Hegel o Spinoza

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Prefazione alla seconda edizione 1 Dedicare uno studio al rapporto tra due grandi filosofie storiche, come lo sono quella di Spinoza e quella di Hegel, è indiscutibilmente confrontarsi, al di là dei limiti di una comparazione formale, accademica nel suo procedere ed indifferente nel suo contenuto, con certe questioni fondamentali del procedere filosofico considerato in generale. «Spinoza», «Hegel»: queste espressioni indicano in primo luogo, per noi, sistemi di pensiero che hanno valore in sé stessi e si vincolano all'esistenza personale di questi autori, che li nomina dall'inizio, cioè, li designa e al tempo stesso li segna. Orbene, se si prende un po' più sul serio l'impresa del pensiero filosofico, bisogna riconoscergli una relativa autonomia in relazione con tali procedimenti di identificazione che, col pretesto di distinguerla, la disperdono e tendono a farla sparire in una pluralità indistinta di dottrine, privilegiando quei «punti» speculativi che costituiscono le posizioni concrete incarnate nella realtà empirica degli autori-sistemi. Ma sciogliere il laccio tra il gioco speculativo ed i discorsi individuali che li trasmettono è anche arrischiarsi a devitalizzare l'impresa del pensiero sottomettendola ad una valutazione astratta ed atemporale la cui universalità, alla fine, correrebbe il rischio di non avere contenuto. Per questo non è possibile neanche sottrarre completamente quest'impresa al suo attecchimento dottrinale: il lavoro della riflessione filosofica passa per la messa in prospettiva che le posizioni dei filosofi gli assegnano, nella misura in cui queste creano le condizioni della sua elaborazione, della sua espressione e, fino ad un certo punto, della sua interpretazione. La verità della filosofia è in Spinoza come deve essere in Hegel, cioè a dire che non sta totalmente in uno o nell'altro senza alcun luogo tra i due, nel passaggio che si effettua dall'uno all'altro. Detto altrimenti: la filosofia è qualcosa che passa, e che accade, là dove si trama l'incatenamento di pensieri che, nelle opere stesse, sfugge all'iniziativa storica dagli autori, e la cui ricezione riduce l'interesse che può aversi per le sue mire sistematiche, perché esso li guida dinamicamente nel movimento anonimo di una sorta di progetto collettivo che attribuisce la filosofia all'insieme dei filosofi, e non solamente a qualcuno di essi. Quando due pensieri tanto caratterizzati come lo sono quello di Spinoza e quello di Hegel reagiscono l’uno sull'altro, cioè contemporaneamente uno con l'altro ed uno contro l'altro, deve risultare qualcosa che, venendo 1 La prima edizione di quest’opera apparve nel 1979 per le Editions Maspero nella collezione «Théorie» diretta da Louis Altusser.

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Macherey

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Prefazione alla seconda edizione1

Dedicare uno studio al rapporto tra due grandi filosofie storiche, come lo sono quella di Spinoza e quella di Hegel, è indiscutibilmente confrontarsi, al di là dei limiti di una comparazione formale, accademica nel suo procedere ed indifferente nel suo contenuto, con certe questioni fondamentali del procedere filosofico considerato in generale.

«Spinoza», «Hegel»: queste espressioni indicano in primo luogo, per noi, sistemi di pensiero che hanno valore in sé stessi e si vincolano all'esistenza personale di questi autori, che li nomina dall'inizio, cioè, li designa e al tempo stesso li segna. Orbene, se si prende un po' più sul serio l'impresa del pensiero filosofico, bisogna riconoscergli una relativa autonomia in relazione con tali procedimenti di identificazione che, col pretesto di distinguerla, la disperdono e tendono a farla sparire in una pluralità indistinta di dottrine, privilegiando quei «punti» speculativi che costituiscono le posizioni concrete incarnate nella realtà empirica degli autori-sistemi. Ma sciogliere il laccio tra il gioco speculativo ed i discorsi individuali che li trasmettono è anche arrischiarsi a devitalizzare l'impresa del pensiero sottomettendola ad una valutazione astratta ed atemporale la cui universalità, alla fine, correrebbe il rischio di non avere contenuto. Per questo non è possibile neanche sottrarre completamente quest'impresa al suo attecchimento dottrinale: il lavoro della riflessione filosofica passa per la messa in prospettiva che le posizioni dei filosofi gli assegnano, nella misura in cui queste creano le condizioni della sua elaborazione, della sua espressione e, fino ad un certo punto, della sua interpretazione. La verità della filosofia è in Spinoza come deve essere in Hegel, cioè a dire che non sta totalmente in uno o nell'altro senza alcun luogo tra i due, nel passaggio che si effettua dall'uno all'altro. Detto altrimenti: la filosofia è qualcosa che passa, e che accade, là dove si trama l'incatenamento di pensieri che, nelle opere stesse, sfugge all'iniziativa storica dagli autori, e la cui ricezione riduce l'interesse che può aversi per le sue mire sistematiche, perché esso li guida dinamicamente nel movimento anonimo di una sorta di progetto collettivo che attribuisce la filosofia all'insieme dei filosofi, e non solamente a qualcuno di essi.

Quando due pensieri tanto caratterizzati come lo sono quello di Spinoza e quello di Hegel reagiscono l’uno sull'altro, cioè contemporaneamente uno con l'altro ed uno contro l'altro, deve risultare qualcosa che, venendo da ognuno, non appartiene propriamente a nessuno di essi ma costituisce, nell'intervallo che li separa, la loro verità comune. Orbene, se nel caso specifico di questi due filosofi il confronto si mostra particolarmente fecondo, è perché non costituisce l'incontro intellettualmente neutro tra due pensieri che si affronterebbero e rimarrebbero esterni l’un l'altro: è piuttosto questa messa alla prova reciproca che, al tempo stesso che fa sì che si comunichino, apre ciascuno di questi sistemi in sé stesso e l'espone ad una contestazione interna che suscita il riconoscimento dei suoi limiti. Così non sfuggiamo da questa doppia esigenza: leggere Spinoza in Hegel, leggere Hegel in Spinoza, come due specchi che riflettono rispettivamente le loro immagini.

La formula «Hegel o Spinoza», utilizzata qui per esporre tale confronto, comporta un'ambiguità semantica che conviene, se non sopprimere, almeno sottolineare, per caratterizzarla meglio. Nella lingua francese, l'utilizzo della congiunzione «o» confonde due figure della valutazione comparata che altre lingue, al contrario, distinguono: quindi l'«o» del francese traduce indistintamente il vel e l'aut... aut del latino che apparentemente affermano il contrario. Aut... aut è la formula dell'opposizione e dell'esclusione, è (o) uno o l'altro, ma non i due contemporaneamente. Se «Hegel o Spinoza» si dicesse in questa maniera, aut Hegel aut Spinoza, cioè «o Hegel o Spinoza», ciò equivarrebbe a presentare le due forme di pensiero come irriducibili ed a costituire i due termini di una scelta che non è possibile lasciare indefinitamente sospesa. Ma se si privilegia, per indicare il carattere inevitabile di questa

1 La prima edizione di quest’opera apparve nel 1979 per le Editions Maspero nella collezione «Théorie» diretta da Louis Altusser.

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alternativa, l'ordine dei nomi che inverte la successione cronologica, si fa passare Spinoza dopo Hegel, e non prima di questo, sembra compromettersi d’acchito in tale scelta, poiché per tale privilegio ha ricusato implicitamente la logica evolutiva che costituisce il cuore del sistema hegeliano, secondo il quale ciò che viene dopo ingloba e comprende necessariamente ciò che, precedendolo, costituiva solo la sua anticipazione o la sua preparazione; si è invertita, così, la prospettiva che la lettura hegeliana di Spinoza ordina subordinandola alla prospettiva - necessariamente ipotetica - di una lettura spinozista di Hegel la cui potenza speculativa, di conseguenza, sembra trionfare. Al di là di una misura reciproca dei sistemi, che li fa dipendere dalla loro relazione, il gioco di "o... o" sembra allora sfociare, più o meno dogmaticamente, in una risoluzione della crisi aperta col loro confronto, e scegliendo di porre Spinoza come alternativa a Hegel - e non all'inverso -, è dalla parte del primo, apparentemente, dove si va a cercare le condizioni di questa soluzione, per una decisione la cui necessità rimarrebbe allora da stabilire e da giustificare.

Ma non bisogna dimenticare che «Hegel o Spinoza» si può tradurre anche con «Hegel vel (sive) Spinoza», che significa apparentemente il contrario. La «o» è qui la formula dell'identità o dell'equivalenza. È ciò che si trova nella famosa espressione, tanto frequentemente attribuita a Spinoza - mentre egli non la scrisse mai in questa forma -, Deus sive natura, nella quale "Dio" e "natura" si presentano come due nomi differenti, ma anche indifferenti, per un'unica e stessa cosa. «Hegel» e «Spinoza», non sarebbero allora ugualmente due nomi per una stessa cosa? Ed in tale caso, quale sarebbe questa cosa che designerebbero indistintamente? È conveniente lasciare che questa domanda conservi fino alla fine il suo carattere interrogativo e non pretendere di risolverla in maniera definitiva. È essa che sostiene ed attraversa, dall'inizio alla fine, lo studio che si sta per leggere. D'accordo con lo spirito di questa interrogazione, si mette in evidenza che, sebbene è ineluttabile leggere Spinoza ed Hegel opponendoli l'uno all'altro - è il lato aut... aut della «o» -, non è meno necessario far sì che si riflettano l'uno all'altro, come se consegnassero loro elementi, o loro parti, ad un unico discorso, all'interno del quale le loro rispettive posizioni sarebbero indissociabili, perché il loro senso si spiegherebbe solo nella loro interazione - e qui è il lato sive della «o» quello che si mette di rilievo -.

Il dibattito che si erige tra queste due forme di pensiero non sarebbe allora necessario, e non avrebbe alcun significato, se non condividessero una stessa verità, il cui processo non appartiene né all'una né all'altra, perché si produce nell'intersezione dei loro rispettivi percorsi. Perciò questa verità sospesa, risultato della contestazione e del conflitto, non ha valore di una tesi stabilita, bensì quello di una critica e di una prova il cui oggetto è la filosofia stessa, come si spiega, attraverso l'insieme della sua storia, nell'elemento problematico della differenza e del dibattito.

Pierre Machereygiugno di 1990

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L'alternativa

Il 30 luglio del 1816, il prorettore dell'università di Heidelberg scrive a Hegel, allora direttore del ginnasio di Nüremberg, per proporgli una cattedra di professore titolare. Commenta la sua offerta nel seguente modo: «Heidelberg avrebbe per la prima volta, dalla fondazione dell'Università, nella sua persona un filosofo. Spinoza fu chiamato qui una volta, ma in vano, come lei sa senza dubbio...». Si conosce, in effetti, la lettera del 30 di marzo del 1673, diretta «al molto illustre e molto distinto Dr. Louis Fabritius, professore nell'Accademia di Heidelberg e consigliere dell'Elettore palatino", con la quale Spinoza aveva declinato l'invito ad occupare la cattedra di professore che gli era stata fatta, perché temeva di dover rinunciare al suo lavoro filosofico personale se si fosse dedicato ad insegnare ai giovani; lo intimoriva, soprattutto, che la sua libertà di filosofare potesse venir limitata per la necessità di rispettare le leggi stabilite ed i precetti della religione. Il suo rifiuto, chiaramente motivato, si concludeva così: «Ciò che mi trattiene non è per niente la speranza di una fortuna più alta, bensì l'amore per la mia tranquillità che credo dover preservare, in qualche modo, astenendomi da lezioni pubbliche.» Hegel conosceva quell'episodio che racconta anche nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia: «Spinoza (come sappiamo dalle sue lettere stampate) respinse l'offerta con buone ragioni, per 'non sapere entro quali limiti avesse dovuto rinchiudere quella libertà filosofica che si poneva come condizione il non attaccare la religione stabilita pubblicamente'."*Il 6 agosto di 1816, Hegel risponde al rettore con sollecitudine: «per amore per gli studi universitari» accetta la sua proposta, anche se gli sono aperte altre prospettive da parte dell'Università di Berlino; chiede solo che migliori il trattamento che gli offrono, che alloggi gratuitamente, che le spese del suo spostamento siano rimborsate. Un po' più tardi, il 20 agosto di 1816, quando questi problemi materiali sono stati già risolti soddisfacentemente per lui, Hegel torna sulla sua nomina per «esprimere la sua gratitudine, in parte per l'interesse che [il suo corrispondente] pone nei suoi confronti, in parte per manifestargli lo stato della filosofia in Germania e nelle università.» Aggiunge: «Non meno giubilante è per me la bontà con la quale lei considera i miei lavori precedenti e - ciò che è anche più - la bontà con la quale fonda speranze sulla mia attività in un'università. In nessuna scienza, in effetti, si è tanto solitari come nella filosofia, e sperimento profondamente il desiderio di un circolo di azione più vivo. Posso dire che è l'anelito più alto della mia vita. Sento anche quanto sfavorevole è stato per i miei lavori l'assenza di un'azione reciproca.» Hegel rimarrà un anno ad Heidelberg, dove comporrà ed insegnerà contemporaneamente la sua Enciclopedia delle scienze filosofiche. Nel 1817 accedeva finalmente al posto che desiderava nell'Università di Berlino.Dietro ciò che queste vicende hanno di aneddotico si annuncia già, tuttavia, un senso. Di questa storia gli hegeliani riterranno soprattutto che Hegel occupò il posto che Spinoza aveva lasciato vacante, compiendo, in questa "staffetta", una mansione che l'altro non aveva potuto o voluto compiere. Nessuno può saltare al di sopra del suo tempo: per Spinoza non era arrivato ancora il momento di esporre pubblicamente la vera filosofia. Altri, che si può chiamare spinozisti, vedranno qui, al contrario, l'indizio di una divergenza, di una separazione irriducibile, se non tra due sistemi, almeno tra due concezioni, o perfino due pratiche della filosofia.Il sistema hegeliano, la cui esposizione si costruisce e si sviluppa al tempo stesso che il suo autore percorre, felicemente, le tappe della carriera universitaria (dal precettorato privato all'Università di Berlino, passando per tutte le tappe intermediarie), l'una riflettendosi nell'altra e reciprocamente, dandogli la sua verità, non è fatto giustamente, nella sua organizzazione gerarchica, per essere insegnato nella cornice di un'istituzione pubblica di insegnamento? J. Derrida lo dice molto bene: «Hegel non concepisce la scuola come la conseguenza o l'immagine del sistema, neanche come la sua pars totalis: il sistema stesso è un'immensa scuola, da parte a parte l'autoenciclopedia dello spirito

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assoluto nel sapere assoluto. E una scuola dalla quale non si esce, bensì un'istruzione obbligatoria: la quale si obbliga a sé stessa dato che la necessità non può arrivargli dal di fuori.»2

La dottrina spinozista, al contrario, benché abbia saputo dare alla preoccupazione politica il suo vero posto nella speculazione filosofica (vedi non solo i Trattati, ma anche l'Etica: questa è una delle sue chiavi), respinge profondamente tale ufficializzazione. Espone il punto di vista di un solitario, di un riprovato, di un ribelle, e si trasmette di bocca in bocca. Se fosse insegnata, correrebbe il rischio di entrare in contraddizione con se stessa, per accettare di avere un posto nel meccanismo di oppressione materiale ed intellettuale che subordina tutto al punto di vista dell'immaginazione. La filosofia sopprime la paura ed ignora l'obbedienza; non può essere, quindi, insegnata pubblicamente. La filosofia di Hegel si insegna ad alunni, dall'alto al basso; la filosofia di Spinoza si trasmette a discepoli, in un livello di uguaglianza. Qui si abbozza una differenza che è necessario prendere sul serio.Tuttavia, l'accostamento tra Spinoza e Hegel è un luogo comune, perché c'è tra essi un'evidente familiarità. Non può leggersi oggigiorno Spinoza senza pensare a Hegel, forse perché tra Spinoza e noi c'è Hegel che si interpone o che intercede. Hegel stesso non smise di pensare dentro Spinoza - o piuttosto di pensarlo: per dirigerlo, assorbirlo come un elemento dominato dal suo proprio sistema -. Ma il fatto che Hegel non abbia smesso di riprendere il problema che gli esponeva Spinoza indica anche che trovava in lui qualcosa di indigesto, una resistenza che gli fu sempre necessario affrontare di nuovo. Tutto succede come se Spinoza avesse occupato, rispetto al discorso hegeliano, la posizione di un limite che Hegel respingeva nel momento stesso in cui l'includeva.Per questo l'impresa di comparare la filosofia di Spinoza con quella di Hegel è fondamentalmente deludente. Bisogna cogliere in effetti in cosa si appoggia tale comparazione: nei sistemi, cioè nei discorsi organizzati formalmente a partire da un principio di coerenza interna, tra i quali si può cercare di stabilire una corrispondenza che si interpreta come una relazione di filiazione o una differenza che esclude ogni possibilità di comprendere l'uno a partire dall'altro. Così, in un annesso del suo monumentale studio su Spinoza, dove analizza l'interpretazione che Hegel dà dello spinozismo, M. Gueroult giunge alla conclusione di un radicale «disconoscimento», fondato su una «fantasia»: quelli che riprendono questa interpretazione «non fanno altro che proiettare nella dottrina di Spinoza tutto un mondo di concetti nati da un'altra parte e senza relazione con essa.»3 Come ci mostrerà uno studio dettagliato dei testi che Hegel dedica a Spinoza, è difficile non sottoscrivere la constatazione di M. Gueroult almeno in questo: la ricerca di una pretesa omogeneità, di una somiglianza o di una relazione evolutiva tra le due filosofie, se non è condannata assolutamente al fallimento, conduce a risultati senza interesse. Tende solamente a ridurre entrambe le dottrine ad un modello comune che non rappresenta autenticamente né l'una né l'altra.Ma, sebbene bisogna andare contro la propensione agli accostamenti troppo evidenti che procedono per analogia, scartare la tentazione di cercare tra Spinoza e Hegel la similitudine globale di un senso comune, attraverso il quale si manifesterebbe l'identità o la convergenza dei due pensieri, non sarebbe meno assurdo decretare che si tratta di due forme di riflessione filosofiche radicalmente esterne l'una all'altra e rimetterle, come sistemi estranei, alla loro indipendenza. Effettivamente, è incontestabile che Hegel e Spinoza si incontrarono, anche se quell'incontro prese, da parte di Hegel, la forma di uno straordinario malinteso. Sebbene Spinoza e Hegel non percorrono, insieme o l’uno dietro l'altro, uno stesso percorso, ciò che resta, in realtà, è che le loro rotte si incrociarono che si avvicinarono in certi momenti per separarsi dopo verso direzioni decisamente opposte. Da questo punto di vista, più che comparare sistemi, tentativo condannato al fallimento o a trionfi troppo facili, può essere significativo cercare tra questi due filosofi singoli punti di intersezione, perché sono essi quelli che spiegano il

2 Qui a peur de la philosophie?, "L'âge de Hegel", volume collettivo del G. R. E. P. H . , p. 106.3 M. Gueroult, Spinoza, 1.1. p. 468.

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sentimento di strana familiarità che sperimenta ogni lettore hegeliano di Spinoza, ogni lettore spinozista di Hegel.Nei suoi Elementi di autocritica, L. Althusser parla della «ripetizione anticipata di Hegel da Spinoza.» Elenchiamo alcuni punti che giustificano tale affermazione: il rifiuto di una concezione relativistica della conoscenza e l'idea che c'è nella ragione qualcosa di assoluto che l'imparenta col reale; la scoperta del carattere formale di ogni rappresentazione finita, condannata all'astrazione; la critica dell'«infinito malo»; l'idea che la conoscenza è un processo reale che porta in sé le condizioni della sua obiettività. In tutti questi punti, anche se entrambi li riflettono con elementi concettuali molto differenti, perfino se a partire da essi arrivano da conseguenze opposte, Spinoza ed Hegel hanno evidentemente qualcosa in comune che li distingue di tutti gli altri. Bisogna spiegare questo accostamento.Abborderemo la questione appoggiandoci alla lettura che ha fatto di Spinoza lo stesso Hegel. Questa lettura è molto istruttiva, non perché manifesti la verità dello spinozismo, finalmente svelata da Hegel, bensì, al contrario, perché riposa su un formidabile errore: tutto accade come se Hegel si fosse procurato i mezzi per costruire un'interpretazione dello spinozismo che gli consentirebbe di ignorare la sua lezione essenziale, nella misura in cui questa ha qualcosa a che vedere giustamente col suo proprio sistema. Tale interpretazione appare come una sorta di difesa ostinata eretta contro un ragionamento che fa vacillare la filosofia hegeliana stessa. Da qui questo effetto paradossale: Hegel non sta mai tanto vicino a Spinoza come nel momento in cui si allontana da lui, perché questo rifiuto ha valore di sintomo ed indica la presenza ostinata, se non di un progetto, di un oggetto in comune che lega inseparabilmente i due filosofi senza confonderli.Tenere in conto questa relazione conflittuale significa uscire dalla concezione formalistica della storia della filosofia che sopprime in essa ogni storicità e la ritaglia in unità irriducibili ed arbitrarie la cui dispersione è, al massimo, oggetto di un commento descrittivo, tanto più esaustivo quanto più si rinchiude dall'inizio nei limiti della coerenza interna dei sistemi ed elimina ogni interrogazione sulla loro posizione storica. Contro quella dispersione, il cui significato è al massimo estetico, nella misura in cui fa delle dottrine opere d'arte, bisogna arrivare a pensare una certa forma di unità, un legame, tra filosofie diverse: la questione è sapere se ciò è possibile senza ricadere nel confusionismo che identifica puramente e semplicemente le diverse filosofie nella finzione di una verità comune.Tra Hegel e Spinoza accade qualcosa di essenziale che legittima che li si accosti: non è il riconoscimento diretto e franco di due pensieri che leggerebbero l'uno nell'altro, a libro aperto, la loro identità nell'unità di un discorso confessato e condiviso, bensì una tensione irriconciliabile che suppone un fondo comune da accerchiare: come minimo la prosecuzione di uno stesso problema, diversa e perfino conflittualmente risolta.Per semplificare, si potrebbe dire che il problema è quello della dialettica, ma sarebbe assurdo scoprire in Spinoza l'abbozzo o la promessa di una dialettica, manifestamente assente dalla sua opera. Tuttavia, ciò non impedisce che noi stessi possiamo, a partire da Spinoza, pensare di nuovo la dialettica, cioè esporle quelle questioni che Hegel scartò dal suo proprio sistema perché gli erano insopportabili. Nello specchio dello spinozismo, il discorso hegeliano lascia vedere indubbiamente la sua propria limitazione, o addirittura la sua contraddizione interna. Spinoza in Hegel: questo non significa che bisogna leggere l'Etica come un inizio incompiuto della Logica, come fa lo stesso Hegel, ma che bisogna cercare tra queste due filosofie l'unità conflittuale che spiega il sorprendente fenomeno di disconoscimento/riconoscimento che le lega opponendole. Hegel o Spinoza: è uno che si divide in due.Diciamo: Hegel o Spinoza, e non l'inverso. Dato che è Spinoza quello che costituisce la vera alternativa alla filosofia hegeliana. La discussione che andiamo ad intavolare implica allora più di una questione: non fa solo apparire il limite del sistema hegeliano, la cui universalità è necessariamente storica, ma contemporaneamente ci permette di uscire dalla concezione evolutiva della storia della filosofia, che è anche un'eredità dell'hegelianismo. Secondo questa concezione, Hegel considera sé stesso come l'unica

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alternativa possibile allo spinozismo, dovendo chi precede cedere il posto a chi viene dopo, in questo movimento di elevazione che avvicina sempre più lo spirito a sé stesso. Orbene, noi vogliamo qui rovesciare il dominio di questa interpretazione universitaria e progressiva della storia della filosofia che è dialettica solo in apparenza.Secondo Hegel, il pensiero di Spinoza non è tuttavia sufficientemente dialettico. E se lo fosse troppo? O, almeno, se lo fosse in una maniera inaccettabile per Hegel? Il rifiuto di questa dialettica - diciamo, per andare più veloci, di una dialettica senza teleologia -, alla quale Hegel procede per mezzo di Spinoza, è la sua maniera di trovare nello sviluppo del suo proprio pensiero un ostacolo insormontabile: quello di un discorso del quale bisogna dire non che non è ancora hegeliano, ma lo è già più. E è la presentazione evoluzionista della storia della filosofia quella che esce qui sconfitta, poiché anche Spinoza, obiettivamente, confuta a Hegel.

Questo libro riprende e sviluppa il contenuto di un'esposizione che feci nel 1977 al convegno Spinoza organizzato dalle Università di Leyde e di Amiens: un passaggio del terzo capitolo fu pubblicato anteriormente sui verbali di quel convegno.D'altra parte, ho dovuto trattare queste stesse questioni molte volte in occasione di corsi. Vorrei ringraziare gli studenti che ebbero la pazienza di ascoltarmi ed le cui reazioni, suggestioni e contributi mi sono stati molto utili; ho dovuto leggere molte tesi di lauree su Spinoza, in particolare quella di Bruno Huisman (Hegel devant Spinoza), che comportava una prova di traduzione del capitolo su Spinoza delle Lezioni sulla storia della filosofia di Hegel (in collaborazione con A. Lacroix). Per quanto riguarda quest'ultimo testo, arrischio qui le mie proprie traduzioni.

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I. Hegel lettore di Spinoza

Il punto di vista della sostanza

Tutto comincia, in Hegel, con un riconoscimento. C'è nella filosofia di Spinoza qualcosa di eccezionale e ineluttabile. «Spinoza è tanto fondamentale per la filosofia moderna che può ben dirsi: chi non è spinozista non ha alcuna filosofia (du hast entweder den Spinozismus oder keine philosophie)»4. Occorre passare per Spinoza, perché è nella sua filosofia che si lega la relazione essenziale del pensiero con l'assoluto, unico punto di vista dal quale si espone la realtà completa e si avverte che la ragione non ha nulla fuori di se stessa ma comprende tutto in sé. Così ogni filosofia, tutta la filosofia diventa possibile.Per Hegel, Spinoza occupa quindi la posizione di un precursore: con lui comincia qualcosa. Ma, giustamente, non è più che un precursore: ciò che comincia con lui non si conclude, al modo di un pensiero fissato che si tronca la possibilità di raggiungere un obiettivo indicato, tuttavia, da esso. È per questo che Hegel scopre nell'opera di Spinoza tutti i caratteri di un tentativo abortito, bloccato da difficoltà insormontabili che essa stessa ha stabilito prima della sua propria progressione. Questa conoscenza fondamentale ma strappata non ha allora più che un significato storico: nel processo dell'insieme della filosofia, Spinoza occupa una posizione molto particolare, dalla quale l'assoluto è percepito, ma raccolto limitatamente come una sostanza. Con Spinoza, e con il suo sforzo di pensare l'assoluto, si indica in un certo modo una data, ma i limiti storici di questo pensiero fanno sì che è impossibile andare più lontano, in attesa di questo punto vista finale nel quale Hegel è già installato e dal quale interpreta retrospettivamente tutte le filosofie precedenti.Quest'analisi è illustrata da un'espressione completamente caratteristica che torna ogni volta che Hegel parla di Spinoza. Ad esempio, nel libro I della Logica: «In Spinoza, la sostanza e la sua unità assoluta ha la forma di un'unità immobile, di una rigidità nella quale non si incontra ancora il concetto dell'unità negativa del Se, della soggettività»5. O anche nel paragrafo 50 de La logica dell'Enciclopedia: «La sostanza assoluta di Spinoza non è ancora certamente lo spirito assoluto». E nel capitolo delle Lezioni di storia della filosofia dedicato a Spinoza: «La sostanza assoluta è la verità, ma non è la verità intera». In questa modalità così particolare di un «già» che è anche «non ancora», propria di ogni anticipazione, Spinoza si stacca dal fondo di tutta la storia della filosofia, la cui progressione sottolinea arrestandola.Quindi quando Hegel, nell'introduzione al terzo libro della Logica, «Del concetto in generale», espone le condizioni che gli permettono di interpretare le dottrine filosofiche e chiarire il loro significato concreto, non può che riprendere l'esempio di Spinoza:

«[...] l’unica confutazione dello spinozismo può consistere solo nel fatto che il suo punto di vista sia, in primo luogo, riconosciuto come essenziale e necessario; ma che, in secondo luogo, questo punto di vista sia portato, a partire da sé, verso un punto di vista più elevato».6

Questo punto di vista è quello della sostanza, in tanto che «ancora» non è soggetto, per riprendere una formula ben conosciuta della prefazione de La fenomenologia.

«La sostanza è una fase essenziale nel processo di sviluppo dell'idea, non tuttavia essa stessa, non l'Idea assoluta, ma l'idea nella forma ancora limitata della necessità».7

4 Lezioni di storia della filosofia, cap. «Spinoza».5 Logica, trad. Labarriére, Aubier, t. I, p. 249.6 Logica, trad. Jankélévitch, Aubier, t. I I , p. 248 [1,11, Libro 3ffl, «Del concetto in generale», p. 254).7 Logica de l'Enciclopedia, trad. Bourgeois, Vrin, adición al § 151, p. 584; vedi anche nel 5 159, p. 405.

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L'opera di Spinoza è significativa perché tende verso qualcosa a cui non arriva: dominare il suo senso significa proseguire questa tendenza oltre i limiti che la fermano, cioè, superarla risolvendo la sua contraddizione interna.

