POTERE DISCIPLINARE E DIRITTI DEI LAVORATORI · Il potere disciplinare e il diritto di accesso...
Transcript of POTERE DISCIPLINARE E DIRITTI DEI LAVORATORI · Il potere disciplinare e il diritto di accesso...
ANDREA SITZIA
(RICERCATORE DI DIRITTO DEL LAVORO NELL'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA, AVVOCATO)
POTERE DISCIPLINARE E DIRITTI DEI LAVORATORI
SOMMARIO: 1. Premessa. Potere disciplinare e diritti dei lavoratori: obiettivo e limiti dell’indagine – 2.
Fonti, natura e funzione del potere disciplinare: prospettive teoriche – 3. La funzione
“dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare nella giurisprudenza – 4. Funzione “dissuasivo-
pedagogica” ed insussistente obbligo di parità di trattamento nel lavoro privato – 5. Le ipotesi di
esercizio “doveroso” del potere disciplinare – 6. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: il
caso delle molestie sessuali – 7. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: le violazioni in
materia di igiene e sicurezza sul lavoro - 8. Il danno da illegittimo esercizio del potere
disciplinare. Aspetti generali e rinvio – 9. Le sanzioni disciplinari pretestuose: prospettive
giurisprudenziali – 10. Il potere disciplinare e la tutela della riservatezza del lavoratore: aspetti
di carattere generale – 11. Il potere disciplinare e il diritto di accesso previsto dal Codice
privacy.
BIBLIOGRAFIA: De Litala 1931 - Mancini 1957 – Persiani 1966 - Montuschi 1973 - Mazzoni 1977 –
Cendon 1985 - Ichino 1986 - Tremolada 1993 – Grandi 1999 – Chieco 2000 - Ghera 2000 –
Ubertazzi 2000 - Mainardi 2002 – Ferrante 2003 - Ichino 2003 – Suppiej 2003 – Mainardi 2004 –
Ferrante 2004 - Vallebona 2004 – Del Punta 2006 – Ichino 2006 - Manzone 2006 – Bellanova
2007 - Comandé 2007 - Mattarolo 2007 – Montesarchio 2007 – Muggia 2007 – Tampieri 2007 –
Barraco-Sitzia 2008 – Pizzonia 2008.
LEGISLAZIONE: Cost. art. 41 - C.c. artt. 1175, 2085, 2086, 2087, 2094, 2104, 2105, 2106 – l.
20.5.1970, n. 300 art. 7 – D.lvo. 30.6.2003, n. 196.
1. Premessa. Potere disciplinare e diritti dei lavoratori: obiettivo e limiti dell’indagine.
Le riflessioni che seguono non intendono approfondire analiticamente l’istituto del
potere disciplinare del datore di lavoro né sotto il profilo specifico dell’esegesi della
normativa di riferimento, né sotto quello della precisazione definitiva delle conseguenze
risarcitorie in caso di esercizio illegittimo (o abusivo) del potere stesso (rinviandosi al
riguardo, per affinità di materia, al capitolo sul licenziamento illegittimo in questo stesso
trattato); l’obiettivo dell’indagine, in ossequio alle finalità complessive di quest’opera, è
di carattere più generale, mirando a verificare come lo specifico tema assegnato (qui il
potere disciplinare) si innesti su quello, di livello superiore, dei rapporti tra realizzazione
personale e responsabilità civile.
In altri termini, la questione specifica sottoposta a verifica qui consiste
nell’individuazione di quali “attività realizzatrici”, di quali prerogative della persona del
lavoratore possano venire turbate dall’esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere
disciplinare.
Delimitati in questi termini gli obiettivi dell’analisi, è necessario enucleare quali aspetti
della problematica attinente il potere disciplinare possano avere rilevanza ai fini 1
prefissati. Al riguardo, una preliminare precisazione attiene all’individuazione di quali
possano essere le “attività realizzatrici” che vengono in rilievo nella materia in esame, ed
in particolare quali possano essere, in astratto, le prerogative della persona del
lavoratore subordinato suscettibili di essere interessate, e quindi illecitamente calpestate,
dal potere in esame.
Rispetto ad altri settori dell’esperienza umana, porre una tale questione preliminare
con riferimento al lavoro, inteso in senso giuridico (per un inquadramento dogmatico
degli elementi del “lavoro” in senso giuridico si veda, per tutti, Mazzoni 1977, 3), ed in
particolare con riferimento al problema del potere e della responsabilità disciplinare nel
rapporto di lavoro, imporrebbe una riflessione complessa che non è possibile in questa
sede.
Ai limitati fini della presente indagine è necessario, e sufficiente, evidenziare che il
lavoro è, di per sé stesso, una delle principali “attività realizzatrici” della persona umana,
come da tempo accuratamente sottolineato dalla dottrina giuslavoristica nell’approfondire
il tema della dimensione personale del contratto di lavoro e dell’implicazione personale
del lavoratore nel rapporto di lavoro medesimo (si veda, per tutti, Grandi 1999 e, da
ultimo, Del Punta 2006; per una riflessione di carattere più generale si veda Manzone
2006; per una chiara e significativa affermazione del valore etico del lavoro si veda
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 6: AAS 73 (1981) 590). Una tale
acquisizione non può andare disgiunta dalla ulteriore considerazione del rilievo sociale del
lavoro umano, lavoro che si svolge con altri, all’interno di una collettività umana, qual’è
l’insieme dei collaboratori dell’impresa, impegnati nel perseguimento di obiettivi comuni
(con questo non si intende prendere posizione in favore o contro la teoria istituzionale
dell’impresa; sul tema, con specifica attenzione al problema della giustificazione del
potere disciplinare, cfr. Ferrante 2004, 90).
L’aver evidenziato, preliminarmente, che il lavoro, caratterizzato da una forte
rilevanza sociale, contribuisce alla realizzazione della persona umana, acquista un
significato precipuo ai fini dell’indagine relativa al potere disciplinare in quanto, come si
evidenzierà più avanti, tale potere interessa direttamente, sensibilmente ed
indissolubilmente la dimensione personale e sociale del lavoro; il potere disciplinare,
infatti, mira a ristabilire l’equilibrio giuridico tra i due soggetti del rapporto di lavoro
(Mazzoni 1977, 503), attraverso un innegabile funzione di
intimidazione nei confronti sia del colpevole sia degli altri soggetti inseriti nell’organismo(Mancini 1957, 24).
Il problema centrale, dunque, ai fini della presente indagine, attiene alla
giustificazione, alla funzione, del potere disciplinare, ed in particolare alla verifica circa la
“funzione dissuasiva” della sanzione disciplinare nei confronti degli altri dipendenti della
stessa azienda, funzione di recente confermata da una interessante sentenza della Corte
di Cassazione, secondo la quale
2
in materia di sanzioni disciplinari, la valutazione della condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà deve essere compiuta tenendosi conto anche del disvalore ambientale che la condotta stessa assume e, viceversa, della funzione di dissuasione contro il ripetersi di mancanze dello stesso tipo, peculiarmente svolta dal provvedimento disciplinare(Cass. 23 ottobre 2006, n. 22708, RIDL 2007, II, 463).
L’affermazione di una tale “funzione dissuasiva” produce significative conseguenze in
ordine all’individuazione dei diritti del lavoratore subordinato suscettibili di essere lesi da
un esercizio illegittimo del potere disciplinare; è evidente infatti che, se il potere
disciplinare si caratterizza per il fatto di arrecare pregiudizio anche ad interessi non
patrimoniali del lavoratore, si pone il delicato problema della risarcibilità dei relativi danni
(cfr. Tremolada 1993, 273).
Nello svolgimento delle riflessioni che seguono si terrà conto, infine, di due ulteriori
profili, intimamente connessi alla questione relativa alla funzione del potere disciplinare:
il primo relativo al c.d. esercizio “doveroso” del potere disciplinare (in certi casi, si pensi
al verificarsi di molestie sessuali o di violazioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro,
il potere disciplinare può assumere la funzione di strumento di protezione ai sensi
dell’art. 2087 c.c.), il secondo concernente i rapporti tra potere disciplinare e tutela della
riservatezza o “privacy” del lavoratore.
2. Fonti, natura e funzione del potere disciplinare: prospettive teoriche.
Il potere disciplinare dell’imprenditore si è affermato nella pratica dei rapporti
aziendali in ragione di una sua ritenuta ineluttabilità (cfr. Suppiej 2003, 108), derivante
dalla considerazione del fatto che
il lavoro, specialmente nei grandi stabilimenti industriali, non può compiersi se non in perfetta regolarità ed armonia, che esige volontà, serietà e disciplina da parte dei lavoratori(De Litala 1931, 323).
Nell’ordinamento giuridico attualmente vigente, comunque, il potere disciplinare è
previsto e regolato dall’art. 2106 c.c. e, più dettagliatamente, dall’art. 7 St. lav., ed è
solamente in sede di interpretazione di tali norme che possono essere risolte le
problematiche relative al fondamento, al contenuto e ai limiti del potere stesso.
