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Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l’Italia” di Marco Fortis Milano, 27 aprile 2009

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Atti della presentazione del volume 

“La crisi mondiale e l’Italia” 

di Marco Fortis 

Milano, 27 aprile 2009 

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Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano,  27 aprile 2009 2 

Milano, lunedì 27 aprile 2009 Sala Assemblee di Edison - Foro Buonaparte, 31

Presentazione del volume

La crisi mondiale e l’Italia di

Marco Fortis

Introduce Umberto Quadrino

Intervengono insieme all’autore Enrico Letta e Giulio Tremonti

Modera

Alberto Quadrio Curzio

Società editrice il Mulino

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Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano,  27 aprile 2009 3 

Umberto Quadrino

Buongiorno a tutti.

Grazie di essere intervenuti così numerosi alla presentazione del volume di Marco Fortis “La crisi mondiale e l’Italia” che raccoglie

una serie di articoli di analisi della crisi economica in atto, comparsi recentemente su “Il Messagge-ro” e altre testate. Come Presidente della Fonda-zione Edison sono onorato di avere insieme a me il ministro Tremonti, l’onorevole Letta, il Professor Quadrio Curzio e l’autore del libro, per discutere di questi temi.

La Fondazione Edison ha da sempre prestato grande attenzione ai temi del modello di sviluppo italiano incentrato sull’economia reale, sui distretti. Ed è stata una voce solitaria negli ultimi anni, quando si parlava di declino del modello di svi-luppo italiano basato appunto sui distretti e sulle piccole e medie imprese. E’ stata una voce che si è levata per sostenere ancora la vitalità e l’impor-tanza del nostro sistema economico e contrastare le affermazioni di coloro che consideravano or-mai in declino il modello del nostro sviluppo, comparandolo a quello di altri Paesi che invece, basandosi sullo sviluppo dell’immobiliare e di una certa finanza creativa, avevano tassi di sviluppo superiori ai nostri. La storia, al contrario, ci dice che il nostro modello non è affatto morto, ma è ancora vivo e vitale nonostante la presente crisi economica, e che quei paesi che avevano fatto troppo affidamento su ricette di sviluppo “drogato” oggi si trovano in difficoltà più grandi della nostra. Quando è scoppiata la crisi, la Fon-dazione ha cercato di capirne le motivazioni, di analizzarne le conseguenze, e di vedere quali potevano essere le ripercussioni sul nostro siste-ma economico, analizzando ancora i punti di forza e di debolezza dell’Italia. Speriamo oggi di ottenere attraverso questo dibattito delle informa-zioni utili sul punto in cui siamo: c’è un generale desiderio di interpretare i primi sintomi di ripresa come quelli definitivi, anche se il direttore genera-le del Fondo Monetario Internazionale Strauss-Kahn ci ammonisce che senza una pulizia nei bilanci delle banche non ci sarà una ripresa dura-tura. La Quaresima è quindi ancora lunga, come ha detto recentemente il professor Tremonti in una riunione ufficiale del Fondo Monetario.

Ma veniamo agli invitati, che non hanno certo bisogno della mia presentazione.

Giulio Tremonti è ministro dell’economia; la sua presenza è importante non solo per il posto che

occupa nel governo italiano, per il ruolo che gio-ca in molte istituzioni internazionali, dal G8 al Fondo Monetario, ma perché è stato forse l’unico al mondo dei grandi protagonisti dell’economia mondiale a prevedere quello che sarebbe acca-duto. Voglio citare due passaggi di previsioni di Giulio Tremonti in periodi non “sospetti”: 1) Cor-riere della Sera del 12 novembre 2006, “Oggi la crisi immobiliare Usa è molto forte. Le ipotesi sono due. La prima: il passaggio dal boom allo sboom non ha causato il collasso perché il sistema finan-ziario è bene equilibrato, ha assorbito la crisi e può ripartire. La seconda è quella di una crisi strutturale tipo 1929. Io spero nella prima ipotesi, ma temo la seconda”. L’11 agosto 2007 sempre sul Corriere della Sera scriveva Giulio Tremonti “in America si trovano il principio e la fine di una crisi potenzialmente globale. La crisi dell’economia finanziaria diventa sempre crisi dell’economia reale. La crisi dell’America diventa sempre crisi del mondo. La cosa positiva è che Governi e Autorità monetarie, se lo capiscono e lo vogliono, posso-no ancora intervenire”. Mi sembra che o non l’hanno capito o non hanno voluto capirlo, per-ché è passato un anno e poi è scoppiata la crisi. Quindi, dopo la paura attendiamo da Giulio Tre-monti, spero, qualche parola di speranza.

Enrico Letta ha sempre seguito con grande atten-zione l’economia reale del nostro Paese. E’ stato ministro dell’Industria e con Pierluigi Bersani ha scritto nel 2004 “Viaggio nell’economia italiana” sui distretti e le piccole e medie imprese, ripren-dendo temi che ci sono molto cari come Fonda-zione Edison, e ci ha fatto anche l’onore di una sua prefazione pubblicata nel libro “Industria e Distretti” a cura di Fortis e Quadrio Curzio. Nel corso di questa crisi è più volte intervenuto, sotto-lineando l’importanza di mantenere intatta la macchina produttiva del nostro Paese.

Alberto Quadrio Curzio è Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Edison. Con Fortis in questi anni ha analizzato molto approfondita-mente il modello del made in Italy, e nel corso di questa crisi ha insistito sul progetto di emissione di titoli del debito europeo per promuovere un importante progetto di sviluppo di opere infra-strutturali in Europa, progetto che in sede interna-zionale Tremonti aveva prospettato già rifacendo-si a Jacques Delors.

Alberto Quadrio Curzio modererà il dibattito.

Cedo, pertanto, a lui la parola.

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Alberto Quadrio Curzio

Grazie.

Mi associo al Dottor Quadrino con sentiti ringraziamenti al Professor Tremonti e al Dottor Letta per aver accettato l’invito della Fondazione

Edison a presentare questo volume di Marco For-tis.

Come ha rilevato il Dottor Quadrino c’è una certa consuetudine tra la Fondazione Edison e queste due illustri personalità, consuetudine legata non solo al contributo che essi hanno dato talvolta alla presentazione di volumi curati dalla Fondazio-ne Edison, ma anche ad una consonanza specifi-ca: la convinzione che il sistema italiano avesse delle sue caratteristiche molto valide, molto solide di economia reale, caratteristiche espresse dal sistema delle piccole e medie imprese e dei di-stretti, che certamente dovevano, potevano e debbono migliorare, ma che non vanno sostituite da forme iperboliche di economia dei servizi e di finanza creativa. Potrei pertanto anche dire che negli anni passati quando la Fondazione Edison sosteneva tesi considerate da molti retrograde, essi ci hanno incoraggiato a proseguire nelle no-stre convinzioni.

Oggi per molti versi sarebbe facile dire “Avevamo ragione” e la tentazione di farlo è certamente forte. Tuttavia io credo che più importante dell’af-fermazione “Avevamo ragione” sia interrogarsi su come possiamo uscire da questa crisi assai grave, e se dopo questa crisi l’Italia, l’Europa e il mondo saranno come prima.

Credo che il libro di Fortis, che è stato scritto in tempo reale mentre gli eventi della crisi finanziaria si svolgevano, non sia assolutamente una crona-ca di tutto ciò che è accaduto; per quanto il libro non sia una elaborazione ex post vi è tuttavia una chiara linea interpretativa degli eventi accaduti, ed anche una linea prospettica su quanto a suo avviso – che condivido – dovremmo fare soprat-tutto nel nostro Paese. E’ chiaro che la tesi fon-dante dell’elaborato è che l’economia reale in un paese sviluppato come l’Italia, giustamente detto industrializzato, rimane il fulcro del sistema econo-mico, e che ovviamente l’economia bancaria e finanziaria è interrelata, deve essere interrelata, ma non è in grado di sostituire l’economia reale in un contesto di paesi sviluppati. Quindi vi è im-plicitamente l’affermazione che la delega produt-tiva manifatturiera industriale ai paesi in via di sviluppo non è una delega attuabile se non cor-rendo dei rischi di dimensioni gigantesche su

scala mondiale, fino alla creazione di monopoli che alla fine non avrebbero dei controlli adeguati. Così come dal volume è chiara la tesi che la crisi nasce dagli Stati Uniti con una straordinaria molti-plicazione del debito. Un dato che emerge da ulteriori studi di Marco Fortis vorrei riportare alla vostra attenzione: tra il 2001 e il 2007 il Pil ameri-cano è cresciuto di 3.500 miliardi di dollari men-tre l’indebitamento dei settori non finanziari è cresciuto di 12.500 miliardi di dollari. Quindi è chiaro che la crescita dell’indebitamento è stata di dimensioni tali che la stessa crescita del Pil reale risulta largamente ridimensionata, diversamente da quanto accaduto in Europa e in Italia dove la crescita è stata più lenta, ma l’indebitamento è stato molto più basso.