Perciò, occorre cambiare punto di vista ed installarsi nel punto di vista di un assoluto che non è soltanto sostanza ma anche soggetto. Ebbene, questo passaggio da un punto di vista all'altro dipende da condizioni storiche: la storia è questo processo irresistibile ed irreversibile che trasforma i punti di vista non soltanto nel senso del loro ampliamento graduale, ma anche nel movimento reale della loro decomposizione, seguita dalla loro ricostruzione su nuove basi; così, ci si «eleva» incessantemente a un punto di vista superiore. Al limite, si potrebbe dire che Spinoza era hegeliano senza saperlo, e quindi in modo incompleto, mentre Hegel sarebbe uno spinozista cosciente dei limiti di questo punto di vista singolare da cui ha saputo distaccarsi, una volta per sempre, installandosi nel punto di vista dell'universale.È per questo che l'interpretazione che Hegel dà di Spinoza non si riduce alla ricerca di un senso compiuto: se c'è una «verità» della dottrina, diventa irrisorio ogni tentativo di confutazione esterna perché tale tentativo opporrebbe arbitrariamente al suo punto di vista un altro punto di vista indipendente, questa verità è relativa alla situazione molto particolare che tiene Spinoza nell’insieme del processo della storia della filosofia, e non può staccarsene. Colto all'interno, in questa tensione e limitazione che impone a se stesso, questo punto di vista è allo stesso tempo, in sé stesso, la sua propria giustificazione e la sua propria confutazione: se lo si riconduce al suo movimento interno, si vede che si disfà nel tempo stesso in cui si costruisce, e con gli stessi mezzi, poiché questo movimento lo porta al di là di sé stesso. Non si tratta allora, per Hegel, di «tornare» a Spinoza per scoprire in lui la forma astratta di una verità incompiuta, coerente ed autonoma; al contrario, è necessario rendere manifesta questa trasformazione immanente, questo «passaggio» che induce già il sistema verso un altro sistema e ci induce a leggerlo come l'abbozzo, o il progetto, di un nuovo senso sospeso che non ha ancora trovato le condizioni per la sua realizzazione. Per tale ragione, la lettura hegeliana di Spinoza è in un certo modo doppia: cerca nella dottrina i segni di una verità che si annuncia e, allo stesso tempo, scopre la forma reale della sua assenza, gli ostacoli che si oppongono alla sua manifestazione e costringono a parlare di essa soltanto per difetto. Comprendere lo spinozismo è allora, in primo luogo, identificare la contraddizione sulla quale è fondato. Come vedremo, questa contraddizione è immediatamente manifesta. Abbiamo detto che la verità profonda dello spinozismo consiste nel suo sforzo di pensare l'assoluto. Anche se questo problema non appare nella storia della filosofia con lui - si hanno precedenti di dei quali parleremo -, in lui costituisce per la prima volta l'oggetto di uno sviluppo e di un tentativo di risoluzione sistematica. C'è in Spinoza un orientamento verso il sapere assoluto, e ciò che lo rappresenta, secondo Hegel, è il concetto di causa sui, che dà a tutta la dottrina una base razionale:

«La prima definizione di Spinoza è quella della causa sui, che è concettualizzata come 'cuius essentia involvit existentiam' [...]; l’inseparabilità del concetto e dell’essere è la determinazione fondamentale e l'ipotesi».8

Infatti, con la causa sui è pone dall'inizio l'identità tra ciò che è e ciò che è concepito, tra l'essere ed il pensiero, che è per Hegel la condizione di un pensiero assoluto che non ha nulla fuori di sé e si sviluppa, di conseguenza, in una riflessione immanente ed universale. Tornando su queste definizioni nella nota storica del libro II della Logica dedicata a Spinoza, Hegel parla di questi concetti «profondi e

8 Enciclopedia, § 76 modificato

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precisi».9. E nelle sue Lezioni su Spinoza, ancora più precisamente, dice: «Se Spinoza avesse continuato a sviluppare ciò che questa causa sui implica, non sarebbe arrivato, come arriva, alla conclusione che la sostanza è l’Immobile (das Starre).» Sicché la contraddizione specifica dello spinozismo appare immediatamente: il suo primo concetto porta in sé la promessa ed il fallimento di una verità, della quale egli dà solo un punto di vista in un sapere incompleto.Prima di chiarire ciò che, secondo Hegel, manca nel concetto di causa sui e gli impedisce di superare la sua propria limitazione, possiamo fare immediatamente un'osservazione che chiarisce lo stile di questa interpretazione e rende manifesta la distanza nella quale questa si situa immediatamente rispetto alla dottrina che lavora. Prima di tutto, si può mostrare, come fa M. Gueroult, che il concetto di causa sui non ha in Spinoza realmente un valore iniziale fondante: non rappresenta una verità primaria, un principio in senso cartesiano, a partire dal quale tutto il sistema potrebbe essere sviluppato come a partire da un germe di verità. La causa sui è una proprietà della sostanza e si spiega attraverso essa. Ma non si tratta, almeno per Spinoza, di definire una cosa, quale che sia, con la sua proprietà; procedendo in tale modo si cade in una grave confusione subordinando l'essenza di Dio alla sua potenza, che è la chiave di tutte le teologie finalistiche che si appoggiano all'immaginazione. È quindi per facilità, ed in maniera inadeguata, che si riduce la sostanza alla causa sui, mentre il concetto di quest'ultima, al contrario, si chiarisce veramente soltanto a partire da quello di sostanza: «si res in se sit, sive, ut vulgo dicitur, causa sui» (De intellectus emendatione). È quindi per un modo di dire che si assimila la sostanza alla causa sui.10

Ma è possibile andare più lontano: ciò che Hegel presuppone qui è meno che la causa sui sia il concetto fondamentale dello spinozismo - qualcosa che si presta a controversia, come abbiamo appena visto – che il fatto che lo spinozismo ammetta un concetto primo dal quale procedere. Ciò significa che l'impresa di un sapere assoluto abbozzata da Spinoza si sviluppa a partire da un inizio assoluto, e che questo è anche il vero punto di partenza della sua interpretazione. Non è strano, quindi, che Hegel stesso si sia impegnato nell'impresa di una critica allo spinozismo: una delle idee cruciali del suo sistema è che effettivamente il sapere assoluto non comincia, o piuttosto che non può cominciare assolutamente; la sua infinità si scopre proprio in quest'impossibilità di un primo cominciamento che sia anche un vero cominciamento o un cominciamento vero. Inoltre, quale che sia la verità del concetto di causa sui - cosa che «risiede in esso», per riprendere i termini di Hegel - il fatto stesso che dà al sistema di Spinoza un cominciamento, gli basta per marcare il limite di questo sistema.Qui noi stessi possiamo iniziare a stupirci. Ignora Hegel che questa aporia del cominciamento, che mette la sua logica in movimento, questa impossibilità di poggiare il processo infinito della conoscenza su una verità prima che sia il suo fondamento o il suo principio, è anche una lezione essenziale dello spinozismo, l'obiezione principale che quest'ultimo formula alla filosofia di Descartes? In questo modo, che è soltanto ut vulgo dicitur, un modo di dire, che l’esposizione geometrica dell'Etica «comincia» con definizioni che, d'altra parte, hanno un senso effettivo soltanto nel momento in cui funzionano in dimostrazioni in cui producono realmente effetti di verità: il pensiero spinozista, precisamente, non ha questa rigidità di una costruzione che, poggiata su una base, estende i suoi prolungamenti fino ad un punto terminale, trovandosi così limitata tra un principio ed una fine. Essa non obbedisce al modello dell'ordine delle ragioni.

Orbene, la cosa sorprendente è meno che Hegel abbia ignorato un aspetto importante dello spinozismo - tutto il mondo può sbagliarsi, perfino Hegel, che tuttavia pretende di sfuggire da questa condizione comune - quanto il contenuto inaspettato di questo errore. Poiché, ciò che Hegel non vede in Spinoza è quella verità nuova la cui scoperta egli stesso rivendica e che utilizza per garantire la forma finale della sua filosofia ed il successo della sua ultima realizzazione. Hegel ignora, dunque, in Spinoza ciò che

9 Hegel, Logica, § 118010 M. Gueroult, Spinoza, 1.1, p. 41.

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nessuno stava in condizioni migliori di lui per riconoscere, dato che egli stesso lo ha pensato: si potrebbe dire che egli procede alla negazione di ciò che può esserci di hegeliano in Spinoza, a meno che non cerchi di esorcizzare il suo proprio spinozismo. Non è perché teme che non solamente Spinoza sia stato hegeliano, ma soprattutto che lo sia stato di più ed in maniera più conseguente di egli stesso? L'inammissibile, allora, si produce: l'evoluzione storica devia dal suo senso ineluttabile che subordina chi che sta prima a chi che viene dopo e che conduce successivamente dall'uno all'altro, facendo della teleologia la chiave di tutta la filosofia.Fatte queste osservazioni, sulle quali ritorneremo, possiamo indicare ora quello che, secondo Hegel, "manca" al concetto di causa sui e compromette il suo sviluppo in Spinoza. La causa sui continua ad essere un principio sostanziale al quale manca "il principio di personalità"11[8]: costituisce così una sostanza che non può divenire soggetto, alla quale manca quella riflessione attiva di sé che gli permetterebbe di realizzarsi liberamente nel suo proprio processo. Se Spinoza non seppe, o non poté, sviluppare il concetto dalla causa sui, è perché questo, come lui l'aveva definito, non conteneva nient'altro che un'identità astratta ed indifferente di sé a sé, nella quale il Sé non è nient'altro che quello che è già al suo inizio, senza possibilità di un passaggio reale verso sé, di un movimento immanente che non sia quello della sua pura e semplice sparizione. Il punto di vista della sostanza esprime l'assoluto alla sua maniera: senza la vita che lo anima e lo fa esistere. È lo spirito fissato e morto che non è che sé, in una restrizione originaria che lo condanna fin dal principio.Così il punto di vista della sostanza formula, al tempo stesso che si enuncia, le condizioni della sua propria annichilazione: la sua immobilità è apparente, perché è il precario equilibrio che deriva da un conflitto interno, impossibile da contenere definitivamente. I limiti del sistema, sebbene siano reali per il pensiero che ostacolano, sono fittizi dal punto di vista dell'assoluto, poiché questo oppone alla violenza che gli viene fatta una violenza più grande e porta il sistema oltre i limiti illusori che gli impongono le condizioni della sua coerenza formale. Negatività immanente che mina la dottrina dall'interno e la forza a dichiarare quello che tuttavia lei stessa si rifiuta di dire: proprio qui, in questa confessione, sta la sostanza che diviene soggetto. Una volta rivelata questa contraddizione iniziale, la filosofia di Spinoza si può comprendere assolutamente in un senso inverso a quello che proferisce. Il discorso di Spinoza, secondo Hegel, è interamente segnato da questo destino che lo condanna e l'assolve, che annuncia al tempo stesso la sua sparizione e la sua resurrezione nel corpo vivo del sapere assoluto nel quale si realizza. Leggere Spinoza è in realtà per Hegel ricostruire di nuovo l'edificio del suo sapere, facendo apparire le condizioni di un altro sapere del quale esso è solo la forma incompiuta o la rovina anticipata, poiché, in Spinoza, lo sforzo per allacciare il sapere e l'assoluto si risolve solamente in una promessa non compiuta.

Una filosofia del cominciamento

L'interpretazione che Hegel dà di Spinoza fa valere innanzitutto, come abbiamo appena visto, l'idea del cominciamento. Filosofia che comincia, lo spinozismo è anche un pensiero del cominciamento. Seguendo una formula dell'Enciclopedia, è «il corso fondamentale di ogni vero sviluppo ulteriore.» Ed anche, nelle Lezioni sulla storia della filosofia: «il pensiero non ebbe altra scelta che collocarsi nel punto di vista dello spinozismo; essere spinozista è il punto di partenza essenziale di ogni filosofia». Così si annoda il laccio che unisce la filosofia di Spinoza con tutti i pensieri dell'inizio.Hegel si avventura qui in un ragionamento abbastanza paradossale: presenta Spinoza come un punto di partenza, perfino come il punto di partenza della filosofia e, contemporaneamente, lo pone nella

11 Logica, trad. Labarriére, Aubier, t. I I , p. 239 [L, I I , "Nota...", p. 197].

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filiazione di tutti quelli che seppero cominciare, ma non più di quello, senza che il suo sforzo conducesse effettivamente alla scoperta del vero:

«Dio è in realtà sicuramente la necessità o, come anche si può dire, la Cosa assoluta, ma al tempo stesso anche la Persona assoluta, ed è in questo punto che bisogna riconoscere che la filosofia spinozista restò dietro al vero concetto di Dio, che forma il contenuto della coscienza religiosa cristiana. Spinoza era di origini ebree, ed è insomma l'intuizione orientale, secondo la quale ogni essere finito appare solamente come un essere che passa, come un essere che sparisce, ciò ha trovato nella sua filosofia un'espressione conforme al pensiero. È certissimo che quell'intuizione orientale dell'unità sostanziale costituisce il fondamento di ogni sviluppo vero ulteriore, ma non si può fermarsi lì; quello che ancora gli manca è il principio occidentale dell'individualità.»12

Lo spinozismo è allora contemporaneamente un punto di partenza ed un punto d’arrivo, dato che, in ciò che comincia, deve esserci anche qualcosa che termina. La singolarità dello spinozismo si afferma nel prolungamento di tutta una tradizione il cui movimento d’insieme riassume: in essa domina ancora, ma per l'ultima volta, l'«intuizione orientale.» Così comincia il capitolo delle Lezioni sulla storia della filosofia dedicato a Spinoza:

«[...] la profonda unità della sua filosofia, così come attraverso di lui si manifesta in Europa, la concezione dello spirito, dell'infinito e del finito come identici in Dio, senza vedere in questo un terzo termine, è in realtà un'eco del pensiero orientale.»

È questo che dà a questa filosofia un carattere inconfondibile: con essa termina il discorso sulle origini.In Hegel Oriente è la figura visibile di ciò che comincia: questa figura è più mitica che storica, ma il mito, non è la forma di esposizione più appropriata per un'origine? È il momento in cui si afferma per la prima volta l'assoluto nella sostanza che esclude l'individualità di un soggetto:

«In Oriente il rapporto capitale è allora il seguente: che la sostanza unica è come tale il vero e l'individuo in sé è senza valore e non ha niente da guadagnare per sé intanto che mantiene la sua posizione contro ciò che è in sé e per sé; esso non può avere, al contrario, vero valore se non confondendosi con questa sostanza, da dove risulta che questa smette di esistere per il soggetto e che il soggetto stesso smette di essere una coscienza e che svanisce nell'inconscio.»13

La sublimità, l'immensità di questa rappresentazione che assorbe di colpo tutta la realtà in un unico essere o in un'unica idea resta formale, poiché coincide con la povertà irrisoria delle manifestazioni esterne di questa sostanza che non sono effettivamente più che vuota esteriorità:"Il finito non può divenire verità se non immergendosi nella sostanza; separato da essa, rimane vuoto, povero, determinato per sé, senza lacci interni. E, non appena troviamo in essi [gli Orientali] una rappresentazione finita, determinata, non è più che un'enumerazione esteriore, secca, degli elementi - qualcosa di molto penoso, vuoto, pedantesco, insulso -».14

12 Enciclopedia, add. al § 151.13 Introduzione alle Lezioni sulla storia della filosofia, trad. Gibelin, Gallimard, col. "Idees", t. 11. p.74.14 Ibidem, p. 76.

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Avendo riflesso l'assoluto in un’unica istanza, questo pensiero non può poi più che enumerare astrattamente le manifestazioni, tra le quali non appare più, se le si stacca dalla loro origine, nessuna forma vera di unità.

Qui, il richiamo a un sapere assoluto che non sia solamente sapere dell'assoluto si realizza nell'estasi immediata, da qui che ogni coscienza viene necessariamente abolita: è il sapere che si realizza nella forma della sua propria negazione. Orbene, in Spinoza stesso, dietro le apparenze del rigore geometrico, che per Hegel sono solo una maschera (una forma senza contenuto), si trova, per ultima volta, quell'abisso di incoscienza che esclude un discorso razionale:

«[...] come nello spinozismo il modo come tale non è precisamente il vero e solo la sostanza è il vero, e tutto deve ridursi ad essa - il che è allora un immergersi di tutto il contenuto nella vacuità, questo è, nell'unità solo formale e carente di contenuto, così pure Siva è a sua volta il gran tutto, non differente da Brahma, bensì Brahma stesso. Cioè, la differenza e la determinazione spariscono a loro volta, ma non sono conservate e non sono eliminate (aufgehohen), e l'unità non si converte nell'unità concreta, la scissione non viene ricondotta alla conciliazione. Il fine supremo per l'uomo, costretto nella sfera del nascere e del perire, cioè della modalità in generale, è l'immergersi nell'incoscienza, l'unità con Brahma, l'annientamento; questo è il Nirvana buddista, il Nieban, ecc.».15

«È la stessa cosa...»: questo straordinario sincretismo storico non ha limiti per Hegel, apparentemente, dato che è anche pertinente per rischiarare certi aspetti del pensiero «occidentale».Commentando, nelle Lezioni sulla storia della filosofia, la famosa frase di Parmenide sull'essere ed il non essere, Hegel scopre un'altra volta la stessa collusione di una pura affermazione e di un negativismo radicale che avrà il suo ultimo enunciato in Spinoza:

«Tale è la determinazione nella sua concisione, ed dentro questo niente rientra la negazione in generale e, sotto una forma più concreta, il limite, il finito, la limitazione; determinatio est negatio: c'è qui la grande proposizione di Spinoza. Parmenide dice che, qualunque sia la forma che il negativo possa rivestire, non è in assoluto.»

La forma inaugurale del pensiero orientale è ancora un'ossessione nella dottrina degli Eleati, coi quali Spinoza deve mantenere una relazione privilegiata: l'Uno, essere puro ed immediato, è contemporaneamente dissoluzione di ogni realtà determinata, sparizione del finito nell'infinito, abolizione di ogni individualità e di ogni differenza; e, come già aveva notato Platone nei suoi ultimi dialoghi, appoggiandosi egli stesso al punto di vista di una dialettica, il discorso nel quale si esprime quest'assoluto, o totalità iniziale, nella misura in cui esclude ogni negatività, nella misura in cui rifiuta di accordare un'esistenza al non essere, è un discorso impossibile.

Notiamo di passaggio che nel capitolo del libro I della Logica sulla misura, Hegel presenta questo stesso accostamento tra Spinoza e Parmenide, ma questa volta per scoprire in lui l'indizio di una differenza:

«Il modo spinozista, come il principio indù del cambiamento, è il senza misura. I Greci erano coscienti, in modo ancora impreciso, che tutto ha una misura - per cui lo stesso Parmenide introdusse, dopo l'essere astratto, la necessità come l'antico limite che è

15 Logica, I, "Teoria della misura".

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imposto a tutto - è l’inizio di un concetto molto più elevato di quello contenuto nella sostanza e nella distinzione del modo rispetto ad essa.»16

Ci sono, pertanto, cominciamenti e cominciamenti: ci sono cominciamenti che cominciano prima di altri, e quest'ultimi, al contrario, già «cominciano» a separarsi dal puro cominciamento. Tuttavia, Spinoza, a dispetto della sua posizione abbastanza tardiva nella cronologia delle filosofie, bisogna porlo tra coloro che cominciano assolutamente, tra i veri primitivi del pensiero, e perciò, quando si tratta di marcare la sua singolarità, è il metafora orientalista quella che prevale in Hegel. Nella biografia che dà di Spinoza nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel osserva:

«Non è strano che gli interessasse specialmente la luce [l'ottica], che è, nella materia (in der Materie), l'identità assoluta stessa, base della concezione orientale».

Quella luce inaugurale è l'elemento di un pensiero immediato. È significativo che Hegel trovi la stessa immagine nel primo capitolo della Logica per rappresentare le illusioni dell'essere puro, che è anche «senza misura»:

«Si arriva così a rappresentare l'essere con l'immagine della pura luce, come la chiarezza del vedere non intorbidato, ed il nulla, invece, come la pura notte, e si riferisce la loro differenza a questa ben conosciuta differenza sensibile. Ma nella realtà, quando ci si rappresenta questo vedere in un modo più esatto, si può molto facilmente notare che nella chiarezza assoluta non si vede né più né meno che nell'assoluta oscurità, cioè uno [dei due modi di] vedere, esattamente come l'altro, è un vedere puro, vale dire un vedere niente. La luce pura e la pura oscurità sono due vuoti che sono la stessa cosa».17

La lucentezza indeterminata dell'immediato è profondamente oscura, come la notte: come questa assorbe, cancella, dissolve ogni contorno che sarebbe per la sua infinitudine ancora un limite. Allo stesso modo, la pretesa di cogliere l'essere in sé stesso, nella sua identità istantanea con sé stesso, ancora non inquinata per il rapporto con altro, si risolve immediatamente nella purezza inversa, e formalmente uguale, di un nulla assoluto: contraddizione del cominciamento che è l'inizio di ogni passaggio.

Da questo punto di vista, si potrebbe credere che il posto privilegiato della Logica nel quale Hegel dovrebbe richiamare la sua interpretazione dello spinozismo è il primo capitolo del libro I, dove l'immediato stesso confuta la sua propria illusione. Orbene, in quel testo celebre, nessuna allusione allo spinozismo! Senza dubbio perché Hegel volle evitare quell'avvicinamento troppo facile che, preso alla lettera, si trasformerebbe facilmente in amalgama. Come abbiamo già notato, la filosofia di Spinoza non è un cominciamento come gli altri: in ritardo rispetto ai Greci per la sua eccessività intrinseca, anticipa ampiamente anche gli aspetti più moderni del pensiero razionale. Si potrebbe dire che è un discorso fondamentalmente anacronistico, spiazzato: un cominciamento che non è più un cominciamento, ma si trova già da un'altra parte.È notevole, in effetti, che Hegel abbia scelto, per presentare nel suo insieme il punto di vista della sostanza, il capitolo sull’ «effettività», (die Wirklichkeit) che si trova alla fine della seconda parte della Logica. Posizione chiave che indica bene il significato cruciale che accorda allo spinozismo, col quale ciò che è in gioco è il destino stesso della filosofia. Perché è in questo momento, nell'articolazione dei libri II ed III della Logica, che si opera il passaggio dalla logica oggettiva alla logica soggettiva. Secondo

16 Ibid., p. 22-23.17 Logica, I

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il posto che gli è assegnato nel processo d'insieme del sapere, è chiaro che il punto di vista della sostanza rappresenta un falso cominciamento: un cominciamento che è, esso stesso, il culmine e la ricapitolazione di un movimento previo, movimento che condusse dal pensiero dell'Essere a quello dell'Essenza. Pertanto è nella sostanza, in senso spinozista, l’intero processo della logica obiettiva che si completa e si riassume.Così, in maniera analoga, la considerazione della sostanza spinozista era già apparsa in abbozzo precisamente alla fine del primo libro, nel paragrafo su «l'indifferenza assoluta», in questa articolazione interna della logica oggettiva che è il passaggio dell'Essere all'Essenza:

«Dato che l'indifferenza assoluta può sembrare la determinazione fondamentale della sostanza di Spinoza, si deve tuttavia osservare al riguardo che [...] è l'ultima determinazione dell'essere, prima che questo si converta in essenza; ma questa [determinazione] non giunge a tale [essenza]».18

Spinoza è allora presente in tutti i tornanti decisivi del pensiero razionale: cominciamento assoluto, non lo si può limitare alla posizione di un singolo cominciamento che sarebbe questo o quello, ma deve riapparire ogni volta che qualcosa di essenziale si produce nello sviluppo del processo razionale. Spinoza assedia il sistema hegeliano in totalità il suo svolgimento: l'ossessione, del quale è sintomo, che non si lascia disfare in un sol colpo, ma ritorna continuamente in questo discorso stesso che non finisce mai veramente col suo cominciamento.

La ricostruzione del sistema

C'è nell'opera di Hegel una gran quantità di riferimenti a Spinoza, che spesso prendono la forma di osservazioni incidentali, più o meno precise o dettagliate. Ma Hegel ha proposto anche spiegazioni dell'intero sistema spinozista: il capitolo che gli dedica nelle Lezioni sulla storia della filosofia l'analizza ordinatamente, appoggiandosi al testo. Tuttavia, partiremo qui da un altro commento, fatto da Hegel nel capitolo del libro II della Logica dedicato all'Assoluto,19 il cui stile è molto differente: si tratta di una spiegazione globale della dottrina spinozista, tratta nel suo "senso" generale e spoglia dei suoi dettagli. Dall'inizio di questo testo, che d'altra parte non nomina esplicitamente Spinoza, Hegel si pone a distanza, separato dallo spinozismo, il cui discorso ricompone liberamente secondo la logica della sua propria concezione. Questa violenza esercitata sul testo corrisponde ad un obiettivo molto preciso: permette, per così dire, di rivelare il "movimento" essenziale del sistema dato che Hegel caratterizza soprattutto questa filosofia per il suo immobilismo. L'interesse di questa ricostituzione apparentemente arbitraria, di questa ricostruzione, risiede nel fatto che rivela le articolazioni principali del pensiero spinozista, così come Hegel lo comprende, isolando le sue categorie principali e ponendo le une in rapporto alle altre. A partire da questa interpretazione, Hegel espone la sua critica allo spinozismo in un'importante "Osservazione storica", dedicata a Spinoza e a Leibniz, che termina il capitolo. Questa presentazione generale è estremamente interessante poiché dispone gli elementi costitutivi della dottrina ed esplicita la loro articolazione.L'assoluto, che costituisce l'oggetto d'insieme di questo sviluppo, è caratterizzato in primo luogo per «la sua identità semplice e massiva»20: appare rinchiuso nell'interiorità della sostanza, interamente ripiegata su di sé. Eppure, come vedremo, c’è un processo di esposizione dell'assoluto: è quello della sua manifestazione esteriore, che passa dall'affermazione iniziale dell'assoluto come sostanza alla sua riflessione negli attributi e poi nei modi. È questo «passaggio» - vedremo che ha solo l’apparenza di

18 Ibidem19 Logica, II, «L’Essenza», «L’Effettività», cap. «L’Assoluto».20 Ibid.

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movimento - ciò che organizza il punto di vista della sostanza nella sua disposizione singolare così come si è espresso storicamente nell'opera di Spinoza. Seguiremo questo sviluppo nelle sue tappe successive.Il processo comincia dall'assoluto stesso, che si espone immediatamente come tale. L'argomentazione di Hegel consiste nello scoprire la contraddizione latente che assedia e scompone in gran segreto questa apparente unità. Nella sua costituzione iniziale l'assoluto si presenta come l'identità indifferenziata nella forma e nel contenuto, e pertanto indifferente a sé. L'assoluto che è assoluto è al tempo stesso un soggetto nel quale si sono posti tutti i predicati ed un soggetto del quale si sono negati tutti i predicati: è un punto di partenza, una base, che può essere riconosciuta come tale solo nel momento in cui non si è edificato ancora niente su di essa, e che è solo base di niente. Tutto il ragionamento di Hegel si costruisce qui su un gioco di parole che prende come pretesto l'espressione «zum Grunde gehen»: ritornare al fondamento che vuole dire anche «andare nell'abisso». La pienezza dell'assoluto, rinchiusa nell'interiorità radicale della sostanza, è quella del vuoto.Così la sostanza, che si presenta come una fonte di determinazioni, è anche in sé stessa un nulla di determinazione, perché è l'indeterminato ciò che precede e condiziona ogni determinazione. È la contraddizione propria della sostanza: essa dapprima si offre, nella sua assoluta positività, come ciò che è più reale, ma, contemporaneamente, per garantire questo massimo di essere, è necessario che si ritiri realtà a ciò che non è essa e che essa colloca sotto la sua dipendenza. Affermando la sua anteriorità e la sua preminenza, la sostanza si prospetta per ciò che è di fronte all’apparenza di ciò che, anche in questo cominciamento, non è. Di qui la sua funzione essenzialmente de-realizzante, dato che lancia nell'abisso senza fondo del negativo che è solo negativo tutto quello che non coincide immediatamente con la sua positività iniziale. Nella sostanza, ciò che è si offre e si sottrae contemporaneamente: essa è ciò che dà ma anche ciò che toglie realtà.D'altra parte, l'autosufficienza della sostanza che si definisce per sé stessa, in assenza di ogni determinazione, rende incomprensibile il passaggio del soggetto ai predicati, la relazione del fondamento con ciò che questo fonda: le determinazioni che hanno una base nel'assoluto non possono aggiungersi a quest'assoluto se non a posteriori e dall'esterno, in maniera arbitraria, senza sviluppo immanente. Per questo la sostanza, che è l'oggetto di ogni conoscenza, è anche inconoscibile: è, in se stessa, un soggetto del quale non si può affermare nulla, salvo essa stessa, e la sua relazione con le determinazioni che si appoggiano ad essa è incomprensibile; data la sua totale autosufficienza, non ha nessuna necessità di queste determinazioni che le sono aggiunte dunque senza necessità e senza ragione.Come cominciamento assoluto, la sostanza è pertanto anche un fine: nella pienezza del suo essere proprio, al quale niente manca, ha già esaurito ogni possibilità di movimento; quello che inizia in essa finisce immediatamente. È un cominciamento che non comincia niente, nel quale l'assoluto immobile costituisce la negazione di ogni processo. Il sistema che comincia dall'esposizione dell'assoluto si trova così immediatamente arrestato: essendosi dato ogni realtà all'inizio, non può più progredire.Tuttavia, la dottrina spinozista, alla quale questa analisi si riferisce implicitamente, non si accontenta di indicare, in una definizione iniziale, la pienezza dell'assoluto; presenta il suo ordine interno, in maniera coerente, esplicitando il suo contenuto razionale. Ma la progressione di questa esposizione può essere solo apparente: il suo sviluppo formale è di fatto una regressione, poiché l'identità immediata dell'assoluto con sé stesso proibisce ogni avanzamento ulteriore. Il «processo» illusorio della sostanza, che inizia l'esposizione dell'assoluto, non può essere il movimento di una costituzione positiva, dato che tutto è costituito dall'inizio, bensì quello di una degradazione che sottrae successivamente all'assoluto gli elementi della sua realtà, riportandoli a determinazioni estrinseche che, effettivamente, non possono aggregare niente, dato che esso è completamente sufficiente a sé stesso.