L’art. 2106 c.c., in particolare, dopo avere indicato i presupposti di esercizio del
potere disciplinare nell’inosservanza, da parte del lavoratore, degli obblighi di diligenza,
obbedienza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., stabilisce il principio,
fondamentale ai fini del concreto esercizio del potere medesimo, della necessaria
proporzionalità della sanzione irrogabile rispetto all’infrazione del lavoratore.
L’art. 7 St. lav., a sua volta, nell’integrare (cfr. Mainardi 2002, 37) la norma
codicistica, da un lato ha previsto una serie di ulteriori limiti sostanziali (contratto
collettivo come fonte principale di determinazione dei presupposti del potere di controllo,
limiti inderogabili con riferimento all’entità delle sanzioni conservative) e, dall’altro lato,
3
ha procedimentalizzato l’esercizio del potere (sul tema si veda, da ultimo, Mattarolo
2007, 793).
Il dovere di obbedienza e di disciplina a carico del prestatore di lavoro trova, come
noto, il proprio fondamento normativo nella disposizione di cui all’art. 2094 c.c., a mente
della quale il lavoratore si obbliga a porsi alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore, conseguentemente risultando tenuto all’obbedienza delle disposizioni
impartite dal datore di lavoro per dirigere la prestazione lavorativa.
Il problema del fondamento del potere disciplinare appare tuttora vivamente dibattuto
in dottrina, considerato che, in particolare
alcuni autori tendono a collegare il potere disciplinare esclusivamente alla posizione contrattuale del datore di lavoro […], altri piuttosto alla sua posizione di imprenditore o di “organizzatore” dell'impresa. Conseguentemente la prima impostazione fa coincidere responsabilità contrattuale e responsabilità disciplinare, mentre la seconda distingue tra responsabilità contrattuale per inadempimento e responsabilità disciplinare, nel senso che non tutti i comportamenti rilevanti sotto il profilo disciplinare potrebbero altresì qualificarsi come inadempimento contrattuale […](Mattarolo 2007, 795).
Più in generale, il cuore delle difficoltà ricostruttive in materia risiede nella
problematica di dare sistemazione teorica ad un potere privato unilaterale che intende
realizzare una funzione, oltre che di prevenzione speciale, anche di prevenzione
generale, il che ha posto la questione della stessa giustificazione costituzionale del potere
disciplinare (si veda Mattarolo 2007, 794).
Una prima opinione ravvisa la ragion d’essere e la giustificazione costituzionale del
potere disciplinare dell’imprenditore in un interesse di questi correlato strettamente, sia
pure non esclusivamente, con le peculiarità della prestazione di lavoro subordinato
(Ichino 2003, 325).
Una diversa ricostruzione, ammettendo il carattere di pena privata alle sanzioni
disciplinari irrogate dal datore di lavoro, ne rinviene la giustificazione costituzionale nel
principio di libertà dell’iniziativa economica sancito dall’art. 41 Cost., di cui esso
rappresenta un adeguato strumento di tutela. Tale prospettiva esegetica, pur non
unanime in dottrina, ha consentito di affermare la legittimità costituzionale del potere
imprenditoriale di imporre conseguenze afflittive siccome fondato su di un interesse di
natura morale omogeneo a quello colpito dalla sanzione (Tremolada 1993, 62).
Diversamente, invero, potrebbe risultare più difficile giustificare la lesione di un diritto
della personalità del titolare attraverso una sanzione affittiva, atteso che
quanto ai tratti distintivi della situazione colpita dall’illecito, direi che è proprio nell’essenza della pena privata il fatto di poter essere chiamata in gioco soltanto, o almeno prevalentemente, laddove il danno corrisponda al sacrificio di un diritto personale della vittima, o comunque alla lesione di posizioni economiche o di beni (quali il lavoro o la casa di abitazione) che appaiano direttamente rilevanti sotto il profilo della libertà e della dignità individuale del soggetto(Cendon 1985, 96).
4
Il riconoscimento del potere privato unilaterale di reagire all’inosservanza degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro attraverso l’irrogazione di misure punitive,
che pure può essere considerato una anomalia sul piano dei rapporti contrattuali, viene
dunque iscritto, da una certa parte della dottrina, nell’ambito delle c.d. “pene private”
per il carattere affittivo, e, comunque, di mezzo di prevenzione al tempo stesso speciale,
nei confronti di chi ha commesso l’illecito, e generale nei confronti di tutti i possibili
violatori del precetto (Tremolada 1993, 43).
Altra dottrina ha del resto evidenziato che la
funzione organizzatoria giustifica l’irrogazione di pene private appunto per la conservazione ed il buon funzionamento dell’organizzazione(Vallebona 2004, 232).
La valorizzazione dei profili cui sopra si è fatto cenno impone di verificare se, ed in
che modo, il sistema di controllo e di disciplina del lavoro interviene ed insiste con
riferimento ad interessi non patrimoniali del lavoratore; in altri termini si tratta di
verificare se la funzione del sistema disciplinare abbia, come sostiene parte della dottrina
e della giurisprudenza, carattere pedagogico, afflittivo, riabilitativo o comunque
dissuasivo, come sembra confermato in particolare dall’insieme delle norme contenute
nell’art. 7 St. lav., in quanto diretto a configurare
un sistema di garanzie a tutela del lavoratore che trova la sua principale giustificazione nella circostanza che la sanzione colpisce beni attinenti alla sfera morale dell’individuo, e quindi si risolve in un rimedio essenzialmente afflittivo(Tremolada 1993, 45).
L’affermazione del carattere affittivo-dissuasivo-pedagogico della sanzione disciplinare
trova accoglimento invero minoritario in dottrina anche se, per contro, si riscontra una
maggiore concordanza di opinioni in ordine all’idea che il potere direttivo ed il potere
disciplinare, con il corrispondente dovere di obbedienza del prestatore di lavoro
subordinato, costituiscano una fondamentale necessità dell’organizzazione dell’impresa
(cfr. Ichino 2003, 326, il quale ammette che il potere disciplinare costituisce un
accessorio contrattuale tipicamente ed essenzialmente proprio del potere direttivo).
In particolare, una parte della dottrina ritiene che il realizzarsi della pretesa funzione
di prevenzione generale implica l’idoneità della pena e del relativo atto di intimazione a
coinvolgere l’insieme dei dipendenti, per indurli a non violare l’ordine aziendale,
dovendosi pertanto ipotizzare l’esistenza di un collegamento tra la sfera giuridica di
questi e la fattispecie sanzionatoria che permetta di dar conto dell’anzidetta idoneità. In
questa prospettiva è stata pertanto affermata
l’esistenza di uno specifico interesse collettivo dei lavoratori al corretto esercizio del potere disciplinare, perché l’illegittimità della sanzione irrogata al singolo lavoratore si risolve anche in una violazione della sfera di libertà di tutti gli altri(Tremolada 1993, 48).
5
Altra dottrina, analogamente, ha affermato che la responsabilità disciplinare
non mira tanto a ricostruire un equilibrio alterato fra due patrimoni o a promuovere un ritorno allo status quo ante, quanto a perseguire un fine di intimidazione nei confronti sia del colpevole sia degli altri soggetti inseriti nell’organismo(Mancini 1957, 24).
Una tale impostazione trova talvolta implicito riscontro laddove, a proposito della
giustificazione del potere disciplinare unilaterale, si ammette il rilievo del “collettivo”,
riconoscendosi che
la parte lesa ha interesse a impedire che l’inadempimento, pur di modesta entità, abbia a verificarsi e/o ripetersi: nell’ambito dello stesso rapporto, ma anche nell’ambito di quello analogo con altri collaboratori (il «collettivo» influisce qui direttamente sul contenuto del rapporto individuale)(Ichino 2003, 326).
Il potere disciplinare, in altri termini, si riconnette all’interesse organizzativo del
datore di lavoro ed in particolare, mediante la previsione e l’applicazione di sanzioni
disciplinari viene assicurato il regolare ed ordinato funzionamento dell’organizzazione e,
se del caso, il ripristino della sua funzionalità (Persiani 1966, 149; Mazzoni 1977, 503).
3. La funzione “dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare nella giurisprudenza.
In giurisprudenza la verifica della funzione del potere disciplinare è stata oggetto di
attenzione sporadica e non sistematica. Il profilo funzionale, in particolare, viene preso in
considerazione soprattutto ai fini della valutazione della congruità tra sanzione e
mancanza disciplinare.
Le più recenti sentenze della Corte di Cassazione, peraltro, fanno registrare una
rinnovata attenzione al tema in esame; una significativa prospettiva esegetica
attribuisce, infatti, rilievo, ai fini della valutazione di congruità, all’idoneità della condotta
del lavoratore a riflettersi negativamente sull’ambiente di lavoro, in quanto essa
potrebbe assurgere a “modello diseducativo e disincentivante” dall’adempimento degli
obblighi di diligenza e fedeltà per gli altri lavoratori.
Più in particolare, la Corte, con riferimento ad una fattispecie di licenziamento per
giusta causa, ha affermato che
in materia di sanzioni disciplinari, la valutazione della condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà deve essere compiuta tenendosi conto anche del disvalore ambientale che la condotta stessa assume e, viceversa, della funzione di dissuasione contro il ripetersi di mancanze dello stesso tipo, peculiarmente svolta dal provvedimento disciplinare.(Cass. 23 ottobre 2006, n. 22708, RIDL 2007, II, 463, con note di Muggia e Cannati).
