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Potenza e potere in Spinoza di Stefano Visentin
7·1 Hobbes in Olanda
Nella lettera del 2 giugno 1674 all'amico Jarig Jelles Spinoza esplicita le divergenze tra la sua filosofia politica e quella hobbesiana: da differenza tra me e Hobbes [ .. .] consiste in questo, che io continuo a mantenere integro il diritto naturale e affermo che al sommo potere in qualunque città non compete sopra i sudditi un diritto maggiore dell'autorità che esso ha sui sudditi stessi, come sempre avviene nello stato naturale» (Ep. 50, p. 239; trad. it. p. 225).
L'opera politica di Hobbes nell'Olanda della seconda metà del xvn secolo è al centro di un acceso dibattito teorico. Se le principali università del paese, per lo più vicine alla fazione politica calvinistaorangista, sfornano un numero consistente di dissertazioni per respingere la doctrina hobbesiana, considerata atea ed immorale, oltre che politicamente sovversiva r, negli ambienti intellettuali vicini al partito della Ware Vrijheid, antimonarchico e liberale in materia religiosa, il De Cive e il Leviathan 2 trovano un'accoglienza ben diversa, come dimostrano l'Epistolica dissertatio 3 del medico cartesi~no Lambert van Velthuysen o i Politike Discoursen 4 di Johan De la Court. Questi scritti - ed altri ancora - assumono dai testi hobbesiani l'approccio naturalistico al tema delle passioni e l'esigenza di una costruzione
r. Ad esempio Cocquius (r66r). Su quest'opera cfr. Secretan (r987l, in particolare pp. 28-32.
2. Quest'ultimo viene pubblicato anche in olandese nel r667; il traduttore, Abraham van Berkel, è un buon conoscente di Spinoza.
3· Van Velthuysen (r65rl. 4· De La Court ( r66z). Sull'opera politica dei fratelli De la Court, come su
quella di van Velthuysen, cfr. Blom (r995l.
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scientifica della politica, pur mancando di cogliere la pregnanza concettuale del principio rappresentativo 5.
Anche Spinoza riconosce la novità del naturalismo antropologico hobbesiano, ma nel contempo rileva uno scarto inaccettabile nel passaggio dallo stato di natura alla società civile, cui contrappone l'intrascendibilità della connessione tra jus e potestas naturale, in base alla quale la relazione tra governante e suddito, benché espressa giuridicamente dalla legge, è concretamente prodotta dai rapporti interindividuali esistenti allo stato di natura. Tale legame rinvia ad un altro topos spinoziano, ovvero al binomio jus-potentia, che sia nel Trattato teologico politico (TTP xvi, p. 193; trad. it. p. 382), sia nel Trattato politico (TP n, par. 4, p. 277; trad. it. p. r6), ha un ruolo decisivo nel collegare dimensione antologica e teoria politica. Di qui perciò occorre iniziare.
7·2 Potenza di Dio e potenza degli uomini
Per potenza di Dio il volgo intende la libera volontà e il diritto di Dio su tutte le cose che sono e che, perciò, comunemente, vengono considerate come contingenti [. .. l Inoltre, molto spesso paragonano la potenza di Dio alla potenza dei re. Ma [. . .] abbiamo dimostrato che Dio agisce con la stessa necessità con la quale intende se stesso [. .. ]. Se piacesse poi portare avanti ulteriormente questa argomentazione, potrei mostrare qui anche che quella potenza che il volgo attribuisce a Dio non soltanto è umana (il che dimostra che il volgo concepisce Dio come un uomo o a somiglianza dell'uomo), ma implica anche impotenza ".
Questo brano chiarisce perfettamente la relazione esistente tra la raffigurazione antropomorfica della divinità e l'errata comprensione della natura della potentia Dei; essa infatti risulta allo sguardo del volgo - uno sguardo influenzato dalle parole dei predicatori, per i quali l'ignoranza popolare e lo stupore che ne consegue sono «l'unico mezzo [. . .] di argomentare e di difendere la loro autorità» (Etica I, App., p. 81; trad. it. p. uo) - una potenza finita, priva di una struttura autonoma: la contingenza delle cose risale fino a Dio, !imitandone l'agire e determinandone l'essenza.
Contro questa prospettiva Spinoza insiste sul carattere necessario
5· Cfr. il saggio di M. Piccinini presente in questo volume. 6. Etica n, 3, scolio, p. 87; trad. it. pp. 125-6.
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della causalità divina, che implica l'assoluta univocità della sostanza 7,
in base alla quale Dio è causa delle cose nel medesimo senso in cui è causa di se stesso (Etica I, I8). L'infinita produttività della sostanza segue necessariamente dalla natura di Dio (Etica I, I6), o, per meglio dire, è questa stessa natura (Etica I, 34). La serie dei modi finiti in cui la sostanza esprime se stessa costituisce una catena causale priva di inizio e di fine (Etica I, z8), molteplicità innumerabile di res singulares che manifestano ad un tempo la dinamicità e la perfezione sempre attuale del Deus sive Natura. L'impossibilità di concepire la sostanza spinoziana come una sorta di noumenos kantiano o di idea platonica 8 giustifica la definizione di "antologia relazionale", ovvero di una teoria generale della connessione e della comunicazione reciproca tra i modi finiti della sostanza 9. Da essa consegue una critica radicale ad ogni finalismo metafisica e antropomorfismo teologico: Dio «non agisce mediante la libertà della volontà» (Etica r, 32, corollario I, p. 73; trad. it. p. II2) né crea in vista di alcun fine, bensì soltanto per necessità della sua natura, necessità coincidente con la sua libertà, poiché «si dice libera quella cosa che esiste in virtù della sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da se stessa» (Etica I, def. 7, p. 46; trad. it. p. 88).
La lzbera necessitas, lungi dall'introdurre un tratto deterministico, è segno della potenza divina ro che si manifesta attraverso infinite modifìcazioni. Anche l'uomo, modo determinato della sostanza secondo gli attributi del pensiero e dell'estensione, è inserito in quella catena causale in cui si dispiega l'infinita potenza di Dio, e di conseguenza è ad un tempo causa (causa in sé, non "causa di qualcosa" in particolare rr) ed effetto. La sua essenza, come quella di ogni altro ente finito, si esprime attraverso una potenza determinata, che tende a farlo perseverare nell'esistenza per mezzo del continuo rimodellamento dei suoi rapporti con il mondo che lo circonda (Etica m, 6). Per tale ragione l'uomo nella natura non è concepibile «come un dominio all'interno di un dominio» (Etica m, Pref., p. I37; trad. it. p. I 7 I), bensì aderisce integralmente ai processi che si dispiegano in essa: «non è possibile che l'uomo non sia parte della Natura e che non patisca altri mutamenti se non quelli che possono essere causati
7· Sull'univocità della sostanza spinoziana cfr. Deleuze Cr969). 8. Entrambi i paragoni vengono esplicitamente rifiutati da Balibar (1997), p. 8.
9· lvi, p. 7· ro. Su questo punto cfr. Fernandez (1994), p. 75· II. Sulla natura di "causa in sé" delle res singulares insiste Bali bar ( r 997),
p. 13.
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mediante la sola sua natura e dei quali è causa adeguata» ' 2 (Etica IV,
4, p. 212; trad. it. p. 236). Spontaneità naturale e determinatezza essenziale del conatus umano raffigurano da un "altro" punto di vista l'articolazione della sostanza, la tensione e i conflitti che l'attraversano, il susseguirsi in essa di nascite e morti, aggregazioni e disgregazioni di individui che esistono per un tempo indefinito. Finito ed infinito sono così indissolubilmente legati nell'essenza umana, come in quella di ogni altra res, essendo il primo presente come limite intrinseco (quantum in se est), il secondo espresso nella forza affermativa del conatus individuale, tale per cui ogni modo mette in gioco, dal suo angolo particolare, la potenza dell'intera natura.
Nell'essere umano il conatus si specifica come "desiderio" (cupzditas), che è «la stessa essenza dell'uomo, in quanto si concepisce determinata da una certa data sua affezione a fare qualcosa» (Etica III,
def. r degli affetti, p. 190; trad. it. p. 2r8). L'orizzonte antiteleologico trova la sua conferma: la cupzditas non è definita dall'oggetto verso il quale essa tende, bensì dalla motivazione puntuale che la produce, la quale però, diversamente da quanto accade in Dio, non è implicata nell'essenza umana, bensì proviene dall'esterno. Così potenza causativa e disponibilità ad essere modificato dal mondo, costituendo nella loro coimplicazione l'essenza dell'uomo, ne definiscono altresì la libertà, che non si risolve nel libero volere ma che, nella misura in cui si apre all'indefinitezza dell'esistenza e del desiderio, recupera una valenza positiva della contingenza: non assenza di determinazioni, bensì condizione di possibilità (per quanto strutturalmente arrischiata '3) di una transizione '4 (Etica III, def. II e III degli affetti) verso un più alto grado di adeguatezza dell'esistenza alla propria essenza.
Emerge inoltre a questa altezza il ruolo fondamentale della facoltà immaginativa '5, che sottende alla produzione di quelle relazioni oggettuali necessarie alla specificazione degli affetti primari della laetitia e della tristitia in quelli dell' odium e dell'amor (Etica m, r 3, scoli o).
12. Così anche la lettera 32: «Tutti i corpi sono circondati da altri e sono gli uni gli altri reciprocamente determinati a esistere e a operare secondo una certa determinata maniera» (p. 172; trad. it. p. 170).
r 3. In tal senso occorre distinguere tra "affetto", termine con il quale Spinoza definisce de affezioni del Corpo, con le quali la potenza di agire dello stesso Corpo è aumentata o diminuita, favorita o ostacolata>>, e "passione", che indica l'affetto che diminuisce la nostra potenza (Etica m, def. m, p. 139; trad. it. p. 172l.
14· Sul concetto di transizione in Spinoza cfr. Bodei (1991), pp. 315 ss. 15. Sul ruolo che l'immaginazione gioca nella filosofia spinoziana cfr. Bertrand
(I983).
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Ed è proprio nello spazio disegnato dall'immaginazione che la potenza desiderante si traduce nell'esercizio del potere.
7·3 Diritto naturale e "genesi" del potere
Dio non esercita alcun potere sul mondo, poiché non si dà la condizione necessaria al costituirsi di tale relazione, ossia la piena esternalizzazione dei modi rispetto alla sostanza. Tuttavia Spinoza afferma più volte che le cose «sono im> o «dipendono dal» potere di Dio (Etica I, 17, scolio; I, 33, scolio n; I, 35), a testimoniare che, in realtà, la dimensione della potestas gioca comunque un ruolo importante anche sul piano antologico, nella misura in cui essa è segno dell'infinita produttività divina. n potere è percepibile solamente se si acquisisce il punto di vista dell'universo creaturale; in quest'ottica esso indica la dipendenza dei modi dalla sostanza - dipendenza necessaria, non arbitraria - ovvero la dipendenza reciproca di ciascun modo da tutti gli altri, dentro la rete delle infinite connessioni e dei rapporti di causa-effetto.
Per quanto riguarda gli esseri umani, la potestas esprime un tratto peculiare della loro essenza, che Spinoza esplicita affrontando il tema del diritto naturale. Sia nel TTP, sia nel TP, la trattazione dello jus naturale uniuscuiusque costituisce il fondamento della teoria politica; tale diritto è definito come l'insieme delle regole attraverso le quali ciascun individuo è determinato ad agire o a "patire", cioè a venire affetto dal mondo esterno, esprimendo sul piano esistenziale il carattere determinato della potenza umana. Così nel TTP Spinoza spiega che, poiché la natura «ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere [quae potest: si tratta della potenza, non del potere]», e poiché la potenza della natura «non è se non la potenza complessiva (simul) di tutti gli individui, ne segue che [. .. ] il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza» (xvi, p. r89; trad. i t. p. 3 77). Il diritto naturale non preesiste all'agire dell'individuo come se ne costituisse un codice originario, né distingue tra azioni "giuste" ed azioni "ingiuste", secondo un canone morale, ma piuttosto indica la presenza di alcune regolarità nel comportamento degli uomini, determinate dalla combinazione e dallo sviluppo dei principali affetti; in tal senso, l'intera III parte dell'Etica costituisce un vero e proprio manuale dello jus naturale hominum T 6 . In questa cornice,
16. Per un'analisi puntuale di questa parte decisiva dell'opera di Spinoza cfr. Macherey ( 1995).
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non è possibile sostenere alcuna potenziale infinitezza della volontà e del diritto umano: in altri termini, lo jus omnium in omnia teorizzato da Hobbes '7 appare inconcepibile, dal momento che ogni uomo ha solamente diritto ad «esistere e ad operare così come è naturalmente determinato» (TTP xvi, p. r89; trad. it. pp. 377-8).
La definizione spinoziana del diritto naturale evidenzia il suo radicamento nell'antologia, nella potenza complessiva del Deus sive Natura che si dispiega pluralizzandosi nelle potenze-diritti dei suoi modi individuali. Inoltre, poiché questa dinamica dell'essere non istituisce alcuna processualità temporale né alcuna scansione logica, ma è simultanea (simul) al darsi della potenza complessiva della natura, essa rivela la portata filosof-ìca dell'analisi dello jus naturale uniuscuiusque, la quale punta a "degiuridicizzare" l'antropologia e l'interpretazione della natura, per "naturalizzare" il diritto e la politica ' 8 . Che la critica del paradigma volontaristico, tanto antropologico quanto teologico, abbia delle ricadute sul piano politico è esplicitamente affermato anche nell'Ettca (n, 49, scolio); ne è chiaro sintomo la declinazione che assume il tema dell'uguaglianza naturale (TTP xvi, p. r89; trad. it. p. 378: «noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura, questo fa di pieno diritto»), la quale si fonda, più che su una qualità peculiare del genere umano, sull'indifferenza delle specificità individuali di fronte al comune radicamento dei conatus nella potentia Dei. Per tale ragione questa assoluta uguaglianza non viene contraddetta dalla grande diversità degli ingenia '9, che nasce dall'elemento passionale della natura umana (Etzca IV, 34, p. 231; trad. it. p. 253: «<n quanto gli uomini sono combattuti da affetti che sono passioni, possono essere a vicenda contrari»). Nell'articolazione del desiderio umano trovano spazio, con la medesima legittimità, aspetti razionali ed irrazionali, forze che si armonizzano e impulsi che confliggono con quelli degli altri uomini, senza alcuna soluzione di continuità tra affetto e ragione 20, anche se «non è in potere (potestate) di ciascun uomo di vivere sempre secondo ragione e di trovarsi sempre nel gra-
17. Ad esempio nel De Cive parte r, cap. I, par. ro. r 8. Cfr. Giancotti ( r 990). 19. Sul ruolo dell'ingenium nella filosofia politica spinoziana dr. Balibar (r985l,
pp. 39•40. 20. Swla differenza tra la dottrina spinoziana degli affetti e quella hobbesiana si
sofferma Di Vona (1990), p. 35·
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do più alto dell'umana libertà» (TP n, par. 8, p. 279; trad. it. p. I9).
La contrapposizione tra i diversi diritti individuali contribuisce a produrre una situazione generalizzata di instabilità e di rischio, che si concretizza nel pericolo comune di cadere sotto il diritto altrui. Infatti «ciascuno è soggetto al diritto di un altro (alterius esse juris) finché rimane in potere di lui», ovvero finché permane un rapporto di dipendenza nei confronti di quest'ultimo, tale «da fargli preferire di seguire la sua piuttosto che la propria volontà e di vivere secondo il suo piuttosto che secondo il proprio talento» (TP n, par. 9-ro, p. 28o; trad. it. p. 2I). Il potere si manifesta come esito possibile dell'interazione tra le potenze finite degli uomini, nella misura in cui il dominio delle passioni spinge l'uomo a desiderare «che tutti gli altri vivano secondo la sua naturale tendenza» (Etica III, 31, scollo, p. r64; trad. it. p. 196), omologandosi ad essa perché convinti o perché costretti. Nella maggior parte dei casi il risultato è una situazione di conflittualità tanto interna - la fluctuatio animi (Etica m, 17, scolio) - quanto esterna, e quindi di relazioni interindividuali dominate dalla paura e dall'odio (Etica m, 40, scolio). Tuttavia il potere non esaurisce il quadro dei rapporti affettivi tra gli uomini, dal momento che esistono altri meccanismi non razionali, come ad esempio quello dell'imitazione (Etica In, 27 ), che producono collaborazione e solidarietà, per quanto anch'esse tutt'altro che stabili, ed anzi strutturalmente esposte al rischio di capovolgersi in conflitto. Costante, in questo panorama cosi sfaccettato e proteiforme, è solo l'"insocievole socialità" della natura umana, che instaura tra gli individui una condizione di ineliminabile dipendenza reciproca.
7·4 Legame sociale e diritti comuni
Nonostante l'instabilità interiore e la conflittualità esterna, tutti gli uomini sono però in grado di riconoscere, seppure confusamente, che «la società è di grande utilità, anzi assolutamente necessaria, non soltanto per quanto concerne la difesa dai nemici, ma anche per l'unione che in essa si istituisce di molteplici attività» (TTP v, p. 73; trad. it. p. I28). Infatti la tendenza ad associarsi con gli altri, prima ancora che un dettame razionale, è iscritta al cuore del diritto naturale, dal momento che,
siccome [ .. .] nello stato naturale ciascuno si mantiene autonomo (sui juris) finché è in grado di preservarsi da solo dal cadere in balia altrui, e siccome
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uno da solo cerca inutilmente di difendersi da tutti gli altri, ne segue che fìn quando il diritto naturale dell'uomo resta definito dalla potenza di ciascuno e resta diritto del singolo (uniuscuiusque), esso si riduce a nulla, essendo più un'opinione che una realtà [. . .]; e perciò conchiudiamo che il diritto naturale, in quanto proprio del genere umano, non è concepibile se non nel caso in cui gli uomini abbiano diritti comuni 2 '.
Spinoza afferma così l'inseparabile connessione di diritti individuali e di diritti comuni, tale per cui i primi assumono forma concreta e non meramente immaginaria soltanto laddove coesistono con i secondi, ovvero dove è presente un legame sociale spontaneo che costituisce la condizione di possibilità dell'esistenza dei singoli. Individualità e transindividualità sono contemporanee sia logicamente, sia fenomenicamente, e qualsiasi tentativo di pensare gli uomini come enti isolati e indipendenti è frutto della cattiva immaginazione, che introduce la separatezza tra i modi, rimuovendo i nessi causali che li legano assieme.
Per tale motivo non è affatto necessario ipotizzare l'intervento della ragione nella nascita della società, che è invece coestensiva all'universo affettivo dal quale traggono esistenza i diritti comuni: «poiché gli uomini [ .. .] sono guidati più dalla passione (ajfectu) che dalla ragione, si deve conchiudere che una massa di gente (multitudinem) tende naturalmente ad associarsi [ ... ] non per suggerimento della ragione, ma per una sorta di affezione comune» (TP vr, par. I, p. 297; trad. it. pp. 6I-z). A loro volta, questi diritti esprimono una potenza che non appartiene a nessun singolo in particolare, bensì all'intera collettività, e che come tale è incommensurabile con quelle degli individui presi ad uno ad uno. Il costituirsi di un aggregato politico (imperium) avviene con il passaggio da una condizione associativa instabile ad una nella quale la potenza del diritto comune esprime la sua effettività tramite la coazione, che si esercita sulle passioni disgregatrici ed individualizzanti; a questa altezza, sebbene sia sempre la collettività (multitudo) all'origine della potentia imperzi', quest'ultima si determina attraverso le istituzioni, le leggi e l'amministrazione pubblica (cfr. TP m, par. I), dando così vita ad una differenziazione di ruoli, ed in particolare alla divisione tra governanti e sudditi. Ad ogni modo, la trasformazione della "società naturale" in "società politica" non introduce alcuna modificazione strutturale nel diritto di natura (come sottolinea Spinoza nella lettera a J elles): non solo l'esistenza di un diritto comune ad una molteplicità di individui è perfettamente natu-
21. TP n, par. 15, p. 28r; trad. it. pp. 23-4-
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rale, ma anche le relazioni di potere tra chi «per comune consenso amministra la cosa pubblica, promulgando, interpretando e abrogando leggi» (TP n, par. q, p. 282; trad. it. p. 26), e chi a tali leggi semplicemente obbedisce, non mutano rispetto a quanto avviene nello stadio prepolitico.
Anche il TTP, che pure utilizza un lessico fortemente segnato dalla terminologia contrattualista - mentre nel TP il termine "contractus" appare una sola volta, e in posizione marginale (cfr. TP rv, par. 6) -presenta il passaggio dallo stato di natura a quello civile senza un' effettiva soluzione di continuità. La stessa affermazione della necessità del trasferimento dei diritti individuali al fine di costituire una società politica (TTP xvr, p. 193; trad. it. p. 382) in realtà cerca di cogliere i meccanismi immanenti di tale processo che, lungi dal trascendere il diritto naturale, sono invece radica ti in esso. Infatti la cessione del proprio jus sive potentia da parte di ognuno all'intera società, in modo da istituire quel diritto che Spinoza chiama "democrazia", cioè «l'unione di tutti gli uomini che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere (ad omnia, quae potestl» (zbid.), è un prodotto della dimensione immaginativa, e quindi della costituzione affettiva dell'uomo: l'unico trasferimento possibile è quello dell'immagine del diritto naturale, ad un soggetto - la società - altrettanto immaginario; e tuttavia gli uomini, nella misura in cui producono collettivamente l'immagine della societas, sono anche disposti ad agire come se questa disponesse effettivamente dei loro diritti. Il patto sociale nasce quindi dall'evoluzione degli aspetti non razionali della natura umana, attraverso un processo storico graduale che - come appare chiaramente nel racconto della nascita della repubblica mosaica (TTP xvn, pp. 205-8; trad. it. pp. 4r7-21) - incorpora in sé elementi della religiosità di un popolo, dei suoi costumi, della sua etica; in tal senso l'assunzione dell'orizzonte contrattualistica non blocca il movimento dell'antologia politica spinoziana, ma anzi gli conferisce la concretezza della piena assunzione del reale.
L'immaginazione e l'affettività rivestono dunque una funzione decisiva nella nascita di un'associazione politica, non come segni di una realtà intollerabile, dalla quale è necessario fuggire (come ritiene invece Hobbes 22 ), bensì come forze in grado di produrre direttamente delle modifìcazioni nella struttura di una collettività. Per questo, anche dopo la nascita di uno Stato, gli affetti umani continuano a produrre conseguenze politiche, dando vita sia a rapporti di collaborazione tra gli individui, sia a conflitti di potere tra singoli o tra fazioni
22. Cfr. il cap. xvn del Leviathan.
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in lotta. La mancata neutralizzazione dell'elemento passionale dà alla questione classica «se il potere sovrano (summa potestas) sia soggetto alle leggi» (TP rv, par. 4, p. 292; trad. it. pp. 48-9) una torsione decisamente originale, che risulta decisiva per la comprensione della natura del potere: «quando si dice che ciascuno ha facoltà di decidere come vuole intorno a una cosa che è in suo potere (sui juris), tale facoltà (haec potestas) si intende definita, non soltanto dalla potenza dell'agente, ma anche dall'attitudine del paziente» (zbzd.; trad. it. p. 49 2 3). L'esercizio di un potere avviene attraverso una relazione biunivoca, all'interno della quale anche chi soggiace alla potestas altrui ne determina, almeno parzialmente, l'indirizzo. Questo significa che nessun potere assoluto, nel senso di svincolato dalle circostanze reali nelle quali si dispiega, è possibile; e, inoltre, che ogni atto da parte dell'autorità politica (come di chiunque altro) che voglia ottenere obbedienza non può non tenere in considerazione l' aptitudo dei propri sudditi, ovvero la loro disponibilità ad accettare o meno determinati comandi; altrimenti può accadere che «lo spirito di obbedienza (metus) della maggioranza dei cittadini si converta in sdegno, [e] per ciò stesso lo Stato si dissolve» (TP rv, par. 6, p. 294; trad. it. p. 52; ma cfr. anche TTP xvr, p. 194; trad. it. p. 383). La minaccia di un'insurrezione dei sudditi incombe così sulle decisioni dei governanti, non come un diritto di resistenza sancito da un patto costituzionale, bensì come l'esito di una dialettica naturale che nessuna fondazione del potere politico, per quanto scientificamente rigorosa, può trascendere in misura definitiva 2 4.
7·5 L' absolutum imperium
L'organizzazione politica di una collettività (imperium multitudinis) si struttura come somma algebrica delle potenze di tutti gli individui che la compongono, incorporandone quindi sia i tratti collaborativi, sia la passività prodotta dalle tensioni sociali e dalle lotte per il dominio. Per questo nessun cittadino è mai totalmente escluso dai processi di produzione della decisione politica, nemmeno nei regimi monarchici o aristocratici: infatti, se non per mezzo delle forme istituzionali, comunque attraverso una dinamica affettiva mai neutralizzabile (cioè: se non esprimendo la propria potestas, tuttavia manifestando la
23. Anche all'inizio del cap. xvrr del ITP si trova un'argomentazione molto simile.
24. Cfr. Giancotti (1995b).
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propria aptitudo) ognuno contribuisce in misura della sua potenza naturale al determinarsi della potenza collettiva. Il carattere originariamente democratico di ogni organizzazione politica permea sia le monarchie più totalitarie, come minaccia ineliminabile all'autorità del sovrano, sia i regimi aristocratici, come pulsione ininterrotta all'allargamento della base degli aventi diritti politici 2 5; ma essa raggiunge la sua piena realizzazione dove la legge definisce la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica: «se si dà un potere assoluto, esso è in verità quello che si trova nelle mani di tutta una collettività (quod integra multitudo teneth (TP vm, par. 3, p. 325; trad. it. p. II 9). Non la potestas, il potere che mantiene gli individui nella separatezza e nell'ostilità, ma solo l'imperium, che affonda le sue radici nella comune potenza degli affetti e della ragione, può essere assoluto; e «del tutto assoluto» (TP XI, par. I, p. 358; trad. it. p. I75) è l'imperium democraticum 26 , dove, seguendo il "linguaggio dell'immaginazione" del TTP, «nessuno trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non essere poi più consultato» ( TTP xvr, p. I95; trad. it. p. 384). L'assolutezza di un regime politico attinge infatti da un lato alla potenza singolare dei suoi membri 2 7,
dall'altro all'universalità consensuale della legge, nella quale si realizzano gli jura communia e, nel contempo, si sciolgono i tratti antisociali della vita passionale di una collettività. In una democrazia le leggi allargano, anziché limitare, la spazio della comunicazione tra gli individui 28 , come dimostrano gli ultimi capitoli del TTP, ed in tal modo permettono alla libertà e all'uguaglianza naturale di progredire verso la loro piena razionalizzazione, che è riconoscimento di ciò che è utile e comune a tutti: non Hobbes, ma l'acutissimus Machiavellus (TP v, par. 7) costituisce il riferimento implicito di questa connessione tra lex e libertas 2 9.
Il discorso politico spinoziano sussume il paradigma scientifico di
25. Cfr. i capp. vr-x del TP. Negli stessi anni, in terra olandese, anche Johan e Pieter De la Court affermavano che il miglior regime politico è un'aristocrazia che "tende" alla democrazia (De La Court, r66r, pp. 563-7l.
26. Al contrario di quanto afferma Hobbes, che considera invece nel capitolo xrx del Leviathan la monarchia il regime più assoluto. Sulla differenza tra i due filosofi cfr. Giancotti ( 1995cl.
27, Sci rimando reciproco di multitudo e singolarità insiste Negri (1992l, in particolare pp. 6r ss.
z8. Fondamentale per comprendere il peso dell'elemento comunicativo nella politica spinoziana è Balibar (I 98 5).
29. Cfr. il saggio di M. Ricciardi presente in questo volume.
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Hobbes all'interno di un orizzonte semantico che, ridefinendo termini chiave come quelli di natura, Deus e potestas, ne modifica strutturalmente gli esiti, e sostituisce all'effetto neutralizzante dell'implicito rinvio alla trascendenza della sovranità hobbesiana la continua rimessa in gioco dei rapporti politici. Irriducibile a mera teoria, la filosofia politica di Spinoza manifesta così la sua natura etica, la sua volontà di trasformazione di un universo segnato dalla coazione e dall'inadeguatezza, in un mondo in cui «La notion de liberté est promotion de la Nécessitation» 3°.
Vita
Baruch Spinoza nasce ad Amsterdam nel I632, da una famiglia di ebrei sefarditi di origine ispano-portoghese. Dalla fiorente comunità ebraica nel I656 egli viene espulso perché ritenuto colpevole di eresia; da allora è costretto ad abbandonare l'attività commerciale ereditata dal padre e a guadagnarsi da vivere levigando lenti per telescopi e microscopi. La fìlosofìa cartesiana costituisce il punto d'avvio della sua riflessione (come testimoniano i Principi della filosofia cartesiana, del I663 ), la quale comunque manifesta anche un grande interesse per la realtà sociale, politica e religiosa dell'epoca, di cui l'epistolario dà numerose indicazioni: dai contatti con la setta dei Collegianti alle amicizie con esponenti del partito dei regenten, ai rapporti con uomini di cultura di altri paesi, quali Oldenburg o Leibniz. La morte per tisi lo coglie nel I677, mentre è intento alla scrittura del Trattato polztico, che resterà incompiuto.