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Questa regressione è manifesta dal primo «passaggio» che conduce dalla sostanza all'attributo, cioè dall'assoluto al relativo. L'assoluto che è assoluto è anche ciò che è solamente assoluto: la sua pienezza primordiale è anche la forma ineluttabile della sua limitazione. La perfezione dell'assoluto è al tempo stesso ciò che gli manca per essere davvero assoluto: la totalità delle determinazioni che dove negare per ritornare in sé, per essere solo sé. L'assoluto che è solo assoluto è anche una negazione dell'assoluto: «Non è di conseguenza l'assolutamente assoluto, bensì l'assoluto in una determinatezza nella quale esso è assoluto».21 L'assoluto diviene attributo, riceve determinazioni, ma si espone allora in una realtà diminuita.L'attributo costituisce il secondo momento, il termine medio, del processo apparente dell'assoluto che si da immediatamente come tale all'inizio e la cui progressione si trova per questo paralizzata: «L'attributo è l'assoluto solamente relativo»,22 o, anche, l'assoluto determinato solamente in quanto alla sua forma. La sostanza che si esprime nei suoi attributi scoprendo che le sono identici è l'assoluto che si riflette esteriorizzandosi, precisamente perché, come tale, non comporta in se stesso nessuna determinazione, è incapace di una riflessione immanente. L'assoluto si esaurisce in questa riflessione, poiché la sua determinazione lo fronteggia, gli si oppone come l'inessenziale all'essenziale: esso riconosce lì solo la sua inanità. L'attributo è il predicato che riflette il soggetto fuori di sé: esso è la sua rappresentazione, il fenomeno, ciò che dà soltanto un'immagine della sostanza.L'attributo è allora una forma vuota, poiché qualifica la sostanza dall'esterno e senza necessità: in esso l'assoluto si ritrova ristretto, e diminuito, nella misura in cui si afferma come essere che gli è identico. Questa restrizione, che appare appena la sostanza si riflette in un attributo, si rafforza quando si pone una molteplicità di attributi: data le sua esteriorità e la sua contingenza, una sola forma non basta per rappresentare l’assoluto; perciò questo si esaurisce nella ricerca indefinita di determinazioni nuove, che si oppongono le une alle altre (come fanno, per esempio, il pensiero e l'estensione), attraverso le quali cerca invano di recuperare la sua completezza. Nella forma dell'attributo, l'infinito prende necessariamente l'apparenza della pluralità: si divide, si disperde, si perde nella serie illimitata delle immagini che suscita il movimento illusorio della sua riflessione esterna. Il passaggio dalla sostanza all'attributo è il divenire apparenza dell'assoluto, che si mette a pensare la sua unità nello sminuzzamento della differenza pura.La sostanza si disfa, si dissolve nei suoi attributi, proiettandosi in una coscienza che gli è necessariamente straniera. Per questo ci vuole l'intervento dell'intelletto astratto che scompone l'identità del contenuto nelle sue forme multiple affinché l'unità della sostanza sia determinata in una diversità di forme. Di fronte all'oggettività pura dell'assoluto che è solo assoluto si porne, e si oppone, la forma esteriore di una soggettività che apre una prospettiva, suscita un modo di essere, proietta un'apparenza. Nonostante l'identità astratta che lo lega alla sostanza in una relazione formale di rappresentazione, l'attributo preso come tale si slega e si allontana da essa come una semplice modalità: così si è già «passati» dell'attributo al modo, che costituisce il terzo momento del processo regressivo dell'assoluto. Il modo è ancora la sostanza, ma presa nell'elemento dell'esteriorità assoluta: il modo «è l'esser fuori di sé dell'assoluto, il suo perdersi nella variazione e contingenza dell'essere».23 Allora l'assoluto non è oramai per niente identico a sé, ha perso tutta la sua realtà, si è dileguato nella sua propria apparenza, nella fatticità illimitata di ciò che non ha oramai causa in sé. Al limite estremo della sua manifestazione, come l'ultimo effluvio di un profumo che si volatilizza, la sostanza si è estenuata, finita in una pullulazione di aspetti che la mostrano scomporsi, al termine di una presentazione che è puramente negativa. Inversamente, se si ritorna all'assoluto, la realtà immediatamente percettibile che deriva dall'addizione di tutti questi modi si trasforma in un'apparenza, nel senso più critico di questo

21 Ibid.22 Ibid.23 Ibid.

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termine, poiché questa non dà dell'assoluto più che un'espressione illusoria nella quale finisce per sparire e, allo stesso modo, si inabissa in esso. A questo punto, in cui la realtà esposta all’inizio nell'assoluto si è dissolta totalmente, termina il "movimento" della sostanza, movimento essenzialmente negativo. Nel modo non rimane più niente di ciò che era dato nella sostanza; non rimane più che questo nulla nel quale ogni realtà è abolita. In un altro testo, all'inizio della terza sezione del libro I della Logica, «La misura», Hegel scrive a proposito del modo in generale:

«Se il terzo termine fosse preso come semplice esteriorità, allora sarebbe modo. In questo senso, il terzo termine non è ritorno in sé, bensì, mentre il secondo è l'inizio della relazione con l'esteriorità, un uscire che si mantiene ancora in relazione con l'essere originale, il terzo è la rottura compiuta».24

Immediatamente precisa, riferendosi a Spinoza:

«In Spinoza, ugualmente, il modo è il terzo dopo la sostanza e l'attributo; egli lo spiega come le affezioni della sostanza cioè come ciò che è in altro, per il quale è anche concepito. Questo terzo, in accordo con questo concetto, è solo l'esteriorità come tale. Come si è ricordato, del resto, in generale manca in Spinoza, alla sotanzialità rigida, il ritorno in sé stessa».25

Il «sillogismo» che associa la sostanza alle sue affezioni per mezzo dei suoi attributi, che riassume il significato essenziale del sistema spinozista, è per Hegel un sillogismo astratto: descrive non il compimento dell'assoluto, bensì questa decadenza progressiva che l'allontana da sé stesso. A partire da questa ricostituzione d'insieme appare chiaramente la ragione per la quale il punto di vista della sostanza è caratterizzato per la sua immobilità. Il movimento che si instaura a partire dall'assoluto, che conduce della sostanza agli attributi e poi ai modi, è tutto il contrario di un movimento reale, di un processo di costituzione dell'assoluto; per cui l'effettività del reale si dà qui in una maniera caricaturale, nell'irrisione di una decadenza. È il movimento regressivo di una degradazione successiva che conduce da un massimo di essere dato all'inizio al suo esaurimento totale, in forme che gli sono sempre di più esteriori e che, più che modi di essere, sono oramai per esso maniere di non essere. Questo movimento discendente, rinchiuso tra un'origine assolutamente positiva ed una fine definitivamente negativa, per la quale non c'è oramai più niente, è tutto il contrario del ciclo razionale, del processo dialettico del quale Hegel fa, d'altra parte, il principio di tutta la realtà: processo che scopre, contrariamente a quello che abbiamo appena descritto, l'indeterminazione del suo cominciamento, il suo carattere provvisorio ed apparente, per dirigersi progressivamente verso un fine nel quale si realizza per mezzo della determinazione totale di un'identità che non può essere affermata se non nel momento in cui diviene veramente effettiva. Al contrario, la manifestazione dell'assoluto che è solo assoluto non dà luogo più che alla vuota ricorrenza di una sparizione, di una diminuzione, di una perdita di identità, la cui progressione è evidentemente formale, dato che è determinata da una mancanza «crescente» di contenuto.

Il punto di vista della sostanza, che pretende abbracciare tutta la realtà in un unico concetto, si inverte quindi in una conoscenza negativa: l'assoluto di realtà che rivendica la sostanza ha come contropartita la negazione di realtà che raggiunge tutto ciò che essa non è e che le succede. Il puro discorso dell'assoluto sviluppa principalmente il tema dalla poca realtà delle cose, di tutto ciò che esso non è: il

24 Ibid., t . I.25 Ibid.

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divenire dell'assoluto può solo allontanarlo dalla sua integrità iniziale e farlo perire. Scetticismo della sostanza, che assorbe interamente nel suo formalismo la realtà; quindi il negativo è solamente il movimento di sottrazione che porta ad una sparizione, fuori da ogni lavoro reale di determinazione. È ciò che esprime molto bene un passaggio delle Lezioni sulla storia della filosofia:

«E come tutte le differenze e determinazioni delle cose e della coscienza non fanno altro che ridursi alla Sostanza una, si può perfettamente affermare che nel sistema spinozista tutto è scagliato in questo abisso della negazione. Ma niente ne riemerge; e il particolare di cui Spinoza parla non è che qualcosa che si prende e si recupera dal mondo delle rappresentazioni, senza che lo giustifichi per niente. Per giustificarlo, Spinoza dovrebbe dedurlo da una sostanza; ma non si rivela così, per cui non acquisisce vita, spiritualità né attività. [...] La sorte che qui tocca al particolare è quella di essere solamente la modificazione della Sostanza assoluta, ma senza che questa sia spiegata come tale; perché è il momento della negatività quello che manca in questa immobilità rigida, la cui unica operazione consiste nello spogliarlo di ogni sua determinazione, della sua particolarità, gettandolo così nella Sostanza unica ed assoluta nella quale quello sparisce ed ogni vita si spegne dentro sé. Questo è ciò che vi è di filosoficamente insoddisfacente in Spinoza [...].»

L'assoluto si apre solamente come un precipizio dove tutte le determinazioni sono abolite, dove si perde ogni realtà, nell'abisso irresistibile del vuoto. La filosofia di Spinoza è allora per Hegel un pensiero completamente astratto nel quale sparisce ogni movimento ed ogni vita finisce. Nel finale della breve biografia di Spinoza che Hegel fornisce nelle sue Lezioni si trova questa indicazione straordinaria:

«Spinoza morì il 21 febbraio del 1677, a 44 anni, vittima di una tubercolosi che veniva minando il suo organismo da molto tempo; fu una morte molto a tono col suo sistema, nel quale tutto l'individuale e il particolare sparisce nell’unità della sostanza.»

Lo spinozismo è la filosofia malata di petto, che declina progressivamente verso la sparizione di ogni realtà effettiva, estenuandosi nell'affermazione di un assoluto che può solo rappresentare dall'esterno, inattivo e senza vita.Il verdetto di insufficienza che era stato decretato contro questa filosofia e contro il punto di vista che la sottende si trova a partire da ciò legittimato. Questo pensiero negativo di un negativo che è solamente negativo dà accesso solo all'abolizione del suo contenuto; può quindi esporsi solo negativamente, secondo il suo difetto, la sua inanità propria. Filosofia che comincia = filosofia che declina. È solo andando contro questo cominciamento, col lavoro di un negativo che non sia solamente negativo, che il pensiero può sollevarsi al di sopra dell'abisso della sostanza per scoprire il movimento concreto dell'effettivo. Bisogna cominciare da Spinoza, bisogna passare per Spinoza, bisogna uscire da Spinoza.

Per questo è necessario sottoporre la dottrina alla prova di una critica che non si appoggi più unicamente su un'interpretazione globale, come quella che abbiamo appena seguito, ma consideri il dettaglio della sua argomentazione. Allora si metterà in evidenza la contraddizione propria del suo contenuto. Questa analisi isola nel sistema tre punti critici, tre concetti, sei quali Hegel concentra la sua argomentazione: si tratta del problema della dimostrazione (indicato con la famosa espressione «more geometrico»), della definizione degli attributi e, finalmente, della formula «omnis determinatio est

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negatio», che Hegel attribuisce a Spinoza e nella quale concentra tutto il suo sistema. Sono questi tre punti, precisamente, quelli che ora andiamo considerare.26

26 L'interpretazione orientalizzante dello spinozismo è un luogo comune della filosofia tedesca. Può leggersi nell'opuscolo di Kant su La fine di tutte le cose: «il sommo bene è il nulla; ci si versa nell'abisso della divinità; ci si affonda lì, e la personalità svanisce. Per assaporare anticipatamente questa felicità, i filosofi cinesi si rinchiudono in posti oscuri, si impegnano a mantenere le palpebre chiuse, si esercitano nella meditazione, nel sentire il suo nulla. Di lì anche il panteismo dei tibetani e di altri paesi orientali, poi più tardi, per una sublimazione metafisica, lo spinozismo; due dottrine strettamente affiliate ad uno dei sistemi più vecchi, quello dell'emanazione, secondo il quale tutte le anime umane dopo essere uscite dalla divinità finiscono per ritornare e riassorbirsi lì. Tutto questo unicamente affinché, costi quello che costi, gli uomini possano godere finalmente di quel riposo eterno che costituisce ai loro occhi la fine felice di tutte le cose; concezione che non è niente meno che un'abolizione di ogni intelligenza, una sospensione perfino di ogni pensiero [...], Trad. Festugiére. Hegel, come si vede, non ha inventato niente.

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II. More Geometrico

Hegel e il metodo

Hegel critica in primo luogo Spinoza a proposito del posto che assegna al metodo nel sapere filosofico, ed anche a proposito del contenuto stesso di questo metodo.Improntando procedimenti di dimostrazione ed un modello di organizzazione del discorso razionale proprio dei matematici, Spinoza si pone, secondo Hegel, nella continuazione di Descartes: subordina, in effetti, la verità filosofica ad una garanzia di evidenza formale, ad una regola esteriore ed astratta. Così, benché si dichiari monista affermando l'unità assoluta della sostanza, instaura di nuovo una sorta di dualismo per la separazione che impone nel sapere stesso tra forma e contenuto. Dal punto di vista formale del metodo, le condizioni della conoscenza, la cui universalità si risolve di una maniera completamente astratta, sono indifferenti al suo oggetto, e possono essere fissate fuori di esso. Ma questa scissione ignora ciò che c'è di specifico nel sapere filosofico, l'identità dell'essere e del conoscere così come si effettua nel Concetto:

«Il metodo matematico-dimostrativo di Spinoza sembra accusare [...] solamente un difetto in quanto alla forma esterna; in realtà, è il difetto fondamentale del punto di vista del suo insieme. In questo metodo, si nega totalmente la natura del sapere filosofico e l'oggetto dello stesso, perché la conoscenza ed il metodo matematici sono semplicemente una conoscenza formale e, pertanto, completamente inadeguati alla filosofia. La conoscenza matematica espone la prova sull'oggetto esistente come tale, ma non, in modo alcuno, come concepito; ciò che manca è di conseguenza è il concetto, ma l’oggetto della filosofia è proprio il concetto e ciò che vi è concepito. [...] Pertanto questo concetto, come conoscenza dell'essenza [di ciò che è], è qualcosa di trovato in anticipo [non dopo il fatto], dal quale si parte e che cade dentro l’oggetto filosofico; ed è precisamente questo ciò che appare come il metodo proprio e peculiare della filosofia spinozista».27

Questo metodo privilegia l'aspetto formale, esterno, strettamente riflessivo della deduzione, alla maniera della vecchia logica, il cui punto di vista, secondo Hegel, si mantiene essenzialmente senza cambiamenti da Aristotele fino a Cartesio: il vero si decide allora, nell'ordine della rappresentazione, attraverso le relazioni reciproche che organizzano le proposizioni, nella loro costituzione e nella loro successione, fuori di ogni determinazione reale, inerente al Soggetto che vi si enuncia, cioè al Concetto come tale. A causa di questo formalismo che separa il contenuto effettivo del pensiero dalle sue forme di riflessione nel discorso, il sistema spinozista si iscrive nella sfera dell'essenza, della quale costituisce in qualche modo il limite assoluto: per questo Hegel dedica una lunga osservazione storica allo spinozismo precisamente alla fine del secondo libro della Logica.Hegel non si limita a mettere in discussione il principio del metodo spinozista, contesta anche il suo sviluppo effettivo. Quello che caratterizza il "metodo", come abbiamo appena visto, è il suo verbalismo, poiché rimette le condizioni di tutta la verità all'ordine formale delle proposizioni. A partire da qui, il sapere si espone in una successione di enunciati astratti la cui validità deve essere fondata nel suo cominciamento, in proposizioni prime dalle quali deriva, ed in una certa maniera si estrae, ogni verità: c'è solo conoscenza relativa ad esse. Dopo avere presentato il contenuto delle definizioni che inaugurano il discorso dell'Etica, Hegel scrive:

«Tutta la filosofia spinozista è già contenuta in queste definizioni, le quali sono nel complesso, tuttavia, definizioni di carattere formale; in questo risiede il gran difetto di

27 HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, cap. su Spinoza.

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Spinoza, nel fatto che inizia sempre con definizioni. In matematica questo procedimento può passare, poiché qui si parte da premesse come il punto, la linea, etc.; ma in filosofia no, perché qui deve conoscersi il contenuto come il vero in sé e per sé. Non si può, di volta in volta, riconoscere come giusta una definizione nominale, in modo tale che la parola 'sostanza' corrisponda all'idea che ne dà la definizione; ma una cosa è questa ed un'altra che questo contenuto sia vero in sé e per sé. [...] Questo problema, che non ha la minima importanza nelle proposizioni geometriche, è precisamente la cosa fondamentale nelle disquisizioni filosofiche; ma Spinoza non lo comprende affatto. Invece di limitarsi a spiegare questi pensieri semplici nelle definizioni che stabilisce, ed ad esporli come qualcosa di concreto, avrebbe dovuto, a rigore, investigare se questo contenuto sia vero. Apparentemente, si dà solo una spiegazione delle parole; ma ciò che conta è il contenuto che vi si trova. Ogni altro contenuto si riduce ad esse e si prova partendo da esse, perché dal primo contenuto dipende qualunque altro e, prendendo quello come fondamento, si deriva ogni necessità».28

Ciò che qui troviamo è l'obiezione fondamentale di Hegel contro la pretesa di subordinare il sapere al prerequisito di un cominciamento assoluto: il sapere che deriva da tale procedere è puramente relativo. Le proposizioni prime, per esempio le definizioni, che cercano di fissare il senso dei concetti e regolarne funzionamento, si presentano come fonti di verità sulle quali si sospende ogni conoscenza ulteriore, poiché la verità è solo l'esplicitazione di ciò che si trova dato in anticipo in esse: il paradosso è che la verità di queste proposizioni, da cui dipende tutto il resto, sembra non porre nessun problema, giustamente perché è stabilita in anticipo, cioè senza previa condizione. Ma l'atto che espone questa verità iniziale può essere solo una decisione formale, il cui contenuto rimane solamente verbale: il ricorso al criterio dell'evidenza dà a questo procedimento una garanzia arbitraria ed astratta, con un valore essenzialmente relativo, che «fonda» l'ordine estrinseco delle proposizioni e ne assicura la coerenza senza determinarne il contenuto, cioè la verità.Queste obiezioni evocano qualcosa di molto familiare ad ogni lettore di Hegel. Rimandano all'esigenza, che egli riaffermò costantemente, di una nuova logica, che non fosse più una logica della rappresentazione e delle condizioni formali della sua organizzazione bensì una logica del contenuto stesso, che non riguardi né solo né innanzitutto l'esercizio formale del pensiero ma esponga il movimento effettivo del Concetto e la necessità di questa determinazione che dà a sé stesso nella sua attività immanente:

«Questo pensiero obiettivo costituisce dunque il contenuto della scienza pura. Di conseguenza è tanto lontano da essere formale ed è sprovvisto della materia necessaria per una conoscenza reale e vera, piuttosto solo il suo contenuto è il vero assoluto, o, se uno vuole avvalersi ancora della parola materia, è la vera materia; ma una materia la cui forma non è qualcosa di esteriore, perché detta materia è piuttosto il pensiero puro e pertanto la forma assoluta stessa».29

Da questo punto di vista, ciò che si invalida è il progetto di una metodologia della conoscenza. Per esempio, la Logica di Aristotele non è per Hegel più che una descrizione empirica, necessariamente elaborata a posteriori, del procedere della conoscenza portato sistematicamente al funzionamento delle regole, dei procedimenti esteriori ad ogni contenuto:

«L'interesse, all'interno di questa scienza, è imparare a conoscere nel suo procedere il pensiero finito, e la scienza è esatta se corrisponde al suo oggetto presupposto».30

28 Ibid.29 Scienza della logica, introduzione alla seconda edizione.30 Enciclopedia, I parte, aggiunta al § 20.

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Una metodologia presuppone il suo oggetto come un dato esterno che trova già costituito di fronte a sé, perché è incapace di costruirlo. Per questo, rimanendo indifferente al movimento reale del contenuto, o della cosa stessa, il metodo non può essere riconosciuto come vero in sé stesso, ma solamente perché è verificato al livello della sua applicazione. Non è il Sapere, neanche un sapere, bensì solamente una tecnologia più o meno efficace del sapere. Appare allora irrisoria la sua ambizione di condizionare la verità stessa, di dirigere la conoscenza sulla buona via che fissa la conformità ai suoi procedimenti formali:

«La derivazione dalle richiamate regole e leggi, soprattutto quelle del sillogizzare, non vale molto più delle prove fatte con bastoncini di disuguale lunghezza al fine di classificarli ed unirli secondo il loro volume o del gioco di bambini, nel quale si tenta di ricomporre quadri previamente ritagliati, unendo appropriatamente i pezzi. Per questo e non senza ragione si equiparò questa maniera di pensare al calcolo matematico, e questo calcolo si uguagliò a simile maniera di pensar».31

Per Hegel, sono le dimostrazioni dell'Etica qualcosa di distinto da questa sistemazione futile di elementi sparsi, e necessariamente incompleti, di una verità che in essi non può ritrovarsi come tale, necessariamente e totalmente?Non c'è pertanto metodo preliminare all'esercizio del pensiero e che potrebbe essere studiato per sé stesso, per cominciare: non c'è «discorso sul metodo» anteriore alle «prove di questo metodo». Perché tale discorso sarebbe solamente la caricatura retrospettiva di una scienza effettiva il cui movimento, già realmente realizzato, si vedrebbe solamente rispecchiato nell'illusione di una forma generale di sapere. Se si può tuttavia parlare di metodo, è a condizione di precisare che questo è inseparabile dal sapere in cui si realizza, cioè che non viene né prima né dopo esso, bensì con esso.

«Il metodo non è, in effetti, che la struttura del Tutto, presentata nella sua essenzialità pura».32

Il metodo non riassume lo sviluppo completo del sapere nella condizione formale di una regola iniziale: non è nient'altro che questo sviluppo stesso, colto nella sua necessità concreta, nel momento in cui si effettua. Questo è ciò che permette a Hegel di aggiungere:

«Ed in quanto a ciò che si è soliti pensare su questo, dobbiamo avere coscienza che anche il sistema delle rappresentazioni che si relazionano al metodo filosofico corrisponde già ad una cultura dispersa».33

Perché il metodo non ha più valore fuori del sapere che lo realizza:

«[...] l'espressione di ciò che può essere il solo vero metodo della scienza filosofica appartiene al trattato della logica stessa; in effetti, il metodo è la coscienza relativa alla forma dell'automovimento interno del suo contenuto».34

Non è nient'altro che il sapere di sé del sapere, che si riconosce com'è nel processo nel quale si effettua.

31 Scienza della logica, introduzione alla I edizione32 Prefazione alla Fenomenologia.33 Ibid.34 Scienza della Logica, intr. alla I ed.

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A partire da qui, il "metodo", nella misura in cui questa parola conserva ancora un senso, perde ogni carattere formale ed astratto, poiché

«questo metodo non è nulla di diverso dal suo oggetto e dal suo contenuto».35

Non è più "un" metodo, cioè una ricetta per conoscere, bensì il sapere stesso che si riflette nel suo oggetto, che si riflette come il suo proprio oggetto:

«In questo modo, il metodo non è una forma esteriore, ma è l'anima ed il concetto del contenuto, dal quale non è diverso eccetto che per i momenti del concetto, che in se stessi appaiono nella loro determinazione come la totalità del concetto. Non appena questa determinazione, o contenuto, è ritornata con la forma all'idea, questa si presenta come totalità sistematica, che è solo un'idea, i cui momenti particolari sono tanto più in se stessi in quanto che per mezzo della dialettica del concetto producono il semplice essere per sé dell'idea».36

L'esposizione del metodo coincide col dispiegamento del sapere, il cui movimento esprime nella totalità, come totalità; non inaugura il processo della conoscenza nell'atto di una fondazione iniziale, ma forma la sua conclusione in una ricapitolazione finale di ciò che è stato già realizzato. È chiaro che per Hegel la categoria di metodo ha perso ogni significazione autonoma: affinché sia conservata, è stato necessario che il suo valore filosofico fosse completamente distorto [pervertie].Ebbene, quando Hegel mette in discussione la nozione di metodo, ed il progetto di un metodo filosofico, è sempre in riferimento al funzionamento del metodo nella matematica. Il privilegio accordato al metodo nello sviluppo del processo della conoscenza e nello sviluppo delle verità ha la sua fonte, se non nelle matematiche stesse, almeno nell'idea, o nel pregiudizio, che esse offrano un modello di ragionamento universalmente valido. Un tema costante in Hegel è che i matematici non possono rivendicare oramai questa funzione regolatrice nel lavoro della conoscenza:

«[...] non è difficile dar conto del modo di esporre un principio, addurre fondamenti a favore di esso e poi confutare attraverso fondamenti il principio contrario non è la forma in cui può apparire la verità. La verità è il movimento di essa in sé stessa, questo metodo, al contrario, è la conoscenza esteriore alla materia. Per questo è peculiare della matematica e deve essere lasciato ad essa [...]» .37

Sebbene il sapere sia un processo determinato necessariamente, non lo è per la sua conformità ad un ordine formale di ragioni che regola una serie di proposizioni: la filosofia, in quanto movimento di autoproduzione del concetto, ha smesso di essere sottomessa all'ideale di una deduzione esatta.Se in un periodo precedente della sua storia credette di doversi piegare a tale obbligo, è perché c'è tuttavia qualcosa in comune tra la filosofia e la matematica. Ciò che condividono è il progetto di una determinazione del reale attraverso il pensiero in una conoscenza che abbia la dignità del generale. Ma quest'elemento comune è inessenziale perché continua ad essere esteriore al contenuto della conoscenza e consiste solamente in una riflessione astratta:

«Quello che la cultura scientifica compartecipa con la filosofia è il formale».38

35 Ibid.36 Enciclopedia, § 243.37 Prefazione alla Fenomenologia.38 Lezioni sulla storia della filosofia, introduzione.

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Perciò, tra la verità matematica e quella della filosofia non può esserci più che una somiglianza superficiale. Resta allora da sapere cosa ha potuto legittimare la confusione che le riunì nell'epoca, appunto, di Spinoza. Si tratta, secondo Hegel, di una ragione strettamente congiunturale, che pertanto perse ogni valore in altro momento storico. In un periodo in cui l'impresa della conoscenza si sentiva impedita, ridotta dall'autorità infrangibile di un dogma, il ragionamento matematico poté sembrar costituire l'arma più forte nella lotta difensiva contro quell'oppressione: a fianco alla filosofia, e in un movimento comune, rappresentava un stesso sforzo per «pensare per sé stesso»[13],39 lontano da ogni coazione esterna. Ma quel periodo è passato: con tutto il potere del dogma sparì anche la necessità di formare contro di esso compromessi che, senza quella circostanza, diventano rapidamente ambigui. Nel momento nel quale Hegel scrive, che è quello di un pensiero libero che va fino alla fine dell'atto della sua realizzazione con i propri mezzi, ciò che predomina è, al contrario, ciò che separa la filosofia dalla matematica, alla quale si era alleato solo temporaneamente.Questa differenza è essenzialmente quella che incontra tra una scienza del finito ed una scienza dell'infinito: è chiaro che in entrambi i casi la parola «scienza» designa due realtà molto differenti: nel primo una conoscenza astratta che trova sempre il suo oggetto nell'esteriorità; nella seconda, un sapere concreto che è per sé stesso il suo proprio contenuto e si effettua in tale modo come assoluto. Se l'intelletto, che è per eccellenza il luogo nel quale conoscere e rappresentare sono formalmente identici, è una determinazione necessaria del pensiero razionale, un momento che ha il suo luogo nel processo d'insieme del sapere, esiste appunto per la limitazione che lo situa in qualche parte di questo sviluppo, ed il punto di vista che gli corrisponde ha valore solo rispetto a questa posizione singolare, che è sufficiente per negargli il diritto all'universalità che tuttavia rivendica.L'argomentazione che permette così a Hegel di tornare a mettere al loro posto le matematiche si incontra esposta nella sua forma più chiara in un passaggio ben conosciuto - al quale abbiamo fatto varie volte riferimento - della prefazione alla Fenomenologia. Di una maniera assai sorprendente, Hegel effettua in questo testo un amalgama tra le verità matematiche e le verità storiche, e presenta entrambe come verità di fatto, caratteristica della «maniera dogmatica di pensare» che separa d'un colpo tutto il vero dal falso:

«A domande come quando nacque Cesare, quanti metri ci sono in uno stadio, etc., bisogna dare una risposta netta, nello stesso modo che è una verità determinata quella per cui il quadrato dell'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati degli altri due lati del triangolo rettangolo. Ma la natura di questa richiamata verità differisce dalla natura delle verità filosofiche».40

Questo accostamento è molto significativo, perché mostra che Hegel attacca contemporaneamente la matematica dal lato del suo formalismo e dal lato del suo empirismo, poiché sono tendenze essenzialmente convergenti: l'astrazione non è quella che ci devia dell'immediato, bensì, al contrario, quello che ci lega ad esso. Come scrive G. Lebrun nel suo bel libro su Hegel:

«Il dramma del pensiero dell'intelletto è quello di separarsi dal sensibile senza smettere di operare con la stessa innocenza e senza discutere le rappresentazioni che provengono dalla frequentazione del sensibile (il 'tempo', per esempio)» .41

Questa «innocenza» matematica si spiega per il fatto che, secondo Hegel, il ragionamento formale non può generare il suo oggetto. È necessario allora che quest'oggetto gli sia dato, che esista fuori del movimento nel quale lo pensa; pertanto l'oggetto è presupposto di fatto, esattamente come tutto

39 Ibid.40 Prefazione alla Fenomenologia.41 G. LEBRUN, La Patience du concept, Gallimnrd, p. 78.

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quello che, per la coscienza comune, appartiene all'esperienza. Nell'intelletto che gli è esteriore, l'oggetto è solamente rappresentato:

"Il movimento della dimostrazione matematica non appartiene a ciò che è l'oggetto, è un'operazione esteriore alla cosa".42

Pertanto, la forma ed il contenuto esistono di una maniera necessariamente finita, appunto perché sono estranei l'uno all'altro.Questa finitezza non caratterizza solo la relazione tra il ragionamento matematico ed il contenuto al quale mira ma lo segna nella sua forma stessa: dietro un progresso apparentemente implacabile di un irreversibile e costrittivo ordine di dimostrazioni, Hegel scopre una serie disarticolata di elementi indipendenti che semplicemente vengono uniti gli uni agli altri, senza comunicazione reale, senza necessità. In realtà, tale dimostrazione non offre più che la caricatura di un pensiero libero, l'illusione di una conoscenza in movimento: la prova si costruisce solamente a partire da operazioni finite, realizzate in proposizioni che si combinano, si dispongono e si organizzano artificialmente (vedere la metafora del puzzle già richiamata), di modo tale da generare provvisoriamente la convinzione, cioè, l'adesione di un «soggetto» invaso dal sentimento dell'evidenza, che si sottomette all'operazione del «soggetto» manipolatore imposta da questa organizzazione, da questa costrizione. In questo punto, ancora una volta, la cosa migliore che possiamo fare è riprodurre le seguenti formule di G. Lebrun:

«Isolando i 'pensieri' ed incatenandoli come semplici oggetti di conoscenza, l'intelletto accredita l'idea che il Sapere sia una strategia 'soggettiva'. Va allora da sé che il 'pensiero' è per diritto astratto, che le 'conoscenze' sono per diritto parziali, che il dominio del 'conoscere' sta separato dalla pratica. L'intelletto accetta che qualcosa sia vero 'nella mia testa' e che il 'sapere' si riduca ad una distribuzione di contenuti in un ordine che posso facilmente ripercorrere ».43

Così viene sconfitta anche la pretesa del matematico di produrre una conoscenza obiettiva, ma il suo soggettivismo è quello del pensiero morto che si lascia manipolare fatalmente dall'esterno secondo il pregiudizio tecnologico che detta l'illusione del libero arbitrio individuale; non è la soggettività vera e vivente del Concetto che si realizza nel dominio effettivo di sé che è anche la sua conoscenza. Qui si separano l'impresa del matematico e quella del filosofo: more geometrico, id est non philosophico, e reciprocamente.La prima colpa dello spinozismo è pertanto quella di avere cercato di importare nella filosofia il ragionamento matematico ed avere introdotto così il difetto che gli è proprio. Ora, secondo una formula particolarmente brutale della prefazione alla Fenomenologia, è «il sapere non filosofico quello che considera la conoscenza matematica come l'ideale che la filosofia dovrebbe sforzarsi di raggiungere».44 Il punto di vista della sostanza dipende completamente, esso stesso, di questa fissazione ad un modello esterno: «Lo spinozismo è una filosofia deficiente per il fatto che la riflessione e il suo vario determinare è un pensare esteriore»[19].45 O anche: "Il difetto dello spinozismo consiste precisamente nel fatto che la forma non è intesa come immanente a sé e, per tale ragione, arriva solamente come forma esterna soggettiva».46 La volontà assoluta di rigore che caratterizza

42 Prefazione alla Fenomenologia.43 G. Lebrun, La Patience du Concept, p. 77.44 Prefazione alla Fenomenologia.45 Scienza della Logica, II.46 Enciclopedia, allegato al § 151.