6
Nel caso di specie, anche in base alla considerazione sopra richiamata, la Corte ha
ritenuto sussistere la giusta causa di licenziamento con riferimento al comportamento di
una lavoratrice che, di propria iniziativa, aveva proceduto alla somministrazione di
terapia insulinica senza preventivamente accertarsi se il paziente fosse diabetico e quindi
senza consultare il quaderno terapia e la scheda grafica apposta ai piedi del letto del
paziente.
In senso analogo, in precedenza, la Corte aveva già avuto modo di portare
l’attenzione sulla funzione dissuasiva del provvedimento disciplinare affermando che
l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c. che, in tema di licenziamento, reca una "norma elastica", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall' ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie. In particolare, l'operazione valutativa non è censurabile, se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell'interesse del lavoratore, tutelato dall'art. 4, cost., con l'interesse del datore di lavoro, tutelato dall'art. 41, cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall'art. 2106 c.c., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all'infrazione contestata, conformandosi altresì agli ulteriori "standards" valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale, valutando la condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell'impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi. (Nella specie la S.c. ha ritenuto incensurabile la valutazione del giudice di merito, che aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento del responsabile della piccola cassa di uno stabilimento industriale - il quale si era appropriato di due somme di lire 1.200.000 e lire 500.000 - valorizzando, tra l'altro, la gravità della condotta, in considerazione della posizione lavorativa del dipendente). (Cass., 4 dicembre 2002, n. 17208, LG 2003, 344, con nota di Mannacio).
La Corte di legittimità, nella motivazione della sentenza n. 22708 del 2006, non
attribuisce al criterio del disvalore ambientale un rilievo graduato rispetto ai giudizi di
proporzionalità, di bilanciamento dei contrapposti interessi, di rispetto dei principi
costituzionali e degli standard valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella
coscienza sociale, affermando, per contro, che tali elementi di giudizio, in concorso con il
criterio del “disvalore ambientale”, possono giustificare una sanzione piuttosto che
un’altra, unitamente alla considerazione, ai fini della valutazione del criterio del disvalore
ambientale, della posizione professionale rivestita dal lavoratore.
Ciò che viene valorizzato da parte della giurisprudenza qui richiamata è che,
soprattutto qualora il lavoratore ricopra un ruolo gerarchicamente significativo all’interno
dell’organizzazione di lavoro, tra le conseguenze negative arrecate dal lavoratore stesso
rientra anche la possibilità/probabilità che la sua condotta sia avvertita nell’ambiente di
lavoro come lecita e approvata dal datore di lavoro; ciò dovrebbe rilevare ai fini del
giudizio di gravità dell’infrazione imposto dall’art. 2106 c.c.
7
L’illecito disciplinare compiuto dal lavoratore, in altri termini, potrebbe apparire idoneo
a realizzare una destabilizzazione dell’equilibrio intrinseco al modello della
subordinazione, nella misura in cui gli altri lavoratori possano essere indotti a ritenere
certe prescrizioni, costituenti espressione della posizione direttiva del datore di lavoro,
non più necessarie al perseguimento dell’interesse dell’impresa (o comunque
dell’interesse del datore di lavoro) e sentirsi pertanto implicitamente autorizzati a tenere
condotte analoghe.
Il criterio del disvalore ambientale, dunque, altro non costituisce se non una
integrazione-specificazione della funzione complessiva riconosciuta dall’ordinamento al
potere disciplinare, che tradizionalmente viene riconosciuto funzionalmente destinato a
rispondere all’esigenza di reintegrazione della posizione direttiva del datore di lavoro nei
casi in cui questa venga violata (cfr. Mazzoni 1977, 506).
Il riconoscimento della funzione “pedagogica” del potere disciplinare viene contrastato
da una parte della dottrina partendo dall’affermazione in base alla quale la sanzione
disciplinare dovrebbe essere correlata innanzitutto ad un inadempimento, con la
conseguenza di non potersi sostenere che rientri fra i doveri del lavoratore quello di
essere di esempio per i colleghi, ciò che viene negato in termini di prestazione aggiuntiva
e comunque svalutandosi il momento dell’interesse dell’impresa di cui all’art. 2104 c.c.
(Muggia 2007, 467).
Una tale impostazione peraltro non sembra pienamente collimante con l’analisi
proposta dalla Corte di Cassazione nelle sentenze sopra citate, le quali non prospettano
alcuna forma di ampliamento dell’area del vincolo obbligatorio gravante sul lavoratore, in
quanto, piuttosto, intendono ricondurre la funzione di intimidazione generale tra le
intrinseche finalità del potere riconosciuto al datore di lavoro, in linea con quella dottrina
a mente della quale il potere disciplinare serve a
colpire, anche in via preventiva/esemplare, inadempimenti non strettamente riconducibili alla relazione obbligatoria che si esaurisce nell’inadempimento della prestazione, bensì dell’insieme di regole predisposte dal datore di lavoro per evitare pregiudizi al complesso organizzativo (Mainardi 2004, 845).
La svalutazione dell’elemento “dissuasivo”, del resto, può condurre ad affermazioni
non condivisibili come dimostrano alcuni noti pronunciamenti della giurisprudenza, come
quello relativo al caso dell’arresto non consentito del treno in galleria per far salire in
cabina persone estranee e non autorizzate; la sentenza cui si fa riferimento ebbe ad
affermare che
deve escludersi la sussistenza della giusta causa di licenziamento in caso di violazione di disposizioni o regolamenti aziendali da cui non siano derivati, né potessero derivare, danni a cose o persone(App. Genova, 13 giugno 2006, RIDL 2006, II, 942 ss., con nota critica di Ichino).
Con la sentenza da ultimo richiamata la Corte d’Appello, invero,
8
sembra obliterare totalmente la funzione deterrente che l’ordinamento tipicamente affida al licenziamento disciplinare. Leggiamo nella motivazione della sentenza che nel contratto collettivo “si richiede, per l’ipotizzabilità della sanzione, che vi siano stati danni gravi al materiale, all’armamento e alle cose di terzo, o anche danni gravi alle persone”; ma il fatto che, nel caso specifico, il danno non si sia verificato nulla toglie al fatto che personale e cose sono state esposte indebitamente a un maggior rischio di danno; che, trattandosi di trasporto ferroviario, l’eventuale danno potesse essere di enorme entità; che l’enorme entità della posta in gioco ben possa giustificare l’adozione della sanzione più grave, in funzione di deterrenza contro comportamenti disinvolti che altrimenti potrebbero moltiplicarsi(Ichino 2006, 948).
4. Funzione “dissuasivo-pedagogica” del potere disciplinare ed inesistente obbligo di
parità di trattamento nel lavoro privato.
Le riflessioni sopra svolte con riferimento alla funzione del potere disciplinare in
termini “dissuasivo-pedagogici” non devono indurre l’interprete ad una operazione logica
non consentita, consistente nell’inferire che il datore di lavoro sia tenuto in generale ad
esercitare il potere stesso sanzionando in ogni caso ogni dipendente che commetta
infrazioni analoghe o comunque che nell’esercizio del potere il datore di lavoro sia
soggetto ad un obbligo di parità di trattamento che, invero, non sussiste.
Recentemente, peraltro, la Corte di legittimità ha affermato, con riferimento ad una
fattispecie di licenziamento disciplinare, che
la discrezionalità del datore di lavoro nel graduare la sanzione disciplinare non equivale ad arbitrio e perciò egli deve illustrare in forma persuasiva le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito del dipendente, tanto da giustificare il licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa.L’asserita inesistenza di un obbligo dell’imprenditore di attribuire ai dipendenti versanti nella medesima situazione di fatto, lo stesso trattamento economico e normativo non esclude che il licenziamento debba essere motivato in modo completo e coerente e che un’incoerenza possa essere ravvisata, con conseguente illegittimità del licenziamento, dal giudice di merito nell’essere stata inflitta sanzione conservativa ad altri dipendenti per il medesimo illecito disciplinare senza specifiche ragioni di diversificazione, ciò che esclude una gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva(Cass. 8 gennaio 2008, n. 144, NGCC, 2008, 7-8, con nota critica di Pizzonia).
Nel caso di specie un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per avere
contravvenuto al divieto di inviare messaggi scritti per ragioni personali con il telefono
portatile di servizio. La peculiarità della sentenza di legittimità risiede nell’avere
quest’ultima confermato la sentenza d’appello, che aveva ritenuto sproporzionata la
sanzione espulsiva, utilizzando quale criterio di valutazione della proporzionalità della
sanzione il diverso trattamento precedentemente riservato ad altri dipendenti.
L’erroneità della pronuncia risiede nella tranciante obliterazione in tal modo effettuata
del principio, immanente nello stesso tenore testuale dell’art. 2106 c.c. della
9
insopprimibile discrezionalità in capo al datore di lavoro nell’avviare (o meno) l’azione disciplinare nei confronti del dipendente, discrezionalità il cui fondamento è rinvenibile nel più ampio potere di direzione dell’impresa ex art. 2086 c.c.(Mainardi 2002, 360).
