POTERE DISCIPLINARE E DIRITTI DEI LAVORATORI · Il potere disciplinare e il diritto di accesso...

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ANDREA SITZIA (RICERCATORE DI DIRITTO DEL LAVORO NELL'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA, AVVOCATO) POTERE DISCIPLINARE E DIRITTI DEI LAVORATORI SOMMARIO: 1. Premessa. Potere disciplinare e diritti dei lavoratori: obiettivo e limiti dell’indagine – 2. Fonti, natura e funzione del potere disciplinare: prospettive teoriche – 3. La funzione “dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare nella giurisprudenza – 4. Funzione “dissuasivo- pedagogica” ed insussistente obbligo di parità di trattamento nel lavoro privato – 5. Le ipotesi di esercizio “doveroso” del potere disciplinare – 6. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: il caso delle molestie sessuali – 7. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: le violazioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro - 8. Il danno da illegittimo esercizio del potere disciplinare. Aspetti generali e rinvio – 9. Le sanzioni disciplinari pretestuose: prospettive giurisprudenziali – 10. Il potere disciplinare e la tutela della riservatezza del lavoratore: aspetti di carattere generale – 11. Il potere disciplinare e il diritto di accesso previsto dal Codice privacy. BIBLIOGRAFIA: De Litala 1931 - Mancini 1957 – Persiani 1966 - Montuschi 1973 - Mazzoni 1977 – Cendon 1985 - Ichino 1986 - Tremolada 1993 – Grandi 1999 – Chieco 2000 - Ghera 2000 – Ubertazzi 2000 - Mainardi 2002 – Ferrante 2003 - Ichino 2003 – Suppiej 2003 – Mainardi 2004 – Ferrante 2004 - Vallebona 2004 – Del Punta 2006 – Ichino 2006 - Manzone 2006 – Bellanova 2007 - Comandé 2007 - Mattarolo 2007 – Montesarchio 2007 – Muggia 2007 – Tampieri 2007 – Barraco-Sitzia 2008 – Pizzonia 2008. LEGISLAZIONE: Cost. art. 41 - C.c. artt. 1175, 2085, 2086, 2087, 2094, 2104, 2105, 2106 – l. 20.5.1970, n. 300 art. 7 – D.lvo. 30.6.2003, n. 196. 1. Premessa. Potere disciplinare e diritti dei lavoratori: obiettivo e limiti dell’indagine. Le riflessioni che seguono non intendono approfondire analiticamente l’istituto del potere disciplinare del datore di lavoro né sotto il profilo specifico dell’esegesi della normativa di riferimento, né sotto quello della precisazione definitiva delle conseguenze risarcitorie in caso di esercizio illegittimo (o abusivo) del potere stesso (rinviandosi al riguardo, per affinità di materia, al capitolo sul licenziamento illegittimo in questo stesso trattato); l’obiettivo dell’indagine, in ossequio alle finalità complessive di quest’opera, è di carattere più generale, mirando a verificare come lo specifico tema assegnato (qui il potere disciplinare) si innesti su quello, di livello superiore, dei rapporti tra realizzazione personale e responsabilità civile. In altri termini, la questione specifica sottoposta a verifica qui consiste nell’individuazione di quali “attività realizzatrici”, di quali prerogative della persona del lavoratore possano venire turbate dall’esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere disciplinare. Delimitati in questi termini gli obiettivi dell’analisi, è necessario enucleare quali aspetti della problematica attinente il potere disciplinare possano avere rilevanza ai fini 1

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ANDREA SITZIA

(RICERCATORE DI DIRITTO DEL LAVORO NELL'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA, AVVOCATO)

POTERE DISCIPLINARE E DIRITTI DEI LAVORATORI

SOMMARIO: 1. Premessa. Potere disciplinare e diritti dei lavoratori: obiettivo e limiti dell’indagine – 2.

Fonti, natura e funzione del potere disciplinare: prospettive teoriche – 3. La funzione

“dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare nella giurisprudenza – 4. Funzione “dissuasivo-

pedagogica” ed insussistente obbligo di parità di trattamento nel lavoro privato – 5. Le ipotesi di

esercizio “doveroso” del potere disciplinare – 6. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: il

caso delle molestie sessuali – 7. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: le violazioni in

materia di igiene e sicurezza sul lavoro - 8. Il danno da illegittimo esercizio del potere

disciplinare. Aspetti generali e rinvio – 9. Le sanzioni disciplinari pretestuose: prospettive

giurisprudenziali – 10. Il potere disciplinare e la tutela della riservatezza del lavoratore: aspetti

di carattere generale – 11. Il potere disciplinare e il diritto di accesso previsto dal Codice

privacy.

BIBLIOGRAFIA: De Litala 1931 - Mancini 1957 – Persiani 1966 - Montuschi 1973 - Mazzoni 1977 –

Cendon 1985 - Ichino 1986 - Tremolada 1993 – Grandi 1999 – Chieco 2000 - Ghera 2000 –

Ubertazzi 2000 - Mainardi 2002 – Ferrante 2003 - Ichino 2003 – Suppiej 2003 – Mainardi 2004 –

Ferrante 2004 - Vallebona 2004 – Del Punta 2006 – Ichino 2006 - Manzone 2006 – Bellanova

2007 - Comandé 2007 - Mattarolo 2007 – Montesarchio 2007 – Muggia 2007 – Tampieri 2007 –

Barraco-Sitzia 2008 – Pizzonia 2008.

LEGISLAZIONE: Cost. art. 41 - C.c. artt. 1175, 2085, 2086, 2087, 2094, 2104, 2105, 2106 – l.

20.5.1970, n. 300 art. 7 – D.lvo. 30.6.2003, n. 196.

1. Premessa. Potere disciplinare e diritti dei lavoratori: obiettivo e limiti dell’indagine.

Le riflessioni che seguono non intendono approfondire analiticamente l’istituto del

potere disciplinare del datore di lavoro né sotto il profilo specifico dell’esegesi della

normativa di riferimento, né sotto quello della precisazione definitiva delle conseguenze

risarcitorie in caso di esercizio illegittimo (o abusivo) del potere stesso (rinviandosi al

riguardo, per affinità di materia, al capitolo sul licenziamento illegittimo in questo stesso

trattato); l’obiettivo dell’indagine, in ossequio alle finalità complessive di quest’opera, è

di carattere più generale, mirando a verificare come lo specifico tema assegnato (qui il

potere disciplinare) si innesti su quello, di livello superiore, dei rapporti tra realizzazione

personale e responsabilità civile.

In altri termini, la questione specifica sottoposta a verifica qui consiste

nell’individuazione di quali “attività realizzatrici”, di quali prerogative della persona del

lavoratore possano venire turbate dall’esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere

disciplinare.

Delimitati in questi termini gli obiettivi dell’analisi, è necessario enucleare quali aspetti

della problematica attinente il potere disciplinare possano avere rilevanza ai fini 1

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prefissati. Al riguardo, una preliminare precisazione attiene all’individuazione di quali

possano essere le “attività realizzatrici” che vengono in rilievo nella materia in esame, ed

in particolare quali possano essere, in astratto, le prerogative della persona del

lavoratore subordinato suscettibili di essere interessate, e quindi illecitamente calpestate,

dal potere in esame.

Rispetto ad altri settori dell’esperienza umana, porre una tale questione preliminare

con riferimento al lavoro, inteso in senso giuridico (per un inquadramento dogmatico

degli elementi del “lavoro” in senso giuridico si veda, per tutti, Mazzoni 1977, 3), ed in

particolare con riferimento al problema del potere e della responsabilità disciplinare nel

rapporto di lavoro, imporrebbe una riflessione complessa che non è possibile in questa

sede.

Ai limitati fini della presente indagine è necessario, e sufficiente, evidenziare che il

lavoro è, di per sé stesso, una delle principali “attività realizzatrici” della persona umana,

come da tempo accuratamente sottolineato dalla dottrina giuslavoristica nell’approfondire

il tema della dimensione personale del contratto di lavoro e dell’implicazione personale

del lavoratore nel rapporto di lavoro medesimo (si veda, per tutti, Grandi 1999 e, da

ultimo, Del Punta 2006; per una riflessione di carattere più generale si veda Manzone

2006; per una chiara e significativa affermazione del valore etico del lavoro si veda

Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 6: AAS 73 (1981) 590). Una tale

acquisizione non può andare disgiunta dalla ulteriore considerazione del rilievo sociale del

lavoro umano, lavoro che si svolge con altri, all’interno di una collettività umana, qual’è

l’insieme dei collaboratori dell’impresa, impegnati nel perseguimento di obiettivi comuni

(con questo non si intende prendere posizione in favore o contro la teoria istituzionale

dell’impresa; sul tema, con specifica attenzione al problema della giustificazione del

potere disciplinare, cfr. Ferrante 2004, 90).