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superficialmente lo spinozismo coincide con la sua impotenza di sviluppare in sé una razionalità necessaria, effettivamente adeguata al suo contenuto, obiettiva e concreta.Nel momento stesso in cui presta alla filosofia l'apparenza di una coerenza formale, la geometria gli trasmette l'arbitrario che sta alla base di tutti i suoi procedimenti. In un allegato al paragrafo 229 dell'Enciclopedia, Hegel osserva che, «alla filosofia, il metodo sintetico conviene tanto poco quanto il metodo analitico, poiché la filosofia deve giustificarsi innanzitutto a partire della necessità dei suoi oggetti»[21].47 Orbene, il metodo sintetico è propriamente quello dei geometri che costruiscono i loro oggetti in definizioni, come Spinoza stesso aveva fatto. Ma il metodo geometrico ha, secondo Hegel, una validità limitata, nel dominio che gli appartiene come proprio, dove tratta di realtà astratte, e non è per niente conveniente quando lo si pretende applicare fuori da questo dominio; in particolare, toglie alla filosofia ogni possibilità di trattare efficacemente quegli oggetti dai quali l'astrazione è esclusa. È questo ciò che non ha compreso Spinoza, il quale «comincia con definizioni e dice per esempio 'la sostanza è la causa sui'; nelle sue definizioni si espone ciò che c'è di più speculativo, ma nella forma di asserzioni».48 A partire da ciò è chiaro che Spinoza si è posto, fin dall’inizio, fuori del dominio della verità.

La rivalutazione spinozista del metodo

Non ci domanderemo se le obiezioni formulate da Hegel contro il metodo dei geometri siano o non fondate, bensì se toccano effettivamente qualcosa della filosofia di Spinoza, ed in che punto si verifica questo contatto.Partiamo dalle definizioni che Spinoza stesso dà del metodo: «Si vede chiaramente quale debba essere il vero metodo ed in cosa essenzialmente consista, cioè nella mera conoscenza dell'intelletto puro, della sua natura e delle sue leggi»[23].49 «Se appartiene alla natura del pensiero formare idee vere, come si è mostrato nella prima parte, è necessario indagare ora che cosa intendiamo per forze e potenza dell'intelletto. [...] La parte principale del nostro metodo è comprendere perfettamente le forze dell'intelletto e la sua natura»[24].50 Ciò significa che il metodo non è una conoscenza nel senso comune del termine; in effetti, non conosce nulla, se non il nostro potere di conoscere, l'intelletto la cui natura si esprime. Questa distinzione che pone il metodo fuori dell'ordine delle conoscenze rappresenta l'anticartesianismo di Spinoza per eccellenza.Che cosa significa, in effetti, «conoscere le forze e la natura dell'intelletto»? Non significa per nulla, come in Cartesio, circoscrivere i limiti del suo uso, poiché il potere dell'intelletto non è determinato a priori da condizioni che limiterebbero la sua attività; è un tema costante in Spinoza, al contrario, che possiamo conoscere tutto, e pertanto arrivare ad una sorta di sapere assoluto, propriamente a condizione che si imbarchi il pensiero per una strada differente da quella che le fissò Cartesio appoggiandosi al suo «metodo».In effetti, nella misura in cui riguarda il nostro potere di conoscere oggetti, e non gli oggetti stessi, il metodo presuppone l'esercizio di questo potere e pertanto ha, come condizione preliminare, le conoscenze che produce: «Da ciò si inferisce che il Metodo non è altro che la conoscenza riflessiva o l'idea dell'idea; e dato che non c'è idea dell'idea se non esiste preliminarmente un'idea, non ci sarà, dunque, metodo se non c'è previamente un'idea».51 Si vede che l'ordine abituale delle precedenze è qui invertito: l'idea dell'idea, la conoscenza riflessiva che ha per «oggetto» il potere dell'intelletto, non è la

47 Enciclopedia.48 Ibid.49 Lettera 37 a Bouwmeester.50 Trattato della riforma dell’intelletto.51 Ibid.

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condizione della manifestazione del vero bensì al contrario il suo effetto, il suo risultato. Il metodo non precede lo sviluppo delle conoscenze ma lo esprime o lo riflette. Ciò significa che bisogna produrre idee vere prima di potere riconoscere (formalmente, direbbe Hegel) le condizioni della sua comprensione [apprehension]: è ciò che indica una famosa parentesi del Trattato della riforma dell'intelletto, habemus enim ideam veram: l'idea vera, già l'abbiamo, senza la quale non potremmo sapere che la possediamo, né tantomeno che cosa sia avere un'idea vera. Orbene, Cartesio diceva esattamente il contrario: prima di conoscere in verità e secondo l'ordine, bisogna darsi la possibilità di tale conoscenza, cioè che bisogna saper riconoscere la verità lì dove essa è possibile, secondo le regole (formali, direbbe Hegel) della sua costituzione.L'inversione operata da Spinoza ha come conseguenza uno spostamento ed una rivalutazione del metodo. Uno spostamento: se il metodo è un effetto, deve arrivare dopo e non prima della conoscenza, come abbiamo detto. Così si spiega, per esempio, un'anomalia del Trattato teologico-politico sulla cui trattazione si sono intrattenuti tutti i commentatori: è solamente nel capitolo 7, dopo aver completamente sviluppato l'analisi dalle profezie e dei miracoli, che Spinoza esplicita il suo «metodo storico» di interpretazione della Scrittura, il che significa che bisogna aver fatto funzionare effettivamente un metodo ancor prima di poterlo formulare. È la conoscenza ciò che si applica nel metodo, e non viceversa. Una rivalutazione: di fatto, una svalutazione. «Per comprendere ciò, almeno tanto quanto l'esige il metodo, non è necessario conoscere la natura dello spirito dalla sua causa prima, basta una breve descrizione (historiolam) dello spirito o delle percezioni alla maniera di Bacone».52 Riflettendo a posteriori una conoscenza già effettiva, il metodo non è più che un inventario empirico di procedimenti, fuori di ogni determinazione delle cause reali che dirigono il suo funzionamento. Ciò vuole dire, in particolare, che il metodo ha perso la funzione giuridica di garanzia che gli assegnava la teoria cartesiana della conoscenza: non ha più il potere di assegnare alla verità le sue condizioni originarie ma sprigiona da essa, a posteriori, alcune proprietà, alcuni aspetti, d'altra parte in maniera isolata o arbitraria. In questo senso, bisogna leggere il Trattato della riforma dell'intelletto come una sorta di «Discorso contro il Metodo».Anche la nozione classica di ordine, al tempo stesso di quella di metodo, cambia allora radicalmente: lo sviluppo di una conoscenza razionale non è più subordinato ad una stretta gerarchia di operazioni successive il cui concatenamento sarebbe fissato una volta per tutte. Sebbene l'Etica sia «ordine geometrico demonstrata», come indica il sottotitolo, "ordine" designa qui qualcosa di completamente differente da una relazione di precedenza tra proposizioni. Si sa che Spinoza non smise di riprendere e di modificare la disposizione delle dimostrazioni dell'Etica, e niente permette di affermare che lo stato nel quale le lasciò sia definitivo. Non si tratta dunque di una relazione rigida, rinchiusa una volta per sempre tra un inizio ed una fine e che procede in linea retta dall'uno all'altro con una successione lineare di argomenti, come in Cartesio. Per Spinoza, le idee di metodo e di ordine, che cessano di essere determinate formalmente da un criterio di priorità, esprimono il movimento reale del pensiero:

«Pertanto come la verità non necessita di nessun segno e come per sopprimere ogni dubbio basta possedere (habere) le essenze oggettive delle cose o, ciò che è lo stesso, le idee, risulta che il metodo vero non è cercare il segno della verità dopo l'acquisizione delle idee, bensì il percorso (via) per trovare, nell'ordine dovuto, la verità stessa o le essenze oggettive delle cose, o le idee (tutti questi termini significano la stessa cosa)».53

Ritornando al senso originale del parola metodo, Spinoza l'identifica con il percorso (via) reale dell'idea vera che si forma nello spirito secondo le leggi proprie della natura, indipendentemente da

52 Lettera 37 a Bouwmeester.53 Trattato della riforma dell’intelletto. § 36.

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ogni modello esteriore. L'ordine delle idee è pertanto quello della loro produzione effettiva; quest'ordine è necessario, non in virtù di una costrizione legale, che sarebbe soddisfatta solo in maniera contingente, bensì in ragione della causalità intrinseca dell'idea vera, che la determina a produrre la totalità dei suoi effetti, cioè, tutte le idee che dipendono da essa.Tutte queste considerazioni, lontane dall’allontanare Spinoza da Hegel, l'avvicinano a lui: come Hegel, Spinoza vede nel metodo, nel senso cartesiano, piuttosto un ostacolo che un strumento efficace per lo sviluppo di un pensiero adeguato. Ma - e questo è particolarmente interessante -, sciogliendo il laccio tradizionale stabilito tra metodo e conoscenza, Spinoza arriva ad una definizione del metodo molto vicina a quella che Hegel stesso propone: si tratta di una conoscenza riflessiva nella quale diviene cosciente «la forma dell'automovimento interno» nel corso del quale le conoscenze sono state prodotte, secondo Hegel; «idea dell'idea» che riproduce il movimento reale dell'idea, secondo Spinoza. Allora, invece di scoprire nella posizione dei due filosofi rispetto alla la nozione di metodo un motivo di opposizione, che giustificherebbe in ultima istanza le critiche di Hegel, vediamo su di essa una sorta di linea comune che avvicina entrambe le dottrine, legate nella lotta contro un stesso avversario. Vediamo le cose più di vicino.In un testo importante del Trattato della riforma dell'intelletto (§30) Spinoza sviluppa le ragioni che rendono insostenibile la concezione tradizionale dal metodo. Se si instaura il primato del metodo rispetto allo sviluppo reale del sapere, come fa Descartes (vedere per esempio, le Regole per la direzione dello spirito, regola 4), ci si espone inevitabilmente alla confutazione degli scettici, che deducono dalle condizioni preliminari poste alla conoscenza, molto logicamente, l'impossibilità effettiva di ogni conoscenza. In effetti, se fosse necessario un metodo per conoscere, sarebbe necessario anche un metodo per stabilire il metodo stesso, e così via in una regressione all'infinito: si proverebbe facilmente, in questo modo, che gli uomini non potevano accedere mai a nessuna conoscenza, poiché le risorse che si dichiarano indispensabili per la ricerca della verità impediscono giustamente che si arrivi ad essa.Per rendere esplicita questa difficoltà, Spinoza riprende qui uno strano paragone di Descartes, ma gli fa dire qualcosa di completamente differente. Nell'ottava delle sue Regole per la direzione dello spirito, Descartes giustifica la sua concezione del metodo paragonandolo con certe arti meccaniche: la pratica del fabbro richiede strumenti, un martello, un'incudine - che devono quindi preesistere al suo esercizio -, ed egli si dota di quelli strumenti a partire dai mezzi che gli mette a disposizione la natura (un ciottolo, un blocco di pietra) prima di mettersi a produrre oggetti finiti (un elmo, una spada). Allo stesso modo, dice Descartes, prima di imbarcarsi nell'impresa di conoscere le cose, bisogna disporre delle risorse indispensabili per quest'attività, e ricorrere allora agli elementi innati che appartengono immediatamente al nostro spirito: questa condizione preliminare è propriamente il metodo.Nel testo del Trattato della riforma dell'intelletto al quale ci riferiamo qui, Spinoza riproduce letteralmente il paragone di Descartes, ma per giungere ad una conclusione esattamente inversa: non c'è condizione preliminare per l'impresa della conoscenza. Infatti, come gli scettici, sfruttando la concezione tradizionale della conoscenza, provano l'impossibilità di arrivare alla verità, si dimostrerebbe per la stessa regressione all'infinito l'incapacità nella quale si trovarono gli uomini di forgiare i metalli, poiché hanno bisogno per questo di strumenti che loro stessi devono mettere a punto servendosi di strumenti già dati, etc. Orbene, in questo caso, come in quello della conoscenza, è la pratica quella che decide, rivelando il carattere fittizio dell'argomentazione: dato che gli uomini forgiano i metalli, gli uomini pensano (Etica, II, assioma 2); questo implica allora che, per trasformare la natura, non fu necessario un primo strumento e, allo stesso modo, per conoscere le cose, non fu necessaria una prima idea, un principio nel senso cartesiano. Allo stesso tempo, Spinoza risolve qui la difficoltà esposta dagli scettici ed estrae tutto il vantaggio critico del suo argomento. Questo è irrefutabile, in effetti, se lo si riferisce al suo vero oggetto, che è la concezione tradizionale della conoscenza la cui contraddizione interna rivela. Per uscire da questa contraddizione, giunge allora a

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rinunciare alla problematica della verità che sottomette quest'ultima a condizioni preliminari di possibilità.Paradossalmente, il paragone tra lo sviluppo delle conoscenze intellettuali e la storia di una tecnica materiale di trasformazione della natura, come la riprende Spinoza, ha la funzione di eliminare la concezione strumentale del sapere che il pensiero cartesiano, al contrario, impone. Il ragionamento seguito da Descartes è il seguente: per conoscere, bisogna disporre prima degli strumenti dei quali potremo servirci dopo per conoscere bene; cominciamo allora col darci un buon metodo: sappiamo quello che possiamo conoscere, su quali idee possiamo appoggiarci, per quale via dobbiamo avviarci per raggiungerlo. L'esempio che in Descartes serve per giustificare questa prescrizione è interpretato da Spinoza in un senso inverso: nella storia della conoscenza (poiché c'è una storia della conoscenza, e non solo un ordine di ragioni) gli «strumenti» non intervengono come condizioni preliminari, perché essi stessi devono essere prodotti nello stesso movimento che genera una produzione differente, oggetto finito o idea vera. La conoscenza usa strumenti solo nella misura in cui li ha elaborati, senza che nessun privilegio di diritto condizioni il suo uso col presupposto di una donazione iniziale. Ciò significa che la produzione delle idee vere non è regolata dal semplice gioco di una tecnologia intellettuale che ne subordinerebbe la convalida alla condizione preliminare di un metodo. Orbene, come già abbiamo indicato, la confutazione di questa concezione tradizionale del metodo, ridotto ad una manipolazione di strumenti, è essenziale anche in Hegel: è persino uno degli argomenti che egli oppone a Spinoza.Ma è possibile andare ancora più lontano: se lo sviluppo delle conoscenze non si riduce per Spinoza alla messa in pratica di un procedimento, è perché non c'è cominciamento assoluto per il sapere. In Descartes, la ricerca della verità era sottomessa, propriamente, a questa condizione iniziale di una rottura con le forme anteriori del pensar,e che sono solo ignoranza e devono essere espulse dall'oscurità che le confonde; la riforma dell'intelletto determina quest'origine vera, che riconduce la conoscenza al momento della sua nascita e della quale derivano tutte le altre idee nella retta via di un ordine razionale e necessario. Il progetto spinozista di una «emendatio intellectus» (dove si traduce un termine medico, emendatio, per una nozione che ha senso solo in un contesto giuridico e religioso, riforma), che sembra riprendere questa concezione, serve in realtà per bloccarla, falsificarla, esponendo la questione della conoscenza e della sua storia su basi completamente differenti.In effetti, "l'idea vera data" che, in Spinoza, permette di sfuggire al circolo vizioso implicato dalla concezione strumentale dalla conoscenza, è tutto il contrario di un principio nel senso cartesiano. Sebbene Spinoza dica che lo spirito ha bisogno di uno «strumento innato» per cominciare a conoscere, è chiaro che per lui non si tratta di un germe di verità, di una conoscenza originaria nella quale tutto il sapere risultante preesiste alla sua attualizzazione.E è qui che il paragone con la storia delle arti meccaniche, presa da Descartes, riscuote tutto il suo senso, un senso che sfugge necessariamente da Descartes. Il primo martello utilizzato da un fabbro non poté essere giustamente un vero martello -, come neanche l'uomo che lo manipolava aveva potuto essere un vero fabbro -, ma era un ciottolo raccolto sul bordo di una via, strumento «naturale» imperfetto in sé stesso, che si trasformò in strumento solo per l'uso che ne fu fatto di servirsi di esso come di un attrezzo, qualcosa che all'inizio non era certamente. Così gli uomini di quest'epoca primitiva poterono, con l'aiuto di strumenti estemporanei, fabbricare oggetti, dapprima molto imperfetti, poi più perfezionati, tra i quali si contavano gli strumenti migliori adattati per le funzioni che dovevano compiere: in questa maniera si incamminarono a poco a poco, «paulatim», per una via progressiva al termine della quale «riuscirono a svolgere compiti difficili e numerosi con un minimo di pena.» Allo stesso modo, l'intelletto dovette lavorare in primo luogo con le idee che aveva, servirsi di esse come se fossero conoscenze autentiche, per far sì che producessero tutti gli effetti di cui erano capaci e rettificare dopo, gradualmente, la loro propria attività: così raggiunse, realizzando le sue opere intellettuali (opera intellectualia) «la cima della saggezza».

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Questa analisi significa chiaramente che non c'è per il pensiero un buon cominciamento, che lo instraderebbe una volta per tutte su una via retta il cui orientamento sarebbe tracciato completamente dall'inizio: tale pregiudizio è completamente sintomatico della persistenza dell'illusione finalistica nella teoria cartesiana. La conoscenza è al contrario un'attività - quest'idea è essenziale in Spinoza - e, come tale, non comincia mai veramente né in verità, perché ha cominciato da sempre: ci sono sempre idee, dato che «l'uomo pensa» per sua natura. Per questo, se gli viene negato il valore di una confutazione, l'argomento della regressione all'infinito - che abbiamo fatto intervenire alcune pagine indietro - conserva una validità, poiché descrive semplicemente le condizioni nelle quali si produce la conoscenza, per un concatenamento di idee assolutamente continuo e senza cominciamento assegnabile. Il vero problema consiste nel sapere in che cosa si convertano queste idee che si possiedono di fatto («habemus enim ideam veram»), come sono trasformate, alla maniera in cui poté trasformarsi un ciottolo per fare di esso un martello. Questa trasformazione non pone solamente un semplice problema tecnico: non si tratta principalmente di sapersi servire di queste idee, nella misura in cui non preesistono al suo uso ma sono, al contrario, il suo risultato. Le idee dalle quali è necessario «cominciare» per arrivare a conoscere non sono verità innate sulle quali potrebbe fondarsi una volta per tutte, come su una base infrangibile, un ordine delle ragioni, ma sono un materiale da lavorare, che deve essere profondamente modificato per servire ulteriormente alla produzione dalle verità.Torniamo ad incontrare qui un argomento la cui importanza già abbiamo constatato in Hegel: la pretesa di un sapere originario, di un fondamento della conoscenza, è irrisoria. Questa disconosce in effetti il carattere necessariamente artificiale dei cominciamenti ai quali è condannato lo spirito nella sua storia effettiva: per definizione, tutto ciò che appare al cominciamento è precario, incompiuto, condannato a sparire, perché deve cedere il suo posto a ciò di cui è solo una condizione preliminare. Questi cominciamenti si giustificano solo per la loro fragilità interna, per la loro natura intrinsecamente contraddittoria, poiché queste caratteristiche permettono loro di giocare con efficacia il ruolo di spinta per un movimento che succede loro e li elimina. Se una conoscenza è possibile, lo è precisamente per questa distanza che stabilisce in rapporto al suo cominciamento: il quale non «esce» da questo per sviluppare un contenuto che sarebbe già dato positivamente in esso, ma per fuggire dalla sua indeterminazione e dalla sua necessaria astrazione. Non c'è introduzione al sapere, non c'è un buon metodo per conoscere, perché è solamente nella sua pratica effettiva che il pensiero può essere riflesso come attività reale di un spirito che mette in esercizio, e alla prova, la sua propria forza (vis sua nativa), quella che esso forma esercitandola.Se la conoscenza non procede conformandosi ad un ordine di ragioni, fissandosi astrattamente in un quadro che in seguito non gli resterebbe che occupare, è perché esiste fin dall’inizio nella sua storia reale, nel suo lavoro effettivo. Possiamo dire che il sapere è un processo, il processo della produzione delle idee, ed è questo ciò che giustifica che lo si confronti con un processo di produzione materiale. Questo si chiarirà completamente quando parleremo del concatenamento causale delle idee che è lo stesso di quello delle cose: è un unico e medesimo ordine, un unico e medesimo movimento che si esprime come reale e come pensato. Perciò il sapere deve essere presentato come un'attività e non come una rappresentazione passiva, idea sulla quale Spinoza torna instancabilmente: la conoscenza non è il semplice sviluppo di una verità prestabilita, bensì la genesi effettiva di un sapere che non preesiste in nessun modo alla sua realizzazione. Per questo anche il suo progresso non è sottomesso alla condizione di un'origine assoluta che ne garantirebbe la verità «fondandola»: contrariamente ad un ordine formale, che è determinato dal suo limite, una pratica non comincia mai veramente, perché è già da sempre cominciata, di una maniera che, pertanto, non può essere mai «vera». Vediamo che in Spinoza si trova anche l'idea di una storia della conoscenza: questa non trova la verità come una norma fissata all'inizio perché è inseparabile dal movimento nel quale si costituisce e questo movimento è in sé stesso la sua propria norma. In realtà, quando Hegel rimprovera a Spinoza di aver espulso della sua filosofia ogni movimento, erigendo davanti ad essa l'ideale e il modello di un sapere

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morto, congelato dall'obbligo di riprodurre un ordine inflessibile, dobbiamo stupirci di vederlo ignorare, o camuffare, una tendenza essenziale dello spinozismo.Un'idea, ogni idea, è adeguata secondo la sua causa: nella sua determinazione intrinseca, esprime la potenza di agire dall'anima in cui si produce. Ma questa potenza non è il potere astratto di una natura delimitata dalle sue condizioni, luce naturale nel senso cartesiano, ma è l'impresa concreta, si direbbe quasi materiale, di un pensiero impegnato nello sforzo, nel lavoro della sua realizzazione. Nell'Etica, Spinoza si propone di «condurci come per mano alla conoscenza dello spirito umano e della sua beatitudine suprema» (premessa al libro II), e ciò seguendo un ordine necessario di dimostrazioni che dobbiamo seguire, senza potergli sfuggire. In cosa differisce quest'ordine da un ordine delle ragioni nel senso cartesiano? In che cosa differisce la via che ha aperto dalla via rigida, completamente determinata dalla condizione preliminare di un metodo, e che ci conduce - lo sappiamo - alla finzione di un Dio onnipotente e verace?

D'accordo con le premesse che abbiamo stabilito, è necessario che c'imbarchiamo in una lettura dell'Etica liberata da ogni pregiudizio formalista, scartando l'illusione di un cominciamento assoluto. Sebbene l'esposizione della dottrina spinozista cominci con definizioni, assiomi e postulati, sebbene cominci dalla sostanza, se non da Dio, ciò non significa affatto che queste nozioni primitive costituiscano in realtà una fonte di verità a partire dalla quale tutto quello che segue potrebbe essere semplicemente dedotto, secondo uno sviluppo rigido e predeterminato, nella forma di una esplicitazione. Sostanza, attributi, modi, tali come appaiono in questi principi preliminari, sono propriamente l'equivalente di quel ciottolo mal levigato di cui ebbero bisogno i primi fabbri per «cominciare» il loro lavoro: sono ancora nozioni astratte, semplici parole, idee naturali che non riscuoteranno veramente un significato se non a partire dal momento in cui funzionano in dimostrazioni, producendo effetti reali che esprimono di tale maniera una potenza della quale non disponevano all'inizio. Forse bisognerebbe approcciarsi all'Etica di Spinoza come alla Logica di Hegel: non è quest'esposizione lineare ed omogenea, uniformemente vera da un estremo all'altro, che esplorerebbe progressivamente un ordine già stabilito, fissandosi un ideale di conformità, ma è un processo reale di conoscenza che costruisce la sua propria necessità nella misura in cui avanza, nel movimento effettivo del suo autoconcepimento, della sua genesi. Pertanto la sostanza, o la causa sui, tale come ci si presenta all’inizio in una definizione geometrica, all'inizio del libro I dell'Etica, è qualcosa che si avvicina all'Essere in senso hegeliano: nozione precaria e come tale insostenibile che bisognerà trasformare per comprenderla e dominarla.Tuttavia, l'accostamento che è appena stato abbozzato trova abbastanza rapidamente il suo limite: quello che costituisce in Hegel il motore dello sviluppo razionale, la contraddizione, è completamente assente della dimostrazione spinozista, e senza dubbio sarebbe abusivo pretendere di trovarlo in essa. In Spinoza, il potere dell'intelletto è, in tutto il suo esercizio, integralmente positivo, affermazione di sé che esclude gli arretramenti e le sconfitte, che non comporta nessun tipo di negatività. È giusto interpretare questa assenza come il sintomo della difettosità specifica dello spinozismo, come fa Hegel? Poiché, insieme alla contraddizione che lo determina, manca al sistema il movimento, cioè quella vita interna che conduce allo spirito, o lo riconduce, a sé stesso, fino al punto in cui storia e ragione si congiungono: il pensiero che aspira a un positivo che sia solo positivo è pensiero morto e arrestato. Al contrario, il concetto hegeliano è messo costantemente alla prova dagli ostacoli che deve superare per avanzare: la storia che percorre è tanto più reale e necessaria quanto più è scandita da queste attese, per queste impazienze e quei rovesci che le fanno durare realmente. Sebbene il sistema spinozista tratti alla sua maniera la conoscenza come un processo, questo avanza di una maniera molto diversa dallo sviluppo hegeliano, dato che perpetua una stessa affermazione assoluta. Ciò significa che rimane sottomesso alle leggi di una temporalità astratta, quella di un ordine

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contemporaneamente simultaneo e successivo la cui progressione continua è puramente apparente? In tale caso la scoperta in Spinoza di un storicità del razionale sarebbe effettivamente illusoria.Per uscire da questa difficoltà, bisogna osservare che alla storia spinozista manca non solo il motore della contraddizione, ma anche quello che è il suo prodotto più caratteristico: quell'orientamento cui tende il processo per intero in vista di un fine e che è il principio segreto di tutte le sue operazioni. L'aspetto fondamentale della dimostrazione spinozista è il suo rifiuto radicale di ogni teleologia. Nel caso di Hegel, la contraddizione è il mezzo che suscita una storia e che permette contemporaneamente di superarla, portandola fino a quel termine nel quale tutti i suoi aspetti successivi sono totalizzati e riconciliati. Da questo punto di vista, la dialettica hegeliana potrebbe essere solo il sostituto della nozione classica di ordine, della quale riprende, rinnovandola, la funzione di garanzia: col suo ricorso alla negatività, la storia, ritornando su sé stessa, avanza - perfino a costo di tante deviazioni - verso un fine che è anche il suo compimento e la sua realizzazione; storia ricorrente, perché è orientata, perché ha un senso che si afferma in maniera permanente in tutti i suoi momenti. In tale caso il vero successore di Cartesio non sarebbe Spinoza, bensì lo stesso Hegel.Contrariamente allo sviluppo dello spirito hegeliano che è essenzialmente finalizzato, il processo della conoscenza come lo costruisce Spinoza è assolutamente causale; come tale, è contemporaneamente necessario e libero da ogni norma prestabilita, e la sua positività non suppone nessuna nozione regolatrice che sottometta l'attività dell'intelletto ad un modello esterno, indipendente dal suo compimento. È proprio per questo che esclude ogni relazione col negativo, poiché questa potrebbe annodarsi solo in una prospettiva teleologica che disponesse una volta per tutte, uno in relazione all'altro, il positivo e il negativo, condividendo un'intenzione comune e nella promessa della loro riconciliazione. Se c'è una storia spinozista, è completamente indipendente da tale presupposto. Essa si situa in quel punto in cui il suo sviluppo necessario, il suo processo materiale, non richiede più per essere compreso il riferimento ideale di un senso o di un orientamento; la sua razionalità non ha nulla a che fare con lo sviluppo obbligato di un ordine, perché non deve realizzarsi in un fine.

