomini, erano molto,molto arrabbiati. Oggi ho a che fare conpersone fondamentalmente depresse, conpochissima fiducia e in più intorno c’è il de-serto. C’è un ragazzo di 28 anni che è a casada tre anni. Va detto che ai corsi finanziatidalla Regione ho incrociato persone conruoli professionali medio bassi, operai, ma-gazzinieri, credo però che questa rassegna-zione sia anche il risultato di anni di crisi edell’insufficienza di politiche e servizi.In aula li vedo, ti guardano e dicono: “Spe-riamo”, ma ci credono pochissimo. Come funzionano i corsi per chi haperso il lavoro?Alida. Cosa facciamo in aula? Parliamo eascoltiamo. Su 32 ore 4-8 ore sono dedicateall’ascolto dei vissuti della perdita del la-voro. Quando chiedi di raccontare alle per-sone la propria storia, le persone si aprono.Bisogna passare di lì. Poi esercitazioni, at-tività di gruppo e individuali per ragionaresulla dimensione del lavoro e del non lavo-ro, della storia professionale. Dopodiché so-stanzialmente lavoriamo sul piano dellavalorizzazione, che significa aiutare questepersone a riprendere coraggio. E questo èpossibile rivisitando la propria storia pro-fessionale, cercando e riconoscendo le cono-scenze, capacità, competenze; è un modoper rendersi conto di cosa ciascuno sa fare.

È un processo un po’ carsico, certi giorniriesce, certi altri meno. Questi sono un po’gli elementi fondamentali, anche se l’effi-cacia dipende fondamentalmente dai par-tecipanti , dal fatto che le persone si ricono-scano nel gruppo e si sostengano reciproca-mente. È importante anche ragionare suquanto la percezione sia soggettiva, per ri-dimensionare pensieri che si avvitano su sestessi. Sergio. C’è anche il sottopensiero per cui sesei fuori un po’ te lo sei meritato, è colpatua.Alida. È impressionante! Dicono: “Io misento un fallito”, usano proprio la parola“fallito”, non disoccupato. È questo.Sergio. Come si capisce molto chiaramentequi viene fuori un problema enorme di au-tostima.

in passato c’era stata anche unariflessione importante, frutto

di alcuni fatti traumatici, come la crisi dei cassintegrati Fiat

È impressionante! Dicono “Io mi sento un fallito”, usano

proprio la parola “fallito”, non disoccupato

una città 13

Dicevate che c’è un problema di fram-mentazione, di non comunicazione trai vari soggetti deputati a occuparsi diquesto problema.Sergio. Manca una cultura dell’integrazio-ne. Anche qui bisognerebbe lavorare di fan-tasia, perché esistono iniziative significati-ve. Penso a tutte le esperienze legate all’in-serimento lavorativo delle persone disabili.In quest’ambito, si è sviluppata una culturadell’integrazione fra enti che hanno funzio-ni diverse di presa in carico: dai servizi so-ciali, a quelli che si occupano di inserimen-to lavorativo, a quelli che fanno formazionee riqualificazione. Qui si potrebbe impararemoltissimo, anche approfittando della rior-ganizzazione dei servizi per l’impiego e del-la regionalizzazione dell’agenzia per le po-litiche del lavoro; si potrebbe iniziare a spe-rimentare un servizio in cui si mettono as-sieme competenze diverse: mutuo aiuto,orientamento, scouting, ecc. Alida. Recentemente ho partecipato a unprogetto che metteva assieme servizi per illavoro e servizi sociali in una provincia pie-montese; lì l’integrazione prevedeva ancheil coinvolgimento della Caritas. A volte silavora con persone che vivono in condizionidi sopravvivenza, quindi va bene la rifles-sione, ma poi c’è un’urgenza che riguardaproprio i bisogni primari, a cui va data ri-sposta.L’altro dato che riscontro è che sta aumen-tando moltissimo la sofferenza sociale. Icentri per impiego oggi intercettano perso-ne che non sono ancora “certificate” rispettoad alcune disabilità di tipo psichico, ma chesono ai limiti, e che pertanto avrebbero bi-sogno di una cura, di un’attenzione di tipoparticolare. In questi casi l’inserimento e iltirocinio vanno accompagnati e andrebbero

scelti enti, aziende, cooperative dove siapossibile ad esempio la presenza di un tu-tor. Nei database dei centri per l’impiego, ilparco delle persone critiche è aumentatotantissimo e sono persone che non esconomai da questi elenchi, anzi si depositanosul fondo...Sergio. Abbiamo tante trincee scollegatetra di loro, in cui gli operatori delle politi-che sociali non parlano con quelli delle po-litiche del lavoro, con l’effetto, ad esempio,di interventi che si sovrappongono. Questacosa non ha senso, tanto più in un momentodi carenza di risorse.