Opere principali
Spinoza Opera, a cura di C. Gebhardt, Cari Winters, Heidelberg I972 (r ed. I 92 3): Ethica, vol. n; Tractatus Theologico-politicus, vol. m; Tractatus Polificus, vol. m; Epistolae, vol. IV.
Spinoza. Etica, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma I988. Benedetto Spinoza, Trattato Teologico-poltfico, introduzione di E. Giancotti,
traduzione e commenti di A. Droetto, E. Giancotti, Einaudi, Torino I98o (I ed. I972) (citato come TTP).
Spinoza. Trattato Poltfico, riedizione a cura di L. Chianese della traduzione e del commento di A. Droetto (I 9 58), Nuove edizioni del Gallo, Roma I99I (citato con TP).
Baruch Spinoza. Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino I974 (I
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Potere naturale, proprietà e potere politico in J ohn Locke
di Maurizio Merlo
8.1 Dalla proprietà-lavoro alla proprietà-moneta
Il punto di partenza di Locke è la comunità naturale, cioè un insieme di «uomini che vivono assieme secondo ragione, senza un comune superiore sulla terra, dotato di autorità di giudicare tra loro». Questo stato di natura (Secondo trattato sul governo, par. 19) ritaglia un'area antropologica "barrata" dalla proprietà (property), dall'appropriazione privata dal common che non richiede alcuna forma di consenso. L' appropriazione si fonda infatti sulla proprietà del corpo e della persona, sul diritto naturale di ognuno all'autoconservazione mediante i prodotti del proprio lavoro. La proprietà è così intesa sia nel senso stretto di bene oggetto di appropriazione mediante lavoro, sia come vita, libertà e possessi. Prima ancora di essere istituto giuridico, la proprietà appare come «la forma dell'elemento costitutivo del soggetto umano»', identificabile con gli uomini industriosi dalla ragione prudente che sono gli individui dello stato di natura.
Il principio per cui ognuno è proprietario del proprio lavoro purché ne consumi il prodotto ed esso non vada perduto, assicura un' accumulazione di proprietà che conserva l'equilibrio con il diritto naturale, garantito dalla vastità di terra a disposizione e da un consumo limitato di beni. Tuttavia l'inserimento della proprietà nei diritti naturali obbedisce in Locke a un ordine discorsivo che non è più centrato in misura decisiva su criteri di giustizia distributiva, bensì sulla libera espansione della proprietà e sull'accumulo di ricchezza. Per questo motivo il capitolo v del Secondo Trattato muove dalla situazione di eguaglianza originaria, il cui criterio di misura è una stretta proporzionalità tra lavoro e proprietà, a una condizione diversa defi-
r. Cfr. Costa (r974l, p. 134; Viano (r96ol, pp. 236 ss.; Olivecrona (1974 e 1975); Macpherson (1973).
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IL POTERE
nita dall'istituzione per comune consenso della moneta. Da questo momento in avanti, la proprietà è scambiata con denaro e vengono così superati i limiti che la legge naturale poneva all'appropriazione privata (che nulla vada perduto e che sempre ne resti di «altrettanto buono» per altri). L'equilibrio tra consenso, legge naturale e diritti naturali, che denotava lo stato di natura precedente l'uso della moneta come relativo stato di pace, appare ora affatto precario 2 • L'assenza di stretta proporzionalità tra moneta e lavoro in quanto titolo originario alla proprietà, nonché l'accumulazione «in misura quasi illimitata» di possedimenti e denaro, permettono infatti l'ampliamento e il consolidamento di possessi già resi diseguali da differenze di industriosità (par. 48).
«Questa partizione dei beni nell'ineguaglianza dei possessi privati, gli uomini l'hanno resa possibile fuori dai limiti della società e senza contratto, e soltanto mediante l'attribuzione di un valore all'oro e all' argento, e un tacito accordo sull'uso della moneta, perché nei governi sono le leggi che regolano il diritto di proprietà, e il possesso della terra è determinato da costituzioni positive» (par. 5o). Questa ineguaglianza dei possessi privati permane e non è risarcita politicamente, bensì compensata dallo sviluppo della ricchezza e da un'accumulazione illimitata.
Tuttavia la nuova condizione determinata dall'introduzione della moneta appare oscillante. Infatti da un lato la generalizzazione degli accordi e delle promesse, propri degli uomini in quanto tali, che caratterizzano le prime interazioni tra atomi umani presociali, produce tra i membri della «grande e naturale comunità» familiarità, amicizia e un certo grado di fiducia reciproca in quanto presupposto materiale del processo costitutivo della società politica (par. ro7); dall'altro però la natura convenzionale-consensuale della proprietà-moneta rende quest'ultima «malsicura e incerta»: Locke è del tutto consapevole che la moneta universalizza il desiderio acquisitivo e separa il possessore dal suo oggetto, rendendolo intercambiabile e indifferente. Non è certo casuale allora che la necessità di un arbitro riguardi sia la conservazione della proprietà sia la certezza del titolo. L'ineguaglianza dei possessi rende necessario un potere politico con il diritto di fare leggi per regolare e limitare la proprietà, stabilendo modi regolari di trasferimento di questa in sostituzione di quelli irregolari nello stato di natura.
Del resto, la diseguaglianza nei possessi consolidata e ampliata dalla moneta non pare minacciare neppure la libertà individuale ga-
2. Cfr. Riley (r982l, pp. 9r-z; Leyden (r984), pp. 155-7.
8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
rantita dal contratto (contract) 3. Quando, lungo le linee di una "storia congetturale" del potere, Locke prende in esame la società formata da padrone e servo (master and servant) 4, la relazione contrattuale appare tutt'altro che fondata su un'ineguaglianza politica o naturale. Il salariato compare sulla scena come «libero» che si fa <<servo di un altro col vendergli, per un certo tempo, il servizio che prende a prestare, in cambio d'una paga che riceve» (par. 85). Attraverso il rapporto salariale il lavoro altrui viene incluso nel lavoro del proprietario, ovvero in una nomenclatura proprietaria (par. 28l e la relazione contrattuale di scambio tra liberi proprietari scioglie nel consenso l'asimmetria della relazione materiale di potere 5. Agli antichi vincoli della subordinazione personale si sostituisce un rapporto di dipendenza che comunque non contraddice alla figura del libero. Null' altro che carattere temporaneo ha infatti il potere sul servo che il contratto conferisce al padrone, e tuttavia la condizione contrattuale di servo dell'uomo libero si instaura in uno spazio che è insieme coestensivo e liminare a quello tra padrone e schiavo catturato in guerra giusta e per diritto di natura assoggettato al dominio assoluto e al potere arbitrario del suo padrone (par. 85). Da questa relazione promana un dominio assoluto: schiavi sono infatti coloro che, avendo esposto la propria vita in guerra e perduto i loro averi, non sono capaci di proprietà. Attraverso la figura del servo catturato in guerra giusta, Locke ritorna ai momenti di intrinseca scissione dell'universo etico dello sta-
3· Cfr. FT par. 43: non la proprietà della terra conferisce autorità sulle persone degli uomini, ma solo il contratto, <<poiché l'autorità del ricco proprietario e la soggezione del povero mendicante non hanno avuto origine dal possesso del signore, ma dal consenso del povero, il quale ha preferito essergli soggetto che morire di fame>>. La definizione del carattere "consensuale" di questa soggezione è un problema "tipicamente" lockiano.
4· Sulla complessa stratificazione storica di tali concetti cfr. in prima approssimazione Macpherson (1973l.
5. Sullo statuto del salariato in Locke le interpretazioni significativamente divergono: cfr. ad es. Seliger (1968), pp. 160 ss., Macpherson (1973). La schiavitù è l'unica condizione in cui un uomo può avere un potere assoluto su di un altro (par. 23l; ciò vale anche per i pazzi, gli idioti (par. 6o) e i mendicanti (par. 34l. Locke conosce anche un'altra relazione masterlservant, delineata nel par. 2+ lo stato di guerra continuato tra un conquistatore legittimo e un prigioniero cessa finché dura il contratto che legittima il potere da una parte e l'obbedienza dall'altra. <<Riconosco che rinveniamo fra gli Ebrei, così come presso altre nazioni, uomini che si vendevano L..J to Drudgery, not to Slavery>>. Il termine Drudgery (reso nella trad. it. con "servizio") equivale ad una sorta di lavoro coatto con durata temporale fissa e severe restrizioni legali del. potere del padrone di danneggiare lo schiavo. Certamente a Locke non sfuggiva l'immagine del salariato-straniero di Lev. 25, 39-42; cfr. anche Es. 21, 2.
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IL POTERE
to di natura, cioè allo stato di guerra, e da questo alla natura del crimine e alla sua retribuzione: in definitiva, alle linee polemologiche che attraversano lo spazio della property.
In tale contesto va intesa la «strana dottrina» lockiana della punizione: essa comprende sia il potere naturale di ognuno di punire i trasgressori della legge naturale per conservare se stessi e il genere umano, sia lo specifico e inalienabile diritto al risarcimento del danno subito da parte dell'offensore 6 • Superando Hobbes (per il quale la punizione è propria solo del potere civile, del sovrano che punisce a proprio arbitrio), l'intreccio lockiano tra property, crimine e potere naturale di punire organizza attorno alla forma della proprietà-moneta il transito dalle procedure irregolari dello stato di natura alle norme morali-giuridiche della società civile. La capacità di proprietà costituisce il criterio normativa che decide dell'inconsistenza sia della condizione di schiavitù con la proprietà (parr. 90, 174) sia della società civile con la monarchia assoluta. È la nascita di «corpi collettivi» legislativi (par. 94) che scalza il potere paterno dispotico che si vuole fondato naturalmente, come in Filmer 7, o contrattualmente (par. 172), come nell'identità hobbesiana (quanto agli "effetti") di commonwealth by institution e commonwealth by acquisition.
Il potere che ognuno possiede per natura di conservare la property («vita, libertà e fortuna») contro gli attacchi di altri, nonché di giudicare e punire «anche con la morte» le altrui infrazioni è certamente massima espressione di quella perfetta libertà naturale di godere «di tutti i diritti e i privilegi della legge di natura» (par. 87), e tuttavia straordinanamente insufficiente, quanto lo è il potere, frazionato e limitato nel tempo e nell'estensione, del capofamiglia e delle piccole monarchie (par. 86). Nello stato di natura la volontà è individuale e discreta, e tuttavia diretta al bene generale, la «pace e la conservazione dell'umanità» (par. 7) . Lo scarto tra esercizio della volontà e suo oggetto può sempre sfociare nello stato di guerra: quando l'individuo esercita il suo potere esecutivo, egli entra in conflitto con altri, poiché ognuno pretende di avere giurisdizione sull'altro; ne ri-
6. L'esame più acuto è quello di Leyden (1984l, pp. 162-77. 7· n Patriarcha di Robert Filmer (pubblicato postumo nel I68o allo scopo di
sostenere la necessità della monarchia) sostiene, sulla scorta della Bibbia, la derivazione di ogni potere dal dominio assoluto concesso da Dio ad Adamo. La negazione della libertà naturale, l'idea che ogni governo non possa essere che una monarchia assoluta e che i padri esercitino un diritto naturale di dominio sui figli, sono gli elementi portanti del Patriarcha che Locke confuta nel Primo Trattato sul piano dell'esegesi biblica. La critica a Filmer si completa tuttavia solo nel Secondo Trattato, con la ricerca sui fondamenti del potere politico.
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8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
sultano «confusione e disordine» (par. 13). La duplice rinuncia al potere di conservare sé e gli altri e al potere di punire (parr. 129-r 30) è resa necessaria dalla mancanza nello stato di natura sia di <mna legge stabilita, fissa, conosciuta» (par. 124), sia di «un giudice conosciuto e imparziale» (par. r 2 5), sia di un potere esecutivo della sentenza (par. !26). Ogni giudizio particolare è escluso nel momento in cui la comunità diviene arbitra (parr. 87 e 89). Potere politico è il «diritto di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con penalità minore, per il regolamento e la conservazione della proprietà» (parr. 3, 88), ed esso si dà quando gli individui rinunciano al loro potere naturale e lo rimettono alla comunità. L'unione in un sol corpo, con una legge comune stabilita e una magistratura cui appellarsi sono i tratti distintivi della società politica, la quale soltanto ha in sé il potere di conservare la proprietà.
L'assenza di un giudice comune non è tuttavia propria solo dello stato di natura ma anche della monarchia assoluta, costituita da sudditi non capaci di proprietà rispetto ai quali il monarca è in uno stato di natura illimitato e per di più «corrotto dall'adulazione e armato di potere» (par. 91), e ciò rende sempre possibile la violazione della proprietà anche in presenza di una legge comune cui appellarsi, <'per ordine e volere del suo monarca». Gigantesco errore è il credere che gli uomini, desiderosi di cercar scampo da animali da preda come <,faine e volpi», siano così folli da cercare la salvezza <mell' esser divorati dai leoni» (par. 93). Va dunque rifiutata la logica hobbesiana che vorrebbe la sottomissione alla legge di tutti tranne uno che conserva la libertà dello stato di natura, accresciuta per di più del potere e resa arbitraria dalla certezza dell'impunità. Non altro che mitologia politica è il credere che <'il potere assoluto purifichi il sangue degli uomini e corregga l'abiezione dell'umana natura». Non si esce dai "regni delle tenebre" hobbesiani se non negando alla radice che alla sovranità possa essere attribuito un qualsivoglia criterio di giustizia distributiva.
In Locke il nesso proprietà-potere è piegato sulla conservazione di un nesso appropriativo che relega il problema "repubblicano" del rapporto property-indipendenza-virtù civica al passato di un' <\età povera ma virtuosa». Universalità del desiderio acquisitivo-possessivo, dunque carattere generale e incerto della proprietà-moneta 8, un continuo tracimare di relazioni materiali di potere dal quadro giuridico della sovranità: è la trasformazione di quest'ultima che Locke ha in mente, sempre meno analoga a una sostanza e sempre più definita da
8. Caffentzis (I988), p. 87.
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IL POTERE
una posizione. Dall'antologia alla topologia: il problema centrale - sostiene Locke - è quello della collocazione del potere supremo.
8.2 Dalla proprietà-denaro alla società politica:
il principio di maggioranza e il patto di incorporazione
Alla volontà discreta dello stato di natura si sostituisce l'unica volontà politica, il cui esercizio è finalmente adeguato al proprio oggetto. Essa è risultato del patto originario per cui ognuno «si incorpora con altri in una società» (par. 97) nel mentre abbandona la propria volontà individuale, cioè il potere esecutivo della legge naturale, e lo consegna nelle mani della comunità. Il patto è dunque l'atto con il quale si esce dalla «confusione e disordine» dello stato di natura e si dà luogo alla società.
Locke ne individua la genesi ( Originall) in una comunità politica indipendente (commonwealth) costituita da un gruppo di /reemen proprietari capaci di una maggioranza (par. 99) che, spogliatisi della propria libertà naturale e investitisi dei vincoli della società civile, si accordano con altri per riunirsi in comunità «nel sicuro possesso delle loro proprietà, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga» (par. 9 5), mentre altri permangono nella libertà dello stato di natura, poiché nessuno può essere tolto dalla condizione di libertà e uguaglianza naturale e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. «La corruzione e la perversità di uomini degenerati» sono motivo del carattere separato della società politica e di quelle «associazioni più piccole e separate» che si formano unendosi «a una società politica privata, se cosi posso chiamarla, o particolare» e incorporandosi in un «corpo politico separato» dal resto dell'umanità (par. rz8). Questo corpo politico resta allo stato di natura rispetto ad altre società politiche o a persone ad essa estranee.
Il patto di incorporazione di «un gruppo di uomini», costitutivo di un unico corpo politico (par. 9 5 ) , prevede l'accettazione tacita del principio di maggioranza (limitato dalla sola legge naturale) per il quale questa ha il diritto di agire e di obbligare gli altri. La comunità politica ha «il potere di agire come un unico corpo [. . .] con il suo proprio moto [. . .] è necessario che .il corpo si muova là dove la forza maggiore lo porta, che è il consenso della maggioranza» (par. 96) 9.
9· A tal proposito cfr. Hobbes, Leviatano, cap. xvm, pp. 155-6 sulla tacita dichiarazione di volontà di stare alla deliberazione della maggioranza da parte di chi è entrato volontariamente nell'associazione. In Locke il problema della maggioranza è
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8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
Il linguaggio della meccanica applicato al princ1p1o del consenso di maggioranza introduce un'immagine fisicalista del patto di incorporazione che sostanzia il suo prodursi per linee interne: la "sovranità" del corpo politico, la sua forza coesiva, non è più quella hobbesiana della trascendenza del capo rispetto al corpo ro. Qui ogni distinzione tra potenza e atto è assurda, tanto quanto il possedere una volontà senza il potere di esercitarla equivarrebbe a pensare un corpo privo di movimento. Inoltre, nel caso di assemblee deliberanti di cui non sia definito per legge positiva il numero dei componenti, la deliberazione della maggioranza va considerata deliberazione della totalità, avendo «per legge di natura e di ragione» il potere della totalità (ibzd.). Certamente, solo il consenso individuale farebbe di un qualcosa la deliberazione del tutto; ma poiché esso è «pressoché impossibile ad avere» (par. 98), il consenso della maggioranza dev'essere accettato come consenso della totalità. Rifiutando la logica distributiva del consenso individuale, Locke non si limita alla tradizionale argomentazione sull'impossibilità della presenza di tutti nell'assemblea pubblica, tna pone l'accento sull'inevitabile varietà di opinioni e contrasto di interessi in essa. Questa situazione impone che solo la decisione a maggioranza - e non l'unanimità - permetta alla società di deliberare «come un solo corpo», pena l'immediata dissoluzione: il patto originario infatti non sarebbe tale se l'individuo rimanesse libero (par. 97).
Nel mentre conferisce carattere temporalmente illimitato all' obbligo di obbedienza alle deliberazioni della maggioranza, Locke parla di un consenso della maggioranza «dato o direttamente dai membri della società o dai loro rappresentanti da essi eletti» (par. r4ol, intendendo come equivalenti consenso diretto e consenso per rappresentanza. Il principio di maggioranza fonda la rappresentanza, il diritto a una «rappresentanza distinta» (par. 158) di carattere elettivo per tutto ciò che dipende di fatto dalla proprietà e dalla tassazione. Consenso individuale e rappresentanza distinta si fondano ormai su una legge naturale (e sui limiti, obblighi e divieti da essa statuiti) coincidente con la conservazione della proprietà in quanto fine principale («e quasi l'unico») della costituzione del corpo politico. Lo schema
complicato dal meccanismo esclusivo che lo denota. Strauss (r953l, pp. 228 ss.; Macpherson (1973), pp. 285 ss.; Riley (r982l, pp. 94-5; Seliger (r968), pp. 303-4, Kendall (1959'); Viano (1997), pp. 94-5.
ro. Barker (r95r'l, pp. 86 ss: «For Hobbes, there can be no corporation apart from the head; for Locke, there can be a corporate society even without a trustee>>. Tuttavia tale lettura corre il rischio di mettere in ombra il ruolo costitutivo del trustee.
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della «forza maggiore» o consenso della maggioranza non afferma l'identità di diritto e fatto, né l'identità tra volontà maggioritaria e volontà retta. Il diritto dei più non è commensurabile alla loro potenza, diritto e potenza non coincidono: infatti - in coincidenza con il consenso dato all'uso della moneta - «la maggior parte degli uomini non sono stretti osservanti dell'equità e della giustizia» (parr. 123-124). Si rende perciò necessario l'abbandono dell'eguaglianza originaria e la costruzione di subordinazione politica. Vi è dunque tensione tra momento del patto - inclusivo di tutte le figure proprietarie e fondativo della condizione di appartenenza al corpo politico - e rappresentanza e suffragio, considerati proporzionali al possesso di proprietà n. Il rapporto tra obbligo politico e forme proprietarie si presenta come un intreccio opaco che si addensa attorno alla duplicazione del consenso in espresso e tacito (par. 149) nonché alla distinzione tra piena cittadinanza e mera residenza, nella quale è leggibile un elementare meccanismo esclusivo ' 2 •
Intessuto dal tacito consenso, il patto di incorporazione mima il tempo storico della consistenza di autorità politica e paterna (parr. 74-75, 105-112). Il tracciato di una "storia naturale del potere", intrecciando consenso ed età patriarcale, ragione e storia, tempo del patto originario e tempo storico dell'incorporazione nella monarchia patriarcale per tacito consenso, disegna la frontiera mobile del rapporto tra volontarietà e naturalità dello sviluppo associativo. Non solo il possesso di proprietà assume la forma di consenso tacito alla comunità politica, ma l'intrasparenza stessa che promana dai rapporti mercantili si proietta sulla genesi del corpo politico: il patto di incorporazione appare aver luogo nel "cono d'ombra" della moneta in quanto forma "sociale" della proprietà che è ragione necessaria del patto sociale (compact), secondo una certa ineguaglianza di forze o equilibrio proprietario '3. In tal senso il criterio della forza maggiore
rr. Cfr. Seliger (r968), pp. 291-2. Macpherson (1973), pp. 285 ss. ha ripreso la tesi di Kendall (1959') sulla dottrina lockiana della maggioranza intendendola come «teoria dello stato inteso come società per azioni costituita da proprietari, le cui decisioni di maggioranza vincolano loro stessi e i lavoratori».
12. Mentre il consenso espresso implica un obbligo di obbedienza illimitato nel tempo, espressione di tacito consenso e del suo vincolo sembra essere la volontaria eredità della proprietà. Sulla questione del consenso individuale cfr. Seliger ( 1968), pp. 267-93; Macpherson (1973) ha esplicitamente legato la doppia natura del consenso all'esistenza di due classi - lavoratori e proprietari - separate per "razionalità differenziale".
r 3. Sulla teoria della proprietà in Locke nel contesto del programma politico whig soccorre ancora Viano ( 1960), pp. 225-40. La tesi di Kendall ( 1959'), pp. ror ss. su Locke teorico della «sovranità della società» - in quanto l'individuo deve al
8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
attenua ulteriormente il legame originario tra espressione di consenso individuale ed eguaglianza naturale, e rende ancor più precario l'equilibrio tra diritto naturale, legge naturale e consenso che già l'introduzione della moneta aveva messo in forse 1 4. In ogni caso il contenuto del patto è predeterminato dalla forma proprietaria.
Nel patto si esprime un'unica volontà coincidente con l'istituzione del legislativo. È questo il «primo e fondamentale atto della società» (par. 96) 15. Poiché «l'essenza e l'unione della società consiste nell'avere una sola volontà», il legislativo è costituito dalla maggioranza come «l'interprete e quasi il custode di quella volontà» (par. 212l.
La società si identifica con il legislativo (par. 89), poiché è in esso che i membri di una società politica sono <<Uniti e congiunti insieme in un solo armonico corpo vivente. Questa è l'anima che dà forma, vita e unità alla società politica (commonwealth), di qui i vari membri derivano la loro reciproca influenza, simpatia e connessione» (par. 2!2).
S.J Maggioranza, potere e affidamento: il trust
L'istituzione del legislativo è il momento centrale del patto originario; esso prevede l'obbligo di obbedire «ai decreti della società» (par. 97l, ovvero di rimettere tutto il potere alla maggioranza (par. 99), la quale sceglie in quali mani collocare il potere legislativo, dunque chi debba ricevere la sua fiducia. Se il commonwealth conserva il potere legislativo ed esecutivo, esso costituisce una «democrazia perfetta» (par. 138) nella quale la maggioranza istituisce direttamente il legislativo servendosi dell'intero potere della comunità. La democrazia precede geneticamente aristocrazia e monarchia, perché il patto è stretto tra individui e non tra questi e un sovrano.
Entra qui in gioco una figura-chiave della costruzione lockiana: il
commonwealth di cui è membro un'obbedienza assoluta e perpetua - andrebbe forse riletta alla luce di un'ancora rozza teoria della moneta come "potere sociale". Il «consenso della maggioranza» o «forza maggiore» richiama non a caso l'espressione del par. 48, a proposito dell'introduzione della moneta: the consent o/ men have consented, dove consent sta per consensus hominum (sinonimo di omnes e quindi costruito col verbo al plurale).
q. Cfr. Kendall (1959,), pp. 109-II; Riley (r982), p. 95· 15. Nel par. 212 Locke sostiene che «la costituzione del legislativo è la prima e
fondamentale deliberazione della società, con la quale si provvede a continuare la loro unione L .. h.
IL POTERE
trust ' 6 . Esso appare irriducibile sia a un contratto tra popolo e legislativo, sia alla meta osservanza delle promesse. Incomponibile a una relazione di mandato - che Locke riporta a situazioni specifiche e delimitate nel tempo storico successivo alla genesi pattuale del corpo politico, come nel caso del carattere elettivo di una parte del legislativo (par. I54) -il trust è l'elemento che attua la connessione tra dinamica del compact e asimmetria della relazione di governo e compone lo scarto tra patto originario e tempo storico nella dinamica dell' affidamento. Quest'ultima è costitutiva: poiché infatti la comunità affida al legislativo «il potere di fare leggi, e non quello di fare legislatori» (par. I4I), il problema del trustee appare decisivo: finché uno o più uomini non sono incaricati dalla società di fare leggi, non c'è giudice comune, dotato di autorità, in grado di sciogliere le controversie, e ciò avvicina gli individui membri della comunità allo stato di natura (par. 2 I2). Infatti gli uomini «in qualunque modo associati» che non abbiano un potere decisivo cui fare appello sono ancora nello stato di natura (par. 89). Così la relazione tra un principe assoluto e ciascuno dei suoi sudditi è relazione tra persone ancora allo stato di natura (parr. 90-94). Le forme possibili di governo decise dalla maggioranza includono certe forme di monarchia ma escludono dunque già a livello del patto la monarchia assoluta. Infatti il governo di un singolo dotato di particolare autorità e potere è certamente ammissibile ai primi stadi dello sviluppo politico (parr. 74-76, 94, I05-I I2) ma esso non va confuso con la monarchia assoluta de jure divino (par. I I2) in quanto forma di governo ancora interna allo stato di natura (par. I37).
Non secondaria appare poi la distinzione tra una situazione di trust originario - nella quale la comunità si affidava alla prudenza del padre-monarca, seguendo la mutua fiducia propria di <mn' età povera ma virtuosa di innocenza e sincerità» (par. rro) - e la nuova situazione di trust, propria di un'epoca in cui l'amor sceleratus habendi ha ormai corrotto le anime degli uomini, inducendoli ad una «falsa concezione del vero potere e del vero onore» (par. rr I). T al e distinzione non si limita infatti a tracciare le linee di una "storia congetturale" del potere, bensì pone il problema decisivo dell'intera dinamica dell'affidamento, del trust e del trustee. Si dà infatti compiuta forma di governo solo quando la maggioranza affida tutto il «potere necessario» (legislativo ed esecutivo) «a una o più persone», cioè a un trustee, con la fiducia di essere governata da leggi dichiarate (par. I 3 6).
r6. Sullo statuto del trust in Locke cfr. Gough (r950), pp. r36-7r; Vaughan (r96o'); Viano (r96o), pp. 250 ss.; Dunn (r988').
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8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
La logica del trust si sviluppa dunque nella tensione tra assemblea originaria e necessità di affidare «a una o più persone>> il potere necessario. Da un lato, secondo la logica cumulativa del patto, tutto il «potere necessario» è rimesso alla maggioranza e da questa affidato al legislativo, dall'altro tale potere p romana dal carattere separato-privato degli individui, sicché il governo civile è istituito alla fine di una lunga catena di trasferimenti del potere esecutivo della legge naturale. Infatti la libertà - in quanto potere naturale o facoltà di esercitare i diritti naturali - e l'autoconservazione sono a tal punto congiunte, che l'individuo non può autorizzare altri a impiegare la sua property (vita, libertà e possessi) senza il suo consenso, ovvero non è in potere d'un uomo trasferire a un altro un potere maggiore di quello che ha in sé (par. 135) né sottometterglisi o dargli la libertà di distruggerlo (par. r68) '7. È per questo motivo che, trattando della costituzione del legislativo in quanto supremo potere, Locke denota il potere comune come «potere congiunto» (joint power) di ogni singolo membro «rimesso alla persona o assemblea che è il legislatore» (par. r 3 5). T al e potere è unità delle forze di tutti e di ciascuno nel legislatore e però mai maggiore del potere che i singoli individui detengono allo stato di natura prima di entrare in società e di attuarne la remissione alla comunità. Infatti, contro la logica hobbesiana del "tutti meno uno", «si trova in una condizione molto peggiore colui ch'è esposto al potere arbitrario di un solo uomo, che ha il comando di centomila uomini, che non colui ch'è esposto al potere arbitrario di centomila individui, dal momento che non si può essere sicuri che la volontà di colui che ha questo comando sia migliore di quella di altri, sebbene la sua forza sia centomila volte maggiore» (par. 137).