La sentenza sopra richiamata appare pertanto errata nella parte in cui dimentica che
il datore di lavoro, a fronte della medesima infrazione compiuta da più lavoratori, o anche nel caso in cui lo stesso lavoratore tenga più volte la stessa mancanza nel corso del rapporto di lavoro, potrà ogni volta decidere se avviare o meno l’azione disciplinare senza che da tali scelte possa derivare alcuna conseguenza sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, che andrà valutata sempre mediante una verifica del rispetto della procedura stabilita dall’art. 7 St. lav. e della idoneità della mancanza contestata e sanzionata a giustificare il provvedimento adottato(Pizzonia 2008).
Eccezionali sono, invero, le ipotesi in cui può riconoscersi carattere “doveroso”
all’esercizio del potere disciplinare; in questi casi, che saranno approfonditi nei paragrafi
che seguono, rileva l’esigenza di tutelare interessi distinti e diversi da quello del datore di
lavoro, onde la predetta “doverosità” dell’esercizio del potere può essere ricondotta
all’area dell’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.
5. Le ipotesi di esercizio “doveroso” del potere disciplinare.
Aspetto speculare, seppure da riferirsi alla medesima matrice concettuale, rispetto a
quello trattato sopra con riferimento alla funzione “pedagogico-dissuasiva” del potere
disciplinare, è quello dell’interesse dei lavoratori al corretto esercizio del potere
medesimo, questa volta inteso nel senso che venga correttamente ed effettivamente
esercitato da parte del datore di lavoro al fine di sanzionare, con funzione anche di
prevenzione, illeciti commessi da alcuni lavoratori a danno di altri.
Anche in questo caso torna in discussione il problema della funzione dissuasiva
riconosciuta al potere disciplinare che assume, in questa particolare prospettiva
collettiva, il carattere di misura “prevenzionistica” (in questo senso, di recente, cfr.
Montesarchio 2007, 1228).
Con riferimento a tale questione parte della dottrina ha preso posizione ammettendo
espressamente che in certi casi l’esercizio del potere disciplinare
diviene doveroso, come nel caso di inosservanza da parte del lavoratore della normativa di sicurezza, nel caso di condotte illecite di un dipendente a danno di un altro, nel caso di violazione delle regole dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. In queste ipotesi il mancato esercizio del potere disciplinare determina o aggrava la responsabilità del datore di lavoro (art. 2087, 1228, 2049 c.c.) nei confronti dei soggetti danneggiati(Vallebona 2004, 232).
Più precisamente, peraltro, nei casi di cui trattasi, l’esercizio del potere disciplinare in
funzione di prevenzione sembra doversi costruire non solo in termini di onere funzionale
10
all’esclusione della responsabilità del datore di lavoro nell’ambito del giudizio di
colpevolezza attinente il danno eventualmente subito dal lavoratore leso, quanto
piuttosto come vera e propria “misura” obbligatoria, in senso stretto, ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 2087 c.c., con la conseguenza che il potere disciplinare, nelle ipotesi
predette, sembra costituire una misura di attuazione dell’obbligo di sicurezza gravante
sull’imprenditore in forza della richiamata disposizione codicistica, peraltro
costituzionalmente imposta dall’art. 41, co. 2.
In altri termini, nel caso in cui il datore di lavoro o i suoi più stretti collaboratori
vengano a conoscenza di comportamenti lesivi posti in essere da un lavoratore, lesivi
della sfera fisica o morale di altri lavoratori, si può ritenere che scatti automaticamente
l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c.
Un comportamento passivo o di tolleranza, in questi casi, può provocare azioni
risarcitorie da parte della vittima, attesa la responsabilità contrattuale del datore di
lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma che, come affermato dalla giurisprudenza,
impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, determinandosi, in caso di violazione di esso, una responsabilità contrattuale - rientrante nella competenza per materia del giudice del lavoro - che concorre con quelle extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari, non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma (come si evince da un'interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica anche il divieto di comportamenti commissivi lesivi dell'integrità psicofisica del lavoratore; che, in quanto caratterizzati da colpa o dolo (come le molestie sessuali o veri e propri atti di libidine violenti) ed attuati durante l'orario dell'attività lavorativa, sono perciò fonte di responsabilità contrattuale per inosservanza della norma anzidetta, oltre a integrare violazione dei doveri di buona fede e correttezza di cui agli art. 1175 e 1375 c.c. (Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, MGL 1995, 561, nt. Riccardi. Nello stesso senso si veda Cass. 11 novembre 1997, n. 11403, MGL 1998, 277; Cass. 26 gennaio 1994, n. 774, RIDL 1995, II, 118; Cass. 18 aprile 2000, n. 5094, NGCC, 2001, I, 511; Trib. Milano 28 dicembre 2001, RCDL 2002, 371; Trib. Pisa 12 ottobre 2001, RGL 2002, II, 314).
Una recente pronuncia della Corte di legittimità ha ribadito i principi qui richiamati
affermando che
allorché il contratto collettivo preveda per determinati comportamenti del lavoratore sanzioni disciplinari conservative, il giudice del merito, nel valutare la legittimità della sanzione applicata, deve attenersi alla previsione contrattuale e non gli è consentito apprezzare la condotta del lavoratore come causa che legittimi l’adozione del licenziamento da parte del datore di lavoro. Tuttavia, per escludere che il giudice possa discostarsi dalla previsione del CCNL, è necessario che vi sia integrale coincidenza tra la fattispecie contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando per contro una diversa e più grave valutazione possibile (e doverosa) quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto alla fattispecie contrattuale(Cass. 20 marzo 2007, n. 6621, NGCC 2007, I, 1225 ss., con nota di Montesarchio).
11
Nel caso di specie un lavoratore dipendente di una casa di cura privata era stato
licenziato per avere compiuto molestie sessuali ai danni di una superiore gerarchica. Il
ricorrente assumeva, al fine di sentire dichiarare l’illegittimità del licenziamento
disciplinare intimatogli, che il contratto collettivo applicabile prevedesse, per tali tipi di
comportamenti, soltanto sanzioni di carattere conservativo e non anche il più grave
provvedimento espulsivo.
La Corte di legittimità, nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto, facendo
applicazione del principio sopra richiamato in massima, di attribuire rilievo agli elementi
aggiuntivi e aggravanti la condotta molesta del dipendente ai fini del giudizio di
proporzionalità.
6. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: il caso delle molestie sessuali.
Quanto da ultimo affermato richiede di essere verificato con riferimento ad alcune
ipotesi specifiche affrontate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, tra le quali
particolare rilievo assume la fattispecie delle molestie sessuali sul lavoro, in ordine al
quale la casistica giudiziaria ad oggi reperibile presenta diverse pronunzie in cui viene
affermato, sia pure non sistematicamente, il principio dell’esercizio obbligatorio del
potere disciplinare.
Con riferimento a tale casistica un certo interesse riveste una decisione della Pretura
di Milano che sembra dare attuazione del principio sopra richiamato affermando che
il datore di lavoro il cui dirigente, piuttosto che censurare quei lavoratori maschi che al passaggio in reparto di una impiegata vestita con minigonna le abbiano indirizzato apprezzamenti con fischi e battute, abbia ripreso la stessa, peraltro senza particolare riservatezza, invitandola ad indossare un abbigliamento più adatto all’ambiente è tenuto al risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente (nella specie, lire 100.000), essendo ad esso implicitamente ricollegabile la condotta per avere affermato, nel difendersi in giudizio, che l’invito ad usare un abbigliamento meno appariscente aveva avuto lo scopo di evitare il protrarsi di turbative sul lavoro da parte degli operai(Pret. Milano 12 gennaio 1995, Gilberti c. Ansaldo, Foro it. 1995, 1985).
Analogo ordine di considerazioni si riscontra dall’esame della motivazione di una
coeva decisione della Pretura di Milano, la cui massima afferma che
il licenziamento di un dipendente per avere molestato due compagne di lavoro, compiendo atti esibizionistici, in particolare esibendo i genitali ad una di loro lasciando intenzionalmente aperta la porta del bagno sì da venir visto solo da lei mentre indugiava nel rivestirsi, è provvedimento disciplinare sproporzionato rispetto all’addebito, invece congruamente punibile attraverso la massima sanzione conservativa(Pret. Milano, ord. 20 febbraio 1995, Corsini c. Zucchi, Foro it. 1995, 1985).
L’ordinanza da ultimo richiamata, seppure nella assoluta particolarità della fattispecie
esaminata, di specifica applicazione del principio di proporzionalità di cui all’art. 2106
c.c., deve essere sottolineata per un obiter dictum in cui si afferma che, in ipotesi come
12
quella decisa, in una logica al tempo stesso disciplinare e di tutela dell’integrità psichica e
fisica di lavoratori e lavoratrici, deve ritenersi non solo consentito, ma anzi doveroso il
trasferimento ad altra unità produttiva del lavoratore autore della molestia.