La conoscenza per mezzo delle cause

Cosa resta allora in Spinoza stesso del procedimento «more geometrico»? La fedeltà sempre menzionata ad un modello di dimostrazione che offrono le matematiche, non va nel senso inverso a quello della nuova via nella quale si incamminò Spinoza, sostituendo alla determinazione formale della conoscenza come un ordine la sua presentazione come un processo effettivo e non finalizzato? Per rispondere a questa domanda, bisogna sapere cosa significa esattamente il riferimento costante di Spinoza al procedimento «more geometrico».Anche qui vedremo che Hegel si è sbagliato completamente circa il pensiero reale di Spinoza presupponendo che fosse la continuazione di quello di Cartesio. In tale caso la successione delle proposizioni che compone l'Etica non sarebbe niente più che un'applicazione dell'ideale di rigore formulato nel Discorso sul metodo, un esempio di «quelle lunghe catene di ragioni tanto semplici e facili» che costruiscono i geometri per arrivare direttamente a conoscenze certe. Ma il procedimento «more geometrico» è, al contrario, l'indizio di una divergenza fondamentale: lontano dall’allineare Spinoza alla problematica cartesiana della conoscenza, è ciò che gli permette di affermare un'opposizione radicale rispetto ad essa.Per comprendere il senso di questa opposizione, bisogna tornare al testo di Cartesio nelle sue Risposte alle seconde obiezioni che Spinoza commenta attraverso la penna dell'autore della sua prefazione, Louis Meyer54, all'inizio dei Principi della filosofia di Cartesio. In quel testo, Cartesio distingue due 54 Sule condizioni in cui questa prefazione è stata scritta, dietro le indicazioni di Spinoza, cfr. la lettera 13 a Oldenburg.

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«maniere di dimostrare»: una segue un ordine analitico e risale dagli effetti verso le cause. È quella che rappresenta una ratio cognoscendi che abborda i suoi oggetti dal punto di vista della sua rappresentazione nel pensiero secondo un movimento che accompagna la conoscenza nel suo progresso: quest'ordine è quello che Cartesio seguì nelle sue Meditazioni. Ma la dimostrazione può anche, all'inverso, partire dalle cause per costruire, a partire da esse, i suoi effetti: allora, dice Cartesio, «essa si serve da una lunga serie di definizioni, di domande, di assiomi, di teoremi e di problemi, di modo che, se gli sono negate alcune conseguenze, essa faccia vedere come sono contenute negli antecedenti ed ottenere il consenso del lettore, per quanto ostinato e testardo sia». Ma questo metodo che seguirono gli antichi geometri «non conviene tuttavia tanto bene [come l'analisi] alle materie che appartengono alla metafisica [...] dove la principale difficoltà è concepire chiaramente e distintamente le prime nozioni». È possibile senza dubbio trasformare un ordine di esposizione nell'altro: le Seconde Risposte terminano con un Compendio geometrico nel quale le prove dell'esistenza di Dio sono precisamente «more geometrico dispositae». Dispositae, il termine è significativo: l'ordine geometrico «dispone» le prove; come tale, non è per Cartesio che un ordine artificiale, appropriato solo per trattare certe questioni, ma che rimane esteriore alla natura specifica dello spirito umano, estraneo alla sua luce naturale: l'ordine sintetico rinvia ad una manipolazione formale delle idee, e come tale deve essere scartato della metafisica a beneficio dell'ordine analitico, le cui esigenze sono autenticamente razionali. Si vede che, quando Hegel giudica il metodo geometrico per disprezzarlo, non si scosta di molto dalla concezione che Cartesio aveva già avanzato al riguardo.Orbene, quando Spinoza adotta il procedimento more geometrico, è proprio in riferimento a questa critica che Cartesio le oppose, le cui considerazioni e conclusioni respinge. Nei Principi della filosofia di Cartesio (more geometrico demonstratae, e non dispositae) egli si incammina in un'impresa a prima vista abbastanza strana: appoggiandosi al compendio geometrico dato da Cartesio a titolo di esempio (e come una sorta di curiosità), riprende l'insieme della dottrina per dargli la forma dimostrativa che le manca nelle Meditazioni. Spinoza respinge pertanto la gerarchia delle preferenze stabilita dallo stesso Cartesio, che privilegiò l'ordine analitico nell'esposizione del suo sistema. Ma Spinoza non scarta solamente la forma nella quale è presentato il sistema: si sforza di far notare dal principio che non riconosce neanche come vero il contenuto della dottrina. La «traduzione» geometrica che offre Spinoza della filosofia cartesiana non è un modo di dire la stessa cosa in maniera differente, ma è già un modo di prendere posizione, di prendere distanza rispetto ad essa.L'Etica, nella quale Spinoza sviluppa un contenuto filosofico completamente differente dal contenuto del sistema cartesiano, è essa stessa ordine geometrico demonstrata, cioè esposta sinteticamente in una progressione che va delle cause agli effetti. Se Spinoza adotta questa presentazione è evidentemente che vede in essa qualcosa di completamente differente da una disposizione formale della prova, così come l'interpretava Cartesio. Questa scelta significa che non c'è un procedimento more philosophico (analitico) distinto dal procedimento more geometrico (sintetico), un ordine di investigazione distinto da un ordine di esposizione, una ratio cognoscendi distinta da una ratio essendi. Tra le idee, come tra le cose, c'è una sola ed unica connessione, che va delle cause agli effetti, perché è in sé stessa necessaria: è proprio questa identità che determina, fuori da ogni garanzia soggettiva (sia questa commisurata all'Io o a Dio, è alla fine lo stesso), l'obiettività della conoscenza, cioè la potenza che detiene naturalmente di esprimere la realtà delle cose come sono in sé, e non solamente come sono per me. Si capisce così che il procedimento more geometrico è la risorsa di cui ebbe bisogno di Spinoza per sfuggire la concezione giuridica dalla conoscenza, che in Cartesio subordina ancora l'esercizio del pensiero alle condizioni di un artificio.Il processo della conoscenza, determinato sinteticamente, non mira più alle cose così come sono per me, ma le coglie come sono in sé. Viene quindi liberato completamente dall'illusione finalista che, come si sa, procede per proiezione a partire da me; si appoggia su una necessità strettamente causale, e questa è la forma della sua obiettività. È del tutto significativo, da questo punto di vista, che il libro I

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dell'Etica finisca con quell'enunciato del principio di causalità, presentato in questi termini: «Niente esiste dalla cui natura non segua un qualche effetto».55 Questo enunciato possiede certe particolarità notevoli. Da un lato, è formulato di una maniera assolutamente generale, che non significa che la sua universalità sia astratta; evitando di precisare a quale oggetto si applichi questo principio, Spinoza non vuole indicare che è indifferente ad ogni contenuto e che mira solamente ad un possibile determinato formalmente, ma che esula da ogni distinzione di contenuto: il principio vale per ogni realtà, tanto per la natura naturata come per la natura naturante, nelle quali si esercita identicamente. Ma anche se la relazione tra la causa ed i suoi effetti prende una forma molto differente nel processo della causa sui da quella che prende nell'concatenamento modale, poiché nel primo caso questa relazione è intrinseca, mentre nel secondo è estrinseca, essa continua in tutti i casi ad affermare una sola e medesima necessità che non può essere scissa ma deve, al contrario, essere conosciuta come identica: in ciò consiste precisamente il terzo genere di conoscenza. D'altra parte, il principio di causalità, come lo enuncia Spinoza, investe letteralmente i termini del principio tradizionale: la tanto conosciuta formula «niente è senza causa», che procede in maniera analitica dell'effetto alla causa, è sostituita dalla nuova formula «nessuna causa è senza effetto», che procede al contrario dalla causa all'effetto, sinteticamente, e che riassume in una semplice frase la concezione genetica della conoscenza elaborata da Spinoza. Causa seu ratio, ratio seu causa.È in questo punto preciso che Spinoza rompe assolutamente con la problematica cartesiana del metodo. Le Meditazioni risalgono dagli effetti alle cause, vanno dal finito all'infinito, per esempio dell'anima umana a Dio, prendendo le cose nell'ordine inverso a quello che le ha prodotte realmente, il quale va necessariamente delle cause agli effetti: si comprende come da quel punto di vista la conoscenza sia in primo luogo determinata come rappresentazione, poiché riflette il reale nel pensiero e dal suo punto di vista, conformandosi a criteri di validità che sono dati in esso dal principio e che riproducono l'ordine reale invertendolo. Per Spinoza, al contrario, una conoscenza adeguata "spiega" il suo oggetto nella misura in cui si afferma come identica ad esso, non nella trasparenza di una rappresentazione conforme, bensì nella comunanza di ordine di una realtà altrettanto necessaria.Quest'ordine reale è quello nel quale le cose sono state prodotte, e deve essere anche quello delle idee: è l'ordine genetico che va delle cause agli effetti, ed è quello che esprime in senso stretto il more geometrico.

"Hemos mostrado que la idea verdadera es simple, o compuesta de ideas simples, y que revela cómo y por qué algo es o ha sido hecho; también hemos mostrado que estos efectos objetivos ocurren en el alma de acuerdo con la esencia formal del objeto; que es lo mismo que dijeron los antiguos (a saber, que la ciencia verdadera procede de la causa al efecto) [...] [30]"

«Abbiamo mostrato che l'idea vera è semplice, o composta da idee semplici, e che rivela come e perché qualcosa è o è stato fatto; abbiamo mostrato anche che questi effetti oggettivi si succedono nell'anima d'accordo con l'essenza formale dell'oggetto; che è la stessa cosa che dicevano gli antichi (cioè, che la vera scienza procede della causa all'effetto) [...]».56

Il riferimento ad Aristotele è qui particolarmente importante: vere scire est scire per causas (Lewis Robinson indica i seguenti riferimenti: Secondi Analitici I C2, Metafisica 983a, Fisica II c3). Ma bisogna comprendere che tale riferimento non ha in assoluto il significato di un ritorno alle fonti, che restaurerebbe una tradizione antica passando sopra al moderno Cartesio. Spinoza in effetti si sforza di prendere le distanze anche da tale tradizione:

55 Etica, I, prop. 36.56 Trattato sulla riforma dell’intelletto, § 85.

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«[...] ma mai che io sappia, concepirono, come abbiamo fatto noi qui, l'anima operare secondo leggi determinate e come un automa spirituale».57

Gli Antichi (Aristotele) sono preferibili ai moderni (Cartesio) nella misura in cui affermarono la necessità di una conoscenza per le cause. Ma non colsero il carattere causale del processo del pensiero che procede, esso stesso, secondo le sue cause, secondo un ordine necessariamente identico a quello delle cose: ignorarono pertanto la natura delle vere cause, e di conseguenza dovettero presentare le conoscenze in un ordine fittizio.In effetti, per gli Antichi, la causa formale di un'idea è un'universale astratto, genere o specie, che rinvia alla potenza di immaginare che sta in noi, per la quale generiamo «liberamente» finzioni secondo leggi che sono estranee alla conoscenza stessa. Ma, per Spinoza - ed è ciò che significa la sua teoria dell'«automa spirituale» -, la causa di un'idea risiede nella potenza dell'intelletto, colta non come il potere singolare di un soggetto individuale, bensì come la proprietà eterna di un modo del Pensiero; così, è il Pensiero, attributo infinito della sostanza, quello che si esprime in maniera determinata in ogni idea e la genera «adeguatamente».

En este punto, Spinoza está de acuerdo con Descartes, contra los Antiguos. Pensar es proceder por operaciones singulares - intuitivas o deductivas -, es encadenar ideas efectivamente presentes en el espíritu ahorrándose el desvío por los universales, es decir por las ideas abstractas: los entes de razón son puros posibles, sólo tienen un valor ficticio, y son los síntomas de un pensamiento esencialmente inadeado [32]. "Mientras tratamos de la investigación de las cosas, nunca nos estará permitido inferir algo de nociones abstractas [...]" [33]. "Nos es necesario, ante todo, deducir siempre todas nuestras ideas de las cosas físicas, o seres reales, avanzando, en lo posible, según la serie de las causas, de un ser real a otro ser real, sin pasar por las abstracciones y los universales, no infiriendo nada real de ellos, ni infiriéndolos de nada real; pues lo uno y lo otro interrumpen la marcha verdadera del entendimiento [verum progressum intellectus]" [34]. Esa "marcha", el proceso real del saber, no procede ni de las cosas a las ideas, ni de las ideas a las cosas, sino que va de idea en idea, es decir que liga entre sí actos de pensamiento, según un orden causal necesario que es el mismo que aquél en el cual las cosas se encadenan en la realidad. Ordo et connexio rerum, idem ac ordo et connexio causarum, idem ac ordo et connexio idearum.

Su questo punto, Spinoza è d'accordo con Cartesio, contro gli Antichi. Pensare è procedere per operazioni singolari - intuitive o deduttive -, è concatenare idee effettivamente presenti nello spirito evitando la deviazione per gli universali, cioè per le idee astratte: gli enti di ragione sono puri possibili, hanno solo un valore fittizio, e sono essenzialmente i sintomi di un pensiero inadeguato [32].58 «Mentre trattiamo dell'investigazione delle cose, non ci sarà mai permesso inferire qualcosa da nozioni astratte [...] [33]».59 «È necessario, innanzitutto, dedurre sempre tutte le nostre idee dalle cose fisiche, o esseri reali, avanzando, per quanto possibile, secondo la serie delle cause, da un essere reale ad un altro essere reale, senza passare per le astrazioni e gli universali, non inferendo niente di reale da essi, né inferendo essi da niente di reale; poiché l'uno e l'altro interrompono la vera marcia dell'intelletto (verum progressum intellectus)».60 Questa "marcia", il processo reale del sapere, non procede né delle cose alle idee, né delle idee alle cose, ma va da idea a idea, cioè collega tra sé atti di pensiero, secondo un ordine causale necessario che è lo stesso di quello nel quale le cose si concatenano nella realtà. Ordo et connexio rerum, idem ac ordo et connexio causarum, idem ac ordo et connexio idearum.

57 Ibid.58 Etica, scolio I della prop. 40, libro II .59 Trattato sul la riforma dell'intelletto, § 93.60 Ibid., § 99.

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Il more geometrico funziona dunque nella cornice di una strategia filosofica complessa, ed il dispositivo teorico al quale corrisponde produce un doppio effetto, poiché pone contemporaneamente Aristotele contro Cartesio ed Cartesio contro Aristotele. Spinoza non mette in gioco il machiavellismo solamente nella sua politica. Aristotele contro Cartesio: privilegia il metodo genetico che procede sinteticamente delle cause agli effetti ed obbliga così ad identificare l'ordine delle cose e quello delle idee. Cartesio contro Aristotele: scarta la concezione astratta, al tempo stesso formale ed empirica, della conoscenza, a favore di un pensiero in atto, effettivamente presente nelle idee che esprimono la sua potenza. Ma bisogna saper comprendere che questa critica dell'astrazione non ci porta, per riprendere una formula ben conosciuta di Cavaillès, da una filosofia del concetto ad una filosofia del giudizio: il pensiero che si afferma in ciascuna idea non è la manifestazione di un soggetto libero che regna sui prodotti della sua creazione come un re nel suo regno (l'Io o Dio: uno non è più che l'immagine dell'altro), ma egli stesso dipende dal processo reale obiettivo che mette in relazione l'idea singolare, come modo del pensiero, con la sostanza che si esprime ed agisce in lei. Pertanto, né Aristotele né Cartesio: Spinoza.Il movimento del pensiero procede con la stessa necessità di ogni realtà. «Gli uomini pensano»: questo assioma esprime, con l'evidenza materiale di un fatto, il carattere assolutamente naturale di tale processo; questo deve essere sottoposto alle sue leggi proprie, che dirigono il movimento dell'«automa spirituale». Qui vediamo fino a che punto Spinoza è vicino a Hegel: stabilendo una relazione necessaria tra il sapere ed il processo della sua produzione, gli permette di cogliersi come assoluto, e così cogliere l'assoluto; preso fuori da questo sviluppo oggettivo, la conoscenza non è altro che la rappresentazione formale di una realtà della quale offre solo l'illusione astratta. Ma Spinoza si allontana anche da Hegel: facendo del pensiero un attributo della sostanza, ne costituisce il movimento come assolutamente oggettivo e lo libera da ogni riferimento ad un soggetto, perfino se questo fosse il pensiero stesso. A partire da qui, la causalità essenziale che sta nella base di ogni razionalità si definisce senza presupposto teleologico. La forma più sottile di questo presupposto sarebbe data da un pensiero, soggetto autonomo della sua propria attività, che si rapporta a sé stesso come meta della sua realizzazione: questa concezione di un pensiero che ritorna su sé stesso, a sé stesso, come un soggetto, e si appropria di ogni realtà effettuandosi, è precisamente la chiave dell'idealismo hegeliano. Allora l'interpretazione che Hegel propone dello spinozismo comincia a vacillare: il pensiero di Spinoza non è la promessa incompiuta di una dialettica prematura, ancora impossibile, ma è già la critica di una perversione della dialettica nella quale Hegel stesso si incamminò producendo il concetto di «Logica soggettiva.» È Hegel qui, a quanto appare, quello che deve rendere conto a Spinoza.

Idea adeguata ed idea inadeguata

Nella strategia della conoscenza elaborata da Spinoza, il procedimento more geometrico ha quindi una posizione essenziale, che non conduce ad una concezione formale della verità bensì a presentarla, al contrario, come un processo necessario, oggettivamente determinato. Essa ha, inoltre, come conseguenza un cambiamento completo della relazione tradizionale stabilita dai filosofi, da Cartesio in particolare, tra la verità e l'errore. Le famose pagine nelle quali Hegel denuncia i pensieri astratti che «oppongono rigidamente la verità all'errore» possono leggersi già in Spinoza; certamente sono scritte di una maniera totalmente differente e producono effetti inammissibili per lo spirito hegeliano.Nell'assioma 5 del libro I dell'Etica, Spinoza afferma l'accordo (convenientia) dell'idea vera col suo oggetto. Questa proposizione, che non è una definizione, non esprime il carattere intrinseco dell'idea vera: non la costituisce a partire dalla sua causa, ma la caratterizza solo a posteriori per una delle sue proprietà, come lo conferma la definizione 4 del libro II quando distingue i caratteri estrinseci ed intrinseci dell'idea vera. La nozione di convenientia che relaziona l'idea con l'oggetto che sta fuori di essa, designa evidentemente un carattere estrinseco. La definizione causale dell'idea vera determina

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questa, al contrario, per la sua adaequatio: è questo concetto, essenziale in Spinoza, quello che segna la sua rottura con la concezione tradizionale della conoscenza. In effetti, per adaequatio bisogna pensare tutto il contrario di ciò che si espone come convenientia.Adaequatio è la determinazione intrinseca dell'idea vera, cioè ciò che produce la sua verità nell'idea. Bisogna prendere molto seriamente l'affermazione per la quale questa determinazione è interna all'idea: non c'è necessità di uscire dall'idea, di andare verso un esterno, che sarebbe per esempio il suo oggetto, per affermare l'esistenza necessaria del suo contenuto, che essa effettivamente «contiene», poiché scopre la sua realtà rimanendo nei suoi propri limiti. Ci troviamo qui, apparentemente, nella punta estrema di un idealismo: l'autosufficienza dell'idea la sottrae ad ogni determinazione esterna, e pertanto ad ogni criterio di oggettività, nel senso tradizionale di questo termine. Ma un eccesso di idealismo può confinare anche con un materialismo, o almeno produrre certi effetti materialisti.La funzione essenziale della categoria di adaequatio è rompere con la concezione della conoscenza come rappresentazione, che domina ancora nel cartesianismo. Conoscere, nel senso di rappresentare, ra-presentare, è letteralmente riprodurre, ripetere: l'idea è allora solamente un doppio, un'immagine della cosa di cui offre la rappresentazione e che esiste, e sussiste, fuori di essa. Qual è la cosa essenziale in questo schema empirista, quello che il materialismo volgare ha assunto? È il presupposto che l'idea, rappresentazione di un oggetto per o in un soggetto, abbia fuori di sé il suo contenuto, contenuto che può quindi solo imitare, designare, simulare, indicare, o anche, come si dice, «riflettere». A partire da ciò, il problema della conoscenza consiste nella giustificazione di quella relazione di conformità tra l'idea e l'oggetto al quale si riferisce, e questo non è possibile se non per la scoperta di una garanzia che confermi la validità, oppure la «oggettività» della relazione estrinseca tra forma e contenuto della conoscenza.Per esempio, si sa che Cartesio, essendosi proposto in primo luogo di stabilire la verità delle idee solo in base alla loro evidenza interna, scopre l'insufficienza di quello criterio - formale in sé stesso - e la necessità di ottenere una garanzia superiore di oggettività: questa sicurezza infrangibile che resiste perfino alla prova di un dubbio iperbolico è data da un Dio non ingannatore ed onnipotente, creatore delle verità eterne, dal quale dipende che le nostre idee abbiano un contenuto fuori di noi, contenuto al quale corrispondono in maniera esatta e che ci consentono di conoscere. Questo Dio verace è anche il dio meccanico che aggiusta il sistema della natura e ne mantiene l’ ordine con leggi imperiose ed irrefutabili: è egli che adatta le idee alle cose ed assicura così che sappiamo veramente ciò che sappiamo, fuori da ogni rischio di illusione. Questo sistema esemplare di garanzia, incarnato in un Essere onnipotente, che regna sulle nostre idee come un re sui suoi sudditi, permette anche di stabilire una stretta separazione tra, da un lato, l'ordine di ciò che è vero, voluto da Dio, al quale è necessario che ci sottomettiamo, e, d'altra parte, il disordine di ciò che esiste fuori di quei limiti e costituisce l'universo vago, anomico e minacciante l'errore.È necessario spendere qualche parola circa la teoria dell'errore sviluppata per Cartesio, poiché Spinoza la prese come uno dei suoi bersagli principali. Secondo questa, l'idea falsa non può essere voluta da Dio, in ragione della perfezione della sua natura che, al contrario, garantisce tutte le verità. L'errore è ciò che Dio non avrebbe potuto creare senza contraddizione; esso è, allora, nel dominio della conoscenza, strettamente imputabile alla natura umana e alla parte, strettamente negativa, del libero arbitrio che gli corrisponde. Il libero arbitrio è paradossalmente in Cartesio ciò che imparenta la natura umana con la natura divina, poiché è infinito in noi come in Dio, ma qui l'identità che si stabilisce è quella di un'immagine inversa, perversa, diabolica. Ingannarci è, in qualche modo, l'unica maniera che noi stessi abbiamo di essere creatori, onnipotenti sull'opera che dipende dalla nostra iniziativa assoluta; ma si tratta di una caricatura irrisoria della creazione divina, imitazione maligna di questa, che riproduce negativamente, in tracciati di ombra, ciò che Dio stesso iscrisse una volta per tutte nella ragione a caratteri luminosi. L'errore è allora imputabile a quella porzione di nulla che

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persiste in noi e che è la marca propria della nostra indegnità. Da qui una conseguenza essenziale: se ci sbagliamo, è perché lo vogliamo; quindi, anche il migliore rimedio contro l'errore si trova nel libero arbitrio che lo ha generato: basta voler fare un buon uso della nostra libertà, del nostro potere di giudicare, e con ciò ci sottomettiamo al decreto divino, resistendo a quel peso che c'attrae verso il basso, sospendendo gli effetti di questa negatività che sola c'appartiene e c'oppone all'ordine della verità. Pertanto, tra un vero puramente positivo, che esprime l'onnipotenza di un creatore autentico, ed un falso puramente negativo, che esprime solamente la debolezza di una creatura ed il suo sforzo insensato per occupare il posto del suo padrone, vi è una separazione assoluta, un limite netto, una distinzione che non è possibile ignorare: è essa che mette tanto la verità quanto l'errore nel posto che corrisponde loro e proibisce ogni comunicazione tra essi.

Ahora bien, Spinoza, tal como lo hemos visto, rechaza ligar el acto del conocimiento a la iniciativa de un sujeto (Dios en el caso de la verdad, nosotros en el caso del error), rechaza también la separación estricta, la oposición que ésta establece entre la verdad y el error. Primero, es cierto que, cuando nos equivocamos, no hacemos uso, ni siquiera de una maniera nefasta, de nuestro libre arbitrio: por el contrario, nos encerramos en el orden implacable de la ilusión y del desconocimiento, inevitablemente engendrado por el punto de vista de la imaginación. El error es un mecanismo regulado por las condiciones más estrictas, que son también las de nuestra ordinaria esclavitud. "Las ideas inadecuadas y confusas se siguen unas de otras con la misma necesidad que las ideas adecuadas, es decir, claras y distintas" [35]. Cuando poseemos la verdad, no accedemos por ello más a la dignidad de un sujeto creador: no sólo porque todas las ideas son verdaderas en Dios, y por lo tanto fuera de nuestra iniciativa, sino porque en Dios mísmo ellas están sometidas a las leyes necesarias que las encadenan unas a otras, según un orden que es también el de las cosas y del que pueden apartarse. Así, tanto en el saber como en la ignorancia, si alma se revela ser sólo un "autómata espiritual" que funciona a partir de determinaciones objetivas, fuera de toda posibilidad de intervención - incluso si ésta estuviese reservada a la iniciativa de un ser perfecto -, y por ello mismo por encima de toda obligación. Tanto las ideas verdaderas como las falsas se explican por sus causas: vemos así aparecer entre ellas una comunidad fundamental que prohibe que se las reparta en dos órdenes diferentes y se las ubique a ambos lados de un límite ya trazado, el mismo que separa lo negativo de lo positivo.