La tesi centrale del volume, pur con molte com-parazioni, riguarda l’Italia e, sotto questo profilo, Fortis prosegue quell’analisi che da anni ha ap-profondito con contributi molto originali. E cioè che il sistema manifatturiero italiano è forte per-ché ha un surplus commerciale assai significativo, soprattutto nelle “4 A”, e perché il sistema banca-rio, alimentato dall’abbondante risparmio privato, è solido. Il fatto che Fortis abbia portato all’eviden-za del pubblico un dato che solo pochi specialisti conoscevano, e cioè che l’indebitamento privato, l’indebitamento delle famiglie fosse intorno al 35% del Pil, mentre in altri Paesi europei si supera largamente il 100% del Pil, ha anche portato l’at-tenzione sul cosiddetto debito aggregato pubbli-co-privato che non posiziona poi tanto male il nostro Paese. Certo rimane il fatto che il debito pubblico è trattato tutti i giorni sui mercati e quin-di nella determinazione dei prezzi dei titoli di stato e dei tassi si manifesta anche un premio di rischio, a mio avviso sopravvalutato, che spesso ha pena-lizzato l’Italia. Il debito privato, essendo un debito microeconomico, non ha una corrispondente valutazione dei mercati e come tale non può ave-re neppure uno specifico rating. Ma esso determi-na la solidità del sistema bancario.

Detto questo, ringrazio Fortis per questo elabora-to e subito passo la parola ai due relatori che, ovviamente, sono attesi dal pubblico venuto così numeroso.

Lascerei la scelta di intervento ai due relatori.

Inizia allora Enrico Letta e a seguire Giulio Tre-monti.

Grazie ancora per aver accettato l’invito della Fondazione Edison.

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Enrico Letta

Grazie alla Fondazione Edison, gra-zie alla casa editrice “Il Mulino” che da sempre cura i libri della Fonda-zione Edison, grazie a Marco Fortis per le ricerche e i dati che ci propo-ne. E grazie per questa occasione

di confronto in un momento come quello attuale in cui tutti siamo desiderosi di comprendere quanto è accaduto negli ultimi mesi e di capire come il nostro Paese possa uscire più forte, o al-meno evitare di uscire più debole, da questa crisi di cui l’Italia non ha nessuna colpa, come giusta-mente diceva prima Alberto Quadrio Curzio. Si tratta infatti, come bene argomenta anche Marco Fortis nel suo volume “La crisi mondiale e l’Italia”, di una crisi originata dall’economia americana che per anni è stata “drogata” con un aumento esponenziale dell’indebitamento privato, vale a dire del debito di famiglie, imprese, banche.

Su come l’Italia potrà uscire più forte da questa crisi concentrerò il mio intervento.

Quello che in queste ore sta accadendo nel mer-cato automobilistico da molti è portato come esempio – e anch’io lo faccio in partenza – delle occasioni che l’attuale situazione può offrirci le quali, se colte con intelligenza e con tempismo, possono non soltanto risolverci dei problemi, ma farci fare dei passi in avanti rispetto ai nostri dati di partenza.

Per motivi del tutto casuali mi trovo oggi a pren-der parte a questo dibattito subito prima dell’in-contro che oggi pomeriggio avrò con il Consiglio Direttivo del Distretto della ceramica di Sassuolo – come periodicamente faccio da diversi anni – per cercare di capire la vicenda di una azienda in particolare, la Iris Ceramica di cui parla anche Marco Fortis alle pagine 143-144 del suo libro, che come noto ha deciso di aprire la procedura di messa in liquidazione. Con questa sua decisio-ne tale azienda, che rappresenta uno dei mag-giori gruppi nazionali nel settore delle piastrelle, è diventata un po’ il simbolo di un possibile rischio di cui voglio parlare: il rischio di deindustrializza-zione del nostro Paese.

La Fondazione Edison ci ricorda costantemente la caratteristica tutta italiana data dall’elevato nume-ro di imprenditori che costituiscono il nostro siste-ma produttivo, e che fanno del nostro Paese un unicum; sono, infatti, circa 4 milioni gli imprendi-tori che lavorano sul territorio, molti dei quali so-no ex dipendenti; quest’ultimo lo ritengo un a-spetto da sottolineare perché il fatto che gran

parte degli imprenditori italiani abbiano vissuto l’esperienza lavorativa da ex dipendenti rende il tessuto imprenditoriale italiano totalmente diverso rispetto agli altri.

Porto il paragone della Francia che, diversamente da noi, ha alcune decine di grandi imprese globa-li, diciamo 50; il governo francese può intervenire, e sicuramente interverrà se necessario, a soste-gno di ciascuna di esse in questo momento di crisi; quando la crisi terminerà i 50 “campioni” francesi ci saranno ancora tutti, o se non saranno tutti 50, saranno 48, ma la Francia potrà ripartire da lì. Noi, invece, non abbiamo un elevato nume-ro di grandi imprese. Ma abbiamo 4 milioni di imprenditori che giorno dopo giorno affrontano la difficile situazione di crisi in cui si sono venuti a trovare; e che ogni giorno si pongono la doman-da se sia conveniente tenere duro in questa fase di difficoltà o se invece non sia più ragionevole seguire l’esempio dell’azienda del distretto della ceramica cui accennavo prima, e decidere quindi di cessare la propria attività. Questi 4 milioni di imprenditori sono infatti persone che hanno lavo-rato per anni, riuscendo a costruirsi una ricchez-za, grande o piccola che sia, e che oggi vedono la lista degli ordinativi per i successivi 6-9 mesi sostanzialmente in bianco. Ciascuno di essi, legitti-mamente, può domandarsi se adesso, che è ri-masto ancora del “fieno in cascina”, non sia me-glio fermarsi, mettendo in sicurezza se stessi, la propria famiglia e i propri dipendenti – facendolo nel modo meno traumatico possibile – piuttosto che andare avanti, correndo il rischio di buttare via il ”fieno” che è rimasto, nel tentativo di resiste-re in una condizione di incertezza: questi impren-ditori, che magari hanno alle spalle 20 o 30 anni di attività lavorativa, ogni mattina alzano una sara-cinesca, reale o virtuale, senza sapere quale sarà l’esito del proprio lavoro alla fine della giornata.

Pertanto, la questione principale che dobbiamo affrontare è la seguente: dobbiamo far di tutto perché alla fine della crisi questi 4 milioni di im-prenditori ci siano ancora tutti e non diventino la metà di quelli che sono oggi, e che rimangano tali non trasformando la loro attività in attività di rendita; anzi, il nostro obiettivo deve essere quello di far sì che, dopo le intemperie della crisi, gli im-prenditori italiani abbiano la scorza ancora più dura. Perché la Francia, che qui porto come e-sempio, le sue 50 imprese a scala mondiale le manterrà tali e lo farà, se necessario, attraverso azioni anche pubbliche. Credo, quindi, che il rischio di deindustrializzazio-

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ne del Paese sia il tema per eccellenza, e credo anche che rispecchi una parte delle riflessioni del libro di Fortis e della prefazione che Quadrio Cur-zio scrive al libro. Noi siamo di fronte a un dovere collettivo del sistema Paese, un dovere delle istitu-zioni tutte, delle istituzioni nazionali e delle forze politiche, perché qui si gioca il futuro del l’Italia, un Paese che può uscire dalla crisi ancora come grande potenza industriale, potenza manifatturie-ra, potenza esportatrice.

E’ inutile che io ripeta cose che nel libro sono ampiamente argomentate sulle quali sono total-mente d'accordo, come sul fatto che la forza del nostro Paese nasca dal saper tenere insieme tanti modelli produttivi che alla fine sono riconducibili a una grande, buona capacità di produrre, quin-di di esportare.

Io credo che il punto chiave sia, una volta acquisi-ta la consapevolezza di questo grande ruolo del nostro sistema produttivo, come riuscire a debel-lare il rischio della stretta del credito e a risolvere la problematica del ritardo nei pagamenti da par-te della pubblica amministrazione. E’ infatti di fon-damentale importanza per la sopravvivenza delle nostre imprese scongiurare il rischio di raziona-mento del credito da parte del sistema bancario, così come lo abbiamo sperimentato e vissuto negli ultimi mesi, e in questo credo ci sia un pro-blema di voci e di stimoli che arrivano dalle istitu-zioni pubbliche. Ma nello stesso tempo occorre trovare una soluzione alla questione molto delica-ta, molto difficile, del ritardo nel pagamento dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione; penso in particolare al ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, al ruolo della SACE e all’opportunità, per esempio, di introdurre una distinzione tra i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione, a-vendo alcuni di essi indubbiamente minor peso rispetto ad altri.

Ma a mio avviso, un altro grande tema è quello relativo al nostro sistema di welfare, vale a dire al nostro sistema di ammortizzatori sociali. Sono tra coloro che ritengono che, in questa crisi, siano emersi tutti i limiti del nostro Welfare, un Welfare che è costruito attorno alla centralità della figura del “maschio adulto” e non attorno alla centralità della “persona”. Ci sono intere categorie del no-stro Paese, intere classi generazionali, diciamo la metà del Paese che è quella rappresentata dalle donne, che hanno trovato nel nostro Welfare un'assenza di risposte piuttosto che una comple-tezza di risposte. Abbiamo un sistema di Welfare

che, detto in sintesi e per cifre, dedica l’87% delle sue risorse a pensioni e sanità, e solo il 13% alle voci attive, che invece negli altri Paesi normal-mente sono destinatarie della metà delle risorse della spesa sociale. E la spesa sociale italiana nel suo insieme, come è a tutti noto, è in linea con l'Unione europea.