In particolare il giudice afferma che
[...] essendo un unico episodio, avrebbe potuto trovare più adeguata sanzione conservativa con la massima sospensione ed avrebbe, ad avviso del pretore, anche legittimato un trasferimento del lavoratore per ripristinare una serenità ed una regolarità della organizzazione aziendale che garantisse la operaia – e le altre – e la tutelasse dal pericolo di simili molestie [...]. Nel caso concreto l’esigenza di trasferimento [...] può assurgere addirittura a «positiva azione» per ripristinare un corretto e rispettoso comportamento nei loro confronti e si imporrebbe, per il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c. che prescrive l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e psichica dei lavoratori e delle lavoratrici, apparendo provvedimento congruo ed efficace, attesa appunto l’esigenza di tutelare le operaie della convenuta(Pret. Milano ord. 20 febbraio 1995, cit.).
La decisione richiamata, a prescindere dalla questione del trasferimento disciplinare,
che soltanto una parte minoritaria della giurisprudenza ritiene legittimo, sempre che sia
previsto dal codice disciplinare (Cass. 27 giugno 1998, n. 6383, RIDL 1999, II, 356, con
nota di Pilati; Cass. 16 aprile 1992, n. 4655, NGL 1992, 649; sull’argomento Mattarolo
2007; in dottrina si ritiene che il trasferimento, in quanto modifica durevolmente la
posizione di lavoro del dipendente, non possa costituire sanzione disciplinare) presenta
l’emersione, sia pure allo stato ancora embrionale, del riconoscimento che l’esercizio del
potere disciplinare può in certe circostanze assumere il carattere di misura
prevenzionistica.
Nel solco tracciato dalla citata ordinanza milanese si muove una recente sentenza del
Tribunale di Pisa, anch’essa relativa ad una fattispecie di risarcimento del danno
esistenziale e del danno morale per molestie sessuali e mobbing, riguardante in
particolare un caso di dimissioni per giusta causa determinate da molestie sessuali poste
in essere nei confronti della lavoratrice da un superiore gerarchico.
La particolarità della vicenda risiede nell’accertamento da parte del giudice di merito
di una responsabilità omissiva del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. atteso che lo stesso,
pur venuto a conoscenza degli episodi di molestia sessuale commessi ai danni della
lavoratrice, non ebbe a porre in essere le necessarie misure disciplinari per impedire il
perpetrarsi del comportamento lesivo. In motivazione il giudice afferma che
i provvedimenti presi [...] si sono limitati ad un rimprovero verbale ed all’allontanamento fisico della ... Nessuna sanzione disciplinare è stata adottata nei confronti del ... e la spiegazione è semplicemente perché il datore non aveva dato peso alla questione [...] il datore di lavoro non aveva dato peso neppure al secondo episodio [...] Tuttavia decidemmo di comminare una sanzione conservativa e poi di trasferire il .... Ma ci spiega lo stesso ... (v. interrogatorio) che la sanzione si era risolta in un provvedimento meramente formale, privo di contenuti effettivi [...]. Dunque il provvedimento punitivo del datore di lavoro è un mero provvedimento di facciata, mai eseguito, il che è in linea con il convincimento della modesta portata lesiva del comportamento del ...(Trib. Pisa, 7 ottobre 2001, www.personaedanno.it).
13
Sulla base di siffatte emergenze istruttorie il Tribunale ha fatto applicazione della
disciplina di cui all’art. 2087 c.c., riconoscendo che la stessa impone la tutela della
personalità morale, di tal ché l’omessa adozione di misure coercitive effettive viene
considerata quale condotta omissiva ai sensi della predetta disposizione codicistica.
7. L’esercizio “doveroso” del potere disciplinare: le violazioni in materia di igiene e
sicurezza sul lavoro.
Ulteriore conferma dell’impostazione sopra evidenziata si trae dalla specifica materia
della sicurezza sul lavoro, con riferimento alla quale parte della dottrina ha parimenti
riconosciuto che
se il lavoratore si rifiuta di utilizzare i dispositivi di protezione individuale, ovvero di sottoporsi a sorveglianza sanitaria, il datore di lavoro deve indurlo ad adempiere ai propri obblighi sanzionandolo anche disciplinarmente, giungendo addirittura fino al licenziamento per giusta causa, se vuole evitare la sua personale responsabilità(Tampieri 2007, VII).
In tale prospettiva numerose pronunzie della giurisprudenza di legittimità hanno
ammesso che
in materia di igiene del lavoro, l’art. 4, lett. d) D.P.R. 19.3.1956 n. 303 […] va interpretato nel senso che il destinatario delle norme deve pretendere dai suoi dipendenti l’osservanza di tali norme in tutti i modi, provvedendo, se necessario, anche all’adozione di mezzi coercitivi e di sanzioni disciplinari, non escluso il licenziamento dell’operaio riottoso(Cass. Pen., IV sez., 25 aprile 1991, n. 10730).
Più in particolare, la giurisprudenza della terza sezione penale di Cassazione è giunta
ad esplicitare, con riferimento all’obbligo di visita medica obbligatoria ex art. 33 D.P.R.
19.3.1956, n. 303, il principio secondo cui
qualora i lavoratori si rifiutino di sottoporsi a tali visite, il datore di lavoro deve provvedere ad indurli, ricorrendo, se necessario, ad adeguate sanzioni disciplinari(Cass. Pen., sez. III, 20 giugno 1991, n. 6828, MGL 1991, 450, con nota di Orga. Analogamente Cass. Pen., sez. III, 17 giugno 1980, n. 7711, Giur. It. 1981, II, 261; cfr. altresì Cass. 26 gennaio 1994, n. 774, RIDL 1995, II, con nota di Bonardi).
8. Il danno da illegittimo esercizio del potere disciplinare. Aspetti generali e rinvio.
Le considerazioni che seguono presuppongono la rilevanza collettiva e la funzione del
potere disciplinare intesa nei termini sopra richiamati nel testo, riconosciute le quali il
problema del rapporto intercorrente fra sistema disciplinare e diritti dei lavoratori,
affrontato al fine di verificare che tipo di lesioni alla “vita di relazione” possano insorgere
14
a causa dell’esercizio illegittimo ovvero del mancato esercizio del potere disciplinare da
parte dell’imprenditore, assumono una prospettiva del tutto particolare.
Le caratteristiche del sistema disciplinare come sopra tratteggiate implicano, invero,
rilevanti conseguenze applicative con riferimento ai casi di esercizio illegittimo del potere
disciplinare (ovverosia esercitato oltre i limiti di carattere sostanziale previsti dalla
legge), imposti a garanzia dell’interesse del lavoratore a non essere punito ingiustamente
o sproporzionatamente.
La circostanza in base alla quale ogni sanzione disciplinare si caratterizza per il fatto
di arrecare pregiudizio anche ad interessi non patrimoniali del lavoratore pone il
problema dei c.d. danni non patrimoniali derivanti dalla lesione dei diritti della personalità
coinvolti dall’esercizio del potere disciplinare.
Più in generale il problema non si pone con riferimento al diritto del lavoratore al
risarcimento dei danni di carattere economico conseguenti alla lesione dei predetti diritti
della personalità (quali ad esempio quello consistente nella difficoltà di reperire una
nuova occupazione a causa del discredito derivante dalla sanzione irrogata), danni questi
qualificabili come patrimoniali in senso proprio (cfr. Tremolada 1993, 274).
Il problema riguarda i danni di carattere personale non patrimoniali consistenti nella
lesione di diritti propri della persona, quali ad esempio il danno consistente nella
disistima di cui è oggetto l’individuo nell’ambiente sociale in cui opera, in conseguenza
della sanzione subita, pur se tale disistima non abbia comportato per l’interessato
pregiudizi di natura patrimoniale.
La giurisprudenza non risulta particolarmente ricca di pronunciamenti rilevanti in
ordine alla problematica del danno da provvedimenti disciplinari conservativi illegittimi,
considerato che il contenzioso in materia si svolge prevalentemente avanti le
commissioni di conciliazione di cui all’art. 7, co. 6, St. lav.; diversamente molto ricca è la
giurisprudenza in materia di licenziamento.
In questa sede pertanto sia consentito esclusivamente richiamare una recente
sentenza della Corte di Cassazione in ordine al tema del danno all’integrità psicofisica da
licenziamento ingiustificato, per il resto rinviandosi alla trattazione specifica
dell’argomento sviluppata infra (cfr. Salviati, cap. 160).
La Corte di legittimità, in particolare, con la sentenza 5 marzo 2008, n. 5927 (in
www.personaedanno.it, con nota di Pizzonia), precisato preliminarmente che la
preesistenza di un rapporto contrattuale conferisce all’illegittimo licenziamento ed al
conseguente danno natura contrattuale, ha affermato che, essendo il licenziamento un
inadempimento contrattuale, sono risarcibili i danni prevedibili (art. 1225 c.c.) che siano
conseguenza diretta ed immediata dell’illegittimo recesso (art. 1223 c.c.).
A proposito dei danni all’integrità psicofisica da licenziamento illegittimo la sentenza
sopra richiamata distingue l’ipotesi del danno all’integrità psicofisica causato dalla
mancanza del lavoro e della relativa retribuzione conseguente al licenziamento
ingiustificato, dal danno all’integrità psicofisica causato direttamente dal comportamento
con cui il datore di lavoro ha messo in atto il licenziamento (licenziamento ingiurioso,
15
pretestuoso o vessatorio), svolgendo, segnatamente con riferimento a questa seconda
categoria, considerazioni estensibili alla materia delle sanzioni conservative.