Orbene, Spinoza, come abbiamo visto, rifiuta di legare l'atto della conoscenza all'iniziativa di un soggetto (Dio nel caso della verità, noi nel caso dell'errore), respinge anche la separazione stretta, l'opposizione che questa stabilisce tra la verità e l'errore. In primo luogo, è certo che, quando ci sbagliamo, non facciamo uso, neanche di una maniera nefasta, del nostro libero arbitrio: al contrario, ci rinchiudiamo nell'ordine implacabile dell'illusione e dell'ignoranza, inevitabilmente generato dal punto di vista dell'immaginazione. L'errore è un meccanismo regolato da più strette condizioni che sono anche quelle della nostra ordinaria schiavitú. «Le idee inadeguate e confuse si succedono le une alle altre con la stessa necessità delle idee adeguate, cioè, chiare e distinte».61 Quando possediamo la verità non accediamo per ciò affatto alla dignità di un soggetto creatore: non solo perché tutte le idee sono vere in Dio, e pertanto fuori della nostra iniziativa, ma anche perché in Dio stesso esse sono sottomesse alle leggi necessarie che le concatenano le une alle altre, secondo un ordine che è anche quello delle cose e dal quale possono allontanarsi. Così, tanto nel sapere quanto nell'ignoranza, l’anima si rivela non essere che un "automa spirituale" che funziona a partire da determinazioni oggettive, fuori da ogni possibilità di intervento - perfino se questa fosse riservata all'iniziativa di un essere perfetto -, e per ciò stesso al di sopra di ogni obbligo. Tanto le idee vere come le false si spiegano con le loro cause: vediamo così apparire tra esse una comunanza fondamentale che proibisce

61 Etica, II, prop. 36.

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che le si spartisca in due ordini differenti e le si ponga in entrambi i lati di un limite tracciato, lo stesso che separa il negativo dal positivo.Per Spinoza, le idee non sono immagini, rappresentazioni passive, e non riproducono, in maniera più o meno corretta, realtà che sarebbero loro esterne, o almeno non è questo ciò che le costituisce come vere. È ciò che egli esprime in una formula sorprendente, che parla evidentemente contro Cartesio: le idee non sono «mute pitture in un quadro», finzioni che alludono ad una realtà o un modello che sussisterebbe fuori di esse ed al quale al massimo potrebbero somigliare. Le idee, tutte le idee, sono atti, cioè affermano in se stesse sempre qualcosa, secondo una modalità che rimanda alla loro causa, cioè, in ultima istanza, alla sostanza che si esprime in esse nella forma di uno dei suoi attributi, il pensiero. L'anima è un automa spirituale perché non è soggetta al libero arbitrio di un soggetto la cui autonomia sarebbe comunque fittizia: è proprio per questo che le idee non sono forme automatiche, quelle che riproduce, per esempio, la macchina copiatrice della realtà inventata dai filosofi che vogliono a tutti i costi separare il vero dal falso. Non c'è soggetto di conoscenza, neanche Verità che, al di sopra delle verità, disponga in anticipo la sua forma, perché l'idea è vera in sé stessa - singolare, attiva ed affermativa -, in assenza di ogni determinazione estrinseca che la sottometta all'ordine delle cose o ai decreti del creatore.Qui incontriamo ancora una volta l'idea di adeguazione che significa fondamentalmente che l'idea vera non si riferisce se non a sé stessa, poiché è così come la genera la sostanza, secondo il concatenamento delle determinazioni che costituisce la sua forma nell'attributo pensiero, concatenamento che, d'altra parte, si produce in maniera identica in tutti i suoi altri attributi. La adaequatio è allora la chiave della veritas, poiché esprime questa relazione intrinseca dell'idea con se stessa. È ciò che dice per esempio la lettera 50 a Tschirnhaus: «Tra l'idea vera e l'idea adeguata, non riconosco un'altra differenza che la seguente: la parola 'vera' si riferisce unicamente all'accordo (convenientia) dell'idea con il suo ideale, mentre la parola 'adeguata' riguarda la natura dell'idea in sé stessa; quindi non c'è in realtà nessuna differenza (revera) tra queste due sorta di idee, se non questa relazione estrinseca.» In realtà, è la stessa cosa parlare di idee vere e di idee adeguate, ma, se si cerca di spiegarle, è qualcosa di completamente differente. Contro il significato immediato, letterale, della parola, che mette nell'idea di adeguazione quella di accordo, cioè quella di un aggiustamento esterno, Spinoza esprime per la categoria di adaequatio questa necessità o causalità interna dell'idea che la lega a sé stessa, per mezzo di tutte le altre idee dalle quali dipende nell'attributo del pensiero, e che fa di essa un'affermazione singolare, un atto, della sostanza assolutamente infinita. Così come le cose, come tutto ciò che esiste, le idee sono soggette ad un ordine causale che le spiega totalmente.La funzione dell'idea di adeguazione è quindi in primo luogo critica. Essa è ciò che permette di scartare dalla determinazione causale dell'idea tutto quello che dipende da un altro ordine, per esempio quello secondo il quale l'ideato, il suo oggetto, esiste anche necessariamente: «Intendo per idea adeguata un'idea che, in quanto considerata in sé stessa, senza relazione all'oggetto, possiede tutte le proprietà o denominazioni intrinseche di un'idea vera.»62 Tra le idee e le cose non c'è una relazione di corrispondenza che sottometta le une alle altre, ma un'identità causale che stabilisce per ognuna di esse la necessità del suo ordine, o del suo movimento, o meglio ancora del suo processo proprio. Così, le idee non si formano a somiglianza di oggetti che rappresenterebbero o dai quali deriverebbero come da un'origine, in maniera tale che si possa trovare nell'idea quello era dato prima nella cosa: «[...] né le idee degli attributi di Dio né quelle delle cose singolari riconoscono come causa efficiente le cose ideate da esse, cioè, le cose percepite, bensì Dio stesso, in quanto è cosa pensante.»63 Ma neanche si può dire, viceversa, che le cose stesse sono state create ad immagine di idee a partire dalle quali sarebbero state formate e di cui sarebbero la manifestazione, di maniera tale che si trovi nella cosa quello che era dato in primo luogo nell'idea: «[...] l'essere formale delle cose che non sono modi di

62 Etica, II, def. 4.63 Etica, II, prop. 5.

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pensare non segue dalla natura divina in virtù del fatto che questa conosca anticipatamente le cose, ma le cose sulle quali vertono le idee derivano e finiscono allo stesso modo dei suoi attributi, e con la stessa necessità con la quale abbiamo mostrato che derivano le idee dall'attributo del Pensiero.»64 Questa affermazione è evidentemente simmetrica alla precedente: le cose non sono state «create» da Dio in conformità ad un'idea preliminare di cui sarebbero la realizzazione; ugualmente, le idee non provengono dalle cose delle quali darebbero una rappresentazione. Spinoza denuncia qui due errori inversi, che sono alla fine equivalenti, dato che rimandano ad un stesso presupposto: quello della subordinazione gerarchica degli attributi e delle loro affezioni. Ma il concatenamento causale si compie totalmente nella forma di ciascun attributo, in una maniera che non lascia nulla a desiderare e che proibisce ogni comunicazione, e perfino ogni comparazione, tra gli attributi.E così come, tra l'idea e l'ideato, non c'è più oramai una relazione di conformità che metta l'uno sotto la dipendenza dell'altro, qualunque sia il senso nel quale si effettui questa riduzione: è questo il significato della famosa formula del Trattato della riforma dell'intelletto: «una cosa è il cerchio ed un'altra l'idea del cerchio» (§33). Deriva da ciò che l'idea, che è determinata solamente in sé stessa, cioè nel suo concatenamento con le altre idee che costituiscono l'attributo del pensiero, perde ogni «oggettività» nel senso immediato del termine, cioè ogni relazione con l'oggetto del quale è l'idea? Non è affatto così, essenzialmente per due ragioni. La prima è che l'idea stessa è una cosa, nella misura in cui è determinata causalmente, come lo sono tutte le affezioni della sostanza; in maniera tale che può essere l'oggetto di un'idea, proprietà molto importante della quale torneremo a parlare. D'altra parte, l'idea singolare, per la sua posizione nell'ordine e la connessione degli elementi che formano nel suo insieme il pensiero, è identica all'ideato, in tanto che questo occupa esattamente la stessa posizione nell'ordine e la connessione del suo proprio attributo, qualunque esso sia. Orbene, quest'ordine è lo stesso del precedente, dato che tutti gli attributi esprimono allo stesso modo la sostanza, senza privilegio gerarchico che implichi la subordinazione di uno all'altro. È proprio perché comunica con quell'ideato solo per l’intermediazione della sostanza stessa, nella quale tutto ciò che si compie sotto la forma di ciascun attributo è identico, che l'idea gli è adeguata: essa coincide assolutamente con esso, in una maniera che non lascia niente a desiderare. Allora acquista senso l'assioma 5 del libro I dell'Etica che afferma altresì la convenienza dell'idea vera col suo oggetto. Tra l'idea adeguata ed il suo oggetto c'è senza dubbio corrispondenza; nonostante la relazione ordinaria tra questi due termini sia invertita: l'idea vera non è adeguata al suo oggetto perché gli corrisponde; bisogna dire, al contrario, che gli corrisponde perché è adeguata, cioè, determinata in sé stessa in maniera necessaria.Da ciò risulta una conseguenza molto importante: un'idea non può essere più o meno adeguata, alla maniera di una rappresentazione che imita più o meno bene il suo modello e che può essere misurata essa stessa per questo grado di conformità. La teoria dell'idea adeguata elimina dall'ordine della conoscenza ogni normatività, nel momento stesso in cui impedisce il ritorno dell'illusione finalista che assedia le teorie classiche della conoscenza. L'idea è completamente adeguata nella misura in cui è così necessariamente, in assenza di ogni intervento di un libero arbitrio: qui sta la chiave della sua oggettività. Spinoza esprime questo in una formula provocatoria: «Tutte le idee, in quanto sono riferite a Dio, sono vere.»65 [39] «In quanto riferite a Dio», cioè in quanto sono comprese secondo la necessità causale del processo che le ha generate. Da questo punto di vista, tutte le idee sono adeguate, tutte le idee sono vere. Tutte le idee, cioè anche le idee inadeguate o confuse: le idee false sono anche a loro modo vere. Per questo Spinoza scrive: «verum index sui et falsi.» C'è nella natura stessa del vero qualcosa che fa riferimento alla possibilità dell'errore e che lo spiega. All'inverso, Cartesio stabilisce tra la verità e l'errore una separazione insormontabile per diritto (perfino se non lo fosse di fatto), la quale obbligava a cercare un'origine specifica dell'errore costruendo una teoria del libero arbitrio umano. In Spinoza, al contrario, la teoria dell'errore è compresa fin dall’inizio in quella della verità e fa

64 Etica, II, corollario alla prop. 6.65 Etica, II, prop. 32.

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corpo con essa: le idee false sono anche idee singolari e, tanto in un caso come nell'altro, il problema è sapere come sono prodotte necessariamente.L'espressione tradizionale «distinguere il vero dal falso» riscuote allora nella dottrina di Spinoza un significato completamente nuovo. Non indica il limite ideale che traccia tra due ordini irriducibili una prescrizione o una proibizione che alla buona volontà inerisce rispettare, ma rimanda alla differenza tra modi di conoscenza. Orbene, Spinoza intende per modo di conoscenza una certa maniera di entrare in relazione con le idee, essa stessa determinata praticamente da un modo di essere, cioè dalle condizioni di esistenza: l'ignorante è anche un schiavo. Ci sono pratiche distinte della conoscenza che dipendono da tutto un insieme di determinazioni materiali e sociali. Così l'immaginazione non è, seguendo un'espressione corrente nell'epoca classica, un «genere di conoscenza», una potenza di errore, cioè, il potere di generare certe idee che siano false in loro stesse. Perché «nelle idee non c'è niente di positivo in virtù del quale si dicano false»66: [40] ciò che è falso, cioè ciò che ci mette in un certo stato di illusione, è una relazione determinata con le idee, con tutte le idee, che fa che le percepiamo, potremmo dire perfino che le viviamo, in una maniera inadeguata, «mutila e confusa».Un'idea non è allora mai falsa in sé stessa. Questo vuol dire che non è neanche mai vera in sé stessa? Tale è precisamente la tesi di Cartesio: prese in se stesse, le idee sono rappresentazioni passive e non sono né vere né false; la verità è una funzione del giudizio che anima queste idee per intermediazione della volontà: è questa che dà loro o nega il suo assenso alle rappresentazioni del pensiero e le dichiara conformi o non conformi alla realtà. Da questo punto di vista, se c'è nella conoscenza un elemento attivo (come appare per esempio nella teoria cartesiana dell'attenzione), questo è essenzialmente soggettivo, dato che dipende dall'affermazione dell'io che proferisce i giudizi e che fa uso della sua libertà nell'accordare o negare credibilità alle idee che gli propone l'intelletto. Niente di simile in Spinoza, che respinge la distinzione cartesiana dell'intelletto e della volontà: il carattere attivo della conoscenza non rinvia all'iniziativa di un soggetto libero, ma è l'idea stessa che è attiva, in quanto esprime in maniera singolare la causalità infinita della sostanza; come tale, non potrebbe essere indifferente al suo contenuto di verità, alla maniera di una rappresentazione passiva. Considerata in Dio, secondo il concatenamento causale che la suscita, l'idea è sempre vera, adeguata alle sue condizioni. Che cosa è ciò che conduce dunque, se del caso, ad identificarla anche come falsa?Quando Spinoza definisce la falsità come una «privazione di conoscenza»67 [41], non vuole dire con ciò che è intrinsecamente qualcosa di negativo, e pertanto esteriore all'ordine della conoscenza, bensì, al contrario, che può essere compresa solo in relazione alla conoscenza, della quale costituisce un «modo». L'idea inadeguata è un'idea incompleta nella misura in cui non la cogliamo se non mutilandola: in sé stessa, in Dio, è adeguata, ma, se la comprendiamo in una maniera parziale, questo c'impedisce di percepire la sua necessità, ed è di questa contingenza, le cui cause reali stanno in noi, che deriva l'illusione di un libero arbitrio.Bisogna riprendere qui un esempio ben conosciuto: l'immaginazione, che è una forma di comportamento, una maniera di vivere realizzata materialmente e socialmente nell'esistenza soggiogata dello schiavo, ci «rappresenta» il sole a duecento passi, ma scopriamo che questa percezione è falsa dopo che la ragione ci spiega che il sole non è quella voluminosa palla rotonda che brilla nel nostro orizzonte, ma l'astro dal quale siamo molto lontani e che si trova nel centro di un sistema di stelle del quale occupiamo solamente una parte. Cos’è che distingue la rappresentazione immaginaria dalla conoscenza vera? È il punto di vista dal quale origina la conoscenza, e con esso il nostro modo di conoscere. Nel caso dell'immaginazione, la conoscenza è soggetta al punto di vista di un soggetto «libero» che si situa al centro del sistema delle sue rappresentazioni e che costituisce questo sistema come se fosse autonomo, come un impero in un impero; allora, in quest'universo umano apparentemente libero, il sole figura come un voluminoso mobile che orna l'arredamento della

66 Etica, II, prop. 33.67 Etica, II, prop. 35.

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vita e trova rispetto ad essa il suo posto ed il suo uso, perché, giustamente, il proprio dell'immaginazione rinvia tutto all'«io.» Ma se cambio la mia vita ed smetto di "rappresentarmi" la realtà in relazione a me stesso, cioè in relazione a certi fini, come se la realtà non fosse più fatta che per il mio uso, vedo le cose in un modo completamente differente: in un universo assolutamente decentrato, dato che, nella sua totale oggettività, non può dipendere dall'iniziativa di un soggetto, quale che sia, perfino un creatore onnipotente; le cose non dipendono più da un ordine arbitrario ma si relazionano le une alle altre in un concatenamento causale necessario, in assenza di ogni determinazione da certi fini.Rappresentarsi immaginariamente la realtà e conoscerla adeguatamente sono pertanto due cose completamente differenti. Tuttavia, anche nella rappresentazione immaginaria, della quale abbiamo appena dato un esempio, deve esserci qualcosa di adeguato, qualcosa di vero. In effetti, se noi, e la maggioranza degli uomini, consideriamo la realtà da un punto di vista immaginario, non è perché così vogliamo, per un comportamento la cui responsabilità giuridica avremmo a carico, ma perché non possiamo considerarla altrimenti: così bisogna prendere alla lettera l'idea che siamo schiavi dell'immaginazione. Nella vita che questa ci costruisce, il libero arbitrio stesso è solo un'illusione necessaria dalla quale non possiamo sfuggire. L'immaginazione ignora le cause che determinano realmente la nostra attività ma non le sopprime; in tale senso, c'è nella conoscenza inadeguata qualcosa che non è puramente soggettivo e che è vero, esso stesso, alla sua maniera. Per questo, quando conosciamo adeguatamente la realtà, quando sappiamo, dal punto di vista razionale della necessità, che il sole non sta, come ce lo rappresentiamo «spontaneamente», a duecento passi, non smettiamo tuttavia di vederlo come ci è apparso fin dall’inizio dal punto di vista dell'immaginazione.68 Miglio ancora: sappiamo che ci è apparso così necessariamente e che non poteva essere altrimenti. Il saggio non è quello che, con decisione volontaria di riformare una volta per tutte il suo intelletto, ha eliminato una volta per sempre da questo tutte le idee false che potrebbero trovarsi in esso e ha soppresso dalla sua propria esistenza, di questa maniera, tutti gli effetti del modo di conoscenza immaginario: è il semi-saggio (idiota) quello che crede di essersi liberato di tutte le sue passioni, mentre esse non gli appartengono veramente e non dipendono da lui; l'uomo libero, al contrario, sa fare i conti con esse, poiché ha colto adeguatamente in che maniera sono necessarie. Verum index sui et falsi: il vero espone il falso anche nella sua obiettività, fino a quel punto limite in cui smette di apparire come falso per mostrare la sua propria verità.Che cos'è allora ciò che è vero nell'idea falsa? Riprendiamo l'esempio del sole che vediamo dapprima a duecento passi. Quest'«idea» in Dio è adeguata e vera. In noi, è un'idea mutilata e confusa perché la cogliamo in maniera incompleta, in una maniera tale che si presenta come slegata della sua causa. Perché questa rappresentazione immaginaria è tuttavia adeguata? Perché indica oggettivamente qualcosa di completamente differente dall'ideale al quale spontaneamente la rinviamo, il sole: ciò che essa esprime di fatto è la disposizione del nostro corpo che c'induce a formarci una percezione del sole che svia la sua realtà. Così, l'immagine è falsa in relazione all'oggetto al quale mira. Ma ciò non significa che sia una rappresentazione puramente illusoria, un'idea senza oggetto la cui apparenza possa dissolversi solo respingendola. In effetti, è un'idea, una vera idea, se non un'idea vera; come tale, è adeguata, e corrisponde ad un oggetto che non è quello che gli attribuiamo immediatamente e si trova in un posto differente da quello nel quale spontaneamente l'ubichiamo: non lì dove si trova obiettivamente il sole reale del quale abbiamo un'immagine mutilata e confusa, ma qui dove stiamo, col nostro corpo che c'impedisce di avere del sole una rappresentazione esatta. L'immagine falsa del sole è un'idea vera se la rimettiamo alla nostra propria esistenza corporale. In che senso è dunque inadeguata? Nella misura in cui è separata della conoscenza del suo oggetto che essa sostituisce con un altro contenuto. Pascal ha espresso lo stesso ragionamento con una concisione penetrante: «[...]

68 Etica, IV, scolio alla prop. 1.

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Benché le opinioni del popolo siano sane, lo sono nella testa, poiché esso pensa che la verità sta dove non sta [...]» (Pensieri, Brunschwicg 335).La libertà del saggio non consiste nel sopprimere le passioni e gli effetti della servitù, bensì nel modificare la relazione con le sue passioni e con le immagini che le accompagnano o le suscitano: riconoscendo anche la necessità che esse esprimono alla loro maniera, le trasforma in passioni allegre, in immagini chiare, che si spiegano nella totalità della loro determinazione. In questo consiste specificamente la politica spinozista, poiché la conoscenza, che dipende in primo luogo dai modi secondo i quali la si pratica, è anche questione di politica.Questa deviazione, senza dubbio troppo breve in relazione alla complessità reale della teoria spinozista dell'immaginazione, ci permette di mettere in evidenza il carattere totalmente originale della concezione della verità che ne deriva. Questa singolarità è manifesta in due punti essenziali: la determinazione intrinseca della verità a partire dalla categoria di adeguazione e la relazione immanente tra verità ed errore che ne è la conseguenza. Su questi due punti, sembra che Spinoza «anticipi» tesi che saranno sviluppate anche da Hegel.Infatti Hegel oppone alla concezione dogmatica, metafisica, «costretta» della verità, una concezione speculativa che dall’inizio costituisce la verità nella relazione del pensiero con se stesso:

«Abitualmente, denominiamo 'verità' l'accordo di un oggetto con la nostra rappresentazione. In questo caso presupponiamo un oggetto al quale la rappresentazione che abbiamo di esso deve essere conforme. In senso filosofico, invece, verità significa, se lo si esprime astrattamente in una maniera generale, accordo di un contenuto con sé stesso.»69

Non bisogna intendere, allora, come verità, da un punto di vista filosofico, una proprietà, una relazione formale, estrinseca, dell'idea considerata nella sua relazione con l'oggetto che ha di fronte, ma una determinazione del contenuto stesso che si afferma come vero, o non vero, in sé stesso. Conoscere veramente qualcosa non è formarsi di questo qualcosa una rappresentazione a partire da un punto di vista esterno, e soggettivo, bensì svilupparne la natura propria, come essa si riflette nel movimento che la costituisce. Siamo qui molto vicini alla nozione di adeguazione: rincontriamo la sua funzione critica, con l'eliminazione di una problematica astratta della verità definita come l'accordo tra una rappresentazione ed il suo oggetto, ma, in maniera positiva, c'incamminiamo anche nell'analisi del processo della conoscenza. In Hegel, effettivamente, questo contenuto che si esprime come vero non è altro che il pensiero che torna su di sé per cogliersi in sé realizzandosi. La conoscenza è perciò una relazione immanente del pensiero con se stesso, con l’esclusione di ogni tentativo di andare verso l'esterno per riunirsi con una realtà la cui esistenza sarebbe determinata astrattamente, fuori di esso.D'altra parte, come ben si sa, la concezione hegeliana del vero come determinazione intrinseca del pensiero implica una relazione completamente nuova tra verità ed errore. Dal punto di vista speculativo, il falso non è un negativo che sarebbe solo negativo e che sarebbe perciò completamente esterno al vero: nella misura in cui la conoscenza è inseparabile dal processo attraverso il quale si realizza, sviluppa, ritornando su di sé, una negatività immanente. In tal senso il vero stesso è anche un negativo in rapporto al falso che supera nel progresso del suo autosviluppo. Quindi non è più possibile mantenere dogmaticamente tra il vero e il falso una separazione rigida. D’altronde, neanche la dialettica autorizza che il positivo e il negativo siano fissati in tale opposizione. Nel falso, è il vero che «produce» se stesso, nella forma della sua negazione, cosa che può fare solo negando immediatamente quella determinazione per stabilirsi in una forma superiore di relazione con se stesso. Come dice Hegel in una formula brutale: «Si può conoscere anche falsamente.»70 [44] Sapere falsamente è pur sempre

69 Enciclopedia, agg. Al § 24.70 Prefazione alla Fenomenologia.

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sapere: la verità è sempre implicata nell'errore, e viceversa. Hegel radicalizza questa concezione fino a respingere che si prenda il falso, come farebbe una dialettica sommaria, come un «momento della verità»71, la quale sarebbe anche una maniera di subordinare il falso al vero, esponendolo come un intermediario, un mezzo che conduce alla verità, ma che sparisce nel suo risultato una volta che questa si raggiunge. Tra il vero e il falso bisogna pensarne fino al fine l'unità. Fuori di questa appartenenza reciproca, il vero può essere riflesso solo astrattamente e parzialmente, come un dato, un stato di fatto: è un'idea che non è più che un'idea e che è separata dal movimento nel quale si realizza e diviene Reale.Apparentemente, allora, Spinoza e Hegel arrivano, a proposito della questione della verità, a conclusioni comparabili. È vero che sono ottenute come risultato di processi differenti ed espresse in termini diversi. Orbene, secondo l'attestazione stessa di entrambi gli autori: che cos'è un risultato considerato fuori del processo che lo stabilisce? Il nostro obiettivo non è qui comparare le due filosofie con l'obiettivo di identificare l'una con l'altra - qualcosa che sarebbe possibile solo a costo di una semplificazione abusiva del suo contenuto, che condurrebbe ad una vera distorsione di senso -, bensì mettere in evidenza un fenomeno che è fortemente sconcertante: Hegel si dichiara il più lontano possibile dallo spinozismo a proposito di un punto nel quale, tuttavia, entrambe le dottrine sembrano approssimarsi. La sua confutazione, non avrebbe potuto prendere nota di questa convergenza momentanea, a rischio di denunciare poi il suo carattere superficiale e scoprire altri motivi che gli permettessero di distinguersi da Spinoza?Certo è che il suo procedimento è esattamente inverso: per dimostrare l'insufficienza della dottrina spinozista, Hegel gli attribuisce alcune posizioni filosofiche che non sono le sue, che perfino essa stessa ha scartato espressamente perché dipendenti da una concezione astratta della conoscenza, incompatibile col punto di vista di una razionalità immanente. La cosa strana, in questo assunto, è che Hegel oppone a Spinoza un'argomentazione che somiglia molto a quella che questo aveva sviluppato già contro i cartesiani: egli ha risposto allora in anticipo alle obiezioni esposte per Hegel. L'atteggiamento di questo è dunque segnato da un formidabile disconoscimento, apparentemente inspiegabile: ciò che Hegel «ha dimenticato» di leggere in Spinoza è ciò la cui importanza e il cui significato era nelle condizioni migliori di chiunque altro per riconoscere.Non può trattarsi evidentemente di un semplice errore, poiché Hegel prese molto sul serio il problema dello spinozismo, al quale dedicò numerosi interventi basati su un'informazione seria e completamente motivata. Per questo motivo bisogna cercare da un'altra parte una ragione di questo errore: questa può trovarsi solo nel sistema dello stesso Hegel, che l'obbliga per il suo movimento proprio a deformare la realtà dello spinozismo. In effetti, per distinguersi meglio da questa dottrina, Hegel dovette sostituirla con una dottrina fittizia, fabbricata per le necessità della causa, e che elimina tutta l'acquisizione storica del sistema di Spinoza. Tutto accade come se, per «superare» meglio Spinoza, Hegel avesse dovuto dapprima ridurlo, diminuendolo, ponendolo sotto posizioni che erano veramente le sue. Ma, in questa necessità in cui si trovò di minimizzare lo spinozismo per confutarlo, non dobbiamo vedere, contrariamente all'insufficienza che ne scopre Hegel, un indizio del suo carattere eccessivo, intollerabile per lo stesso Hegel?Qui comprendiamo meglio perché non basta avvicinare entrambi i sistemi per decretare l'analogia di una semplice somiglianza tra essi. Perché la loro relazione è essenzialmente quella di un'unità contraddittoria: Hegel si oppone a Spinoza nel momento stesso in cui rivela la sua parentela con lui. Il che Hegel non poté sopportare in Spinoza, il che poté eliminare solo a costo di un'interpretazione distorta, è un pensiero nel quale il suo proprio sistema viene messo in discussione e nel quale la sua propria posizione filosofica si trova implicata. Non c'è per questo, tra i due sistemi, solo una relazione esterna, ossia di indipendenza o di parentela: le tesi filosofiche nelle quali si oppongono Hegel e Spinoza sono il supporto di una vera alternativa i cui termini sono legati in maniera immanente. Per

71 Ibid.

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tornare al problema particolare che studiamo qui, il fatto che esige una spiegazione è il seguente: Hegel e Spinoza si confrontano l'uno con l'altro nella misura in cui rivendicano una stessa concezione del vero, che è concreta, attiva ed assoluta.Tanto per Spinoza quanto per Hegel, la verità è una determinazione interna del pensiero che esclude ogni relazione con un oggetto esterno. Ma - e questa è la vera questione in gioco nella loro contrapposizione -, ciascuno di essi mette nel termine «pensiero» una realtà molto differente. Il pensiero, per Spinoza, è un attributo, cioè una forma, infinita nel suo genere, della sostanza che è assolutamente infinita. Per Hegel, è lo Spirito come soggetto di sé, che si identifica come tale effettuandosi nel movimento del suo divenire Reale, al termine del quale appare nella totalità, come totalità: lo sviluppo razionale del pensiero scopre questo come assolutamente unico, perché assorbe in esso ogni realtà, ogni contenuto. È proprio questo privilegio esclusivo del pensiero quello che non ammette la filosofia di Spinoza, per la quale il pensiero non è l'unica espressione della sostanza, né tantomeno la migliore: al massimo è una delle «essenze» nelle quali questa agisce sviluppando la sua propria causalità.È allora possibile, a costo di una violenza cronologica, parlare della confutazione che Spinoza stesso fa di Hegel: il bersaglio di quella confutazione è la presentazione idealistica della dialettica, che stabilisce la sua universalità sul presupposto che il pensiero, in ragione della sua riflessività interna, è la forma per eccellenza del reale, di tutto il reale; in tal modo il pensiero si presenta come un ordine razionale assoluto che riunisce ed assorbe tutti gli altri ordini nel movimento della sua propria totalizzazione. La dialettica hegeliana, che presenta sé stessa come circolo di circoli, presuppone una relazione di subordinazione gerarchica tra tutti gli elementi che riunisce, e questa subordinazione è riflessa a partire da un termine ultimo, dal cui punto di vista può comprendersi l'insieme del suo progresso, perché ha un senso. E è proprio questo presupposto ciò che Spinoza scarta fin dall'inizio, poiché elimina della sua concezione del reale, dalla sostanza, ogni idea di subordinazione gerarchica tra elementi: il pensiero, come attributo della sostanza, è identico a ogni cosa, pertanto non ha niente sopra di esso, e il concatenamento con il quale si realizza espone contemporaneamente la sua uguaglianza assoluta con tutte le altre forme nelle quali anche si esprime la sostanza, forme il cui numero è infinito. Hegel, al contrario, pensa lo Spirito come soggetto e come tutto in una prospettiva di eminenza che impone che gli si sottometta tutto ciò che si produce come reale, che appare quindi come sua manifestazione. Questa subordinazione, che installa nel movimento razionale una gerarchia di forme, è la chiave della teleologia hegeliana, ed è questa teleologia ciò che elimina Spinoza.Questo ci conduce ad un interrogativo abbastanza paradossale. Stabilendo, a partire dallo spirito che si coglie come soggetto, come tutto e come fine, una gerarchia di tutte le forme di realizzazione che dipendono da esso, non è Hegel stesso quello che, in un sorprendente inversione, si installa nel punto di vista che condanna in Spinoza, il punto di vista della sostanza? Quello che caratterizza questo punto di vista, in effetti, è che in esso si prospetta un Tutto che concentra ogni realtà, di maniera tale che possa allora soltanto degradarsi successivamente in determinazioni sempre meno reali ed esaurirsi nella sua serie. Quello che appare scandaloso a Hegel in questo «ciclo» non è tanto la relazione tra il tutto e le sue parti che impone tale concezione, bensì l'ordine di successione nel quale si realizza: secondo questo ordine, è il Tutto quello che e dato per primo in un cominciamento assoluto. Hegel propone solamente di investire questo ordine, porre il Tutto alla fine del processo e disporre le sue determinazioni come momenti che conducono progressivamente ad esso. Ma, al termine di questa inversione, la relazione di integrazione immanente che subordina le parti al tutto in un ordine gerarchico si conserva integralmente: in questo consiste principalmente l'evoluzionismo hegeliano. Al contrario, Spinoza pensa il processo della conoscenza di maniera non evolutiva, come un processo senza fine: processo di autodeterminazione del pensiero che permette di conoscere il reale nella totalità, secondo una legge di causalità assoluta, ma senza esaurire completamente le sue determinazioni. Un processo senza fine: questo è proprio l'impensabile di Hegel. Per questo non poté

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riconoscerlo nei termini nei quali lo rifletté Spinoza, e da qui la necessità nella quale si trovò di interpretare questo processo senza fine nell'immagine distorta di un processo che comincia assolutamente. Ma quest'immagine deformata è tuttavia adeguata al punto di vista di Hegel, poiché ripete, dandole una forma caricaturale, l'ordine intensivo, la relazione di eminenza e l'unità di integrazione tra il tutto e le sue parti che costituiscono il presupposto obbligato del suo proprio pensiero.È chiaro, a partire da qui, che Hegel non poteva letteralmente comprendere ciò che dice Spinoza, poiché comprenderlo sarebbe stato allo stesso tempo rinunciare ai presupposti del suo proprio sistema. Per questo gli era assolutamente necessario, per risolvere in maniera soddisfacente il problema che gli prospettava Spinoza, assorbirlo nel suo proprio punto di vista, presentarlo come un momento della sua dottrina: momento del cominciamento, momento provvisorio, momento da superare, momento già superato, minaccia già dominata per essere stata intrepida nella prospettiva di una storia scaduta, che non parla più che alla memoria, fuori di ogni attualità.Questo sistema di difesa, che Hegel erige per proteggerlo dalla verità dello spinozismo perde in gran parte la sua efficacia quando si vede dentro esso, non la rappresentazione dell'oggetto che si dà: Spinoza, bensì la posizione che cerca di mantenere, quella di Hegel stesso, la cui fragilità rivela crudelmente. Hegel volle impadronirsi dell'immagine che impose di Spinoza, ma è piuttosto Spinoza quello che gli offre uno specchio nel quale proietta, senza saperlo, la sua verità.

