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La perizia psichiatrica di Gianni Giordano Prefazione Se osservassimo con metodo storico comparativo il diritto oggettivo, inteso come "ordinamento giuridico, e pertanto, un insieme di norme (di condotta e di struttura, generali e individuali) che, nel rispetto e per la realizzazione di fondamentali valori, organizza un corpo sociale", (1 ) ci accorgeremmo che e il diritto sostanziale e quello processuale da sempre hanno avuto una considerazione "particolare" dei malati di mente, del loro stato di ridotta o assente responsabilità, con tutto ciò che ne deriva sul piano dei diritti loro riconosciuti e talora negati. Basterebbe citare solo alcuni esempi per suffragare tale affermazione: agli albori della storia di Roma i "fatui" e i "furiosi" se avessero commesso un reato non venivano puniti; nella legislazione giustinianea, erano causa di esclusione della pena la "dementia", la "insania", la "fatuitas", "la mania"; la Constitutio criminalis carolinae del 1532, le codificazioni del 1700, quelle illuministe, il code Napoleon, i codici pre-unitari, parlavano di "furiosi", di "alienati", di "dementia", di "pazzia" e il Codex juris canonici di Benedetto XV distingue la mentis exturbatio dalla mentis debilitas; in poche parole molti termini per indicare una sola condizione, la follia. I termini usati dal legislatore non sono casuali e riflettono le conoscenze e il sapere di un'epoca e quindi anche il sapere psichiatrico. Scorrendo il nostro codice penale del 1930 e civile del 1942, vi troviamo cristallizzato il sapere della psichiatria italiana dell'epoca. In quei codici vi è la visione positivista e organicista della malattia mentale propria della psichiatria italiana contemporanea alla redazione dei due testi normativi. Per anni è accaduto che diritto e scienza psichiatrica procedessero di pari passo; un connubio armonico che con il tempo è venuto meno. Da un lato, infatti, la legge, i codici, sono rimasti gli stessi, dall'altro, la concezione della malattia mentale è mutata come lo sono le strategie terapeutiche. Pensiamo al fatto che i manicomi sono stati chiusi, è nata la neurofarmacologia, è cambiato il volto della follia, i malati oggi sono "diversi" ma i codici sono

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La perizia psichiatrica

di Gianni Giordano

PrefazioneSe osservassimo con metodo storico comparativo il diritto oggettivo, inteso come "ordinamento giuridico, e pertanto, un insieme di norme (di condotta e di struttura, generali e individuali) che, nel rispetto e per la realizzazione di fondamentali valori, organizza un corpo sociale", (1) ci accorgeremmo che e il diritto sostanziale e quello processuale da sempre hanno avuto una considerazione "particolare" dei malati di mente, del loro stato di ridotta o assente responsabilità, con tutto ciò che ne deriva sul piano dei diritti loro riconosciuti e talora negati. Basterebbe citare solo alcuni esempi per suffragare tale affermazione: agli albori della storia di Roma i "fatui" e i "furiosi" se avessero commesso un reato non venivano puniti; nella legislazione giustinianea, erano causa di esclusione della pena la "dementia", la "insania", la "fatuitas", "la mania"; la Constitutio criminalis carolinae del 1532, le codificazioni del 1700, quelle illuministe, il code Napoleon, i codici pre-unitari, parlavano di "furiosi", di "alienati", di "dementia", di "pazzia" e il Codex juris canonici di Benedetto XV distingue la mentis exturbatio dalla mentis debilitas; in poche parole molti termini per indicare una sola condizione, la follia. I termini usati dal legislatore non sono casuali e riflettono le conoscenze e il sapere di un'epoca e quindi anche il sapere psichiatrico. Scorrendo il nostro codice penale del 1930 e civile del 1942, vi troviamo cristallizzato il sapere della psichiatria italiana dell'epoca. In quei codici vi è la visione positivista e organicista della malattia mentale propria della psichiatria italiana contemporanea alla redazione dei due testi normativi. Per anni è accaduto che diritto e scienza psichiatrica procedessero di pari passo; un connubio armonico che con il tempo è venuto meno. Da un lato, infatti, la legge, i codici, sono rimasti gli stessi, dall'altro, la concezione della malattia mentale è mutata come lo sono le strategie terapeutiche. Pensiamo al fatto che i manicomi sono stati chiusi, è nata la neurofarmacologia, è cambiato il volto della follia, i malati oggi sono "diversi" ma i codici sono gli stessi. Da anni la psichiatria italiana denuncia la discrasia tra legge e scienza psichiatrica, ma nulla è stato fatto al di là della presentazione di disegni di legge puntualmente naufragati. Queste pagine vogliono evidenziare il rapporto tra psichiatria e diritto in un ambito ben delineato: il diritto ed il processo penale.Sappiamo che anche il codice ed il rito civile, ai fini dell'interdizione e dell'inabilitazione, riconoscono l'importanza della sanità mentale, ma non sarà tema di queste pagine. Del diritto e del processo penale, saranno analizzati i concetti di imputabilità e di pericolosità sociale (2) e sarà descritto il mezzo attraverso il quale la psichiatria entra nel processo penale: la perizia psichiatrica. Di questa saranno evidenziati e i momenti processuali in cui s'inserisce, e il concreto svolgimento della stessa. Infine attraverso l'indagine sul campo (colloqui con psichiatri) si tratterà di cogliere lo stato d'animo con

cui i professionisti vivono quotidianamente il connubio non idilliaco tra diritto e psichiatria.

Note alla prefazione(1) La definizione di diritto oggettivo è di L.L. Vallauri ed è tratta da: Corso di filosofia del diritto. CEDAM.(2) La presente relazione tratterà il tema dell'imputabilità e della perizia. Per la parte relativa alla pericolosità sociale rinvio alla relazione di A. Marconi con cui ho collaborato nello studio della perizia psichiatrica.

L'imputabilità

1. Responsabilità penale ed imputabilità: rapporti e differenze concettualiElemento comune ai sistemi penali europei e non solo, è il concetto di responsabilità penale. Secondo tale concetto, che attiene la capacità di discernimento e di libera autodeterminazione, l'autore di un reato non può essere punito se incapace di "rispondere" dei suoi atti. In genere opera nei sistemi penali europei anche un meccanismo (diffuso nel diritto anche per altri istituti) di presunzione di responsabilità a partire da un'età limite. La legge penale individua poi i casi in cui la responsabilità è esclusa o per circostanze attinenti all'autore del reato (la sua persona ed in particolare le sue condizioni psichiche), ovvero a circostanze concernenti l'azione. Se, per esempio, guardiamo alla legge penale svizzera, la responsabilità è definita come la duplice capacità, al momento del fatto, di valutarne il carattere illecito e d'autodeterminarsi in conseguenza di quella valutazione. Un caso particolare è invece quello del Belgio e della Svezia due paesi nei quali il problema della responsabilità penale (dell'imputabilità) non si pone. In questi paesi, infatti, non rileva stabilire se il delinquente sia normale o meno, responsabile o irresponsabile, poiché i loro ordinamenti penali non forniscono definizioni di normalità, d'imputabilità e di responsabilità. Il solo problema che si pone è quale sia la sanzione più adeguata al caso concreto; è sufficiente che in ragione delle esigenze del diritto penale siano fissate le sanzioni, le pene, le misure di trattamento o di sicurezza adeguate alle diverse categorie di delinquenti. Oltreoceano, in talune legislazioni statunitensi, non è presente il concetto di responsabilità come lo conosciamo noi, ma lo stato psichico del soggetto può rilevare come circostanza attenuante particolare. (1) Per quanto attiene la nostra realtà normativa, il legislatore ha voluto distinguere responsabilità e imputabilità.Partiamo da un dato normativo, l'art. 42 c.p., il quale dice: "Nessuno può essere punito per un'azione preveduta dalla legge come reato se non l'ha commesso con coscienza e con volontà ... ". Secondo questa norma, la responsabilità penale dell'autore di un reato, s'identifica con il possesso della generica capacità di coscienza e volontà.La responsabilità penale è l'obbligo di sottoporsi alle pene stabilite dal codice in rapporto al compimento di un reato. La responsabilità penale presuppone l'aderenza del fatto concreto a quello tipico e può essere esclusa quando un soggetto, perfettamente "normale" dal punto di vista psichico, abbia commesso un illecito penale in condizioni di legittima difesa (art. 52 c.p.), ovvero in stato di necessità (art. 54 c.p.).Per quanto attiene all'imputabilità, questa è disciplinata dal nostro ordinamento in modo chiaro; occorre precisare che anche se l'imputabilità è indagata nel corso del processo penale, essa va sempre riferita al momento in cui fu commesso il fatto di reato per il quale si procede.L'imputabilità è definita come la capacità di intendere e di volere al momento del fatto (art. 85 c.p.). Ma cosa s'intende per capacità di intendere e di volere?La capacità di intendere è l'attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge intorno a lui e di cogliere il valore sociale positivo o negativo dei suoi atti; essa presuppone l'idoneità psichica di comprendere o discernere le proprie azioni od omissioni (art. 40 c.p.) ed i motivi della propria condotta. La capacità di intendere il valore prescinde dal sentire, dal

condividere, dal vivere il valore normativo del fatto e che è cosa diversa dal non intendere un fatto negativo, illecito.La capacità di volere è l'attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo, a scegliere tra i motivi coscienti in vista di uno scopo, di "volere" ciò che l'intelletto ha reputato doversi fare, di comportarsi coerentemente con tale scelta, di optare per la condotta che pare più ragionevole e resistere agli stimoli d'avvenimenti esterni. Appare chiaro quindi che il principio, il paradigma su cui si regge tutta la nostra impalcatura culturale, giuridica e morale, è il principio di responsabilità che ha come premessa la libertà dell'autore del fatto delittuoso. Se non ci fosse tale libertà non avrebbero senso la sanzione, la riprovazione sociale, l'idea di colpa, il concetto di devianza, quello di giustizia e di diritto. Corollario di tale principio, è quello reciproco per cui, può essere chiamato a rispondere di un fatto solo colui per il quale esista solidarietà con i propri atti. Il fulcro del nostro contratto sociale è quello secondo cui l'individuo è libero, quindi è responsabile e deve rispondere dei propri atti; se si presume esistente, nell'uomo, il libero arbitrio, ne deve conseguire la responsabilità morale del reo e ovviamente quella giuridica. È chiaro che l'elaborazione del concetto di responsabilità penale attiene le scienze umane ed in particolare è costruita sulle concezioni fondamentali della filosofia, della teoretica e della morale. Il concetto di responsabilità penale è oggi oggetto di revisione ma non si può pensare a rinunciarvi. Tuttavia occorre distinguere la responsabilità penale, che è concetto giuridico è alla cui definizione contribuiscono il diritto, la filosofia e la morale, dalla responsabilizzazione come esigenza primaria per la formazione e la socializzazione dell'uomo, come principio pulsore di ogni azione finalizzata alla sua realizzazione in ogni campo.

2. Imputabilità: meccanismi presuntiviIl nostro legislatore, a fronte dell'impossibilità di accertare in positivo la capacità individuale di agire altrimenti nel caso concreto e della difficoltà empirica di verificare il peso dei fattori antagonistici nel processo di motivazione, presume, nel genere umano, la libertà d'autodeterminazione del soggetto agente in assenza di cause che valgono ad escluderla, ovvero, ragionando in negativo, la libertà sussiste se non ci sono cause che la escludono. L'art. 85 c.p. ci dice che esiste un certo numero di soggetti che può tenere comportamenti alternativi e che quindi possono essere ritenuti responsabili dei loro atti. Tra gli estremi ideologici dati, da un lato da coloro che ritengono sempre responsabili i delinquenti e dall'altro coloro che ritengono gli stessi sempre irresponsabili, vi è la realtà dei molti responsabili e dei pochi irresponsabili. L'art. 85 c.p. individua il presupposto della responsabilità nell'imputabilità. Questa non è, riduttivamente, la capacità alla pena, ma la capacità alla colpevolezza e in subordine alla pena come conseguenza della colpevolezza. Senza imputabilità non vi è colpevolezza, senza colpevolezza non vi può essere pena (nulla pena sine culpa). Quindi l'imputabilità è l'attribuibilità di un fatto ad un soggetto ed è condizione, se ricorrono le altre previste dalla legge, per l'irrogazione di una pena propriamente detta; è d'obbligo tale precisazione perché al non imputabile non si applica la pena ma può applicarsi una misura di sicurezza se ne ricorrono i presupposti. La legge operando secondo un meccanismo presuntivo riconosce il soggetto maggiorenne, che ha compiuto i 18 anni, imputabile ovvero capace di intendere e di volere. L'uomo normalmente, secondo l'id quod plerunque accidit, è capace di libere scelte e perciò imputabile. Si ritiene che a quest'età l'uomo raggiunge un'adeguata

maturità psichica e per adeguata s'intende un livello di capacità di intendere e di volere che risulta sufficiente a rettamente recepire il comando ingiuntivo o interdittivo della norma penale e a conformarvi l'azione. Pertanto, deve darsi per scontato che i precetti penali siano concepiti avendo come destinatari tali soggetti, in poche parole, devono essere tarati sulle capacità psichiche di soggetti che abbiano superato i 18 anni. Accanto a questa presunzione, positiva e relativa, opera un'altra presunzione, negativa ed assoluta, quella relativa al minore d'anni 14. L'art. 97 c.p. afferma che " non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i 14 anni." Questo si spiega perché la capacità di intendere e di volere è la risultante dello sviluppo psicofisico del soggetto, alla nascita il patrimonio psichico è nullo e con il tempo si sviluppa fino a raggiungere (se la raggiunge) la maturità psichica. Quando la maturità è raggiunta, non è un dato certo ed inequivocabilmente affermabile con riferimento a tutti gli individui. Il legislatore per esigenze di certezza, semplicità, celerità ed anche d'uguaglianza (se pur uguaglianza formale), ha presupposto che tale maturità è conseguita con la maggiore età. Pertanto il maggiorenne è imputabile mentre il minore d'anni 14 non è imputabile. Non vi è nel nostro ordinamento un meccanismo d'accertamento in concreto ed individuale svincolato da presunzioni, ma un criterio cronologico che sulla base delle risultanze dell'esperienza e delle scienze, opera la duplice presunzione descritta. Vi sono poi i soggetti infradiciottenni che hanno compiuto i 14 anni; per questi soggetti, vige un meccanismo d'accertamento caso per caso, in concreto, dell'imputabilità. L'art. 98 c.p., infatti, dice che "È imputabile chi, nel momento i cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i 14 anni, ma non ancora i 18 anni, se aveva la capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita". Sebbene manchi un'esplicita presunzione circa la presenza o il difetto d'imputabilità, si deve ritenere che al fondo sussista un presunzione implicita (relativa) di difetto d'imputabilità nel soggetto che ha compiuto i 14 anni ma non i 18 anni. Ciò comporta che una sentenza di condanna nei confronti di un tale imputato, non preceduta dall'accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto per cui si procede, sarebbe carente in quanto a motivazione. Con gli infradiciottenni, lo scibile dei soggetti che possono venir a contatto con la giustizia penale è completo. Si tratta di valutare ora quali cause, quali fattori, possono incidere sulla valutazione dell'imputabilità nel senso di escluderla o attenuarla.

3. Le cause d'esclusione e di attenuazione dell'imputabilitàHo evidenziato i meccanismi presuntivi che operano nel codice penale, si tratta di evidenziare le condizioni per le quali queste vengono meno. Per il minore d'anni 14, la presunzione è assoluta e pertanto non esiste possibilità (per definizione) di prova contraria. L'infraquattordicenne è sempre non imputabile. La presunzione che opera rispetto al soggetto maggiorenne, è relativa il che vuol dire che è ammessa la prova contraria. Si presume che il soggetto maggiorenne sia imputabile ma esistono fattori che possono escludere o attenuare l'imputabilità. Tali cause, di cui (secondo il meccanismo negativo descritto) il giudice deve accertare l'assenza perché il soggetto sia imputabile sono:

1. i casi d'intossicazione acuta da alcol o da stupefacenti dovuti a caso fortuito o forza maggiore artt. 91 e 93 c.p.;

2. i casi in cui l'autore è stato reso da altri incapace di intendere o di volere;3. i casi in cui il soggetto presentava al momento del commesso delitto, un quadro

d'infermità tale da escludere, art. 88 c.p. o da scemare grandemente art. 89 c.p. la sua capacità di intendere o di volere;

4. il caso del minorenne che ha compiuto i 14 anni ma non ancora i 18, che per immaturità non aveva al momento del fatto, la capacità di intendere o di volere art. 98 c.p.