Nel caso di provvedimenti disciplinari (nello specifico di licenziamenti) comminati in
modo ingiurioso, pretestuoso o vessatorio la Corte ritiene che il danno all’integrità
psicofisica eventualmente patito dal lavoratore, non essendo una conseguenza
“fisiologicamente connessa” al licenziamento privo di giustificazione o comunque
illegittimo per violazione di norme di legge o di contratto, è risarcibile solamente in
quanto sia conseguenza diretta ed immediata, oltre che prevedibile, del comportamento
materialmente tenuto dal datore di lavoro nell’irrogare il licenziamento, onde sul
lavoratore grava l’onere della prova dell’esistenza dell’illecito (contrattuale), del danno e
del nesso di causalità.
Un’ulteriore considerazione, a completamento di quanto sopra, deve essere svolta con
riferimento alla tipologia di obbligo che può dirsi violato in caso di provvedimenti
disciplinari illegittimi.
L’intima relazione intercorrente tra la disciplina del potere disciplinare e la disciplina di
cui all’art. 2087 c.c., sopra presa in considerazione con riferimento al tema dell’esercizio
“doveroso” del potere stesso, assume, infatti, una ulteriore rilevanza in relazione al
problema delle conseguenze di un esercizio illegittimo del potere disciplinare per le
ragioni suddette.
L’art. 2087 c.c., in particolare, qualifica come illecito contrattuale ogni comportamento
che cagioni ingiustificatamente un pregiudizio alla personalità umana, così approntando
una tutela all’individuo in sé considerato, sanzionando con il risarcimento ogni
atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione
(sull’argomento approfonditamente Del Punta 2006).
Intesa in tal modo, la norma codicistica, supportata dal disposto costituzionale di cui
all’art. 41, co. 2, appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti
al sinallagma ed ogni manifestazione di supremazia datoriale che a quel sinallagma non
sia funzionale (cfr. Trib. Pisa, 3 ottobre 2001, www.personaedanno.it).
9. Le sanzioni disciplinari pretestuose: prospettive giurisprudenziali.
In applicazione dei principi sopra richiamati è stato ricondotto ad una fattispecie di
mobbing un caso in cui un lavoratore risultò destinatario di ben dodici sanzioni
disciplinari, di cui alcune con frequenza giornaliera. Numerose fra queste contestazioni,
in particolare, riguardavano il confezionamento e la presentazione delle pietanze, altre
ancora l’esorbitante numero di porzioni preparate ed avanzate, altre la mancata corretta
conservazione di alcune pietanze ed infine una certa disinvoltura nella custodia del pane.
Con riferimento a tali circostanze la decisione del Tribunale fa perno sulla
valorizzazione della lesività intrinsecamente propria del ricorso al potere disciplinare al
fine di compromettere volutamente ed ingiustamente la personalità morale del
lavoratore, atteso che
16
il reiterato manifestarsi del potere disciplinare, alle volte per ragioni del tutto pretestuose o di estrema fiscalità abbia costituito una attività rivolta a compromettere la personalità morale del dipendente e quindi rappresenti una chiara violazione dell’art. 2087 c.c.(Trib. Pisa 3 ottobre 2001, cit.; per una fattispecie del tutto analoga cfr. Trib. Milano, 28 febbraio 2003, Diana c. Soc. IVM, RCDL 2003, 655; Trib. Milano 6 maggio 2005, R. c. Inps, OGL 2005, I, 327).
Analoga affermazione del dovere del datore di lavoro di intervenire al fine di
rimuovere situazioni non tollerabili ai sensi dell’art. 2087 c.c. si riscontra in diverse
pronunzie sempre relative a fattispecie in cui l’esercizio del potere disciplinare è risultato
deviato rispetto ai fini suoi propri, così ingenerando conseguenze pregiudizievoli quali,
oltre al danno patrimoniale ed al danno biologico, il danno all'immagine, le sofferenze per
le mortificazioni subite e, più in generale, la mancata esplicazione della propria
personalità attraverso l'attività lavorativa.
Particolarmente significativa, in questa prospettiva appare la fattispecie decisa dal
Trib. di Tempio Pausania con sentenza 10.7.2003, la cui motivazione rileva che
riassuntivamente, possono ricondursi nell'ambito di un'identica strategia mobbizzante i seguenti episodi: il comportamento tenuto dal Sindaco in relazione alla pratica della ricorrente, volta al conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza, sfociato nel provvedimento illegittimo con cui chiedeva alla Prefettura l'archiviazione provvisoria della pratica stessa; l'irrogazione, alla medesima, della sanzione della censura, con provvedimento emesso in data 6 ottobre 1999; l'assegnazione della ricorrente ai soli compiti di polizia amministrativa, sottraendole i restanti compiti tipici della mansione di agente di polizia municipale; l'assegnazione della ricorrente ad un luogo di lavoro diverso e in condizioni deteriori, rispetto a quello dei suoi colleghi; il rifiuto, alla richiesta della ricorrente, di poter svolgere lavoro straordinario per la consegna dei certificati elettorali e l'imposizione, alla medesima, di svolgere tali mansioni durante il normale orario lavorativo; l'eccessiva pressione disciplinare esercitata – attraverso una nutrita serie di richiami scritti, comprendente una scenata fatta alla presenza di altro personale e la richiesta di sottoporre la ricorrente alla sanzione della multa – in relazione ad illeciti disciplinari inesistenti o, comunque, di lieve entità; il tutto nel quadro di un rapporto palesemente conflittuale con l'autorità apicale del Sindaco, il quale non risparmiava nei numerosissimi provvedimenti che riguardavano la ricorrente, toni critici al limite dell'insulto (si pensi, a titolo esemplificativo, alla frase: “Si ha l'impressione che lei abbia sbagliato professione”, contenuta nella disposizione di servizio del 1° marzo 2000, nonché al rigetto dell'istanza di mobilità, nella quale la motivazione è sostituita da una sorta di generico rimprovero)(Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003, www.personaedanno.it).
10. Il potere disciplinare e la tutela della riservatezza del lavoratore: aspetti di
carattere generale.
Introducendo l’indagine sui rapporti tra il potere disciplinare e i diritti dei lavoratori si
è rilevata l’esigenza di verificare in quali rapporti il potere in discorso si ponga rispetto al
problema della tutela della riservatezza del lavoratore.
Non è questa la sede per procedere ad una approfondita analisi delle molteplici e
complesse questioni che si pongono relativamente ai rapporti intercorrenti fra i poteri del
datore di lavoro e il diritto alla riservatezza (oltre che al “diritto alla protezione dei propri
17
dati personali” di cui all’art. 1 D.lvo n. 196/2003) in quanto diritto della personalità
dotato di rango costituzionale (sul tema si veda, tra gli altri, Barraco-Sitzia 2008; Del
Punta 2006, 194; Ubertazzi 2004; Chieco 2000; Ichino 1986, 7); ciò che invece interessa
rilevare è che nella nozione di dato personale rientrano non solo i dati contenuti nel
fascicolo personale del dipendente, ma in genere tutte le informazioni detenute dal
datore di lavoro purché idonee a fornire un contributo aggiuntivo di conoscenza rispetto
al lavoratore (cfr., al riguardo, (Barraco)-Sitzia 2008, 37).
Ancora più in particolare, si deve tenere presente che
per effetto dell’ampia definizione di dato personale introdotta dalla direttiva comunitaria n. 95/46/CE e dall’art. 1, comma 2, lett. c), della legge n. 675/1996, la legge n. 675/1996 è applicabile non solo ai dati personali di tipo oggettivo, ma anche ad informazioni personali contenute nell’ambito di valutazioni soggettive, riportate in supporti di vario tipo (sia cartaceo, sia automatizzato), conservate o meno in archivi strutturati(Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento 19 dicembre 2001, in Bollettino n. 23 dell’ottobre 2001, p. 52, http://www.garanteprivacy.it, doc. web n. 41854).
Ciò posto, non sembrano esserci dubbi circa il fatto che il potere disciplinare involge
un trattamento di dati personali relativi al lavoratore, dati personali che possono avere
anche natura sensibile ed interessare la dignità del lavoratore, soprattutto laddove il
procedimento disciplinare abbia ad oggetto fatti estranei alla prestazione di lavoro,
incidenti sul rapporto siccome rilevanti al fine di verificare il grado di fiducia riposta dal
datore di lavoro nel lavoratore.
Il problema di diritto positivo che si pone al riguardo concerne la verifica del se ed in
quale misura i limiti e i divieti al trattamento dei dati personali (posti dalla normativa
generale di cui al d.lvo n. 196/2003) possano riguardare l’esercizio del potere disciplinare
che compete al datore di lavoro.
Il Garante per la protezione dei dati personali ha in più occasioni affermato che il
potere disciplinare, così come il correlato potere di controllo, del datore di lavoro non è
limitato soltanto dalla normativa fondamentale contenuta nel codice civile e nello statuto
dei lavoratori, ma anche dalla disciplina in materia di protezione dei dati personali, il che
pone non indifferenti problemi di coordinamento fra norme.