Il carattere fiduciario (trusteeship) del potere rimesso al legislativo è fondato sulla convinzione che «la comunità conserva in perpetuo un supremo potete» di rimuovere o alterare il legislativo, quando quest'ultimo delibera contro la fiducia in esso riposta (par. 149). Per Locke è dunque vitale distinguere tra potere assoluto e potere assolu-
17. Infatti allo stato di natura ognuno ha non tanto un potere arbitrario sulla vita, libertà, possessi di un altro bensì solo <<quel tanto» di potere che la natura gli ha conferito per la propria conservazione e per quella degli altri, e solo questo è ciò che egli rimette alla società politica e, per mezzo di questa, al legislativo, limitato al pubblico bene della società. Esso non ha cioè altro fine che quella conservazione per la quale si impiega la forza unita dell'intera società a garantire e difendere la proprietà (parr. 135-r36l. Cfr. Fagiani (r983), pp. 227 ss.: il soggetto può sì alienare all'impresa collettiva di cui è parte quote della proprietà, ma non può alienare il suo diritto di disposizione su di essa, in base al divieto naturale all'alienazione della libera disposizione sulla proprietà.
IL POTERE
to e arbitrario, ed è ancora la capacità di proprietà il criterio decisivo. Trattando infatti dell'estensione del potere legislativo, sostiene che esso «non può disporre degli averi del suddito arbitrariamente o toglierne una parte a suo piacimento» (par. I38) né «togliere a un uomo parte della sua proprietà senza il suo consenso», perché in tal caso gli individui «non avrebbero alcuna proprietà» e verrebbe meno la ragione del patto. A ciò si aggiunge un'importante qualificazione: mentre il pericolo di una privazione della proprietà non è ravvicinato se il legislativo consiste di assemblee variabili i cui membri sono soggetti alla legge comune del paese, tale pericolo è invece incombente in governi che siano formati da un legislativo costituito da <<Una sola assemblea sempre in funzione» oppure da un uomo solo, i quali, volendo «accrescere la propria ricchezza e il proprio potere», tentano di «togliere al popolo ciò che vogliono» (par. I 39).
Il carattere costitutivo del trustee appare evidente nel momento in cui esso coincide con quella persona che è «immagine, fantasma, rappresentante» della società politica (par. I 5 I) e che è sovrana non perché le sia proprio il supremo potere legislativo, bensì in quanto detiene «la suprema esecuzione» e non deve rispondere a un potere che le sia superiore. È infatti esente da subordinazione al legislativo quel supremo potere esecutivo conferito ad una persona che, in quanto abbia parte al legislativo, non debba rispondere, come subordinata, a quello stesso potere. In massimo grado infatti il potere è rimesso con fiducia (given with a trust) là dove la «legge positiva» è ecceduta, come per l'esecutivo e la prerogativa in quanto potere di fare il pubblico bene senza una norma (par. 144: l'esecutivo è «un potere sempre in funzione»; parr. I53 e I55; sulla prerogativa rispetto al trust: parr. I64-I65 e 2IO) ' 8. L'esecutivo è un potere che, prodotto dall'accumulo nel tempo di forza, detiene, contrariamente al legislativo, carattere di permanenza nel continuo esercizio della forza della società politica. In quanto esso si dà in una continuità temporale che eccede il potere del legislativo (parr. I57, I6o), può rispondere a fini che si rendono indipendenti dalla genesi '9. In questo senso
18. Sulla prerogativa cfr. Dunn ( 1992), pp. 173-82 e p. 189. Il problema delle persone dotate di autorità - del trustee - è un problema ulteriore a quello del trust. Kendall (1959'), p. 85; Seliger (1968), pp. 356-9; Pasquino (1984), pp. 382 ss.
19. Il problema di Locke è allora «L . .] che cosa si deve fare se il potere esecutivo, essendo in possesso della forza della società politica, si serve di questa forza per impedire al legislativo di riunirsi e di deliberare quando Io richiedano la costituzione originaria e le esigenze pubbliche. Affermo che, chi fa uso della forza sul popolo senz' autorità e contro la fiducia posta in lui ... è in stato di guerra col popolo, che ha
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8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
eccedenza di potere (con la discrezionalità prudenziale nell'esercizio della forza che la connota) e affidamento sono intimamente connessi.
Quando l'esecutivo interviene avvalendosi della prerogativa per correggere le imperfezioni prodotte dal tempo nel sistema della rappresentanza, esso resta all'interno della propria funzione; se tuttavia così facendo altera il legislativo, si verifica usur:pazione, cioè una sorta di conquista interna che, pur mantenendo inalterate forme e norme del governo, ne muta le persone, esercitando allora «un potere a cui un altro ha diritto». Oppure la violazione della fiducia (breach o/ trust) può avvenire da parte del legislativo stesso, e allora ha luogo la tirannia («l'esercizio del potere oltre il diritto», par. r 99). In misura significativa, la tirannia appare a Locke possibile per qualsiasi forma di governo e non limitata alla degenerazione della monarchia. Risuona in queste pagine lockiane il linguaggio di Shaftesbury sul pericolo della «tirannia meccanica» 20 e dell'anarchia (par. 198) cui avrebbero dato adito un'assemblea parlamentare in sessione permanente e la "congiura cattolica" tesa a instaurare una monarchia assoluta, contro la quale si muoveva la proposta whig di esclusione del ramo cattolico dalla linea di successione.
All'interno di questo quadro, nella costruzione lockiana l'evento del patto istitutivo si dilata. Più che di limiti della politica 21 , si tratta in Locke della struttura dell'evento politico, della temporalità che lo innerva: esso oscilla tra irreversibilità del patto costitutivo e dinamiche dell'affidamento. Se di un "metodo" lockiano si può parlare, esso consiste nella dislocazione continua e differenziata dell'anatomia del potere sino alla situazione limite dell' «appello al cielo», cioè di quell' appello che deve giustificare la resistenza all'offensore in mancanza del giudice comune.
diritto di ristabilire il suo legislativo nell'esercizio del suo potere». Il popolo ha allora il diritto «di rimuovere quella forza con la forza» (par. I 55).
20. Sul problema della tirannia nel linguaggio whig del tempo e in particolare sulla mechanical tyranny cfr. Zaller (I993), pp. 609-IO, Viano (I997), pp. 33-43· Ashcraft (r987), pp. 196-228, sottolinea la dimensione affatto empirica delle argo· mentazioni di Locke e, coerentemente con la sua tesi del radicalismo politico lockia · no, ritiene che Locke identifichi la tirannia unicamente con l'impossibilità per il popolo di esprimere consenso a un potere politico legittimo che impedisce il tenersi di libere elezioni. Questa immagine di un Locke "radicale" e leveller è invece rifiutata da McNally (r989), p. 37 che sottolinea il nesso tra resistenza e attentato alla «proprietà del popolo» da parte del legislativo o dell'esecutivo. Propria di Locke sarebbe la combinazione di radicalismo politico e conservatorismo sociale.
2 I. Per questa interpretazione cfr. P asquino (I 984).
IL POTERE
8.4 Lungo l'orizzonte del patto: dissoluzione della società,
dissoluzione del governo e appello al cielo
L'argomentazione dilemmatica del Secondo Trattato distingue dapprima in maniera esplicita la dissoluzione della società dalla dissoluzione del governo (par. 2II) ma afferma anche subito dopo (par. 2I2) che la dissoluzione del secondo comporta la dissoluzione della società. Locke individua due casi di dissoluzione del governo: una conquista dissolve dall'esterno società e governo; dall'interno, la tipologia appare invece più complessa e la dissoluzione del governo viene scomposta in due casi ulteriori. Nel primo, la dissoluzione della società segue da vicino la dissolu.zione del governo (parr. 2I2-22o), nel secondo, il governo è dissolto ma permane la società (parr. 22I-222).
Il primo caso occorre innanzitutto quando il legislativo, anima del corpo politico, è «infranto o dissolto»: allora «ognuno è a disposizione della propria volontà» (par. 2 I 2). La tipologia dell'alterazione del legislativo - secondo la concreta forma costituzionale che prevede una collocazione del legislativo in tre persone distinte (il re dotato di potere esecutivo, un'assemblea di nobiltà ereditaria, un'assemblea di rappresentanti eletti pro tempore dal popolo) (par. 2I 3) - enumera quattro càsi 22 in cui è quasi sempre il re la causa della dissoluzione del governo. Essa si verifica però anche quando il supremo potere esecutivo abbandona il proprio ufficio, riportando tutto all'anarchia: il popolo diviene «una moltitudine confusa» senza ordine né connessione (par. 2 I 9). Si verifica allora un'alterazione del legislativo tale che alla dissoluzione del governo segue la dissoluzione della società. Oppure il legislativo permane ma agisce contro il proprio trust 2 3. Ed è questo l'«altro modo» di dissoluzione dei governi (parr. 22I, 227): la violazione di fiducia da parte del legislativo o del monarca o di entrambi (che sono dunque gli effettivi rebellantes).
Locke analizza lo svolgersi di un evento: essi tentano di privare i sudditi della loro proprietà, ponendosi così in «uno stato di guerra» con il popolo (par. 222). Nel caso dell'esecutivo poi si verifica una
22. Si dà alterazione del legislativo in questa forma di governo: 1. quando la persona unica del principe sostituisce la propria volontà arbitraria alle leggi (par. 214); 2. quando impedisce l'assemblea del legislativo, nonché la libertà di discutere e deliberare (par. 215); 3· quando altera le elezioni (par. 216). 4· quando il principe o il legislativo consegnano il popolo in soggezione a un potere straniero (par. 217).
23. Tarcov (1981), pp. 209-10.
8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
duplice breach o/ trust, perché esso partecipa al legislativo e al contempo ne è il supremo esecutore (ibzd.). Con l'esercizio di una forza senza autorità, di un potere non autorizzato dal popolo, si introduce di fatto uno stato di guerra che espone il popolo «di nuovo allo stato di guerra» (par. 227). L'alterazione o soppressione, con la forza, del legislativo sopprime il giudice comune, toglie l'unico ostacolo allo stato di guerra tra gli uomini. Il governo è dissolto, le leggi precedenti non vengono più applicate, «tutti i precedenti legami [di subordinazione politica] sono cancellati» (parr. 232, 235): ognuno (par. 24r) può esercitare questo "diritto" contro il re <momo privato» (par. 237). Il popolo è sciolto da ogni ulteriore obbedienza e non gli rimane che «il comune rifugio che Dio ha offerto a tutti gli uomini contro la forza e la violenza», cioè l'appello al cielo. Il tentativo invece di acquisire potere arbitrario pone il legislativo in uno stato di guerra con il popolo. Cessando il trust, il legislativo «perde il potere che il popolo ha posto nelle sue mani». Questo stato di guerra appare un male maggiore dello stato di guerra tra i membri della società civile, in quanto comporta l'abrogazione arbitraria dei diritti naturali, tra i quali vi è il diritto del popolo a opporre forza a forza, a difendersi con la forza dal tiranno.
Il popolo cui il potere ritorna si identifica con quella comunità o società che «è» o «conserva» (par. 149) il potere supremo, non tuttavia in quanto considerata sotto una qualche forma di governo, «perché questo potere non può mai aver luogo finché il governo non è dissolto» (ibzd.). Permanenza della società (society o community, politic society, body, commonwealth) nella dissoluzione del governo significa allora permanenza della società politica, di quell'assemblea originaria costituente che è una «democrazia perfetta» in quanto riunisce in sé il potere legislativo ed esecutivo. È essa il popolo (o society, community, majorzty), cioè non l'unanimità, ed è per ques(o motivo che la dissoluzione della forma di governo non dissolve la società 2 4.
La riassunzione del potere coincide con una resistenza collettiva o individuale (par. r 68) all'esecutivo che è in «uno stato di guerra con il popolo», il quale ha il diritto di ristabilire (reinstate) il legislativo (par. 155) in quanto ha il potere di «costituire» (parr. 212 e 220, 222, 243) una legislatura.
Sullo sfondo delle argomentazioni di Locke riappare la distinzione tra potere costituente e ordinario di George Lawson 2 5, che pensa-
24. lvi, pp. 205-6; Seliger ( 1968), pp. rz8, 196. 25. Franklin (1978), pp. 69-74; per Lawson la maestà reale continua e persiste
anche attraverso interregni e rivoluzioni ed è distinta da quella del reggente tamquam
IL POTERE
va il primo esterno alla forma costituzionale di governo 26 . A Locke è in effetti estranea una dimensione pienamente costituzionale che operi la ricomposizione della violazione di fiducia nel meccanismo di formale separazione ed equilibrio dei "poteri". Potere costituente e resistenza sono fortemente intrecciati: il concetto lockiano di resistenza infatti mette in gioco una nozione di potere che è non solo una "riserva" ma anche un agire per anticipazione. «Non si deve aspettare che il governo sia dissolto» (par. 22o) e che ne segua la dissoluzione della società: il popolo (che in Locke compare sempre nella forma pro nominale plurale they) può provvedere per se stesso istituendo un nuovo legislativo «prima che sia troppo tardi» 2 7, prima cioè che l'an tico legislativo cada «per oppressione, inganno o consegna a un potere straniero». n potere legislativo «deve ritornare nelle mani di coloro che l'hanno conferito [ .. .] per la loro tranquillità e sicurezza», cioè nelle mani del popolo, che ha il diritto di riprendere la propria «libertà originaria». Con ciò Locke non intende la libertà dello stato di natura in cui «ognuno è a disposizione della propria volontà» (par. 2r2), né quella del mito whig dell'Antica Costituzione, ma quella dell' assemblea originaria che delibera secondo la legge di ragione della
/undamentatum a /undamento. In una democrazia diretta maestà reale e personale sembrano «flow together [ ... l yet a rea! majesty is no t vested in the people in sue h a way that a majority can legislate anything in conflict with it». La decisione sulla forma di governo spetta a rappresentanti che decidono per voto di maggioranza; solo adesso i cives diventano subditi, pur continuando a restare cives. La comunità non è assorbita nel commonwealth ma conserva la sua identità corporata, e dunque la sua capacità di agire. La maestà reale è il potere quae potest rempublicam constituere, abolire, mutare, re/armare, e questo potere resta sempre latente nella comunità. <<As the community has the power of constitution, so it has of dissolution [. .. l. The rea! majesty, then, or constituent power of the community, by which a commonwealth was originally established, cannot be lost or trasferred so long as the community survives». La novità di Lawson rispetto alla dottrina costituzionalista è la negazione dell'idea che il potere costituente possa essere trasmesso a un'assemblea rappresentativa come uno dei poteri ordinari di questa: «This act [of rea! majesty] [ ... ] is above the power of a Parliament, which may have personal, but cannot have this rea! majesty [ ... h (cit. da Franklin, 1978, p. 73l.
26. Cfr. la discussione tra Filmer e Hunton sull'assenza di un giudice finale nella costituzione; per Filmer ogni disputa deve risolversi in rivoluzione a meno che il re o il Parlamento siano assoluti: Franklin ( 1978), pp. 94-5 e 105 sulla differenza tra Locke e whigs su questo punto.
27. «L . .J la condizione degli uomini non è così miserevole ch'essi non possano servirsi di questo rimedio, prima che sia troppo tardi per ricorrervi [. . .l non ci si può mai garantire dalla tirannide se non v'è il mezzo di sfuggirle prima di esservi interamente sottomesso, e perciò si ha non soltanto il diritto di . scuoterla, ma anche quello di prevenirla» (par. 220). Cfr. Seliger ( 1968), p. 126.
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8. POTERE NATURALE, PROPRIETÀ E POTERE POLITICO IN JOHN LOCKE
maggioranza. Finché esiste infatti society, gli inclividui non riprendono il potere di eseguire la legge naturale (par. 24 3) né, finché il governo agisce secondo il trust, la società conserva il proprio potere di imposizione della legge. Nel programma lockiano della resistenza si consolida il nesso tra figure proprietarie e dispositivo maggioritario, e ha così inizio la trasformazione del potere costituente in potere residuale di resistenza 28 • Di qui in avanti i meccanismi costituzionali Oa separazione dei poteri legislativo ed esecutivo in primo luogo) sono predisposti a mantenere l'eguaglianza dei cliritti nella disuguaglianza dei possessi, l'isolamento della virtù eli faccia al consolidamento della proprietà.
Tuttavia in Locke non si dà soltanto un'accezione residuale di resistenza: la resistenza anticipa e previene i tentativi del legislativo di imporre un potere arbitrario sul popolo e la sua proprietà, essa "colpisce" a sua volta, risponde colpo su colpo (par. 2 3 5). L'eguaglianza di potere è forza contro forza, ed essa ritorna nella forma della guerra, ma con il diritto di punire con la forza l'offensore. Il popolo è infatti «giudice» (par. 240) del venir meno della fiducia (breach o/ trust), può rimuovere il legislativo quando è sua convinzione (basata sulla «manifesta evidenza» del disegno) (par. 230) che quest'ultimo agisca contro il bene pubblico. Locke precisa che quando <<Una lunga serie di abusi, prevaricazioni e inganni» rendono visibile al popolo il disegno, le intenzioni occulte dei governanti, «il popolo si riscuote e tenta di porre il governo nelle mani di chi gli garantisca i fini per cui il governo era stato in principio istituito» (par. 22 5). Ed è questa «la migliore difesa contro la ribellione», cioè il comprendere (grazie a questa «dottrina») che ogni tentativo di potere arbitrario dissolve il governo ma non ancora la società. In effetti Locke riconduce il fondamento del governo «nell'instabile opinione e nell'umore incerto del popolo» (par. 223), dunque vincola la dinamica del trust a quella dell' opinùme 2 9. Ed è qui che l' «appello al cielo» apre alla prospettiva del Saggio sull'intelligenza umana (pubblicato a Londra nel 1690, contemporaneamente ai Due Trattati sul Governo) che colloca in posizione centrale la definizione del rapporto tra le azioni degli uomini e le
28. Ashcraft (1987), pp. 219 ss. ha creduto di rinvenire nel people che resiste alla tirannia un elemento irriducibile alla maggioranza dei freemen, trattandosi piuttosto della resistenza del "popolo" in senso largo, della maggioranza numerica ( «which p laces revolutionary action in the hands of the members of the lowest soci al classes») in una situazione in cui, pur essendoci un sistema di leggi e di giudici autorizzati, vi è <<manifesta perversione della giustizia» (par. 2ol. Ma cfr. anche McNally (1989), p. 37 ed Euchner (r976l, pp. 236 ss.
29. Cfr. EHU, cap. xxviii.
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IL POTERE
norme cui queste azioni vanno commisurate - la legge divina, la legge civile e la legge dell'opinione - in quanto tutte definite dal carattere di sanzione che denota la legge in quanto tale. La legge dell'opinione presenta gli stessi tratti della moneta: è informale, variabile e in definitiva non universale come la legge di natura e, come la moneta, essa si sostanzia di un tacito consenso. N eli' appello al cielo la legge dell'opinione pare coincidere con la legge divina, con un disegno provvidenziale. In realtà è l'isolamento della virtù che fa dell'appello al cielo un appello alla spada: nel venir meno della generale fiducia, nel venir meno di patto e popolo, i virtuosi non possono che confidare nella coincidenza del proprio giudizio con il disegno provvidenziale.
Vzta
John Locke nasce a Wrington presso Bristol nel I632. Studia a Oxford filosofia e medicina. Nel I668 è eletto membro della Royal Society di Londra. A Oxford conosce Lord Ashley, poi conte di Shaftesbury, di cui diventa amico e consigliere. È verosimilmente coestensore della Costituzione della Carolina (I 668). N el I 68 I Shaftesbury viene arrestato in qualità di capo dell'opposizione whig e anche Locke è costretto dapprima a ritirarsi a Oxford, poi, espulso dall'università, si rifugia in Olanda. Rifiuta il perdono regale e pare certa la sua attiva partecipazione ai preparativi per la "gloriosa rivoluzione" che pone sul trono Guglielmo d'Orange. Muore a Oates (Essex) nell'ottobre del 1704.
Opere
Per le opere di Locke si veda The Works o/ fohn Locke, ro voli., London I 82 3, ristampa anastatica, Scientia Verlag, Aalen I 96 3; per gli inediti Essays on the Law o/ Nature (r66o-I664) cfr. l'edizione del testo latino con traduzione e note a cura di W. von Leyden, Clarendon Press, Oxford 1954 (trad. it. Saggi sulla legge naturale, Laterza, Roma-Bari I996); i cosiddetti Two Tracts del I66o sul potere del magistrato civile nelle questioni religiose indifferenti sono tradotti e curati da C. A. Viano, fohn Locke, Scritti editi e inediti sulla tolleranza, Taylor, Torino 196I; An Essay Concerning Human Understanding, London I69o Oa trad. it. Saggio sull'intelligenza umana, 2 voli., Introduzione di C. A. Viano, Roma-Bari 1994, è basata sull'edizione critica curata da P. H. Nidditch, Clarendon Press, Oxford 19792
; nel testo EHU); Two Treatises o/ Government, London I69o, edizione a cura di P. Laslett, Cambridge u.P., Cambridge (Student Edition) 1988 (trad. it. Due trattati sul governo -col Patriarca di Robert Fzlmer, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 196o'; il Primo Trattato è abbreviato nel testo FT); The Reasonableness o/ Christianity, as Delivered in the Scriptures, London 1695 (trad. it. La ragione-
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Rousseau e la questione della sovranità,, di Lucien Jaume
TI governo riceve dal sovrano gli ordini che esso dà al popolo.
Rousseau, Contratto sociale, rn, r
N o n c'è filosofo che non s'inseriva in una tradizione ch'egli riprende e rielabora per impiegarla a nuovi fini. Questo è vero per la filosofia politica di Rousseau, il cui colpo di genio fu di appropriarsi degli attributi della sovranità dei monarchi assoluti per attribuirli a un altro titolare, il popolo. Il popolo di Rousseau è causa ed effetto del patto sociale, cioè dell'atto per cui ciascuno «unendosi a tutti» trova già di fronte a lui quel Tutto ch'egli fa esistere come risultato dell' associazione r. Allo stesso tempo, in questa «alienazione totale di ciascun associato [. .. ] a tutta la comunità», ciascun individuo «non obbedisce tuttavia che a se stesso». Se questo "tuttavia" è forse l'indice di un problema mal dominato, non è su questo punto che faremo vertere l'indagine, ma sui mezzi impiegati da Rousseau per trasferire al popolo la sovranità, in quanto concetto forgiato originariamente per la monarchia assoluta, e specificamente, in Francia, la monarchia assoluta di diritto divino. Bisognerà dunque restituire l'interlocutore immaginario (che è anche un avversario) a cui è diretto il Contratto sociale, cioè, al di là di Hobbes, Bossuet medesimo, teorico della politica consacrata.
In effetti, Rousseau riprende a favore della sovranità del popolo diversi tratti caratteristici dell'accezione monarchica: l'unità del soggetto sovrano, l'indivisibilità, l'inalienabilità, ma anche, punto meno analizzato, il carattere d'infallibilità di diritto che esso detiene: il sovrano è la fonte del discorso di verità sul bene dei governati, così come la fonte della volontà politica. Vox populi vox Dei, scrive Rous-
'' La traduzione italiana è di Gaetano Rametta. r. Louis Althusser aveva parlato a questo proposito di un «circolo logico»: per
questa celebre critica, cfr. Althusser (r97ol. Nell'Emilzo, libro v, Rousseau scrive: «il patto sociale ha una natura particolare ed esclusivamente sua, in quanto il popolo stipula il contratto soltanto con se stesso, cioè, il popolo, collettivamente, come sovrano con i privati come sudditi>> (trad. it. p. 652).
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seau, benché ciò non possa o non debba essere inteso che alla luce della volontà generale (nella sua differenza dalla "volontà di tutti"). D'altronde, la sovranità popolare traspone la sovranità monarchica nella stessa misura in cui, per l'autore del Contratto sociale, si tratta di combattere alcuni tratti costitutivi della monarchia: la gloriosa trascendenza del sovrano sui governati affermata nella monarchia di diritto divino, il carattere unzlaterale di un diritto di comandare che è il privilegio di Uno di fronte a Tutti. Per Rousseau, che istruisce il processo all'assolutismo, bisogna mostrare che il dislivello quasi antologico tra il principe e i sudditi è la matrice di tutti gli elementi dell' arbitrio. Così, la sovranità popolare, potere immanente al corpo dei governati, animata dalla volontà generale e donatrice dell'impersonalità della legge, procura il potere legittimo; il regno della legge, che annulla il potere dell'uomo sull'uomo, è pensato, in Rousseau, come l'esatta antitesi del regno dell'arbitrio. Cominceremo dunque con l'enumerare i requisiti della sovranità e della "maestà" secondo Bossuet. Vedremo che quando quest'ultimo polemizza con J uri eu (che aspira a una forma di sovranità del popolo) sottolinea che la sovranità è l'altro nome del dominio: su chi dominerà dunque il popolo, obietta egli a Jurieu, se si ammette l'assurda finzione di una sovranità nel popolo?
Il modello rousseauiano non sarà né quello del reciproco calcolo d'interesse (talvolta ripreso, del resto, in Bossuet) né quello del consenso al potere; esso si comprende secondo la logica dell'autonomza, essa stessa a ridosso della problematica della volontà generale - concetto che conviene ridefinire; da cui deriva la prospettiva di una «obbedienza alla legge che ci si è prescritti», e il compito di far esistere il popolo in una perpetua ricreazione di sé mediante la creazione (e la denaturazione) che il cittadino impone a se stesso. Dopo aver studiato, in questo secondo tempo, i mezzi mediante cui Rousseau scalza l'assimilazione del governo al sovrano che era caratteristica della monarchia, bisognerà fare il bilancio del costo dell'operazione, o della rivoluzione teorica operata: che cosa comporta il rovesciamento copernicano effettuato dal Contratto? Appare allora il temibile problema del governo (potere esecutivo), nella sua tendenza invincibile a indebolire il sovrano; o, ancora, la condanna che, gettata sulla rappresentazione, è teoricamente ineccepibile, tenuto conto della problematica della volontà generale, ma si trova empiricamente inapplicabile.
Dovremo chiederci se, nella purezza del modello della sovranità conforme all'essenza della volontà generale, Rousseau non operi più uno spostamento dei problemi (e soprattutto del problema della liber- . tà) che un'effettiva risoluzione. Non è forse, alla fine, e perfino sul piano del diritto (distinto dal piano dei fatti), la sovranità del Con-
9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
tratto sociale inficiata da una congenita impossibilità? Impossibilità che, nondimeno, non le impedirà di nutrire l'utopia democratica dei moderni.
9•I Bossuet: la sovranità,
una posta nella controversia con Jurieu
Uno dei modelli più elaborati della sovranità monarchica di diritto divino si trova nella Politique tirée des propres paroles de l'Ecriture sainte, scritta da Bossuet all'indirizzo del delfino 2 • Se Bossuet si propone di rendere conto di tutte le forme di governo, ciò non toglie che, secondo la sua stessa formulazione, «La monarchia [sia] la forma di governo più comune, più antica e anche più naturale» (P n, r, 7, p. 70) 3. Ispirandosi ampiamente a Hobbes 4, Bossuet descrive l'essenziale della sovranità monarchica in una suddivisione recante come titolo: Che cos'è la maestà (P v, rv, I, p. 177). Vi troviamo l'incorporazione del popolo nel re e l'unificazione delle volontà della moltitudine caratteristiche della problematica del Leviatano 5: di principe, in quanto principe, non è considerato come un uomo particolare: è un personaggio pubblico; tutto lo stato è in lui: la volontà di tutto il popolo è racchiusa nella sua. Come in Dio sono riunite ogni perfezione e ogni virtù, così tutto il potere dei particolari è riunito nella persona del principe. Quanta grandezza perché un solo uomo ne contenga tanto!» (P, v, IV, r, p. 177l.
Ma non è soltanto il potere dei "particolari" che il principe racchiude in sé, è anche la facoltà (saggezza o competenza) di sentenziare, entro il regno, sul bene di tutti e di ciascuno: «Vedete la ragione segreta che governa tutto il corpo dello Stato, racchiusa in una sola testa: voi vedete nei re l'immagine di Dio, e avete l'idea della maestà regale» (ivi, p. 24 5). Le leggi del re, come si dice sotto Luigi XIV,
sono l'emanazione di questa "ragione segreta" che gode letteralmente dell' infallibzlità, come Luigi XIV non teme di menzionarla all' attenzio-
2. Edizione di riferimento Le Brun (I 9 70). 3. P = Politique. 4· Sappiamo, in virtù di lavori eruditi, che Bossuet possedeva nella sua bibliote·
ca le opere di Hobbes in diverse lingue. Cfr. Lacour-Gayet (I 898). Sulla sovranità in Bossuet, consulta Jaume (I997), pp. 178-85. Per l'influenza di questa concezione sul movimento giacobino, il governo dell'anno rr, cfr. ancora Jaume (I989), pp. 368-82.