Se si esclude quest'ultimo caso, per il quale si tratta di verificare lo sviluppo psico-sociale, in tutte le ipotesi citate, si tratta di casi d'incapacità di intendere o volere riconducibili ad un'infermità mentale a sua volta produttiva di vizio totale o parziale. È ovvio che il giudice il quale nutra dubbi sulla sanità mentale del soggetto, indagato o imputato, si avvarrà del perito o di un collegio di periti perché sia svolta perizia e sulla base del parere peritale possa decidere formulando un giudizio.In merito alle cause d'esclusione dell'imputabilità devo dire che, in alcuni autori, suscita più di un dubbio il fatto che superato lo scoglio dell'età vi sia ancora spazio per la non imputabilità per vizio di mente. Per taluni questo vuol dire dare al giudice e al perito il potere di espropriare il soggetto della qualità di persona anagraficamente adulta, ripristinando l'equazione amens-infans ricorrente nella trattatistica. La pronuncia di difetto d'imputabilità non solo deresponsabilizza ma ha anche un effetto deleterio in termini terapeutici in quanto accresce il distacco dalla realtà, il senso d'onnipotenza, spinge in senso opposto all'integrazione intrapsichica, approfondisce il disturbo di partenza. Il proscioglimento per vizio di mente, per Manacorda, renderebbe ancor più disturbata una persona. Da qui la proposta di abolire la nozione di imputabilità, almeno con riguardo a coloro che hanno superarto l'età limite dei 14 anni. Sopra i 14 anni sarebbero tutti imputabili e il problema della malattia psichica rileverebbe ai fini dell'esclusione del dolo o della colpa e ciò nei casi di reale incapacità di intendere e di volere. Nelle ipotesi di deliranti di gelosia o persecuzione, per esempio, poiché queste non escludono la capacità d'intendere e di volere, si tratterà di tenerne conto nell'irrogazione della pena. Manacorda suggeriva anche di prevedere un meccanismo per il quale, nei casi di minorata contrattualità sociale accertata rigorosamente, sia disposta una riduzione di pena, purché non si tratti di un meccanismo che operi in modo indiscriminato per i portatori di disturbi psichici ma aperto alla considerazione degli altri fattori, sociali, economici, culturali, fisici e personali, che incido sulla contrattualità sociale diminuendola.Ho indicato le cause che valgono ad escludere o attenuare la capacità di intendere o di volere per il nostro codice, ma non vuol dire che al di là di queste la capacità giuridica coincida con quella naturale e la normativa di cui all'art. 92 c.p. sull'ubriachezza ne è testimonianza. Nel caso di incapacità procurata al fine di commettere un reato, non solo non si fa questione di imputabilità esclusa o ridotta, ma la pena è aumentata.Per pure ragioni di completezza cito anche l'art. 96 c.p. relativo al sordomutismo: il sordomuto se a causa della sua infermità non era, al momento del fatto, capace di intendere o volere, non è imputabile, e se tale capacità era gravemente scemata, la pena è diminuita. L'udito ed il linguaggio sono importanti per lo sviluppo psichico e pertanto se il sordomutismo è causa di incapacità il soggetto non è imputabile (ciò non toglie che se pericoloso si applichi la misura dell'O.P.G.), se capace è un soggetto come gli altri e quindi

imputabile, se scemata la pena è ridotta. (2) Appare delinearsi quindi lo spazio in cui si inserisce la psichiatria forense; nel quadro delle presunzioni legali, vi è lo spazio per le eccezioni al principio generale della sussistenza della capacità di intendere e volere, e sul ricorrere o meno di questa, è chiamato a pronunciare il suo parere il perito. L'eccezione è rappresentata dall'individuo, indagato o imputato, malato di mente, o meglio, da colui che a ragione di infermità ha visto abolita o grandemente scemata la capacità di diritto penale.

4. La nozione di infermità: staticità giuridica di un termine scientificamente superatoSi è molto discusso, specie da parte degli psichiatri forensi, sulla normativa italiana che prevede il riconoscimento di un'infermità che escluda o limiti grandemente la capacità di intendere o di volere al momento del reato. Il concetto di infermità, oggi che ha perduto il legame che aveva in passato con il termine follia, è divenuto vago e indeterminato ed ha perduto per la psichiatria ogni valore da quando si è scoperto, si è preso coscienza, che il disturbo mentale non è solo malattia, ma è un'entità complessa, non definibile, in ordine alla quale vi sono poche certezze circa l'eziologia e che in definitiva è la risultante di una condizione sistemica nella quale concorrono il patrimonio genico, la costituzione, le vicende di vita, gli stress, il tipo d'ambiente, l'individuale plasticità dell'encefalo, i meccanismi psicodinamici, la peculiare modalità di reagire, di opporsi, di difendersi. Oggi non esiste più la malattia mentale nel senso antico del termine e nessuno psichiatra potrebbe onestamente darne una definizione; oggi esiste una visione plurifattoriale integrata della malattia mentale. Per quanto attiene alla nozione di infermità, questa è oggi intesa o in senso ampio, che permetta di includere ogni tipo di disturbo che incide sullo stato di mente, o in senso restrittivo e tale da comprendere solo i casi di vera e propria psicosi o condizione psicologica equivalente. Oggi è come se si fronteggiassero due diversi orientamenti in tema di valutazione psichiatrica forense: uno auspica un sempre più stretto vincolo ed un maggior rigore nosografico e l'altro, che ritiene che il giudizio sull'imputabilità prescinda in gran parte dalla nosografia. (3) La nosografia è lo studio puramente descrittivo delle malattie ed il criterio nosografico differenzia rigorosamente i vari disturbi in funzione della formulazione delle diverse diagnosi. Dalla diagnosi derivano poi rigorose conseguenze in ordine alla prognosi, alla terapia, e per quanto c'interessa, alla responsabilità, all'imputabilità, alla pericolosità. Il criterio nosografico, che dovrebbe conferire certezza, in realtà non risolve il problema della traduzione della diagnosi in valutazione psichiatrica-forense ed è alto il rischio di una trasposizione arbitraria e pericolosamente allargata dell'incapacità di intendere e di volere. Il riferimento è al tentativo di forzare l'etichetta nosografica per farvi rientrare tutta una serie di situazioni (comportamenti improvvisi, apparentemente immotivati o che rivelano sproporzione fra motivo e azione, incongrui rispetto allo stile di vita, e che si verificano magari senza un segnale di preavviso in termini di psicopatologia dell'autore) e per le quali l'etichetta di stati emotivi e passionali ex art. 90 c.p. va stretta. Il legislatore ha voluto operare, nel disciplinare l'imputabilità, una distinzione tra le cause patologiche e quelle non patologiche escludenti o grandemente scemanti la capacità di intendere e di volere ed ha escluso, per ragioni pedagogiche, gli stati emotivi e passionali; l'uomo, se non è malato, deve controllare i propri istinti. L'articolo 90 c.p. non fa che dire che questi stati non sono rilevanti di per sé, se non riconducibili ad

un'alterazione mentale patologica che abbia il valore di infermità. Se è così allora lo psichiatra, se vorrà, potrà aggirare il divieto dell'art. 90 c.p. affermando che, in una data fattispecie, non si trattava semplicemente di stati emotivi e passionali ma di una condizione ove l'ansia, la passione, l'ira hanno agito "con modalità patologica avente valore di malattia" ovvero "secondo un meccanismo morboso o come un'infermità transitoria". Questo accade perché lo psichiatra forense opera secondo convenzioni più che secondo convinzioni; si trova a dover seguire i capricci di una giurisprudenza che mutati i vecchi paradigmi di riferimento, sembra voltar gabbana secondo l'autorevolezza o persuasività del perito con il rischio che il perito faccia il giudice concedendo o meno il vizio totale o parziale. La nosografia, che avrebbe dovuto creare una situazione di certezza ed univocità di giudizi, ha portato invece a far rientrare dalla finestra situazioni che si erano volute escludere ope legis, ma non solo, è accaduto che una stessa denominazione nosografica talvolta gravasse ed altre no sull'imputabilità. (4) È chiaro allora che ciò che ha portato alle critiche verso la nosografia psichiatrica, è il fatto che da un lato sia troppo ampia e rischia di non essere praticabile in ambito forense, con il pericolo di ricomprendere situazioni magari abbisognevoli di cura e trattamento ma non tali da escludere l'imputabilità, e dall'altro, troppo stretta e rigida talché vi sono situazioni non inquadrabili in una denominazione nosografica preesistente e si coniano neologismi del tipo, raptus, reazione a corto circuito, discrontrollo episodico, o alla forzatura, poco rigorosa, di termini psichiatrici come il disturbo borderline di personalità. Ciò non vuol dire che deve essere abbandonata la nosografia, perché un riferimento terminologico uniforme è necessario e da qui l'indicazione ad avvalersi della nosografia dei DSM (DSM III-R, DSM IV) senza trarre però da essa immediate conseguenze sul piano medico-legale. D'altronde che sia superato il rigido inquadramento nosografico con il giudizio sull'imputabilità è dimostrato dal fatto che, per esempio, la psicosi non è di per se ragione d'incapacità e la nevrosi non porta necessariamente all'imputabilità. Oggi ciò che accade nella valutazione richiesta al perito, è che non si ha la ricerca di una malattia da cui trarre conseguenze sul piano della capacità o meno di intendere e di volere, ma che si ricerchi il residuo spazio di libertà nell'individuo. Il perito valuta la capacità di intendere e di volere e quando la ritiene compromessa, formula il giudizio sul vizio di mente e se il periziato è portatore di un disturbo che rientra nella nosografia psichiatrica, lo mette in rilievo. Ove non esiste la possibilità d'incasellamento nosografico, adatta la nosografia studiata per la clinica, allo scopo di renderla utilizzabile ad un diverso fine. Allora il riferimento all'infermità, di cui agl'artt. 88 e 89 c.p., è nominalistico. Ciò che rileva è che sia intaccata la capacità di intendere e di volere, poi, il nome della malattia che la inquina diviene secondario. Ecco perché si afferma che il concetto d'infermità non ha più confini ed è divenuto evanescente. Ciò significa che il procedimento logico descritto dal codice, non è di fatto praticato ma rovesciato completamente. Il codice vorrebbe si cercasse l'infermità e verificare se è abolita la capacità di intendere e di volere; nella prassi avviene che si ricerchi questa e se compromessa al momento del fatto, se ne inferisce un'infermità, anche prescindendo dall'inquadramento nosografico oppure forzandolo. Il riferimento nosografico allora è inutile o utile solo per omogeneità di linguaggio.Bandini ha affermato che sarebbe opportuno staccarsi dal momento diagnostico nosografico, in altre parole, evitare un metodo che preveda l'utilizzazione di una rigida nosografia psichiatrica la quale condurrebbe ad

artificiosi e facili parallelismi tra specifiche diagnosi e conclusioni sull'imputabilità; sono, infatti, frequenti i casi in cui il cosiddetto malato di mente, compie un reato in una condizione che gli permette di comprendere il significato del suo atto e di determinarsi di conseguenza, così come non infrequenti i casi in cui una sindrome nevrotica, costituisce un'infermità tale da escludere la capacità di intendere o di volere. In psichiatria forense sarebbe quindi opportuno, considerare non tanto la malattia, quanto la sindrome od il singolo sintomo psicopatologico, cogliendo di tale sintomo i principali aspetti eziologici, di gravità, d'aderenza o meno al reale, di consapevolezza critica, d'adattamento sociale, valutando in che modo e grado tale sintomo incide sulla capacità di volere del soggetto. Non è stata esente da critiche anche la scelta del legislatore di collegare la patologia mentale alle due capacità di intendere e di volere. Non solo è criticata l'artificiosa separazione delle due capacità, ma anche la connotazione più metafisica che scientifica della capacità di volere. Bernheim ha rilevato come la capacità di volere è difficilmente collegabile ad una valutazione clinica in quanto è connotata da assunti morali, è la risultante d'interazioni e dinamiche psicologiche complesse, all'interno delle quali è spesso impossibile sondare gli aspetti normali da quelli patologici. Da qui deriva la richiesta dei clinici di limitare l'accertamento alla sola capacità di intendere e cioè di quell'attitudine del soggetto autore di un reato, di discernere rettamente i fatti secondo un pensiero coerente, di avere la consapevolezza dei suoi atti e di prevederne le conseguenze. Lo psichiatra sembra in grado di ricercare come l'autore di un reato si sia rappresentata una situazione, in che grado abbia avuto coscienza del carattere delittuoso del suo gesto. Infine, criticata sul piano clinico, è la nozione di vizio parziale di mente. Difficilmente definibile in clinica, è una nozione che si presta e si è prestata a strumentalizzazioni in ambito giuridico. Sembra quindi potersi affermare che al di là del formalismo legale e di un'interpretazione letterale del termine infermità nel codice penale, il perito deve sempre procedere in modo rigoroso e con parametri scientifici all'accertamento delle capacità, ma non può escludere dal concetto d'infermità disturbi che in realtà possono (anche se in rari casi) assumere un rilevante significato patologico. La psichiatria pertanto non sa precisare cosa si deve intendere per malattia mentale e per infermità. Non è un caso che, di fatto, la psichiatria ha rinunciato a tale termine e parla di disturbi. La psichiatria li conosce, li classifica, li cura ma non li definisce, come non definisce la sanità mentale. Non esiste una soddisfacente definizione che specifichi i confini del concetto di "disturbo mentale". Ciascuno dei disturbi è concepito come "una sindrome o modalità comportamentale o psicologica clinicamente significativa, che si manifesti in un individuo e che tipicamente associata o con un malessere attuale (sintomo dolore), o con menomazione (alterazione di una o più aree del funzionamento), o con un rischio significativamente aumentato di andare incontro a morte, o dolore, a invalidità, o a un'importante perdita di libertà" (DSM III-R). Il disturbo è dunque più semplicemente "la manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica o biologica nella persona" (DSM III-R).La valutazione dei fattori che valgono ad escludere (art. 88 c.p.) o a scemare (art. 89 c.p.) tale capacità, rientra nei compiti della psichiatria forense attraverso la perizia psichiatrica. Già si potrebbe porre un punto fermo (che poi nel proseguo dell'indagine risulterà non essere proprio tale): il compito del perito psichiatra è valutare l'imputabilità e non la responsabilità.

Note al capitolo 1(1) A questo proposito Morris, ha affermato che non vi è motivo per cui lo stato mentale non debba essere considerato alla stregua di altre condizioni, quali l'appartenenza ad ambienti familiari depravati o la residenza in ambienti urbani marginali, e propone di considerare il disturbo psichico nel sistema delle attenuanti.(2) Resta ferma la previsione di cui all'art. 219 c.p. per l'applicazione della misura della casa di cura o libertà vigilata.(3) In psichiatria forense l'inquadramento nosografico non aiuta più di tanto; il termine di riferimento è un altro. Il giudizio in tema di incapacità di intendere e di volere non è, almeno nel nostro sistema, un giudizio solo tecnico, una mera diagnosi psichiatrica, bensì una valutazione attinente allo spazio della residua libertà (o responsabilità morale) del singolo (Ponti, Merzagora, 1986).(4) Gli stati emotivi e passionali, che ai sensi dell'art. 90 c.p. non escludono né diminuiscono l'imputabilità, possono eccezionalmente aver rilievo, ai fini dell'eliminazione e dell'attenuazione della capacità di intendere e di volere, solo quando, esorbitano la sfera puramente psicologica, degenerando in un vero e proprio, anche se transeunte, squilibrio mentale, tale da obnubilare ed attenuare la coscienza e da paralizzare in toto e notevolmente i freni inibitori e, con essi, la volontà (Cass. Pen., 6 giugno 1972).

Il contributo della perizia psichiatrica alla valutazione della responsabilità penale

1. Duplice ruolo della psichiatria tra presente e futuroIl ruolo della psichiatria nel processo penale può essere inteso secondo molte prospettive; al di là del suo ruolo istituzionale di identificare nell'autore di un reato l'eventuale presenza di una malattia mentale, all'esperto psichiatra (psichiatra forense) è chiesto di fornire suggerimenti sul trattamento da attuare, di occuparsi della risocializzazione dei condannati, talora di contribuire, con il giudice, alla ricerca della verità. Vi sono due ruoli che rivestono particolare importanza:

1. il ruolo di "frenatore" che mira a frenare appunto la tendenza alla deresponsabilizzazione del colpevole affetto da una qualche patologia mentale;

2. il ruolo di "traduttore" ovvero di colui che trasferisce, divulga nel mondo del diritto e dell'amministrazione della giustizia, i contenuti della psichiatria moderna.