Ritengo, quindi, che sia giunto il momento di rea-lizzare in quel campo alcune importanti e delicate riforme che riallochino le risorse. Ed è questo il momento giusto per farlo, data l’esistenza del consenso per qualunque riforma che possa esse-re chiaramente spiegata; difficilmente, credo, lo stesso consenso si potrà trovare nel momento in cui sarà venuto meno il senso dell’urgenza che invece avvertiamo in questa fase di crisi.

E qui il tema degli ammortizzatori sociali riguarda anche il sistema delle imprese, perché gli impren-ditori hanno meno strumenti da mettere in cam-po rispetto a un ventaglio di opzioni che credo invece debbano essere a loro disposizione. Su questo punto è in atto una polemica, io ne ho ampiamente discusso varie volte con il ministro Sacconi e con il ministro Brunetta. Credo che ci sia qualcosa che non va se il nostro Paese affron-ta con la parola “deroga” la più grande crisi finan-ziaria ed economica che abbiamo mai vissuto; la nostra struttura di ammortizzatori sociali è infatti sostanzialmente basata sullo strumento della “cassa in deroga”, strumento che, sia chiaro, non intendo mettere in discussione, ma il fatto che lo strumento principe del nostro sistema di ammor-tizzatori sociali si chiami “cassa in deroga” la dice lunga, secondo me, su molti dei nostri problemi. In questa mia considerazione non vi è, ovviamen-te, alcun riferimento all'ultimo anno di governo, o agli ultimi anni, trattandosi di una situazione che si trascina da decenni.

Ritengo, quindi, che sia necessario un intervento che estenda il livello delle protezioni e ne modifi-chi le modalità di erogazione. Oggi il sistema di ammortizzatori sociali è infatti erogato attraverso contrattazioni, attraverso trattative, attraverso le scelte della politica e del sindacato, e conseguen-temente le imprese che sono fuori dai binari della politica e del sindacato, di norma, non ottengono un euro dal sistema degli ammortizzatori sociali. Vi è, dunque, la necessità di far evolvere tale siste-ma verso una logica più moderna; e questo lo dico con grande chiarezza, al di fuori da qualun-que considerazione di lucro politico immediato, perché ritengo che ciò farebbe bene a tutti, al centrodestra come al centrosinistra, ma farebbe

Enrico Letta

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bene anche al sindacato e sicuramente farebbe molto bene al sistema Paese.

Marco Fortis, in uno degli articoli finali e quindi più recenti della sua raccolta, affronta un altro grande tema che negli ultimi tempi è un po’ scomparso, quello del Sud del Paese. Oggi, infatti, nel nostro Paese il Sud non viene più considerato un problema, nel senso che viene sostanzialmen-te messo da parte. E questo è un problema cultu-rale ancor prima che di scelte concrete, però io credo che sia un tema che riguardi un po' tutte le culture politiche del nostro Paese, che tendono a pensare che meno se ne parla meglio è, frutto anche di quello che è successo in questi anni. Mi veniva da riflettere sul fatto - e lo faccio volentieri qui a Milano, e non a Napoli o a Catania, per dire quanto il problema io lo consideri nazionale - che ormai, tranne forse una o due eccezioni, non c'è uno strumento di comunicazione classico, che sia un quotidiano, un settimanale o una televisione che venga realizzato fisicamente nel Sud del no-stro Paese, diciamo sotto Roma.

La sostanza è che la riflessione sul Mezzogiorno è completamente scomparsa. Penso che questo sia un grande problema perché come argomenta perfettamente Marco Fortis a pagina 167, il diva-rio tra il Nord-Centro e il Sud dell’Italia ha raggiun-to dimensioni che potremmo definire eccezionali. Infatti, se non consideriamo le quattro regioni italiane più povere (Puglia, Calabria, Sicilia e Cam-pania), il nostro Paese ha delle performance di crescita che sono ampiamente migliori della me-dia dell’euro area, mentre il Pil pro-capite delle quattro regioni più povere è assai inferiore a quel-lo del Portogallo.

Un altro messaggio che ci viene dalla crisi riguar-da, pertanto, l’importanza di riuscire a intaccare parte di quel disavanzo strutturale che le regioni più povere del nostro Paese hanno nei confronti dei loro competitori europei, perché è lì che c’è uno spazio per noi di recupero; non è infatti sem-plice chiedere alla Lombardia o al Veneto, che già hanno una forza economica e imprenditoria-le ai massimi livelli in Europa, di correre a una velocità maggiore rispetto alla Baviera o all’Ile de France. Vi è quindi un tema molto profondo che riguarda scelte concrete, che implica la necessità di mettere in campo piani di sviluppo per quelle regioni che siano utili a tutto il Paese, e non sol-tanto incentivi per andare a fare in quelle regioni le stesse cose che si fanno nel resto d'Italia, con costi inferiori. Probabilmente tutto ciò richiede un cambio di filosofia, che sicuramente è molto diffi-cile, molto complicato da mettere in pratica, ma

ho l’impressione che esorcizzare il problema anzi-ché tentare, sia pure con fatica, di affrontarlo sia la soluzione peggiore.

Voglio ora affrontare un altro tema ampiamente trattato nel libro di Fortis, vale a dire quello dello sviluppo delle infrastrutture a livello nazionale e a livello europeo. La settimana scorsa Alberto Qua-drio Curzio ha scritto sul Corriere della Sera un editoriale, come sempre molto efficace, sul tema delle infrastrutture. Lo voglio riprendere perché ritengo che il rilancio infrastrutturale sia un punto chiave, un punto essenziale per uscire dalla crisi, grazie alla creazione di posti di lavoro e alla possi-bilità di far girare risorse che esso comporta. Cre-do, però, che vi sia un problema di scelta delle infrastrutture da realizzare, scelta che andrebbe fatta sulla base di priorità legate alla tempistica di realizzazione. In altri termini, la precedenza an-drebbe data alle opere cantierabili, i cui lavori possono partire immediatamente, generando subito posti di lavoro e facendo circolare denaro. Di queste realizzazioni infrastrutturali pronte per partire ce ne sono tante in Italia, e la Lombardia è il cuore di queste, grazie a scelte fatte negli ultimi anni; penso alla Pedemontana Lombarda, che tra le opere infrastrutturali è sicuramente la più im-portante ma anche la più complessa, alla Tangen-ziale Esterna Milanese, alla BreBeMi. Ma un po' tutto il Nord del nostro Paese ha opere cantiera-bili i cui lavori potrebbero cominciare da subito; ed è soprattutto in merito a questo aspetto della immediata realizzazione delle opere che risiedo-no i miei dubbi circa il Ponte sullo Stretto, ancora oggi inserito tra le opere infrastrutturali prioritarie, perché credo che difficilmente questo potrà ge-nerare da subito ricchezza e posti di lavoro.

Vorrei ora affrontare come ultimo argomento la grande questione europea.

Se è vero, come Fortis argomenta, che noi abbia-mo tante carte da giocarci in questa crisi, dalla quale potremo uscirne ancora forti a patto di scongiurare quel rischio di deindustrializzazione di cui parlavo prima, la questione europea rimane comunque per noi fondamentale, decisiva, così come si evince dalla prefazione di Quadrio Cur-zio, nella quale vengono riportati numerosi pas-saggi di Carlo Azeglio Ciampi, che sottolineano anche questo aspetto.

La questione fondamentale, a mio avviso, è che l’Europa rappresenta la prima vittima della crisi economico-finanziaria in corso, ma non l’Europa tout court, bensì l’Europa comunitaria. L’Europa è sempre cresciuta, è sempre andata avanti attra-

Enrico Letta

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verso una dialettica virtuosa tra il livello intergo-vernativo e il livello comunitario – impersonificato e rappresentato dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo – che ha visto le grandi rea-lizzazioni che oggi ci fanno forti; penso a tutto il lavoro del decennio Delors che ha portato al “mercato delle quattro libertà” e poi al processo di costruzione dell’Unione Europea culminato con il Trattato di Maastricht. E’ stato tutto un cammino guidato dalla Commissione europea, in cui i go-verni nazionali seguivano e ovviamente aggiusta-vano il percorso, cercando di trovare le forme migliori per portare il consenso attorno alla co-struzione dell’Unione europea sancita dal Tratta-to.

Bene, questa dialettica virtuosa tra livello intergo-vernativo e livello comunitario è saltata completa-mente negli ultimi mesi; la Commissione europea è tornata al ruolo che aveva negli anni ‘60 e ’70, cioè organo esecutivo delle decisioni dei governi nazionali. E questo, secondo me, è bene dirlo con grande franchezza, senza coprirlo in modo ipocri-ta. Io lo ritengo, però, un gravissimo errore di prospettiva, anzitutto perché i governi non sono più 6 come erano negli anni ’60, ma sono 27, e il tasso di egoismo nazionale dei singoli governi rimane elevatissimo.