Effetto di tale affermazione è l’applicazione a tutti gli atti del procedimento disciplinare
della regolamentazione generale del Codice privacy, atteso che tutti gli atti del medesimo
procedimento rappresentano una forma di trattamento di dati personali soggetti ai limiti
sostanziali e procedurali imposti dal Codice.
Con riferimento specifico al requisito del consenso, il Garante è intervenuto,
affermando che
nel rapporto di lavoro subordinato, il trattamento di dati finalizzato all’esercizio del potere disciplinare è legittimo, anche senza il consenso dell’interessato, ogniqualvolta il trattamento si configuri come necessario per l’esecuzione di obblighi previsti da legge, regolamento o normativa comunitaria, nonché derivanti da contratti di cui è parte l’interessato, a condizione che il trattamento sia pertinente e non eccedente rispetto alle finalità per le quali i dati stessi sono stati raccolti e successivamente impiegati
18
(Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento su ricorso 5 ottobre 2006, RIDL, II, 2007, pp. 374 ss., con nota di C. Faleri).
Nel caso di specie, la società datrice di lavoro aveva acquisito una serie di
informazioni riguardanti un lavoratore, relative a movimentazioni transitate su conti
correnti e su di un libretto di risparmio intestati al lavoratore stesso, movimentazioni
relative ad un dossier titoli ed altre operazioni finanziarie.
A fronte dell’istanza di accesso e delle contestazioni mosse dal lavoratore interessato
in ordine ad una pretesa violazione della normativa privacy per mancata acquisizione del
consenso, il Garante ha affermato che nello specifico il trattamento doveva riconoscersi
legittimo e correttamente effettuato perché i dati acquisiti in occasione di una ispezione
interna e utilizzati ai fini della contestazione degli addebiti disciplinari apparivano
pertinenti e rivolti a soddisfare la legittima esigenza del datore di lavoro di far valere i
propri diritti ai fini della loro tutela in sede giudiziaria e che comunque l’acquisizione delle
informazioni sulle movimentazioni transitate sui conti correnti, sul libretto di risparmio e
sul dossier titoli risultavano effettuate dal datore di lavoro (istituto di credito) in
ottemperanza all’obbligo di controllo cui sono tenuti gli istituti di credito ai sensi della
normativa antiriciclaggio, il che porta ad escludere la necessità di acquisire il consenso ai
sensi dell’attualmente vigente art. 24 del Codice privacy.
L’affermazione generale cui sopra si è fatto riferimento, relativamente alla necessaria
applicazione combinata della disciplina in materia di trattamento dei dati personali di cui
al Codice privacy e della normativa contenuta nel codice civile e nello Statuto dei
lavoratori in relazione ai poteri direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro ha
permesso alla dottrina di rilevare che
al pari delle norme statutarie [...] anche quelle del Codice sembrano in grado di inserirsi agevolmente, e pur da una prospettiva “generale”, nel regolamento contrattuale; e, del resto, lo schema titolare/interessato, proposto dal Codice, si attaglia perfettamente alla relazione datore/dipendente, propria del rapporto di lavoro subordinato, al di là del fatto che essa preesista all’ulteriore rapporto che si attiva nel momento in cui i dati personali del lavoratore cominciano ad affluire nella sfera di conoscenza del terzo/datore di lavoro(Del Punta 2006, 200).
L’integrazione così realizzata del sistema lavoristico con la disciplina di tutela della
riservatezza comporta l’ingresso nella materia lavoristica dell’apparato di tutele posto dal
Codice privacy, costituito da una sorta di micro-sistema di responsabilità civile in forza
del quale il trattamento illegittimo di dati personali viene da un lato neutralizzato
attraverso la previsione dell’inutilizzabilità dei dati medesimi (art. 11, co. 2 del Codice
privacy) e, dall’altro, sanzionato mediante l’affermazione della responsabilità civile, di
natura oggettiva giusta il richiamo dell’art. 2050 c.c., di chi (titolare o responsabile del
trattamento) ha cagionato danni ad altri per effetto del trattamento di dati personali (art.
15, co. 1 del Codice, su cui da ultimo Comandé 2007, 362).
11. Il potere disciplinare e il diritto di accesso previsto dal Codice privacy.
19
Il problema maggiore che si pone con riferimento al tema dei rapporti tra potere
disciplinare e tutela della riservatezza del lavoratore concerne il diritto di accesso di cui
all’art. 10 del Codice privacy, in forza del quale al lavoratore viene consentito, in linea
generale, di accedere al fascicolo del procedimento disciplinare per conoscere tutte le
informazioni che lo riguardano in esso contenute.
La materia del diritto di accesso è sempre più al centro dell’attenzione degli interventi
sia della Magistratura che dell’Autorità Garante, come attesta il recente provvedimento
del 12 aprile 2007 (Bollettino n. 82/aprile 2007, in http://www.garanteprivacy.it, doc.
web n. 1402759), con cui il Garante si è pronunciato, tra l’altro, sulla richiesta di un
lavoratore di conoscere l’origine e le modalità del trattamento dei dati personali che lo
riguardano contenuti in alcune lettere di contestazione disciplinare.
Il caso di specie riguardava un lavoratore, impiegato addetto al “call center-ufficio
anagrafica”, che era stato destinatario di una serie di contestazioni disciplinari aventi ad
oggetto presunti comportamenti ritenuti difformi rispetto agli obblighi contrattuali. La
società riteneva che l’interessato non avesse prestato diligentemente l’assistenza
telefonica ai fornitori esterni (ad esempio non rispondendo a numerose chiamate
inoltrate al suo recapito telefonico, oppure facendo cadere deliberatamente la linea o
lasciando in attesa i fornitori per diverso tempo o commentando a voce alta, e senza
chiudere la comunicazione, la richiesta rivoltagli da un fornitore con l’uso di espressioni
irriguardose).
Il lavoratore, con richiesta di accesso, aveva chiesto di conoscere le fonti dalle quali la
società avrebbe appreso gli episodi contestati, chiedendo di sapere se ciò fosse avvenuto
tramite “apparecchiature di controllo a distanza dell’attività lavorativa” oppure grazie
all’invio di persone fisiche, nonché richiedeva di conoscere “sulla base di quali modalità di
trattamento egli sia stato individuato responsabile degli episodi”.
Nel risolvere la questione il Garante ha osservato, in primo luogo, che le richieste in
oggetto riguardano un trattamento di dati personali e che quindi, conseguentemente, la
società datrice di lavoro/titolare deve riscontrare la richiesta di accesso precisando, per
ciascuna delle contestazioni disciplinari origine dei dati e modalità del loro trattamento,
chiarendo in modo inequivocabile che le fonti e le modalità già indicate sono comuni a
tutti i singoli episodi.
In linea con tale affermazione si pone una recente sentenza della Corte di Cassazione,
nella quale si afferma che il lavoratore
ha diritto di conseguire l’esibizione in giudizio, da parte del datore di lavoro, dei documenti relativi alle vicende del rapporto di lavoro (ivi compresi i libri paga e i fogli presenza), a prescindere dall’eventuale prospettabilità di prove diverse e senza spazi per valutazioni discrezionali da parte del giudice(Cass. civile, sez. lav., 26 aprile 2007, n. 9961, GCM 2007, 4).
Più in particolare, la Corte ha precisato che
la tenuta da parte del datore di lavoro di documentazione relativa alle vicende del rapporto di lavoro, sia che sia imposta dalla legge (come per i libri paga e
20
matricola), sia che sia prevista dalla organizzazione aziendale ai fini della registrazione delle presenze e dei relativi orari, da luogo alla formazione di documenti che, oltre ad essere possibile oggetto di ispezioni amministrative, sono utilizzabili anche dal lavoratore, in coerenza con la regola dell’esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.), proprio perché redatti per registrare le vicende relative al rapporto di lavoro (Cass. civile, sez. lav., 26 aprile 2007, n. 9961, GCM 2007, 4).
Affermato, pertanto, un tale diritto in capo al lavoratore si pone il problema di
verificare se il lavoratore abbia anche il diritto di accedere alle schede di valutazione, alle
note di qualifica, ai documenti relativi anche ad un procedimento disciplinare nella parte
in cui questi documenti contengano informazioni valutazioni soggettive sul conto del
lavoratore.
Per risolvere un tale problema occorre partire dalla nozione di dato personale, che,
per espressa definizione legislativa, ricompre qualsiasi informazione, ivi compresi
descrizioni, giudizi, analisi o ricostruzioni di profili personali che danno origine a stime e opinioni di natura soggettiva finalizzate anche ad una valutazione complessiva del soggetto(Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento del 2 giugno 1999, in Bollettino n. 9/giugno 1999, http://www.garanteprivacy.it, doc. web n. 40261).
L’esperienza maturata con riferimento all’applicazione della previgente legge n.
675/1996 ha evidenziato una forte criticità in ordine al profilo del diritto di accesso con
riferimento alle valutazioni soggettive, conseguente alla richiamata affermazione del
rientrare le stesse nel concetto di dato personale.