L’aver evidenziato, preliminarmente, che il lavoro, caratterizzato da una forte

rilevanza sociale, contribuisce alla realizzazione della persona umana, acquista un

significato precipuo ai fini dell’indagine relativa al potere disciplinare in quanto, come si

evidenzierà più avanti, tale potere interessa direttamente, sensibilmente ed

indissolubilmente la dimensione personale e sociale del lavoro; il potere disciplinare,

infatti, mira a ristabilire l’equilibrio giuridico tra i due soggetti del rapporto di lavoro

(Mazzoni 1977, 503), attraverso un innegabile funzione di

intimidazione nei confronti sia del colpevole sia degli altri soggetti inseriti nell’organismo(Mancini 1957, 24).

Il problema centrale, dunque, ai fini della presente indagine, attiene alla

giustificazione, alla funzione, del potere disciplinare, ed in particolare alla verifica circa la

“funzione dissuasiva” della sanzione disciplinare nei confronti degli altri dipendenti della

stessa azienda, funzione di recente confermata da una interessante sentenza della Corte

di Cassazione, secondo la quale

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in materia di sanzioni disciplinari, la valutazione della condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà deve essere compiuta tenendosi conto anche del disvalore ambientale che la condotta stessa assume e, viceversa, della funzione di dissuasione contro il ripetersi di mancanze dello stesso tipo, peculiarmente svolta dal provvedimento disciplinare(Cass. 23 ottobre 2006, n. 22708, RIDL 2007, II, 463).

L’affermazione di una tale “funzione dissuasiva” produce significative conseguenze in

ordine all’individuazione dei diritti del lavoratore subordinato suscettibili di essere lesi da

un esercizio illegittimo del potere disciplinare; è evidente infatti che, se il potere

disciplinare si caratterizza per il fatto di arrecare pregiudizio anche ad interessi non

patrimoniali del lavoratore, si pone il delicato problema della risarcibilità dei relativi danni

(cfr. Tremolada 1993, 273).

Nello svolgimento delle riflessioni che seguono si terrà conto, infine, di due ulteriori

profili, intimamente connessi alla questione relativa alla funzione del potere disciplinare:

il primo relativo al c.d. esercizio “doveroso” del potere disciplinare (in certi casi, si pensi

al verificarsi di molestie sessuali o di violazioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro,

il potere disciplinare può assumere la funzione di strumento di protezione ai sensi

dell’art. 2087 c.c.), il secondo concernente i rapporti tra potere disciplinare e tutela della

riservatezza o “privacy” del lavoratore.

2. Fonti, natura e funzione del potere disciplinare: prospettive teoriche.

Il potere disciplinare dell’imprenditore si è affermato nella pratica dei rapporti

aziendali in ragione di una sua ritenuta ineluttabilità (cfr. Suppiej 2003, 108), derivante

dalla considerazione del fatto che

il lavoro, specialmente nei grandi stabilimenti industriali, non può compiersi se non in perfetta regolarità ed armonia, che esige volontà, serietà e disciplina da parte dei lavoratori(De Litala 1931, 323).

Nell’ordinamento giuridico attualmente vigente, comunque, il potere disciplinare è

previsto e regolato dall’art. 2106 c.c. e, più dettagliatamente, dall’art. 7 St. lav., ed è

solamente in sede di interpretazione di tali norme che possono essere risolte le

problematiche relative al fondamento, al contenuto e ai limiti del potere stesso.

L’art. 2106 c.c., in particolare, dopo avere indicato i presupposti di esercizio del

potere disciplinare nell’inosservanza, da parte del lavoratore, degli obblighi di diligenza,

obbedienza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., stabilisce il principio,

fondamentale ai fini del concreto esercizio del potere medesimo, della necessaria

proporzionalità della sanzione irrogabile rispetto all’infrazione del lavoratore.

L’art. 7 St. lav., a sua volta, nell’integrare (cfr. Mainardi 2002, 37) la norma

codicistica, da un lato ha previsto una serie di ulteriori limiti sostanziali (contratto

collettivo come fonte principale di determinazione dei presupposti del potere di controllo,

limiti inderogabili con riferimento all’entità delle sanzioni conservative) e, dall’altro lato,

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ha procedimentalizzato l’esercizio del potere (sul tema si veda, da ultimo, Mattarolo

2007, 793).

Il dovere di obbedienza e di disciplina a carico del prestatore di lavoro trova, come

noto, il proprio fondamento normativo nella disposizione di cui all’art. 2094 c.c., a mente

della quale il lavoratore si obbliga a porsi alle dipendenze e sotto la direzione

dell’imprenditore, conseguentemente risultando tenuto all’obbedienza delle disposizioni

impartite dal datore di lavoro per dirigere la prestazione lavorativa.

Il problema del fondamento del potere disciplinare appare tuttora vivamente dibattuto

in dottrina, considerato che, in particolare

alcuni autori tendono a collegare il potere disciplinare esclusivamente alla posizione contrattuale del datore di lavoro […], altri piuttosto alla sua posizione di imprenditore o di “organizzatore” dell'impresa. Conseguentemente la prima impostazione fa coincidere responsabilità contrattuale e responsabilità disciplinare, mentre la seconda distingue tra responsabilità contrattuale per inadempimento e responsabilità disciplinare, nel senso che non tutti i comportamenti rilevanti sotto il profilo disciplinare potrebbero altresì qualificarsi come inadempimento contrattuale […](Mattarolo 2007, 795).

Più in generale, il cuore delle difficoltà ricostruttive in materia risiede nella

problematica di dare sistemazione teorica ad un potere privato unilaterale che intende

realizzare una funzione, oltre che di prevenzione speciale, anche di prevenzione

generale, il che ha posto la questione della stessa giustificazione costituzionale del potere

disciplinare (si veda Mattarolo 2007, 794).

Una prima opinione ravvisa la ragion d’essere e la giustificazione costituzionale del

potere disciplinare dell’imprenditore in un interesse di questi correlato strettamente, sia

pure non esclusivamente, con le peculiarità della prestazione di lavoro subordinato

(Ichino 2003, 325).

Una diversa ricostruzione, ammettendo il carattere di pena privata alle sanzioni

disciplinari irrogate dal datore di lavoro, ne rinviene la giustificazione costituzionale nel

principio di libertà dell’iniziativa economica sancito dall’art. 41 Cost., di cui esso

rappresenta un adeguato strumento di tutela. Tale prospettiva esegetica, pur non

unanime in dottrina, ha consentito di affermare la legittimità costituzionale del potere

imprenditoriale di imporre conseguenze afflittive siccome fondato su di un interesse di

natura morale omogeneo a quello colpito dalla sanzione (Tremolada 1993, 62).

Diversamente, invero, potrebbe risultare più difficile giustificare la lesione di un diritto

della personalità del titolare attraverso una sanzione affittiva, atteso che

quanto ai tratti distintivi della situazione colpita dall’illecito, direi che è proprio nell’essenza della pena privata il fatto di poter essere chiamata in gioco soltanto, o almeno prevalentemente, laddove il danno corrisponda al sacrificio di un diritto personale della vittima, o comunque alla lesione di posizioni economiche o di beni (quali il lavoro o la casa di abitazione) che appaiano direttamente rilevanti sotto il profilo della libertà e della dignità individuale del soggetto(Cendon 1985, 96).

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Il riconoscimento del potere privato unilaterale di reagire all’inosservanza degli

obblighi contrattuali del prestatore di lavoro attraverso l’irrogazione di misure punitive,

che pure può essere considerato una anomalia sul piano dei rapporti contrattuali, viene

dunque iscritto, da una certa parte della dottrina, nell’ambito delle c.d. “pene private”

per il carattere affittivo, e, comunque, di mezzo di prevenzione al tempo stesso speciale,

nei confronti di chi ha commesso l’illecito, e generale nei confronti di tutti i possibili

violatori del precetto (Tremolada 1993, 43).

Altra dottrina ha del resto evidenziato che la

funzione organizzatoria giustifica l’irrogazione di pene private appunto per la conservazione ed il buon funzionamento dell’organizzazione(Vallebona 2004, 232).

La valorizzazione dei profili cui sopra si è fatto cenno impone di verificare se, ed in

che modo, il sistema di controllo e di disciplina del lavoro interviene ed insiste con

riferimento ad interessi non patrimoniali del lavoratore; in altri termini si tratta di

verificare se la funzione del sistema disciplinare abbia, come sostiene parte della dottrina

e della giurisprudenza, carattere pedagogico, afflittivo, riabilitativo o comunque

dissuasivo, come sembra confermato in particolare dall’insieme delle norme contenute

nell’art. 7 St. lav., in quanto diretto a configurare

un sistema di garanzie a tutela del lavoratore che trova la sua principale giustificazione nella circostanza che la sanzione colpisce beni attinenti alla sfera morale dell’individuo, e quindi si risolve in un rimedio essenzialmente afflittivo(Tremolada 1993, 45).

L’affermazione del carattere affittivo-dissuasivo-pedagogico della sanzione disciplinare

trova accoglimento invero minoritario in dottrina anche se, per contro, si riscontra una

maggiore concordanza di opinioni in ordine all’idea che il potere direttivo ed il potere

disciplinare, con il corrispondente dovere di obbedienza del prestatore di lavoro

subordinato, costituiscano una fondamentale necessità dell’organizzazione dell’impresa

(cfr. Ichino 2003, 326, il quale ammette che il potere disciplinare costituisce un

accessorio contrattuale tipicamente ed essenzialmente proprio del potere direttivo).