In questo ragionamento si inserisce la grave re-sponsabilità, a parer mio, che la cancelliera tede-sca si è assunta nel bloccare un piano straordina-rio di intervento per il sostegno delle economie dell'Europa centro orientale, creando un danno per tutta l’Europa, e in particolar modo per noi italiani che siamo sempre il primo o il secondo paese investitore in quelle economie. Quell'inter-vento, che è stato poi facilmente interpretato co-me legato alle imminenti elezioni nazionali nel paese della Merkel, dettato quindi dall’egoismo nazionale, ha messo in luce una questione che ritengo cruciale, vale a dire il grave rischio di un’-Europa in cui la parte comunitaria è completa-mente sottomessa alla parte intergovernativa. E’ quindi di fondamentale importanza ristabilire un giusto e corretto equilibrio tra i due livelli, perché è soltanto attraverso uno spirito unitario che l'Eu-ropa può riuscire a raggiungere i suoi grandi obiettivi, vale a dire l'obiettivo degli euro-bonds, l’obiettivo dei global legal standard, l’obiettivo di un endorcement delle regole e l’obiettivo fonda-mentale della costruzione di una nuova architet-tura finanziaria.

Fortis nel suo volume cita il caso dei mutui subpri-me, ossia dei mutui concessi a persone che pale-

semente non erano poi in grado di restituirne interessi e capitale. Oggi, col senno di poi, tutti dicono che era ovvio che una tale pratica ci a-vrebbe portato, prima o poi, alla situazione in cui oggi ci troviamo, perché veniva svolta un'attività che non solo era fuori dalle regole del buon sen-so, ma anche della normale correttezza. La stessa cosa con l'effetto di leva estremizzato.

Bene, per far fronte a tutto questo c’è bisogno non soltanto di regole – quelle, in fondo, c’erano anche prima della crisi – quanto piuttosto di un enforsement delle regole stesse, c’è bisogno della forza politica, della forza di authorithy che siano messe in condizione di poter applicare queste regole. E credo che anche a livello europeo ci sia bisogno di questo ragionamento.

Un governo forte europeo esce dalla crisi come “la grande esigenza”; ma il rischio maggiore, se-condo me, è che l’Europa esca dalla crisi con delle istituzioni più deboli rispetto a quando c’era entrata.

Per concludere, il rischio di deindustrializzazione dell’Italia e il rischio della perdita dell'unitarietà istituzionale dell'Europa con la rivincita dell'Euro-pa intergovernativa, rappresentano a mio avviso le due questioni chiave. Intendiamoci, il ruolo degli Stati e dei governi è e rimane fondamentale; il problema vero è essere in grado di trovare un'i-stanza comune che riesca a guidare questi pro-cessi. Ma il percorso verso l’uscita dalla crisi deve passare attraverso questi due binari, un binario tutto italiano che assicuri il futuro imprenditoriale del nostro Paese mediante risposte adeguate da parte del sistema, da parte degli operatori, da parte delle istituzioni, trovando insieme le giuste realizzazioni; un binario europeo che punti al ripristino di una dimensione comunitaria, forte ed efficace, senza la quale difficilmente potremo usci-re dalla crisi.

Oggi i problemi incombono in modo talmente palese su chi li deve risolvere che chiedere alle opinioni pubbliche di assumersi responsabilità assieme alle classi dirigenti è oggi molto più fatti-bile rispetto a prima. L’importante è voler fare tutto ciò perché, come dicevo in precedenza, se c’è un momento in cui è possibile farlo forse è proprio questo: nel Paese infatti esiste, da una parte, una stabilità politica come forse mai abbia-mo avuto, con la presenza di un esecutivo forte; dall’altra, una capacità di dialogo tra le parti politi-che che non si è mai vista nella storia recente del nostro Paese. Io credo, quindi, che sarebbe un grosso errore non cogliere le possibilità che si

Enrico Letta

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presentano in questo particolare momento, rin-viando al futuro la realizzazione di tutte quelle riforme, anche faticose, che potrebbero realmen-te consentire al nostro Paese di uscire più forte dalla crisi.

Grazie.

Enrico Letta

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Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano,  27 aprile 2009 10 

Giulio Tremonti

Nomina Sunt Consequentia Rerum (I nomi sono corrisponden-ti alle cose n.d.r.): Marco Fortis.

Non è frequente che idee forti, come quelle contenute nel libro

di Fortis, siano rappresentate in Italia; si può esse-re d’accordo o in disaccordo con quanto esprime l’autore, ma oggettivamente è un libro che marca e cifra con molta forza una linea di pensiero. Ed è questa la ragione del particolare apprezzamento che ho per Marco, per i suoi scritti, per la sua atti-vità.

In questo intervento dividerò le mie considerazio-ni in base al titolo del suo libro “La crisi mondiale e l’Italia”; parlerò quindi di “mondo” e di “Italia”, sotto il comune denominatore della crisi.

In merito alla crisi mondiale, inizierò parlandovi delle riunioni che ho avuto negli ultimi giorni a Washington, dove ho incontrato il signor “Capitalismo”, il signor “Mercato finanziario” e i signori “Governi”, verificando i rispettivi stati di salute e le rispettive visioni del mondo. Userò, quindi, tre parole chiave: crisi, governi, regole; ne parlerò molto brevemente perché vorrei soffer-marmi soprattutto sull’Italia.

Crisi. La parola crisi deriva dal greco krisis, che a sua volta deriva da crino, che vuol dire “divisione” (e non per caso noi usiamo la parola crinale); krisis, quindi, come marcatura di disconti-nuità, come forza nel marcare il passaggio da una fase all’altra. E certamente noi ci troviamo in una fase di crisi, la cui intensità, anche storica, è forse troppo presto per definirla. Credo, infatti, che una valutazione seria in ordine a quello che è successo in questi anni debba e possa essere fatta solo con un certo distacco storico.

La mia opinione, non recente, è che l’origine di questa crisi stia non tanto in alcuni epifenomeni, ossia in alcuni fatti che poi hanno determinato un’accelerazione dei processi, ma sia ben più profonda e più radicale.

Cercherò di dare una lettura “marxista” dei fonda-mentali di questa crisi, così come ho sempre cer-cato di fare: l’origine della crisi non si trova nei subprime; i subprime sono l’epifenomeno rispetto al fenomeno sottostante. Io credo che l’origine della crisi stia nella globalizzazione per come è stata fatta, per i tempi con cui è stata realizzata e per le leve utilizzate per compierla. E’ un ordine di pensiero che ho cercato di esporre già nel 1995 in un libro intitolato “Il fantasma della povertà”,

poi ancora nel 2005 con il volume “Rischi fatali”, e infine nel 2007 con “La paura e la speranza”. E, finalmente, nell’assemblea del Fondo moneta-rio internazionale tanti rappresentanti e tanti Paesi hanno cominciato a discutere della crisi come originata dalla globalizzazione. Dico finalmente perché non credo che il problema della crisi vada visto in un’ottica di quantità o di tempistica, quan-to piuttosto in un’ottica di cause e di origini, e questo sta venendo fuori con grande intensità.

La mia idea è che la globalizzazione sia stata la conseguenza naturale di un fatto politico. L’origi-ne dei fatti risale a vent’anni fa con la caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989; oggi, a vent’-anni di distanza da quell’evento storico-politico, viviamo una fase della crisi. Ma venti anni, in sen-so storico, sono un tempo minimo, sono un tem-po breve. La storia della lunga durata, di solito, occupa decenni e decenni e l’avvicendarsi di una generazione con l’altra; mai nella storia dell’uma-nità fatti così intensi si sono verificati in un tempo così breve tanto da poter essere iscritti nella vita di un uomo. Certo, la storia dell’umanità ha vissuto fenomeni di grande e intenso cambiamento e, quindi, denominabili come crisi in senso alto, ma mai si sono esplicati in tempi così brevi.

La scoperta geografica dell’America, ad esempio, ha rotto il vecchio ordine chiuso del Continente, attivando delle meccaniche che si sono poi svi-luppate in tutti i domini, da quello religioso, a quello politico, agli assetti culturali e mentali del vecchio Continente, aprendo poi verso la grande rivoluzione. Ma si è trattato di un processo che ha richiesto tempi lunghi.

La scoperta, non geografica ma economica, dell’-Asia ha accelerato i tempi in un modo impressio-nante: nel 1989 cade il Muro di Berlino, nel 1994 con gli “Accordi di Marrakech” viene istituita la World Trade Organization e con essa viene defi-nita una nuova geografia politica; il mondo viene unificato in un’unica ideologia mercantile e, posi-tivamente, pacifica. L’11 dicembre 2001 viene firmato l’Accordo di ingresso dell’Asia nella World Trade Organization. Il tutto è avvenuto pertanto in tempi rapidissimi.

Nel 1995, ne “Il fantasma della povertà” ho tenta-to di identificare quelli che potevano essere an-che i lati oscuri del processo di globalizzazione che stava per essere forzato con una deterministi-ca a mio parere, non troppo illuminata, frutto di scelte politiche che hanno compresso ed esploso un processo che invece richiedeva tempi molto

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più lunghi. Ed ora paghiamo i conti di quelle scel-te. Con ciò non voglio dire che la globalizzazione doveva essere fermata, dico solo che è stata spin-ta in modo troppo frenetico e che il miracolo i-stantaneo della globalizzazione è stato finanziato con un eccesso di ricorso alla finanza. E adesso, anche nelle sedi internazionali più accreditate si comincia ad attribuire agli squilibri globali la ca-scata dei fenomeni ora in atto, che è un modo un po’ culto per dire quello che io ho cercato di dire in modo più semplice nel mio libro, parlando degli squilibri causati dalla globalizzazione. Che, in sé, è un processo totalmente positivo, mentre non completamente positiva è la scelta di tempi-stica e di tecnica con cui è stato portato avanti.