Al riguardo si sono posti in passato (prima dell’entrata in vigore del Codice privacy del
2003), almeno due grandi filoni di contenzioso, il primo relativo alle richieste formulate
dai soggetti interessati funzionali a conseguire l’accesso ai dati contenuti nelle consulenze
medico-legali effettuate in relazione alla persona degli interessati specifica attenzione al
settore assicurativo e dall’altro, proprio le valutazioni sul lavoratore.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto si era registrata in passato una netta
contrapposizione tra la posizione espressa dal Garante, il quale, alla luce
dell’interpretazione della nozione di dato personale, portava ad ammettere
espressamente il diritto di accesso dei lavoratori alle schede di valutazione (cfr. il
provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 5 dicembre 2001, in
Bollettino n. 23/ottobre 2001, http://www.garanteprivacy.it, doc. web n. 40345; per un
approfondimento si veda, da ultimo, (Barraco)-Sitzia 2008, 166), e la diversa posizione
assunta dalla giurisprudenza civile, la quale ritenne, in diverse occasioni che, al contrario
il diritto di accesso ex art. 13, l. 31 dicembre 1996, n. 675, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. e con il diritto alla libertà di pensiero di cui all’art. 21 Cost. Per tale motivo, va negato ai lavoratori dipendenti l’accesso alle schede di valutazione predisposte dal datore di lavoro sul loro conto, in quanto costituiscono dato personale le valutazioni finali del dipendente (note di qualifica), ma non le operazioni effettuate per giungere a queste ultime, non soltanto per il carattere soggettivo, che ne esclude il carattere di dato personale a norma dell’art. 1, secondo comma, lett. c), l. n. 675/1996, ma anche e soprattutto perché le schede di valutazione non
21
identificano ancora la persona, essendo solo parte dell’iter di formazione della valutazione, la quale può essere modificata con la nota di qualifica finale(Trib. Roma 22 luglio 2002, RIDL 2003, II, 353 ss., con nota di Brun).
L’esigenza che stava alla base della prospettiva giurisprudenziale sopra richiamata
poggiava sull’idea secondo cui le valutazioni sono funzionali al potere direttivo e
organizzativo del datore di lavoro e pertanto, fin dove non si traducano in atti
esteriormente giuridicamente rilevanti e come tali impugnabili, rimangono nella sfera
soggettiva del datore di lavoro, che in tal modo appunta le proprie intenzioni e/o
convinzioni personali.
La dottrina, in sintonia con la giurisprudenza, aveva espresso posizioni in difesa di una
distinzione diretta a condizionare il diritto di accesso ai dati obiettivi contenuti nelle
schede o nei documenti valutativi, dalla conoscenza dell’iter valutativo che ha condotto al
giudizio finale, che si riteneva che dovesse essere condizionato all’emissione appunto del
giudizio finale, in virtù dell’avvertita esigenza di tutelare lo “ius tacendi” del datore di
lavoro, inteso come un corollario del suo diritto di impedire intrusioni nella sua sfera
riservata, dovendo intendersi ricompresa in tale sfera anche la sua attività di valutazione
circa l’andamento aziendale e il contributo che ad esso viene dai singoli lavoratori (Ichino
2003, 250).
L’empasse interpretativo sorto dalla contrapposizione tra l’opinione del Garante, e
quella contraria di dottrina e giurisprudenza è stato risolto dal legislatore del 2003
attraverso una disciplina puntuale contenuta nel nuovo art. 8, comma 4 del Codice
privacy.
La nuova norma del Codice privacy ha distinto, in particolare, ai fini del diritti di cui
all’art. 7, tra dati valutativi oggettivi e soggettivi, disponendo che in relazione ai primi
non è operante alcuna limitazione, mentre in relazione ai secondi è preclusa la possibilità
di ricorrere agli strumenti remediali della rettificazione e integrazione, fermo restando
ogni altro strumento di protezione, tra cui la possibilità di pretendere la cancellazione, il
blocco e la registrazione in forma anonima in caso di emergenza di una illicietà del
trattamento.
La dottrina, al riguardo, ha evidenziato che
sembra che il legislatore abbia inteso garantire al titolare del trattamento la libertà nella formulazione delle valutazioni di carattere non oggettivo che concernano il soggetto interessato cui, pur riconoscendo un diritto di accesso, è sottratta la possibilità di pretendere la rettificazione o l’integrazione di dati personali di tipo valutativo (relativi a giudizi, opinioni o altri apprezzamenti di tipo soggettivo) e quindi disconosciuto un diritto a pretendere un facere con detto contenuto da parte del terzo(Bellanova 2007, 211).
La seconda parte del comma 4 dell’art. 8, infine, prevede una ulteriore diversa
eccezione relativa ai dati relativi alla indicazione di condotte da tenersi o all’indicazione di
decisioni in via di assunzione da parte del titolare del trattamento.
22
Questa formula di legge, per nulla chiara, sembra individuare quelle valutazioni che si
inseriscono nel farsi di un processo decisionale, rispetto al cui esito il soggetto
interessato è destinatario, e che costituiscono espressione di volontà o di giudizio di un
soggetto in relazione ad una condotta che comunque coinvolge il soggetto interessato.
Con riferimento a questi dati non oggettivi la sottrazione di tutela tracciata dal
legislatore è particolarmente incisiva, posto che non viene consentita alcuna forma di
accesso, il che è stato oggetto anche di aspre critiche in dottrina sulla base della
considerazione per cui
facile appare l’escamotage rimesso al titolare o responsabile del trattamento per sottrarsi all’accesso, potendosi limitare ad evidenziare che i dati de quibus siano funzionali ad un processo decisionale in fieri(Bellanova 2007, 211).
23
INDICE BIBLIOGRAFICO
Barraco E - Sitzia A.
2008, La tutela della privacy nei rapporti di lavoro, Ipsoa, Milano
Bellanova L.
2007, Articolo 8. Esercizio dei diritti, Commento all’art. 8, ne La protezione dei dati
personali, Commentario al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 («Codice della privacy»), a
cura di M. Bianca e F.D. Busnelli, Le Nuove Leggi Civili Commentate, tomo I, Cedam,
Padova, 142 ss.
Cendon P.
1985, Responsabilità civile e pena privata, in Le pene private, a cura di Busnelli e
Scalfi, Milano
Chieco P.
2000, Privacy e lavoro. La disciplina del trattamento dei dati personali del lavoratore,
Cacucci, Bari
Comandé G.
2007, Articolo 15. Danni cagionati per effetto del trattamento, Commento all’art. 15,
ne La protezione dei dati personali, Commentario al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196
(«Codice della privacy»), a cura di M. Bianca e F.D. Busnelli, Le Nuove Leggi Civili
Commentate, tomo I, Cedam, Padova, 362 ss.
De Litala L.
1931, Il contratto di lavoro, II ed., Utet, Torino
Del Punta R.
2006, Diritti della persona e contratto di lavoro, DLRI, 194 ss.
Ferrante V.
2003, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Giappichelli, Torino
Ghera E.
2000, Diritto del lavoro, Cacucci, Bari
Grandi M.
1999, Persona e contratto di lavoro. Riflessioni storico-critiche sul lavoro come
oggetto del contratto di lavoro, ADL, 309 ss.
Ichino P.
2006, Un’osservazione dissenziente: chi ha veramente a cuore la sicurezza dei
viaggiatori?, RIDL, II, 947 ss.
2003, Il contratto di lavoro, III, Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, Milano
1986, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Giuffré,
Milano
Mainardi S.
2004, La responsabilità e il potere disciplinare, ne Il lavoro nelle pubbliche
amministrazioni, a cura di Carinci-Zoppoli, tomo II, Utet, Torino
2002, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, ne Il Codice Civile,
CommSch, Art. 2106, Giuffré, Milano
24
Mancini G. F.
1957, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano
Manzone G.
2006, Il lavoro tra riconoscimento e mercato, Queriniana, Brescia
Mattarolo M. G.
2007, Il potere disciplinare, in Diritto del lavoro, Commentario, Utet, a cura di F.
Carinci, Torino, 793
Mazzoni G.
1977, Manuale di diritto del lavoro, V ed., Giuffré, Milano
Montesarchio L.
2007, Molestie sessuali sul luogo di lavoro ed esercizio del potere disciplinare
datoriale, NGCC, 1228 ss.
Montuschi L.
1973, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Giuffré, Milano
Muggia R.
2007, Quando il licenziamento disciplinare può e quando non deve essere usato a fini
di dissuasione nei confronti degli altri dipendenti, RIDL, II, 464 ss.
Persiani M.
1966, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova
Pizzonia D.
2008, La discrezionalità nell’esercizio del potere disciplinare e la parità di trattamento
fra lavoratori nel settore privato, NGCC, n. 7-8
Suppiej G.
2003, Il rapporto di lavoro, in Suppiej-De Cristofaro-Cester, Diritto del lavoro. Il
rapporto individuale, Cedam, Padova
Tampieri A.
2006, Obbligo di sicurezza e responsabilità penale del datore, DPLav, 2, inserto
Tremolada M.
1993, Il licenziamento disciplinare, Cedam, Padova
Ubertazzi T. M.
2004, Il diritto alla privacy, Natura e funzione giuridiche, Cedam, Padova
Vallebona A.
2004, Istituzioni di diritto del lavoro, Cedam, Padova
25