Per quanto attiene il primo ruolo, possiamo definirlo come la reazione al processo decennale di riduzione dello spazio di responsabilità individuale cui si era accompagnata un superamento della visione retributiva della pena e all'innesto della finalità rieducativa divenuta poi preminente. Il criminale era un malato che andava curato e rieducato. Oggi si assiste ad un percorso inverso: la prospettiva rieducativa è entrata in crisi ed il contenuto retributivo della pena ha preso nuovamente spazio. (1) La psichiatria moderna può svolgere questo ruolo di frenatore perché ad essa è attribuito il compito di decidere chi è imputabile e chi no; la psichiatria dovrebbe tracciare la linea tra sanità ed insanità, e lo psichiatra diviene arbitro del processo di attribuzione della responsabilità. La psichiatria però non è una scienza astratta, neutrale, almeno non lo è stata per molto tempo risentendo delle correnti culturali ad essa coeve e ciò a fatto sì che per anni si seguisse la tendenza alla deresponsabilizzazione, e che sul piano giuridico si è tradotta in indulgenzialismo e permissivismo. Oggi è venuto il momento di cambiar rotta e se in passato si è abusato di una

vecchia nosografia che consentiva, attraverso un processo di etichettamento, di dichiarare pazzi e quindi non responsabili gli autori di reati, con contrazione dello spazio di responsabilità, è venuto il momento di rivedere quest'impostazione. Non si tratta di invocare la "mano pesante" in modo indiscriminato e demagogico, ma di ristabilire il principio etico-sociale della punizione per cui ciascuno deve rispondere dei propri atti. Il concetto di "diritto mite", con la proposizione di pene alternative al carcere, non vuol dire abusare dei concetti di non imputabilità e di incapacità di intendere e volere. Ecco allora che lo psichiatra può far molto per recuperare lo spazio di responsabilità perduto ma per fare questo deve recuperare autonomia rispetto ai giudici e alle sollecitazioni che da loro provengono; (2) il perito non deve farsi manipolare ed avallare soluzioni suggerite da esigenze di giustizia e deve respingere connivenze e confusione di ruoli. Ecco allora emergere il secondo ruolo, quello di traduttore. Deve essere lo psichiatra ad illuminare il giudice, la giustizia, circa i nuovi contenuti del sapere psichiatrico trasferendo o rendendo partecipe anche il diritto del processo di riduzione dello spazio di irresponsabilità. La percezione del malato di mente, anche la percezione sociale, è mutata e se in psichiatria non si accetta più il sillogismo malato di mente-irresponsabile, non si capisce perché permanere nel diritto. Il giudice deve comprendere che ci sono i buoni e i cattivi anche tra i malati di mente e che, al di là dei rari casi di irresponsabilità, i più ben possono comprendere il disvalore di certe condotte e conservano un margine di autodeterminazione che consente loro di scegliere fra giusto e ingiusto, lecito ed illecito e quindi possono rispondere di fronte alla società delle loro scelte. Alcuni vecchi stereotipi positivisti, permangono nel diritto e spetta alla psichiatria contribuire ad abbatterli.

2. La perizia psichiatria nel processo penale

A) Nozione giuridicaTracciare i confini entro cui la perizia psichiatrica si colloca nel nostro procedimento penale presuppone la conoscenza della natura giuridica e delle finalità della perizia nella sua accezione più ampia. La perizia ha la duplice natura di mezzo di prova e di mezzo di valutazione della prova. Essa occorre quando è necessario svolgere una valutazione che richiede competenze tecniche, scientifiche o artistiche. La perizia adempie a tre funzioni che richiedono, per essere esercitate, specifiche conoscenze:

%6%. svolgere indagini per acquisire dati probatori%6%. acquisire gli stessi dati selezionandoli e interpretandoli%6%. acquisire valutazioni sui dati assunti (art. 220 1º C.P.P.).

L'art. 220 C.P.P. dice che la perizia è ammessa quando "occorre svolgere indagini". La dottrina, ha interpretato tale espressione, tra l'altro diversa da quella dell'art. 314 C.P.P. abrogato che parlava di "necessarietà della perizia" limitandone quindi l'ammissibilità, nel senso che il giudice sia obbligato ad ammettere e a disporre anche d'ufficio la perizia (art. 224 1º c.p.p.), se si trova nelle condizioni di non poter svolgere indagini o accertamenti sulla base delle sole sue competenze. La giurisprudenza, da parte sua, ha sempre affermato la discrezionalità della perizia come mezzo di prova per cui anche a fronte di pareri tecnici e di documenti addotti dalla difesa, la scelta del giudice di merito di disporre indagine specifica è discrezionale. La scelta del giudice di disporre o

meno la perizia sia che l'attività indagatrice conduca ad un parere, sia che sia diretta alla costituzione di una certezza, è discrezionale. Tornando alla natura giuridica della perizia, il codice la colloca tra mezzi di prova insieme alla testimonianza, l'esame delle parti nel dibattimento, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziali e i documenti; la perizia quindi, fornisce elementi direttamente utilizzabili a fondamento della decisione. I mezzi di ricerca della prova, le ispezioni, le perquisizioni, e le intercettazioni telefoniche, sono finalizzati ad acquisire cose, tracce, documenti, ed elementi che hanno attitudine probatoria. La perizia non è tanto una prova quanto elemento della stessa per la componente valutativa che la contraddistingue. Attraverso la perizia il perito fornisce al giudice le competenze tecniche che gli mancano. Il perito fornisce al giudice, attraverso la perizia, un giudizio sui dati e gli elementi già acquisiti. (3) Per quanto attiene la scelta del perito, si è dibattuto molto in ordine al criterio da utilizzarsi per la sua nomina. La scelta è un'attività critica comparativa, il giudice sceglie tra più soggetti quello ritenuto più idoneo all'incarico. Una scelta affidata liberamente al giudice, per alcuni, sarebbe contraria all'indipendenza del suo giudizio, ma d'altro canto, l'affidamento della scelta alle parti suscita altrettante perplessità. Esistono tre criteri praticabili per la nomina del perito:

1. una scelta vincolata rispetto all'oggetto dell'indagine;2. libera scelta entro un albo;3. libera scelta anche fuori dall'albo.

Il vecchio codice di rito, prevedeva la libera scelta del giudice il quale doveva solo aver riguardo alla competenza specialistica del perito (314 c.p.p. abrogato).L'art. 221 c.p.p. preoccupandosi in particolar modo della competenza e qualificazione del perito cui la perizia è affidata, ha operato la scelta per il criterio della nomina di un professionista iscritto ad un albo professionale, individuando nell'iscrizione una garanzia di professionalità. Tuttavia è ammessa, in via sussidiaria, il ricorso a "esperti di particolare competenza" e "se le valutazioni risultano di notevole complessità o richiedono distinte conoscenze in differenti discipline, il giudice può disporre perizia collegiale". Infine, se la perizia è nulla, l'art. 221 c.p.p. dispone che se è possibile, "l'incarico deve essere affidato ad altro perito". L'incarico è conferito tramite ordinanza, questa fissa il giorno per il conferimento dell'incarico peritale e l'espletamento di alcune formalità rituali. L'incarico è conferito in presenza del P.M. e dei difensori di parte. Il perito declina le proprie generalità ed il giudice verifica l'assenza di cause di incompatibilità o di incapacità dello stesso, quindi lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale, ed il perito a questo punto è chiamato a rendere la dichiarazione sostitutiva del giuramento di cui all'art. 326 c.p.p. abrogato. Gli articoli 222 e 223 c.p.p. stabiliscono le cause di incapacità, incompatibilità del perito e quelle di astensione e ricusazione; si tratta di cause previste a pena di nullità della perizia. Il giudice formula i quesiti peritali sentiti il P.M., i difensori ed il perito ovviamente, al fine di una valutazione collegiale e comparativa dell'utilità che l'atto assume in ordine all'acquisizione delle prove. Circa la risposta ai quesiti, l'art. 227 1º e 2º comma del c.p.p. prevede che il perito risponda in forma orale mediante parere raccolto nel verbale, salvo la possibilità che il giudice lo autorizzi a presentare una relazione scritta necessaria ad integrare ( e quindi non sostitutiva) il parere. La risposta al quesito è immediata ma ove occorra, al perito può essere concesso un termine non superiore a 90 giorni entro il quale

dovrà fornire detto parere. Nelle fasi delle indagini preliminari, il G.I.P. può concedere una proroga sino ad un massimo di 6 mesi se gli accertamenti sono di particolare complessità e se disposti in dibattimento condurrebbero ad una sospensione superiore a 60 giorni. Quindi l'oralità dell'esposizione del perito è la regola e l'eccezione è la relazione scritta. La possibilità di lettura sussiste solo dopo l'esame orale del perito, ma questa è la lettera della legge ed in realtà, e i giudici e i P.M., chiedono ai periti di fornire risposte per iscritto. Sia i periti che i consulenti tecnici, sono ascoltati nel processo penale come testimoni e quindi in contraddittorio, con l'avviso di cui all'art. 497 c.p.p. e devono inoltre prestare giuramento di verità pena la nullità dell'esame. A differenza dei testimoni, periti e consulenti, si possono avvalere di testi, memorie, pubblicazioni, anche altrui, che saranno acquisite al fascicolo dibattimentale.

B) I momenti della perizia psichiatricaVeniamo ora ad analizzare natura e finalità della perizia psichiatrica. Anche in questo caso abbiamo uno strumento di accertamento tecnico che mira a fornire al perito psichiatra gli elementi per pronunciare un "giudizio", un parere diagnostico, valutativo o prognostico. È chiaro che il ruolo istituzionale della perizia psichiatrica nel processo penale, è quindi della psichiatria forense, è l'accertamento delle condizioni di mente del periziando. È luogo comune che destinatario della perizia o soggetto della stessa sia l'imputato; in realtà i soggetti sono diversi e oltre all'imputato vi sono l'indagato, la vittima, il testimone, il condannato e l'internato. Noi ci occuperemo della perizia sull'indagato e sull'imputato. L'indagine è commissionata allo psichiatra o dal giudice, e si tratta della perizia propriamente detta o tecnicamente definita tale dal codice, disposta dal G.I.P. durante le indagini preliminari, dal G.U.P. o dal giudice del dibattimento durante lo stesso, o dal P.M. o dai difensori di parte dell'imputato o della vittima ed in tal caso si parla di consulenza tecnica di parte. La psichiatria forense comprende anche la perizia medico legale e quella giudiziaria. La prima ha ad oggetto le questioni attinenti alla deontologia professionale e la responsabilità degli operatori della salute mentale ma anche l'accertamento e la valutazione delle patologie mentali in campo assicurativo, previdenziale, assistenziale, compresa la valutazione della componente psichica del danno biologico. La perizia giudiziaria non si rivolge solo a soggetti condannati o internati ma anche alle vittime di un reato; questi sono portatori di problemi particolari in ordine alle terapie di intervento e di recupero e la loro soluzione risente del contesto differenziato in cui la psichiatria viene ad operare, ed è per questo che lo psichiatra forense ha una preparazione specifica rispetto al clinico, pur svolgendo spesso ( o normalmente) anche l'attività di psichiatra clinico. (4)Non sarebbe possibile collocare cronologicamente e logicamente nel processo penale la perizia psichiatrica senza una considerazione delle finalità a cui è rivolta. La perizia può essere disposta ai seguenti fini:

1. l'accertamento della capacità processuale dell'imputato ovvero di partecipare coscientemente al processo;

2. l'accertamento di 6 mesi in 6 mesi in caso di sospensione del processo per incapacità dell'imputato;

3. l'accertamento per disporre le misure cautelari di cui agl'articoli 73, 284-286 c.p.p.;

4. l'accertamento per stabilire l'esistenza del vizio di mente totale o parziale

al momento del fatto, attuale e la pericolosità sociale.Il nostro legislatore non si è solo preoccupato di prevedere i casi in cui la perizia può essere disposta ma anche le finalità per le quali la perizia non può essere disposta.; se escludiamo le norme del processo minorile e quelle che attengono la fase esecutiva della pena, sono vietate le perizie in ordine al carattere e la personalità dell'imputato, le forme qualificate di pericolosità sociale e in genere le qualità psichiatriche indipendenti da cause patologiche. Il dettato dell'art. 220 2º comma c.p.p. è frutto di un acceso dibattito dottrinale: da un lato vi era chi sosteneva l'essenzialità di una conoscenza più profonda della personalità del reo per adeguare, individualizzare la sanzione o il trattamento, dall'altro vi era chi temendo una sorta di strumentalizzazione dell'indagine sulla personalità ed una sua influenza negativa (un pregiudizio) sul convincimento del giudice voleva escluderlo.Il vecchio articolo 314 c.p.p. abrogato, escludeva la perizia non solo con riguardo alla abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, ma anche quella volta ad accertare carattere e personalità dell'imputato indipendenti da cause patologiche. Sebbene si fosse affermata negli anni precedenti all'emanazione del nuovo c.p.p. una tendenza abrogatrice del divieto di perizia criminologica, questo è rimasto nel nuovo codice con una formulazione testuale identica a quella del 1930 articolo 314 c.p.p. abrogato.A questo punto possiamo vedere le fasi in cui la perizia si inserisce: possiamo operare una dicotomia fra la fase cognitiva e quella esecutiva. Nel corso della fase cognitiva il codice di rito ammette tre tipi di accertamenti:

1. la consulenza tecnica di parte del P.M. articoli 359-360 c.p.p.;2. la perizia disposta dal G.I.P. articoli 392-398 c.p.p.;3. la perizia dibattimentale articolo 508 c.p.p..4. Nella fase esecutiva è il magistrato di sorveglianza a ordinare la perizia

volta a stabilire:5. la presenza o persistenza di pericolosità sociale psichiatrica al momento

dell'applicazione della misura dell'O.P.G.;6. condizioni di mente dell'internato o condannato ai fini dell'esecuzione o

prosecuzione della pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica (O.P.G.),

7. condizioni di mente del condannato o internato in vista della concessione di misure alternative all'internamento.

Ai fini di questa esposizione rileva la fase cognitiva. Il primo momento processuale, in cui può emergere la necessità di svolgere una perizia psichiatrica, è quello delle indagini preliminari. Durante questa fase il P.M. può, articolo 359 c.p.p., nominare e avvalersi di consulenti tecnici che non possono rifiutare la loro opera.Il codice di rito parla di necessità di procedere ad accertamenti, rilievi segnaletici, fotografici o descrittivi e ogni operazione tecnica per cui siano necessarie specifiche competenze. Anche le parti, articolo 233 c.p.p., possono nominare in numero non superiore a due, i consulenti tecnici i quali potranno esprimere il loro parere anche attraverso la presentazione di memorie (articolo 121 c.p.p.). È possibile che la perizia sia disposta dal G.I.P. su richiesta di parte. L'articolo 392 c.p.p. prevede alla lettera F che il P.M. e la persona sottoposta a indagini, possono chiedere al G.I.P. che si proceda con incidente probatorio, alla perizia o esperimento giudiziale se la prova attiene persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione o al 3º comma quando la perizia se disposta i dibattimento potrebbe comportare una sospensione superiore ai 60

giorni. Anche in dibattimento la perizia può essere disposta dal giudice o d'ufficio o su richiesta di parte (articolo 508 1º comma). La regola sarebbe quella per cui il perito deve essere chiamato immediatamente ad esporre il parere, ma se ciò non è possibile, il giudice dispone la sospensione del dibattimento e fissa la data dell'udienza nel termine di 60 giorni.Nella fase di appello, il giudice, se ritiene di non poter decidere sulla base degli atti può disporre la perizia e il rifiuto della richiesta della stessa, in quanto giudizio di fatto, non è sindacabile in Cassazione se motivato in modo logico e coerente. Cosa è chiesto al perito, quali fatti deve accertare? Ho esposto le finalità della perizia psichiatrica e ho evidenziato come al di là del luogo comune per cui il periziando è l'imputato, in realtà anche altri soggetti possono essere peritati. A me preme concentrarmi, ai fini di questa esposizione, sulla perizia condotta sull'indagato o imputato. Poiché l'indagine su questi soggetti può essere rivolta ad accertare tre diverse situazioni, capacità processuale, imputabilità, pericolosità, escludo la prima e la terza dedicandomi alla seconda. Al perito è solitamente chiesto di pronunciarsi su tre quesiti: "dica il perito, esaminati gli atti di causa, visitato (nome e cognome), eseguiti tutti gli accertamenti clinici e di laboratorio che ritiene necessari ed opportuni, quali fossero le condizioni di mente (di nome e cognome) al momento del fatto per cui si procede; in specie se la capacità di intendere o di volere fosse per infermità, esclusa o grandemente scemata".Il secondo quesito attiene l'accertamento della pericolosità sociale: "in caso di accertato vizio di mente dica altresì il perito se (nome e cognome) sia persona socialmente pericolosa". Il terzo quesito attiene la capacità processuale: " dica il perito, esaminati gli atti, visitato (nome e cognome), eseguiti tutti i rilievi clinici e di laboratorio che ritiene opportuni e necessari quali siano le attuali condizioni di mente di (nome e cognome) e, in particolare, se sia o meno in grado di partecipare coscientemente al processo".Esiste un percorso logico che lega questi quesiti; al secondo risponderà solo se ha risposto positivamente al primo e abbia accertato vizio totale o parziale di mente. Circa il terzo quesito l'articolo 70 c.p.p. dice che: "quando non deve essere pronunciato sentenza di proscioglimento o non luogo a procedere e vi è ragione di ritenere che per infermità mentale l'imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo, il giudice, se occorre, dispone anche di ufficio perizia".Il nostro sistema penale, il nostro processo penale, è di tipo accusatorio ed il soggetto, dalla prima informazione (quando è indagato) all'applicazione della pena, deve essere in grado di difendersi, capace di autodifesa.