In particolare, una parte della dottrina ritiene che il realizzarsi della pretesa funzione

di prevenzione generale implica l’idoneità della pena e del relativo atto di intimazione a

coinvolgere l’insieme dei dipendenti, per indurli a non violare l’ordine aziendale,

dovendosi pertanto ipotizzare l’esistenza di un collegamento tra la sfera giuridica di

questi e la fattispecie sanzionatoria che permetta di dar conto dell’anzidetta idoneità. In

questa prospettiva è stata pertanto affermata

l’esistenza di uno specifico interesse collettivo dei lavoratori al corretto esercizio del potere disciplinare, perché l’illegittimità della sanzione irrogata al singolo lavoratore si risolve anche in una violazione della sfera di libertà di tutti gli altri(Tremolada 1993, 48).

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Altra dottrina, analogamente, ha affermato che la responsabilità disciplinare

non mira tanto a ricostruire un equilibrio alterato fra due patrimoni o a promuovere un ritorno allo status quo ante, quanto a perseguire un fine di intimidazione nei confronti sia del colpevole sia degli altri soggetti inseriti nell’organismo(Mancini 1957, 24).

Una tale impostazione trova talvolta implicito riscontro laddove, a proposito della

giustificazione del potere disciplinare unilaterale, si ammette il rilievo del “collettivo”,

riconoscendosi che

la parte lesa ha interesse a impedire che l’inadempimento, pur di modesta entità, abbia a verificarsi e/o ripetersi: nell’ambito dello stesso rapporto, ma anche nell’ambito di quello analogo con altri collaboratori (il «collettivo» influisce qui direttamente sul contenuto del rapporto individuale)(Ichino 2003, 326).

Il potere disciplinare, in altri termini, si riconnette all’interesse organizzativo del

datore di lavoro ed in particolare, mediante la previsione e l’applicazione di sanzioni

disciplinari viene assicurato il regolare ed ordinato funzionamento dell’organizzazione e,

se del caso, il ripristino della sua funzionalità (Persiani 1966, 149; Mazzoni 1977, 503).

3. La funzione “dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare nella giurisprudenza.

In giurisprudenza la verifica della funzione del potere disciplinare è stata oggetto di

attenzione sporadica e non sistematica. Il profilo funzionale, in particolare, viene preso in

considerazione soprattutto ai fini della valutazione della congruità tra sanzione e

mancanza disciplinare.

Le più recenti sentenze della Corte di Cassazione, peraltro, fanno registrare una

rinnovata attenzione al tema in esame; una significativa prospettiva esegetica

attribuisce, infatti, rilievo, ai fini della valutazione di congruità, all’idoneità della condotta

del lavoratore a riflettersi negativamente sull’ambiente di lavoro, in quanto essa

potrebbe assurgere a “modello diseducativo e disincentivante” dall’adempimento degli

obblighi di diligenza e fedeltà per gli altri lavoratori.

Più in particolare, la Corte, con riferimento ad una fattispecie di licenziamento per

giusta causa, ha affermato che

in materia di sanzioni disciplinari, la valutazione della condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà deve essere compiuta tenendosi conto anche del disvalore ambientale che la condotta stessa assume e, viceversa, della funzione di dissuasione contro il ripetersi di mancanze dello stesso tipo, peculiarmente svolta dal provvedimento disciplinare.(Cass. 23 ottobre 2006, n. 22708, RIDL 2007, II, 463, con note di Muggia e Cannati).

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Nel caso di specie, anche in base alla considerazione sopra richiamata, la Corte ha

ritenuto sussistere la giusta causa di licenziamento con riferimento al comportamento di

una lavoratrice che, di propria iniziativa, aveva proceduto alla somministrazione di

terapia insulinica senza preventivamente accertarsi se il paziente fosse diabetico e quindi

senza consultare il quaderno terapia e la scheda grafica apposta ai piedi del letto del

paziente.

In senso analogo, in precedenza, la Corte aveva già avuto modo di portare

l’attenzione sulla funzione dissuasiva del provvedimento disciplinare affermando che

l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c. che, in tema di licenziamento, reca una "norma elastica", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall' ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie. In particolare, l'operazione valutativa non è censurabile, se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell'interesse del lavoratore, tutelato dall'art. 4, cost., con l'interesse del datore di lavoro, tutelato dall'art. 41, cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall'art. 2106 c.c., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all'infrazione contestata, conformandosi altresì agli ulteriori "standards" valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale, valutando la condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell'impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi. (Nella specie la S.c. ha ritenuto incensurabile la valutazione del giudice di merito, che aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento del responsabile della piccola cassa di uno stabilimento industriale - il quale si era appropriato di due somme di lire 1.200.000 e lire 500.000 - valorizzando, tra l'altro, la gravità della condotta, in considerazione della posizione lavorativa del dipendente). (Cass., 4 dicembre 2002, n. 17208, LG 2003, 344, con nota di Mannacio).

La Corte di legittimità, nella motivazione della sentenza n. 22708 del 2006, non

attribuisce al criterio del disvalore ambientale un rilievo graduato rispetto ai giudizi di

proporzionalità, di bilanciamento dei contrapposti interessi, di rispetto dei principi

costituzionali e degli standard valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella

coscienza sociale, affermando, per contro, che tali elementi di giudizio, in concorso con il

criterio del “disvalore ambientale”, possono giustificare una sanzione piuttosto che

un’altra, unitamente alla considerazione, ai fini della valutazione del criterio del disvalore

ambientale, della posizione professionale rivestita dal lavoratore.

Ciò che viene valorizzato da parte della giurisprudenza qui richiamata è che,

soprattutto qualora il lavoratore ricopra un ruolo gerarchicamente significativo all’interno

dell’organizzazione di lavoro, tra le conseguenze negative arrecate dal lavoratore stesso

rientra anche la possibilità/probabilità che la sua condotta sia avvertita nell’ambiente di

lavoro come lecita e approvata dal datore di lavoro; ciò dovrebbe rilevare ai fini del

giudizio di gravità dell’infrazione imposto dall’art. 2106 c.c.

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L’illecito disciplinare compiuto dal lavoratore, in altri termini, potrebbe apparire idoneo

a realizzare una destabilizzazione dell’equilibrio intrinseco al modello della

subordinazione, nella misura in cui gli altri lavoratori possano essere indotti a ritenere

certe prescrizioni, costituenti espressione della posizione direttiva del datore di lavoro,

non più necessarie al perseguimento dell’interesse dell’impresa (o comunque

dell’interesse del datore di lavoro) e sentirsi pertanto implicitamente autorizzati a tenere

condotte analoghe.

Il criterio del disvalore ambientale, dunque, altro non costituisce se non una

integrazione-specificazione della funzione complessiva riconosciuta dall’ordinamento al

potere disciplinare, che tradizionalmente viene riconosciuto funzionalmente destinato a

rispondere all’esigenza di reintegrazione della posizione direttiva del datore di lavoro nei

casi in cui questa venga violata (cfr. Mazzoni 1977, 506).

Il riconoscimento della funzione “pedagogica” del potere disciplinare viene contrastato

da una parte della dottrina partendo dall’affermazione in base alla quale la sanzione

disciplinare dovrebbe essere correlata innanzitutto ad un inadempimento, con la

conseguenza di non potersi sostenere che rientri fra i doveri del lavoratore quello di

essere di esempio per i colleghi, ciò che viene negato in termini di prestazione aggiuntiva

e comunque svalutandosi il momento dell’interesse dell’impresa di cui all’art. 2104 c.c.

(Muggia 2007, 467).

Una tale impostazione peraltro non sembra pienamente collimante con l’analisi

proposta dalla Corte di Cassazione nelle sentenze sopra citate, le quali non prospettano

alcuna forma di ampliamento dell’area del vincolo obbligatorio gravante sul lavoratore, in

quanto, piuttosto, intendono ricondurre la funzione di intimidazione generale tra le

intrinseche finalità del potere riconosciuto al datore di lavoro, in linea con quella dottrina

a mente della quale il potere disciplinare serve a

colpire, anche in via preventiva/esemplare, inadempimenti non strettamente riconducibili alla relazione obbligatoria che si esaurisce nell’inadempimento della prestazione, bensì dell’insieme di regole predisposte dal datore di lavoro per evitare pregiudizi al complesso organizzativo (Mainardi 2004, 845).

La svalutazione dell’elemento “dissuasivo”, del resto, può condurre ad affermazioni

non condivisibili come dimostrano alcuni noti pronunciamenti della giurisprudenza, come

quello relativo al caso dell’arresto non consentito del treno in galleria per far salire in

cabina persone estranee e non autorizzate; la sentenza cui si fa riferimento ebbe ad

affermare che

deve escludersi la sussistenza della giusta causa di licenziamento in caso di violazione di disposizioni o regolamenti aziendali da cui non siano derivati, né potessero derivare, danni a cose o persone(App. Genova, 13 giugno 2006, RIDL 2006, II, 942 ss., con nota critica di Ichino).