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III. Il problema degli attributi

L’ambiguità della nozione di attributo

Le obiezioni di Hegel alla questione del rapporto degli attributi con la sostanza si pongono nella stessa prospettiva della critica al more geometrico e la amplificano. La discussione precedente concerneva essenzialmente le condizioni di una conoscenza vera, e metteva così in gioco la posizione del pensiero rispetto al reale. Tuttavia l'intervento delle categorie di sostanza e attributi nel trattamento di questo problema rivela una divergenza essenziale tra Spinoza e Hegel. Per Hegel il pensiero e il reale sono fondamentalmente uniti in quanto sorgono dallo stesso processo nel quale lo spirito, l’effettivo, è esso stesso il proprio soggetto, al di là della rappresentazione del vero come sostanza, che è unilaterale, c'è anche la sua apprensione come un soggetto, che è, come una totalità in movimento. Al contrario, quando Spinoza presenta il pensiero, non come sostanza, ma come un attributo della sostanza, egli ammette ancora una volta di cadere in una conoscenza puramente razionale, nella quale il suo sistema fornirebbe solo uno schizzo imperfetto e incompleto.In questo spostamento - dal pensiero come sostanza che è divenuta soggetto a pensiero come un attributo della sostanza - ciò che è in questione è innanzitutto lo statuto del pensiero. Ponendo il pensiero "fuori" della sostanza e in qualche modo dipendente da essa, Spinoza, secondo Hegel, rimuove il pensiero dalla sua posizione di eminenza nel momento in cui contesta la sua vocazione universale. In questo senso Spinoza rimane estraneo alla prospettiva idealista, perché nega al pensiero il carattere di sostanza (che Cartesio, al contrario, gli aveva accordato). In realtà, sembrerebbe infatti che tra la sostanza, che è «assolutamente infinita», e i suoi attributi, che sono «infiniti solo nel loro genere»72, ci sia una differenza gerarchica, analoga a quella che separa il tutto dalle sue parti. Se, allora, il pensiero è un attributo, come il sistema spinozista incontestabilmente asserisce, e se gli attributi occupano una posizione subordinata rispetto alla sostanza, che conferisce loro diminuite, o incomplete, funzioni, il pensiero non è più quel processo assoluto che afferma la propria necessità attraverso la propria realizzazione. Piuttosto, il pensiero è solo un aspetto o un momento di tale processo, che non ha tutti i presupposti in sé stesso, e il cui sviluppo è, se considerato in sé stesso, contingente, nella misura in cui dipende da una causa esterna. Così Hegel parla degli attributi, «cioè termini che non hanno un'esistenza particolare, un essere in sé e per sé, ma che esistono solo subalterni, come momenti».73 Ma sono gli attributi parti della sostanza per Spinoza? Ed è un rapporto di dipendenza quello che collega gli attributi alla sostanza, seguendo l’interpretazione di Hegel, una relazione gerarchica tra elementi essenzialmente diversi? È qui il nocciolo dell'intera questione.Si deve capire che, in questa questione, Hegel passa da una difficoltà - per lui centrale – che concerne specificamente uno degli attributi spinozisti, il Pensiero, a un'analisi critica della natura degli attributi in generale, a cui estende queste prime obiezioni. Non sorprende, quindi, che ripeta, per quanto riguarda gli attributi, gli stessi argomenti che avevano in primo luogo riguardato il metodo. Anche qui, di nuovo, ciò che Hegel rimprovera a Spinoza è il formalismo di quest'ultimo e l'astrazione che, secondo Hegel, caratterizza l'intero sistema di Spinoza. Infatti, gli attributi, come Spinoza li definisce, sono per Hegel essenze astratte, punti di vista sulla sostanza, che rimangono esterni alla sostanza stessa e di conseguenza solo «rappresentati» in modo incompleto, di fuori di ogni possibilità di sviluppo concreto:

La definizione di Spinoza dell'assoluto è seguita dalla definizione dell'attributo, e questo è definito come il modo in cui l'intelletto comprende l'essenza della sostanza. Oltre a considerare l'intelletto, per sua natura, posteriore all’attributo - che Spinoza definisce

72 Etica, I, spiegazione della definizione 6.73 Logica, I

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come modo –, l’attributo, ossia la determinazione come determinazione dell'assoluto, è così fatto dipendere da altro, cioè, dall’intelletto, che appare come esterno e immediato rispetto alla sostanza».74

Ciò che è qui in questione è evidentemente la definizione che Spinoza da di attributo all’inizio del libro I dell’Etica: «per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza» (def. 4). A quanto pare, Hegel segue questa definizione alla lettera: se l'attributo è ciò che l'intelletto percepisce della sostanza, consegue che non esiste di per sé stesso fuori dell'intelletto che lo percepisce, e in cui appare come una rappresentazione - cioè un'immagine o un'idea - della sostanza, esterna ad essa e perciò necessariamente incompleta. Allora il divario che separa l'attributo dalla sostanza diventa manifesto: non è altro che un punto di vista nel quale la sostanza è riflessa, ma non in sé stessa, nel movimento proprio della sua riflessione interna, poiché, secondo Hegel, la sostanza spinozista è essenzialmente immobile. Bisogna dire piuttosto che la sostanza è riflessa fuori di sé, nell'intelletto che percepisce in essa un'essenza irriducibile, che rappresenta la totalità della sostanza mutilandola, riducendola solo a uno dei suoi aspetti o momenti.Questa obiezione di Hegel sembra apparentemente molto forte, perché mette in luce una formidabile contraddizione nello stesso enunciato di Spinoza: l'attributo «esprime» la sostanza e in un certo modo è identico ad essa, partecipa della sua infinità, ne costituisce la sua essenza, si potrebbe dire anche che è sostanziale, e tuttavia non presenta la sostanza nella sua intima natura (ma ne ha solo una?). Come un fondamento, la sostanza spinozista è per Hegel un abisso, un nulla di determinazioni, ma come appare, come appare fuori di sé, per un intelletto che la comprende.Ma cos'è quest’intelletto che percepisce la sostanza e da cui dipende dunque la natura dell'attributo? Che si tratti di un intelletto finito o infinito – si noti che la definizione di Spinoza non consente questa distinzione - è un modo, vale a dire, un’affezione della sostanza per l’intermediazione di uno solo dei suoi attributi, che in questo caso è il pensiero. È allora che si vede chiaramente il circolo nel quale il suo ragionamento astratto costringe il sistema di Spinoza: nell’ «ordine» del sistema, l'attributo, come un'essenza della sostanza, precede il modo, che è una determinazione ulteriore della sostanza; e pertanto, nella definizione di Spinoza interviene la considerazione di un modo, l'intelletto: meglio ancora, questa definizione fa dipendere la natura dell'attributo dall'esistenza di questo modo, senza il quale sarebbe non solo incomprensibile, ma addirittura impossibile.Per Hegel, il sistema spinozista è essenzialmente astratto, perché vuol pensare l'assoluto in un cominciamento, come un cominciamento: la determinazione dell'assoluto è allora ridotta all'ordine regressivo di una manifestazione della sostanza fuori di sé (dal momento che non ha nulla in sé), dapprima nei suoi attributi, poi nelle nei suoi modi. Ma a causa del suo carattere formale, questo ordine viene invertito nel momento stesso in cui si svolge: nella misura in cui gli succede il modo dipende dall'attributo. Pertanto Spinoza pensa, o piuttosto definisce, l'attributo a partire dal modo, e quindi come un modo; risulta, allora, come minimo, che la distinzione tra l'attributo e il modo diventa incomprensibile.Ma questa incoerenza non è attribuibile a un difetto di ragionamento; ha un senso: esprime il limite caratteristico del pensiero di Spinoza che, secondo le premesse, i «principi» che egli stesso si è dato, non può evitare di cadere in tali difficoltà. L'assoluta autosufficienza della sostanza, la sua unità data fin dall'inizio in un fondamento che assorbe in sé tutta la realtà, ma da cui nulla può sfuggire, salvo le apparenze o i "modi di essere," fornisce la garanzia ontologica al sistema, ma allo stesso tempo ne impedisce lo sviluppo; È pertanto necessario che, nel suo sviluppo, vengano rimesse in discussione queste premesse: il «passaggio» dalla sostanza agli attributi è il processo formale e arbitrario attraverso il quale la sostanza si distrugge o si esaurisce, disperde la sua unità profonda in una molteplicità di attributi che solo la «comprendono» ignorandone la vera natura. L'incoerenza e la

74 Ibid.

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debolezza della nozione spinozista di attributo esprimono la necessaria, o piuttosto l’inevitabile auto-esteriorità della sostanza, la quale può essere colta nella sua essenza solo se a questa essenza le si oppone come una determinazione presa dal di fuori, la quale deve, pertanto, esserle inadeguata. Ma questa inadeguatezza è solo il difetto della sostanza stessa: come forma universale e vuota, essa non è in grado di ritornare a sé stessa per cogliersi in sé come vera. Perciò l'incoerenza del sistema di spinozista, come appare nella definizione degli attributi, deriva «logicamente» dalle sue premesse, di cui è la conseguenza necessaria: il circolo vizioso in cui si rigira Spinoza è anche la sua verità, è la condizione di possibilità del suo discorso e il sintomo evidente del suo fallimento.Poiché ragiona astrattamente, Spinoza può determinare l'assoluto solo decomponendolo, «passando» dal punto di vista di una coerenza data immediatamente a quello di un'analisi degli elementi, le "essenze" che lo costituiscono. Quando si esce dal fondamento per andare verso ciò che questo fonda, prevedendo le sue determinazioni successive, gli attributi e quindi i modi, si vede la sua unità disfarsi, o addirittura scomparire, e quello che prende il suo posto è una molteplicità, una diversità. Infatti, non solo gli attributi sono esterni alla sostanza e manifestano così la auto-esteriorità della sostanza stessa - che è incapace effettivamente di riunirsi in un movimento intrinseco - ma sono anche esterni l’un l’altro, come aspetti o punti di vista: essenze irriducibili che possono essere solo poste a fianco l’una l’altra e enumerate, senza la possibilità di stabilite una vera comunità fra esse. E infatti un'affermazione inequivocabile in Spinoza è che gli attributi non agiscono reciprocamente e che non sono collegati da un rapporto di comunicazione reciproca, sono fondamentalmente indipendenti.In questa separazione degli attributi, Hegel vede propriamente il sintomo della loro impotenza a uguagliarsi all'assoluto, che parzialmente «rappresentano». Quindi, l'unità immediata e vuota della sostanza si disperde in una molteplicità di attributi che la esprimono in forme incomplete, e queste forme non possono essere afferrate insieme, comprese in un tutto effettivo, ma possono solo essere assemblate, giustapposte, aggiunte l’una all’altra, come pezzi astrattamente e arbitrariamente prese in un insieme.Ma - e qui la critica di Hegel raggiunge il suo punto cruciale –gli attributi non esistono solo come entità separate, presi ciascuno in se stesso, nella solitudine della loro astrazione, ma sono anche opposti l’un l’altro. Dal momento che sono solo punti di vista della sostanza il cui contenuto condividono e che fanno apparire in maniera monca, sono in certo modo confrontati gli uni con gli altri, come forme concorrenti, per cui ciascuna quali esiste solo per la mancanza di tutte le altre e in opposizione ad esse.Qui è abbozzato un nuovo argomento, quello che prende come pretesto la ben nota tesi omnis determinatio est negatio: gli attributi determinano la sostanza negativamente, cioè, privativamente. Così, ciò che dà forma a un attributo è ciò che a tutti gli altri manca, ecco perché è irriducibile ad essi.Considereremo questo argomento nei suoi propri termini più tardi. Per il momento ne riteniamo solo una conseguenza. Abbiamo visto che, ponendo gli attributi dopo la sostanza come sue determinazioni astratte, il sistema spinozista si trova inevitabilmente coinvolto in un movimento regressivo: essendo partito, ma solo partito - poiché ricordiamolo, la radice dell'errore di Spinoza sta nel suo punto di partenza, dal quale non poteva discostarsi - dalla conoscenza l’assoluta della sostanza unica, ritorna poi sui suoi passi e ritrova allora il dualismo Cartesiano. Si noti come nelle sue Lezioni sulla storia del Filosofia così Hegel presenta ciò che chiama l'idealismo Spinozista, riducendolo alla sua ispirazione principale:

La filosofia di Spinoza è l'oggettivazione (Objektivierung) di quella di Descartes nella forma della verità assoluta. Il pensiero elementare dell’idealismo spinozista è: ciò che è vero è semplicemente la sostanza unica, i cui attributi sono il pensiero e l'estensione (natura); e solo questa unità assoluta è reale, è il reale (wirklich, die Wirklichkeit), essa sola è Dio. È, come in Cartesio, l'unità di pensiero ed essere o ciò che contiene in se stesso il principio della sua esistenza. Per Cartesio, sostanza, l'Idea, è quasi certamente inclusa essa stessa

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nel suo concetto; ma è solo essere astratto come essere astratto, non essere come essere reale (reales Sein) o come estensione. In Cartesio, la corporeità e l’Io pensante sono essenze indipendenti per se stesse; questa indipendenza dei due estremi è elevata nello spinozismo e diventano momenti di un essere assolutamente uno. Vediamo che ciò che viene espresso qui è la comprensione dell’Essere come Unità degli opposti.

A prima vista questo testo mette in luce ciò che separa Spinoza da Descartes: ciò che quest'ultimo pone come sostanze autonome, pensiero ed estensione (che Hegel assimila alla «natura», anzi al «reale»), sono riunite, riconciliate, in Spinoza dalla assoluta unità della sostanza, che è anche l'«unità degli opposti». Ma sappiamo che per Hegel questa è un’unità astratta, cioè, una falsa unità che si decompone nel determinarsi, proprio in quegli stessi opposti che, pertanto, aveva solo provvisoriamente riunito «superando» la loro opposizione: come Spinoza le presenta, le opposizioni che sono solo le opposizioni non possono essere superate più che illusoriamente, ma sono semplicemente trasposte. Perciò, al fondo del sistema di Spinoza, troviamo di nuovo il dualismo cartesiano, anche se in forma modificata. Il commento che fa Hegel degli attributi nello stesso capitolo delle Lezioni va precisamente in questo senso:

«In quarto luogo Spinoza definisce gli attributi, appartenenti alla sostanza come un secondo elemento di essa, ‘Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce come costituente l’essenza della sostanza’; e solo questo per Spinoza è il vero. E non c'è dubbio che questa è una grande determinazione; l’attributo è evidentemente una determinabilità, ma una determinabilità che rimane, al tempo stesso, totalità. E Spinoza, come Cartesio, ammette di questa solo due determinabilità: il pensiero e l’estensione. L’intelletto le percepisce come l’essenza della sostanza; ma l’essenza non è niente più che la sostanza, ma essa è essenza solo nella prospettiva dell’intelletto, la quale cade fuori della sostanza. Ciascuno dei due modi di considerare, l’estensione e il pensiero, contiene interamente il contenuto della sostanza; per questo sono entrambi identici in sé, infiniti. Nell’attributo l’intelletto coglie tutta la sostanza, ma come la sostanza passi nell’attributo non è detto».

Se ogni attributo si trova di nuovo intero il contenuto della sostanza, è nella misura in cui questa è già di per sé priva di ogni contenuto: l'attributo è solo una forma, che può essere autonoma e infinita, ma non priva di qualsiasi movimento effettivo e pertanto di una concreta unità. Gli attributi sono essenze che si confrontano, che si oppongono, e la loro relazione estrinseca rivela l'impotenza della sostanza, cioè dell'assoluto posto come immediato, a determinarsi essa stessa in sé.Ma ciò che è soprattutto caratteristico, nei due testi precedenti, soprattutto, è una straordinaria omissione. Spinoza afferma che la sostanza si esprime in un'infinità di attributi, dei quali noi ne percepiamo solo due, il Pensiero e l’Estensione. Eppure quando Hegel caratterizza la natura degli attributi fa come se esistessero solo i due attributi che noi percepiamo: « ne riconosce solo due […]: il pensiero e l’estensione». Questa limitazione ha conseguenze estremamente importanti, perché è ciò che permette a Hegel di stabilire una relazione di filiazione tra Spinoza e Cartesio, e che autorizza anche, nel presentare l'unità degli attributi «nella» sostanza come unità di opposti.Riprendiamo la definizione che Spinoza dà degli attributi: essi sono «ciò che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza» [Etica, I, def. 4]. Abbiamo già osservato che Spinoza non specifica qual’ è l'intelletto che percepisce qui la sostanza: si tratta di un intelletto infinito, che percepisce tutte le sue essenze, o di un intelletto finito, che ne percepisce solo due? Perché questa distinzione non si presenta nella definizione generale degli attributi? In ogni caso, è chiaro che Hegel non ha tenuto in alcun conto questa imprecisione, o meglio questa assenza di precisione, e che interpreta la definizione degli attributi in un senso molto particolare, restrittivo: l'intelletto che

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"costituisce" gli attributi percependo la sostanza è per lui l'intelletto finito che comprende quest'ultima solo sotto le due forme del pensiero ed dell’estensione.M. Gueroult ha sottolineato l'ispirazione kantiana dell’interpretazione che Hegel propone di Spinoza: effettivamente questo implicito riferimento a Kant è ciò che giustifica l'accusa di formalismo fatta contro Spinoza. Gli attributi non sono solo le "essenze" della sostanza, sono le sue forme e, al limite, i suoi fenomeni. L'attributo è la sostanza come essa appare ad un intelletto che la scompone secondo le condizioni della sua percezione, cioè, che la determina limitandola. In questo senso, per Hegel, l'infinità degli attributi che esprime la loro identità con la sostanza, è una infinità senza contenuto: è l'infinità di un forma che, in sé stessa, come forma, nella limitazione che la costituisce, dal punto di vista dell'intelletto che la "percepisce", è una forma finita. Così tutto si regge: l’incapacità di Spinoza a pensare concretamente l'assoluto risulta dal fatto che fin dall'inizio egli si è posto dal punto di vista dell'intelletto finito che, è per sua propria natura, è incapace di cogliere l'infinito altrimenti che scomponendolo, cioè riducendolo ad essenze astratte. Notiamo che soggiace a tutta questa argomentazione la distinzione kantiana tra ragione (destinata all'incondizionato) e l’intelletto (che determina il suo oggetto solo sotto certe condizioni). Ciò che Hegel non ha visto, non ha voluto leggere, nella definizione degli attributi data da Spinoza è proprio il rifiuto anticipato di tale distinzione: questo rifiuto è espresso dal fatto che la nozione di intelletto figura in questa definizione in modo assolutamente generale, senza che debba perciò far intervenire nessuna differenza – quale che sia – tra i diversi tipi di intelletto.È allora evidente che Hegel non spiega il testo di Spinoza ma che propone un'interpretazione di esso. Grazie a questa interpretazione, ritrova Cartesio in Spinoza:  l'intelletto, che serve a determinare la natura degli attributi, è l'intelletto finito, che percepisce solo due attributi, l'unità della sostanza si risolve, si disfa, nella distinzione tra pensiero ed estensione, che ristabilisce in essa una inconfessata dualità. In questo senso, Hegel può sostenere che lo spinozismo è uno sforzo fallito di superare i limiti del cartesianismo: entrambi riposano sulle stesse premesse e trattano - anche se in modo diverso -  lo stesso problema, quello della relazione tra due entità distinte per le quali devono essere stabilite le condizioni di un accordo. Una volta che Spinoza ha posto fin dall’inizio l’unità della sostanza, che è poi un’unità senza contenuto, il pensiero e l’estensione, in cui tale unità viene quindi decomposta, come opposti che debbano riconciliarsi e vi riescono in un modo che non sia formale.Vedremo che questa interpretazione si discosta completamente da quanto esposto effettivamente da Spinoza nelle sue dimostrazioni, giacché per lui pensiero ed estensione non si fronteggiano l’un l'altro come i termini di un'opposizione che dovrebbe essere in seguito superata: questo è precisamente ciò che significa la tesi della loro irriducibilità, che esclude tra loro ogni rapporto, anche se fosse una relazione di opposizione. Orbene, se si riprende alla lettera il sistema, ci si rende conto che questa indipendenza degli attributi, che sono comunque identici nella sostanza le cui essenze costituiscono, si comprende solamente a partire dal fatto che la sostanza si esprime non in uno, due o qualsiasi numero di attributi, ma nella sua infinità, vieta di stabilire tra loro una relazione termine a termine, qualunque ne sia la forma. Ma comprendere ciò significa situarsi all'interno di un modo di ragionamento che non ha nulla a che fare con quello che Hegel imputa a Spinoza.

La realtà degli attributi

Attraverso la sua critica del cartesianismo, Spinoza confuta in anticipo una problematica della conoscenza di tipo kantiano, posta in termini di rapporto soggetto/oggetto o forma/contenuto. È ciò che Hegel, nonostante rifiuti questa problematica e pretende di superarla, ha assolutamente ignorato: questa lacuna domina tutta la sua interpretazione dello spinozismo. Ciò che è sorprendente qui è che Hegel, in un punto in cui si delinea tra la sua filosofia e quella di Spinoza una convergenza

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essenziale, vi scopra, al contrario, un motivo di divergenza. Questo capovolgimento può essere spiegato solo in due modi: o Hegel dispone di argomenti inconfutabili che permettono di stabilire che la critica spinozista della concezione classica della verità è insufficiente, e per questo motivo ricade nei difetti di questa concezione a cui, come egli afferma, rimane legato. Oppure questa critica spinozista è intollerabile per Hegel perché, ancora più radicale della sua, mette in evidenzia i limiti del sistema hegeliano e rivela la complicità che lo lega tuttora con concezioni precedenti che pretende di confutare risolvendo le loro contraddizioni. Vedremo che è quest’ultima l'interpretazione che dobbiamo considerare.Ritorniamo al problema degli attributi che sono, secondo Hegel, «determinazioni», «forme» attraverso le quali la sostanza si riflette nel punto di vista dell'intelletto. In un certo senso, la sostanza è un contenuto senza forma, dato immediatamente nella sua indeterminazione assoluta, alla maniera dell’Essere vuoto degli eleati, e poi si esteriorizza in forme senza contenuto, che la riflettono alla maniera delle categorie kantiane. Il fatto è che questo schema tradisce la dottrina spinozista almeno in un punto: sebbene per Spinoza gli attributi sono forme, o generi di essere, o nature o anche essenze, non sono certamente forme in opposizione a un contenuto, né tantomeno sono predicati in opposizione a un soggetto, né categorie astratte in opposizione a una realtà concreta che sarebbe loro esterna. Si potrebbe dire allora che essi stessi sono contenuti che valgono per una forma, la sostanza, giacché questa «consiste» in loro e li comprende come «costitutivi» la sua essenza. Il che significa semplicemente che i termini di «forma» e «contenuto» sono in realtà impropri per caratterizzare la relazione che collega gli attributi alla sostanza.Sebbene gli attributi siano «ciò che l'intelletto percepisce della sostanza», non per questo dipendono dal punto di vista dell'intelletto, in cui esisterebbero come forme riflesse, né – a maggior ragione - del punto di vista di un intelletto finito, opposto a una ragione infinita. Qui bisogna prendere sul serio il fatto che Spinoza abbia utilizzato, nella sua definizione di attributi, la parola «percepire» (percipere): l'intelletto percepisce gli attributi come costitutivi dell'essenza della sostanza. Se ci riferiamo alla spiegazione della definizione 3, all'inizio del libro II dell'Etica, osserviamo che questo termine ha un significato molto preciso. A proposito dell'idea, che è un «concetto della mente», scrive Spinoza: «dico concetto, piuttosto che percezione, perché la parola ‘percezione’ sembra indicare che la mente sia passiva (patisca) rispetto ad un oggetto, mentre, ‘concetto’ sembra esprimere un’azione della mente». Si può invertire questa indicazione e applicata alla definizione degli attributi: Spinoza non dice che essi sono ciò che l'intelletto «concepisce» della sostanza, proprio perché ciò implicherebbe un'attività dell'intelletto rispetto al suo «oggetto», al quale imporrebbe una modifica, ad esempio, dandogli una forma, «informandolo». L'attributo è ciò che l'intelletto "percepisce" della sostanza perché, nella relazione che qui si stabilisce, c'è, al contrario, passività dell’intelletto intelletto di fronte alla sostanza, che accetta così com’è, nelle essenze che la costituiscono, cioè, nei suoi attributi.Il termine "intelletto", come appare nella definizione degli attributi, non può dunque essere interpretato in senso kantiano. Anche se si tratta qui di dell’intelletto singolare che è il nostro, l'intelletto finito, sarebbe ancora valida l'obiezione che Spinoza ha indirizzò contro Bacone: «Egli suppone che l’intelletto umano, oltre agli errori che si deve attribuire ai sensi, è fallibile in virtù dalla sua sola natura e delle idee che appartengono ad esso, non nell’universo; in maniera tale che sarebbe come uno specchio curvo che nella sua riflessione, mischierebbe le sue proprie caratteristiche con quelle delle cose stesse».75 Orbene, l’interpretazione che dà Hegel del ruolo dell’intelletto nella definizione degli attributi va proprio in questo senso: l’intelletto che riflette la sostanza nella forma dei suoi attributi è una sorta di specchio deformante, o informante, che imprime il suo proprio marchio alle immagini che produce, in modo tale che è piuttosto lo specchio che queste danno a vedere che l’oggetto che riflettono. Ma, per Spinoza, se l'intelletto è uno specchio – cosa che è d’altra parte contestabile, poiché le idee non sono immagini -, non è certamente uno specchio attivo che interviene

75 Lettera 2 ad Oldenburg.

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nella realtà, scomponendola per ricostruirla a sua propria misura: deve essere, almeno nel caso che ci interessa, uno specchio perfettamente oggettivo, che «percepisce» la sostanza così com’è, nelle essenze che la costituiscono effettivamente. La definizione di attributi che Spinoza dà chiaramente esclude del tutto la creatività dall'intelletto.Un'osservazione è qui necessaria, che riscuoterà il suo significato pieno solo più tardi. Abbiamo appena mostrato che la relazione di percezione che lega l'intelletto alla sostanza nella definizione degli attributi implica passività piuttosto che una attività. Ma se si esamina più da vicino questa idea di passività, si rivela anche abbastanza imbarazzante: non significa che gli attributi, come immagini fedeli che si accontentano di riprodurre un modello, sono rappresentazioni passive, che corrispondono esattamente all'oggetto che danno a vedere, vale a dire che sono, per riprendere una ben nota espressione, «mute pitture su un quadro»? In tal caso, ciò che avremmo guadagnato da un lato, cessando di considerare gli attributi come forme generate dall'intelletto, lo avremmo evidentemente perso dall’altro, riducendoli a idee che riflettono passivamente una realtà esterna. Per scartare questa nuova difficoltà, va aggiunto che gli attributi non sono né rappresentazioni «attive» né rappresentazioni «passive» dell'intelletto, semplicemente perché non sono rappresentazioni, immagini, neanche idee dell'intelletto o nell'intelletto: gli attributi non sono nell'intelletto, come forme attraverso cui quest'ultimo apprenderebbe, oggettivamente o non, un contenuto dato nella sostanza, ma che stanno nella sostanza stessa di cui costituiscono le essenze. Chiaramente, questa precisazione basta per liberare dalla definizione degli attributi ogni nozione di passività: gli attributi sono attivi nella misura in cui è la sostanza che si esprime in essi, in tutte le sue essenze.

Orbene, rinunciare a considerare gli attributi come idee dell'intelletto significa mettere in discussione al tempo stesso un altro aspetto dell'interpretazione proposta da Hegel. Per presentare il carattere astratto degli attributi, egli li separa dalla sostanza e presenta la loro relazione come una relazione di successione: prima la sostanza, poi gli attributi. In tal modo, l'identità di attributi e sostanza, come chiaramente è stata affermata da Spinoza, diventa del tutto problematica: fuori della sostanza e dopo di essa, gli attributi non sono, realmente, che forme attraverso le quali l'intelletto la riflette, e vengono dissociati dal fondamento a cui si riferiscono. Ma questa idea della anteriorità della sostanza rispetto ai suoi attributi, che stabilisce una relazione gerarchica tra loro, è completamente contraria alla lettera della dottrina spinozista.

Dobbiamo qui tornare all'argomentazione, inconfutabile fino a prova contraria, di commentatori come G. Deleuze e M. Gueroult, che, dopo Lewis Robinson, hanno sottolineato il carattere «genetico» e non «ipotetico» delle prime proposizioni dell'Etica, che culminano con la dimostrazione dell'esistenza di Dio, cioè, della sostanza unica che comprende un'infinità di attributi. È in generale un'idea in gran parte accettata che l’Etica di Spinoza «comincia» con Dio: Hegel riprende questa idea alla sua maniera e rimprovera Spinoza di aver «cominciato», come un cinese, dall'assoluto. Certo è che, se è del tutto dubbio che il sistema di Spinoza si edifichi sulla base di un cominciamento assoluto, un'attenta lettura dell'inizio dell'Etica mostra che questo cominciamento non potrebbe davvero essere Dio, cioè, la sostanza unica assolutamente infinita: di quest'ultima abbiamo dapprima solo una definizione (definizione 6), e bisogna aspettare fino alla proposizione 11 per scoprire che questa definizione corrisponde ad un essere reale, effettivamente unico. Che cosa è successo nel frattempo?Se si interpretano le prime dieci proposizioni dell'Etica nel senso di un'ontologia generale o di una combinatoria formale – il che significa negare loro ogni significato reale - per trasformarle in un enunciato che concerna solo dei possibili,76 si risponderà che davvero non succede nulla, che queste proposizioni hanno solo un valore preparatorio e funzionano come presupposto metodologico per il discorso effettivo sulla sostanza che arriverà dopo, nel momento in cui l'esistenza di questa sarà

76 Come fa M. Doz, «Remarques sue les onze premières propositions de l’Etique», Reveu de métaphysique et de moral, 1976

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realmente stabilita, il che mette fine alle considerazioni sulle pure essenze considerate fuori di una presa di posizione sulla loro esistenza.Osserviamo subito che questa interpretazione coincide con quella di Hegel in un punto essenziale: fa del discorso sulla sostanza in una sorta di cominciamento assoluto; perciò si dirà che finché non trattano della sostanza stessa, per così dire di persona, ossia di Dio, le dimostrazioni di Spinoza hanno solo una funzione introduttiva; in realtà, non parlano di nulla, dal momento che il loro oggetto è «l’essere in generale», considerato fuori delle condizioni della sua esistenza. Ciò che qui riappare è la concezione formalista degli attributi, esposta a partire da un dualismo dell’essenza e dell’esistenza che Spinoza, da parte sua, rifiuta esplicitamente: «L'esistenza degli attributi non differisce in nulla dalla loro essenza».77

Simile lettura, non mette in discussione la necessità del ragionamento tale  come lo stabilisce il more geometrico, in una progressione sintetica, veramente causale?  Secondo Spinoza, il discorso vero è anche, e al tempo stesso, tale da escludere qualsiasi indagine sul possibile e anche qualsiasi sottomissione al presupposto di un cominciamento o di un'introduzione. Bisogna allora riprendere l’insieme delle proposizioni che precedono la dimostrazione dell'esistenza di Dio per identificarne il loro statuto.Gueroult presenta queste proposizioni secondo la seguente divisione:78

— «Le proposizioni da 1 a 8 procedono alla deduzione degli elementi costitutivi dell'essenza divina, vale a dire, vale a dire sostanze con un solo attributo».