3. Nozione clinica-scientifica di perizia psichiatricaFin'ora ho esposto i caratteri della perizia così come emergono dal codice penale e di rito. È bene ora osservare la perizia psichiatrica da un'altra visuale, ad essa naturale e congeniale: quella scientifico-medica. A tal fine ho condotto una serie di colloqui con psichiatri forensi che mi hanno permesso di cogliere il lato meno tecnico giuridico e più pratico-scientifico dall'attività peritale. Parlando con la Dottoressa Brandi, ho appreso per esempio come ciò che può apparire evidente, la perizia è atto particolare in quanto si inserisce nel processo penale e condotta sull'indagato o imputato, è in realtà un pregiudizio di chi è estraneo alla pratica della perizia psichiatrica forense. La perizia psichiatrica, diceva la Dottoressa Brandi, è un atto medico che viene ad avere una finalità particolare nel processo penale; un atto medico cui sono connesse

conseguenze particolari. (5) Ma la testimonianza di esperienza della Brandi non è isolata. Il Dottor Paterniti, anch'egli psichiatra forense, ha confermato questa impostazione, affermando di comportarsi da clinico nel corso della perizia psichiatrica.Tuttavia occorre anche chiarire che si tratta comunque di un atto che è svolto in un contesto peculiare, da cui derivano conseguenze discriminanti la perizia psichiatrica dal colloquio psichiatrico nel contesto clinico.La perizia non ha e non potrebbe avere scopo terapeutico ed è questa un'impostazione generalmente condivisa. (6) In un suo saggio Verde, (7) si chiede se sia possibile svolgere un'attività diagnostica in un contesto peritale penale. Egli sottolinea come la situazione peritale non è terapeutica, ma piuttosto un'attività che risponde a regole ed esigenze peculiari, più proprie alla esigenze contingenti e alla politica del diritto prevalente in un determinato periodo storico, che alla scienza psichiatrica in se. Ma quali sono queste peculiarità della situazione peritale rispetto alla situazione clinica:

1. non si tratta di un'attività terapeutica rivolta all'individuo; il cliente che si rivolge al perito psichiatra è il giudice;

2. la valutazione psichiatrica del paziente deve riguardare sia il passato (il momento del fatto), che il presente, e sfociare in una prognosi (giudizio di pericolosità) riguardante il futuro;

3. la valutazione è collocata in un contesto in cui si discute della pena e se un'azione sia imputabile ad un determinato soggetto: al perito è chiesto di calarsi in un contesto di controllo disciplinare;

4. tale contesto può influenzare l'assetto mentale del perito, si può costituire cioè un setting profondamente divergente dal setting dell'intervista psichiatrica: il setting dell'intervista psichiatrica origina e deve tornare ad una situazione processuale sottoforma di relazione scritta o orale in cui il perito concentra le sue conclusioni motivandole. Le regole di questo setting non dipendono dal perito e non sono manipolabili dallo stesso perché tracciate dalla norma legale e dalla giurisprudenza;

5. il quesito è poi formulato in termini giuridici, come giuridico e non "naturale" è il concetto di imputabilità, come quelli di infermità, vizio totale e vizio parziale, che pongono un problema di interpretazione e di raccordo tra diritto e psichiatria che è poi la quintessenza dell'attività medico legale..

Da ciò si ricava l'impressione che anche la diagnosi sia formulata in termini giuridici o con riferimento prevalente al problema giuridico di cui il perito è stato investito.Quella di Verde è un'altra testimonianza della peculiare natura della perizia psichiatrica. È un'attività complessa in cui il momento diagnostico si inserisce in modo del tutto anomalo rispetto alla clinica: non è diagnosi rivolta al trattamento, all'indicazione della cura, non è rivolta ad offrire un aiuto ( almeno istituzionalmente non ha tale funzione) al periziando, perché non è rivolta al paziente ma a fornire una risposta, che ha sovente il valore di congettura, alla domanda sociale espressa dal giudice. Ma vi è di più: secondo Ponti, il fatto che oggi il concetto di infermità è divenuto aleatorio e indefinito farà si che il perito faccia il giudice, dato che se tutto può diventare infermità, nulla lo è realmente.Sembra difficile ipotizzare che il perito operi prima la diagnosi con il manuale D.S.M. III - R e poi risponda ai quesiti peritali posti dal giudice. Sembra che ab origine egli sappia a chi deve rispondere e anche la ricostruzione narrativa cui addiviene il perito nella sua relazione non sfugga a tale logica, e sia rivolta alla

terapia sociale della collettività lesa dal delitto e non al paziente. Tra periziando e perito sembra ergersi il muro della legge. Quindi la perizia è un atto medico perché condotto da un medico, basato su esami clinici, di laboratorio, sul colloquio psichiatrico, sulla somministrazione di test, perché condotto evidentemente alla luce delle acquisizioni moderne della scienza psichiatrica; ma è anche vero che è richiesto al perito di fare una diagnosi che diagnosi non è, perché il periziando non è un paziente che ha una sofferenza psichica che lo ha portato lì per una terapia che poi in realtà terapia non è. È un ibrido, un confuso, "un mostro", un qualcosa che serve a qualcun'altro e che farà soffrire il periziando più che star bene. Il rischio insito in questa situazione non è indifferente ed è quello di avere pseudo-diagnosi burocratizzate, arbitrarie fondate su stereotipi e su ricostruzioni narrative finalizzate a motivare conclusioni sulla capacità di intendere e di volere che dipendono da un giudizio morale o persino penale sul comportamento del reo e che la perizia viene talvolta a pronunciare. Poiché abbiamo affermato che il sapere psichiatrico non è del tutto neutro ed asettico rispetto al contesto culturale ad esso coevo, nel quadro di un processo di riaffermazione della responsabilità anche morale dell'uomo e quindi anche dell'uomo malato, il rifiuto di ogni determinismo aprioristico, unito alla consapevolezza dell'esistenza di fattori che influenzano la volizione, la psichiatria ha fatto proprio il concetto di responsabilità attenuata. Ho parlato di responsabilità morale e nell'attuale sistema penale, la valutazione richiesta al perito, non si esaurisce in una diagnosi tecnico-medica, ma consiste anche in un giudizio di responsabilità morale. La dimostrazione più convincente di ciò che ho affermato, è nella non corrispondenza degli inquadramenti nosografici della psichiatria con le valutazioni in merito alla capacità di intendere e di volere, e che il termine di riferimento non è la rigida nosografia ma la responsabilità morale. Ciò che accade nella pratica forense, è che allo psichiatra, quando intervengono fattori riducenti o attenuanti legati alla personalità del reo, è affidato il mandato sociale di valutare la responsabilità morale e ciò con la motivazione dell'accertamento dell'esistenza o meno di una malattia, ma in concreto, è quel giudizio che è richiesto allo psichiatra. L'ambiguità tra la richiesta esplicita di valutazione di infermità e quella implicita di responsabilità morale, risiede nel venir meno dell'assioma malattia mentale-irresponsabilità, ed ecco allora che al perito è chiesto di valutare il grado di influenza dell'infermità sulla libertà e di dare o no valore di malattia ad una situazione, nel considerare una pulsione vincibile o meno; in pratica è chiesto al perito di penetrare il processo volitivo. Ponti dice al riguardo che il compito del perito non sarebbe, alla luce della situazione esistente, diverso da quello del giudice, solo che al perito spetta il giudizio di responsabilità sulle personalità morbose. Il fatto, dice Ponti, che ci sia chiesto dai giudici una perizia criminologica, in altre parole, sulle dinamiche psicologiche che hanno agito in un reo e sulla sua personalità, ne è una prova. A fronte dell'incertezza sulla responsabilità piena, sull'esistenza di un vizio totale o parziale, per decidere se ciò che ci pare di intuire ha o no il valore di malattia, noi facciamo pendere la bilancia dall'uno o dall'altro lato secondo il giudizio che ci siamo andati formando sulla responsabilità morale del reo ovvero sul suo grado di libertà. Le conoscenze psichiatriche sarebbero solo una delle componenti del giudizio, e servirebbero a dare corpo ad una valutazione in merito alla responsabilità operata con una metodologia deduttiva e non induttiva. Ponti non afferma che il perito emette un giudizio arbitrario e sulla base delle sue idiosincrasie, ma che la valutazione è espressa in conformità a

fattori non esclusivamente psichiatrici.Non tutti dipingono la perizia con toni foschi; Bandini afferma che la perizia psichiatrica, anche se solo circoscritta all'esame della imputabilità, è uno strumento insostituibile, in quanto presenta garanzie che non sono possedute da altri strumenti di indagine, è chiara nelle sue finalità, non è contaminata dalle ambiguità che presentano le attività cliniche che prevedono contemporaneamente aspetti valutativi ed aspetti terapeutici. È indispensabile, comunque, che la perizia psichiatrica, come ogni altro atto medico, sia svolto in modo da rispettare al massimo i diritti dell'uomo ed in particolare dell'uomo malato. Il perito dovrebbe operare allora mantenendo il massimo della riservatezza, senza svelare aspetti della vita intima del periziando, non pertinenti all'accertamento dell'imputabilità (Bernheim). Al perito non deve essere chiesto di prendere posizione sulla consistenza dei fatti, né deve essere chiesta una descrizione caratterologica che permetta di attribuire il reato all'imputato (art. 220 2º c.p.p.). A tal fine Canepa e Fornari, hanno sostenuto l'utilità della nomina non di un perito ma di un collegio peritale costituito da esperti dei diversi settori, quello della psichiatria forense e medico legale, auspicando un approccio interdisciplinare che permetta un contatto con l'imputato corretto per una valutazione più rigorosa della realtà osservata. È inoltre suggerito di non affidare la perizia ai sanitari che si occupano, o si dovranno occupare, in futuro del trattamento. Questo sarebbe consigliabile per evitare che il clinico cui spetta il trattamento, possa svolgere atti di tipo valutativo che potrebbero condurre a benefici rispetto alla pena. Il rapporto terapeutico, infatti, può essere fortemente inquinato, compromesso da attività di tipo valutativo richieste dal magistrato e che privano tale rapporto di libertà e spontaneità. Ciò non toglie che il perito non possa tenere un atteggiamento terapeutico, di empatia, di comprensione e di coerenza. È auspicabile che il clinico che svolge attività di perito non sia coinvolto in modo prioritario in attività di trattamento del periziando, in quanto la duplicità dei ruoli può condurre a difficoltà ed errori facilmente comprensibili. Ciò non esclude, come ho avuto modo di constatare nel colloquio con i dottori Brandi e Jannucci, (8) che soggetti "passati" per gli studi clinici, poi vengono a contatto con la giustizia penale e ritrovano gli stessi psichiatri in veste di periti. (9)

4. Lo svolgimento della perizia psichiatricaDalla peculiare natura e finalità della perizia psichiatrica e sulla base delle raccomandazioni più comuni rivolte agli psichiatri, deriva una sorta di decalogo, di procedura, un metodo che caratterizza il colloquio psichiatrico. Merzagora distingue due momenti dell'attività del criminologo clinico:

1. quello trattamentale e terapeutico, cioè fornire un servizio su richiesta del reo per soddisfare suoi bisogni di aiuto terapeutico, (10) di chiarificazione interiore, di programmazione, di consiglio e revisione di progetti di vita, per svolgere anche attività in ambito carcerario;

2. il ruolo di osservazione, valutazione e prognosi su mandato dell'autorità giudiziaria (o carceraria) e che è poi il ruolo istituzionale.

Il momento che a noi interessa è il secondo ma le indicazioni che seguono sembrano applicabili ad entrambi in momenti se pur con talune sfumature.In primo luogo il colloquio nel caso della perizia psichiatrica è una forma, una tecnica di comunicazione, che si svolge in una situazione istituzionale, che ha come antecedente il fatto che l'intervistato ha commesso (potrebbe aver commesso) un reato, e che ha come scopo fornire ad altri che hanno su di lui

autorità, informazioni sulla sua personalità in relazione alla genesi e alla dinamica del reato, in caso di colloquio criminologico, sulla sua sanità mentale, (riferita al momento del fatto) in caso di perizia sull'imputabilità.La comunicazione avviene in primo luogo a voce ed in un gruppo di due persone; se nel caso del colloquio clinico terapeutico si incontrano volontariamente instaurandosi in tal modo un rapporto clinico-paziente, nel caso della perizia psichiatrica, manca l'elemento della volontarietà ed il suddetto rapporto. Merzagora ha anche precisato la differenza tra intervista e colloquio. Sono entrambe forme di comunicazione ma il colloquio è caratterizzato dalla maggiore profondità del rapporto interpersonale mentre la seconda sarebbe caratterizzata dalla finalità di ricercare informazioni senza un rapporto stretto o profondo tra intervistatore ed intervistato.Ebbene che tipo di rapporto può instaurarsi fra perito e periziando, se pur nell'arco di poche sedute ( solitamente 3 o 4), in cui si articola la perizia. Ho cercato attraverso le interviste agli psichiatri di far emergere il modo di porsi degli stessi rispetto ad un soggetto che, almeno ai miei occhi, appare particolare: l'indagato o l'imputato. Ponti ha sottolineato che in primo luogo il perito non è dalla parte del periziando ma davanti a lui. Se non è consigliabile e sembra assente un atteggiamento moralistico che impedisca la comunicazione empatica, è anche opportuno ricordarsi il compito valutativo di cui si è investiti, da qui l'impossibilità di quel "mettersi completamente nei panni dell'altro", di "comprendere totalmente", di cui parlano Rogers e Kinget con riferimento al rapporto terapeutico. La perizia è momento di confronto fra due persone e fra due morali che possono essere diverse perché, in linea di principio, uno dei soggetti ha commesso un reato. Anche il più anticonformista dei periti troverà comportamenti che lo ripugnano: possono essere i reati sessuali, quelli dei colletti bianchi, quelli sui minori. Anche il perito ha una morale razionale ed una emotiva che possono essere mobilitate e ciò è inevitabile perché è umano e si tratta solo di convivere con tale situazione; si tratta di evitare il moralismo e non la morale. I rischi del moralismo sono di non obbiettività, di discriminare in negativo l'autore del reato che ci disturba o di trattarlo con benevolenza, consapevoli del rischio di trattarlo peggio per via delle nostre convinzioni. Non ci sono ricette per evitare il moralismo se non, come suggerisce Merzagora, esser vigili e consapevoli che la persona non è ciò che fa, una cosa è il comportamento altra cosa la personalità. La persona può anche aver commesso un reato ma non è detto che questo invada tutta la sua persona e che sia qualitativamente diversa dalle altre. Bisogna guardarsi bene anche dagli atteggiamenti opposti al moralismo, il rischio in atteggiamenti collusivi o seduttivi è che il soggetto, ansioso di parlare e di sfogarsi, confonda il perito con un terapeuta e riferisca fatti o avvenimenti che non sono a conoscenza del giudice e non sono in atti e che lo possono pregiudicare. Sarebbe disonesto, dice Merzagora, far credere al soggetto che "siamo con lui" ma non è dello stesso avviso Di Tullio che anzi suggerisce, fermo restando il criterio della obbiettività, di usare tutta l'abilità per guadagnarsi la stima e la simpatia del soggetto e ciò per eliminare le resistenze che, in ogni criminale, si riscontrano come naturale tendenza a nascondere ciò che può aggravare la situazione di reo. Circa l'atteggiamento più corretto da seguire fra i due indicati, basterebbe ricordare che il perito è un medico e non un giudice e non deve pertanto indurre a confessioni anche se opera su mandato dell'autorità giudiziaria. Inoltre è tecnicamente consigliato di individuare dei confini entro cui muoversi nel corso del colloquio ovvero gli argomenti da trattare senza sconfinamenti.