Per essere chiari, fino a qualche anno fa nel no-stro vecchio ordine continentale erano in vigore meccanismi di quote e di dazi imposti dall’Europa verso l’Asia, che gradualmente e con intelligenza sono stati eliminati; non sono stati cancellati di colpo, in base a una logica illuminata secondo la quale la nuova religione terrestre del mercatismo avrebbe dovuto portare l’umanità, per vie econo-miche e non per vie politiche nazionali classiche, alla felicità. Voglio usare un’immagine: con la globalizzazione si è aperto un oceano e 6 miliardi di persone avrebbero dovuto attraversarlo a nuo-to senza la “nave” degli Stati, cioè senza la politica. E’ questa l’ideologia che ha dominato gli ultimi anni, e certamente l’ultimo decennio; una ideolo-gia che negava la Politica, negava gli Stati e affi-dava tutto al Mercato, dischiudendo questo ocea-no di felicità progressiva e di benessere all’eserci-zio di nuoto individuale per 6 miliardi e oltre di persone.

Governi. Oggi stiamo assistendo al ritorno dei Governi, al ritorno della mano pubblica. E’ da molto tempo che io sostengo che è impossibile pensare o ragionare solo in termini di mercato. E adesso, finalmente, i Governi tornano ad assume-re il ruolo che a loro compete. Riprendendo l’im-magine dell’oceano, i Governi sono come navi che aiutano le persone ad attraversare una diste-sa d’acqua che altrimenti da sole non riuscirebbe-ro a percorrere.

Per tanti anni sono stato accusato di essere anti-mercatista – l’insulto più grave per chi oggi si occupa di economia – o di essere colbertista, aggettivo che fino a qualche tempo fa era consi-derato almeno in Italia con un’accezione negati-va. A me risulta, tuttavia, che la politica che sta portando avanti la Francia, e di cui parlava mi pare con apprezzamento anche Enrico Letta a

proposito dei 50 campioni, sia quantomeno lieve-mente colbertista. Noi, invece, abbiamo distrutto parte del nostro sistema produttivo affidandolo al mercato. Pertanto un’altra questione che dovrà essere posta è la seguente: siamo sicuri che le privatizzazioni che sono state compiute in Italia siano state fatte tutte bene ed abbiano avuto solo risvolti positivi, e non abbiano invece marcato alcuni elementi di riduzione dell’efficienza indu-striale del nostro Paese? Io non sono contro le privatizzazioni, ma ritengo necessario un atteggia-mento critico nel valutare i processi di privatizza-zione che sono stati portati avanti nel nostro Pae-se, in termini di quantità, di tempi e di modi. E la mia sommessa valutazione è che non tutte le privatizzazioni siano state realizzate nel modo giusto, andando a indebolire piuttosto che a raf-forzare il sistema produttivo industriale italiano, per lo meno in alcuni settori

Ma ritorniamo ai Governi.

Nel suo intervento, Enrico Letta ha fatto riferimen-to al fatto che in questa crisi “ha perso l’Europa comunitaria e quindi, forse, perderà l’Europa”. Io correggo in parte questo tipo di valutazioni, per-ché non credo sia colpa dei governi se si è regi-strato un relativo declino della capacità di valuta-zione della realtà e di intervento della Commissio-ne. Nel giugno del 2008, in occasione di un in-contro dell’Eurogruppo in cui era stata posta la questione relativa alla Northern Rock, la Commis-sione europea aveva ribadito la regola del divieto degli Aiuti di Stato dimostrando, a mio avviso, di essere fuori dal senso del tempo di una crisi che già aveva iniziato a manifestarsi; vietare l’interven-to del governo su Northern Rock era quantome-no un pochino fuori dalla logica comune. Per fortuna l’intervento su Northern Rock in seguito ci è stato, e vi sono stati poi tutti i successivi, e que-sto grazie all’intervento dei governi che sono sce-si in campo con il Vertice di Parigi che, abrogan-do la regola del divieto degli Aiuti di Stato nel settore bancario, ha consentito di ridurre una crisi che diversamente sarebbe stata drammatica. Le banche, infatti, dato il loro ruolo sistemico non devono e non si possono lasciar fallire. E se non ci fosse stato il Vertice di Parigi, organizzato su inizia-tiva di alcuni Paesi europei, questo probabilmente sarebbe successo, con tutte le conseguenze nefa-ste che ne sarebbero derivate.

Il Governo italiano aveva anche proposto di costi-tuire un Fondo europeo di salvataggio, ma pur-troppo tale proposta non è stata accettata da molti Stati che hanno preferito “fare per conto

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proprio”. Probabilmente oggi i governi di questi Paesi si sono pentiti di non aver accettato l’ipotesi più europea del Fondo comune di salvataggio avanzata dal Governo italiano: il valore di quel messaggio sarebbe stato molto più forte dei capi-tali messi in campo, e i governi nazionali avrebbe-ro potuto, forse, mettere a disposizione una quantità minore di capitali a sostegno delle pro-prie economie in difficoltà. In altre parole, con “meno” si sarebbe ottenuto di “più”, e in quel “meno” vi era naturalmente lo sforzo comune di tutti i Governi. Sono prevalse invece le scelte na-zionali, ma nell’insieme il Vertice di Parigi, con le decisioni che in esso sono state prese, è stato fortemente positivo.

Al Vertice di Parigi è poi seguito il G20 di Washin-gton, con il quale è apparsa una formula politica di gestione della crisi mondiale assolutamente straordinaria: i governi conservano la loro sovrani-tà ma concordano tutti insieme una politica di sostegno alle economie; quindi ciascuno per con-to proprio, ma tutti insieme in base a un indirizzo politico comune. Nel recepire tale formula politica è stata esemplare l’Europa che di ritorno dal G20 ha elaborato il “Recovery Plan Europeo”, il quale dopo poche ore è stato declinato da tutti i gover-ni europei, ciascuno secondo il proprio contesto. Il G20 marca quindi una novità straordinaria in termini di struttura e di azione politica, introdu-cendo un principio di governance mondiale, in base al quale ciascun Governo agisce autonoma-mente, ma in sintonia con gli altri Paesi del mon-do.

Infine l’ultimo G20 di Londra ha segnato un ulte-riore sviluppo dell’azione politica, segnatamente non azioni coordinate dei singoli Governi, ma una azione collettiva dei Governi tutti insieme. E la sostanziale trasformazione del Fondo moneta-rio internazionale in una Banca centrale globale sta proprio in questa logica. I finanziamenti con-cessi dal Fondo monetario sono stati decisivi, poi-ché hanno evitato che le criticità dei singoli Paesi lungo la fascia di crisi che va dal Baltico al Medi-terraneo avessero pericolosi effetti a cascata. La trasformazione del Fondo monetario internazio-nale in una Banca centrale globale renderà tutta-via necessarie alcune considerazioni in termini politici: anzitutto, cosa comporta in termini di “No taxation without representation” questo trasferi-mento delle scelte ai livelli superiori e non parla-mentari; ma anche che cosa vuol dire democra-zia in un contesto con queste caratteristiche.

Tornando all’Europa, ha ragione Enrico Letta

quando dice che nell’attuale fase storica stiamo assistendo ad un declino relativo della Commis-sione e a un rafforzamento del ruolo dei governi, che quindi il pendolo della storia è di nuovo pas-sato dal livello comunitario al livello governativo. Io penso però che la questione principale sia la presenza dell’Europa nel mondo: il mondo si sta organizzando in strutture, come il G20, che han-no molti elementi positivi – più positivi che negati-vi – ma quale posizione ricopre l’Europa in orga-nismi di quel tipo? Non credo che sia interesse dell’Europa entrare in strutture che hanno l’archi-tettura del Commonwealth, magari più Common che Wealth. Strutture di quel tipo, generalizzate e estese in quei termini, ridurrebbero drammatica-mente il ruolo dell’Europa se l’Europa continuas-se a presentarsi in quelle sedi separata e isolata, con ciascuno Stato portatore dei suoi particolari interessi e non portatore di una visione comune dell’Europa, come invece dovrebbe essere coe-rente col fatto che potenzialmente siamo l’area culturalmente, economicamente e politicamente più forte del mondo.

Infine le Regole. Non si può immaginare che le regole siano un optional. Le regole, trasmettendo fiducia, sono essenziali per uscire dalla crisi e per evitare che la fine di questa crisi sia solo la prepa-razione di una crisi futura. E quando parlo di re-gole non mi riferisco solo alle regole del mercato finanziario introdotte dagli operatori per organiz-zarsi secondo criteri comuni, ma mi riferisco alle regole politiche, alle regole giuridiche, nel senso alto e nobile del termine.