5. Cfr. l'analisi di questa rappresentazione-incorporazione in Jaume ( 1986).
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ne del delfino 6, e che, come il potere sovrano, si esercita senza contropartita o replica da prendere in considerazione 7: «Quando il principe ha giudicato, scrive Bossuet, non c'è più altro giudizio» (P, rv, II, p. 93).
Tuttavia, Bossuet deve dominare un punto delicato: salvaguardare l'alterità di principio e di natura tra il re e la nazione, all'interno dell'identificazione funzionale, organicista, che egli ha costruito 8; a coltivare troppo l'immagine organica dell'indivisione, si rischia di suggerire che al potere regale non resiste niente, che il corpo del re è interamente trasparente all'anima che lo regge; si finirà per dire, come Hobbes, che, attraverso il suo "rappresentante", ciascuno è autore delle parole e degli atti che il sovrano compie 9. Ora, questo non dev'essere il caso agli occhi di Bossuet: il popolo, o piuttosto la moltitudine, non parla attraverso il re. Quest'ultimo non è una persona (per-sonare: far intendere attraverso una maschera di teatro) 10, benché sia un "personaggio pubblico". Pur seguendo la logica hobbesiana dell'incorporazione, Bossuet rifiuta le conseguenze della rappresentazione: ci sono dei cattivi soggetti, che non capiranno mai le ragioni per obbedire; c'è, soprattutto, il peccato originale, che ha come conseguenza il fatto che ogni sovranità sia dominio e repressione. L'i-
6. Memorie di Luigi xrv, "Istruzioni per il delfìno": «È senz'altro proprio di certe funzioni che, prendendo per così dire il posto di Dio, noi sembriamo partecipare della sua conoscenza, così come della sua autorità, come, per esempio, in ciò che riguarda il discernimento degli spiriti, la suddivisione degli impieghi e la distribuzione delle grazie>>, cit. in Lemontey (I8I8), nuova edizione in Lemontey (r829l, t. v, nota di p. I20. Egualmente in Nourrisson (I867), nota I, p. I97·
7· I Parlamenti l'hanno appreso a loro spese sotto i regni di Luigi xrv e di Luigi xv. Alla vigilia della Rivoluzione, nel q88, il Parlamento di Digione afferma: <<Nessuna legge può obbligare se non in quanto è approvata», cioè sottoposta alla <<libera registrazione nelle Corti>>.
8. Su quest'immagine organicista, apparentemente tradizionale ma appartenente alla problematica dei moderni per l'inclusione dell'idea della sovranità, si può confrontare il ruolo che aveva la metafora organicista in Althusius, laddove si trattava di unire una pluralità differenziata e non dei "particolari" tutti uguali sotto la legge del sovrano: ci riferiamo a Duso (I992l, specialmente pp. 438-43. Cfr. anche Duso ( I996l, specialmente p. 79·
9· In effetti, c'è un problema analogo in Hobbes, che si nota in un passo preciso del Leviatano (cap. xvu), in cui è detto che bisogna «che ciascuno si confessi e si riconosca (to owne and acknowledge) come l'autore di tutto ciò che avrà fatto o fatto fare L .. ] colui che ha così assunto la loro persona (Personl». Su questa questione, cfr. Jaume (I99Ù
IO. Una connotazione suggerita da Hobbes all'inizio del cap. xvr del Leviatano. Ci permettiamo di rinviare al nostro studio dettagliato, il primo che sia stato dedicato a questa questione: Jaume (I983l, pp. 1009-35·
r8o
9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
mzw della Politique spiega come «tutto tra gli uomini si divida e si separi», e come, fin dalle origini, Abramo e Lot, questi uomini saggi, «non potessero sopportarsi», o come si veda il fratello uccidere il proprio fratello (Caino e Abele). Di conseguenza, la legittimità del potere sovrano risiede nella costrizione all'Unità che esso procura; quanto alla legittimità del potere monarchico, essa è tenuta a manifestare, con l'aiuto di Dio, l'infinita distanza tra la maestà del re e la condizione dei "particolari". Ripetendo la parola biblica, Bossuet proclama ai sovrani: «Voi siete dèi, cioè voi avete nella vostra autorità, portate sulla vostra fronte un carattere divino» n. In fin dei conti, c'è una tale distanza di natura tra il sovrano e i governati che, allo stesso modo in cui la legge è la legge del re (e non quella della nazione), il popolo diventa il popolo del re, se così si può dire. È di fronte a J uri eu che Bossuet dovrà sottolineare questa tesi che, tuttavia, si trovava già espressa agli inizi della Politique: puro dominio ,, , che non si basa sul consenso, la sovranità statale fa che un popolo sia (diventi) un popolo.
J urieu, scrivendo nel contesto immediatamente successivo alla Glorious Revolution, nel r689, aveva ripreso l'immagine organicista del popolo e del re, ma per sostenere che il re non era che il magistrato della sovranità del popolo. Vale la pena di ricordare questo celebre passo:
Benché un popolo che ha istituito un sovrano non possa più esercitare la sovranità da se stesso, è nondimeno la sovranità del popolo che viene esercitata dal sovrano. Egli ne è il braccio e la testa, e il popolo è il corpo. E l'esercizio della sovranità che dipende da uno solo non impedisce che la sovranità non sia nel popolo come nella sua fonte e perfino come nel suo soggetto primario '3.
Il popolo poteva dunque riprendere la sovranità, come aveva fatto (o si riteneva avesse fatto) in Inghilterra.
A ciò, a questa idea di un "soggetto primario" della sovranità che sarebbe il popolo stesso, Bossuet replica a) che prima del monarca
rr. Ma aggiungendo (ciò che solo la Chiesa può fare): <<0 dèi di carne e di sangue, o dèi di fango e di polvere, voi morite come degli uomini» (p. v, rv, r, p. r8o).
12. Un dominio legittimo, ancora una volta, perché rispondente al peccato originale.
13. Jurieu (r689), p. 368 (ristampa parziale Caen 1991). Noi citeremo Bossuet (r69ol secondo la medesima edizione di Caen, ristampa parziale di Bossuet (r863), vol. xv.
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IL POTERE
non c'è sovranità; b) che prima del monarca non c'è neppure il popolo e che, viceversa, è il monarca che istituisce il popolo come tale. Parlare come Jurieu di una sovranità naturale del popolo, o ancora di un popolo già esistente in modo naturale,
è porre un governo prima di qualunque governo e contraddire se stessi. Lungi dal fatto che in questo stato il popolo sia sovrano '4, in questo stato non c'è neppure un popolo. Possono ben esserci delle famiglie, e per di più mal governate e male assicurate: ci può ben essere una torma, un mucchio di gente, una moltitudine confusa, ma non ci può essere un popolo, perché un popolo suppone già qualcosa che riunisca, qualche condotta regolata e qualche diritto stabilito r.'.
Anche se si volesse per forza chiamare sovranità quello che è un puro stato di "anarchia", prosegue Bossuet, lo pseudo-popolo sovrano non avrebbe alcuno su cui esercitare la propria sovranità; in altri termini, non si può essere sovrani su se stessi: «Dove tutto è indipendente, non c'è nulla di sovrano; perché il sovrano domina di diritto, e qui il diritto di dominare non c'è ancora; non si domina che su colui che è dipendente» ' 6 • Si vede il profitto che da questo memorabile confronto potrà trarre Jean-Jacques Rousseau. Il progetto rousseauiano per pensare la politica consisterà nell'andare dal popolo al sovrano, e non l'inverso - perché l'inverso è sempre a vantaggio della monarchia illegittima (fondata sull'arbitrio e generatrice di arbitrio). Ma, nello stesso tempo, non si deve cadere negli errori, altrettanto frusti, di Jurieu: bisogna anzitutto esaminare «l'atto mediante il quale un popolo è un popolo», secondo l'enunciato del Contratto sociale (r, 5 ), prima di supporre che questo popolo possa essere governato da un monarca. Di qui deriva la distinzione tra il sovrano e il governante: J ean Bodin l'aveva già fatta, ma in tutt'altra prospettiva '7. Il popolo, dunque il sovrano, e infine il governante, questo è l'ordine della genesi razionale, ma anche, si potrebbe dire, della genesi delle norme, secondo Rousseau.
14. Stato supposto di natura, in cui il patto con il re non è ancora avvenuto: in Jurieu c'è un contratto di sottomissione, condizionato (e non un contratto di associazione che crea la società).
15. Bossuet (r69ol, p. 465. r6. lvi, p. 248. I7. In Bodin, il sovrano, distinto dal governo, è allo stesso modo distinto dai
governati. La dimensione verticale dell'autorità è ben espressa da questa definizione della sovranità: «Potere di dare la legge a tutti in generale ed a ciascuno in particolare [ .. .l senza il consenso del più grande, né del pari, né dell'inferiore chiunque siano» (Les six livres de la République, r, ro).
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9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
9·2 Rousseau: una costruzione decostruttiva della monarchia
Ci sono diversi modi di osservare come il pensiero politico di Rousseau sia in contrapposizione con l'idea della monarchia assoluta. La via più semplice per noi sarà quella di prestare attenzione alla polemica sulla nozione di legge, quindi attorno a quella di popolo. Come si può constatare nell'articolo dell'Enciclopedia consacrato all'economia politica, la preoccupazione di Rousseau è originariamente la seguente: se si potesse ottenere la libertà nell'obbedienza, bisognerebbe «imitare qui sulla terra i decreti immutabili della divinità» (EP, p. 38r) ' 8 . Ma se questa "imitazione" rischia di essere sofistica, essa lo è stata effettivamente nelle monarchie: «Con qualunque sofisma si pos§.a mascherare tutto ciò, è certo che se uno può costringere la mia volontà, io non sono più libero». La sovranità, come preminenza in sapere, in saggezza e in potere, ha occupato questo ruolo: di qui una coazione operata sulle volontà per la comune salvezza del reame, presentata sul modello della legge di Dio, che esercita la costrizione necessaria su un'umanità votata alla concupiscenza. Il sofisma monarchico è consistito nel dire che, servendo il re, si serviva anche Dio, che le leggi del re rispettavano la legge divina: l'ottava delle Lettere scritte dalla montagna, spiegando quali siano i «prodigi della legge» ' 9,
fustiga coloro che, nella monarchia, confondono il re e la legge: «Con quale enfasi pronunciano queste parole di servizio e di servire; quanto si stimano grandi e rispettabili quando possono dire zl Re mio signore; quanto disprezzano i repubblicani che non sono altro che liberi, e che sono certamente più nobili di loro» (LM, nota di Rousseau, p. ror7) 20 • Ora, contrariamente a questo dominio da parte della legge incarnata, che è una legge arbitraria, gli uomini hanno trovato 21 una costrizione lzberatrice, procurata questa volta dalla legge impersonale:
Come si può fare in modo che essi obbediscano e che nessuno comandi, che essi servano e che non abbiano nessun signore; tanto più liberi in effetti quanto più, sotto una soggezione apparente, nessuno perde della sua libertà se non ciò che può nuocere a quella di un altro? Questi prodigi sono l'opera
r8. HP =Discorso sull'economia poùtica. r9. Utilizziamo un'espressione che in effetti si trova in EP, p. 381. 20. LM = Lettere scrt!te dalla montagna. 2 I. Dobbiamo lasciare da parte le letture di Aristotele e di Plutarco fatte da
Rousseau, il suo elogio della "virtuosa" Sparta e la sua critica della "decadente" Atene.
IL POTERE
della legge. È alla legge soltanto che gli uomini devono la giustizia e la libertà 22.
Ma allora bisogna comprendere che la sovranità, che fa la legge, non è esterna agli individui: essa è composta dagli individui stessi e, in questo senso, contrariamente a quello che Bossuet obiettava a Jurieu, questo popolo d'individui razionali comanda a se stesso. Se, nella visione assolutista, il popolo è governato perché c'è un sovrano, nella concezione rousseauiana il popolo è governato perché esso stesso è il sovrano. Tuttavia, la formula "il sovrano è governato" appare come altamente paradossale, poiché la nozione moderna di sovranità non è stata forgiata che per legittimare il diritto di governare. Che si abbia di mira un diritto di dominio, un diritto di gestione ragionata e razionale delle passioni umane, un diritto inerente agli arcana imperii, poco importa: il sovrano è colui che gode della dimensione verticale del potere. In Rousseau, l'immanenza della sovranità, la sua dimensione orizzontale (in questo senso) richiede una teoria del soggetto: bisogna, per fondare la con-divisione dell'esercizio della sovranità, che colui che riceve gli ordini della legge 2 l si ritrovi in essa. La legge deve rappresentare il soggetto a se stesso. La trascendenza coattiva della legge deve aderire a una dinamica interna della coscienza razionale: la legge è «quella voce celeste che detta a ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica, e gli insegna ad agire secondo le massime del suo proprio giudizio, ed a non essere in contraddizione con se stesso» (EP, p. 381; corsivo nostro).
Se le massime del giudizio individuale permettono di comunicare con ciò che la legge ordina, io sono in pari tempo libero e obbligato, io non obbedisco, come dirà il Contratto, che alla legge che mi sono prescritto. Si comprende come gli attributi che la monarchia ha fornito alla sovranità (unità, indivisibilità, inalienabilità, infallibilità) si applichino perfettamente all' «atto mediante il quale un popolo è un popolo»; le clausole dell'atto «si riducono tutte a una sola: e cioè, l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità» (C r, 6, p. 731; corsivo nostro) 2 4. La ripetizione dell'idea di totalità suggerisce una perfetta eguaglianza, un'unità mistica integrale, un'assenza di ogni delega, una produzione della Verità fondatrice e insuperabile: ossia i quattro attributi della sovranità preceden-
22. EP, p. 381. Testo ripreso di fatto dal Manoscritto di Ginevra ( = MG), pri· ma versione del Contratto sociale; cfr. MG, p. 310.
23. Attraverso le applicazioni che ne dà il "governo" o potere esecutivo. Ritorneremo su questo punto.
24. C = Contratto sociale.
9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
te. È in qualche modo il cogito fondatore del popolo rousseauiano. Dandosi un sovrano, si fa esistere il sovrano: ci si crea membri di un corpo in cui tutti devono ritrovarsi in ciascuno (grazie alla volontà generale) poiché ciascuno partecipa della ragione comune a tutti.
Questo atto, che fa sì che un popolo sia un popolo, che un cittadino sia un cittadino, che il sovrano si autocostituisca (causa sui) è lo stesso atto, quindi, che fa sì che una legge diventi, nell'assemblea del popolo, una legge: «Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo, non considera che se stesso [ ... l Allora, la materia su cui si delibera è generale come la volontà che delibera. È quest'atto che io chiamo una legge» (C n, 6, p. 750). La sovranità non è né dominio da parte di altri, né consenso alla legge di altri, né patto di sottomissione regolato dal calcolo d'interesse 2 5, ma autoproduzione di ciascuno come membro della volontà generale, e del tutto (il popolo) attraverso ciascuno. Fare il popolo (nella sua unità costituita) o fare la legge è sì l'atto del sovrano, ma di un sovrano che non precede quest'opera, perché esso stesso è la propria opera 26 .
Ma se la volontà generale restasse esterna all'individuo, se il comando non risvegliasse in ciascuno «le massime del suo proprio giudizio», tutto sarebbe compromesso; perché allora certuni resterebbero fuori del patto 2 7. È beninteso ciò che si produce quando l'individuo non ascolta la volontà generale che porta in sé 28 , ed è altresì la
25. Per il calcolo d'interesse in Bossuet, cfr. Quinto avvertimento ai protestanti, par. LVI: il popolo deve «interessare alla sua conservazione colui che pone alla sua testa. Rimettere lo Stato nelle sue mani affinché lo conservi come un suo proprio bene, è un mezzo molto pressante per interessarlo» (Bossuet, r69o, p. 474l. Reciprocamente, «il vero interesse di coloro che governano è d'interessare alla loro conservazione anche i popoli sottomessi» (ivi, p. 475). Cfr. anche Politique, 1, v: <<Mediante il governo, ciascun particolare diventa più forte» (P, pp. 20-rl.
26. Su questa costituzione per autoproduzione del sovrano e la divergenza con Hobbes, cfr. Jaume (r985l, pp. 39-53·
27. Come osserva il Manoscritto di Ginevra, da volontà generale di tutto un popolo non è affatto generale per un particolare straniero; perché questo particolare non è membro di questo popolo» (MG, 11, 4, p. 327).
28. Cfr. C 1, 7, p. 734: «Ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che ha come cittadino>>, e passim. Contrariamente a una lettura troppo rapida, la volontà generale non è esterna alla coscienza del cittadino in quanto cittadino. Essa è, in fondo, la volontà di esaminarsi dal punto di vista del bene di tutti: interiorizzata individualmente perché generale a tutto il popolo, ma universale perché afferrabile a partire dall'interiorità personale. La comprensione della volontà generale è facilitata da questo passo del Manoscritto di Ginevra: <<La legge primaria, la sola vera legge fondamentale che deriva immediatamente dal patto sociale è che ciascuno preferisca in tutte le cose il bene più grande di tutti» (i vi, p. 328).
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logica di decadenza che si mette in moto da quando comincia a esistere il governo. Il governo è l'incrinatura nel cristallo egualitario.
9·3 La problematica rousseauiana:
il governo come minaccia d'usurpazione della sovranità
Se è vero in Rousseau, e come voleva Bossuet, che non c'è "popolo" prima del sovrano e che soltanto quest'ultimo può fare l'unità del popolo, tuttavia ciò non toglie che qualcuno che non è egli stesso il sovrano possa comandare al nuovo sovrano concepito da Rousseau. La nociva esteriorità, generatrice di trascendenze dispotiche, sarebbe stata semplicemente spostata? Il governo sembra risuscitare il pericolo che rappresentava, agli occhi di Rousseau, il sovrano monarchico. Basta che il governo si costituisca in "spirito di corpo", che si autonomizzi pericolosamente dall'assemblea legislativa, che eluda la legge - la quale «non è che l'espressione della volontà generale» ( GP, cap. vn, p. rr57) >9- e non si potrà più dire che il sovrano comandi a se stesso. Il Manoscritto di Ginevra, prezioso in quanto d informa delle difficoltà fondamentali che il Contratto sociale tenterà in seguito di superare, non tarda a presentare 3" la questione del governo come «l'abisso della politica nella costituzione dello Stato». Non è per accidente che il governo minaccia la sovranità, è per una necessità d'essenza che attiene all'istantaneismo di questa specie di cogito collettivo che è la volontà generale. Ascoltiamo Rousseau: «Così, quand'anche il corpo sociale potesse dire una volta, io voglio ora tutto ciò che vuole un tal uomo [il magistrato], non potrà mai dire, parlando dello stesso uomo, ciò che vorrà domam~ io lo vorrò ancora» (MG r, 4, p. 296). Non soltanto la volontà generale non può impegnare l'avvenire (se si considerano le leggi votate), ma non può impegnare se stessa per l'avvenire: è un nunc stans, un "Io voglio" sempre da rinnovare in una serie d'atti di presenza a sé 3r, i quali costituiscono la vivente vblontà generale. Ne segue che «il vero carattere della sovranità è che vi sia sempre accordo di tempo, di luogo, di effetto, tra la direzione della
29. GP = Conszderazioni sul governo della Polonia. 30. MG, r, 4: <<ln che cosa consiste la sovranità e che cosa la rende inalienabi-
le». 31. Il parallelismo con il cogito cartesiano (Meditazioni metafisiche), con l'istanta
neismo di quest'ultimo, con la necessaria diffidenza nei confronti della memoria, è sorprendente.
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9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
volontà generale e l'impiego della forza pubblica, accordo su cui non si può più contare non appena un'altra volontà, qualunque possa essere, disponga di questa forza» 32 • Ma il governo viene ad essere quest' altra volontà, in pari tempo indispensabile - poiché il popolo non si deve occupare di oggetti particolari - e pericolosa, poiché le decisioni della volontà generale sono allora spostate nel tempo e nello spazio, modificate, molto probabilmente alterate. Se il rapporto del potere esecutivo con il potere legislativo fosse così stretto com'è il rapporto del volere e del fare nell'essere umano, «lo Stato eseguirebbe sempre fedelmente tutto ciò che vuole il sovrano»; ma, Rousseau ci avverte immediatamente, non può essere così: è solo per metafora che nell'organismo politico il corpo è unito all'anima; il governo diventa un corpo a parte, in grado di suscitarsi degli interessi per sé, che non sono quelli del sovrano. Qui non si esamineranno le modalità pratiche che completano la diagnostica dell'usurpazione della sovranità 33 e di cui Ginevra viene a fornire a Rousseau un preciso esempio H.
Ancor più, bisogna rilevare che, secondo il Contratto sociale, il governo è una seconda volta in contraddizione con il principio generatore della sovranità e della legge. Abbiamo potuto notare in precedenza che la condizione di uguaglianza era fondatrice per la conclusione del patto sociale: bisogna che l'alienazione di ciascuno verso tutti si compia senza restrizione alcuna: «poiché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e poiché la condizione è uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa agli altri» (C r, 6, p. 73 I). Questo statuto di uguaglianza esclude che, come nella società di privilegi e di gerarchia, qualcuno possa imporre ad altri un'obbligazione da cui sarebbe esentato: questo è notoriamente uno dei bersagli di Rousseau nella guerra contro la sovranità monarchica. Non appena qualcuno può utilizzare la forza coattiva della leg-
32. MG, r, 4, p. 296. Come dice altresì il Manoscritto e ripeterà il Contratto, «quando la legge parla a nome del popolo, è a nome del popolo di adesso e non di quello di una volta>> (ivi, p. 316).
33· Cfr. tutto il libro m del Contratto sociale. Si ricorderà la tesi generale: «Come la volontà particolare agisce senza tregua contro la volontà generale, così il governo esercita uno sforzo continuo contro la sovranità>> (rrr, ro, p. 793, corsivo nostro); e ancora: «nel momento in cui il governo usurpa la sovranità, il patto sociale è rottO>> (ivì, P· 795).
34· Rousseau descrive in questi termini lo stato dei Ginevrini, sottomessi alla potenza che si è attribuita il Piccolo Consiglio: «Sovrani subordinati per quattr'ore all'anno, voi siete sudditi per tutto il resto della vita, e abbandonati senza riserve alla discrezione altrui>> (LM, p. 987).
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ge senza essere suscettibile di esservi sottomesso a sua volta, c1o significa che la legge ha perduto la sua virtù di universalità impersonale; ciò significa, allo stesso modo, che c'è - de facto o esplicitamente - un sovrano, un signore della legge. È degno di nota vedere Rousseau operare egli stesso il raffronto che abbiamo segnalato quando tratta della questione del governo nel Contratto (m, r6) 35: «Essendo i cittadini tutti uguali per il contratto sociale, ciò che tutti devono fare, tutti possono prescriverlo, mentre nessuno ha diritto di esigere che un altro faccia ciò che non fa egli stesso. Ora è proprio questo diritto [ ... ] che il sovrano dà al principe istituendo il governo» (zbid.).
Prodigiosa (ma indispensabile) deroga del pensiero rousseauiano al suo principio più caro, I' eguaglianza di tutti i membri del corpo sociale: ci sarà un uomo o un gruppo, il principe, che potrà ordinare senza contropartita, come il monarca sovrano aveva il diritto di ordinare in modo unilaterale. Il sovrano di Bossuet era in effetti colui al quale non si può opporre niente, poiché «quando il principe ha giudicato, non c'è nessun altro giudizio». Si noterà di passaggio che questa anomalia rousseauiana è storicamente la stessa di quella che ferisce l'opinione repubblicana (in Francia, specialmente) finché essa si ostinerà a pensare il governo come una pura funzione esecutiva l 6 ,
una forza pericolosa, che dunque bisogna mettere sotto tutela. Certo, in Rousseau il principe non può ordinare che ciò che la legge ha prima prescritto: se non c'è contropartita a valle, almeno la legge è buona a monte, in quanto espressione della volontà generale. D'altronde il governo è il solo caso in cui Rousseau accetta la nozione di rappresentazione: «Poiché la legge non è che la dichiarazione della volontà generale, è chiaro che nel potere legislativo il popolo non può essere rappresentato; ma può e deve esserlo nel potere esecutivo, che non è che la forza applicata alla legge» (C m, r 5, p. 802). Ciò che il principe, semplice "ministro" delle leggi (da ministerium: strumento, esecutore), o organo "commesso" all'applicazione delle leggi, rappresenta, è il potere fisico proveniente dalla volontà generale e che passa negli atti amministrativi 11. Non si può rappresentare la volontà generale (mediante dei deputati) ma si può trasmettere il vigore coattivo
35· «L'istituzione del governo non è un contratto» (C, p. 8o4). 36. Nel contesto francese, nel corso di una Rivoluzione che non è mai "termina
ta", si tratta del timore di veder riapparire la regalità, il "fantasma del re". Sulla riforma decisiva apportata da De Gaulle (ma forse rimessa in questione ai nostri giorni), cfr. Jaume (1990-91).
37· Per questa interpretazione, cfr. Jaume (1992).
r88
9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
che le è proprio, in quanto essa anima la sovranità 38 : tale è il ruolo del governo in quanto puro esecutore.
Di fatto, perfino in Rousseau il magistrato che governa non può limitarsi a questo ruolo di esecutore. Basta interrogare il Contratto su questioni delicate come quella del diritto di punire, specialmente nel capitolo intitolato Del diritto di vita e di morte (n, 5). A questo punto dell'opera, e come nota il curatore 39, è la prima volta che Rousseau impiega il terrnine di Machiavelli, il "principe", e l'impiega per una occorrenza particolarmente carica di senso: «Ora il cittadino non è più giudice del pericolo a cui la legge vuole che si esponga, e quando il principe gli ha detto è conveniente per lo Stato che tu muoia, egli deve morire; poiché non è che a questa condizione che è vissuto in sicurezza fino ad allora».
Non è il sovrano popolare che parla così, ma il principe: deve farlo, poiché la condanna di un criminale o la decisione della guerra «non appartiene affatto al sovrano», questi sono atti particolari su di un caso particolare. Ma non significa ciò ritrovare il modello anteriore della sovranità-dominio nell'uso dello ius gladzi? Il "rigorismo" di Rousseau (secondo l'espressione dell'editore) è sorprendente, applicato di nuovo al caso del criminale: «Quando si fa morire il colpevole, è meno come cittadino che come nemico [ ... l Un tale nemico non è una persona morale, è un uomo, ed è allora che il diritto di guerra è di uccidere il vinto». Le pene esemplari, per crimine di lesa maestà, non sono lontane.
Si constata in fin dei conti che se tutto il libro m del Contratto sociale è quasi una descrizione delle condizioni dell'inevitabile usurpazione governativa, il verme ad ogni modo è nel frutto, se così si può dire: ciò che è stato rifiutato della sovranità assolutista ritorna sotto le vesti del potere esecutivo per minacciare la sovranità del popolo 4°.
Il Contratto è bensì un'opera di polemica, che non può sfuggire alle condizioni o al crogiuolo in cui furono elaborati i concetti e la metafisica della sovranità nel suo senso propriamente moderno. Il popolore e l'usurpazione della sovranità costituiscono, in positivo e in negativo, due ossessioni rousseauiane che sono state comprese o piuttosto
38. A rigore, la sovranità è l'applicazione della volontà generale al potere del corpo sociale: «C'è dunque nello Stato una forza comune che lo sostiene, una volontà generale che dirige questa forza, e ciò che costituisce la sovranità è l'applicazione dell'una all'altra» (MG, p. 294).
39· Rousseau ( r964), nota 4, p. 376. 40. La quale, da parte sua, ha ereditato alcuni attributi dalla sovranità monar
chica. Così, due sovranità si confrontano in questa marcia verso la decadenza che è la storia dei governi.
IL POTERE
sentite dai giacobini - qualunque fossero del resto le semplificazioni e i controsensi ch'essi abbiano potuto commettere nei confronti del Contratto sociale 4'. L'impossibilità di esistenza o piuttosto di verifica empirica che colpisce la teoria della volontà generale e della sovranità del popolo "puro" era una potente istigazione all'utopia, cioè al volontarismo politico: ossia il progetto di prendere il Contratta sociale come un programma d'azione, mentre esso, come mostra Alexis Philonenko 4>, è di fatto il lamento su una decadenza universale e irrimediabile, la critica di un mondo che non può più ritornare alle condizioni della libertà. Forse solo l'isola della Corsica resta ancora, in Europa, «un paese capace di legislazione» (C n, ro, p. 763). Come confermerà in seguito la redazione del progetto di costituzione da dare alla Corsica 43, l'assenza di divisione del lavoro, la prevalenza assoluta dell'agricoltura di sussistenza e l'autarchia economica sono le condizioni sine qua non perché un popolo resti (o, nel caso dei corsi, ritorni) libero ...