Merzagora sconsiglia di affrontare gli argomenti più intimi, ansiogeni e non funzionali a rispondere ai quesiti peritali, ciò non toglie, che in alcuni casi taluni di questi argomenti siano proprio a ciò funzionali. Quando ho chiesto se la tecnica di conduzione della perizia mutasse a seconda del reato per cui si procede ovvero se il soggetto fosse indagato o imputato di bancarotta fraudolenta anziché di violenza sessuale su minore ( ed era volutamente estremizzata la contrapposizione), mi è stato risposto dal dottore Paterniti, che certamente il reato per cui si procede è rilevante ai fini peritali. Sarebbe impensabile evitare l'argomento ansiogeno per eccellenza, la sfera sessuale, se si sta periziando un indagato o imputato di reato sessuale. (11) In punto di tecniche da seguirsi, Ponti ha sottolineato che se è da apprezzarsi una preparazione e sensibilità psicoanalitica, è da sconsigliare l'impiego di tecniche e di interpretazioni di tale stampo nel corso di una perizia perché non idonei alle finalità della stessa. Ma allo stesso modo è precluso al perito la possibilità di far ricorso alla narcoanalisi o a tecniche che facciano leva solo sul conscio e ciò anche perché lesive della libertà personale, quando, come nella perizia, coattivamente applicate. Anche se vi fosse il consenso dell'interessato violerebbero la sua libertà, il suo diritto di difendersi e anche di mentire. Le stesse precauzioni dovranno usarsi nella somministrazione dei test che esplorano in profondità la personalità del soggetto. Ciò non toglie che il perito non deve accettare supinamente ciò che il periziando esprime anche perché esiste un problema nella perizia che è estraneo all'ambito clinico terapeutico, la simulazione. (12) Comunque tutte queste precauzioni, sono dettate dalla volontà di tutelare chi, è indagato o imputato, da un'eccessiva violazione della sua persona partendo dal presupposto che già la perizia, essendo ordinata anche senza il consenso del periziando, è una forma di intromissione nella sua vita, da qui la proposta di Bandini per una perizia disposta solo se vi è richiesta della difesa.È chiaro che se le finalità della perizia si riflettono sul modo di porsi del perito, anche il periziando deve essere cosciente di questo e non nutrire aspettative che sarebbero destinate a rimanere insoddisfatte. Chi conduce il colloquio non deve alimentare illusioni scegliendo quindi la linea dell'onestà e della limpidezza ma il periziando, dall'altro lato, non può chiedere o contrabbandare la sua "collaborazione" in cambio di vantaggi o promesse che il perito non può fare. La regola di Semi, la reciprocità, per cui " il paziente, uscendo, deve aver l'impressione di aver ricevuto almeno quanto ha dato", non vale per la perizia.Evidentemente le differenze che sussistono tra colloquio terapeutico e perizia, sul piano del ruolo dell'operatore e delle aspettative dell'utente, le modalità con cui concretamente procedere, le tecniche insomma, non sono molto diverse; si tratta solo di adattamento di quelle seguite in ambito clinico all'ambito peritale. Il periziando sappiamo che non accede volontariamente al colloquio ed inoltre è persona accusata di aver commesso un fatto previsto dalla legge come reato. Non ho mancato di chiedere ai periti incontrati, come si pongono di fronte ad un soggetto particolare come è l'imputato magari di fatti gravissimi. Sembrerebbe utile mantenere un aplomb inattaccabile anche di fronte ai fatti sconcertanti, ma Sullivan ritiene che tale atteggiamento possa nuocere perché avvertito come indifferenza dal periziando e per lo psichiatra, sostiene questo autore, è pericoloso essere indifferente. Non si può chiedere allo psichiatra di stare dalla parte del soggetto (Rogers), ma neanche deve trattare il periziando come un oggetto osservato anziché come soggetto. Per quanto attiene gli argomenti quelli più scottanti non sono affrontati subito e

viene stornata l'attenzione da quelli più ansiogeni (Merzagora). Il perito inizierà con il raccogliere le informazioni sulla vita del soggetto dedicandosi quindi ad argomenti meno coinvolgenti, il periziando non deve aver l'impressione che il perito stia svolgendo un'ulteriore istruttoria perché tale sensazione inquinerebbe il rapporto intervistatore-intervistato. Tra gli atteggiamenti da evitare (Merzagora) vi è la falsa ingenuità: per esempio, di fronte alle menzogne dar a vedere "di bere" quanto riferito. Sullivan sconsiglia l'ironia, anche se sottile, perché foriera di negatività. Per tentare una schematizzazione, il rapporto tra perito e periziando dovrebbe essere impostato sul rispetto reciproco, sulla consapevolezza di non essere diverso dall'interlocutore, disponibilità ed empatia senza confusione di ruoli.Da parte del periziando quali possono essere gli atteggiamenti opposti al perito: è possibile che il perito sia avvertito come "la vacca da mungere" e si cerchi di trarre ogni beneficio possibile ed utilità immediata. È l'atteggiamento di sfruttamento.Può esservi l'intimidazione, cioè il periziando pone un aut aut o con me o contro di me, e ciò non è possibile come ho già detto.Vi è l'atteggiamento accomodante ed ipocrita di chi collabora ma non fino in fondo. Vi è la dispersione cioè l'atteggiamento di chi è loquace ma parla di tutto eludendo quanto richiesto, e in tal caso, il perito deve chiudere il periziando sui temi specifici del colloquio. Abbiamo ancora la drammatizzazione dei propri problemi di salute e giudiziari, la seduzione verso il perito, la provocazione dialettica con atteggiamento ribelle, sarcastico e vi è poi un atteggiamento diffuso tra i membri della criminalità organizzata, l'indifferenza, l'essere impassibili e distaccati nel corso del colloquio (13). Più difficili sono l'identificazione con l'ideale di sé, il periziando non dice ciò che è ma ciò che dovrebbe essere secondo l'idea dell'ideale di sé. Infine l'inversione dei ruoli con il periziando che vorrebbe condurre il colloquio interrogando ed indagando il perito il quale deve riassumere il controllo della situazione. Ma gli atteggiamenti più comuni e conosciuti sono il silenzio (14), la menzogna e la simulazione.Circa il silenzio e la simulazione, è d'obbligo indagare sulla natura criminale o patologica degli stessi. Esiste, infatti, il silenzio schizofrenico e per la simulazione si pongono i problemi della sindrome di Ganser, ma in genere la simulazione è simulazione di malattia mentale. La reazione al silenzio, che può anche essere dettata da motivi di riservatezza, e alla simulazione, deve essere possibilmente di invito a rispondere per il bene del soggetto stesso. Di fronte alla menzogna è più difficile mantenere un aplomb pacata, soprattutto se si ratta di menzogne grossolane, ma la permalosità è da evitarsi. Meglio, dice Merzagora, un atteggiamento deciso e chiaro che riporti il colloquio sul piano del reciproco rispetto. Non è facile per l'esperto riconoscere la simulazione tenendo conto che non può usare lye detector, sieri della verità et similia. Parlando con il dottor Paterniti ho appreso che sullo sfondo, come possibilità concreta, il perito sa che esiste il pericolo di simulazione (Merzagora, invece, sostiene che non sarebbe poi così frequente come si crede) ma che l'esperto ha i mezzi per scoprirla e smascherarla. In realtà dai colloqui che ho avuto con i periti ho tratto la conclusione che è l'esperienza personale che parla e se da un lato vi è chi dice che è facile smascherare la simulazione, dall'altro vi è chi afferma, per esempio la Dottoressa Niccheri, che non solo è difficile smascherarla ma che non sarebbe poi così frequente. (15) Circa la menzogna bisogna dire che il perito non è il giudice, non ha un ruolo inquisitorio, non deve

emettere giudizi di colpevolezza. Ma come ha indicato Paterniti, il perito non si presenta come tabula rasa di fronte al periziando; ha letto gli atti del processo, i verbali delle forze dell'ordine, le dichiarazioni rese al maresciallo o altri al momento dell'arresto e almeno su questi fatti sa quando il soggetto mente. Si tratta di non indispettirsi perché la menzogna è nelle regole del giuoco, è un diritto del soggetto quindi evitare, dice Merzagora, di interrompere il colloquio scandalizzati dall'atteggiamento menzognero.Per il silenzio esiste la possibilità di aggirarlo senza arrendersi ad esso. Può essere il potere ansiogeno di una domanda ad ingenerarlo ed è consigliato allora un approccio indiretto, più conveniente per soggetti che, non stabilmente inseriti in culture ( sottoculture) criminali, hanno commesso un reato, ma che riveste il carattere di eccezionalità in un percorso di vita. Per favorire la comunicazione e "rompere" il silenzio, si può cercare di restringere per gradi le tematiche per arrivare per approssimazione successiva, al centro del problema. Ciò che è importante e che le domande siano comprensibili, pertinenti, compatibili con lo scopo dell'esame. Deve essere evitato "l'errore dell'esperto" cioè attribuire gradi di competenza all'intervistato che in realtà non possiede (Noventa 1986). Circa la documentazione del colloquio si pone la questione se prendere appunti o usare un registratore. Al di là di chiedere se la registrazione disturba il periziando, inconvenienti emergono da entrambi i lati. La registrazione è una verbalizzazione, pura testimonianza della comunicazione verbale. Gli appunti possono ostacolare il fluire della conversazione e far perdere a chi li prende, l'attenzione. (16)Si è anche pensato alle riprese visive (in particolare in caso di perizie sui minori), ma è chiaro che in tal caso emerge in maniera ancor più evidente il problema del rispetto della privacy. L'unica indicazione che potrebbe essere data è quella di non prendere appunti se questa attività ostacola la comunicazione; ma il rischio è di una scarsa utilizzabilità di quanto è emerso nel colloquio. Una soluzione universale non esiste e la scelta è contingente. Schematicamente il colloquio inizia con la raccolta delle notizie di vita, l'argomento meno ansiogeno e che consente di creare una "intimità" in vista dei temi più scottanti e probabilmente ansiogeni. Non è fase superflua quella della raccolta delle notizie di vita perché è la più oggettiva e non si presta a manipolazioni, ma è anche vero che la scelta di certi fatti piuttosto che altri, può fornire indicazioni che trascendono il mero fatto. È impensabile che possano essere raccolti tutti i fatti e tutti i dati ma è necessario che ci siano comunque dei fatti a cui ancorare le proprie conclusioni avendo ben presente, che lo psichiatra non trasforma il possibile nel certo ed il probabile nel sicuro (Ferracuti 1985), ma esprime un parere probabilistico. Viene quindi il momento di affrontare il tema del reato. Sullivan parla di passaggi d'argomento e li suddivide in graduale, l'atteggiamento consigliato, il passaggio accentuato, apprezzabile in alcuni casi, ed il passaggio brusco, accettabile solo per evitare di affrontare i temi più ansiogeni. Accade anche che sia il periziando ansioso di parlare del reato per mitigare la propria responsabilità o per dichiararsi innocente o perché gravato dal senso di colpa. Il perito ha letto i verbali, gli atti, ed è informato sul reato e sulle circostanze dello stesso. In merito ho ritenuto di chiedere al dottor Paterniti se le caratteristiche e particolarità del reato incidessero sulle tecniche del colloquio. È ovvio che sia fondamentale che il perito sia a conoscenza dei fatti non tanto per cogliere in fallo il periziando, quanto per porre le domande giuste e per evitare perdite di tempo ed imbarazzo al periziando. Quindi è importante che il perito sappia la definizione giuridica del reato, quando, dove è stato

commesso, l'età dell'autore al momento del fatto, quella della vittima, il tipo di rapporto esistente con la vittima, le aggravanti e le attenuanti, le reazioni del periziando al momento dell'arresto, dell'istruttoria, al processo, in carcere, e le reazioni nell'ambiente familiare. Deve conoscere infine, la posizione giuridica; ha subito altre condanne, è un recidivo, che valutazione fornisce dei suoi precedenti, insomma il curriculum criminoso. La perizia comprende anche esami di laboratorio e non ci si deve aspettare che, in un ottica positivistica e lombrosiana, le funzioni cerebrali o semplicemente, e per quanto a noi interessa, la capacità di intendere e di volere, siano necessariamente alterate nel soggetto peritato in quanto criminale.Di Tullio al contrario ritiene che "i comuni delinquenti sono in generale fortemente predisposti ai turbamenti relativi al grado di estensione e lucidità della coscienza, specie sotto l'influenza di stati emozionali intensi ... la capacità di giudizio è nei comuni delinquenti inferiore alla media ... in base alla nostra esperienza, nei delinquenti l'atto volitivo viene ad essere spesso irregolare, per il fatto che gli stimoli endogeni sono più intensi e più prepotenti, l'apprezzamento difettoso e la capacità di inibizione più o meno limitata".La personalità delinquenziale per i più non esiste, anche perché il delinquere è concetto giuridico non omogeneo a quello biologico di personalità e di malattia.Bisio suggerisce di affrontare il tema reato secondo questo schema: (17)

1. indagare come il soggetto ha ceduto ai motivi che su di lui hanno agito;2. determinare perché quelli antagonistici non lo hanno inibito;3. come il soggetto ha concepito l'azione sociale dalla quale si è ripromesso

un interesse;4. la preparazione e l'esecuzione del reato;5. passare allo studio del comportamento per verificare come la personalità

reagisce agli stimoli nelle varie condizioni.Non esiste un catalogo standardizzato di domande e soprattutto non sono concepite sulla dicotomia sano-malato. Resta l'avvertimento di non indagare o sopravvalutare le dinamiche profonde dell'inconscio che hanno condotto il reo al reato, perché mancano di requisiti di verificabilità ed oggettività delle dinamiche inconsce. In particolare si teme il rischio deterministico insito nella teoria psicoanalitica ed è probabilmente questa preoccupazione che ha spinto il legislatore ad introdurre il divieto di cui all'articolo 314 c.p.p.. Lo stesso Freud riconobbe che la sua teoria non aveva niente a che fare con la determinazione dell'innocenza o colpevolezza dell'imputato.Sempre in ordine al precetto di cui all'art. 314 c.p.p., Gullotta dice: "il divieto si fonda sul timore che l'uso della psicologia nel processo penale possa diventare una specie di passaporto per l'impunità in quanto, attraverso impostazioni deterministiche, si potrebbe arrivare a "dimostrare" l'inevitabilità di ogni reato e quindi la coscienza e la libera volontà di azione". A completamento di un'indagine che ha il suo fulcro nel colloquio, è possibile la somministrazione di test di personalità. Come ho detto solo a completamento ed infatti a tal riguardo il dott. Paterniniti ha affermato che: "I test hanno un valore molto relativo, in genere, ma alcuni sono validati su campioni di popolazione molto ampia. Tra i più noti ed utilizzati vi è quello di Rorschach e il Minnesota (M.M.P.I.): il primo è quello delle macchie, (18) il secondo consiste in una serie di 500 domande vero falso. Certo ve ne sono molti altri il Koch, il Machover, il W.A.I.S. ma i più noti sono questi, e sono test di interpretazione della personalità, proiettivi, e sono solo un aiuto eventuale essendo il colloquio, il parlare, il capire, l'approfondire, il momento centrale tutto il resto, è un

accessorio altrimenti somministreremmo solo test. (19) Esistono test che per quanto standardizzati possono fornire conclusioni peritali". (20) A questo punto il perito concluse queste fasi si sarà fatto un'idea sulle condizioni mentali del periziando e sulla risposta da dare ai quesiti. In merito al dettato dell'art.88 c.p. ci potremmo domandare se in realtà esistono casi in cui la capacità di intendere e di volere è abolita. Lo stato delle conoscenze neurofisiologiche e psicologiche, come confermano gli psichiatri che si sono prestati a fornire la loro testimonianza, ci dicono che solo in casi rari la capacità di intendere e volere è esclusa: sono i casi di coma, di sonno profondo, di crisi convulsiva di grande male e parimenti in alcune forme di oligofrenia di grado elevato e nelle sindromi demenziali psichicamente marasmatiche; tutte queste situazioni sono definite convenzionalmente "di profonda destrutturazione dello stato di coscienza". Al di fuori di queste situazioni, gli autori, per esempio Manacorda, escludono che la capacità di intendere e di volere possa dirsi abolita; può essere modificata in pejus, ma non è detto che sia grandemente scemata e anzi, è concettualmente errato definire in termini quantitativi la capacità di intendere e di volere, poiché tutte le capacità si prestano a valutazioni qualitative.Circa l'art. 89 c.p. ed il concetto di capacità grandemente scemata, è chiaro che l'uso dell'avverbio crea una qualche difficoltà. Sembrerebbe, almeno dalle testimonianze degli psichiatri intervistati, che la situazione di cui all'art. 89 c.p. non sia molto lontana da quella dell'art. 88 c.p.. Intendo dire che al di là delle possibilità concrete di quantizzare la capacità, il vizio parziale sarebbe assai prossimo al vizio totale. (21)