Con la sentenza da ultimo richiamata la Corte d’Appello, invero,

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sembra obliterare totalmente la funzione deterrente che l’ordinamento tipicamente affida al licenziamento disciplinare. Leggiamo nella motivazione della sentenza che nel contratto collettivo “si richiede, per l’ipotizzabilità della sanzione, che vi siano stati danni gravi al materiale, all’armamento e alle cose di terzo, o anche danni gravi alle persone”; ma il fatto che, nel caso specifico, il danno non si sia verificato nulla toglie al fatto che personale e cose sono state esposte indebitamente a un maggior rischio di danno; che, trattandosi di trasporto ferroviario, l’eventuale danno potesse essere di enorme entità; che l’enorme entità della posta in gioco ben possa giustificare l’adozione della sanzione più grave, in funzione di deterrenza contro comportamenti disinvolti che altrimenti potrebbero moltiplicarsi(Ichino 2006, 948).

4. Funzione “dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare ed inesistente obbligo di

parità di trattamento nel lavoro privato.

Le riflessioni sopra svolte con riferimento alla funzione del potere disciplinare in

termini “dissuasivo-pedagogici” non devono indurre l’interprete ad una operazione logica

non consentita, consistente nell’inferire che il datore di lavoro sia tenuto in generale ad

esercitare il potere stesso sanzionando in ogni caso ogni dipendente che commetta

infrazioni analoghe o comunque che nell’esercizio del potere il datore di lavoro sia

soggetto ad un obbligo di parità di trattamento che, invero, non sussiste.

Recentemente, peraltro, la Corte di legittimità ha affermato, con riferimento ad una

fattispecie di licenziamento disciplinare, che

la discrezionalità del datore di lavoro nel graduare la sanzione disciplinare non equivale ad arbitrio e perciò egli deve illustrare in forma persuasiva le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito del dipendente, tanto da giustificare il licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa.L’asserita inesistenza di un obbligo dell’imprenditore di attribuire ai dipendenti versanti nella medesima situazione di fatto, lo stesso trattamento economico e normativo non esclude che il licenziamento debba essere motivato in modo completo e coerente e che un’incoerenza possa essere ravvisata, con conseguente illegittimità del licenziamento, dal giudice di merito nell’essere stata inflitta sanzione conservativa ad altri dipendenti per il medesimo illecito disciplinare senza specifiche ragioni di diversificazione, ciò che esclude una gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva(Cass. 8 gennaio 2008, n. 144, NGCC, 2008, 7-8, con nota critica di Pizzonia).

Nel caso di specie un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per avere

contravvenuto al divieto di inviare messaggi scritti per ragioni personali con il telefono

portatile di servizio. La peculiarità della sentenza di legittimità risiede nell’avere

quest’ultima confermato la sentenza d’appello, che aveva ritenuto sproporzionata la

sanzione espulsiva, utilizzando quale criterio di valutazione della proporzionalità della

sanzione il diverso trattamento precedentemente riservato ad altri dipendenti.

L’erroneità della pronuncia risiede nella tranciante obliterazione in tal modo effettuata

del principio, immanente nello stesso tenore testuale dell’art. 2106 c.c. della

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insopprimibile discrezionalità in capo al datore di lavoro nell’avviare (o meno) l’azione disciplinare nei confronti del dipendente, discrezionalità il cui fondamento è rinvenibile nel più ampio potere di direzione dell’impresa ex art. 2086 c.c.(Mainardi 2002, 360).

La sentenza sopra richiamata appare pertanto errata nella parte in cui dimentica che

il datore di lavoro, a fronte della medesima infrazione compiuta da più lavoratori, o anche nel caso in cui lo stesso lavoratore tenga più volte la stessa mancanza nel corso del rapporto di lavoro, potrà ogni volta decidere se avviare o meno l’azione disciplinare senza che da tali scelte possa derivare alcuna conseguenza sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, che andrà valutata sempre mediante una verifica del rispetto della procedura stabilita dall’art. 7 St. lav. e della idoneità della mancanza contestata e sanzionata a giustificare il provvedimento adottato(Pizzonia 2008).

Eccezionali sono, invero, le ipotesi in cui può riconoscersi carattere “doveroso”

all’esercizio del potere disciplinare; in questi casi, che saranno approfonditi nei paragrafi

che seguono, rileva l’esigenza di tutelare interessi distinti e diversi da quello del datore di

lavoro, onde la predetta “doverosità” dell’esercizio del potere può essere ricondotta

all’area dell’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.

5. Le ipotesi di esercizio “doveroso” del potere disciplinare.

Aspetto speculare, seppure da riferirsi alla medesima matrice concettuale, rispetto a

quello trattato sopra con riferimento alla funzione “pedagogico-dissuasiva” del potere

disciplinare, è quello dell’interesse dei lavoratori al corretto esercizio del potere

medesimo, questa volta inteso nel senso che venga correttamente ed effettivamente

esercitato da parte del datore di lavoro al fine di sanzionare, con funzione anche di

prevenzione, illeciti commessi da alcuni lavoratori a danno di altri.

Anche in questo caso torna in discussione il problema della funzione dissuasiva

riconosciuta al potere disciplinare che assume, in questa particolare prospettiva

collettiva, il carattere di misura “prevenzionistica” (in questo senso, di recente, cfr.

Montesarchio 2007, 1228).

Con riferimento a tale questione parte della dottrina ha preso posizione ammettendo

espressamente che in certi casi l’esercizio del potere disciplinare

diviene doveroso, come nel caso di inosservanza da parte del lavoratore della normativa di sicurezza, nel caso di condotte illecite di un dipendente a danno di un altro, nel caso di violazione delle regole dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. In queste ipotesi il mancato esercizio del potere disciplinare determina o aggrava la responsabilità del datore di lavoro (art. 2087, 1228, 2049 c.c.) nei confronti dei soggetti danneggiati(Vallebona 2004, 232).

Più precisamente, peraltro, nei casi di cui trattasi, l’esercizio del potere disciplinare in

funzione di prevenzione sembra doversi costruire non solo in termini di onere funzionale

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all’esclusione della responsabilità del datore di lavoro nell’ambito del giudizio di

colpevolezza attinente il danno eventualmente subito dal lavoratore leso, quanto

piuttosto come vera e propria “misura” obbligatoria, in senso stretto, ai sensi e per gli

effetti di cui all’art. 2087 c.c., con la conseguenza che il potere disciplinare, nelle ipotesi

predette, sembra costituire una misura di attuazione dell’obbligo di sicurezza gravante

sull’imprenditore in forza della richiamata disposizione codicistica, peraltro

costituzionalmente imposta dall’art. 41, co. 2.

In altri termini, nel caso in cui il datore di lavoro o i suoi più stretti collaboratori

vengano a conoscenza di comportamenti lesivi posti in essere da un lavoratore, lesivi

della sfera fisica o morale di altri lavoratori, si può ritenere che scatti automaticamente

l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c.

Un comportamento passivo o di tolleranza, in questi casi, può provocare azioni

risarcitorie da parte della vittima, attesa la responsabilità contrattuale del datore di

lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma che, come affermato dalla giurisprudenza,

impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, determinandosi, in caso di violazione di esso, una responsabilità contrattuale - rientrante nella competenza per materia del giudice del lavoro - che concorre con quelle extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari, non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma (come si evince da un'interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica anche il divieto di comportamenti commissivi lesivi dell'integrità psicofisica del lavoratore; che, in quanto caratterizzati da colpa o dolo (come le molestie sessuali o veri e propri atti di libidine violenti) ed attuati durante l'orario dell'attività lavorativa, sono perciò fonte di responsabilità contrattuale per inosservanza della norma anzidetta, oltre a integrare violazione dei doveri di buona fede e correttezza di cui agli art. 1175 e 1375 c.c. (Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, MGL 1995, 561, nt. Riccardi. Nello stesso senso si veda Cass. 11 novembre 1997, n. 11403, MGL 1998, 277; Cass. 26 gennaio 1994, n. 774, RIDL 1995, II, 118; Cass. 18 aprile 2000, n. 5094, NGCC, 2001, I, 511; Trib. Milano 28 dicembre 2001, RCDL 2002, 371; Trib. Pisa 12 ottobre 2001, RGL 2002, II, 314).

Una recente pronuncia della Corte di legittimità ha ribadito i principi qui richiamati

affermando che

allorché il contratto collettivo preveda per determinati comportamenti del lavoratore sanzioni disciplinari conservative, il giudice del merito, nel valutare la legittimità della sanzione applicata, deve attenersi alla previsione contrattuale e non gli è consentito apprezzare la condotta del lavoratore come causa che legittimi l’adozione del licenziamento da parte del datore di lavoro. Tuttavia, per escludere che il giudice possa discostarsi dalla previsione del CCNL, è necessario che vi sia integrale coincidenza tra la fattispecie contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando per contro una diversa e più grave valutazione possibile (e doverosa) quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto alla fattispecie contrattuale(Cass. 20 marzo 2007, n. 6621, NGCC 2007, I, 1225 ss., con nota di Montesarchio).