9·4 La rappresentazione:
altro dispositivo di annientamento della sovranità
Abbiamo visto finora che, perché la libertà si mantenga insieme all' obbedienza, cioè per rompere col modello monarchico del dominio, bisogna che la volontà generale resti presente a se stessa senza alterità né alienazione; abbiamo visto allo stesso modo che ogni governo, una volta istituito, diventa molto rapidamente una minaccia diretta verso quella garanzia della libertà che comprende in sé la volontà generale - perché il governo, già costituito con privilegio di comando unilaterale, tende, nella pratica, a rendersi permanente e a far prevalere i propri interessi rispetto a quelli del popolo: il governo si trasforma in una nuova sovranità, teratologica, usurpatrice. Lo stesso accade nel caso della rappresentanza, caso in cui, per esempio, si vede il Parlamento d'Inghilterra diventare un sovrano invece di essere un mandatario. Nel Governa della Polonia, Rousseau evoca «la stupidità della nazione inglese, che [ha] armato i suoi deputati del potere supremo» (GP, p. IIJ2).
41. Per un tentativo di bilancio su questa questione, cfr. Jaume (r99rl, pp. 57-69. E, in modo più sommario, Jaume (1992-93).
42. Cfr. Philonenko ( r984l, m, p. 65: «TI Contratto sociale ha come prima e principale obiezione il Contratto sociale medesimo. Dovw1que, o almeno nelle nervature più salienti, esso si oppone a se stesso».
43· Progetto di costituzione per la Corsica, trad. it. Alatri (1970), pp. ro8r-r2r.
9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
La differenza con il caso del governo è che, questa volta, Rousseau non concede alcun vantaggio alla rappresentanza: per attenersi al piano strettamente teorico (come nel Contratto sociale) (C m, 15, Dei deputati o rappresentanti), la rappresentanza è radicalmente incompatibile con l'esercizio della sovranità del popolo e l'espressione autentica della volontà generale: «La sovranità non può essere rappresentata per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta affatto: essa è la stessa o è un'altra; non c'è nessuna via di mezzo» (ivi, p. 429). In effetti, l'idea di rappresentare la volontà generale è assurda. Se la volontà generale consiste nella volontà per il soggetto politico di considerare se stesso dal punto di vista di tutti, cioè ricercando il bene di tutti 44, si capisce che nessuno può delegare questo esame ad altri; perché niente potrà garantire che coloro i quali praticheranno questo esame "in nome del popolo" si esamineranno dal punto di vista di tutti, e non dal punto di vista del corpo che essi costituiscono, delle "società parziali" da cui dipendono (i partiti inglesi), degli interessi particolari che ogni corpo, separato dal sovrano, inevitabilmente si attribuisce.
Poiché la volontà generale è presenza a sé, una sorta di "io penso che io penso" alla maniera cartesiana, nessuno la può effettuare per me e senza di me. L'individuo libero non ha rappresentanti 45. La rappresentanza, che tuttavia nei grandi Stati è inevitabile 46, è in pari tempo per Rousseau un'invenzione della feudalità («quel governo iniquo e assurdo in cui la specie umana è degradata e il nome di uomo è in disonore») e una scoperta delle società moderne «che scambiano i servizi personali in denaro» 47; sotto la maschera di liberazione ( togliersi dagli imbarazzi della politica e dalla competenza che essa richiede) la procedura della rappresentanza consiste di fatto nel perde-
44· In questo, la problematica della volontà generale ci sembra differente dal quadro generale della validità formale della legge, come lo evoca Giuseppe Duso per caratterizzare il pensiero moderno della sovranità, e in opposizione all'antica problematica del "governo": cfr. Duso (1992), p. 454·
45. È una formula del filosofo Alain, pensatore critico della politica parlamentare, ma potrebbe essere una formula di Rousseau.
46. Da cui il mandato imperativo raccomandato per la Polonia: «Bisogna che a ciascuna parola che il nunzio [il deputato] pronuncia nella Dieta [!'Assemblea], ad ogni passo che fa, egli si veda in anticipo sotto gli occhi dei suoi costituenti, e che senta l'influenza che avrà il loro giudizio tanto sui suoi progetti di avanzamento, quanto sulla stima dei suoi compatrioti» (GP, p. IJ52 s.).
47· Per queste citazioni: C rrr, 15, risp. p. 802 e p. 8or.
IL POTERE
re la propria libertà (morale e politica), per diventare un essere in pari tempo comandato e ingannato. Il rappresentante saprebbe meglio del rappresentato ciò che bisogna fare 48, ha più tempo per decidere, più intelligenza e dunque più competenza: il rappresentante è il nuovo "sovrano" che, d'altronde, fa della politica una professione 49.
Questo sovrano, dotato della scienza e del potere, detiene il diritto di comandare - anche se non può farlo che tramite l'impersonalità della legge.
9·5 Conclusione
Si potrebbe continuare l'esame del costo elevato pagato dal pensiero di Rousseau allo sradicamento che esso opera sulla sovranità monarchica al fine di fondare la sovranità del popolo. Per esempio, si potrebbe mostrare che la presenza a sé della volontà generale, nel cittadino, comporta un dualismo che oppone crudelmente l'uomo al cittadino, fino alla messa in questione dei diritti dell'uomo che sarebbero atti a sussistere fuori della sfera pubblica: il punto è assai conosciuto 50.
Limitandoci ai due aspetti studiati, si tratta di due aporie capitali che gravano sul pensiero del Contratto sociale: c'è necessariamente bisogno di un governo, ma esso costituisce per definizione il primo pericolo per la sovranità del popolo; c'è necessariamente bisogno di scartare la rappresentazione, ma essa è, negli Stati empiricamente esistenti, un'istituzione di cui non si può fare economia, di cui si può tutt'al più cercare di attenuare la nocività. Il discorso della sovranità del popolo, quando fa la sua entrata in scena tra i moderni, assume, nel suo interprete più esigente, Jean-Jacques Rousseau, un accento tragico. È forse il concetto stesso della sovranità che genera tali impossibilità, fino a quando si cercherà di trapiantarlo fuori dell' orizzonte monarchico? Questo era in ogni caso l'avviso di Montesquieu, autentico fondatore del pensiero liberale.
48. Queste sono le parole di Sieyes, per esempio, il 7 settembre 1789: gli elettori <<nominano dei rappresentanti ben più capaci di loro stessi di conoscere l'interesse generale e d'interpretare a questo riguardo la loro propria volontà» (Archivi parlamentari, prima serie, t. vm, p. 594).
49· Cfr. ancora Sieyes, che chiama a «fare del governo una professione particolare>> (in un opuscolo del 1789).
50. Da parte nostra, ne abbiamo condotto l'analisi in Jaume (r986), pp. 153-6.
9· ROUSSEAU E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ
Vita
Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra il 28 giugno I7I2. Il padre è un artigiano di religione calvinista; la madre muore nel darlo alla luce. Al marzo del I728 risale l'incontro con Madame de Warens, che lo spinge a convertirsi al cattolicesimo. Dopo diverse peregrinazioni, entra in contatto con i phzlosophes di Parigi, e redige alcune voci per l'Encyclopédie. Nel luglio 1750 il Discorso sulle scienze e le arti riceve il primo premio del concorso bandito dall'Accademia di Digione. Tornato a Ginevra (giugno-ottobre I754l, abbraccia nuovamente la confessione calvinista. Al I755 risale la redazione della voce Economia politica per l'Enciclopedia. Nello stesso anno pubblica il Discorso sull'origine della diseguaglianza. Quindi scrive, nel breve volgere di pochi anni, le sue opere capitali: la Nuova Eloisa (I76o), il Contratto sociale (I762l, l'Emzlio (I762). Nello stesso periodo, anche a seguito della sua Lettera a d'Alambert sugli spettacoli (I 7 58), entra in conflitto con gli enciclopedisti. Costretto ad abbandonare la Francia per la condanna delle sue opere, entra in conflitto anche con la Chiesa ginevrina, e rinuncia alla cittadinanza di quella città. A questo periodo risalgono le Lettere scritte dalla montagna (I 766). Dopo un soggiorno in Inghilterra, nel corso del quale entra in lite con l'amico Hume, Rousseau torna in Francia sotto falso nome (maggio I 767). Gli ultimi anni vedono la composizione del Progetto di costituzione per la Corsica (I 768) e delle Conszderazioni sul governo della Polonia (I 772), assieme alle opere di carattere autobiografico, tra cui spiccano le celebri Confessioni. Rousseau muore a Ermenonville, il 2 luglio I 778.
Opere
Per l'edizione originale delle opere politiche di Rousseau citate nel testo, cfr. ].-]. Rousseau, Oeuvres complètes, vol. m, La Pléiade, Gallimard, Paris I964; per l'Emile, cfr. sempre ivi, vol. rv, I969. Le citazioni si riferiscono sempre alle traduzioni italiane citate di seguito, qua e là modificate; ad eccezione del Manoscritto di Ginevra e dell'Emzlto, tutti i rimandi in nota rinviano a: J.-J. Rousseau, Scritti politici, a cura di P. Alatri, UTET, Torino I97o; per quanto riguarda il Manoscrtfto di Ginevra ( = MG), cfr. Scrztti polztici, a cura di E. e M. Garin, Laterza, Roma-Bari I994, n, pp. 3-78; per quanto riguarda l'Emilio, cfr. l'edizione a cura di P. Massimi, Mondadori, Milano I997·
Altre fonti
Per le opere di Bossuet citate nel testo, cfr. invece: Politique tirée des propres paroles de l'Ecriture sainte ( = P), éd. par ]. Le Brun, Droz, Genève I967; Cinquième Avertissement aux protestants (I69o), in: P. Jurieu, Lettres pastorales xvr-xvii-XVIII, r689, suivt'es de la réponse de Bossuet [. .. ] r69o, Bibliothèque de philosophie politique et juridique, Université de Caen, Caen I99I (ristampa parziale di Bossuet, Oeuvres complètes, éd. par F. Lachat, Vivès, Pa-
1 93
IL POTERE
ris 1863, vol. xv). L'edizione originale delle Lettere di Jurieu reca il titolo: Lettres pastorales adressées aux fidèles de France qui gémissent sous la captivité de Babylone, vol. m, Abraham Acher, Rotterdam, s.d. (ma 1689). I riferimenti rinviano, anche in questo caso, alla parziale ristampa nella sopra citata edizione di Caen I 99 I.
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1 95
Parte terza
Costituzione e limitazione del potere
«Fare un patto sociale» - scrive nel maggio 1793 Henry Insard -«significa redigere l'atto per mezzo del quale un certo numero di persone sono d'accordo nel formare un'associazione [ ... ]. Fare una costituzione, al contrario, vuoi dire solamente determinare il modo di governo o l'assetto dei poteri che deve reggere la società che viene formata. L'uno crea la società, l'altro l'organizza».
Questa tensione tra movimento costituente e organizzazione dei poteri costituiti attraversa per intero la Rivoluzione francese. n rapido disgregarsi dell'edificio della vecchia monarchia e della società corporativo-cetuale è già un fatto quando, nell'agosto 1788, vengono convocati, ad interrompere il lungo interregno di gestione assolutista del potere, gli stati generali. Il compromesso che il trono ricerca, allo scopo di stemperare gli effetti di una crisi fiscale insostenibile per la monarchia, è quello tra l'offerta di una serie di riforme, che avrebbero ottenuto di schierare in suo sostegno ampi strati degli ordini e dei ceti, e l'ostinato desiderio di conservazione degli assetti politici e costituzionali dell'Antico Regime. Già nel 1788, pertanto, la contestazione politica delle élites sociali, la cui integrazione negli apparati della monarchia appare farraginosa e sempre più impedita dalle strettoie della costituzione cetuale, inizia a rivendicare il reale peso politico acquisito dal terzo stato a fronte degli ordini della nobiltà e del clero e ad invocare la necessità di una misura, il voto per testa e non per ordine, che sancisse la preminenza dell'individuo sulle organizzazioni cetuali. Il raddoppio della rappresentanza del terzo stato, inoltre, avrebbe garantito - rispetto agli ordini privilegiati ed al piccolo numero di francesi da essi rappresentato - una maggiore equità.
Quando questa proposta, ripresa da Sieyes, diventerà realmente operativa (tra il 17 e il 19 giugno 1789), operativo sarà diventato anche lo "stacco" della Rivoluzione da qualsiasi coinvolgimento con le logiche costituzionali dell'Antico Regime. Autonominatasi "Assemblea nazionale", l'assemblea del terzo stato, facendo valere il portato nu-
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IL POTERE
merico della propria rappresentanza rispetto a quello, ben minore, degli ordini della nobiltà e del clero, rivendica il diritto di «deliberare, senza difficoltà alcuna, per la nazione intera».
Con l'adozione di un principio numerico a denotare la maggioranza dei francesi (rappresentata dai delegati del terzo), ciò che entra drammaticamente in crisi è la topologia qualitativa che assegnava ad ordini e corporazioni un differente "peso specifico" nel quadro costituzionale del regno. A partire da ora il potere costituente della nazione, evocato come unico ed autentico depositario della legittimità, si determina come istanza per la rifondazione completa dello Stato. L'Antico Regime, dopo il costituirsi del terzo stato in Assemblea nazionale, non appare più riformabile, perché in quel passaggio si esprime una tensione costituente che muove dal presupposto che a fronte dei diritti delle donne e degli uomini di Francia non esista ormai organizzazione precostituita di poteri. Il terzo stato organizzato in Assemblea nazionale rifiuta di riformare il quadro costituzionale ereditato dal passato, e si ingegna ad immaginare, per fondarlo, lo Stato del futuro. «Quel decreto» - ebbe a commentare Germaine de Sta el - «era la stessa Rivoluzione».
È questa assenza di legame con un qualsiasi passato costituzionale ciò che marca la differenza della Rivoluzione francese dalle altre grandi rivoluzioni dei secoli xvn e xvrn. La nuova comunità degli americani era infatti una tradizione vivente. Il "mondo nuovo" che essi abitavano - e per l'indipendenza del quale avevano preso le armi contro la madrepatria inglese - era da sempre stato da loro avvertito come qualitativamente differente dalla corruzione della vita politica britannica. Mentre le comunità rivoluzionarie inglesi identificavano se stesse ed il proprio diritto a partire dalla realtà di un patto tradito tra Corona e Parlamento e da un passato immemorabile di imprescrittibili diritti comunitari. Privi di una carta dei diritti che assicurasse loro un passato da restituire a &onte degli eccessi di centralizzazione della monarchia assoluta, i rivoluzionari francesi si attestano sul «presente mitico» in cui viene creata la nuova comunità nazionale, sull'istante che replica il patto sociale '.
È questa pura dinamica costituente ad intessere il vivo presente della Rivoluzione. Non isolabile in un qualsiasi istante del tempo -poiché non c'è un passato, un ordine migliore delle relazioni tra popolo e monarchia, che debba essere restaurato - il contratto sociale che crea la Nation è un processo che della Rivoluzione attraversa tutte le fasi. Liberi individui uguali sono i nuovi cittadini della Nation
I. Hunt (1995"),
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francese. Ad essi spetta di proclamare il quadro dei diritti che si impegneranno reciprocamente a rispettare. A loro spetta di mantenere viva e permanente la tensione istituente del patto che anticipa la messa in moto della macchina costituzionale. Lo spazio della Repubblica si definisce nello spazio costituente in cui sono affermati e riconosciuti, quale presupposto dell'associazione, i diritti di tutti; uomini e donne, poveri "dignitosi" e borghesi, liberi e schiavi. «Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione» 2 •
È questa permanente inclinazione in direzione del diritto naturale anticipato 3 ciò che guida la messa in cantiere di una forma politica che si vorrebbe coerente con l'irriducibile potere costituente dei diritti, e ciò che rappresenta, allo stesso tempo, un ostacolo insormontabile per la definizione di un nuovo, stabile diritto pubblico. Il dramma della Rivoluzione sta anche nella costante difficoltà di pensare uno spazio di composizione giuridica tra la sovranità costituente della nazione ed il sistema dei poteri costituzionali.
L'interiorizzazione del potere costituente rivoluzionario nella macchina dei poteri costituiti procede attraverso la celebrazione tecnica della divisione del lavoro (la rappresentanza) e l'invocazione dell'esorcismo, reiterato in ciascuna delle sue fasi costituenti, che vuole la rivoluzione "finita". All'idea della sovranità del popolo viene, sin dal r 79 r, affiancata quella della libertà di mandato dei suoi delegati, che operano come potere costituito: «Il popolo è sovrano, ma nel governo rappresentativo i suoi rappresentanti sono i suoi tutori; solo i suoi rappresentanti possono agire in suo nome, dato che i suoi interessi sono quasi sempre collegati a verità politiche di cui esso non può avere una conoscenza netta ed approfondita» 4.
È lungo questi binari che l'idea del potere costituente viene progressivamente assorbita nella macchina della rappresentanza. Da motivo originario, onnipotente temporalità del patto, il potere costituente - quasi a mantenerne intatta l'eccezionalità assoluta, il carattere di irredimibile eventualità - viene ridotto a semplice norma di produzione del diritto ed interiorizzato nel sistema dei poteri costituiti. La sua espansività non si manifesterà più che come norma interpretativa, controllo di costituzionalità, revisione costituzionale. La costruzione giuridica dei poteri costituzionali chiude la questione del potere costi-
2. Déclaration des droits de l'homme et du citoyen du 26 aout I789 (art. 2).
3· Gauthier (I992l; Gross (1997). 4· Barnave (1996).
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tuente trasformandolo in potere straordinario e schiacciandolo sull'evento di quel "presente mitico" in cui dalla materialità dell'uguaglianza e del diritto naturale è sorta la Nation 5.
La Costituzione viene così "bloccata", nobilitata come esito dell'intero processo rivoluzionario e come sua autentica conquista. E con essa è espropriato il potere costituente, del quale può essere ora affermata la pericolosità. Come molti altri costituzionalisti dell'epoca rivoluzionaria, Barnave si ingegna proprio a questo scopo ad escogitare procedure per la revisione costituzionale che, muovendo dalla stessa rappresentanza, cancellino <~per sempre dal nostro orizzonte temporale il ricorso periodico a questi poteri costituenti», ora identificati, nelle sue stesse parole, come «i rimedi estremi e necessari per emancipare un popolo oppresso» 6 .
La libertà non coincide con la pratica rivoluzionaria. Essa consiste piuttosto di un sistema di poteri che garantiscano le conquiste rivoluzionarie (ridotte ai diritti politici e non più estendibili, dopo la sconfitta giacobina, ai diritti sociali) e che permettano la rifondazione della macchina dello Stato. La "rigenerazione" del sistema viene ora fatta passare attraverso l'edificazione di una macchina costituzionale che "fissi" i principi e le regole del gioco politico e che espella per sempre l'eversività potenziale del potere costituente. Il dinamismo stesso del sistema sarà assicurato da procedure di revisione della costituzione giuridicamente regolate 7. Una «libertà costituzionale assicurata stabilmente da deliberazioni pubbliche e dall'introduzione di poteri statali !imitantisi reciprocamente» 8 - secondo l'idea che costituzione vi sia soltanto laddove esista separazione dei poteri e garanzia di pubblicità, come già previsto dall'art. I 6 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 9 - preserverà per sempre il popolo dall'inquietante ritorno (sempre possibile, giacché in esso dimora la sovranità della nazione) del potere costituente.
È in questa direzione che, in specie dopo il Termidoro, quando si tratterà di difendere i "principi" del 1789 dalla montante reazione filomonarchica, il problema verrà definitivamente risolto. Il dibattito si sposterà sulla questione dell'organizzazione dei poteri e sull' equilibrio costituzionale da prodursi tra di essi. Il paradosso del potere costituente lo avrà già sciolto l'esito drammatico della fase giacobina.
5· Negri (199ol. 6. Barnave (1996), p. 17. 7· Colombo (1993). 8. Barnave ( 1996), p. 19. 9· Troper (r98ol.
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COSTITUZIONE E LIMITAZIONE DEL POTERE
Il tentativo di sciogliere il "male" del potere nella pura antologia della democrazia costituente si risolve nel Terrore istituito dal "despotismo della libertà". Feroce, proprio perché ultimativo. Ai giacobini condotti al patibolo tocca in sorte di scontare le parole dello stesso Saint-Just, per il quale era evidente non si potesse «regnare senza colpa». Il mutismo dello stesso Saint-Just, che non proferirà più parola a partire dal suo arresto, coincide con l'afasia della verità democratica, riassorbita dalle istituzioni del potere e neutralizzata in termini giuridico-istituzionali.
A partire dallo scacco dell'esperienza giacobina - e dalla contraddizione di una riappropriazione "popolare" del potere monarchico che approda specularmente ad una tirannia - il sistema delle libertà coinciderà con lo spazio pubblico della costituzione e con il meccanismo delle garanzie costituzionali. Ad esso verrà affidato il compito di inverare l'eredità costituente della Rivoluzione, rendendone infine irrinunciabili i principi.
SANDRO CHIGNOLA
Rt/erimenti bibliografici
Pur rimandando agli apparati bibliografici dei singoli capitoli, si indicano qui alcuni testi che, per rilevanza o ampiezza di spettro problematico, sono da tenere presenti per l'insieme dei temi affrontati nella presente sezione.
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IL POTERE
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IO
Rivoluzione e costituzione del potere di Giuseppe Duso
IO. l
La rivoluzione e i concetti del diritto naturale
Il periodo della Rivoluzione francese costituisce un momento privilegiato per intendere l'intreccio della moderna scienza politica con i processi costituzionali dello Stato moderno. Il termine di costituzione viene a prendere il significato, che si diffonderà nell'età contemporanea, di carta costituzionale, finalizzata a delineare l'organizzazione dello Stato e a stabilire i principi delimitanti il potere a tutela dei diritti dei cittadini. Come nel caso del giusnaturalismo tuttavia, anche qui, un compito di limitazione del potere risulta parziale, perché non può non implicare il problema della sua fondazione, della sua legittimazione. Si può allora notare come tutto lo strumentario del diritto naturale moderno venga ad essere utilizzato, abbia cioè un impatto nella forma costituzionale dello Stato. Non solo, ma nel periodo della Rivoluzione si assiste anche al diffondersi e al divenire patrimonio comune di tutti quei concetti fondamentali che si erano formati nel laboratorio teorico della scienza del diritto naturale. Ciò non significa che la teoria abbia prodotto il movimento rivoluzionario e lo Stato contemporaneo, ma certo che senza i concetti politici in essa elaborati non è comprensibile il passaggio da quella realtà che, nel periodo rivoluzionario, si comincia ad indicare come ancien régime alla moderna costituzione dello Stato. I concetti risultano qui indicatori dei processi costituzionali e nello stesso tempo anche forze propulsive degli stessi. All'altezza del compito di produrre la costituzione dello Stato, una costituzione che è legittima in quanto individua nella totalità del popolo il soggetto della sovranità, si può verificare la logica della costruzione del diritto naturale e si può comprendere come in essa sostanzialmente venga a sparire l'antico diritto di resistenza. L'apparato concettuale del giusnaturalismo può esercitare un'opposizione ad un potere storicamente esistente considerato irregolare e illegittimo ma,
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IL POTERE
qualora costituisca l'armamentario per la "giusta" costituzione dello Stato, toglie la possibilità della resistenza dei singoli cittadini, proprio perché il potere costituito è illegittimo potere di tutto il corpo politico e dunque di tutti in quanto parte di esso.
Questo ricadere dei concetti della @osofia politica moderna sulla realtà costituzionale e, ancor prima, sul senso e sul linguaggio comune, è ben evidenziato da Sieyes, che, anticipando le critiche al razionalismo e all'astrattezza filosofica che caratterizzerebbe la Rivoluzione francese, nel 1789 già indicava come stessero diventando insieme patrimonio comune e realtà una serie di idee che al loro apparire erano state liquidate come "metafisica": che fosse cioè da dare una costituzione alla Francia; che il potere legislativo appartenesse alla nazione e non al re; che i deputati degli stati fossero veri rappresentanti; che si distinguesse un potere costituente da uno costituito; che i cittadini fossero uguali e depositari degli stessi diritti. Ciò accade, dice Sieyes, a tutte le verità razionali che si affermano nell'ambito pratico: prima sono avversate come astratte e rifiutate, e poi finiscono per alimentare l'insieme delle idee comuni e diventano semplicemente "il buon senso"'.
Ciò vale a buon diritto per i principi che vengono espressi nella famosa Dichiarazione dei diritti dell'uomo 2 • Essa è un indicatore di quanto si sia diffusa l'idea che gli uomini sono uguali ed hanno uguali diritti e di come sulla base di tali diritti si debba organizzare la convivenza politica degli uomini. La dichiarazione dei diritti, pur intendendo essere un proclama universale per tutti valido, in realtà è la premessa alla costituzione, cioè al formarsi di una società politica specifica, con un suo potere 3. Nella stessa dichiarazione è presente l'elemento del potere, poiché il diritto fondamentale della libertà sta alla base della proclamazione della legge e di una forza pubblica che sola appare garantire i diritti.
La centralità del concetto di libertà conferisce anche un significato nuovo allo stesso termine di "rivoluzione", che non è più collegabile a ciò che la parola prima indicava sulla base del suo stesso etimo - cioè moto circolare, che ritorna su se stesso - ma è comprensibile in relazione all'instaurazione di un ordine nuovo, e dunque in rela-
r. J. E. Sieyes, Preliminari della costituzione. Riconoscimento ed esposizione ragiona· ta dei diritti dell'uomo e del cittadino. Letto zl 20 e 2I luglio I789 al comitato di costituzione dall'abate Sieyes, in Sieyes (1993), r, pp. 377 ss. (d'ora in poi OTP).
2. Cfr. Les Déclarations des droits de l'homme, éd. par. L. Jaume, Flammarion, Paris 1989.
3· Cfr. su ciò Hofmann (1991).
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IO. RIVOLUZIONE E COSTITUZIONE DEL POTERE
zione ad una filosofia della storia, con la sua idea di evoluzione e di emancipazione 4. La parola non è più semplice descrizione di avvenimenti, ma indica un compito da realizzare e un insieme di idee e principi nei confronti dei quali decidere la propria collocazione culturale e politica. Concetto centrale e determinante il senso della rivoluzione è quello di libertà: la rivoluzione è il processo di liberazione dalle pastoie del potere esistente e dalla cristallizzazione dei diversi diritti e privilegi.
E la libertà costituisce la base della Dichiarazione dei diritti. Non si tratta più delle diverse libertà che erano continuamente invocate nelle lotte politiche del xvn1 secolo contro la minaccia dell'assolutismo, cioè le franchigie, le immunità e i privilegi propri di comuni, ordini, università e corpi. È da tener presente che, sino alla Rivoluzione, sia la realtà politica, sia il modo diffuso di pensare la politica non sono caratterizzati dai concetti unitari e omogenei della scienza del diritto naturale, ma sono segnati da una realtà complessa, che riguarda diritti e poteri. È nel periodo della Rivoluzione che si diffonde quell'idea di libertà che aveva fatto la sua comparsa già nella filosofia politica del Seicento e che comporta la sua attribuzione a tutti gli individui ugualmente, al di là della millenaria dottrina che pensava come liberi alcuni uomini, grazie alla non libertà di tutti coloro che, con il loro lavoro, liberavano i primi dai bisogni e dalle occupazioni a questi connesse, rendendoli così disponibili alla vita politica. Un concetto di libertà inteso come indipendenza, o dipendenza di tutti dalla propria volontà, libera appunto di esprimersi in ogni direzione, con il solo limite di non nuocere agli altri. Questo limite è quello che la legge determina, legge in cui consiste il comando del corpo politico che si deve costituire. Ma se la legge, con l'obbligazione politica che da essa deriva, si basa sulla libertà ed è ad essa funzionale, la sua produzione deve essere segnata dall'autonomia della volontà: per essere libero cioè il popolo deve obbedire solo alla legge che esso stesso si è dato. Questa, d'ora in avanti, diventa una verità indiscussa, e il problema riguarda solo il modo in cui il popolo può dare a se stesso la legge: determinare questo modo è appunto il compito della costituzione dello Stato.
Se tale principio della libertà sta alla base della nuova organizzazione della società, ben si comprende come cambino tutti i concetti che denotano la sfera politica. La convocazione degli Stati generali
4- Cfr. Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in Koselleck (1979), sp. p. 63. Su ciò si veda anche la voce Revolution nei GG (la responsabilità della quale è attribuibile soprattutto a Koselleck) e Griewank (I 9 55).
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IL POTERE
del 1789 sta a ricordare che lo Stato è organizzato per stati, la partecipazione politica dei quali è legata alle loro specificità e differenze: accanto ai nobili e al clero vi è il terzo stato, organizzato nei comuni, nei borghi e nelle città, a seconda dei corpi e delle associazioni che lo costituiscono. Ma ora emerge un modo totalmente nuovo di intendere la politica, e nel celebre proclama delle nuove idee, che è il discorso su Che cos'è zl terzo stato? di Sieyes 5, la stessa realtà che sta alla base della proclamazione degli Stati generali mostra di essere destituita di razionalità e legittimità. Uguaglianza e libertà, le idee che si stanno affermando, non possono che determinare un popolo omogeneo, una nazione, in cui non ci sono più privilegi né differenze, se non quelle sociali, legate alla divisione del lavoro, che sono funzionali all'utilità comune. Non ci sono più allora ceti, stati diversi, ma la rivendicazione del terzo stato diviene l'affermazione di un unico Stato in cui tutti sono uguali. Il terzo stato, che coincide con la nazione intera, si fa Stato, ma in questo modo perde totalmente di senso politico l'antica parola di stato, perdono di significato ordini, ceti e tutto ciò che caratterizzava le diversità nella convivenza politica degli uomini.