Note al capitolo 2(1)Il processo di riduzione dello spazio di responsabilità individuale del delinquente, si colloca nell'ambito di un fenomeno culturale più ampio, e che propone in termini nuovi, l'antico quesito relativo alla libertà dell'uomo, al libero arbitrio e alla responsabilità dei singoli circa il loro operare. Ne è derivato in ambito sociologico e politico, una diffusione dei filoni di pensiero che dubitano del diritto della società di punire e, in alcuni casi ambienti giudiziari, dello stesso concetto di imputabilità; l'uomo è responsabile di ciò che fa e ha senso punirlo per quello che ha fatto illegittimamente? (Ponti, Merzagora Psichiatria e Giustizia).(2) "Quando mi affidano un incarico peritale non è tanto come mi pongo nei confronti del periziando, ma come mi pongo nei confronti del magistrato che mi da l'incarico. Alcuni magistrati danno l'incarico a persone di loro fiducia quando sanno che risponderanno più o meno a quella che è la loro visione dei fatti; io mi pongo con grande autonomia anche relativamente al giudizio che posso intravedere del magistrato, nel senso che penso che andrebbe garantita questa autonomia anche nel rispetto del perito anche se vi sono alcuni psichiatri forensi che accettano di essere condizionati nel loro giudizio dal magistrato ma questi non hanno esperienza clinica e fanno allora criminologia." dott. Jannucci.(3) La perizia non è tra l'altro obbligatoria ed in sede di legittimità non è sindacabile il motivato convincimento del giudice di merito che abbia ritenuto superflua la perizia nell'accertamento delle prove e su cui la difesa abbia chiesto un accertamento peritale. Cassazione Penale 7/6/1976.(4) "Lo psichiatra che si occupa della perizia psichiatrica dovrebbe avere insieme una grande capacità clinica e anche quelle conoscenze tecniche giuridiche e del diritto penitenziario che gli consentano di avvicinarsi, senza timori, alla perizia perché, se uno ha una grande attività clinica ma non ha mai fatto perizie si troverà, ovviamente, spaesato". dott. Jannucci.(5) "Per me la perizia può essere anche molto utile dal punto di vista terapeutico ad una persona ed è per questo che dobbiamo fare perizie che i pazienti possono leggere [...] nelle perizie bisogna essere espliciti nei confronti dell'autorità giudiziaria ma non si deve dimenticare che la perizia può andare in mano alla persona peritata e che viene giudicata e deve allora contenere elementi utili al paziente ed anche un giudizio di incapacità o di pericolosità possono

essere utili". Dottoressa Brandi.(6) "L'attività psicodiagnostica mira essenzialmente a ricevere informazioni, ad inquadrare una persona avendo poco tempo a disposizione, al fine di fornire risposte in merito ai problemi, il comportamento, le difficoltà di un soggetto ad un clinico, perché la psicodiagnostica è ancella della clinica, ma manca totalmente dell'alleanza terapeutica tipica del colloquio clinico che è un punto d'unione che mira a mettere a suo agio la persona". dott. Cantale.(7) A. Verde. Perizia psichiatrica: problemi e difficoltà. Psicologo psicoterapeutico, ricercatore all'Istituto di Criminologia e Psichiatria forense dell'Università di Genova.(8) "Nei primi anni di esperienza pensavo anch'io che chi ha in cura un paziente presso un centro di salute mentale sarebbe bene si astenesse dal fare perizie, oggi invece io ritengo che sia assolutamente indispensabile che egli si occupi anche dell'attività forense di un suo paziente perché è parte della sua attività clinica e sarebbe bene che tutti gli psichiatri ne sapessero di più sull'attività forense visto che la maggior parte dei nostri pazienti si trovano ad avere grane giudiziarie". dott. Jannucci.(9) "Il perito è il braccio destro del giudice, rappresenta la legge, non può instaurare un'alleanza terapeutica con il periziando e la mancanza di quest'alleanza terapeutica fa sì che il soggetto abbia tutto il diritto di mentire, di vedere il perito come un nemico, cosa che non si ha nel rapporto terapeutico dove il terapeuta è alleato delle parti sane della persona". dott. Cantale.(10) "Non è lecito rendere virtuoso, saggio o felice un ente razionale contro la volontà di quest'ultimo. A prescindere dal fatto che questo sforzo sarebbe inutile, e che nessuno può essere virtuoso, saggio o felice se non attraverso il suo lavoro e la fatica personali, a prescindere dunque dal fatto che l'uomo non può fare ciò, egli non deve nemmeno volerlo". Fichte: La missione del dotto.(11) Il dott. Cantale, in merito all'applicazione di un metodo diverso di conduzione della perizia in ragione del reato per il quale si procede, ha affermato: "Dal mio punto di vista ciò che cambia non è il reato di cui il paziente è accusato ma è la persona che si ha davanti che incide sul modo di condurre la perizia [...] se ho di fronte uno schizofrenico il mio atteggiamento sarà diverso da quello che avrò se di fronte ho un nevrotico o un insufficiente mentale [...] l'atteggiamento è tarato sul soggetto che ho di fronte per rispetto dello stesso indipendentemente dal tipo di reato".(12) Brandi e Jannucci hanno parlato di simulazione in ambito clinico ma di diversa natura da quella che emerge nella perizia. In ambito clinico si simulerebbe la sanità e non l'insanità.Il dott. Cantale mi ha parlato di simulazione di non totale insanità anche in ambito peritale ovvero chi rischierebbe, se riconosciuto non imputabile e pericoloso, l'O.P.G. simula la parziale infermità e in ogni modo chi simula l'infermità in ambito peritale lo fa puntando al vizio parziale di mente e non a quello totale.(13) "[...] il vero grande criminale non mi ha mai creato problemi ed anzi è stato più facile da gestire che non il teppista, il tossicodipendente agitato, i soggetti che appartengono a situazioni di marginalità, il grande criminale solitamente ha un atteggiamento estremamente rispettoso, tranquillo, corretto nei confronti del perito". dott. Cantale.(14) "Se c'è una cosa che mette in crisi lo psicodiagnosta è il silenzio, l'assenza di risposte ed è la più grande difesa che il soggetto può mettere in atto perché se non risponde, non mette l'esaminatore nelle condizioni di esaminare, non si svela e quando si svela diviene interpretabile". dott. Cantale.(15) La dottoressa Niccheri mi ha riferito che nei sui 34 anni di esperienza ha incontrato solo tre casi di simulazione e che sono stati smascherati con non poche difficoltà.(16) Anche a tal proposito posso riportare il parere della dottoressa Niccheri. La dottoressa ha espresso non solo le difficoltà legate all'uso del registratore in carcere per i permessi necessari ad introdurre tale oggetto ma anche rilevato la maggior affidabilità di tale strumento se si tratta di controbattere a contestazioni che possono venire dai consulenti di parte. Per il resto non riconosce che gli appunti facciano perdere l'attenzione; si tratta solo di fare esperienza.(17) A questo riguardo Orsenigo dice: "La specificità del discorso psichiatrico forense è mettere in relazione una determinata persona con una patologia psichica cronica o acuta precisa, all'interno di una situazione interattiva spesso unica, irripetibile: nella valutazione della capacità di intendere e di volere al momento del fatto diventa cruciale il grado di relazione genesica da una patologia psichica con il reato prodotto".(18) Al paziente è chiesto di osservare delle tavole su cui sono stampate macchie di inchiostro e di riferire cosa vede in esse, cosa suggeriscono lui quelle macchie. In realtà una risposta esatta non esiste nessuna macchia ha un significato corretto e si tratta solo di evidenziare una struttura personale.

(19) È stato dimostrato che occorre essere prudenti nella valutazione di test psicodiagnostici somministrati in carcere dove i reclusi sono talvolta alterati in modo profondo ... si dovrebbe inoltre tener conto dell'effetto che il delitto produce sulla struttura psichica del reo sia in senso destruente che compensatorio. Orsenigo(20) "[...] io penso che si lavora bene con i test, utilizzando quelli che si conoscono; io mi rifiuto di utilizzare quelli che non conosco, si garantisce il periziando che sia o meno in regime carcerario, si garantiscono i colleghi ed il giudice [...] il problema non è tanto il luogo ma chi somministra i test e ovvio che se li somministri male li somministri male ovunque". dott. Cantale.(21)" Si tratta di vedere se il disturbo psichiatrico evidenziato rende del tutto inefficiente la capacità di intendere e di volere il c.p. artt. 88 e 89 parla totale vizio di mente o parziale, ma grandemente scemata quindi uno può essere arrabbiato tantissimo la sua capacità di intendere e volere può essere un po' scemata ma non si può invocare il vizio parziale [...] se sono arrabbiato e commetto un reato ho la capacità di discernimento ridotta ma non è grandemente scemata ... altrimenti anche negli incidenti automobilistici dovrebbe esservi la capacità grandemente scemata nei due che si picchiamo a morte, è ridotta ma non grandemente che per me vuol dire, se consideriamo la totalità 100% grandemente scemata è 90% non 20%." dott. Paterniti.

L'influenza della perizia psichiatrica sulle decisionidel giudice e sui programmi di trattamento

1. Rapporto tra psichiatria e dirittoUna disamina dell'influenza esercitata dalla perizia psichiatra (ma potremmo parlare più in generale della psichiatria) sulla decisione del giudice, non può prescindere dall'analisi del rapporto, storicamente mutevole, tra psichiatria e diritto. Possiamo prender le mosse, per poi cogliere l'evoluzione e i mutamenti di questo rapporto, dal 1930 e quindi dall'emanazione del codice penale. In passato, come ho già avuto modo di rilevare, esisteva un vero e proprio connubio fra psichiatria e diritto. Queste si muovevano secondo prospettive comuni di difesa sociale e si realizzava un sistema di controllo rigido e stereotipato. La perizia aveva luogo solo in caso di palese anormalità, e se era accertata una delle malattie nosograficamente definite, si riconosceva il vizio di mente. La perizia non era neanche richiesta dall'imputato perché, ove fosse stato riconosciuto infermo di mente, era internato nell'OPG automaticamente secondo un meccanismo presuntivo. Al perito era richiesto di svolgere un ruolo di etichettamento del periziando, coadiuvando il giudice quando si supponeva il ricorso di un'infermità e senza alcun'influenza di carattere terapeutico e criminologico. Si può cogliere la ratio di questo vero e proprio connubio, nell'unanime visione della malattia mentale. La psichiatria aveva una visione positivista e organicista della malattia mentale ed il legislatore del 1930 l'ha fatta propria. I positivisti consideravano l'attività mentale patologica e non, come un prodotto del cervello; l'attività mentale è secrezione del cervello come la bile è secrezione del fegato. La causa del disturbo mentale doveva ricercarsi in un'alterazione organica e quindi dell'organo cervello. La malattia mentale era considerata alla pari di ogni altra malattia organica e per quanto attiene la strategia terapeutica, il malato di mente era collocato in un manicomio dove avrebbe dovuto rimanervi fino a che non fosse guarito e ciò comportava per l'approssimazione e la scarsissima efficacia degli interventi curativi, una degenza a vita. I malati di mente, i pazzi, erano soggetti affetti da una malattia organica particolare, la follia, la pazzia e pertanto dovevano essere custoditi si,

curati si, ma anche allontanati perché ritenuti irresponsabili e pericolosi. La nozione di pazzo o alienato (dal latino alius e alienus) è giunta sino ai giorni nostri. Il sistema della giustizia si appiattiva sulle concezioni della psichiatria; il folle era incapace di intendere e di volere, quindi lo proscioglieva e lo inviava al manicomio criminale dove era dimenticato anche fino alla fine dei suoi giorni. Nell'utilizzazione del sapere psichiatrico in seno alla giustizia è andato frantumandosi, negl'ultimi decenni, l'intima armonia che perdurava da almeno un secolo. Ciò che stupisce è che mentre in altri settori della medicina legale permane una reciproca comprensibilità dei rispettivi ambiti semantici ed una sintonia di cognizioni, questa è venuta meno nel rapporto tra psichiatria e giustizia. L'alleanza profittevole, fondata sulla condivisione di taluni concetti fondamentali sulla malattia mentale, non esiste più nei termini con cui si era sviluppata (se pur con taluni malintesi e incomprensioni); oggi la sintonia è infranta e per Ponti ciò è dovuto al fatto che i paradigmi su cui si fondava il connubio non ci sono più. Potrei affermare che alla base di ogni rapporto c'è il dialogo e che oggi psichiatria e diritto non sembrano parlare la stessa lingua. In particolar modo vi era un concetto intorno al quale si reggeva il rapporto tra psichiatria e diritto, quello di malattia mentale. La psichiatria, con il tempo ha preso coscienza della crisi in cui versava per mancanza di punti di riferimento e di certezze, le stesse che fornite al diritto in età positivista, erano il cemento del connubio diritto-psichiatria. Oggi che la psichiatria rifiuta, quella visione della malattia mentale e i vecchi sillogismi positivisti, essa avverte il disagio culturale di vivere nelle maglie strette e statiche della legge; è come se il diritto e la psichiatria abbiano marciato per anni alla stessa velocità e poi la psichiatria abbia allungato il passo lasciando il diritto dietro di sé. C'è da considerare che, per quanto attiene il diritto, se l'elaborazione dottrinaria giuridica sia rimasta ancorata a concezioni non molto distanti da quelle coeve al dibattito che approdò alla redazione del codice penale nel 1930, è emersa una tendenza evolutiva nella magistratura di cognizione, di esecuzione e rilevanti interventi interpretativi vi sono stati anche da parte della Corte Costituzionale.Dagli anni settanta si assiste ad una rottura con questi sillogismi e stereotipi; l'uomo è avvertito come un unicum, la persona è caratterizzata dalla sua unicità irripetibile come lo è il suo modo di vivere il rapporto tra sé ed il mondo. Questo cosa vuol dire, il malato di mente è malato si, ma non è alienus, è parte del mondo, è sempre una persona umana. Ecco allora che in primo luogo deve rompersi il parallelismo malato di mente-incapace di intendere e di volere. (1) Mutata la percezione della malattia mentale, in una nuova prospettiva è stato affrontato anche il tema dell'imputabilità del malato di mente. Gli apriorismi che avevano caratterizzato la psichiatria di un tempo, non erano più accettabili. Vi è stato anche un approdo antitetico a quello positivista: l'antipsichiatria, che nega l'esistenza stessa della malattia mentale e ritiene sempre imputabile lo psicotico. Szasz, nel 1970, scriveva che non si devono ritenere non imputabili gli autori di reato sulla base dell'infermità mentale e si rifiutava di considerare la malattia mentale "come causa di certi comportamenti". Gli psicotici, per Szasz, non sono individui caratterizzati da condizioni chiamate malattie mentali che li spingono a commettere delle azioni criminali, e per questo dovrebbero essere trattati dalla legge come qualsiasi altro soggetto, non essere mandati in manicomio in quanto irresponsabili, ma scontare la pena. Ora c'è da dire che queste impostazioni sono comprensibili in quei paesi in cui la valutazione della non imputabilità è fondata su un criterio puramente psicopatologico

consistente nell'accertamento di una malattia mentale al momento del fatto, cui segue, automaticamente, la pronuncia di non imputabilità. Dove vige un metodo psicopatologico-normativo, come in Italia, è richiesto non solo il riconoscimento dell'infermità, ma anche l'apprezzamento di come questa interagisca psicologicamente, nel compromettere, in misura più o meno cogente, la capacità di intendere e di volere. In un'ottica responsabilizzatrice, la psichiatria sembra aver raggiunto un approdo: la necessarietà della valutazione della maggiore o minor conservazione dell'integrità dell'Io. Quando sia possibile ravvisare la non globale destrutturazione della personalità, si può ammettere che residui uno spazio sufficiente per una scelta volontaria e consapevole; se l'Io non è del tutto destrutturato, se su questa parte integra si punta per favorire la guarigione, questa stessa parte integra può comprendere il significato illegittimo dell'atto commesso, e può consentire la scelta fra le varie possibilità di agire, ma anche la percezione della pena nei suoi molteplici significati e specialmente quello retributivo ed intimidatorio. A questo punto, se si ammette che uno psicotico può comprendere il significato della pena ed il valore deterrente della stessa, perché dovrebbe essere assegnato al manicomio giudiziario come incapace: se le funzioni dell'Io non sono completamente compromesse, appare più corretto che paghi con il carcere per quel che ha fatto. Non è un aprioristico riconoscimento d'imputabilità del malato di mente, come quello dell'antipsichiatria, ma si tratta di meglio osservare il soggetto, per evitare che la pronuncia di non imputabilità peggiori una situazione recuperabile.