L’11 maggio, come Enrico Letta ben sa facendo anche lui parte della Commissione che prepara la Conferenza, si incontreranno a Roma i maggiori giuristi del mondo per una discussione in merito alla definizione del Global legal standard. Si tratta di un tentativo molto utopistico, se volete; ma meglio pensare in termini di utopia che non illu-dersi che la prassi sia sufficiente, preparando così la prossima crisi. Mettere intorno a un tavolo cul-ture politiche e giuridiche diverse di certo non è semplice: vi saranno evoluzioni, sviluppi, freni, accelerazioni. E’ il primo tentativo dopo tanti anni, ma la nostra speranza è di riuscire a definire, al-meno in termini generali, una tavola comune.

Dopo aver parlato di Mondo, ora mi soffermerò sull’Italia.

Attribuendo grande importanza ai numeri, mi permetto di sottolineare come, nel presente, i numeri dell’Italia non siano così negativi come, invece, sono stati presentati in tutti questi anni da

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una certa affittiva rappresentazione del nostro Paese. Il nostro Paese ha 60 milioni di abitanti e un Pil di tutto rispetto, che è pari alla somma di due grandi player di cui si dice essere il futuro del mondo. E’ un Pil fatto di produzioni più tradizio-nali – di abbigliamento, di calzature, di mobilio, di piastrelle ceramiche e via dicendo – ma è ben lontano dall‘essere il Pil più piccolo del mondo, nonostante non possa fare affidamento, ad esem-pio, sul petrolio.

E’ poi naturale perdere delle quote sulle percen-tuali del commercio mondiale dato l’ingresso di nuovi competitor sul mercato mondiale: volendo fare un esempio figurato, se la torta si allarga per l’entrata di nuovi competitor, o meglio, se la di-stanza da percorrere si allunga passando da 100 a 400 metri di percorso è irragionevole pensare di poter percorrere tutti i 400 metri alla stessa ve-locità con la quale prima si percorrevano i 100 metri. Questo per dire che non credo sia intelli-gente individuare nella contrazione delle quote di commercio mondiale dell’Italia il declino del no-stro Paese: la distanza aumenta, la torta diventa più grande e c’è quindi più spazio per tutti. E’ quindi naturale che le nostre quote di commercio mondiale si riducano.

Sul piano della crescita, negli ultimi anni alcuni Paesi ci avevano superato, ma ora è evidente che ci avevano superato in retromarcia, come bene ha messo in evidenza il libro di Marco Fortis.

Il libro di Fortis, partendo dall’estate del 2008 e arrivando grosso modo fino ad oggi, prende l’ar-co di vita del Governo, che è inferiore all’anno. Io, oggettivamente, non credo che le cose fatte dal Governo in questo arco temporale siano tutte negative; e il dialogo con l’opposizione è sicura-mente auspicabile se la discussione è paritetica – come lo è con Enrico Letta – ma è difficile ragio-nare con chi, ancor prima di iniziare la discussio-ne, chiede di firmare un capitolato di resa politica e ideologica incondizionata. Se ci fosse un atteg-giamento meno negativo, se la discussione fosse meno drammatica, più laica, più pacata, sarebbe di gran lunga positivo per tutti.

Faccio alcuni esempi.

L’opposizione non può chiedere la restituzione del fiscal drag quando, per la prima volta nella storia recente di questo Paese, il saggio di inflazio-ne programmata è superiore al saggio di inflazio-ne reale.

E ancora non può chiedere di cancellare la Robin Hood Tax con la motivazione che i prezzi dei pro-

dotti petroliferi sono scesi. Quando la tassa era stata introdotta si negava l’esistenza della specula-zione nell’andamento dei prezzi, sostenendo che il rialzo era dovuto a un problema di fondamen-tali. Ma ora, dopo che le quotazioni del petrolio sono passate da 80 a 140 dollari al barile, con future a 200 dollari, e sono poi ridiscese a circa 50 dollari al barile, si può ancora sostenere che all’o-rigine del rialzo dei prezzi vi fosse un problema di fondamentali, e non vi fosse invece dell’altro? C’era chi sosteneva che a causare l’aumento dei prezzi fosse stata la tassa sui petrolieri; ma adesso che i prezzi sono scesi, che ruolo si ritiene abbia giocato la Robin Hood Tax? Ha contribuito al rialzo dei prezzi? Ha contribuito alla loro riduzio-ne? O è indipendente da tutto ciò?

Nel nostro programma elettorale si parlava inoltre chiaramente di “una crisi che arriva e che si ag-grava”, e anche nel DPEF vi era la previsione di una crisi imminente. Ma l’opposizione sostiene che se davvero avessimo previsto l’arrivo della crisi non avremmo ridotto l’Ici. A parte il fatto che la riduzione dell’Ici era un impegno elettorale – e quindi in quanto tale andava mantenuto, anche perché nella stabilità politica vi è un fattore eco-nomico, e la stabilità politica implica realizzare ciò che è stato promesso – io l’Ici l’avrei ridotta in ogni caso. Dovendo infatti abbassare l’imposizio-ne fiscale, credo sia giusto partire da una tassa come questa, anche se l’opposizione la ritiene una tassa sulle case dei ricchi. Ma se così fosse, non capisco perché i nostri predecessori nel dise-gnare la curva delle imposte avevano previsto la detrazione per l’Ici su tutte le prime case.

Ma questi sono tutti dettagli. In vista della crisi, noi abbiamo cercato di fare le cose che ci sembrava-no giuste, mettendo in sicurezza i conti pubblici con una Legge Finanziaria triennale. Se non ci fosse stato questo meccanismo, l’esplosione della crisi ci avrebbe messo in grosse difficoltà. E anche grazie a questo intervento ora dall’estero valutano i conti pubblici italiani in maniera sicura-mente più positiva rispetto a qualche tempo fa. Indubbiamente c’è un deterioramento dei rap-porti (debito/Pil, deficit/Pil), ma ciò in dipendenza della mancata crescita, e quindi dei mancati getti-ti, e non in conseguenza di politiche sbagliate.

Da più parti ci chiedono di fare più deficit, ma io non credo che ciò sia consentito al nostro Paese, e non credo neppure che la cura di una malattia causata da un eccesso di debito consista nel fare ancora più debito. Ci chiedevano inoltre di detas-sare le tredicesime, ma a me non sembrava la

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scelta giusta perché il problema non era sostene-re i consumi, ma in generale aiutare chi ne aveva bisogno. E adesso mi sembra che ci sia un certo consenso in merito al fatto che quella di detassa-re le tredicesime era una scelta sbagliata.

Io sono stato demonizzato per l’introduzione del-la Carta Acquisti, perché si diceva essere uno stru-mento per marcare la povertà (ma allora non capisco perché la Family Card introdotta dal Co-mune di Bologna, che è sostanzialmente la stessa cosa, sia stata accolta favorevolmente dalle stesse persone che invece criticano la Carta Acquisti introdotta dal Governo). In realtà noi abbiamo semplicemente riprodotto un modello straniero di Carte di credito per il cibo, meccanismo che ades-so è purtroppo diffusissimo in America.

Sempre relativamente alla Carta Acquisti, ci han-no accusato di aver sbagliato perché l’abbiamo prevista per 1.300.000 soggetti, quando invece l’hanno richiesta solo poco più di mezzo milione di persone. Ma il problema è che in Italia non esiste una “banca dati della povertà” e i meccani-smi intelligenti costruiti negli anni ’90 per identifi-care la povertà – noti come ISEE – sono di una enorme complicazione. Bisognerà, quindi, proce-dere anzitutto con la creazione di una “banca dati della povertà”, partendo da un collegamento tra le banche dati fiscali e le banche dati dell’Inps, che ad oggi non esiste. Basti pensare a come spesso i decessi non vengano comunicati con tempestività all’Inps, al contrario di quanto avvie-ne con il fisco, con la conseguenza che non c’è mai una corrispondenza tra i numeri di decessi che risultano all’Inps e il numero di decessi che risultano al fisco.

In ogni caso, le risorse stanziate per la Carta Ac-quisti sulla base della stima di 1.300.000 soggetti in stato di necessità sono ancora disponibili e sa-ranno utilizzate in tale comparto, consapevoli che l’impatto della crisi è stato molto forte, soprattutto verso il basso. Tale strumento potrà essere miglio-rato con la discussione di tutti, con i Comuni, con il mondo del non-profit e del volontariato, tenen-do sempre presente l’importanza di sostenere i consumi, ma non come valore assoluto.

A mio avviso, infatti, uno degli aspetti positivi di questa crisi è proprio la scomparsa della figura politica del Consumatore, quale portatore di valo-ri superiori e sintesi globale del nuovo e moderno pensiero positivo e, conseguentemente, il riemer-gere della figura del Cittadino. Io conosco l’uomo e i valori spirituali; non riconosco invece il Consu-matore come entità superiore a cui prestare osse-

quio politico e democratico.

Per concludere, noi abbiamo cercato di mettere in campo politiche adeguate a superare la crisi che fossero compatibili con la nostra struttura di conti pubblici, e credo che i risultati raggiunti sia-no positivi. In caso contrario avremmo avuto tutti i giornali tapezzati di giudizi negativi sulla nostra politica, e le misure da noi adottate non sarebbe-ro state relegate alle brevi di cronaca.