Alida. Progetti integrati e attenti ancheall’aspetto che citavo prima hanno portatoall’inserimento di persone che prima eranoin carico ai servizi sociali. Ora, se una don-na in carico ai servizi desidera essere auto-noma e comincia a lavorare porta al siste-ma un doppio risparmio, oltre a essere unapersona più felice. L’integrazione portereb-be ad ottimizzare le poche risorse che ci so-no, oltre che a migliorare la vita delle per-sone.C’è anche un problema di comunica-zione tra domanda e offerta?Sergio. La gente non trova lavoro e contem-poraneamente sappiamo che per molteaziende è difficile trovare alcune figure pro-fessionali. In alcuni casi servono propriocompetenze particolari, ma in altri sempli-cemente l’azienda non sa dove cercare. La-vorare sull’occupabilità di queste personevuol dire migliorare gli esiti dell’incontrotra domanda e offerta e quindi rendere il

paese più efficiente. Le politiche sociali edel lavoro sembrano totalmente aliene aquesto discorso, come se il tema non li ri-guardasse.Alida. Oggi i servizi rivolti alla persona di-soccupata stanno da una parte e le aziendeda tutt’altra. L’unico punto di contatto trai due mondi sono le agenzie di sommini-strazione. I cosiddetti servizi, i centri perl’impiego hanno pochissime relazioni con ilterritorio produttivo. È una schizofrenia.Come puoi aiutare l’inserimento se non haiun portafoglio di aziende con cui sei in con-tatto?Sergio. D’altra parte, se lasciate da sole, leagenzie di somministrazione ragionano perla mission che hanno, che è quella di soddi-sfare un bisogno dell’azienda. Non sono te-nute a sapere che la persona che perde il la-voro vive un dramma; saranno altri ad oc-cuparsene. Ecco mi sembra che proprio quisi collochi la sfida che attende l’ente locale:costruire le condizioni per cui i due mondi(chi conosce il dramma e chi conosce il mon-do aziendale) dialoghino in maniera orga-nizzata.Nella vostra esperienza, quante perso-ne rientrano al lavoro e quali sono ifattori determinanti per la riuscita delpercorso?Alida. Il problema è che questi progetti nonvengono mai valutati. In questi anni ne hoviste tante di persone, però finito il corso siinterrompeva ogni rapporto. Questi corsispesso erano considerati un momento dimotivazione, per cui finivano prima del-l’eventuale tirocinio o inserimento, quindinon so cosa succedeva dopo.Paola. Io posso dire che delle 80 personeche hanno partecipato ai gruppi territoriali,il 40% ha trovato un’occupazione. Può sem-

tante trincee scollegate tra loro, in cui gli operatori dellepolitiche sociali non parlano conquelli delle politiche del lavoro

Gian

luca Co

lagrossi

una città14

brare un dato straordinario, in realtà dob-biamo considerare che oggi trovare un’occu-pazione significa trovare lavoro per unasettimana, un mese, se sei fortunato per unanno. Resta il dato, positivo, che comunquesi sono rimesse in moto delle risorse, che ef-fettivamente questa cosa è servita. Alida. Questo è un altro tema caldo: che ti-po di lavoro trovano le persone, per quantotempo e quante entrano e poi escono di nuo-vo? Quella che si prospetta è una “carriera”fatta di entrate e uscite frequenti. Ecco, co-me aiutare le persone a tenere assieme unastoria professionale che è sempre più fran-tumata e che però va gestita con un approc-cio proattivo perché comunque devi dartida fare. È anche questo il passaggio: riusci-re a stare in questa incertezza. Paola. Cambia completamente l’approccioal lavoro. Se prima la prospettiva era quel-la di un posto per tutta la vita, con un inve-stimento di un certo tipo e una certa adesio-ne all’azienda, adesso è tutto diverso. Diffi-cilmente ti si prospetta un lavoro di quel ti-po. Io ora sono stata assunta dalla coopera-tiva sociale Aeris, con la quale sto portandoavanti il mio progetto, ma mi ritrovo con uncontratto part-time a tempo determinato.Sono contenta di quello che sto facendo e sobene che chi mi ha fatto questo contrattonon poteva fare diversamente, tuttavia èuna condizione che ti disorienta e ti costrin-ge a coltivare una rete di riferimenti per es-sere pronta a fare altre cose, perché biso-gna mettere assieme tanti pezzi. È faticoso.

Sergio. Se poi aggiungiamo che molti ope-ratori dei centri per l’impiego non sono as-sunti a tempo indeterminato, ma sono an-ch’essi precari, ci ritroviamo con un quadroancora più complesso. Forse è giunto il mo-mento di parlare delle condizioni di chi la-vora sulla mancanza di lavoro...Voi avete vissuto anche personalmen-te gli effetti della crisi, questo in qual-che modo vi aiuta oggi?Alida. Io vengo dal mondo dell’azienda e so-no passata attraverso riduzione di persona-