2. Stato psicopatologico e comportamento criminale: criteri di valutazione della responsabilità penaleSi pone quindi il problema di valutare il rapporto fra lo stato psicopatologico ed il comportamento criminale cui corrisponde un criterio o metodo di accertamento della responsabilità. Schreiber ha individuato tre diversi metodi di valutazione della responsabilità penale:

1. Il metodo psicologico normativo che consiste nel valutare l'esistenza di malattie o disturbi psichici e valutarne l'incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Circa i fattori psicopatologici, non sempre la legge li definisce e si limita a far riferimento a concetti molto generali, che poi sono interpretati estensivamente. Per quanto attiene le due capacità di intendere e volere, nella maggior parte dei sistemi penali che seguono tale metodo valutativo (e sono quello danese, francese, olandese, austriaco, irlandese portoghese, svizzero, tedesco, greco ed il nostro) è sufficiente che manchi anche solo una di esse perché il soggetto non sia considerato punibile. Come rileva Pulitanò, il primo metodo, quello "misto", è fatto proprio dal nostro codice penale. In base a tale metodo quindi non occorre solo individuare lo stato patologico, ma anche la verifica normativo giurisprudenziale della rispondenza di tale stato ad una condizione di infermità tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere o entrambe;

2. Il metodo puramente psicopatologico considera non punibili i soggetti affetti da determinate malattie mentali, senza valutarne la loro incidenza sulla capacità di intendere e di volere (Norvegia e Svezia seguono questo metodo). Ne consegue, ed è l'esempio svedese, che il malato mentale venuto a contatto con la giustizia penale, non può essere sottoposto a sanzioni penali punitive, ma deve essere sottoposto a misure di

trattamento psichiatrico;3. Il metodo puramente normativo non considera i problemi psicopatologici,

ma valuta solo se al momento del fatto sussisteva la capacità di intendere e di volere. Tale metodo non è seguito in nessuno dei paesi europei (almeno di quelli membri dell'U.E.) e fa capolino solo in quelli in cui l'elemento psicopatologico interpretato in modo estensivo conduce ad effetti distortivi e ad abusi contrari al "senso di giustizia".

Occorre anche chiarire che esiste un legame tra il criterio utilizzato per definire il disturbo psichico e il criterio per rilevare il rapporto tra disturbo e imputabilità: quanto più è allargato il criterio diagnostico, più è vincolante il rapporto tra malattia mentale e comportamento.Nonostante il maggior sforzo critico dei magistrati, ancora oggi il legame tra disturbo psichico e comportamento criminoso, soprattutto per quanto attiene i reati di violenza resta in piedi. Anche se non esiste più il meccanicismo per il quale il malato di mente è solo per questo prosciolto, si cerca il legame di causalità tra lo stato patologico e l'atto criminoso come se questo fosse sintomo della malattia, del disturbo o, il che è speculare, essa ne sia la causa. In realtà non sembra che si possa affermare che il reato sia sintomo della malattia e ciò anche nei casi più gravi ed efferati. Nel corso del presente studio, ho avuto modo di parlare con più di uno psichiatra forense ed ho trovato conferme al fatto che il reato non necessariamente è sintomo di patologia. Ma potrei citare altri esempi: pensiamo ad un soggetto che sia convinto a causa di una tematica delirante tecnicamente ben individuabile e rafforzata da fenomeni dispercettivi, che il coniuge lo tradisca; supponiamo che commetta uxoricidio. In tal caso l'uxoricidio non può dirsi sintomo del disturbo psichico "delirio di gelosia", né è sintomo della infermità psichica che comporta il delirio e le allucinazioni (questi si sintomi della malattia). Il delirio è una strada, è un mezzo attraverso il quale il soggetto viene a conoscenza di un fatto, il tradimento del coniuge, anche se in tal caso non è reale. Non è diversa la situazione di chi, magari con i propri occhi, scopre di essere tradito. A quel punto entrambi hanno di fronte una certezza, il tradimento. Il comportamento successivo sarà frutto di una serie di variabili culturali, personali, relazionali, sociali, ma non del modo in cui sono venuti a conoscenza del fatto di essere traditi. Pertanto potranno vendicarsi di pari grado, separarsi, ferire il coniuge o ucciderlo, ma lo potranno fare entrambi non solo il delirante. Anche il delirante uxoricida, sa e vuole in modo non dissimile dall'uxoricida per gelosia non delirante che cede agli stati emotivi e passionali, e che a norma del nostro codice penale, non escludono e non diminuiscono l'imputabilità. Ciò non toglie che vi siano anche coloro che ritengono che all'origine dell'uxoricidio vi sia un'informazione sbagliata, prescindente dalla realtà, e che ciò comprometterebbe la libertà di scelta rispetto agli altri, ma non solo non è facile da dimostrare, ma rischia anche di riportare in auge l'antico dilemma morale e filosofico libero arbitrio-servo arbitrio, determinismo o libertà. Alla luce di queste considerazioni sembra allora doversi distinguere in ambito psichiatrico e con riguardo alla infermità psichica, la sofferenza dalla violenza eventualmente concomitante. È essenziale tale distinzione anche per evitare che lo psichiatra divenga controllore dei comportamenti del periziando in funzione sociale anziché interprete o cointerprete di problemi del soggetto. Il controllo sociale spetta ad altre competenze ed "agenzie sociali" non allo psichiatra perché tale azione è aterapeutica anche se l'aspetto terapeutico è assente nella perizia.

La valutazione dei problemi connessi con l'imputabilità e la responsabilità penale a livello dei casi individuali, nel campo delle scienze di tipo clinico come sono la psicologia e la psichiatria, hanno evidenziato come i periti non sono scientificamente qualificati per fornitore pareri, se non veri e propri giudizi, in merito a questioni morali e filosofiche, come la responsabilità o l'imputabilità penale. Giustamente Canepa fa notare che il parere del perito è trasformato dal magistrato in un giudizio morale sulla responsabilità e quindi sulla libertà del soggetto che deve essere giudicato, ma il perito non ha la competenza per esprimersi sulla responsabilità e sull'imputabilità da qui, la richiesta di revisione di tali concetti in seno al codice penale. Per Canepa il perito dovrebbe limitarsi alla comprensione clinico-fenomenologica dell'atto criminoso ed elaborare un programma di trattamento finalizzato alla risocializzazione.

3. L'influenza della perizia psichiatrica sulle decisioni del magistrato e sui programmi di trattamentoPotremmo distinguere due diversi ambiti di influenza della perizia psichiatrica:

1. le decisioni del giudice2. il trattamento del reo malato di mente.

Circa le decisioni del giudice abbiamo parlato del connubio psichiatria e diritto. Abbiamo visto come vi fosse un affidamento totale del diritto ad una psichiatria che sembrava fornire certezze e risposte certe in ordine ai quesiti posti dal magistrato. Per anni si è assistito ad un appiattimento della giurisprudenza di merito rispetto alle rilevazioni peritali e ciò sia perché è mancata e manca una preparazione universitaria e professionale dei magistrati sulle tematiche psichiatriche e psicopatologiche, sia perché da sempre i magistrati hanno preferito ricorrere ad un ampia delega a favore dei periti chiamati a esprimere i loro pareri nelle varie fasi del processo penale e nella fase di cognizione e nella fase esecutiva. Manacorda ha rilevato che dopo anni di proscioglimenti indiscriminati per difetto di imputabilità, la tendenza ad emettere sentenze sommarie ha rallentato, ma non perché siano state apprese le moderne acquisizioni sulla malattia mentale ed il disturbo psichico, ma per esigenze di opportunità, per fronteggiare una criminalità organizzata crescente, che vedeva gli imputati, presunti promotori di strutture criminali, allegare disturbi psichici per ottenere il riconoscimento della non imputabilità e conseguente destinazione, prima automaticamente ora previo accertamento della pericolosità, ad un trattamento (la misura di sicurezza O.P.G.) più vantaggioso che non la pena ordinaria. La normativa della misura di sicurezza per come è stata concepita, è, infatti, più vantaggiosa per gli autori dei reati gravi che per quelli di reati di minore entità. Nel corso del colloquio con la dott.ssa Brandi ed il dott. Jannucci alla domanda relativa al problema della simulazione nel corso della perizia, mi è stato risposto che il rischio è sempre presente ed il perito deve tenerne conto, ma è anche vero che questo è proporzionale alla gravità del reato e sarebbe assurdo simulare per chi è imputato di un reato per il quale è prevista una pena edittale, nel massimo, non molto alta. Un autore di reato grave riconosciuto non imputabile e pericoloso è destinato alla misura di sicurezza, ma se non ha disturbo mentale e privo di turbe psicopatologiche, fruirà della revoca della misura di sicurezza che a quel punto diviene un atto dovuto non ricorrendo le condizioni per mantenerla. Secondo Manacorda nei casi di criminalità organizzata avrebbe dovuto essere la constatazione della impossibilità di coincidenza tra capacità manageriale degl'imputati e incapacità di intendere e volere a spingere alla inversione di tendenza sui proscioglimenti

e non ragioni di opportunità.Ma guardiamo nel dettaglio il codice di rito; questi prevede che il difetto di imputabilità, genericamente inteso e pertanto dovuto ad una qualsiasi delle cause previste dalla legge, in un soggetto appartenente ad una qualsiasi delle fasce di età all'uopo considerate dal codice penale (minore di anni 14, minore di anni 18 e maggiore di 14 e maggiore di 18), possa essere riconosciuto dal giudice tanto nella fase dell'udienza preliminare, quanto nel corso del dibattimento. Se riconosciuto dal giudice dell'udienza preliminare, il difetto di imputabilità conduce ad "una sentenza di non luogo a procedere" ex art. 425 c.p.p.Se il difetto di imputabilità sarà invece riconosciuto nel corso del dibattimento, esso condurrà ad una sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p. .Abbiamo preso come punto di partenza l'età del soggetto ma potrebbe non esservi certezza in merito a questa e allora vengono in soccorso le presunzioni ed il principio del favor rei.Se l'imputato è di età inferiore ai 14 anni sappiamo che opera la presunzione assoluta di non imputabilità. Nel dubbio sull'età dell'imputato ovvero, se l'imputato avesse o meno compiuto i 14 anni al momento del fatto, opera una presunzione relativa, e quindi vincibile dalla prova contraria, di minore età da cui la presunzione assoluta di non imputabilità.Se il soggetto ha un età compresa tra i 14 e i 18 anni vi è presunzione relativa di difetto di imputabilità. Nel caso di dubbio sull'età e il dubbio permanga anche dopo che il giudice abbia disposto perizia, vige la presunzione relativa anzidetta.Circa il soggetto maggiorenne prosciolto in udienza preliminare, è necessario che il difetto di imputabilità sia evidente al punto che è presumibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, che un eventuale successivo giudizio non sia in grado di far maggior luce sul punto o di concludersi in maniera diversa. In presenza di questa evidente risultanza di difetto di imputabilità, prevale il principio di economia processuale ed il procedimento può concludersi all'udienza preliminare. Circa l'assoluzione in dibattimento, l'art. 530 c.p.p. estende alla prova della imputabilità il principio dell'assoluzione in caso di insufficienza di prove sull'imputabilità ovvero, art. 530 2º comma c.p.p., "quando manca o è insufficiente la prova che il reato è stato commesso da persona imputabile".Ma quali sono le conseguenze della pronuncia di non imputabilità?Abbiamo visto che i quesiti posti al perito sono tre e che al secondo, sulla pericolosità, il perito risponde se ha risposto positivamente al primo nel senso che vi è vizio di mente. Mi limiterò solo a citare le conseguenze della valutazione di non imputabilità in quanto si tratterebbe di affrontare la tematica della pericolosità sociale. In breve, il minore di 18 anni non imputabile per età (minore di anni 14) o perché incapace di intendere e volere, ed il minore di anni 18 non imputabile per vizio di mente, sono prosciolti e non assoggettati a pena. Le esigenze di difesa sociale (ma non solo), impongono che se ha commesso un delitto e sia ritenuto pericoloso, avuto riguardo alla gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia, si applica al minore la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libertà vigilata. Se non si applica la misura di sicurezza detentiva, il minore potrà essere affidato al servizio sociale minorile ad una casa di rieducazione o ad un istituto pedagogico o medico-psichico; si tratta di misure rieducative.Il minore di anni 18 ma che ha compiuto i 14 anni quando è riconosciuto imputabile fruisce di agevolazioni in termini di diminuzione di pena e di pene

accessorie; se il giudice lo considera pericoloso, ordina che dopo l'esecuzione della pena sia applicata una delle misure di sicurezza sopraindicate.Se il minore è incapace di intendere e di volere, anche per ragioni non attinenti all'età, si fa luogo al trattamento curativo, e l'articolo 222 4º comma c.p., stabilisce che anche ai minori di 14 anni o maggiori di 14 ma infradiciottenni, si applica la misura dell'OPG se hanno commesso il reato in condizioni di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o sostanze stupefacenti o sordomutismo. Ho descritto la situazione dei minori perché, ovviamente, peculiare rispetto a quella del maggiorenne e per la quale rinvio ad altro studio. (2) Mi limito a ricordare che il codice penale gradua agl'artt. 88 e 89 il vizio di mente, in totale e parziale. Se vi è vizio totale e l'imputato è pericoloso, si applica la misura di sicurezza dell'OPG. Se il vizio è parziale ed ha scemato grandemente la capacità di intendere e di volere, l'imputato è condannato a una pena ridotta e se è socialmente pericoloso, le misure di sicurezza applicabili sono l'assegnazione alla casa di cura e di custodia. Merita menzione un aspetto particolarmente importante dell'accertamento della pericolosità quale momento successivo alla dichiarazione di non imputabilità per infermità psichica: esistevano nel nostro codice penale una serie di presunzioni relative alla pericolosità che portavano, se pur nei casi previsti dalla legge, alla automaticità della misura di sicurezza. Ebbene, queste presunzioni sono venute meno grazie ad una serie di sentenze della Corte Costituzionale. (3)Nel nostro sistema penale, ma anche in quelli della maggior parte dei paesi europei, le conclusioni dei periti esercitano una minima influenza sulla programmazione del trattamento dei malati di mente. In effetti un quesito relativo al programma di trattamento non è neanche posto al perito nel nostro ordinamento. Allo psichiatra si chiede di pronunciarsi su questioni che sono prettamente giuridiche: l'imputabilità e la pericolosità sociale. Quest'ultima sappiamo essere la probabilità di recidiva di un comportamento delittuoso e quindi al perito è richiesto un parere di predizione aleatorio e caratterizzato da scarsa attendibilità. Ciò non toglie che in alcuni paesi tale quesito sia posto ed è il caso della Svizzera. Questo scollamento tra fase della perizia e successiva fase trattamentale, comporta che il trattamento sia realizzato senza che vi sia l'apporto del perito e su base di automatismi fondati sulla considerazione della gravità del fatto di illecito sulla pericolosità ma non sulle condizioni psicopatologiche e cliniche del soggetto. Al perito non è richiesto di operare un trattamento ma ciò non toglie che effetti positivi e terapeutici possono derivare anche nel corso della perizia. Bernheim, per esempio, ha affermato che la perizia non solo può essere occasione per il periziando di riflettere, magari per la prima volta, sulla propria esperienza di vita, ma in più può preparare il soggetto all'idea di un trattamento che sarà iniziato daun'altra persona. Comunque al di là del fatto che al perito non è richiesto direttamente di occuparsi del trattamento ma di altro, di rispondere ai quesiti posti dal giudice, ciò che costituisce un impedimento allo svolgersi dello stesso è sia la situazione socio-ambientale in cui il soggetto si trova, sia l'ignoranza delle condizioni in cui il trattamento suggerito si svolgerà. Nell'ottica trattamentale il presupposto è dato dalla comprensione clinico-fenomenologica del reato, anche il fatto di reato più grave può essere compreso e secondo una criteriologia che non dovrebbe discriminare l'insanità mentale dalla normalità. In quest'ottica allora la perizia non è più limitata alle cause psicopatologiche, ma alla comprensione dell'atto nel suo complesso e all'elaborazione di un programma di trattamento.