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Nel caso di specie un lavoratore dipendente di una casa di cura privata era stato

licenziato per avere compiuto molestie sessuali ai danni di una superiore gerarchica. Il

ricorrente assumeva, al fine di sentire dichiarare l’illegittimità del licenziamento

disciplinare intimatogli, che il contratto collettivo applicabile prevedesse, per tali tipi di

comportamenti, soltanto sanzioni di carattere conservativo e non anche il più grave

provvedimento espulsivo.

La Corte di legittimità, nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto, facendo

applicazione del principio sopra richiamato in massima, di attribuire rilievo agli elementi

aggiuntivi e aggravanti la condotta molesta del dipendente ai fini del giudizio di

proporzionalità.

6. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: il caso delle molestie sessuali.

Quanto da ultimo affermato richiede di essere verificato con riferimento ad alcune

ipotesi specifiche affrontate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, tra le quali

particolare rilievo assume la fattispecie delle molestie sessuali sul lavoro, in ordine al

quale la casistica giudiziaria ad oggi reperibile presenta diverse pronunzie in cui viene

affermato, sia pure non sistematicamente, il principio dell’esercizio obbligatorio del

potere disciplinare.

Con riferimento a tale casistica un certo interesse riveste una decisione della Pretura

di Milano che sembra dare attuazione del principio sopra richiamato affermando che

il datore di lavoro il cui dirigente, piuttosto che censurare quei lavoratori maschi che al passaggio in reparto di una impiegata vestita con minigonna le abbiano indirizzato apprezzamenti con fischi e battute, abbia ripreso la stessa, peraltro senza particolare riservatezza, invitandola ad indossare un abbigliamento più adatto all’ambiente è tenuto al risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente (nella specie, lire 100.000), essendo ad esso implicitamente ricollegabile la condotta per avere affermato, nel difendersi in giudizio, che l’invito ad usare un abbigliamento meno appariscente aveva avuto lo scopo di evitare il protrarsi di turbative sul lavoro da parte degli operai(Pret. Milano 12 gennaio 1995, Gilberti c. Ansaldo, Foro it. 1995, 1985).

Analogo ordine di considerazioni si riscontra dall’esame della motivazione di una

coeva decisione della Pretura di Milano, la cui massima afferma che

il licenziamento di un dipendente per avere molestato due compagne di lavoro, compiendo atti esibizionistici, in particolare esibendo i genitali ad una di loro lasciando intenzionalmente aperta la porta del bagno sì da venir visto solo da lei mentre indugiava nel rivestirsi, è provvedimento disciplinare sproporzionato rispetto all’addebito, invece congruamente punibile attraverso la massima sanzione conservativa(Pret. Milano, ord. 20 febbraio 1995, Corsini c. Zucchi, Foro it. 1995, 1985).

L’ordinanza da ultimo richiamata, seppure nella assoluta particolarità della fattispecie

esaminata, di specifica applicazione del principio di proporzionalità di cui all’art. 2106

c.c., deve essere sottolineata per un obiter dictum in cui si afferma che, in ipotesi come

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quella decisa, in una logica al tempo stesso disciplinare e di tutela dell’integrità psichica e

fisica di lavoratori e lavoratrici, deve ritenersi non solo consentito, ma anzi doveroso il

trasferimento ad altra unità produttiva del lavoratore autore della molestia.

In particolare il giudice afferma che

[...] essendo un unico episodio, avrebbe potuto trovare più adeguata sanzione conservativa con la massima sospensione ed avrebbe, ad avviso del pretore, anche legittimato un trasferimento del lavoratore per ripristinare una serenità ed una regolarità della organizzazione aziendale che garantisse la operaia – e le altre – e la tutelasse dal pericolo di simili molestie [...]. Nel caso concreto l’esigenza di trasferimento [...] può assurgere addirittura a «positiva azione» per ripristinare un corretto e rispettoso comportamento nei loro confronti e si imporrebbe, per il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c. che prescrive l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e psichica dei lavoratori e delle lavoratrici, apparendo provvedimento congruo ed efficace, attesa appunto l’esigenza di tutelare le operaie della convenuta(Pret. Milano ord. 20 febbraio 1995, cit.).

La decisione richiamata, a prescindere dalla questione del trasferimento disciplinare,

che soltanto una parte minoritaria della giurisprudenza ritiene legittimo, sempre che sia

previsto dal codice disciplinare (Cass. 27 giugno 1998, n. 6383, RIDL 1999, II, 356, con

nota di Pilati; Cass. 16 aprile 1992, n. 4655, NGL 1992, 649; sull’argomento Mattarolo

2007; in dottrina si ritiene che il trasferimento, in quanto modifica durevolmente la

posizione di lavoro del dipendente, non possa costituire sanzione disciplinare) presenta

l’emersione, sia pure allo stato ancora embrionale, del riconoscimento che l’esercizio del

potere disciplinare può in certe circostanze assumere il carattere di misura

prevenzionistica.

Nel solco tracciato dalla citata ordinanza milanese si muove una recente sentenza del

Tribunale di Pisa, anch’essa relativa ad una fattispecie di risarcimento del danno

esistenziale e del danno morale per molestie sessuali e mobbing, riguardante in

particolare un caso di dimissioni per giusta causa determinate da molestie sessuali poste

in essere nei confronti della lavoratrice da un superiore gerarchico.

La particolarità della vicenda risiede nell’accertamento da parte del giudice di merito

di una responsabilità omissiva del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. atteso che lo stesso,

pur venuto a conoscenza degli episodi di molestia sessuale commessi ai danni della

lavoratrice, non ebbe a porre in essere le necessarie misure disciplinari per impedire il

perpetrarsi del comportamento lesivo. In motivazione il giudice afferma che

i provvedimenti presi [...] si sono limitati ad un rimprovero verbale ed all’allontanamento fisico della ... Nessuna sanzione disciplinare è stata adottata nei confronti del ... e la spiegazione è semplicemente perché il datore non aveva dato peso alla questione [...] il datore di lavoro non aveva dato peso neppure al secondo episodio [...] Tuttavia decidemmo di comminare una sanzione conservativa e poi di trasferire il .... Ma ci spiega lo stesso ... (v. interrogatorio) che la sanzione si era risolta in un provvedimento meramente formale, privo di contenuti effettivi [...]. Dunque il provvedimento punitivo del datore di lavoro è un mero provvedimento di facciata, mai eseguito, il che è in linea con il convincimento della modesta portata lesiva del comportamento del ...(Trib. Pisa, 7 ottobre 2001, www.personaedanno.it).

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Sulla base di siffatte emergenze istruttorie il Tribunale ha fatto applicazione della

disciplina di cui all’art. 2087 c.c., riconoscendo che la stessa impone la tutela della

personalità morale, di tal ché l’omessa adozione di misure coercitive effettive viene

considerata quale condotta omissiva ai sensi della predetta disposizione codicistica.

7. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: le violazioni in materia di igiene e

sicurezza sul lavoro.

Ulteriore conferma dell’impostazione sopra evidenziata si trae dalla specifica materia

della sicurezza sul lavoro, con riferimento alla quale parte della dottrina ha parimenti

riconosciuto che

se il lavoratore si rifiuta di utilizzare i dispositivi di protezione individuale, ovvero di sottoporsi a sorveglianza sanitaria, il datore di lavoro deve indurlo ad adempiere ai propri obblighi sanzionandolo anche disciplinarmente, giungendo addirittura fino al licenziamento per giusta causa, se vuole evitare la sua personale responsabilità(Tampieri 2007, VII).

In tale prospettiva numerose pronunzie della giurisprudenza di legittimità hanno

ammesso che

in materia di igiene del lavoro, l’art. 4, lett. d) D.P.R. 19.3.1956 n. 303 […] va interpretato nel senso che il destinatario delle norme deve pretendere dai suoi dipendenti l’osservanza di tali norme in tutti i modi, provvedendo, se necessario, anche all’adozione di mezzi coercitivi e di sanzioni disciplinari, non escluso il licenziamento dell’operaio riottoso(Cass. Pen., IV sez., 25 aprile 1991, n. 10730).

Più in particolare, la giurisprudenza della terza sezione penale di Cassazione è giunta

ad esplicitare, con riferimento all’obbligo di visita medica obbligatoria ex art. 33 D.P.R.

19.3.1956, n. 303, il principio secondo cui

qualora i lavoratori si rifiutino di sottoporsi a tali visite, il datore di lavoro deve provvedere ad indurli, ricorrendo, se necessario, ad adeguate sanzioni disciplinari(Cass. Pen., sez. III, 20 giugno 1991, n. 6828, MGL 1991, 450, con nota di Orga. Analogamente Cass. Pen., sez. III, 17 giugno 1980, n. 7711, Giur. It. 1981, II, 261; cfr. altresì Cass. 26 gennaio 1994, n. 774, RIDL 1995, II, con nota di Bonardi).