le, licenziamenti eccetera. Non nasco comeconsulente, nasco come dipendente: sonostata 19 anni in settori diversi, sono transi-tata dal settore commerciale al marketing,alla comunicazione pubblicitaria, dopodichého mollato tutto, trovandomi nel vuoto. Èsuccesso nel ’92. Anch’io ho vissuto il disa-gio del passaggio da una visione di lavorodipendente più o meno sicuro a un contestodi incertezza totale in cui tu sai che lavore-rai per un mese, per due mesi e poi chissà.È una precarietà che investe proprio la tuaidentità. Personalmente ho sempre rispo-sto, come ha fatto Paola, partecipando apercorsi di formazione. L’ultimo è stato unmaster triennale di consulenza al ruolo, incui ho potuto mettere assieme saperi, cono-scenze e passioni diverse. In questo modoallarghi la rete, i punti di vista e cominci afare cose anche completamente diverse. Chiedevi se queste esperienze ti rendonopiù empatico. Forse all’inizio sentirsi simileti avvicina, ma per aiutare in modo profes-sionale, almeno nel mio caso, sono stati im-portanti altri percorsi, l’interesse per la psi-canalisi, il lavoro personale su di me, quin-di alla fine più che l’aver passato le stesseesperienze, contano gli strumenti che neltempo ho affinato. Dopodiché so forse usarele parole giuste meglio di altri perché soquali sono. Quindi è vero, c’è questo passag-gio di empatia poi però devi definire il tuoruolo, devi essere credibile evitando di fareconfusione, per esempio attribuendo agli al-tri vissuti tuoi.Paola. Nei gruppi di auto aiuto funziona inmodo un po’ diverso, perché sono gruppi pa-ritari per definizione, non c’è un terapeuta.Il facilitatore è lì appunto per facilitare ilflusso comunicativo all’interno del gruppo,ma alla fine la relazione è tra pari.Sergio. Chi fa il libero professionista, il pic-colo imprenditore, ha a che fare quotidiana-mente con la possibilità della perdita del la-voro; sei costretto a stare nell’incertezza, afarci i conti. Io sono passato alla libera pro-fessione nel 1988, venivo dalla direzione delpersonale. Per tre anni ho lavorato inun’agenzia regionale che improvvisamenteha chiuso e mi sono trovato senza lavoro.Ero un libero professionista “finto” perchéavevo un unico committente. Mi sono trova-

to spiazzato e ho vissuto sulla mia pellel’emozione nella perdita del lavoro. Avevo33 anni; mi è ricapitato 3-4 anni dopo e aquel punto ero più attrezzato a reagire. Miricordo ancora bene quei momenti, così co-me ricordo l’inizio della crisi da piccolo im-prenditore; me le tengo care quelle espe-rienze, sono un patrimonio emozionale im-portantissimo a cui ho attinto anche recen-temente, quando mi sono trovato a gestireun gruppo di persone adulte di un impor-tante albergo milanese, che dopo decenni distoria professionale si sono trovate senzalavoro con tutto il carico di rabbia e dispe-razione che poi ributtano su chi gestiscel’aula.

Ecco, le emozioni provate in prima personami hanno aiutato non solo a sapere qualiparole utilizzare, ma anche a restituire aqueste persone l’importanza di mantenereun punto di vista altro rispetto alla spintadepressiva della situazione contingente.Perché bisogna fare anche questo, tanto piùche gli “alleati” tradizionali, come i familia-ri di chi perde il lavoro, raramente ne sonocapaci. Non gliene si può fare una colpa,nessuno gliel’ha insegnato. Quindi aver vis-suto quest’emozione e soprattutto averlarielaborata è uno strumento in più. Dopodi-ché sono d’accordo con Alida, ci sono stru-menti professionali fondamentali per nonfare confusione, per non entrare e usciredai gruppi generando incertezza sui ruoli.Alida. Aggiungerei una cosa. Noi siamo unpo’ testimoni del fatto che si può farcela inun modo o nell’altro. Mi sembra dunque cheabbiamo un compito importante come ope-ratori, animatori, conduttori di gruppi: dob-biamo lavorare sulla valorizzazione, ma an-che e soprattutto sulla speranza. Questo èun po’ il nostro ruolo credo: accogliere, ac-cettare questo carico, usare le parole giuste,dare coraggio e alimentare la fiducia.

(a cura di Barbara Bertoncin)

che tipo di lavoro trovanole persone, per quanto tempo

e quante entrano e poi escono di nuovo?

l’importanza di mantenereun punto di vista altro rispetto

alla spinta depressiva della situazione contingente

Abbonamento “primo ingresso”: 30 euroRinnovo ordinario: 60 euro Rinnovo studenti: 30 euro

Abbonamento regalo: 30 euroAbbonamento estero (Europa): 100 euro

(resto del mondo): 120 euroIn alternativa “al cartaceo” è possibile,

al costo di 20 euro, sottoscrivere l’abbonamento al pdf della rivista

Abbonatevi!Regalate una città!Modalità di pagamento:-Cc. postale n. 12405478 - Una Città Soc. Coop., via Duca Valentino 11, 47121 Forlì -Bonifico bancario intestato a Una Città Soc. Coop. IBAN IT36O0601013208074000000048 -tramite internet (www.unacitta.it) aprendo la pagina: http://www.unacitta.it/abbonamenti.asp