10.2
La costituzione tra rappresentanza e potere costituente
La società politica francese risulta allora costituita in modo ingiusto e non ci si può basare sui diritti e i privilegi che caratterizzavano l'ancien régime, come pure sull'attribuzione al monarca del potere di fare le leggi. Lo Stato deve essere fondato su una base razionale e su princìpi giusti, deve essere costituzto e per questo compito emerge un soggetto costituente, per il quale non si può non trovare un riferimento nel pensiero di Rousseau. È questa società produttiva composta di uguali, dunque l'intera nazione, che ha tale compito costituente, quello in cui emerge il popolo come vero sovrano, dotato del potere assoluto: «essa preesiste a tutto, è l'origine di tutto». Solo il popolo può dettare leggi a se stesso, può costituire lo Stato. Il potere, di cui la nazione è dotata, non è limitato né !imitabile da chicchessia. Non c'è costituzione, non c'è forma civile che vincoli tale realtà della nazione: essa è all'origine di ogni forma «e basta che la sua volontà si manifesti perché ogni diritto positivo venga meno di fronte ad essa che è fonte ed arbitro supremo di ogni diritto positivo» (Sieyes, OTP, pp. 2 55-8). Lo Stato, razionalmente fondato secondo i principi
5· Sieyes (1993), Che cos'è zl terzo stato, in OTP.
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IO. RIVOLUZIONE E COSTITUZIONE DEL POTERE
razionali e legittimato dalla volontà di tutti, diviene la fonte unica del diritto al suo interno.
Se il compito nuovo è dunque, per la Francia, quello di darsi una costituzione, emerge il soggetto che unico può assolvere a questo compito: la nazione come totalità di individui uguali, come realtà che, presupponendo solo il diritto di natura, elimina tutte le differenze esistenti e cristallizzate nel tempo. La situazione non è più solo quella teorica propria dello scenario del contratto sociale: si tratta nella realtà storica di dare costituzione ad una società politica; e con il problema della costituzione si presenta anche il problema del potere costituente. Sieyes distingue il potere costituente da quello costituito: c'è organizzazione politica in quanto c'è un potere che, come si vedrà, è articolato o diviso, ma tale potere costituito non può essere costituente. Il depositario di quest'ultimo può essere solo la nazione, il popolo intero. Viene in tal modo ripresa l'idea del corpo politico sovrano di Rousseau, ma in un contesto in cui si parla di «volontà generale rappresentativa», un contesto cioè che passa attraverso la necessità della rappresentanza, non solo al livello del potere costituito, ma anche al livello più alto del potere costituente, dal momento che il popolo per esprimersi ha bisogno pur sempre di un nucleo di persone, dell'Assemblea costituente appunto.
Che cambi radicalmente il modo di intendere la politica lo si può verificare attraverso il mutamento della rappresentanza come modo di organizzazione dello Stato. La convocazione degli Stati generali avviene in un contesto in cui il monarca ha sue prerogative, la sua funzione di governo, il potere di fare le leggi, mentre la società è divisa in ordini, che si rappresentano di fronte a lui, che esprimono esigenze e bisogni, la cui rappresentazione si basa su un preciso mandato, cioè su una volontà determinata ed espressa dalla cerchia di cui il rappresentante è tale. L'unità dello Stato è incarnata dal re, che resta una superiore istanza di fronte ai rappresentanti degli stati. La prima richiesta avanzata dal terzo stato, di avere aumentata la sua rappresentanza, affinché essa non sia numericamente inferiore a quella degli altri due stati uniti, risulta subito insufficiente e inadeguata in rapporto alla considerazione che il terzo stato fa riferimento alla quasi totalità della nazione (venticinque milioni di cittadini di fronte ai duecentomila membri di nobiltà e clero, dice Sieyes), e che la rappresentanza dei primi due stati si basa sui privilegi. La sua rappresentanza diventa allora l'unica rappresentanza nello e dello Stato.
I concetti ormai diffusi di uguaglianza e libertà, che è propria di tutti gli uomini e non è più legata ai privilegi, comportano la caduta del riferimento agli stati e alla loro rappresentanza, così come del ri-
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IL POTERE
ferimento alla superiorità dell'istanza del re, a cui si rivolgeva un tipo di rappresentanza di origine feudale. Se scompaiono gli stati privilegiati scompaiono gli stati come tali, e la rappresentanza, su base egualitaria (anche se con l'elemento discriminante del censo per l'elettorato attivo) diviene il modo di espressione dell'unica volontà della nazione. Non si tratta più di rappresentare parti della società o bisogni particolari di fronte al governo, ma piuttosto di dare forma alla volontà sovrana della nazione cioè all'unità politica. La funzione fondamentale che ha la legge come espressione della sovranità della nazione richiede che il popolo sia soggetto alla legge che egli stesso si è dato: egli è dunque depositario del potere legislativo e la rappresentazione è il meccanismo che permette di intendere sia il modo di espressione della volontà generale, sia la fonte di legittimazione del comando, che sta nell'espressione della volontà di tutti, nell'atto di elezione dei rappresentanti. Non c'è più una pluralità di istanze, ma il potere, attraverso la rappresentanza, diviene il potere di tutti, in quanto tutti costituiscono il corpo politico.
Si manifesta in tal modo la differenza radicale tra la rappresentanza che si sta affermando e la precedente rappresentanza per stati, ordini o ceti. Mentre in quest'ultima è ancora presente la figura del mandato imperativo, cioè di una volontà determinata ed espressa a cui i rappresentanti sono vincolati, a partire dalla costituzione del 1791, quando cioè attraverso il Parlamento si rappresenta la volontà unitaria di tutta la nazione, non c'è più un mandato vincolante, in quanto non è espressa una volontà determinata che il deputato deve rappresentare presso un'istanza superiore, ma la volontà generale piuttosto prende /orma, viene cioè prodotta dall'assemblea dei rappresentanti. L'elezione, allora, non esprime contenuti della volontà propria degli elettori, ma solo l'indicazione di colui o coloro che esprimeranno per loro la volontà di tutta la nazione: ha dunque il senso del vincolarsi da parte di tutti alle future deliberazioni dell'assemblea legislativa. Emerge qui quel concetto di rappresentanza dell'unità politica che aveva fatto la sua comparsa nel Leviatano di Hobbes, secondo cui tutti si dichiarano autori delle azioni che l'attore (il sovrano rappresentante in Hobbes, ora i rappresentanti del popolo sovrano) compirà 6 • D'ora in poi, nelle costituzioni, il potere sarà sempre fondato dal basso, in quanto non c'è rappresentanza se non attraverso l'elezione, un suffragio che si estenderà fino a divenire suffragio universale; tuttavia, essendo la volontà comune, che diviene legge, pro-
6. Sul rapporto tra la rappresentanza che si instaura con la Rivoluzione francese e il concetto hobbesiano di rappresentanza, cfr. Jaume (r986).
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IO. RIVOLUZIONE E COSTITUZIONE DEL POTERE
dotta dai rappresentanti, la legge, come comando determinato, viene dall'alto e richiede ubbidienza, in ragione della forma politica che per volontà di tutti si è costituita.
La logica che sorregge la costituzione dello Stato richiede anche che non ci siano più ordini, associazioni, aggregazioni e gruppi dotati di significato politico, perché ciò contrasterebbe con l'espressione dell'unica volontà del popolo, permetterebbe a volontà private di costituire forze pericolose per l'uguaglianza dei cittadini, facendo passare per volontà generale quella che è solo volontà di un gruppo, per interesse generale l'interesse particolare di alcuni. Affinché ci sia giusta costituzione, che realizzi uguaglianza e libertà, è necessario impedire la rappresentanza di interessi di gruppi e di associazioni; bisogna cioè vietare il costituirsi di forze che possano avere il sopravvento esercitando dominio sui cittadini. Solo la forza immane e senza resistenza di tutta la nazione può mantenere i cittadini liberi e uguali: allora, entrando nella società politica, l'individuo non sacrifica una parte della libertà che ha per natura ma, al contrario, solo in essa -grazie alla sottomissione che essa comporta - può godere di quella libertà che risulta assai precaria quando, in assenza del potere politico, è garantita solo dalla forza limitata dei singoli individui 7.
T al e natura della rappresentanza è ben espressa da Sieyes, quando afferma che solo l'interesse comune e quello individuale, personale, possono essere rappresentati (OTP, pp. 277-8). Non solo infatti si può dire che l'interesse personale, a causa del quale ciascuno si isola, curandosi di se stesso, non è pericoloso per l'interesse comune - come l'abate francese afferma, esprimendo l'aspetto di isolamento e l'individualismo propri della società moderna - ma, con maggiore radicalità, è da riconoscere che interesse comune e interesse individuale sono due lati della stessa costruzione, in quanto l'interesse comune altro non è che la difesa dello spazio privato, che consente ad ognuno di perseguire il proprio interesse e ciò che intende come proprio bene. Non è invece rappresentabile l'interesse di corpo, che unifica le forze di più individui rendendoli pericolosi per la comunità 8 • Si cala così nella temperie che dà luogo alla costituzione quella logica dell'unità politica già emersa con Hobbes e con Rousseau, i quali, in modo diverso, vengono a riconoscere nei corpi e nelle associazioni un
7· Cfr. Sieyes, Preliminari, in OTP, p. 385. 8. Nella direzione dell'eliminazione di ogni mediazione tra individui e volontà
della nazione e del conseguente divieto di organizzazione e rappresentanza dei corpi particolari, di contro all'antico ordine delle corporazioni, è significativa la legge Le Chapellier del 1791.
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IL POTERE
pericolo e un elemento di corruzione dell'unità, della razionalità e della regolarità del corpo politico.
Nei primi anni della Rivoluzione si affermerà questa logica della rappresentanza, destino del moderno significato della democrazia, anche se non senza tensioni e lotte, soprattutto da parte di coloro che, come i giacobini, intendono far rivivere la volontà vera del popolo al di là della mediazione rappresentativa. Il discorso giacobino, riarticolando non sempre linearmente la proposizione di Rousseau sulla irrappresentabilità della volontà generale, oppone all'idea che i rappresentanti della nazione riuniti nel corpo legislativo siano le uniche legittime voci del popolo, la convinzione che quest'ultimo sia immediatamente presente grazie alla virtù che fonde assieme le qualità dei singoli. Sopprimendo la distanza tra uomo e cittadino e attraverso la progressiva politicizzazione dell'opinione pubblica, il cittadino virtuoso diviene colui che rappresenta la virtù collettiva, rendendo allo stesso tempo continuamente attuali i principi della rivoluzione. La comunità virtuosa esprime così la soluzione trascendentale grazie alla quale vengono annullate - anche violentemente - le differenze politiche e sociali tra i singoli, venendo esse percepite come inaccettabili disuguaglianze e quindi come volontari delitti perpetrati contro la sostanza omogenea del popolo.
La dialettica tra l'espressione della volontà del popolo attraverso l'assemblea rappresentativa, costituzionalmente determinata, e la sua manifestazione immediata in quanto soggetto superiore ad ogni costituzione, si riproporrà anche in seguito nella vita politica e nella storia delle costituzioni, ogni qualvolta si cercherà la via per fare emergere, in forma quanto più possibile immediata, la volontà sovrana del popolo. Ma anche un'altra dialettica comincerà a partire dalla rivoluzione, quella cioè dello scarto tra la volontà prodotta dai rappresentanti e la volontà del popolo, che, avendo un carattere ideale, può sempre essere evocata contro il potere costituito. Ciò porterà non solo al movimento critico dell'opinione pubblica nei confronti del potere costituito 9, ma anche al tentativo di dominare e formare l'opinione pubblica e alla lotta moderna dei partiti per occupare lo spazio della determinazione della volontà generale.
Ma, se si indica il legame esistente tra i concetti che si formano nell'ambito della scienza del diritto naturale e quelli che informano la teoria dello Stato e della costituzione a partire dalla Rivoluzione francese, e si riconoscono la forza e la irresistibilità del potere, inteso come sovranità del popolo, nella duplice accezione del potere costi-
9· Cfr. Habermas (1974').
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tuente e del potere costituito, il pericolo che immediatamente si presenta è quello della possibilità dell'abuso da parte dei rappresentanti e del governo di un così grande potere, che non ha i bilanciamenti tipici di un contesto cetuale. Perciò il problema che si pone è quello del controllo di questo potere e della sua limitazione, problema che è posto esplicitamente nel dibattito costituzionale, e che implica innanzitutto quel principio della divisione dei poteri che appare essenziale per una giusta costituzione.
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Oltre alla bibliografia citata alla fine della introduzione alla Parte terza, si indicano qui alcuni testi da tenere particolarmente presenti.
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2II
II
I limiti del potere: il contributo francese ,,
di Mauro Barberis
Un vecchio luogo comune pretende che liberalismo e costituzionalismo - ovvero, rispettivamente, teoria e prassi della limitazione del potere r - vengano dall'Inghilterra: il contributo continentale, e segnatamente francese-rivoluzionario, sarebbe infatti o puramente negativo, come nel caso di Emmanuel-Joseph Sieyes, o largamente tributario della tradizione inglese, come nel caso di Montesquieu, Benjamin Constant e madame de Stael. Nel nostro secolo, questo luogo comune è stato in qualche modo sistematizzato da Friedrich August von Hayek: il quale, pur utilizzando allo scopo diverse opposizioni concettuali - vero e falso individualismo, tradizioni inglese e francese, evoluzionismo e costruttivismo - ha sempre cercato di accreditare l'idea che liberalismo e costituzionalismo pensino in inglese, anche quando in realtà parlano in francese 2 •
Ogni luogo comune, si dice, contiene almeno un grano di verità; alle dicotomie proposte da Hayek va poi dato atto, quantomeno, di · catturare effettivamente alcuni tratti distintivi delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e francese. Il luogo comune in questione, peraltro, ha almeno due gravi difetti, uno generale e uno particolare. Il difetto generale consiste ovviamente nel sotto-
* Le traduzioni italiane presenti nel testo sono di chi scrive. I. Per questa duplice caratterizzazione devo rinviare a Barberis ( I989l. Sull'In
ghilterra come «patria del costituzionalismo» e al contempo «paese che peggio lo difende e lo definisce», cfr. Sartori ( I 98 7), p. II; sull' «inscindibile nesso fra liberalismo e costituzionalismo>>, cfr. Matteucci (I976l, p. 2I5.
2. Cfr. rispettivamente Hayek ( I 946); Hayek (I 960), specie pp. 54 -70; Hayek (I973l, specie pp. 8-34. In Hayek (I96o), p. 56, si legge anzi che «Frenchmen like Montesquieu and, later, Benjamin Constant and, above ali, Alexis de Tocqueville, are probably nearer to what we have called the "British" than the "French" tradition». Poiché peraltro autori inglesi come Hobbes e Bentham appaiono talvolta più vicini alla tradizione francese, in Hayek (I973l verrà abbandonato qualsiasi riferimento di carattere nazionale.
2!3
IL POTERE
valutare il contributo francese-rivoluzionario al liberalismo e al costituzionalismo; il difetto particolare consiste nell'occultare la derivazione francese-rivoluzionaria di alcune delle dottrine oggi considerate liberali e/o costituzionalistiche per antonomasia, quali quelle di Constant e di madame de Stael. Qui di seguito si cercherà di rimediare soprattutto al secondo difetto, anche se con un occhio rivolto al primo.
N el PAR. I r. I, dedicato al pensiero francese da Montesquieu a Sieyes, si delineeranno tre tratti distintivi delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente francese e inglese, ricorrendo all' opposizione hayekiana fra evoluzionismo e costruttivismo: opposizione che si rivela suscettibile di impieghi ben diversi da quelli per cui è stata forgiata dal suo autore. Nei paragrafi successivi invece si applicheranno i tre tratti distintivi individuati nel paragrafo precedente al costituzionalismo liberale di Constant e di madame de Stael: cercando di mostrare come, in entrambe le fasi nelle quali può dividersi la loro produzione politica - quella repubblicana, cui sarà dedicato il PAR. 1 1.2, ma anche quella monarchica, cui sarà dedicata il PAR. I r. 3 - essi prendano le distanze dalla tradizione inglese, e s'inscrivano piuttosto nella tradizione francese.
II. I
Tra Francia e Inghilterra
Nel delineare i caratteri distintivi delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e francese, si partirà dall'ipotesi che liberalismo e costituzionalismo siano posizioni (non esclusivamente, ma certo) tipicamente moderne; che le due tradizioni in questione, anzi, costituiscano altrettante varianti di ciò cui spesso si allude in termini di modernità politica. La locuzione "modernità politica", certo, non si presta a definizioni univoche; agli scopi di questo lavoro, peraltro, si assumerà che essa designi una concezione del potere e/ o delle istituzioni come risultato dell'azione umana mirante alla massimizzazione del self interest: concezione notoriamente già reperibile in Hobbes, ma che oggi costituisce il perno di quell'analisi economica della politica che ha dominato il dibattito politologico degli anni Settanta e Ottanta 3.
Le tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese
3· In questa sede si possono solo menzionare alcune opere rappresentatative di tale approccio, come Downs (r957l; Buchanan, Tullock (r962l; Brennan, Buchanan (I985).
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I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
e francese-rivoluzionaria, ricostruite in base all'opposizione evoluzionismo/costruttivismo, si lasciano appunto leggere come due possibili declinazioni della modernità politica: come altrettante versioni della concezione del potere come risultato dell'azione umana autointeressata. Qui di seguito si fornirà una presentazione di tali tradizioni che è - oltreché schematica - anche ingannevolmente simmetrica: occorrerebbe sempre ricordare infatti che le due tradizioni sono non solo cronologicamente sfalsate, ma anche diversamente rapportate alla modernità. In particolare, la tradizione inglese pretende di svilupparsi senza soluzioni di continuità a partire dal costituzionalismo medievale, mentre la tradizione francese-rivoluzionaria vorrebbe rompere completamente con il passato 4.
Per la tradizione evoluzionistica inglese o meglio britannica (inglese e scozzese), il potere è - anche e soprattutto - un prodotto dell'azione umana inintenzionale: i migliori esempi di istituzioni spontanee (evolutesi spontaneamente), accanto al linguaggio, al mercato e alla moneta, sono proprio la common law e la costituzione inglese, considerate entrambe come prodotti inintenzionali di azioni umane intenzionalmente rivolte ad altri scopi. Per la tradizione costruttivistica francese-rivoluzionaria, invece, il potere è - o dovrebbe essere - il prodotto dell'azione umana intenzionale: i migliori esempi di istituzioni costruite (consapevolmente progettate) sono appunto il diritto legislativo e le varie costituzioni postrivoluzionarie francesi, considerati come risultati di azioni umane intenzionalmente rivolte a produrli.
In questo paragrafo, i tratti caratteristici delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e francese verrano schematizzati in tre opposizioni concettuali, che nei paragrafi successivi ci serviranno poi da criteri distintivi per ricondurre all'una o all'altra tradizione il costituzionalismo liberale di Constant e di madame de Stael. Le tre opposizioni sono tutte riconducibili alla modernità politica, ovvero alla concezione del potere come risultato - inintenzionale o intenzionale - dell'azione umana autointeressata. La prima opposizione, infatti, riguarda lo stesso carattere spontaneo o costruito delle costituzioni; la seconda attiene al carattere corporativo o individuale degli interessi ammessi al gioco costituzionale; la terza vette sul carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata. r. Per la tradizione inglese, come si è anticipato, le costituzioni han-
4· Cfr. Galli ( 1996), specie pp. 58-9, n. 6. Sulla difficoltà di concepire un costituzionalismo liberale tedesco, cfr. almeno Fioravanti ( 1979), specie p. 368.
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IL POTERE
no carattere spontaneo, per la tradizione francese carattere costruito. N ella tradizione inglese, in particolare, si parla di una sola costituzione, che la Gloriosa Rivoluzione del I688-89 si sarebbe limitata a fissare definitivamente, e che originerebbe spontaneamente dal conflitto di interessi sociali e politici, attraverso un meccanismo non identico ma comparabile alla mano invisibile teorizzata da Adam Smith. Quest'ultimo, in una sezione della Theory of Mora! Sentiments ( 1759), ipotizza che gli individui, perseguendo intenzionalmente il proprio interesse, producano inintenzionalmente l'interesse generale, in un modo che l'autore stesso paragona all'operare della Divina Provvidenza. Orbene, un meccanismo analogo è intravisto, da teorici sia inglesi sia continentali, nella costituzione inglese.
Che la costituzione britannica non sia stata fabbricata da alcuno, ma si sia evoluta spontaneamente, è idea che non si ritrova solo in scrittori sei-settecenteschi come Edward Coke, William Blackstone ed Edmund Burke~ ma che viene ammessa, sia pure a denti stretti, anche da studiosi ottocenteschi di ascendenza benthamiana, come John Austin e Albert V. Dicey. È però soprattutto in scrittori continentali come Montesquieu e de Lolme che il meccanismo operante nella costituzione inglese si configura come una sorta di mano invisibile istituzionale. In particolare Montesquieu - l'autore che ha fornito lessico e temi all'illuminismo francese, e che ha influito sulla stessa costituzione americana - accenna a un meccanismo del genere già nelle pagine dedicate dall'Esprit des lois (I748: d'ora in poi EDL) all'onore come principio della monarchia.
Scrive infatti Montesquieu: «l'onore fa muovere tutte le parti del corpo politico; esso le lega per mezzo della sua stessa azione: e succede che ognuno vada verso il bene comune credendo di andare verso i propri interessi particolari» (EDL, t. I, p. I49). Ma la mano invisibile istituzionale gioca un ruolo importante anche nel libro undicesimo, in cui si trova il famoso capitolo sesto dedicato alla costituzione inglese. Montesquieu formula anzitutto quello che diventerà un autentico punto di non ritorno del costituzionalismo liberale, ovvero l'idea che il potere tenda per sua natura a diventare abusivo: «È una esperienza eterna che ogni uomo fornito di potere sia portato ad abusarne; egli si spinge sino a dove non trova dei limiti L .. l Perché non si possa abusare del potere occorre dunque che, per la stessa disposizione delle cose, il potere arresti il potere» (EDL, t. I, p. 293).
Com'è noto, il libro undicesimo è il luogo classico della teoria della separazione dei poteri: espressione che peraltro non deve la sua fortuna a Montesquieu ma all'articolo I 6 della costituzione del I 79 I,
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I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
per il quale «ogni società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti, e non sia fissata la separazione dei poteri, è priva di costituzione». In base a tale teoria, ogni regime politico consterebbe di tre poteri (il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario) che andrebbero affidati a organi rigorosamente distinti: situazione che peraltro non si verifica nella costituzione inglese raffigurata da Montesquieu, in cui sia i due poteri strettamente politici (l'esecutivo e il legislativo), sia il giudiziario, potere considerato politicamente nullo, sono in realtà amministrati da organi fittamente intrecciati fra loro 5.
Il fatto è che, com'era chiarissimo già a Cari Schmitt, la costituzione inglese raffigurata da Montesquieu garantisce la libertà dei cittadini non tanto tramite la separazione, quanto attraverso il bilanciamento dei poteri 6 • Si pensi ai tre organi che congiuntamente formano il sovrano inglese (il cosiddetto King in Parliament) e altrettanto congiuntamente esercitano la funzione legislativa: ovvero il monarca, la Camera dei Lord, espressione del clero e della nobiltà, la Camera dei Comuni, espressione dei ceti non privilegiati. Ognuno di tali organi tende spontaneamente ad accrescere il proprio potere; così facendo, peraltro, finisce per scontrarsi con la tendenza uguale e contraria degli altri, innescando quel meccanismo di pesi e contrappesi che garantirebbe la libertà degli inglesi (cfr. ancora EDL, t. I, p. 302).
Ora, se fu la teoria della separazione dei poteri ad avere un' enorme influenza sulle formulazioni costituzionali successive, a partire da quelle americane e francesi-rivoluzionarie, è invece la teoria del bilanciamento fra i poteri a spiegare l'accoglienza ricevuta in Francia dal modello inglese. Come ha mostrato un importante filone della critica montesquiviana - che peraltro si è limitato a riprendere opinioni correnti nel tardo illuminismo francese - Montesquieu non differisce dagli altri scrittori illuministi solo per la sua sostanziale estraneità alle tematiche giusnaturalistiche e contrattualistiche, ma soprattutto per la sua appartenenza a una tradizione aristocratica e antiassolutistica tipicamente francese, ostile alla centralizzazione e favorevole alla rivitalizzazione dei corpi intermedi fra l'individuo e lo Stato 7.
Ora, benché Montesquieu non possa certo ridursi a tale tradizio-
5. Cfr. Eisenmann (I 9 3 3), Eisenmann (I 9 52) e, su entrambi, il commento di Troper (I985l.
6. Cfr. Schmitt (I928), pp. 244-9. 7· Si possono citare in particolare: A!thusser ( I959) e Tarello ( I976l, pp. 262-
8. Molte delle forzature di questa interpretazione sono state corrette nella quinta parte di Todorov (I989l.
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IL POTERE
ne, è però vero che l'accoglienza prima tiepida, poi ostile, ricevuta dalla sua teoria della costituzione inglese negli ambienti dell'illuminismo francese sarebbe difficilmente comprensibile ove si ignorassero i significati politici fondamentalmente retrogradi che a questa furono attribuiti. Nel bicameralismo - per citare solo l'aspetto della costituzione inglese che verrà più contestato in Francia- spesso non si vide nient'altro che il tentativo di fornire un canale istituzionale agli interessi corporativi della nobiltà: tentativo che verrà sempre coerentemente osteggiato dai teorici filoassolutisti della borghesia francese, i fisiocratici, e che troverà un qualche seguito solo negli anni immediatamente precedenti l'Ottantanove, in quella che viene talvolta chiamata la rivoluzione nobiliare.
Certo, l'idea montesquiviana di un bilanciamento dei poteri (balance des pouvoirs, ba/ance of powers) ritornerà, in forma di checks and balances, anche presso i costituenti americani, e segnatamente in molte pagine del "Federalist" ( 1787-88): ma con almeno due varianti, che indicano anche altrettante direzioni in cui guarderanno pure i costituenti francesi. In primo luogo, la costituzione federale americana, benché per più versi tributaria del modello inglese, è interamente progettata: le istituzioni spontaneamente sviluppatesi in Inghilterra, cioè, vi sono sì riproposte, ma anche razionalizzate. In secondo luogo, la ba/ance of powers funziona esclusivamente fra gli organi costituzionali: in una società egualitaria come quella americana, né il presidente né il Senato né la Camera dei rappresentanti possono più venire concepiti come espressione di diversi ceti o classi sociali.
Vedremo al punto 2 come questa seconda variante diventerà uno dei tratti distintivi del costituzionalismo francese-rivoluzionario, oltreché del costituzionalismo moderno in genere (in quanto opposto a quello medievale). Qui si deve considerare la seconda variante: ricordando che, in un paese privo di tradizioni costituzionali come la Francia, nel quale quindi tutti i limiti del potere tendevano ad esaurirsi nelle regole sulla trasmissione ereditaria del trono, l'unica costituzione concepibile dovesse essere non solo scritta, ma intenzionalmente progettata. Tutto il costituzionalismo rivoluzionario francese, in effetti, pensa che le costituzioni debbano essere costruite calcolando attentamente gli interessi dei partecipanti al gioco costituzionale, e diffidando di meccanismi spontanei quali la mano invisibile istituzionale.
Una volta appreso come gli interessi individuali si combinino spontaneamente, in effetti, cosa vieta di combinarli artificialmente, traendone gli effetti desiderati? Una volta ammesso, con Montesquieu, che tutti i partecipanti al gioco politico tendano ad accrescere
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I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
il proprio potere, cosa vieta di strumentalizzare le loro ambizioni per far marciare la macchina costituzionale nel senso desiderato dall'artefice? Così, quegli stessi costituenti francesi che - per influenza delle idee fisiocratiche o smithiane - potrebbero ammettere la mano invisibile in ambito economico, la rifiutano invece in ambito costituzionale: accettano la mano invisibile individuale, cioè, e respingono quella istituzionale. È vero del costituzionalismo francese-rivoluzionario, insomma, quanto François Furet ha detto del pensiero francese in generale: che esso ignora la produttività del conflitto 8 •
2. Questo generale atteggiamento costruttivistico, o antievoluzionistico, è peraltro solo il primo aspetto distintivo della tradizione francese rispetto a quella inglese; come si è anticipato, ve n'è almeno un secondo, relativo al tipo di interessi ammessi al gioco costituzionale. Nella tradizione inglese non sembrano esservi vincoli al tipo di interessi ammesso al gioco politico: può trattarsi indifferentemente di interessi individuali (come ad esempio I' ambizione personale di un uomo politico) o di interessi corporativi (propri di un gruppo, di un ceto o di una classe). La mano invisibile istituzionale, anzi, sembra operare proprio fra organi che esprimono interessi corporativi: in particolare il monarca, che finisce per esprimere soprattutto gli interessi della Corte, e la Camera dei Lord, espressione degli interessi del clero e della nobiltà.