8. Il danno da illegittimo esercizio del potere disciplinare. Aspetti generali e rinvio.

Le considerazioni che seguono presuppongono la rilevanza collettiva e la funzione del

potere disciplinare intesa nei termini sopra richiamati nel testo, riconosciute le quali il

problema del rapporto intercorrente fra sistema disciplinare e diritti dei lavoratori,

affrontato al fine di verificare che tipo di lesioni alla “vita di relazione” possano insorgere

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a causa dell’esercizio illegittimo ovvero del mancato esercizio del potere disciplinare da

parte dell’imprenditore, assumono una prospettiva del tutto particolare.

Le caratteristiche del sistema disciplinare come sopra tratteggiate implicano, invero,

rilevanti conseguenze applicative con riferimento ai casi di esercizio illegittimo del potere

disciplinare (ovverosia esercitato oltre i limiti di carattere sostanziale previsti dalla

legge), imposti a garanzia dell’interesse del lavoratore a non essere punito ingiustamente

o sproporzionatamente.

La circostanza in base alla quale ogni sanzione disciplinare si caratterizza per il fatto

di arrecare pregiudizio anche ad interessi non patrimoniali del lavoratore pone il

problema dei c.d. danni non patrimoniali derivanti dalla lesione dei diritti della personalità

coinvolti dall’esercizio del potere disciplinare.

Più in generale il problema non si pone con riferimento al diritto del lavoratore al

risarcimento dei danni di carattere economico conseguenti alla lesione dei predetti diritti

della personalità (quali ad esempio quello consistente nella difficoltà di reperire una

nuova occupazione a causa del discredito derivante dalla sanzione irrogata), danni questi

qualificabili come patrimoniali in senso proprio (cfr. Tremolada 1993, 274).

Il problema riguarda i danni di carattere personale non patrimoniali consistenti nella

lesione di diritti propri della persona, quali ad esempio il danno consistente nella

disistima di cui è oggetto l’individuo nell’ambiente sociale in cui opera, in conseguenza

della sanzione subita, pur se tale disistima non abbia comportato per l’interessato

pregiudizi di natura patrimoniale.

La giurisprudenza non risulta particolarmente ricca di pronunciamenti rilevanti in

ordine alla problematica del danno da provvedimenti disciplinari conservativi illegittimi,

considerato che il contenzioso in materia si svolge prevalentemente avanti le

commissioni di conciliazione di cui all’art. 7, co. 6, St. lav.; diversamente molto ricca è la

giurisprudenza in materia di licenziamento.

In questa sede pertanto sia consentito esclusivamente richiamare una recente

sentenza della Corte di Cassazione in ordine al tema del danno all’integrità psicofisica da

licenziamento ingiustificato, per il resto rinviandosi alla trattazione specifica

dell’argomento sviluppata infra (cfr. Salviati, cap. 160).

La Corte di legittimità, in particolare, con la sentenza 5 marzo 2008, n. 5927 (in

www.personaedanno.it, con nota di Pizzonia), precisato preliminarmente che la

preesistenza di un rapporto contrattuale conferisce all’illegittimo licenziamento ed al

conseguente danno natura contrattuale, ha affermato che, essendo il licenziamento un

inadempimento contrattuale, sono risarcibili i danni prevedibili (art. 1225 c.c.) che siano

conseguenza diretta ed immediata dell’illegittimo recesso (art. 1223 c.c.).

A proposito dei danni all’integrità psicofisica da licenziamento illegittimo la sentenza

sopra richiamata distingue l’ipotesi del danno all’integrità psicofisica causato dalla

mancanza del lavoro e della relativa retribuzione conseguente al licenziamento

ingiustificato, dal danno all’integrità psicofisica causato direttamente dal comportamento

con cui il datore di lavoro ha messo in atto il licenziamento (licenziamento ingiurioso,

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pretestuoso o vessatorio), svolgendo, segnatamente con riferimento a questa seconda

categoria, considerazioni estensibili alla materia delle sanzioni conservative.

Nel caso di provvedimenti disciplinari (nello specifico di licenziamenti) comminati in

modo ingiurioso, pretestuoso o vessatorio la Corte ritiene che il danno all’integrità

psicofisica eventualmente patito dal lavoratore, non essendo una conseguenza

“fisiologicamente connessa” al licenziamento privo di giustificazione o comunque

illegittimo per violazione di norme di legge o di contratto, è risarcibile solamente in

quanto sia conseguenza diretta ed immediata, oltre che prevedibile, del comportamento

materialmente tenuto dal datore di lavoro nell’irrogare il licenziamento, onde sul

lavoratore grava l’onere della prova dell’esistenza dell’illecito (contrattuale), del danno e

del nesso di causalità.

Un’ulteriore considerazione, a completamento di quanto sopra, deve essere svolta con

riferimento alla tipologia di obbligo che può dirsi violato in caso di provvedimenti

disciplinari illegittimi.

L’intima relazione intercorrente tra la disciplina del potere disciplinare e la disciplina di

cui all’art. 2087 c.c., sopra presa in considerazione con riferimento al tema dell’esercizio

“doveroso” del potere stesso, assume, infatti, una ulteriore rilevanza in relazione al

problema delle conseguenze di un esercizio illegittimo del potere disciplinare per le

ragioni suddette.

L’art. 2087 c.c., in particolare, qualifica come illecito contrattuale ogni comportamento

che cagioni ingiustificatamente un pregiudizio alla personalità umana, così approntando

una tutela all’individuo in sé considerato, sanzionando con il risarcimento ogni

atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione

(sull’argomento approfonditamente Del Punta 2006).

Intesa in tal modo, la norma codicistica, supportata dal disposto costituzionale di cui

all’art. 41, co. 2, appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti

al sinallagma ed ogni manifestazione di supremazia datoriale che a quel sinallagma non

sia funzionale (cfr. Trib. Pisa, 3 ottobre 2001, www.personaedanno.it).

9. Le sanzioni disciplinari pretestuose: prospettive giurisprudenziali.

In applicazione dei principi sopra richiamati è stato ricondotto ad una fattispecie di

mobbing un caso in cui un lavoratore risultò destinatario di ben dodici sanzioni

disciplinari, di cui alcune con frequenza giornaliera. Numerose fra queste contestazioni,

in particolare, riguardavano il confezionamento e la presentazione delle pietanze, altre

ancora l’esorbitante numero di porzioni preparate ed avanzate, altre la mancata corretta

conservazione di alcune pietanze ed infine una certa disinvoltura nella custodia del pane.

Con riferimento a tali circostanze la decisione del Tribunale fa perno sulla

valorizzazione della lesività intrinsecamente propria del ricorso al potere disciplinare al

fine di compromettere volutamente ed ingiustamente la personalità morale del

lavoratore, atteso che

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il reiterato manifestarsi del potere disciplinare, alle volte per ragioni del tutto pretestuose o di estrema fiscalità abbia costituito una attività rivolta a compromettere la personalità morale del dipendente e quindi rappresenti una chiara violazione dell’art. 2087 c.c.(Trib. Pisa 3 ottobre 2001, cit.; per una fattispecie del tutto analoga cfr. Trib. Milano, 28 febbraio 2003, Diana c. Soc. IVM, RCDL 2003, 655; Trib. Milano 6 maggio 2005, R. c. Inps, OGL 2005, I, 327).

Analoga affermazione del dovere del datore di lavoro di intervenire al fine di

rimuovere situazioni non tollerabili ai sensi dell’art. 2087 c.c. si riscontra in diverse

pronunzie sempre relative a fattispecie in cui l’esercizio del potere disciplinare è risultato

deviato rispetto ai fini suoi propri, così ingenerando conseguenze pregiudizievoli quali,

oltre al danno patrimoniale ed al danno biologico, il danno all'immagine, le sofferenze per

le mortificazioni subite e, più in generale, la mancata esplicazione della propria

personalità attraverso l'attività lavorativa.

Particolarmente significativa, in questa prospettiva appare la fattispecie decisa dal

Trib. di Tempio Pausania con sentenza 10.7.2003, la cui motivazione rileva che

riassuntivamente, possono ricondursi nell'ambito di un'identica strategia mobbizzante i seguenti episodi: il comportamento tenuto dal Sindaco in relazione alla pratica della ricorrente, volta al conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza, sfociato nel provvedimento illegittimo con cui chiedeva alla Prefettura l'archiviazione provvisoria della pratica stessa; l'irrogazione, alla medesima, della sanzione della censura, con provvedimento emesso in data 6 ottobre 1999; l'assegnazione della ricorrente ai soli compiti di polizia amministrativa, sottraendole i restanti compiti tipici della mansione di agente di polizia municipale; l'assegnazione della ricorrente ad un luogo di lavoro diverso e in condizioni deteriori, rispetto a quello dei suoi colleghi; il rifiuto, alla richiesta della ricorrente, di poter svolgere lavoro straordinario per la consegna dei certificati elettorali e l'imposizione, alla medesima, di svolgere tali mansioni durante il normale orario lavorativo; l'eccessiva pressione disciplinare esercitata – attraverso una nutrita serie di richiami scritti, comprendente una scenata fatta alla presenza di altro personale e la richiesta di sottoporre la ricorrente alla sanzione della multa – in relazione ad illeciti disciplinari inesistenti o, comunque, di lieve entità; il tutto nel quadro di un rapporto palesemente conflittuale con l'autorità apicale del Sindaco, il quale non risparmiava nei numerosissimi provvedimenti che riguardavano la ricorrente, toni critici al limite dell'insulto (si pensi, a titolo esemplificativo, alla frase: “Si ha l'impressione che lei abbia sbagliato professione”, contenuta nella disposizione di servizio del 1° marzo 2000, nonché al rigetto dell'istanza di mobilità, nella quale la motivazione è sostituita da una sorta di generico rimprovero)(Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003, www.personaedanno.it).

