Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti - Andrea Vitali
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la Scala
ANDREA VITALI
Premiata Ditta
Sorelle Ficcadenti
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
Pubblicato in accordo con Factotum Agency, Milano
ISBN 978-88-17-07201-4
Prima edizione: febbraio 2014
Premiata Ditta
Sorelle Ficcadenti
Agli uomini di legge chiedo scusa,
chi scorre queste righe capirà.
Rabelais mi ha indotto a tanto.
Per così poco, principi del foro,
non fatevi la vita Amara.
Non datemi condanne, sorridete.
Il vostro umile servo, scribacchino.
GIOVENCA FICCADENTI
La sorella bella.
Alta, bionda, appariscente.
ZEMIA FICCADENTI
La sorella brutta.
A incontrarla di notte c’era da credere
che i morti ogni tanto uscissero dalla tomba.
PERSONAGGI PRINCIPALI
IL GEREMIA
In paese e in fabbrica, si mormorava
che gli mancasse qualche giovedì.
DON PRIMO
Il prevosto di Bellano.
Dalla sua poltrona consigliava
o sconsigliava matrimoni,
e alcuni li combinava.
REBECCA
La perpetua, convinta di vedere ovunque
il fiammeggiare del diàol bestia.
NOVENIO
Poeta fallito.
Scartato dall’esercito
perché aveva un coglione solo.
IL NOTARO
I preti non gli andavano a genio,
con loro non si combinavano affari lucrosi.
LA STAMPINA
Benedetta donna,
e prediletta dal Signore!
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Come, dove e quando l’avesse vista, lo sapeva il Signore.
Sta di fatto che, da quel momento, Geremia Pradelli non era più
stato lui.
Ormai c’era un Geremia di prima e un Geremia di adesso.
Quello di prima aveva trentadue anni, un viso lievemente asim-
metrico, spalle da muratore (sebbene dopo essere stato aiuto fornaio
alle dipendenze dei fratelli Scaccola fosse entrato alle dipendenze
del locale cotonifcio), fronte alta sulla quale spiccava, a destra, un
bozzo frontale, frutto di un colpo di scopa menatogli vent’anni prima
dal padre, capelli neri, ftti e irti.
Era fglio di Stampina Credegna e di Amerisio Pradelli. Dal padre
aveva preso le larghe spalle e l’asimmetria del viso. Dalla madre invece
i capelli e soprattutto il carattere. Che era docile, di buon comando,
tetragono alla fatica. Timoroso di Dio e dei suoi comandamenti che
avevano nella Stampina una rigorosa ed esemplare interprete.
Benedetta donna, diceva di lei don Primo Pastore, prevosto di
Bellano, e prediletta dal Signore!
Nel 1913 la Stampina s’era beccata il morbus hungaricus, come
il dottor Pathé incapace di rinunciare al vezzo di un aulico parlare
chiamava il tifo petecchiale, e l’aveva trasmesso al resto della fa-
miglia. A suo giudizio, più che la Carbotrofna, il Maxicalcium e il
Pantasol prescritti dal medico, era stata la fede a salvare lei e i suoi
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dalla disperazione e dalla morte. Aveva infatti pensato che se il suo
momento, o quello di uno dei suoi familiari, era arrivato, lei, come
loro, avrebbe dovuto serenamente accettare il destino.
Però quale fosse il suo destino non poteva saperlo, a meno di non
volersi presuntuosamente paragonare al Creatore. Quindi, scettica più
che mai verso gli intrugli tra l’altro costosi del Pathé, s’era rivolta alla
Madonna del santuario di lezzeno sopra Bellano, pregando affnché
aiutasse tutti e tre a superare la malattia. Se la sorte di qualcuno di
loro fosse invece ormai segnata, la Stampina aveva offerto suo marito
che, a sessant’anni, non aveva una giuntura che non fosse artrosica
e in casa era utile quanto un soprammobile.
Poi aveva suggellato la preghiera con un voto solenne di cui aveva
informato marito e fglio. Sul contenuto aveva mantenuto il segreto.
«A guarigione avvenuta, se guarigione ci sarà, ne verrete a cono-
scenza.»