La tradizione francese-rivoluzionaria, invece, si presenta al contempo come egualitaria, nel senso che non ammette distinzioni di ceto, e individualistica, nel senso che ammette solo interessi rigorosamente individuali. La differenza fra interessi individuali e interessi corporativi, anzi, viene fissata sin da Qu'est-ce que le Tiers-État ( r 789: d'ora in poi QTE): che può considerarsi una sorta di programma dell'intera Rivoluzione francese, dalla convocazione degli Stati generali sino al colpo di stato di Brumaio. L'autore di questo celebre testo è il già menzionato Sieyes: ovvero il personaggio che non è solo il principale rappresentante della tradizione costituzionalistica francese-rivoluzionaria, com'era pacifico già per i contemporanei, ma che è anche, come gli studiosi hanno sostenuto più di recente, il maggiore ispiratore della tradizione lzberale francese 9.
8. Cfr. Furet ( 1978), pp. 49-50. 9· Per questa interpretazione di Sieyes, si deve rinviare soprattutto ai lavori di
Pasquale Pasquino: in particolare Pasquino (r987l; Pasquino (r989l; Pasquino (1993), specie pp. 4-6 e Pasquino (I998). Ma cfr. anche Furet (r988), vol. I, p. 292.
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T orneremo fra un attimo sulla teoria politico-costituzionale di Sieyes; qui bisogna osservare come egli distingua l'interesse generale o comune, somma degli interessi di tutti gli associati, sia dagli interessi particolari o corporativi, condivisi solo da un gruppo, corporazione o ceto, sia dagli interessi personali o individuali di ciascuno (QIE, p. 86). Lo scopo di questa distinzione è del tutto trasparente: Sieyes vuole sostenere che «l'assemblea d'una nazione va costituita in modo tale che gli interessi particularì vi restino isolati e che l' opinione dei rappresentanti vi sia sempre conforme all'interesse generale» (ibid.). Al gioco costituzionale, insomma, vanno ammessi solo l'interesse generale e quello individuale: il costituente può strumentalizzare gli interessi individuali al conseguimento dell'interesse generale, ma non può fare altrettanto con gli interessi corporativi.
Che gli interessi particolari, quali quelli del clero o della nobiltà d' ancien régime, vadano dunque rigorosamente esclusi dalla sfera pubblica diverrà in effetti un regola generalissima della grammatica costituzionale rivoluzionaria, cui si sforzeranno di adeguarsi persino i sostenitori francesi della costituzione inglese. Lo stesso monarchien JeanJoseph Mounier, quando propone alla Costituente il bicameralismo inglese, è costretto a presentare la Camera dei Lord non come un organo rappresentativo della nobiltà, ma come un semplice ingranaggio della macchina costituzionale: se il principio per cui gli interessi particolari devono essere esclusi dal gioco costituzionale incontra un'eccezione da parte dei monarchiens, questa riguarda semmai il monarca (o la Corte), in omaggio alla legittimità tradizionale di que-sto 10•
A determinare il fallimento del modello inglese alla Costituente, com'è stato spesso riconosciuto, fu proprio il sospetto che dietro il bilanciamento dei poteri, il bicameralismo e il diritto di veto reale proposti dai monarchiens vi fosse il disegno di restituire influenza alle forze sociali sconfitte dalla Rivoluzione. A venire rifiutata, cosi, fu ·persino la versione della balance adottata dai costituenti americani: anche contro di essa venne sempre avanzata la stessa obiezione, e cioè che introdurre nella costituzione dei poteri portatori di interessi in çonflitto equivaleva ad ammettere nello Stato interessi particolari, irriducibili a quello generale. I costituenti rivoluzionari francesi non compresero mai sino in fondo perché costituzioni interamente pro-
10. Cfr. Mounier (1789), p. 44: «Les membres de la Chambre des Pairs n'ont aucun rapport avec ce que nous appellons un ordre de noblesse: leur famille ne forme pas une classe distincte et séparée des autres citoyens». Sulla posizione dei monarchiens cfr. Pasquino (1990), Gueniffey (1994), specie p. 81, Furet, Halévy (1996).
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I I. I LIMITI DEL POTERE; IL CONTRIBUTO FRANCESE
gettate, e basate sull'uguaglianza dei cittadini, dovessero fare ricorso al vecchio ed equivoco espediente della balance rr.
Sempre in QTE Sieyes operava un'altra distinzione, per più versi collegata alla precedente: quella fra l'insieme di tutti i francesi, chiamato societé civtle o nation, e cui viene attribuito il potere costituente (pouvoir constituant), e l'organizzazione politica francese, chiamata Etat o établissement politique e titolare dei poteri costituiti (pouvoirs contitués). Questa distinzione fra società e Stato ha evidenti valenze rivoluzionarie: azzerando la legittimità tradizionale del monarca, essa configura le nazioni come libere di darsi i governanti che vogliono, se non come altrettanti «individui fuori da ogni legame sociale o, come si dice, nello stato di natura» ( QTE, p. 69). Questa stessa distinzione, peraltro, non serve solo a scopi costituzionalistici, autorizzando la Francia a darsi una nuova costituzione: serve anche a scopi specificamente liberali.
N ella Reconnaissance et exposition raisonnée des Droits de l'Homme et du Citoyen ( r 789: d'ora in poi RER), Sieyes puntualizza infatti che «non si costituisce la nazione, ma la sua organizzazione politica [ ... ] La nazione è l'insieme degli associati [ ... l I governanti, al contrario, formano [ .. .J un corpo politico di creazione sociale» (RER, p. r3l. La nation, in altri termini, si costituisce anteriormente allo Stato, in base agli interessi economici dei consociati; lo Stato nasce quindi limitato, come una macchina consapevolmente costruita per svolgere le funzioni delegategli dai consociati. In questo modo, tra l'altro, i rapporti fra i principali organi costituzionali - legislativo ed esecutivo -possono venire fraseggiati non più in termini di balance, ma di specializzazione delle funzioni: il legislativo è fatto per volere, l'esecutivo per agire secondo la volontà del primo.
Il testo che meglio illustra le ragioni del rifiuto del modello inglese, e la proposta di un modello alternativo, qualificato come francese e naturale a un tempo, è costituito dai due grandi discorsi pronunciati da Sieyes alla Convenzione durante la discussione della costituzione dell'anno m (r795: d'ora in poi DS). Opponendo al système de l'équilibre degli anglofili il système du concours, o de l'umté organisée, Sieyes chiarisce perché l'intero costituzionalismo rivoluzionario tenda
II. In qu.esto senso, cfr. Vile (r967l, p. 199: «the threat of monarchie and aristocratic privilege remained, and the theory of checks and balances must be inevitably associateci with i t». La riproposta della ba/ance in versione americana, avanzata per esempio da Adams ( r 792), specie vol. r, p. 4, si scontrò con l'obiezione menzionata nel testo almeno a partire da Livingstone (I 789), specie p. 3 I, per finire con Destutt De Tracy (r8o6), pp. 173-4.
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IL POTERE
a configurare i rapporti fra esecutivo e legislativo nei termini non della balance el o della mano invisibile istituzionale, ma piuttosto della specializzazione e della divisione del lavoro. Se il legislativo deve limitarsi a volere e l'esecutivo ad agire, è anche perché qualsiasi bilanciamento fra i due potrebbe giustificarsi solo con qualche differenza d'interessi sociali o corporativi degli organi.
Lo stesso Sieyes di Termidoro dell'anno rn, peraltro, si accorge che la balance potrebbe anche funzionare - diversamente che in Inghilterra, e come negli Stati Uniti - escludendo dal gioco costituzionale gli interessi particolari: «non parlo di quanto vi è di superstizioso e di disonorevole per l'umanità nell'istituzione di una camera nobiliare [ ... l Questi vizi profondamente radicati [ .. .] non ineriscono essenzialmente al système des contrepoids; infatti non si ritrovano in quello stabilito in America» (DS, p. 19). Cosi, nei DS fa capolino un terzo criterio distintivo fra tradizioni inglese e francese, e un criterio, quel che più conta, suscettibile di distinguerle anche quando i due precedenti non lo permettano: come nel caso di quei monarchiens che adottano una concezione costruttivistica della costituzione e una concezione individualistica degli interessi ammessi al gioco costituzionale.
3. Il terzo criterio distintivo fra tradizioni costituzionalistiche e liberali rispettivamente inglese e francese è relativo alla strategia di limitazione del potere adottata. Posto che il potere tenda a diventare abusivo e che debba quindi essere limitato - com'era pacificamente ammesso dopo Montesquieu, e come il T errore aveva provveduto a ricordare a tutti - vi sono almeno due possibili strategie di limitazione del potere, che restano implicite in gran parte del dibattito costituzionale rivoluzionario per diventare però del tutto esplicite in Sieyes e in Constant. Queste due strategie sono state tematizzate recentemente da Bernard Manin distinguendo &a un liberalismo e/ o un costituzionalismo della bilancia, o dei contro poteri, e un liberalismo e/ o un costituzionalismo della regola o del mercato ' 2 •
Nella tradizione inglese viene adottata la strategia della bilancia: la limitazione del potere, cioè, appare affidata al meccanismo spontaneo dei contropoteri. Gli unici limiti al potere, in altri termini, derivano dalla stessa composizione di questo - sono cioè non esterni ma interni - perché solo il potere, in fondo, è in grado di limitare il potere. È proprio questo, in effetti, uno dei significati della teoria
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II. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO PRANCESE
della sovranità o dell' onnipotenza del Parlamento che passa con diverse accentuazioni da Coke a Blackstone sino ad Austin, trovando la sua definitiva consacrazione nell'opera di Dicey. Che il Parlamento sia sovrano, in effetti, significa anche che non possono darsi limiti esterni al suo potere, come quelli fissati da una costituzione scritta, ma solo limiti interni: non è una regola a !imitarne il potere, ma solo il bilanciamento che si realizza fra i suoi organi.
Nella tradizione francese, o piuttosto continentale, viene adottata invece la strategia della regola: la limitazione del potere, cioè, appare affidata a una norma superiore - la stessa costituzione - che ne fissa i titolari e, soprattutto, gli ambiti di esercizio. Si è detto spesso, non senza fondamento, che l'idea della superiorità della costituzione sulla legge ordinaria si è affermata con difficoltà in Francia, per via del cosiddetto legicentrismo francese: atteggiamento che potrebbe più perspicuamente chiamarsi, nei termini di Raymond Carré de Malberg, concezione della legge come espressione della volontà generale. È anche vero, però, che l'idea di una sovralegalità costituzionale è presente sin dall'inizio nel pensiero di Sieyes, vero fondatore del diritto pubblico francese, in termini di una chiarezza che, almeno sul piano giuridico, non verrà eguagliata neppure da Constant.
Nel discorso del 2 Termidoro dell'anno m, in particolare, Sieyes critica la strategia della bilancia (il già menzionato système de l'équzlibre o des contrepoids) e adotta espressamente la strategia della regola (il système du concours, o dell' unité organisée). Ai sostenitori della balance egli imputa di dover ricorrere al gioco spontaneo dei contropoteri proprio per il fatto di non aver previamente limitato la somma totale del potere: «allora, spaventati dall'immensità dei poteri che hanno appena accordato ai medesimi rappresentanti L .. ] essi immaginano di attribuire a\ un secondo organo rappresentantivo la stessa massa di poteri, oppure attribuiscono loro un diritto di veto reciproco» (DS, p. I 8). Sieyes ritiene invece che occorra prima limitare il potere, stabilendo gli ambiti nei quali esso può esercitarsi, e poi costruirlo nel modo più funzionale a questa limitazione.
In questo modo, il Sieyes dei DS non formula soltanto la teoria della limitazione della sovranità che è di solito attribuita a Constant, ma mostra quale sia il possibile sbocco istituzionale della strategia della regola: quel controllo della costituzionalità delle leggi che peraltro doveva trovare qualche attuazione in Francia solo ai giorni nostri. Dopo aver opposto, nel discorso del 2 Termidoro, la strategia inglese della bilancia a quella francese della regola, nel discorso del r8 Termidoro Sieyes propone infatti l'istituzione di un organo competente, fra l'altro, a controllare la conformità delle leggi alla costituzione: «vi
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IL POTERE
sarà, sotto il nome di giurì costituzionale (jurie constitutionnaire) un corpo di rappresentanti [ ... ] con la specifica competenza a giudicare sui ricorsi per violazione della costituzione che vengano avanzati contro le decisioni del legislativo» (DS, p. 30).
È appena il caso di notare come le tradizioni costituzionali inglese e francese (o meglio britannica e continentale) continuino ancor oggi a opporsi proprio su questo: mentre in Gran Bretagna, non foss' altro per la mancanza di una costituzione scritta e rigida, il Parlamento resta soggetto solo ai propri bilanciamenti interni, in molti paesi del continente una costituzione siffatta fissa le competenze del legislatore, permettendo così il controllo della costituzionalità delle leggi da parte di una Corte costituzionale. Per il resto, che le due tradizioni possano fruttuosamente integrarsi è mostrato dallo stesso Hayek: che benché si presenti come il maggiore sostenitore odierno della tradizione evoluzionistica britannica, in The Po!ttical Order of a Free People ( 1979) avanza un progetto di costituzione minuziosamente costruito in vista della limitazione del potere statuale.
11.2
Constant e madame de Stael: il costituzionalismo repubblicano
Delineati questi criteri distintivi fra tradizioni britannica e francese, occorre ora impiegarli per accertare a quale delle due sia prevalentemente riconducibile il costituzionalismo liberale di Constant e di madame de Stael. Sino agli anni Settanta, per la verità non vi sarebbero stati dubbi: a giudicare dalle loro opere edite, entrambi potevano essere tranquillamente ascritti al novero degli anglofili di lingua francese, come Montesquieu, de Lolme, i monarchiens e lo stesso padre della Stael, Jacques Necker. Nel caso di Constant in particolare, la gran parte dell'opera pubblicata nel corso della Restaurazione, eccezion· fatta per pochi scritti giovanili, presentava l'immagine di uno scrittore fortemente impegnato a ottenere il radicamento in Francia di istituzioni monarchico-costituzionali all'inglese.
Tutto è cambiato, peraltro, a seguito della riscoperta, verificatasi negli anni Sessanta, e della pubblicazione, avvenuta a partire dai Settanta, degli inediti repubblicani di entrambi: nel caso di madame de Stael, il Des circonstances actuelles qui peuvent terminer la Révolution et des principes qui doivent fonder la république en France (in realtà già pubblicato nel 1906, ma ripubblicato in edizione critica nel 1979: d'ora in poi CA); nel caso di Constant, soprattutto ·i Fragments d'un ouvrage abandonné sur la posszbzlité d'une constztution républicaine dans un grand pays (postumo, 1991: d'ora in poi FCR) e i Principes de
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I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
politique applicables à tous les gouvernements (postumo, 1980: d'ora in poi PP). Questi inediti, tutti databili fra fine del Direttorio e inizio dell'Impero, hanno finito per cambiare anche l'interpretazione degli scritti già noti.
Se nel caso di madame de Stael la (ri)pubblicazione di CA ha rivelato quella che può considerarsi la più articolata formulazione dell'ideologia repubblicano-direttoriale, nel caso di Constant la lettura di FCR e PP ha definitivamente fugato quell'immagine di politico moderato o conservatore trasmessa dagli scritti della Restaurazione: oggi non si può più ignorare, ad esempio, che i testi filomonarchici pubblicati dopo il ritorno dei Borboni sono spesso nient'altro che collages di brani ricavati dagli inediti fìlorivoluzionari e fìlorepubblicani. Orbene, ciò non costringe solo a ripensare ex nova i rapporti di Constant e di madame de Stael con le tradizioni inglese e francese: obbliga anche a distinguere fra la loro produzione repubblicana, cui sarà dedicato questo paragrafo, e la loro produzione monarchica, cui sarà dedicato il successivo.
In entrambi i paragrafi verrà peraltro adottato lo stesso schema: alle dottrine sia repubblicana sia monarchica di Constant e di madame de Stael, cioè, verranno applicati i criteri distintivi fra tradizioni inglese e francese individuati nel PAR. rr.r, ovvero: a) carattere spontaneo oppure costruito della costituzione; b) carattere corporativo oppure individuale degli interessi ammessi al gioco costituzionale; c) carattere di bilancia oppure di regola della strategia di limitazione del potere adottata. Si deve appena ricordare che Constant e madame de Stael, almeno nel periodo direttoriale, costituiscono un sodalizio intellettuale molto stretto, tale da tollerare l'impiego di brani dell'uno nella redazione dei testi dell'altro '3. Questo lascia già supporre che le posizioni dei due fossero contigue: anche se qui si vedrà che non erano identiche.
Per quanto riguarda il punto a, consideriamo, anzitutto, l' atteggiarsi della dottrina repubblicana di Constant e di madame de Stael rispetto al carattere spontaneo o costruito della costituzione. Qui vi è relativamente poco da dire: è infatti noto come entrambi gli autori -e non solo nel periodo repubblicano - abbiano sempre optato per una costituzione scritta e progettata; solo il Constant della Restaurazione, come vedremo nel prossimo paragrafo, tornerà sulla questione in termini volutamente ambigui. È il caso di sottolineare sin dall'inizio, peraltro, che nel periodo repubblicano l'atteggiamento di entrambi è quello rigorosamente costruttivista della tradizione francese:
IJ. Cfr. in particolare Omacini (I990-9rl.
225
IL POTERE
chiunque abbia anche solo sfogliato il CA di madame de Stael, in particolare, sa quanta fiducia nelle capacità costruttive della ragione si esprima, talora anche ingenuamente, nelle sue pagine.
Non bisogna farsi fuorviare, a questo proposito, dalla distinzione recentemente proposta da Marcel Gauchet tra una concezione del potere come causa della società (pouvoir cause), attribuita ai controrivoluzionari, e una concezione del potere come semplice effetto della società (pouvoir ef/et), attribuita a Constant: distinzione che potrebbe far pensare al costituzionalismo di quest'ultimo come a una sorta di sociologismo, nel quale le istituzioni diventano la registrazione di un assetto sociale dato r4. Constant si esprime effettivamente in termini di pouvoir cause e di pouvoir effet in un passo del suo primo scritto politico, il De la force du gouvernement actuel ( 1796: d'ora in poi FG) che ritorna anche nell'ultimo, i Mélanges de littérature et de politique (1929): ma si tratta di un passo che resta nel solco del costruttivismo rivoluzionario.
«l re, i grandi e i loro sostenitori- si legge appunto in FG, p. 77 - prendono il potere per una causa mentre non è che un effetto, e poi tentano di servirsi dell'effetto contro la causa». Ad essere criticata, qui, sembra però soprattutto l'idea secondo la quale, come aveva scritto lo stesso Montesquieu, <mna società non potrebbe esistere senza governo» (EDL, pp. 127-8): idea poi ripresa dai controrivoluzionari proprio per contestare la pretesa rivoluzionaria di ricostruire il potere su basi meramente razionali. Affermando che il potere è solo un effetto non della società tout court, ma delle idee socialmente diffuse, Constant ribadisce invece quella distinzione società/Stato che, come si è cercato di mostrare altrove, avvicina la sua posizione - se non all'anarchismo di William Godwin o al radicalismo di Thomas Paine, certo - al liberalismo di Sieyes r5.
Per quanto riguarda il punto b, consideriamo, poi, l'atteggiarsi della dottrina repubblicana di Constant e di madame de Stael rispetto al carattere corporativo o individuale degli interessi ammessi nel gioco costituzionale: e constatiamo subito come entrambi gli autori, almeno nel periodo considerato, rispettino quasi alla lettera la grammatica del costituzionalismo francese-rivoluzionario. Anzitutto, Constant e madame de Stael, che pure sul terreno strettamente etico avanzeranno importanti critiche contro l'utilitarismo, sul piano costi-
14· Cfr. Gauchet (I98o), specie pp. 53 ss. 15. Si deve qui rinviare a Barberis (1998b). Di distinguere accuratamente la
società dal governo parla, sulla scorta di Paine, Godwin: cfr. Constant (1972), p. IOI.
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I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
tuzionale concordano fra loro, e con tutto il costituzionalismo rivoluzionario francese - se non con tutta la concezione moderna della politica - che, lungi dal poter contare sulla virtù degli antichi, «si deve tener conto, su larga scala, solo degli sforzi prodotti dall'interesse personale» (CA, p. r65).
Dopo aver assunto che le costituzioni si costruiscono sulla base di un calcolo degli interessi dei soggetti coinvolti, Constant e madame de ·Sta el rifiutano l'ammissione al gioco costituzionale di soggetti dotati di interessi particolari o corporativi, come il monarca e la nobiltà. Il Constant dei FCR, in particolare, dedica il libro primo del trattato alla distinzione fra istituzioni basate su privilegi ereditari (heredité) e sull'uguaglianza di tutti i cittadini (égalité): e pur distinguendo diversi tipi di hérédité - fra i quali un'hérédité-magistrature ricalcata sulla Camera dei Lord inglese (cfr. FCR, pp. I 3 I-3) - nondimeno finisce per escludere anche questa dal proprio modello di costituzione, affermando che «dei re, dei nobili, dei privilegiati di qualsiasi genere [ .. .] hanno sempre un interesse a parte [rispetto all'interesse generale]» (FCR, p. 376 e .nota D, p. 403).
Ancora più significativa appare la posizione di Constant a proposito dei partiti. È noto come, proprio per la sua ostilità verso gli interessi corporativi, il costituzionalismo francese-rivoluzionario rifiuti i partiti, pacificamente ammessi nella pratica costituzionale inglese, qualificandoli spregiativamente come fazioni. L'atteggiamento di Constant, ammiratore della vita parlamentare britannica, è certo più aperto: ma egli prende le distanze dall'opinione di Montesquieu «che le fazioni siano non solo inevitabili, ma utili in una repubblica». «Ciò è vero - riconosce Constant - quando le fazioni nascono da ambizioni individuali L. .J, ma ~non quando esse derivino dall'esistenza di corporazioni ereditarie. In questo caso si formano nello Stato due interessi opposti in modo permanente, che costituiscono un autentico germe di dissoluzione [ ... ]» (FCR, p. r43).
Nel caso di madame de Stael, tutto - il moderatismo, l'anglofilia, la stessa influenza paterna - lascerebbe prevedere un atteggiamento non pregiudizialmente ostile all'ammissione di interessi particolari nel gioco politico. Invece, l'autrice rifiuta questa possibilità sin dal De l'influence des passions (r796), mostrando di ritenere, come Sieyes, che gli stessi risultati del bilanciamento d'interessi particolari possano attenersi con la specializzazione delle funzioni. In CA, poi, madame de Stael si chiede sin dall'Introduzione: «Perché i privilegiati, perché i re, non possono mai essere gli affidatari del potere di una nazione? Perché essi hanno un interesse a parte rispetto ad essa» (CA, p. r 7). La stessa posizione, infine, è ribadita in quel capitolo sulla costituzio-
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ne che è forse uno dei testi più rappresentantivi dell'intero costituzionalismo repubblicano.
Qui madame de Stael dichiara espressamente: «occorre [ .. .J che gli interessi particularì non siano in opposizione con l'interesse generale», indicando fra i princìpi fondamentali del costituzionalismo repubblicano anche l' égalité, ovvero la «distruzione dei privilegi delle classi» (CA, pp. 156-8). Si è detto spesso che le modificazioni proposte da madame de Stael per la costituzione dell'anno m - bicameralismo, diritto di veto, lo stesso potere conservatore di cui si parlerà fra poco - vanno nel senso di un riavvicinamento al modello inglese; qui occorre aggiungere, però, che anche ove non si tratti di soluzioni già adottate dalla stessa costituzione dell'anno rrr, come il bicameralismo, si tratta pur sempre di tentativi di innestare istituti d'Oltremanica su un impianto istituzionale che, nel complesso, rispetta le regole del costituzionalismo francese.
Per quanto riguarda il punto c, consideriamo, infine, l'atteggiarsi della dottrina repubblicana di Constant e di madame de Stael rispetto al carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata. Nel caso di Constant, non possono esservi dubbi: è proprio sulla sua teoria della limitazione della sovranità - critica verso la strategia della bilancia adottata da Montesquieu, non meno che verso la teoria della sovranità illimitata di Rousseau - che Manin ha costruito il modello della strategia della regola. A Montesquieu, secondo il quale per limitare il potere non si può far altro che opporre potere a potere, Constant obietta quanto segue, sia nei primi che nei secondi Principes de politique: «Se l'autorità sociale non è limitata, la separazione dei poteri, che normalmente è la garanzia della libertà, diviene un pericolo e una calamità».
Prima di costituire i poteri, perciò, occorrerebbe diminuire la somma totale del potere, dichiarando «che vi sono delle materie sulle quali il legislatore non ha il diritto di fare una legge» (PP, pp. 54-5). In questo caso, peraltro, il problema diviene: «come limitare il potere altrimenti che attraverso il potere?». Constant è perfettamente consapevole, infatti, che ogni delimitazione concettuale del potere è inutile, senza istituzioni costituzionali «che combinino in modo tale gli interessi dei diversi depositari del potere, da far ritenere vantaggioso a ognuno di essi restare entro i limiti delle rispettive competenze [ ... ]». Egli ritiene, peraltro, che «la prima questione è pur sempre quella della limitazione della somma totale del potere» (PP, pp. 55-6): questione che dovrebbe risolversi appunto determinando preliminarmente in quali aree esso possa esercitarsi (PP, pp. 56-7).
È facile osservare che una soluzione siffatta, proprio per il fatto
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di invocare l'opinione pubblica, si rivela straordinariamente debole, almeno dal punto di vista costituzionale: se l'opinione pubblica bastasse a limitare il potere, dopotutto, che bisogno vi sarebbe di costituzioni? Il fatto è che, benché in queste pagine Constant parli espressamente di limitare le competenze del legislatore, egli non vede la possibile soluzione del problema, del resto appena intravista dallo stesso Sieyes dei discorsi di Termidoro: ovvero il controllo di costituzionalità. Nel libro vm di FCR, in effetti, Constant propone un organo collegiale, da lui chiamato Potere neutro o preservatore (Pouvoir neutre o préservateur), incaricato soprattutto di risolvere gli eventuali conflitti fra gli organi costituzionali: ma si tratta di qualcosa di assai diverso dal giurì costituzionale di Sieyes.
Mentre il compito principale del jury constitutionnaire era quello di pronunciarsi sui ricorsi contro gli atti del legislativo, come si è visto, il compito del Potere preservatore è piuttosto quello di arbitrare i conflitti fra legislativo ed esecutivo: che era poi il problema itrisolto di tutto il costituzionalismo rivoluzionario, dalla costituzione del I 79 I a quella dell'anno n r. Il Pouvoir préservateur constantiano, dunque, si rivela piuttosto un custode della costituzione à la Schmitt che una Corte costituzionale à la Kelsen: e non stupisce affatto che Constant lo riprenda dopo la restaurazione dei Borboni per attribuirlo non più a un organo collegiale, ma al re. La strategia di limitazione del potere da lui adottata, nondimeno, proviene proprio da Sieyes: come del resto quella teoria della limitazione della sovranità che i PP riprendono quasi alla lettera dal discorso del 2 T ermi doro dell'anno Il l.
In questo discorso Sieyes affermava, in termini che rivelano tanto l'origine contrattualistica delle sue posizioni quanto la critica rivolta a Rousseau: «l poteri illimitati sono una mostruosità politica [. .. l Quando un'associazione politica si forma, non si mettono affatto in comune tutti i diritti che ogni individuo apporta nella società [ ... l Si mette in comune, sotto il nome di potere pubblico o politico, solo lo stretto indispensabile» (DS, pp. q-8, riportato integralmente in nota da PP, pp. 45-6). Durante la Restaurazione, Constant si guarderà bene dal citare Sieyes, esiliato dopo i Cento giorni come regicida; ma nei Souvenirs historiques (r83o: d'ora in poi SH) riconoscerà i propri debiti nei suoi confronti, ammettendo formalmente che «è pure a Sieyes che dobbiamo il principio più necessario da riconoscere in ogni organizzazione politica, la limitazione della sovranità» (SH, p. I2I).