10. Il potere disciplinare e la tutela della riservatezza del lavoratore: aspetti di

carattere generale.

Introducendo l’indagine sui rapporti tra il potere disciplinare e i diritti dei lavoratori si

è rilevata l’esigenza di verificare in quali rapporti il potere in discorso si ponga rispetto al

problema della tutela della riservatezza del lavoratore.

Non è questa la sede per procedere ad una approfondita analisi delle molteplici e

complesse questioni che si pongono relativamente ai rapporti intercorrenti fra i poteri del

datore di lavoro e il diritto alla riservatezza (oltre che al “diritto alla protezione dei propri

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dati personali” di cui all’art. 1 D.lvo n. 196/2003) in quanto diritto della personalità

dotato di rango costituzionale (sul tema si veda, tra gli altri, Barraco-Sitzia 2008; Del

Punta 2006, 194; Ubertazzi 2004; Chieco 2000; Ichino 1986, 7); ciò che invece interessa

rilevare è che nella nozione di dato personale rientrano non solo i dati contenuti nel

fascicolo personale del dipendente, ma in genere tutte le informazioni detenute dal

datore di lavoro purché idonee a fornire un contributo aggiuntivo di conoscenza rispetto

al lavoratore (cfr., al riguardo, (Barraco)-Sitzia 2008, 37).

Ancora più in particolare, si deve tenere presente che

per effetto dell’ampia definizione di dato personale introdotta dalla direttiva comunitaria n. 95/46/CE e dall’art. 1, comma 2, lett. c), della legge n. 675/1996, la legge n. 675/1996 è applicabile non solo ai dati personali di tipo oggettivo, ma anche ad informazioni personali contenute nell’ambito di valutazioni soggettive, riportate in supporti di vario tipo (sia cartaceo, sia automatizzato), conservate o meno in archivi strutturati(Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento 19 dicembre 2001, in Bollettino n. 23 dell’ottobre 2001, p. 52, http://www.garanteprivacy.it, doc. web n. 41854).

Ciò posto, non sembrano esserci dubbi circa il fatto che il potere disciplinare involge

un trattamento di dati personali relativi al lavoratore, dati personali che possono avere

anche natura sensibile ed interessare la dignità del lavoratore, soprattutto laddove il

procedimento disciplinare abbia ad oggetto fatti estranei alla prestazione di lavoro,

incidenti sul rapporto siccome rilevanti al fine di verificare il grado di fiducia riposta dal

datore di lavoro nel lavoratore.

Il problema di diritto positivo che si pone al riguardo concerne la verifica del se ed in

quale misura i limiti e i divieti al trattamento dei dati personali (posti dalla normativa

generale di cui al d.lvo n. 196/2003) possano riguardare l’esercizio del potere disciplinare

che compete al datore di lavoro.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha in più occasioni affermato che il

potere disciplinare, così come il correlato potere di controllo, del datore di lavoro non è

limitato soltanto dalla normativa fondamentale contenuta nel codice civile e nello statuto

dei lavoratori, ma anche dalla disciplina in materia di protezione dei dati personali, il che

pone non indifferenti problemi di coordinamento fra norme.

Effetto di tale affermazione è l’applicazione a tutti gli atti del procedimento disciplinare

della regolamentazione generale del Codice privacy, atteso che tutti gli atti del medesimo

procedimento rappresentano una forma di trattamento di dati personali soggetti ai limiti

sostanziali e procedurali imposti dal Codice.

Con riferimento specifico al requisito del consenso, il Garante è intervenuto,

affermando che

nel rapporto di lavoro subordinato, il trattamento di dati finalizzato all’esercizio del potere disciplinare è legittimo, anche senza il consenso dell’interessato, ogniqualvolta il trattamento si configuri come necessario per l’esecuzione di obblighi previsti da legge, regolamento o normativa comunitaria, nonché derivanti da contratti di cui è parte l’interessato, a condizione che il trattamento sia pertinente e non eccedente rispetto alle finalità per le quali i dati stessi sono stati raccolti e successivamente impiegati

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(Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento su ricorso 5 ottobre 2006, RIDL, II, 2007, pp. 374 ss., con nota di C. Faleri).

Nel caso di specie, la società datrice di lavoro aveva acquisito una serie di

informazioni riguardanti un lavoratore, relative a movimentazioni transitate su conti

correnti e su di un libretto di risparmio intestati al lavoratore stesso, movimentazioni

relative ad un dossier titoli ed altre operazioni finanziarie.

A fronte dell’istanza di accesso e delle contestazioni mosse dal lavoratore interessato

in ordine ad una pretesa violazione della normativa privacy per mancata acquisizione del

consenso, il Garante ha affermato che nello specifico il trattamento doveva riconoscersi

legittimo e correttamente effettuato perché i dati acquisiti in occasione di una ispezione

interna e utilizzati ai fini della contestazione degli addebiti disciplinari apparivano

pertinenti e rivolti a soddisfare la legittima esigenza del datore di lavoro di far valere i

propri diritti ai fini della loro tutela in sede giudiziaria e che comunque l’acquisizione delle

informazioni sulle movimentazioni transitate sui conti correnti, sul libretto di risparmio e

sul dossier titoli risultavano effettuate dal datore di lavoro (istituto di credito) in

ottemperanza all’obbligo di controllo cui sono tenuti gli istituti di credito ai sensi della

normativa antiriciclaggio, il che porta ad escludere la necessità di acquisire il consenso ai

sensi dell’attualmente vigente art. 24 del Codice privacy.

L’affermazione generale cui sopra si è fatto riferimento, relativamente alla necessaria

applicazione combinata della disciplina in materia di trattamento dei dati personali di cui

al Codice privacy e della normativa contenuta nel codice civile e nello Statuto dei

lavoratori in relazione ai poteri direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro ha

permesso alla dottrina di rilevare che

al pari delle norme statutarie [...] anche quelle del Codice sembrano in grado di inserirsi agevolmente, e pur da una prospettiva “generale”, nel regolamento contrattuale; e, del resto, lo schema titolare/interessato, proposto dal Codice, si attaglia perfettamente alla relazione datore/dipendente, propria del rapporto di lavoro subordinato, al di là del fatto che essa preesista all’ulteriore rapporto che si attiva nel momento in cui i dati personali del lavoratore cominciano ad affluire nella sfera di conoscenza del terzo/datore di lavoro(Del Punta 2006, 200).

L’integrazione così realizzata del sistema lavoristico con la disciplina di tutela della

riservatezza comporta l’ingresso nella materia lavoristica dell’apparato di tutele posto dal

Codice privacy, costituito da una sorta di micro-sistema di responsabilità civile in forza

del quale il trattamento illegittimo di dati personali viene da un lato neutralizzato

attraverso la previsione dell’inutilizzabilità dei dati medesimi (art. 11, co. 2 del Codice

privacy) e, dall’altro, sanzionato mediante l’affermazione della responsabilità civile, di

natura oggettiva giusta il richiamo dell’art. 2050 c.c., di chi (titolare o responsabile del

trattamento) ha cagionato danni ad altri per effetto del trattamento di dati personali (art.

15, co. 1 del Codice, su cui da ultimo Comandé 2007, 362).

11. Il potere disciplinare e il diritto di accesso previsto dal Codice privacy.

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Il problema maggiore che si pone con riferimento al tema dei rapporti tra potere

disciplinare e tutela della riservatezza del lavoratore concerne il diritto di accesso di cui

all’art. 10 del Codice privacy, in forza del quale al lavoratore viene consentito, in linea

generale, di accedere al fascicolo del procedimento disciplinare per conoscere tutte le

informazioni che lo riguardano in esso contenute.

La materia del diritto di accesso è sempre più al centro dell’attenzione degli interventi

sia della Magistratura che dell’Autorità Garante, come attesta il recente provvedimento

del 12 aprile 2007 (Bollettino n. 82/aprile 2007, in http://www.garanteprivacy.it, doc.

web n. 1402759), con cui il Garante si è pronunciato, tra l’altro, sulla richiesta di un

lavoratore di conoscere l’origine e le modalità del trattamento dei dati personali che lo

riguardano contenuti in alcune lettere di contestazione disciplinare.

Il caso di specie riguardava un lavoratore, impiegato addetto al “call center-ufficio

anagrafica”, che era stato destinatario di una serie di contestazioni disciplinari aventi ad

oggetto presunti comportamenti ritenuti difformi rispetto agli obblighi contrattuali. La

società riteneva che l’interessato non avesse prestato diligentemente l’assistenza

telefonica ai fornitori esterni (ad esempio non rispondendo a numerose chiamate

inoltrate al suo recapito telefonico, oppure facendo cadere deliberatamente la linea o

lasciando in attesa i fornitori per diverso tempo o commentando a voce alta, e senza

chiudere la comunicazione, la richiesta rivoltagli da un fornitore con l’uso di espressioni

irriguardose).