Detto questo, il nostro è un Paese con importanti elementi di forza che stanno venendo fuori pro-prio con la crisi, non in assoluto, ma in rapporto agli altri Paesi:

1) l’Italia è un Paese che non ha grandi metropoli circondate da enormi e destabilizzanti anelli di periferia, ma ha oltre 8.000 Comuni e numerose piccole e medie città, ossia strutture sociali molto più forti e più capaci di assorbire l’impatto della crisi che non le banlieu o gli anelli di devastanti periferie;

2) l’Italia è un Paese che ha ancora la famiglia come struttura sociale portante, diversamente da altri Paesi in cui il ruolo sociale della famiglia è molto minore essendo più forte il ruolo sociale dello Stato.

Per molto tempo i Paesi nordici, con le loro strut-ture sociali fortemente incentrate sul ruolo dello Stato, sono stati portati ad esempio di modelli sociali evoluti; ad oggi, però, sono quasi tutti mez-zi falliti. Io tra il ruolo sociale dello Stato e il ruolo sociale della famiglia preferisco quest’ultimo, an-che se questo non significa che debba fare tutto la famiglia. E, infatti, a supporto della famiglia noi abbiamo l’Inps, con il sistema dei pre-pensionamenti che funzionano da ammortizzato-ri sociali, e le pensioni di invalidità che purtroppo negli ultimi anni sono cresciute anche in dipen-denza di una applicazione asimmetrica del fede-ralismo fiscale. Io non credo, quindi, che il model-lo sociale italiano sia così negativo come ce lo rappresentano. E credo che la riforma delle pen-sioni cui si è giunti attraverso le ultime legislature sia una buona riforma, che ha funzionato e sta funzionando. Riguardo agli armonizzatori sociali si possono introdurre delle varianti. Nell’emergen-za abbiamo aggiunto al meccanismo esistente quante più risorse potevamo, e credo che l’ag-giunta di 9 miliardi in 6 mesi non sia esattamente un intervento marginale.

C’è chi sostiene che la crisi sia il momento miglio-re per fare le riforme. A costoro io rispondo ri-prendendo le parole del Fondo Monetario Inter-

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nazionale: “le crisi non sono il momento per fare le riforme perché causano incertezza e paura in un momento in cui invece è fondamentale il fat-tore della certezza, il fattore della fiducia”. A meno che non siano assolutamente rinviabili per la drammaticità della situazione, come nel caso del sistema bancario in cui si è dovuto intervenire con radicalità.

3) L’altro punto di forza del nostro Paese è la sua struttura produttiva. Da noi la grande industria ha una dimensione particolare, che è quella dei di-stretti; i distretti, in altre parole, sono una forma di espressione della grande industria italiana. Com-plessivamente sono un centinaio, ed io, onesta-mente, non so se farei cambio con i 50 campioni nazionali francesi. L’ideale sarebbe forse avere un po’ degli uni e un po’ degli altri. Detto ciò, sui distretti occorre però lavorare molto, per rafforzar-ne la specificità, ferme le individualità che li ani-mano.

Nel nostro Paese vi è una quantità enorme di soggetti che lavorano nell’economia privata. In Italia le Partite Iva attive nel settore dell’industria sono 8.800.000, che è un numero straordinario. Naturalmente, in questo numero sono comprese anche Partite Iva “fittizie” aperte per poter trovare lavoro, e che quindi in quanto tali non sottinten-dono una autonomia nell’impresa. Ma in ogni caso esse sono un dato indicativo della forza e della vitalità del nostro Paese, senza con ciò nega-re i molti problemi che lo affliggono. In particola-re, da gennaio a fine aprile il saldo tra aperture e chiusure delle Partite Iva è stato pari a +177.000. E’ un dato positivo o negativo? Sicuramente è un dato di vitalità. E nella vitalità ci sono fattori di crisi, fattori di espansione, fattori di riduzione.

Per concludere, io credo che sia stata sbagliata la scelta politica dell’opposizione di puntare sulla crisi di sistema; non mi riferisco a Enrico Letta, ma a una grande parte dell’area politica avversa alla nostra che per molto tempo ha puntato alla rot-

tura di sistema, alla drammatizzazione; che ha guardato alla crisi come fattore catartico, ipotiz-zando che la crisi potesse prendere una intensità così forte da far cadere il Governo; commettendo, a mio avviso, un errore tecnico di valutazione e di analisi, trascurando i punti di forza del nostro Pae-se sopra menzionati.

L’Italia è dunque un Paese che ha delle chances per uscire dalla crisi. La retorica recita che se non si fanno le riforme si esce dalla crisi peggio degli altri; sempre in modo retorico, fino a poco tempo fa si è sostenuto che i Paesi che crescevano di più nel panorama internazionale erano quelli che avevano introdotto importanti riforme. Oggi inve-ce si è visto che i Paesi che crescevano maggior-mente in termini di Pil erano quelli che facevano più debito, debito privato e non pubblico. Anche l’Italia è cresciuta molto negli anni di esplosione del suo debito pubblico, ma quando nel 1992-93 ha iniziato la sua politica di contenimento del debito hanno iniziato a crescere gli altri Paesi, grazie all’incremento del debito privato.

L’Italia, a differenza degli Stati Uniti e degli altri principali Paesi europei, negli ultimi anni non ha basato la sua felicità sulle carte di credito, bensì sul risparmio e su tante altre cose, gestendo l’one-re enorme di un debito pubblico pregresso di cui tutti abbiamo la responsabilità collettiva.

Anche per questo io non credo che, una volta superata la crisi, l’Italia si troverà così spiazzata come ci hanno raccontato in tutti questi anni. Mettiamola così: essendosi dimostrate sbagliate tutte le previsioni passate, probabilmente sono sbagliate anche le analisi e le previsioni future. Quindi io proporrei all’opposizione di chiudere questa partita abbandonando la visione catastro-fica che contraddistingue parte di essa, accoglien-do la disponibilità a una discussione pacata come è venuta da Enrico Letta.

Grazie.

Giulio Tremonti

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Alberto Quadrio Curzio

Ringrazio molto Enrico Letta per le sue lucide valutazioni sulla situazione italiana passata e pro-spettica e il ministro Tremonti per questa sua ri-flessione così completa e articolata.

Gli interessanti contenuti degli interventi mi indu-cono, prima di passare la parola all’autore del volume, a una ipotesi, a una proposta che faccio al Dottor Quadrino: sarebbe molto interessante

riportare in un saggio le relazioni, le riflessioni odierne che credo sarebbero molto utilmente veicolate alla pubblica opinione più ampia del nostro Paese. Vedremo se i due relatori consenti-ranno ad accettare tali ipotesi.

La parola spetta ora a Marco Fortis, autore del volume.

Marco Fortis

Grazie Alberto.

Io sono veramente grato ai due ospiti, Enrico Letta e Giulio Tre-monti, per aver onorato la pre-

sentazione di questo mio volume con la loro pre-senza e con le loro analisi. Il mio intervento sarà breve. Perché il libro nel quale ho approfondito il tema della crisi economica e in cui troverete anali-si e statistiche più dettagliate vi è stato distribuito all’ingresso, ma soprattutto perché questa giorna-ta è stata organizzata principalmente per ascolta-re il punto di vista dei due autorevoli ospiti. Mi limiterò, dato che sono già stati ampiamente toc-cati da entrambi molti dei temi affrontati nel volu-me, ad evidenziare in estrema sintesi quelle che sono le mie convinzioni circa le capacità di resi-stenza del sistema socio-economico italiano in questa crisi, che già cominciano a manifestarsi da alcuni indicatori che, sia pure in forma embriona-le, stanno mostrando qualche segnale di ripresa.

A febbraio, per esempio, gli indici degli ordinativi dell’industria manifatturiera dell’Eurostat mostra-no rispetto a gennaio un rimbalzo significativo in due soli Paesi europei, l’Italia e la Francia. Gli indi-catori anticipatori dell’OCSE a gennaio e febbraio segnalano un inizio di ripresa per l’Italia. Questa mattina anche gli indicatori dell’ISAE sulla fiducia dei consumatori in aprile mostrano un rimbalzo.

Questo non significa che l’Italia sia già avviata ad uscire dalla crisi, così come del resto gli altri Paesi europei, Francia e Germania in testa, che meglio di noi stanno mostrando i primi segnali di ripresa di fiducia degli operatori, perché la crisi sarà sicu-ramente molto lunga da superare. Probabilmente abbiamo toccato il fondo della riduzione delle scorte dei magazzini che ha così pesantemente

influito sul ciclo della produzione industriale e del commercio mondiale; però la convalescenza do-po questa crisi così grave sarà certamente lunga.

L’Italia però affronta questa sfida con una serie di elementi di forza, che in parte sono già stati ricor-dati: tra questi, soprattutto, una grande capacità di risparmio ma anche un basso indebitamento delle famiglie, e una scarsa esposizione del nostro sistema bancario ai punti di maggiore tensione della crisi finanziaria internazionale; abbiamo visto per esempio che, secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, i crediti complessivi vantati dal sistema bancario italiano sugli Stati Uniti e sull’Inghilterra rappresentano a stento il 3-4% del nostro Prodotto interno lordo, mentre in altri Paesi si arriva a cifre introno al 40, 50 e addi-rittura 60%. E poi le nostre banche, lo ricordo, hanno certamente una vocazione retail, una vo-cazione alle attività tradizionali a supporto di fami-glie e imprese molto maggiore rispetto alle ban-che degli altri Paesi avanzati. E questo ha contri-buito a tenerle in qualche modo lontane dalle nuove frontiere dell’innovazione finanziaria che sono state, in gran parte, strumentali alla prolifera-zione dei cosiddetti “collaterali” legati ai mutui per l’acquisto della casa in America e in altri Paesi, e che poi sono stati un elemento scatenante della crisi.