Resta da chiedersi se la strategia della regola sia anche la posizione di madame de Stael: la quale critica talvolta la strategia della bi-
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lancia, come si è già visto, ma non aderisce mai espressamente alla strategia alternativa. Nell'introduzione a CA, ad esempio, madame de Stael rigetta la Camera dei Lord inglese assimilandola all'ordine no bitiare francese d' ancien régime e, rivolgendosi ai costituzionalisti anglofili, afferma: «voi avete ottenuto un equilibrio [. . .] ma non avete fondato un bel nulla, vi siete limitati, per dir cosi, ad opporre un abuso all'altro, a bilanciare l'aristocrazia con la monarchia e la monarchia con l'aristocrazia» (CA, pp. 29-30). È anche vero, d'altra parte, che madame de Stael sembra ammettere altri impieghi della balance, e che comunque Constant non annovera mai l'amica &a i propri predecessori in tema di limiti del potere.
Risulta dunque possibile ipotizzare che sul punto madame de Stael si discosti da Constant, e fors'anche dal costituzionalismo francese in genere. Per mostrare come la sua posizione sia tutt'altro che univoca, peraltro, torniamo al capitolo sulla costituzione di CA. Anche per madame de Stael il principale difetto della costituzione dell' anno III consisteva nell'endemico conflitto fra esecutivo e legislativo: il primo, non avendo modi legali per influire sul secondo, tentava di condizionare le elezioni e, quando non vi riusciva, finiva per ricorrere al colpo di stato (cfr. CA, p. 162). Tale difetto strutturale non sarebbe stato risolto, secondo madame de Stael, da organi appositi - quali il giuri costituzionale di Sieyes o il Potere preservatore di Constant -ma solo da nuove funzioni attribuite a una delle due Camere, trasformata da elettiva in permanente.
Fa qui la sua comparsa il Potere conservatore (pouvoir conservateur): ovvero un tipo di organo che - come quelli proposti da Sieyes e da Constant, e come tutti gli organi consimili escogitati sin dalla discussione della Costituzione dell'anno III ' 6 - costitui per i sostenitori della fragile repubblica termidoriana la possibile soluzione al problema tecnico dei rapporti fra esecutivo e legislativo (se non al problema politico, ben più difficile da risolvere, di dare stabilità al regime repubblicano). Orbene, la differenza fra il Potere conservatore di madame de Stael e gli altri organi proposti sembra proprio la maggiore vicinanza del primo al modello inglese: nel sistema da lei pro-
16. Molti progetti inviati alla Commissione degli Undici, incaricata di redigere la costituzione dell'anno m, avevano già previsto, ben prima della proposta di Sieyes, un organo costituzionale incaricato di arbitrare fra esecutivo e legislativo: organo chiamato di volta in volta Conseil de censure, Sénat réviseur, Pouvoir conservateur des lois et des droits, Tribuna! conservateur de la constitution e simili. Dopo i colpi di stato di Fruttidoro e di Brumaio vi fu una nuova fioritura di proposte del genere: cfr. almeno Luzzatto (1994), specie pp. JII-2.
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posto, infatti, esso avrebbe finito per giocare il ruolo della Camera dei Lord, appoggiando l'esecutivo e bilanciando l'influenza altrimenti determinante del legislativo.
Su questo punto, peraltro, l'autrice prende nuovamente le distanze dalla strategia della bilancia: e questa volta non solo per lo spazio che essa lascerebbe agli interessi particolari. «La bilancia dei poteri -osserva madame de Stael - non vuoi dire gioco di contrappesi, ciò che, detto altrimenti, significherebbe un equilibrio di forze che innescherebbe un conflitto ininterrotto fra i poteri per ottenere la supremazia. Bilancia dei poteri vuoi dire la serie delle combinazioni che li porta a trovare un accordo» (CA, p. r8r). La critica della strategia della bilancia diviene tanto più evidente se si pensa che poco prima la stessa autrice aveva affermato: «Un pensatore eloquente l'ha detto: è all'unione dei poteri che occorre tendere; e si confonde sempre la separazione necessaria delle funzioni con una separazione dei poteri che li rende fatalmente nemici gli uni degli altri» (CA, p. r 79).
Chi è il «pensatore eloquente» cui si riferisce qui madame de Stael? Per Henri Grange, maggiore esperto del pensiero di Necker e curatore dei FCR constantiani, sembra non vi siano dubbi: «il pensatore eloquente che le ha rivelato questo segreto è evidentemente l' autore de Le pouvoir exécuti/ dans les grands États», cioè lo stesso Necker '7. Tutto il pensiero costituzionale del padre di madame de Stael, in effetti, consiste in una reinterpretazione della costituzione inglese che insiste sull'unità piuttosto che sulla divisione, sui legami piuttosto che sull'ostilità fra i poteri. «Sono dunque i legami, più che i contrappesi, a contribuire all'armonia dei governi», scrive Necker in Du pouvoir exécutt/ dans les grands États (1792; d'ora in poi PE); e poco prima: «credo che la solidità del governo inglese non sia dovuta unicamente al bilanciamento dei poteri» (PE, t. 1, pp. 8r e 79).
Vi è peraltro almeno una possibile alternativa a Necker: e si tratta, ancora una volta, del Sieyes dei discorsi di T ermidoro, critico del système des contrepotds e sostenitore del principio dell' unz:té. Che proprio Sieyes possa essere il «pensatore eloquente» è stato suggerito da Lucia Omadni (cfr. CA, pp. 2rr-2, note 20 e 24 del curatore), ed appare verosimile anche sulla base degli elogi tributatigli nel libro.
17. Cosi Grange (I974), p. 470. Lo stesso atteggiamento interpretativo adottato da Grange verso i testi staeliani - consistente nelleggerli sistematicamente alla luce delle idee di Necker - costituisce il Leitmotiv dell'Introductzon di Grange ai FCR constantiani: con esiti, va detto, ancora più discutibili.
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IL POTERE
Quel ch'è certo è che l'ascendenza sieyèsiana non può venire esclusa, come Grange fa altrove 18 : né nel caso di Constant, come si è già visto, né in quello di madame de Stael. Benché sia certamente più vicina di Constant al modello inglese, anche madame de Stael sembra infatti condividere l'ostilità francese - comune ad autori pur distanti come Sieyes e N ecker - verso la strategia della bilancia in specie e la produttività del conflitto in genere.
11.3
Constant e madame de Stael: il costituzionalismo monarchico
Occorre ora occuparsi, utilizzando gli stessi criteri distintivi fra tradizioni inglese e francese impiegati nel paragrafo precedente, del costituzionalismo specificamente monarchico di Constant r9: ovvero di quella dottrina costituzionale della Restaurazione che, sino alla riscoperta degli inediti repubblicani, ha rappresentato il costituzionalismo constantiano senz' altra qualificazione. Qui i rapporti con la tradizione inglese sono evidentemente molto più ravvicinati, non foss' altro perché la riflessione di Constant avviene entro il contesto monarchicocostituzionale fornito dalla Charte del 1814: ma la sua adesione al costituzionalismo anglofilo non deve considerarsi scontata, come traspare già dalle modalità della sua adesione alla monarchia restaurata.
Constant aderì alla monarchia dopo vent'anni buoni di teorizzazioni filorepubblicane: e benché non manchi chi presenta quest'atto come il risultato di una sofferta maturazione dottrinale 20 , pare più
r8. Cfr. Grange, Introduction a FCR, pp. 78 e 76, dove si giunge a parlare di Sieyes come del «mauvais génie de Coppet» e dell' «éternel et toujours triomphant ennemi du libéralisme coppétien». Ciò non vuoi certo dire, d'altra parte, che non possano nutrirsi dubbi sul carattere liberale del pensiero di Sieyes: cfr. per esempio Jaume (r989), pp. r64 ss., e Gauchet (1989), p. 273.
19. Dopo la restaurazione dei Borboni, infatti, madame de Stael non ritornerà ex pro/esso sulla materia costituzionale, pur mostrando di gradire una soluzione monarchica all'inglese; nondimeno, ella riconoscerà, come gran parte dei liberali, che la Francia d'ancien régime non aveva una costituzione, sicché la Rivoluzione poteva sotto questo profilo considerarsi legittima: cfr. Stael (1818), p. 121: <<En quoi clone consistait la constitution de l'état [dans I'ancien régimeJ? Dans l'hérédite du pouvoir royal uniquement. C'est une très-bonne loi L . .J mais ce n'est pas une constitution».
20. Il riferimento sarebbe ad Harpaz (1991), se questo saggio davvero mostrasse, come promette l'incipit, che Constant «est devenu non seulement un adepte résolu de la monarchie constitutionnelle, mais encore un adversaire déterminé de la république». Ben più motivata appare l'adesione di Constant alla monarchia di luglio, avvenuta effettivamente contro i sostenitori di una repubblica: cfr. Constant (1830).
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plausibile ipotizzare che si tratti di un pedaggio pagato per rientrare nel gioco politico. È noto come Constant abbia preparato la propria rentrée fra l'altro pubblicando, prima all'estero e poi in Francia, il De l'esprit de conquéte et de l'usurpation (r8r4): pamphlet antinapoleonico anch'esso ricavato dagli inediti repubblicani, ma redatto per l' occasione in uno stile da émigré mirante a far dimenticare i trascorsi repubblicani dell'autore. È pure noto che il libro doveva servire a sostenere la candidatura al trono francese del generale Bernadotte: l'adesione finale alla restaurazione dei Borboni, dunque, si tinge ulteriormente di opportunismo.
Del resto, l'aspetto davvero significativo della scelta monarchica di Constant è costituita dalle giustificazioni politiche, e anzi teoriche, addotte dall'autore: e queste, come vediamo subito, restano nella linea del suo pensiero repubblicano. Per giustificare la propria adesione alla monarchia costituzionale, in effetti, Constant ricorrerà nel Cours de politique constitutionnelle (r8r8-r82o: d'ora in poi CPC) proprio a quella concezione delle istituzioni politiche come semplici mezzi, funzionali alle esigenze della società, che innerva i trattati repubblicani: «la libertà, l'ordine, il benessere dei popoli, sono lo scopo delle associazioni umane; le organizzazioni politiche sono soltanto dei mezzi; e un repubblicano illuminato sarà sempre più disposto a diventare monarchico-costituzionale di un sostenitore della monarchia assoluta» (CPC, t. n, p. 70).
r. Quanto al carattere spontaneo o costruito della costituzione, si trovano nelle opere della Restaurazione passi che indurrebbero a ipotizzare una rinuncia da parte di Constant al costruttivismo della tradizione francese, e un approdo all'evoluzionismo della tradizione britannica. In un passo delle Réflexions sur !es constitutions et le garanties (r8r4), ad esempio, si legge: «Le costituzioni sono raramente prodotte dalla volontà degli uomini: è il tempo a farle; esse s'introducono gradualmente ed in modo impercettibile» (CPC, t. r, p. 2 71). Un'affermazione del genere farebbe pensare al recupero di motivi evoluzionistici, à la Burke: se non a quell'estremizzazione di motivi burkiani reperibile in controrivoluzionari come Joseph de Maistre, e per la quale gli uomini non potrebbero fare una costituzione più di quanto possano creare un albero 2 '.
Certo non si può sminuire l'importanza di tali affermazioni ridu-
21. Cfr. Maistre (I797), p. 141: «jamais il [['hommel ne s'est figuré qu'il avait le pouvoir de faire un arbre. Comment s'est-il imaginé qu'il avait celui de faire une constitution?>>.
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IL POTERE
cendole alla retorica reazionaria sfoggiata da Constant in quegli anni: dopotutto anche in opere successive, come i Mémoires sur les CentJours ( I820-22l, Constant scriverà che «nulla si crea per artificio [ ... ] il tempo, le abitudini, i bisogni, l'opinione, solo i soli elementi d'organizzazione» (CPC, t. n, p. 3I7). Occorre però valutare se e quanto passi siffatti realizzino effettivamente un recupero del modello inglese. Orbene, il passo in discussione è contenuto in un capitolo delle Réflexions sur les constitutions et les garanties intitolato Ciò che non è costituzionale, capitolo che si limita a riproporre una tesi reperibile non solo nei FCR, ma addirittura già nel Des réactions polztiques ( r 797): la tesi che la materia costituzionale e la rigidità della costituzione devono essere ristrette al minimo.
«Tutto ciò che non attiene ai limiti e alle attribuzioni rispettive dei poteri, ai diritti politici e ai diritti individuali - si legge nel capitolo in questione - non fa parte della costituzione, e può quindi essere modificato dal re e dalle due Camere in concorso fra loro» (CPC, t. r, p. 265). Qui, come del resto già nei trattati repubblicani, vi è certamente un recupero dell'idea inglese della sovranità del Parlamento, per la quale re, Camera dei Lord e Camera dei Comuni possono cambiare la costituzione senza incontrare limiti esterni: ma si noti che, a rigore, tale recupero è limitato alla materia non costituzionale. Constant si limita ad ammettere che, nelle materie estranee alla costituzione, si seguano la tradizione inglese e la strategia della bilancia: purché nella materia strettamente costituzionale si adottino la tradizione francese e la strategia della regola! 22
2. Quanto al carattere particolare o individuale degli interessi ammessi nel gioco costituzionale, anche qui le opere della Restaurazione presentano passi che sembrano testimoniare di un recupero della tradizione inglese: e non solo nella versione francese-rivoluzionaria dei monarchiens, ma addirittura in quella filonobiliare di Montesquieu o di Necker. Nei Principes de polztique applicables à tous le gouvernements représentati/s (I 8 I 5), si legge ad esempio che «in una monarchia ereditaria, l'ereditarietà d'un ceto [nobiliare] è inevitabile [. .. l Perché il governo di uno solo sussista senza una nobiltà ereditaria, bisogna che si tratti di un puro dispotismo» (CPC, t. r, p. 35). Certo, qui Constant cerca di porre argini al potere del Bonaparte dei Cento giorni:
22. Devo qui rinviare a Barberis ( 1988), specie pp. r 19-20, dove si insisteva sulla conciliazione delle due tradizioni, mentre qui si sottolinea soprattutto che la tradizione inglese viene comunque subordinata a quella francese, proprio come la strategia della bilancia viene subordinata a quella della regola.
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ma è anche vero che egli sembra abbandonare uno dei principi-guida del costituzionalismo repubblicano.
Questo abbandono sembra tanto più significativo in quanto Constant non allude solo a quella hérédité-magistrature teorizzata e rifiutata nei FCR, ma sembra addirittura ipotizzare una restituzione alla nobiltà di quel ruolo politico da essa perso, in Francia, ad opera dell'assolutismo monarchico (cfr. FCR, p. 131, e CPC, t. I, p. 36). È peraltro noto come Constant - che durante la discussione dell'Acte Additionel redatto per il Napoleone dei Cento giorni aveva sostenuto la necessità di una Camera nobiliare anche contro il parere dell'imperatore - abbia successivamente cambiato opinione, e per la stessa ragione che lo aveva indotto a respingere la Camera dei Lord già nei FCR: ovvero che un'istituzione siffatta può solo evolvere spontaneamente, ma non si può costruire dal nulla (cfr. ancora FCR, p. 133 e CPC, t. I, p. 315).
Se dall'atteggiamento nei confronti della Camera alta si passa a quello nei confronti del monarca, poi, non rimangono dubbi sulla sostanziale fedeltà di Constant alla tradizione francese rivoluzionaria: egli attribuisce a Luigi xvm, infatti, poco più di quel pouvoir neutre et préservateur concepito originariamente per un organo collegiale e repubblicano. Si può dunque accogliere la conclusione di M. C. J. Vile: il costituzionalismo monarchico di Constant appare caratterizzato proprio dal fatto di istituire la ba/ance fra organi e non fra classi 23 .
Bisogna però aggiungere due precisazioni: che questa era la posizione non solo di Constant, ma di tutto il costituzionalismo rivoluzionario francese (e americano); e che lo stesso Constant sembra aver provvisoriamente abbandonato questa posizione dal 1814 al r822, recuperandola a partire dai Mémoires sur !es Cents-Jours.
3. Quanto al carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata, anche il costituzionalismo monarchico di Constant manifesta la tendenza già intravista nel suo costituzionalisrno repubblicano: la tendenza, cioè, a combinare le due strategie, salvo subordinare rigorosamente la strategia britannica della bilancia a quella francese della regola. Lo abbiamo già visto a proposito della
23. Cfr. Vile (1967), p. 204: «the work of Constant represents in fact a cruda! turning point in institutional theory, a turning away from the old doctrines of mixed government to a new theory of constitutional monarchy [. .. J. The checks and balances of the constitution remained, but they were applied now not as checks berween classes, but as checks and balances berween the legislative, executive, and judicial branches of government>>.
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delimitazione della materia costituzionale: la strategia della regola, per la quale i diritti degli individui e le attribuzioni dei poteri supremi devono essere rigorosamente fissati dalla costituzione, è sovraordinata alla strategia della bilancia, per la quale tutto ciò che non è costituzionale può essere invece determinato dai bilanciamenti e dagli equilibri che si realizzano più o meno spontaneamente fra gli organi costituzionali.
Di fatto, nelle opere della Restaurazione si ritrovano le stesse osservazioni critiche nei confronti di Montesquieu, e le stesse affermazioni in termini di limitazione della somma totale dell'autorità, che abbiamo trovato negli inediti repubblicani: «avete un bel separare i poteri: - si legge ad esempio nei Principes de politique del r8r5 - se la somma totale del potere resta illimitata, basta che i poteri separati si coalizzino, e il dispotismo diventa irrimediabile» (CPC, t. 1, p. 13). Insomma: benché s'incontrino ancora lavori recenti che, sottovalutando la filiazione sieyesiana, attribuiscono a Constant improbabili ascendenze burkiane 2 4, anche il costituzionalismo monarchico constantiano si rivela, persino nei suoi segmenti più filobritannici, sostanzialmente fedele alla grammatica costituzionale della Rivoluzione francese.
Vite e opere
Montesquieu
Charles-Louis Sécondat, barone di Montesquieu, nasce a La Brède, castello di famiglia, nel 1689. Dopo aver compiuto studi giuridici, nel 1714 viene nominato consigliere, e nel 1716 eredita la carica di président à mortier (presidente di sezione) presso il Parlement di Bordeaux. Nel 1721 pubblica anonime le Lettres persanes, che ottengono un grande successo per la satira cui sottopongono i costumi occidentali e francesi in particolare. Dopo essere stato eletto, nel 1728, membro dell'Académie française, compie un lungo viaggio per l'Europa che nel 1730 lo porta anche in Inghilterra. Nel 1734 pubblica ad Amsterdam le Conszdérations sur la cause de la grandeur des Romains et de leur décadence; negli anni Quaranta lavora al suo capolavoro, l'Esprit des lois (1748), finito il quale vende le sue cariche in magistratura. n libro ottiene un enorme successo, ma suscita anche polemiche: nonostante la Dé/ense
24. Cfr. Fontana (1991), specie pp. 59-60. Una diffusa critica di questa tesi viene formulata in Barberis (1997bl, di cui questo capitolo costituisce per più versi una prosecuzione.
I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
de l'Esprit des Lois pubblicata a Ginevra nel 1750, esso verrà messo all'Indice un anno dopo. Montesquieu muore a Parigi nel 1755.
Opere principali
Lettres persanes (q2r), trad. it. Lettere persiane, Rizzo!i, Milano I952. Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence
h734l, Garnier Flammarion, Paris 1969. De l'esprt! des lois (1748), éd. par V. Goldschmidt, Garnier Flammarion,
Paris 1979, 2 voll. (citato nel testo come EDL), trad. it. a cura di S. Cotta, Lo spirito delle leggi, UTET, Torino 1965, 2 voll.
Pensées et /ragments inédits, éd. par H. Barckhausen, trad. it. Riflessioni e pensieri inediti, Einaudi, Torino i943·
Questi testi sono ricompresi, accanto ad altri e talvolta insieme con la corrispondenza, in Oeuvres complètes, éd. par R. Caillois, Gallimard, Paris 1949-5I, 2 voll.; Oeuvres complètes, éd. parA. Masson, Nagel, Paris 1950-55, 3 voll.; Oeuvres, éd. par D. Oster, Seui!, Paris I964.
Letteratura critica
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AA.VV. (1956), Actes du Congrès Montesquieu de Bordeaux 1955, Delmas, Bordeaux.
ALTHUSSER L. (I959), Montesquieu, la politique, l'histoire, PUP, Paris. "Cahiers de philosophie politique de l'Université de Reims" h985l, numero
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IL POTERE
E. f. Sieyes
Emmanuel-Joseph Sieyes nasce a Fréjus nel 1748, da una famiglia borghese. Nonostante una vocazione quantomeno dubbia, nel 1772 prende gli ordini sacerdotali, divenendo nel I 78 3 vicario generale della diocesi di Chartres. Nel periodo immediatamente precedente la Rivoluzione francese utilizza gli studi di tipo filosofico, economico e sociale compiuti sino ad allora per redigere alcuni dei più noti pamphlet rivoluzionari, il cui successo ne determina l'elezione agli Stati generali da parte del terzo stato. Dopo aver giocato un ruolo decisivo nella formazione della Costituente e nella sconfitta dei partigiani della costituzione inglese, durante la Legislativa Sieyes si avvicina a Condorcet e ai girondini, salvo votare, alla Convenzione, per la morte del re. Defilatosi durante il Terrore, dopo Termidoro rifiuta l'elezione a membro del Direttorio e viene inviato come ambasciatore a Berlino, da dove viene richiamato per assumere la presidenza di un Direttorio in sempre maggiori difficoltà. Artefice principale, insieme con Bonaparte, del colpo di stato di Brumaio, presidente del Senato nella nuova costituzione dell'anno VIII, viene presto eclissato dal primo console, poi imperatore dei francesi, da cui accetta titoli e onori che equivalgono alla fine della sua influenza politica. Trascorre gran parte della Restaurazione a Bruxelles, esiliato come ex regicida; tornato a Parigi dopo la rivoluzione di luglio, vi muore nel 1836.
Opere principali
Essai sur !es privilèges (1788), ora in Écrits politiques, éd. par R. Zapperi, EAC, Paris 1985; Qu'est-ce que le Tiers État? (1789), éd. par R. Zapperi, Droz, Genève 1970; Qu'est-ce que le Tiers État? (I789), éd. critique par E. Champion, Au Siège de la Société, Paris r888 (citato nel testo come QTE); Préliminaire de la constitution. Reconnaùsance et exposition raisonnée des droits de l'homme et du citoyen (1789; citato nel testo come RER), ora in S. Rials, La déc!aration des droits de l'homme et du àtoyen, Hachette, Paris 1988; Quelques zdées de Constitution applicables à la Ville de Paris, Baudouin, Paris 1789; Dire sur la question du Veto royal; Baudouin, Paris, s.d. (ma 1789); i due discorsi di Termidoro dell'anno m sono stati riediti e commentati in P. Bastid, Les discours de Sieyès dans !es débats constitutionnels de l'an III ( 2 et I 8 thermzdor), Hachette, Paris 1939 (citato nel testo come DS). Tutti questi testi e molti altri sono tradotti in ]. E. Sieyes, Opere e testimonianze politiche, a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffrè, Milano 1993, t. I, 2 voli.
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A. L. G. de Stael-Holstein
Anne Louise Germaine Necker nasce nel 1766 a Parigi; suo padre è quel Jacques Necker che diventerà ministro delle Finanze di Luigi xvr. Nel 1786 sposa Erich Magnus de Stael-Holstein, diplomatico presso l'ambasciata di Svezia a Parigi, da cui acquista il cognome e il titolo di baronessa. Segue da presso le vicende della Rivoluzione francese, legandosi a vari personaggi di primo piano, che in qualche caso aiuta ad emigrare all'estero. Nel 1794, in Svizzera, incontra Benjamin Constant, con il quale sarà legata per tutta la vita da un profondo legame intellettuale, e l'anno seguente rientra con lui in Francia, riaprendo il proprio salon e cercando d'influire in senso moderato sul regime direttoriale. Le sue manovre politiche, e le stesse opere letterarie che pubblica con crescente successo, le attirano l'ostilità dei governanti repubblicani prima e imperiali poi, insieme con un esilio che proseguirà, in modo prima intermittente poi duraturo, sino alla caduta di Bonaparte. Rientrata a Parigi, vi morirà nel r817; le sue Conszdérations sur la révolution /rançaise, pubblicate postume, conoscono un enorme successo.
Opere principali
De l'influence des passions sur le bonheur des individus et des nations (1796), trad. it. a cura di V. Magrelli, Il Melograno, Milano 198r.
De la lzttérature considérée dans ses rapports ave c les instt!utions sociales ( I 8oo), éd. critique par P. van Tieghem, Droz, Genève 1959, 2 voll.
De l'Allemagne (r81o), éd. par S. Balayé, Garnier Flammarion, Paris 1968. Considérations sur !es principaux évenéments de la révolution /rançaise (postumo,
1818l, éd. par J. Godechot, Tallandier, Paris 1983. Dix années d'exzl (postumo, 18zol, éd. par S. Balayé, Union Générale d'Édi
tions, Paris 1966. Des circonstances actuelles qui peuvent terminer la Révolution et des principe.\· qui
doivent fonder la république en France (postumo, 1906), éd. critique par L. Omacini, Droz, Genève 1979 (citato nel testo come CA).
Correspondance générale, éd. par B. Jasinski, Pauvert (t. r-rv), Hachette (t. vvr), Paris 1960-93.
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IL POTERE
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B. Constant
Benjamin Henri Constant de Rebecque nasce nel I767 a Losanna, in Svizzera, da una famiglia di protestanti francesi esiliata ai tempi delle guerre di religione; dopo un'educazione cosmopolita e una giovinezza errabonda, si lega a madame de Stael, con la quale si stabilisce a Parigi nel I795, all'indomani del Terrore. Qui si avvicina ad esponenti della sinistra non giacobina per sostenere il regime repubblicano; il colpo di stato di Brumaio lo trova vicino alle posizioni revisioniste di Sieyes. Nominato al Tribunato, si distingue nell'opposizione a Bonaparte, che gli varrà l'esclusione dalla vita pubblica per tutto il periodo napoleonico. In questi anni viaggia e soprattutto redige i suoi principali testi letterari e politici: in particolare il romanzo Adolphe, che uscirà nel I8I6, e i grandi trattati politici rimasti inediti sino ai nostri giorni. T ornato alla politica con la Restaurazione, utilizza i testi accumulati nel periodo precedente in una febbrile attività pubblicistica, che ne fa lo scrittore più rappresentantivo e l'oratore più ascoltato dell'opposizione liberale. Muore a Parigi nel I83o, poco dopo la Rivoluzione di Luglio; ai suoi funerali partecipa tutta Parigi.
Opere principali
De la force du gouvernement actuel de la France et de la nécessité de s'y rallier ( I796), éd. par Ph. Raynaud, Flammarion, Paris I988 (citato nel testo come FG), trad. it. a cura di M. Valensise, Donzelli, Milano I996.
Des réactions politique (I 797), trad. i t. a cura di A. Tagliapietra, in I. Kant, B. Constant, La verità e la menzogna, Bruno Mondadori, Milano 1996.
Des ejfets de la terreur (1797), trad. it. in B. Constant, A. Lézay-Marnésia, Ordine e libertà, a cura di M. Barberis, La Rosa, Torino I995.
Fragments d'un ouvrage abandonné sur la possibilité d'une constitution républicaine dans un grand pays, éd. par H. Grange, Aubier, Paris I99I (citato nel testo come FCR).
I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
Principes de polztique applicables à tous !es gouvernements, éd. par É. Hofmann, Droz, Genève I98o.
De l'esprit de conquete et de l'usurpation (I8I4), trad. it. con prefazione di F. Venturi, Einaudi, Torino I944 (ristampa r983l.
Réflexions sur !es constitutions et le garanties (I8I4) e De la responsabzlité des ministres ( I 8 I 5), poi riprodotti in Cours de politique constitutionnelle (I8I8-I82o), éd. par É. Laboulaye (I872), Slatkine, Paris I982, 2 voli. (citato nel testo come CPC); trad. it. Monni, Firenze I849, 2 voli.
Principes de politique applicables à tous les gouvernements représentanti/s (I 8 I 5), éd. par É. Hofmann, Droz, Genève I98o (citato nel testo come PP), e De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (r8I9), trad. it. in Princìpi di polttica, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1970.
Mémoires sur !es Cent-Jours (I820-22), trad. it. a cura di E. Emanuelli, Gentile, Milano I945·
Commentaire sur l'ouvrage de Fzlangieri (r822-I824l, trad. it. a cura di V. Frosini, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma I984.
De la religion (I824·3I), voli., Leroux (r), Béchet (r-rr), Pichon et Didier (rv), Paris.
Mélanges de littérature et de polztique (I829l, Pichon et Didier, Paris. Souvenirs historiques à l'occasion de l'ouvrage de M. Bignon. Première lettre, in
"Revue de Paris", 1830, t. xr (citato nel testo come SH). Traduzioni parziali o complete di questi e di altri testi si trovano anche
nell'Antologia di scrztti politici, a cura di A. Zanfarino, Il Mulino, Bologna I962 e in S. De Luca, Constant, Laterza, Roma-Bari 1993. Sono in corso di pubblicazione presso l'editore Niemeyer di Tubingen le Oeuvres complètes, che, tra corrispondenza e scritti editi e inediti, potrebbero arrivare a un centinaio di volumi.
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