Il lavoratore, con richiesta di accesso, aveva chiesto di conoscere le fonti dalle quali la

società avrebbe appreso gli episodi contestati, chiedendo di sapere se ciò fosse avvenuto

tramite “apparecchiature di controllo a distanza dell’attività lavorativa” oppure grazie

all’invio di persone fisiche, nonché richiedeva di conoscere “sulla base di quali modalità di

trattamento egli sia stato individuato responsabile degli episodi”.

Nel risolvere la questione il Garante ha osservato, in primo luogo, che le richieste in

oggetto riguardano un trattamento di dati personali e che quindi, conseguentemente, la

società datrice di lavoro/titolare deve riscontrare la richiesta di accesso precisando, per

ciascuna delle contestazioni disciplinari origine dei dati e modalità del loro trattamento,

chiarendo in modo inequivocabile che le fonti e le modalità già indicate sono comuni a

tutti i singoli episodi.

In linea con tale affermazione si pone una recente sentenza della Corte di Cassazione,

nella quale si afferma che il lavoratore

ha diritto di conseguire l’esibizione in giudizio, da parte del datore di lavoro, dei documenti relativi alle vicende del rapporto di lavoro (ivi compresi i libri paga e i fogli presenza), a prescindere dall’eventuale prospettabilità di prove diverse e senza spazi per valutazioni discrezionali da parte del giudice(Cass. civile, sez. lav., 26 aprile 2007, n. 9961, GCM 2007, 4).

Più in particolare, la Corte ha precisato che

la tenuta da parte del datore di lavoro di documentazione relativa alle vicende del rapporto di lavoro, sia che sia imposta dalla legge (come per i libri paga e

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matricola), sia che sia prevista dalla organizzazione aziendale ai fini della registrazione delle presenze e dei relativi orari, da luogo alla formazione di documenti che, oltre ad essere possibile oggetto di ispezioni amministrative, sono utilizzabili anche dal lavoratore, in coerenza con la regola dell’esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.), proprio perché redatti per registrare le vicende relative al rapporto di lavoro (Cass. civile, sez. lav., 26 aprile 2007, n. 9961, GCM 2007, 4).

Affermato, pertanto, un tale diritto in capo al lavoratore si pone il problema di

verificare se il lavoratore abbia anche il diritto di accedere alle schede di valutazione, alle

note di qualifica, ai documenti relativi anche ad un procedimento disciplinare nella parte

in cui questi documenti contengano informazioni valutazioni soggettive sul conto del

lavoratore.

Per risolvere un tale problema occorre partire dalla nozione di dato personale, che,

per espressa definizione legislativa, ricompre qualsiasi informazione, ivi compresi

descrizioni, giudizi, analisi o ricostruzioni di profili personali che danno origine a stime e opinioni di natura soggettiva finalizzate anche ad una valutazione complessiva del soggetto(Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento del 2 giugno 1999, in Bollettino n. 9/giugno 1999, http://www.garanteprivacy.it, doc. web n. 40261).

L’esperienza maturata con riferimento all’applicazione della previgente legge n.

675/1996 ha evidenziato una forte criticità in ordine al profilo del diritto di accesso con

riferimento alle valutazioni soggettive, conseguente alla richiamata affermazione del

rientrare le stesse nel concetto di dato personale.

Al riguardo si sono posti in passato (prima dell’entrata in vigore del Codice privacy del

2003), almeno due grandi filoni di contenzioso, il primo relativo alle richieste formulate

dai soggetti interessati funzionali a conseguire l’accesso ai dati contenuti nelle consulenze

medico-legali effettuate in relazione alla persona degli interessati specifica attenzione al

settore assicurativo e dall’altro, proprio le valutazioni sul lavoratore.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto si era registrata in passato una netta

contrapposizione tra la posizione espressa dal Garante, il quale, alla luce

dell’interpretazione della nozione di dato personale, portava ad ammettere

espressamente il diritto di accesso dei lavoratori alle schede di valutazione (cfr. il

provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 5 dicembre 2001, in

Bollettino n. 23/ottobre 2001, http://www.garanteprivacy.it, doc. web n. 40345; per un

approfondimento si veda, da ultimo, (Barraco)-Sitzia 2008, 166), e la diversa posizione

assunta dalla giurisprudenza civile, la quale ritenne, in diverse occasioni che, al contrario

il diritto di accesso ex art. 13, l. 31 dicembre 1996, n. 675, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. e con il diritto alla libertà di pensiero di cui all’art. 21 Cost. Per tale motivo, va negato ai lavoratori dipendenti l’accesso alle schede di valutazione predisposte dal datore di lavoro sul loro conto, in quanto costituiscono dato personale le valutazioni finali del dipendente (note di qualifica), ma non le operazioni effettuate per giungere a queste ultime, non soltanto per il carattere soggettivo, che ne esclude il carattere di dato personale a norma dell’art. 1, secondo comma, lett. c), l. n. 675/1996, ma anche e soprattutto perché le schede di valutazione non

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identificano ancora la persona, essendo solo parte dell’iter di formazione della valutazione, la quale può essere modificata con la nota di qualifica finale(Trib. Roma 22 luglio 2002, RIDL 2003, II, 353 ss., con nota di Brun).

L’esigenza che stava alla base della prospettiva giurisprudenziale sopra richiamata

poggiava sull’idea secondo cui le valutazioni sono funzionali al potere direttivo e

organizzativo del datore di lavoro e pertanto, fin dove non si traducano in atti

esteriormente giuridicamente rilevanti e come tali impugnabili, rimangono nella sfera

soggettiva del datore di lavoro, che in tal modo appunta le proprie intenzioni e/o

convinzioni personali.

La dottrina, in sintonia con la giurisprudenza, aveva espresso posizioni in difesa di una

distinzione diretta a condizionare il diritto di accesso ai dati obiettivi contenuti nelle

schede o nei documenti valutativi, dalla conoscenza dell’iter valutativo che ha condotto al

giudizio finale, che si riteneva che dovesse essere condizionato all’emissione appunto del

giudizio finale, in virtù dell’avvertita esigenza di tutelare lo “ius tacendi” del datore di

lavoro, inteso come un corollario del suo diritto di impedire intrusioni nella sua sfera

riservata, dovendo intendersi ricompresa in tale sfera anche la sua attività di valutazione

circa l’andamento aziendale e il contributo che ad esso viene dai singoli lavoratori (Ichino

2003, 250).

L’empasse interpretativo sorto dalla contrapposizione tra l’opinione del Garante, e

quella contraria di dottrina e giurisprudenza è stato risolto dal legislatore del 2003

attraverso una disciplina puntuale contenuta nel nuovo art. 8, comma 4 del Codice

privacy.

La nuova norma del Codice privacy ha distinto, in particolare, ai fini del diritti di cui

all’art. 7, tra dati valutativi oggettivi e soggettivi, disponendo che in relazione ai primi

non è operante alcuna limitazione, mentre in relazione ai secondi è preclusa la possibilità

di ricorrere agli strumenti remediali della rettificazione e integrazione, fermo restando

ogni altro strumento di protezione, tra cui la possibilità di pretendere la cancellazione, il

blocco e la registrazione in forma anonima in caso di emergenza di una illicietà del

trattamento.

La dottrina, al riguardo, ha evidenziato che

sembra che il legislatore abbia inteso garantire al titolare del trattamento la libertà nella formulazione delle valutazioni di carattere non oggettivo che concernano il soggetto interessato cui, pur riconoscendo un diritto di accesso, è sottratta la possibilità di pretendere la rettificazione o l’integrazione di dati personali di tipo valutativo (relativi a giudizi, opinioni o altri apprezzamenti di tipo soggettivo) e quindi disconosciuto un diritto a pretendere un facere con detto contenuto da parte del terzo(Bellanova 2007, 211).

La seconda parte del comma 4 dell’art. 8, infine, prevede una ulteriore diversa

eccezione relativa ai dati relativi alla indicazione di condotte da tenersi o all’indicazione di

decisioni in via di assunzione da parte del titolare del trattamento.

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Questa formula di legge, per nulla chiara, sembra individuare quelle valutazioni che si

inseriscono nel farsi di un processo decisionale, rispetto al cui esito il soggetto

interessato è destinatario, e che costituiscono espressione di volontà o di giudizio di un

soggetto in relazione ad una condotta che comunque coinvolge il soggetto interessato.

Con riferimento a questi dati non oggettivi la sottrazione di tutela tracciata dal

legislatore è particolarmente incisiva, posto che non viene consentita alcuna forma di

accesso, il che è stato oggetto anche di aspre critiche in dottrina sulla base della

considerazione per cui

facile appare l’escamotage rimesso al titolare o responsabile del trattamento per sottrarsi all’accesso, potendosi limitare ad evidenziare che i dati de quibus siano funzionali ad un processo decisionale in fieri(Bellanova 2007, 211).

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