Ma tra i punti di forza dell’Italia vorrei ricordare il sistema degli ammortizzatori sociali; le imprese, infatti, che in questo momento stanno soffrendo per cali negli ordini del 30-40% rispetto all’anno precedente (ma questo sta accadendo un po’ ovunque; si pensi, ad esempio, che in Germania i dati sugli ordinativi esteri dell’industria manifattu-riera di febbraio indicano addirittura un calo del -42%) trovano negli ammortizzatori sociali una

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Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano,  27 aprile 2009 17 

importante forma di supporto. A differenza di altri Paesi che stanno eliminando forze di lavoro con una velocità straordinaria – alcuni grandi gruppi mondiali del sistema sia industriale che finanziario, come noto, hanno operato tagli occupazionali di 10, 20, e anche 30mila posti di lavoro – nel no-stro Paese questo non si è verificato: secondo l’Istat nel periodo marzo-dicembre 2008 il nume-ro dei disoccupati in Italia è aumentato come in Irlanda, Paese con solo 4 milioni di abitanti, cioè sono stati persi poco più di 75.000 posti di lavoro.

Certo, il rischio è che adesso l’onda lunga della crisi possa premere sull’occupazione italiana, però gli ammortizzatori sociali stanno dando un grosso contributo in tal senso. E bisogna anche sottoline-are come fino ad ora non ne sia stato fatto un uso smodato. In particolare, le ultime statistiche dell’Inps relative al periodo gennaio-marzo di quest’anno dimostrano che a fare uso della cassa integrazione ordinaria sono soprattutto le provin-ce di grande impresa, ossia quelle più sottoposte allo stress della crisi, come le imprese metallurgi-che e le imprese dell’auto. La provincia di Torino, per esempio, ha avuto un numero di ore di cassa integrazione autorizzate pari a quelle dell’intero Nord-Est, pari quindi a quattro regioni. Ciò signifi-ca che nelle regioni di piccola e media impresa, e dove ci sono i distretti industriali, le imprese stan-no sforzandosi al massimo per continuare a lavo-rare e per non ricorrere a questi strumenti, alme-no finché ciò sarà loro possibile.

Credo, inoltre, che il sistema manifatturiero italia-no sia entrato in questa crisi in un momento di forza straordinaria. Prima che iniziasse la crisi, in-fatti, il nostro Paese era arrivato a toccare il suo record storico quanto a surplus manifatturiero con l’estero, a dimostrazione quindi che non sia-mo entrati deboli nella crisi; al contrario, vi siamo entrati forse con la maggior forza che abbiamo mai avuto nel secondo dopoguerra, pur scontan-do il declino o per lo meno le difficoltà che han-no incontrato alcuni settori tradizionali come il tessile-abbigliamento e le calzature in seguito

all’avvento della concorrenza asiatica. E’ quindi molto importante, come sottolineato anche dai nostri ospiti, che il nostro sistema pro-duttivo possa rimanere intatto, utilizzando tutti gli strumenti possibili che anche il sistema di ammor-tizzatori mette a disposizione, e ciò anche in con-siderazione del fatto che, pur essendo in regresso gli ordinativi e le produzioni industriali, le nostre quote di mercato in alcuni casi stanno parados-salmente aumentando, perché molti dei nostri competitor stanno sperimentando crisi molto più forti delle nostre. Dobbiamo quindi avere fiducia che, una volta superata, questa crisi potrà riproporre il modello di sviluppo italiano come un modello vincente, dove siamo forti, lo ricordo, non solo nell’industria ma anche nel turismo, che pure necessita di esse-re ristrutturato per esprimere tutte le sue poten-zialità. Il turismo è per noi una risorsa fondamentale. Io ricordo sempre che la provincia di Venezia da sola ha più pernottamenti di turisti stranieri dell’in-tera Irlanda, e che la provincia di Roma ne ha più di tutto il Belgio: abbiamo cioè delle grandi realtà del turismo mondiale, così come le abbiamo nell’-agricoltura e nei prodotti tipici. Credo quindi che non sia soltanto un ottimismo generico quello che ho cercato di descrivere ed illustrare in questo mio volume, quanto piuttosto una fiducia nel nostro modello di sviluppo indu-striale che io ho conosciuto non soltanto attraver-so le analisi e le statistiche, ma anche, in questi anni, con il contatto diretto con molti di voi. Oggi sono qui in sala i Presidenti e i Direttori di molte Associazioni con cui abbiamo tanto lavorato in questi anni con la Fondazione Edison. Vorrei rin-graziare anche loro per il contributo di notizie, informazioni ed esperienze che mi hanno dato e che hanno consentito la pubblicazione di questo lavoro. Vi ringrazio.

Marco Fortis

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Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano,  27 aprile 2009 18 

Alberto Quadrio Curzio

Chiudendo questa nostra mattinata così intensa ed estremamente interessante non voglio certo fare una sintesi. Vorrei usare il metodo tremontia-no con la chiosa su alcuni termini e concetti.

Innanzitutto credo che stamane sia di nuovo sta-to ricordato soprattutto agli economisti, categoria alla quale io appartengo, come nei grandi cam-biamenti non conta tanto l’aritmetica o la mate-matica, ma conta la storia, e bisogna tenere pre-senti quelli che taluno denomina “megatrend”. La matematica e l’aritmetica contano nella microeco-nomia, ma nella macroeconomia conta molto di più la storia. Sotto questo profilo trovo molto inte-ressante quanto ci ha detto stamane il ministro, tra cui anche la convocazione a Roma di una riunione dei grandi giuristi mondiali per dare cor-so a una ipotesi sul global legal standard; che ha avuto una Commissione Istruttoria Italiana della quale fa parte, e mi fa molto piacere avere senti-to adesso dal ministro, anche Enrico Letta. Le persone intelligenti e competenti, quali sono i nostri due relatori di stamane, non sono arrocca-te nella loro appartenenza partitica.

Una seconda breve osservazione riguarda l’Euro-pa: non trovo grandi differenze tra quello che ha detto Enrico Letta e quello che ha detto Giulio Tremonti. Credo che tutto sommato il ritorno al metodo intergovernativo sia dovuto a tante con-tingenze, ma non credo che la colpa sia imputa-bile all’Italia che ha fatto ben due proposte per rafforzare il contesto comunitario. A mio avviso è molto importante, tuttavia, riflettere a fondo sulle cooperazioni rafforzate senza le quali ho l’impres-sione che anche il metodo comunitario non po-

trà funzionare; così come ho l’impressione che vada ripresa la tematica del patto di stabilità, fortu-natamente flessibilizzato dopo un contenzioso nel 2003, e che tuttavia io credo vada rivisto per scor-porare dal lato spese del deficit quelle per investi-menti infrastrutturali. In ogni caso l’Europa rimane per tutti noi una grande realtà e l’Italia è stato un Paese federatore che certamente continuerà a svolgere un ruolo importante, ammesso che l’Eu-ropa stessa lo voglia.

Sull’Italia credo che tutti quanti abbiamo apprez-zato molto quanto è stato detto. E noi, per riassu-mere un po’ quello che mi pare sia anche il senti-mento della Fondazione Edison crediamo molto a quella formula ideale, che io ho spesso indicato, del liberalismo sociale o liberalismo comunitario, in cui solidarietà, sussidiarietà e sviluppo si coniu-gano in modo tale da valorizzare le peculiarità del nostro Paese tra cui una straordinaria capacità di innovazione informale che le statistiche non rile-vano. Ma per questa capacità innovativa, che nasce dal tessuto storico-comunitario dell’Italia, necessita per andare oltre di istituzioni migliori e di una formazione del capitale umano meno acci-dentale.

Grazie ancora ai due relatori. Spero la mia ipotesi, che è proposta per il dottor Quadrino e ipotesi per i due relatori, di predisporre un saggio che dia conto della giornata odierna possa avere se-guito.

Grazie davvero.

Umberto Quadrino a te la parola.

Umberto Quadrino

Grazie Alberto.

Nel salutare e ringraziare i relatori mi domando se nella sala ci sia un po’ più di ottimismo rispetto a quando siete entrati. L’ottimismo forse non nasce da nessun fatto nuovo che è stato detto oggi, però ha una ragion d’essere perché la straordina-ria analisi, questo grande affresco che ha fatto Giulio Tremonti rileva uno sforzo per cercare di capire qual è la realtà, cercare di interpretarla,

non solo nel contingente, ma in una prospettiva storica. Insomma, avere una persona che ci go-verna che ha questa passione e questa capacità di analisi mi rassicura e mi da un po’ di ottimismo. Così come ho colto come una nota di grande ottimismo la disponibilità di Enrico Letta a collabo-rare con il Governo in un momento così difficile. Con questo ringrazio tutti e due i relatori e vi salu-to, anche a nome della Fondazione Edison.