4. Conclusioni e prospettive futureA conclusione di queste pagine posso affermare che ciò che sembra caratterizzare la psichiatria oggi è il disagio culturale, scientifico di calarsi nelle maglie giuridiche e giudiziarie strette e statiche. Abbiamo anche visto come esistono due posizioni ideologiche antitetiche: da un lato il pensiero di matrice positivista, che vorrebbe un maggior coinvolgimento delle scienze umane nel processo penale ed una trasformazione della pena in un processo di cura e rieducazione, dall'altro lato, la tendenza opposta che vorrebbe incentrare il processo penale sul reato con minor considerazione del reo. Secondo questa ultima impostazione, l'accertamento della malattia mentale dovrebbe avere uno spazio estremamente ridotto all'interno del processo penale e ciò in ragione delle mistificazioni, delle distorsioni e degli abusi contrari all'interesse della giustizia e spesso del reo. Spesso, infatti, accade che la terapia mascheri dietro le argomentazioni cliniche una repressione e ciò in violazione dei diritti e delle garanzie del reo. In termini di proposte le tendenze ideologiche opposte si traducono da un lato, nella richiesta di una generalizzazione della perizia "criminologica", dall'altro nell'abolizione della perizia e della imputabilità, considerando sempre imputabili i rei affetti da malattia mentale. (4) Non sono solo esigenze di giustizia a spingere per l'esclusione della non imputabilità dei malati di mente, ma anche considerazioni cliniche: la moderna psichiatria ritiene sia necessario recuperare spazi di libertà al malato di mente e che l'acquisizione della responsabilità faciliti il successivo intervento terapeutico superando gli effetti negativi della stigmatizzazione derivante dall'attribuzione di incapacità. Tuttavia, non sembra possibile raggiungere finalità di responsabilizzazione, di terapia, di conferimento di dignità al malato di mente solo attraverso un'artificiosa e rigida affermazione della capacità di intendere e volere dei portatori di disturbi psichici. Queste finalità richiede la costruzione di un nuovo rapporto tra psichiatria e giustizia. In passato esisteva un legame forte tra diritto e psichiatria che si reggeva su una visione organicistica della malattia mentale: il malato di mente era, in ogni caso, incapace e pericoloso. Sono state le acquisizioni della psicoanalisi e la scoperta delle dinamiche sociali che sottendono la definizione ed il trattamento delle malattie mentali, che hanno permesso di considerare la malattia mentale come una realtà complessa e articolata, accompagnata da gradi di comprensione e libertà anche rispetto agli illeciti penali. Dice Ponti: "Superato il pregiudizio che considerava il malato di mente sempre incapace, bisogna evitare quello opposto di considerarlo sempre capace di intendere e di autodeterminarsi perché ciò contrasterebbe con la realtà clinica". La proposta di abolire l'imputabilità e di spostare la valutazione psichiatrica al momento esecutivo della pena (5) per ridurre eventualmente il peso della sanzione, può, tra l'altro, condurre a rischi di enfatizzazione e simulazione dei disturbi psichici e tal proposito Bandini parla di fenomeno analogo alle sindromi da indennizzo. Per Ponti, è impensabile la proposta di abolire le norme relative alla imputabilità e senza accogliere il sillogismo malato di mente-incapace, ritiene si debbano offrire soluzioni concrete a situazioni le quali pur non essendo riconducibili alla malattia mentale, possono presentarsi in alcuni casi e nel singolo caso, per tempi più o meno lunghi. Sulla stessa linea si colloca il dott. Jannucci il quale, concorde con la Dottoressa Brandi, non condivide l'impostazione della scuola triestina che vorrebbe "cambiar la situazione esistente a colpi d'accetta", e si dice favorevole ad "un diritto mite ovvero flessibile e praticabile in clinica". Il dott.

Jannucci ha affermato: "Occorre contestualizzare: io credo che ora come ora negl'istituti di pena ordinari sia troppo difficile fornire al malato socialmente pericoloso un'assistenza congrua. Bisogna prevedere speciali istituti di cura per costoro e allora la perizia potrebbe essere il luogo dove si decide se colui che ha commesso il reato era tanto infermo di mente e pericoloso da necessitare questa cura; quindi in linea di principio sono contro tutte le forzature e contro l'atteggiamento che già negli anni '60 ci fu la proposta di legge Vinci Grossi che poi è tornata in auge alcuni anni fa quando c' era l'onorevole Corleone sottosegretario alla giustizia che diceva di abolire l'istituto della perizia psichiatrica, e di abolire l'art. 88-89 del c.p. così anche il malato di mente autore di reato risponde penalmente del reato,il magistrato applicherà le varie attenuanti però nell'esecuzione penale gli si darà una cura: Ma io dico come si può dare una cura in queste condizioni, non è possibile che sia il penitenziario a dare una cura". Infine riporto la testimonianza del dott. Paterniti su questa stessa questione: "Sarei d'accordo (con la proposta di abolire l'imputabilità) se poi il trattamento fosse adeguato e condotto in strutture apposite ed il trattamento fosse vero e sarebbe preferibile alla detenzione nell'O.P.G. che ha solo un valore di contenzione e non di cura e trattamento ma non mi sembra che l'ordinamento penitenziario sia in grado di assolvere alla funzione di cura. C'è da dire che non tutti i soggetti sono trattabili, alcuni potrebbero aver la prescrizione dell' obbligo di cura ma si tratta sempre di trovare le strutture pensiamo, per esempio, al tossicodipendente il quale è inviato alle comunità, agli arresti domiciliari con l'obbligo di cura".Ma vi è un'altra ragione per mantenere le norme sull'imputabilità: il fine di queste norme è proteggere chi non era al momento del fatto, pienamente o totalmente responsabile dei propri atti.Non sembra, alla luce di queste considerazioni operate che la psichiatria possa continuare ad operare nel sistema penale così come le è richiesto. Esercitare la psichiatria, dicono Merzagora e Ponti, è svolgere un'attività falsa e falsificante, si affermano cose cui nessuno crede più adeguandosi a richieste incompatibili con l'attuale sapere psichiatrico. Posso riportare ciò che al riguardo ha affermato il dott. Jannucci: "[...] ammesso che la giustizia dica ad esempio che sono incapaci di intendere e di volere e che possa essere considerata infermità in termini psichiatrici forensi solo quell'infermità legata a danno organico, [...] in psichiatria non esiste il dire: - si tratta di danno organico quindi dirò al giudice che questo o quello è infermo di mente-. In realtà, in psichiatria e nelle conoscenze psichiatriche attuali si parla di disturbo in termini bio-psico-sociale, quindi siccome queste sono le nostre conoscenze non possiamo rinunciarvi perché entro in ambito forense, quindi andrò oltre a quello che la giurisdizione e le varie sentenze hanno ammesso e riconfermato in modo molto contraddittorio e che si rifanno ad esigenze di politica criminale e che purtroppo sono sottaciute e poco discusse, tanto più che si giudica il momento del reato quindi, per esempio, è vero che la giustizia ci dice che non deve essere una patologia puntiforme, ma è una cosa che in quanto psichiatra non posso dire, perché esistono delle psicosi brevi, quindi io non posso escludere questo fatto, e non posso negarla una volta che ho constatato che siamo in questa situazione; questo è un rischio grandioso perché in un certo momento della vita chiunque potrebbe avere avuto questa cosa". Ma di là dalle incomprensioni esistenti tra psichiatria e giustizia resta in ogni modo il fatto che il parere chiesto al perito è una valutazione non assoluta ma probabilistica nel senso che la certezza assoluta non esiste in merito a quanto all'esperto è

richiesto dal giudice. Sembrano più che mai attuali le parole di Wootton per cui: " né la medicina, né qualsiasi altra scienza potrà mai sperare di raggiungere la prova che una persona non sia in grado di resistere ai propri impulsi perché non può o perché non vuole. Le proposizioni della scienza sono soggette a verifica empirica: ma poiché non è possibile mettersi nei panni di un altro uomo, non è concepibile un criterio oggettivo che possa distinguere il non ha resistito da il non ha potuto resistere. Si deve allora affermare che non è possibile fissare un misura esatta della responsabilità, nel senso di capacità del soggetto ad agire diversamente da come in realtà ha agito".La perizia appare un passaggio importante e di contributo sostanziale nel senso che dalle testimonianze degli esperti mi è parso di capire che la perizia non è atto dovuto e quindi formale. Posso a tal riguardo riportare quanto affermato da Paterniti che sintetizza un po' questa posizione: "La mia esperienza è stata positiva e attenta, i magistrati che mi hanno chiesto perizie lo hanno fatto a ragione veduta anche a garanzia dell'imputato altre volte per meglio valutare la dinamica dell'evento reato ... io faccio quasi esclusivamente, anzi esclusivamente, perizie per magistrati o giudici e non faccio perizie di parte per scelta. Ho avuto l'impressione che i magistrati che mi chiedessero perizie lo facessero non perché si deve fare ma perché la situazione lo richiede." Sembra allora potersi dire che la psichiatria forense è destinata a cambiare radicalmente ma non certo a scomparire. (6) Ad essa spetterà il compito di comprendere la natura del disturbo ed il ruolo che esso ha avuto nel delitto, di trasferire al giudice queste conoscenze acquisite, di prevedere e programmare tempi e modi della terapia. (7) Si tratterà di un ruolo diverso, più vicino a quello della psichiatria clinica e dunque, di terapeuta e non di giudice, quale oggi lo psichiatra forense, di fatto, esercita. Non sembra accettabile che dal suo aleatorio giudizio dipenda la libertà o la pena per il peritato, un giudizio che poi è emesso sulla base di una criteriologia psichiatrica che si traduce in una giustizia troppo discrezionale, priva di certezza del diritto e per questo aleatoria.Concludo riportando un pensiero di Piero Calamandrei che al meglio esprime il ruolo del processo e pertanto di quale contributo può venire al diritto da altre scienze:"Ricordarsi che il processo è essenzialmente studio dell'uomo; non dimenticarsi mai che tutte le nostre simmetrie sistematiche, tutte le nostre elegantie juris, diventano schemi illusori se non ci avvediamo che al di sotto di essi di vero e di vivo non ci sono che gli uomini, colle loro luci e loro ombre, con le loro virtù e le loro aberrazioni."

Note al capitolo 3(1) "Non è da ritenersi sufficiente nemmeno la diagnosi di psicosi al fine di escludere la capacità [...] necessita accertare se il fatto illecito, considerato dal punto di vista della sua motivazione, risulta intimamente connesso con la malattia ed in ultima analisi con il campo fenomenico e diafenomenico da essa alterato". (De Vincentiis, Calleri e Castellani 1972).(2) Rinvio alla relazione di Alessandra Marconi.(3) Sent. 27\07\1982 n.139 abrogratrice dell'art. 204 2º comma c.p., e degl'artt. 205 cpv e n. 2 e 222, comma 1º "nelle parti in cui non subordinano il provvedimento di ricovero in O.P.G. dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della cognizione e dell'esecuzione della persistente pericolosità derivante dall'infermità medesima esistente al tempo dell'applicazione della misura".(4) A tal proposito in data 29\11\1983 era stata presentata alla Presidenza del Senato, una proposta di legge (D.D.L. 177), che all'articolo 1 sanciva il principio per cui la malattia mentale non esclude ne diminuisce l'imputabilità con conseguente rifiuto della valutazione psichiatrica

nel processo penale. In tale prospettiva, l'accertamento psichiatrico è solo spostato al momento dell'esecuzione della pena senza garanzie e con il rischio di una psichiatrizzazione del mondo penitenziario. (Bandini-Gatti: Prospettive di riforma in tema di imputabilità e trattamento del malato di mente).(5) Si tratta di un sistema seguito in Belgio ed in Svezia; ho chiesto in particolare a tutti periti incontrati cosa ne pensassero e se fosse praticabile in Italia e sono emerse posizione diverse: la sfiducia, nel caso dei Dottori Brandi e Jannucci, una posizione possibilista, nel caso del dott. Paterniti, o ancora la fiducia e l'apprezzamento del sistema attuale ed è il caso del dott. Cantale che tuttavia ritiene migliorabile questo senza smantellarlo.(6) Bandini e Lagazzi hanno formulato questa proposta di riforma dei quesiti peritali che sintetizza il diverso ruolo che dovrebbe rivestire la perizia:

%6%. dica il perito se al momento dei fatti per cui è imputato, il periziando abbia manifestato disturbi psicopatologici e, in caso affermativo, di quale tipo e quale gravità;

%6%. dica se questi disturbi psicopatologici abbiano inciso sulle capacità del soggetto al punto di comprendere il comportamento delinquenziale secondo schemi abituali di pensiero ed in quale misura;

%6%. dica se tali disturbi persistano al momento dell'indagine peritale.(7) "Io penso che noi tecnici prima di consegnare la relazione al giudice, dobbiamo farci una domanda: abbiamo messo in grado quest'uomo o questa donna di capire? Come diceva Ponti, occorre utilizzare termini comprensibili anche dall'uomo della strada ma non perché il giudice sia stupido ma perché egli è uomo di legge e non un medico e deve essere messo nelle condizioni di comprendere". dott. Cantale.

Bibliografia Ponti, Merzagora, Psichiatria e giustizia. Testi studi e ricerche di scienze

giuridiche; Milano, R. Cortina, marzo 1993 Vittorino Andreoli, Il caso Maso. Roma, Editori Riuniti marzo 1994. Luigi Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto. Padova, Cedam

1981. Paolo Tonini, Manuale di procedura penale. Milano, Giuffrè Editore 2000. Ferrando Mantovani, Diritto penale. Padova, Cedam 1992. Isabella Merzagora, Il colloquio criminologico. Milano, UNICOPLI, 1987. Orsenigo M., L'uso del test di Rorschach in medicina legale. Rivista

Italiana di medicina legale, 1987 Adolfo Ceretti e Isabella Merzagora, Questioni sull'imputabilità. 1994 Bandini, Tullio, Lezioni di psicologia e psichiatria forense Milano, Giuffrè

2000 Fornari Ugo, Compendio di Psichiatria forense Torino, EGES, 1984. Giacomo Canepa, Maria Ida Marugo, Imputabilità e trattamento del

malato di mente autore di reato / a cura di Padova, CEDAM, 1995. Manacorda A., Imputabilità e pericolosità sociale, Criminologia 1986 Manacorda A. La mancanza, l'insufficienza o la contraddittorietà della

prova circa l'imputabilità, nel nuovo codice di procedura penale 1991 Il reo e il folle. I quaderni della rivista. Periodico a cura dei dott. Brandi e

Jannucci Gatti U., L'accertamento dell'imputabilità e della pericolosità sociale alla

luce della situazione esistente in alcuni paesi europei 1992 Orsenigo M., Imputabilità: considerazioni di ordine clinico su un problema

giuridico 1991 Verde A., Perizia e diagnosi psichiatrica: problemi 1991 Ai suddetti testi devono essere aggiunte le interviste rilasciatemi dai

seguenti psichiatri:

Dottoressa Gemma Brandi, Psichiatra Psicoanalista consulente psichiatra del ministero della Giustizia.

Dott. Jannucci M., Psichiatra presso il carcere Sollicciano di Firenze. Dott. Paterniti R., Psichiatra presso il raparto femminile dell'ospedale

Santa maria Nuova di Firenze e psichiatra forense. Dottoressa Carla Niccheri, Psichiatra clinica e forense Dott. Cantale M., Psicodiagnostaclinico e forense