Il primo a guarire era stato l’Amerisio. Tanta generosità dall’alto
dei cieli aveva convinto la Stampina che presto la stessa benedizione
sarebbe toccata anche a lei e al fglio, visto che l’uomo, senza l’aiuto
di loro due, sarebbe morto d’inedia. Così infatti era stato, dopodi-
ché la donna aveva svelato in cosa consistesse il voto: compattare
una squadra di cinque, sei donne che, al suo comando, avrebbero
settimanalmente provveduto alla pulizia della chiesa, intervenendo
anche nelle occasioni in cui, a causa di pioggia o neve, il pavimento
della prepositurale diventava lercio.
Il signor prevosto aveva accettato con vivo piacere quel servizio di
cui la sua chiesa aveva così tanto bisogno, ma il voto della Stampina
aveva previsto anche una parte da assegnare al fglio Geremia. Da quel
momento in avanti, lui e non altri si sarebbe occupato del giardino
della canonica al posto del sagrestano titolare, Aristide Schinetti, il
quale, a detta del dottor Pathé, soffriva di “artrite tattica” con effetti
collaterali devastanti su piante e fori. Il Geremia aveva accettato di
buon grado, e anche con un certo orgoglio, il compito di potare piante
e rose, rasare il prato, seminare fori, rinnovarli quando morivano e
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riparare muretti. Sarebbe stato un sagrestano perfetto, aveva più volte
pensato il signor prevosto, considerando quanto fosse preciso, forte
e anche nubile, condizione, quest’ultima, che aveva sempre ritenuto
non esclusiva ma comunque di buon augurio per chi si avviava alla
professione di scaccino.
E il Geremia, alla bella età di trentadue anni, era decisamente
avviato su quella strada.
Guardando lavorare madre e fglio, il prevosto tirava dei bei sospiri
e li lasciava tornare a casa solo dopo averli benedetti e assicurando
loro che il Signore, quel dì che veniva per tutti, li avrebbe degna-
mente ricompensati.
Oltre all’impegno con le verzure della canonica, il Geremia aveva
il suo bel lavoro, operaio al cotonifcio con prevalenti mansioni
atte a sfruttare la sua forza fsica: aiutava in magazzino, caricava e
scaricava i vagoni dei treni che portavano all’interno dell’opifcio
la materia prima e ne ripartivano carichi con i flati pronti per
essere defnitivamente lavorati. Non aveva vizi. Ne avesse avuti
gli sarebbe mancato il tempo per praticarli. finito il turno flava
diritto a casa per dare una mano alla madre, soprattutto per gestire
quel padre anchilosato che, quand’era in giornata, muoveva da sé
millimetrici passi, sennò bisognava caricarselo sulle braccia per
portarlo a letto, al cesso, a tavola per mangiare, imboccato dalla
Stampina.
Non erano pochi, in paese e in fabbrica, a mormorare che al Ge-
remia mancava qualche giovedì. Era infatti diffcile credere che un
uomo regolare di zucca e borsa potesse andar contento solo di casa,
chiesa e bottega.
fosse anche stato così, il giovanotto non aveva mai dato segno
che proprio quel giorno della settimana, così importante nel suo
destino, fosse latitante.
Mai un litigio, un battibecco, un atto di ribellione.
Questo prima.
Dopo, invece, dopo aver visto chissà dove, come e quando quella,
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il Geremia era diventato un’altra persona. Dentro la zucca gli erano
spuntate idee nuove e fantasiose.
la Stampina, passato un mese di patimenti, di preghiere, di invo-
cazioni, di penitenze e di nuovi, eccentrici voti, decise che da sé non
sarebbe riuscita a niente. le ci voleva un alleato, qualcuno che le desse
manforte, saggi consigli e, nel caso, agisse in vece sua per rimettere
il Geremia in carreggiata. E l’unico cui poteva pensare era il signor
prevosto. Una sera di fne novembre 1915 passò all’azione. Con una
luna in cielo che sembrava l’asola di una tonaca, il silenzio quello
di un cimitero, cimitero lo stesso paese, le cui rare fnestre ancora
illuminate sembravano il rifesso di una veglia funebre e ogni cosa,
case, alberi, fn l’acqua del lago parevano stretti nell’irrimediabile
gelo della morte, si incamminò alla volta della canonica.