— «Nella seconda sezione (proposizioni da 9 a 15), si tenterà di costruire Dio a partire dai suoi elementi semplici, le sostanze con un singolo attributo [...] e di conferirgli le ravvisate caratteristiche di ciascuna di esse.

Vedremo che alcune di queste formulazioni suscitano gravi obiezioni, e non si possono mantenere. Tuttavia, sebbene lo presentino in un discorso abusivo, che devia almeno su un punto dalla lettera del sistema, permettono di porre in evidenza un aspetto molto importante della dimostrazione di Spinoza, un aspetto che non era mai apparso prima così chiaramente.

Infatti, se si segue M. Gueroult nell’ essenziale della sua analisi, anche se sembra inaccettabile in alcuni punti, si avverte, per riprendere i termini di una questione posta sopra, che senza dubbio qualcosa avviene in queste proposizioni che aprono il libro I dell'Etica. E questo accadimento si trova precisamente nell’intersezione tra le proposizioni 8 e 9, nel momento in cui si «passa» dalla substantia unius attributi (lasciamo da parte per il momento la traduzione, giacché è problematica) alla sostanza assolutamente infinita, che possiede tutti gli attributi e esiste necessariamente, in modo tale che non può concepirsi nessun’altra sostanza. Così, per riprendere l’espressione di M. Gueroult, la sostanza viene "costruita" a partire dagli elementi che la compongono, vale a dire gli attributi stessi in quanto costituiscono la sostanza (dato che gli attributi sono «sostanziali», se non sono, propriamente parlando, sostanze). La sostanza appare allora nel suo processo reale, e il discorso di questa genesi oggettiva non esprime una conoscenza vuota a cui si ridurrebbe la precondizione formale di una combinatoria, ma esprime attivamente il movimento effettivo del suo oggetto, in qualche modo nella sua storia concreta.Il merito essenziale di queste analisi è quello di dare alla nozione di causa sui tutta la sua significanza. Se Dio è «causa di sé», non è nel senso che interpreta Hegel, come una donazione immediata dell'assoluto nel gesto di una fondazione originaria in cui questo si esaurisce nello stesso tempo in cui comunica i suoi elementi in un colpo solo, nell'irriducibilità di una presenza inalienabile che potrebbe allora essere determinata solo da fuori. In realtà, la causa sui non è altro che il processo all'interno del quale la sostanza si genera essa stessa a partire delle «essenze» che la costituiscono, su cui stabilisce la sua esistenza: questo movimento culmina nel momento in cui produce la sostanza, come il prodotto della sua attività, come risultato della sua determinazione. Da questo punto di vista, la sostanza spinozista non ha nulla a che fare con l'Essere degli Eleati: nella sua vita immanente - sebbene Hegel non cessi di parlare di «sostanza morta» -, è movimento verso sé, affermazione di sé, tutto il contrario di un contenuto ineffettivo che dovrebbe cercare le sue forme di fuori di sé stesso. Ci troviamo qui,

77 Lettera 10 a Simon de Vries.78 M. Gueroult, Spinoza, t. I (Dieu).

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ancora una volta, «molto vicini» ad Hegel, mentre questo è rimasto completamente cieco davanti a questa vicinanza.È questo movimento che esprime la definizione di Dio, che deve essere compresa geneticamente e causalmente: «Per Dio intendo un essere assolutamente infinito, ossia, una sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna e infinita».79 Questa definizione è sintetica o geometrica, perché determina il suo oggetto necessariamente, producendolo: Dio, se è causa sui, non è senza una causa; ma è, al contrario, assolutamente determinato per sé: gli attributi sono appunto le forme di questa determinazione. Sulla base di questa definizione, si possono dedurre necessariamente tutte le proprietà del suo oggetto: « Quando definisco Dio come l'essere sommamente perfetto, questa definizione non esprime la causa efficiente (voglio dire, in effetti, né una causa efficiente interna né esterna), non sarò in grado di dedurre da ciò tutte le proprietà di Dio. Al contrario quando definisco Dio come l’essere assolutamente infinito» (definizione 6).80 Così, generata nei suoi attributi, che sono la sua causa efficiente interna, la sostanza è anche causa di sé: è chiaro quindi che la sostanza non è un immediato assoluto, dato che deve essere dedotta, anche se deve esserlo a partire da se stessa.

Il rapporto della sostanza con i suoi attributi si trova dunque profondamente modificato. Da una parte, poiché non è più possibile affermare l'esteriorità degli attributi rispetto alla sostanza: gli attributi sono nella sostanza come aspetti o momenti attraverso i quali essa è si costituisce. D'altra parte, se si vuole assolutamente stabilire un ordine di successione tra la sostanza e gli attributi, non è più affatto certo che la sostanza debba situarsi prima degli attributi, ma sono piuttosto quelli che precedono la precedono, come condizioni della sua auto-produzione, dato che hanno nel processo della sua costituzione una funzione essenzialmente causale. Così si spiega un'anomalia spesso sottolineata: l'Etica non «comincia» con Dio, bensì culmina in esso, o almeno porta a lui, dopo tutta una successione di dimostrazioni, una difficoltà che gli interpreti tradizionalmente eludono svuotando di ogni contenuto le proposizioni che non riguardano ancora la sostanza unica e realmente esistente, per trasformarle così solo in precondizioni formali di un discorso che non comincia davvero che dopo di esse.Tuttavia, come vedremo, non è soddisfacente neanche parlare di una «anteriorità» degli attributi rispetto alla sostanza. Per questo ci accontenteremo per il momento di insistere su un altro aspetto dell'argomentazione, che è essenziale e che riguarda l'identità tra attributi e la sostanza. Se si ammette tale identità, non è più possibile pensare tra la sostanza e gli attributi una disuguaglianza che presuppone tanto una relazione di successione cronologica quanto una relazione di subordinazione gerarchica. Non c’è più o meno essere o realtà nella sostanza che nei suoi attributi, ma ce n’è esattamente lo stesso, o almeno è ciò che si potrebbe dire se questa realtà potesse essere misurata quantitativamente. Gli attributi non sono meno della sostanza; ad esempio, non sono essenze che, prese in sé stesse, manchino di esistenza, bensì la sostanza è proprio ciò che essi sono. Nei Principi della filosofia di Cartesio Spinoza ha scritto:

«Quando egli [Cartesio] dice che ‘è una cosa più grande creare (o conservare) una sostanza che i suoi attributi’, sicuramente non può intendere per attributi ciò che è contenuto formalmente nella sostanza e solo si da essa per una distinzione di ragione. Perché in questo caso è lo stesso creare una sostanza e creare i suoi attributi» (scolio della proposizione 7).

Ma Dio, sostanza che comporta tutti gli attributi, non «crea» né la sostanza né gli attributi, qualcosa che Descartes non può neanche «capire».

Letta correttamente, la lettera 9 a Simon de Vries stabilisce che attributo e sostanza sono nomi diversi per una stessa cosa, allo stesso modo come i nomi di "Israele" e "Jacob" designano lo stesso essere. È vero che questa lettera è stata letta solitamente in senso contrario e si è trovato in essa una conferma alla interpretazione formalista degli attributi, come se gli attributi stessi fossero nomi differenti per una cosa identica e unica che sarebbe la sostanza. La persistenza di questo equivoco81 può essere spiegata solo in un modo: nella lettera Spinoza parla di due nomi per la stessa cosa, e gli esempi che utilizza sviluppano questa ipotesi. Tutto accade come se lo sguardo dei suoi lettori restasse fisso su questo numero, che in sé stesso non ha alcun significato; Allora si ha l'occasione per reiterare un fantasma comune nella metafisica del quale Hegel ci ha dato già un buon esempio: «due», apparentemente, non può indicare che una cosa sola, la dualità di pensiero e estensione,

79 Etica, I, def. 6.80 Lettera 60 a Tschirnhaus.81 G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, p. 52

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secondo la divisione cartesiana delle sostanze;  è questo che porta a considerare gli attributi, identificandoli una volta per tutte con i due attributi che il nostro intelletto finito percepisce, come nomi, cioè forme esteriori a un contenuto che essi designano in maniera estrinseca. Ma su questo punto Spinoza è perfettamente chiaro: gli attributi sono essenze, e pertanto realtà, per cui non sono in nessun modo, in sé stessi, nomi, cioè, designazioni della sostanza attraverso cui questa si scomporrebbe astrattamente in una moltiplicazione di prospettive o di apparenze.Per cogliere questa identità reale, che collega gli attributi con la sostanza, basterà confrontare due testi che lo dimostrano senza ombra di dubbio:

«Per attributo intendo ciò che si concepisce per sé e in sé, cioè ciò il cui concetto non implica il concetto di un'altra cosa».82

«Per sostanza intendo tutto ciò che si concepisce per sé e in sé, cioè ciò il cui concetto non implica il concetto di un'altra cosa».83

Attributo e sostanza dipendono da una sola e medesima definizione, che si riferisce ad una identica realtà: il fatto qui è immediatamente leggibile. Spinoza avrebbe potuto anche scrivere: "Per sostanza e per attributo intendo una sola e medesima cosa».E ancora:

«Per attributi di Dio bisogna intendere ciò che [...] esprime (exprimit) un’essenza della sostanza divina, ossia, ciò che inerisce [pertinet] alla sostanza: lo stesso è ciò che affermo che deve implicare (involvere) gli attributi».84

Exprimit: gli attributi esprimono la sostanza; ciò non significa in assoluto che la rappresentano nella forma di un predicato, di una proprietà o di un nome, ma che la costituiscono in quello che si può denominare il suo essere concreto. Pertinet: gli attributi sono compresi nella sostanza - e, viceversa, essa è in loro -; non sono affatto manifestazioni esterne ed arbitrarie dipendenti dal libero arbitrio di un intelletto che la rifletterebbe secondo le sue proprie categorie (si noti che la definizione che stiamo commentando non fa alcun riferimento all'intelletto). Involvere: attributi e sostanza sono inseparabili perché non possono essere concepiti l’uno senza l’altro, uno fuori dell’altro, e questa dipendenza reciproca non esprime nient’altro che la loro unità reale.

Un'osservazione per concludere. Forse gli equivoci che si sono accumulati intorno all'interpretazione della definizione iniziale degli attributi (Etica, I, def. 4) si sarebbero potuti evitare se Spinoza avesse redatto questa definizione in modo leggermente diverso: «intendo per attributo ciò che costituisce l'essenza della sostanza, ed è così che l'intelletto la percepisce (tale com’è)», formulazione che sopprime ogni specie di dipendenza degli attributi dall’intelletto. Dopo tutto, ammettere il carattere rigoroso del testo di Spinoza non significa necessariamente considerare la sua lettera come intangibile, né per trasformarla in un oggetto di adorazione, né considerarla come un ricettacolo in cui riposano grandi misteri che bisognerebbe solo contemplare a distanza, facendo grande attenzione a non risvegliarli. L'Etica deve essere spiegata per mezzo dell'Etica - così come Spinoza, d’altra parte, ha spiegato la Scrittura per mezzo della Scrittura -, cioè, determinare il sistema delle corrispondenze materiali che organizzano il testo e le consentono effettivamente di compiere i suoi obiettivi; in base a questo, deve essere possibile identificare, eventualmente, le sue lacune.La diversità degli attributi

Gli attributi sono dunque identici alla sostanza, così come la sostanza è lo stesso dei suoi attributi; solo dal punto di vista dell'intelletto può stabilirsi una distinzione tra sostanza e attributo, ciò significa che questa distinzione non ha alcun carattere reale, ma è solo una distinzione di ragione.Tuttavia, si deve prestare attenzione ad interpretare la relazione tra la sostanza e gli attributi nel senso di una reciprocità formale. Se c'è identità, innegabilmente, fra loro, non è un'uguaglianza astratta e vuota, nel qual caso

82 Lettera 2 a Oldenburg83 Lettera 4 a Oldenburg84 Etica, I, dimostrazione della proposizione 19.

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senza non si capirebbe più quale sia il ruolo della nozione di attributo nell’economia necessaria della dimostrazione e si potrebbe essere tentati, puramente e semplicemente, di sopprimerla. In questo senso, a quanto pare, Spinoza afferma che «in natura non c'è nulla tranne le sostanze e i loro affezioni, come è evidente dall’Assioma 1 delle Definizioni 3 e 5;85 e ancora: «Salvo le sostanze e gli accidenti, nulla esiste nella realtà, cioè fuori dell'intelletto. Qualsiasi cosa c'è in effetti è concepita, o per sé stessa, o per altro, e il suo concetto implica o no il concetto di un'altra cosa».86 Nel reale, cioè fuori dell'intelletto, e sembra di essere rinviati di nuovo al punto di partenza: se gli attributi non hanno alcuna esistenza reale, se si separano dalla sostanza solo dal punto di vista (perspectu) dell'intelletto, non sono che enti di ragione, finzioni intellettuali esterne ad ogni contenuto, cioè pure forme di rappresentazione?Ricordiamo che ciò che esiste solo per l'intelletto non sono gli attributi stessi - che non stanno certo «nel» intelletto - ma la loro distinzione dalla sostanza. Ma bisogna aggiungere qui un nuovo argomento: l'esistenza degli attributi nella sostanza, che è la chiave per la loro identità, non è un'unità indifferente che risulta da un'uguaglianza semplicemente formale; è un'identità concreta che è identità nella differenza. Ecco perché gli attributi sono necessari per la determinazione della sostanza, la cui causalità interna esprimono e realizzano. Ma come passa la sostanza negli attributi, o gli attributi nella sostanza? Questo è ciò che ora è necessario capire.Riprendiamo la divisione del libro I dell'Etica proposto da Gueroult. Le prime otto proposizioni hanno per oggetto la substantia unius attributi, che permette di eliminare la concezione di un substrato immobile, indifferenziato, e quindi di per sé inconoscibile. Così, è stabilito fin dall'inizio che la sostanza esiste solo nei suoi attributi, che sono in se stessi sostanziali. Ma da questo ragionamento risulta anche che ci sono tante sostanze quanti sono gli attributi: come Gueroult osserva, in questo sviluppo iniziale, sostanza è scritto al plurale, come nella proposizione 5, in cui si dimostra un punto essenziale per tutto il resto (due sostanze potrebbero essere distinte solo per il loro attributo).Nelle proposizioni da 9 a 15, si passa dal plurale al singolare: dalla substantia unius attributi, infinita «solo» nel suo genere, alla sostanza che comprende un'infinità di attributi e che può dirsi assolutamente infinita; Essa include tutti gli attributi, perché non può mancargliene nessuno. Questo «passaggio» è riassunto in questi termini nella lettera 36 a Hudde: «Se assumiamo che un essere, indeterminato e perfetto solo nel suo genere, esiste per sé, allora dobbiamo anche accordare l'esistenza ad un essere che è assolutamente indeterminato e perfetto; è questo essere che io chiamo Dio». Così siamo portati, come per mano, dall'idea degli attributi all'idea della sostanza: se si conosce dapprima la perfezione degli attributi, si dovrebbe anche conoscere ciò che non può essere compreso fuori dalla perfezione assoluta di Dio, che li contiene tutti. Infatti, se si resta alla considerazione degli attributi, ciascuno preso in sé stesso, si sarebbe naturalmente portati a pensarli negativamente opponendoli l’uno all’altro, apprendendo la natura di ciascuno di essi dalla mancanza delle nature di tutti gli altri. L'infinità degli attributi può essere colta positivamente solo se la si collega alla natura divina, assolutamente infinita, in cui coesistono senza opporsi. Per questo gli attributi non possono esistere fuori di Dio, ma sono necessariamente in lui, dove si affermano in modo identico come essenze infinite nel loro genere, in una modalità di determinazione che esclude ogni negatività. All’inverso, la sostanza non è che l'unità dei suoi attributi, che essa riunisce nella sua esistenza assoluta.In questo ragionamento già indugiavano i primi lettori dell'Etica, come attesta la lettera 8 di Simon de Vries a Spinoza: «Se dico che ciascuna sostanza ha un solo attributo e se ho l'idea di due attributi, potrei giustamente concludere che ho due sostanze diverse, giacché dove si hanno due attributi diversi si hanno due sostanze diverse. Anche su questo punto vi chiediamo una spiegazione più chiara». Ma il problema qui è effettivamente irrisolvibile, in quanto pone la diversità degli attributi da un punto di vista che è prima di tutto numerico: per Simon de Vries, «un» attributo è un'espressione che ha senso solo in relazione della serie «uno, due tre... un'infinità di attributi». Questa presentazione è caratteristica, in primo luogo perché in questa serie infinita privilegia, per designare la molteplicità degli attributi, un numero molto particolare che è guarda caso il numero due. Questa scelta rivela fin da subito che la questione qui è considerata esclusivamente dal punto di vista dell'intelletto finito, che giustamente non conosce più di due attributi, pensiero ed estensione, mentre - come abbiamo già indicato - è del tutto significativo che questo punto di vista non intervenga mai nel ragionamento di Spinoza, che utilizza la nozione di intelletto presa in generale.

85 Etica, I, prop. 6, cor.86 Lettera 4 a Oldenburg.

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D'altra parte, il fatto di contare gli attributi secondo una successione numerica ha per conseguenza che il «passaggio» dalle sostanze infinite solo nel loro genere alla sostanza assolutamente infinita appare come una progressione graduale e continua: tutto accade come se gli attributi vengano aggiunti l’uno all’altro alla sostanza, che sarebbe composta essa stessa da questa infinita sommatoria. Al contrario – e questo va veramente rimarcato -, Spinoza presenta il processo nel quale la sostanza si genera essa stessa a partire dai suoi attributi in modo completamente diverso: questo si effettua in una rottura netta, che procede senza intermediari da un livello all’altro, in modo tale che il rapporto tra l'infinito solo nel suo genere e l’assolutamente infinito appare dapprima come una vera contraddizione, che si risolverà con una decisione brusca, fuori da ogni tentativo di conciliazione.Riprendiamo di nuovo il ragionamento dall’inizio: la sostanza è pensata dapprima nella diversità reale dei suoi attributi, come indicato, ad esempio, nelle proposizioni 2 («due sostanze aventi differenti attributi non hanno nulla in comune l’un l’altra») e 5 («in natura non possono darsi due o più sostanze della stessa natura, ossia, con lo stesso attributo»). Successivamente, la sostanza è pensata nella sua unità assoluta, in quanto riunisce in sé tutti gli attributi ponendosi come identica a loro. Qui abbiamo a che fare con una vera inversione di prospettiva: come bisogna interpretarla?Si sarebbe tentati di considerare questo ragionamento come un ragionamento per assurdo: in questo senso va l'interpretazione formalista che già abbiamo criticato. Si dirà allora: in un primo momento, Spinoza suggerisce la possibilità di sostanze realmente distinte, ciascuna di esse determinata da un attributo, per poter poi confutarla scoprendo a posteriori, attraverso un artificio della presentazione, l'unità assoluta della sostanza che coincide con la sua unicità. Considerato in questo modo, il ragionamento è ridotto a un certo modo di esporre le prove, ossia perde il suo carattere sintetico e il suo significato oggettivo. Perciò, secondo le esigenze del procedimento more geometrico, che - come abbiamo dimostrato - non sono semplicemente formali, questa interpretazione deve essere scartata.Ai due momenti dell'argomentazione deve perciò essere concessa una realtà equivalente: considerata dal punto di vista della diversità (infinita) dei suoi attributi, la sostanza non è una finzione, né la rappresentazione di una pura possibilità che potrebbe essere costruita solo dalla enumerazione all'infinito, poiché tale enumerazione avrebbe senso solo dal punto di vista dell'immaginazione. Si tratta di uno stesso contenuto, di una realtà identica che si presenta dapprima come diversità e poi come unità. Orbene, questo contenuto non può essere presentato nella progressione armonica e conciliante di ordine compiuto, non senza farci ricadere nell'aporia del fondamento immediato denunciato da Hegel. Deve esporsi, al contrario, in un movimento contrapposto che rivela al tempo stesso questi aspetti estremi e al contempo mostra la loro solidarietà, la loro comunità, cioè, la loro inseparabilità. Inoltre, questi due aspetti non sono successivi, ma simultanei.Allora appare il vero significato della distinzione tra sostanza e attributi, tale come la stabilisce l'intelletto: è essa che permette di comprendere la sostanza così com’è, nella complessità reale della sua natura; cioè ciò che ci permette di pensare fino in fondo, assolutamente, la sua unità: è perché comprende l'infinità degli attributi che la sostanza è assolutamente infinita. L'unità della sostanza non è dunque un'unità aritmetica, non designa l'esistenza di un individuo irriducibile a tutti gli altri per la semplicità della sua natura. La sostanza non è un essere, ed è questa la condizione fondamentale della sua unicità: essa è tutto ciò che esiste e che può essere compreso, che non ha dunque la sua causa se non in sé stessa. Però questa pienezza di essere, questa affermazione assoluta del sé che costituisce la sostanza, non può essere la forma vuota dell’Uno che sarebbe solo Uno, o che non sarebbe, se si può dire, più che un Uno: essa è questa realtà infinitamente varia che comprende tutti gli attributi e che si esprime nella loro infinità. Questa realtà non è quella di un Essere che racchiuderebbe questa totalità in virtù di una donazione iniziale, ma che è dapprima quella di un movimento irresistibile attraverso cui gli attributi passano e si unificano nella sostanza che se ne appropria.Non c'è che un'unica sostanza, ma comporta un'infinità di attributi: la sua unità è incomprensibile al di fuori di questa diversità infinita che la costituisce intrinsecamente. Risulta da ciò che la sostanza contiene la molteplicità in sé e non al di fuori di sé, e, per questo motivo, questa molteplicità cessa di essere numerica, qualcosa che Spinoza esprime appunto dicendo che è infinita; infatti, per lui, l'infinito non è un numero, in quanto non può essere rappresentato dall’immaginazione. Siamo qui agli antipodi, come si vede, da quel progetto di un «calcolo filosofico», da quella enumerazione meccanica delle parti che costituiscono formalmente un essere, a cui Hegel vorrebbe ridurre il more geometrico.Come conseguenza – ed è ciò che Hegel ha ignorato -, l'identità della sostanza e dei suoi attributi non è formale e astratta, ma reale e concreta. Questa si sviluppa in una doppia relazione: quella che lega la sostanza ai suoi attributi, senza i quali sarebbe un essere vuoto al quale non si potrebbe altrimenti riconoscere un minimo di

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realtà, e non il massimo che le appartiene; quella che lega gli attributi alla sostanza, all'esterno della quale essi esisterebbero negativamente, come opposti.Per fare un pastiche del discorso hegeliano, si potrebbe dire: la relazione della sostanza con gli attributi è l'identità divenuta in cui l'assoluto si afferma come effettivo. E questo processo è quello del causa sui o, se si vuole, del ritorno in sé della sostanza.

La costituzione della sostanza nei suoi attributi.

Fino ad ora abbiamo parlato di un'auto-produzione o di un'auto-costituzione della sostanza nei dei suoi attributi. Ora va precisato che questa non ha nulla a che fare con una genesi della sostanza a partire dai suoi attributi, ed eliminare un equivoco che comporta ancora il commento di Gueroult, che abbiamo essenzialmente seguito fin qui.Infatti, sebbene tutti gli attributi appartengano insieme alla sostanza e ne costituiscano l’ essere (Etica, I, scolio della proposizione 10), non coesistono in essa come parti che si aggiustano l’una all’altra ordinatamente per comporne alla fine il sistema completo. Se così fosse, gli attributi si definirebbero gli uni in relazione agli altri per le loro mancanze reciproche:  non potrebbero allora essere concepiti ciascuno per se, perché sarebbero limitati per propria natura da qualcos'altro. Un attributo, ad esempio l’estensione, potrebbe essere limitato solo da sé stesso, il che è assurdo poiché è infinito nel proprio genere: «Anche se l’estensione nega di suo il pensiero, non v’è nessuna imperfezione in essa; ma se fosse d’altra parte privata di una certa (parte) estensione, ci sarebbe qui un’imperfezione; è ciò che accadrebbe se fosse determinata o se fosse privata di durata o di luogo».87 Pensare l'infinito, sia nell'attributo (in un genere) o nella sostanza (assolutamente), esclude ogni nozione di divisibilità: la sostanza sta interamente in ciascuno dei suoi attributi (visto che è identica ad essi) nella stessa maniera che, d’altra parte, tutta l’estensione sta in ciascuna goccia d'acqua o tutto il pensiero è in ciascuna idea. In precedenza abbiamo detto che per Spinoza l'infinito non è un numero; perciò sfugge ad ogni partizione. La sostanza indivisibile non è la somma di tutti i suoi attributi.Questo ci impone di tornare su una delle nostre precedenti affermazioni. Abbiamo detto che la sostanza non ha la semplicità di un essere dato immediatamente in una presenza irriducibile che esclude da sé ogni contenuto determinato, ma che era la realtà complessa di un movimento assoluto che comprende tutte le sue determinazioni. Da questa complessità della sostanza, che si esprime nella diversità interna dei suoi attributi, non segue tuttavia che sia dotata di un carattere composto. Perciò bisogna dire che la sostanza è semplice come che è complessa, nel senso molto preciso che non è divisibile in parti: «Questo essere è semplice, e non composto di parti. Sarebbe necessario infatti che le parti componenti fossero, dal punto di vista della conoscenza, anteriori al composto, il che non può accadere nel caso di un essere che per sua natura è eterno».88 Questa indicazione è estremamente importante, in quanto esclude ogni presentazione meccanicistica del movimento in cui si produce la sostanza:  il processo della causa sui, immanente alla sostanza, non è una genesi temporale che si darebbe in una successione di operazioni distinte, a partire da elementi già dati, la cui combinazione produrrebbe la sostanza come risultato, o come una risultante. La relazione della sostanza con i suoi attributi non è quella del tutto con le sue parti o dell’insieme completo con gli elementi semplici che lo compongono.

Da questo punto di vista, alcune delle formulazioni utilizzate da M. Gueroult per presentare la "genesi" della sostanza sono inaccettabili, e l'uso dei testi su cui si appoggia è senza dubbio abusivo. Ad esempio: »Incontestabilmente, Spinoza è conforme, in questo caso, alle prescrizioni che aveva enunciate nel De intellectus emendatione: giungere alle idee più semplici (idea simplicissimae) per ricostruire con loro, secondo le loro implicazioni interne, l'idea complessa che così si costituisce. Di conseguenza, quando si tratta di Dio, si scopriranno dapprima i ‘prima elementa totius naturae’, vale a dire, le sostanze semplici con un singolo attributo, che sono ‘origo et fons naturae’, per costituire con esse l’ ‘essere totale uno e infinito’, fuori del quale nulla è dato e che, per se stesso, è anche ‘origo et fons naturae’. Questa ricostruzione, che opera secondo la norma dell’idea vera data, culmina in una definizione genetica di Dio».89 Il termine che presenta un problemi è quello di ricostruzione, che qui interpreta qui il more geometrico in un senso molto particolare.

87 Lettera 36 a Hudde; vedi anche la lettera 4 a Oldenburg.88 Lettera 36 a Hudde.89 Spinoza, cit. (Dieu), pag. 169

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Notiamo innanzitutto che fare del procedimento more geometrico una costruzione o una ricostruzione del complesso a partire dal semplice è ridurlo a un metodo, cioè alla fin fine ad un artificio espositivo che subordina la necessaria progressione del ragionamento al modello di un ordine: qui, quello che procede dalle parti al tutto o dal semplice al complesso. E così non siamo poi molto lontani da Cartesio. Ma ciò che Spinoza ha voluto pensare attraverso il more geometrico non era un altro metodo, un nuovo ordine di esposizione, ma proprio qualcosa di diverso da un metodo, che subordina la presentazione del vero al presupposto di un ordine secondo lo schema di una riflessione necessariamente astratta. In tal caso ci si espone a difficoltà la cui ragione è semplicemente formale; per esempio, quando ci si chiede se la sostanza sta prima degli attributi o gli attributi prima della sostanza, o ancora se gli attributi sono più o meno "semplici" della sostanza: da un punto di vista sintetico, queste domande non hanno in senso stretto alcun significato.D'altra parte, l'idea di una costruzione della sostanza presuppone non solo che questa sia costituita, ma anche composta di elementi che sarebbero i suoi attributi. Questa presupposizione è particolarmente evidente nella traduzione di Gueroult dell'espressione “substantia unius attributi” (proposizione 8, dimostrazione), come “sostanza avente un solo attributo”. È certo che questa nozione è alla base della sua spiegazione dell'intero inizio dell'Etica, poiché gli serve a designare l’elemento semplice dal quale la sostanza viene “costruita”. Ma questa traduzione è impossibile, non solo perché sostituisce unus con unicus, ma anche per una ragione fondamentale: perché tratta l'unità che costituisce ciascun attributo come un numero, cioè come il termine di una serie in cui tutti gli attributi figurano come elementi o momenti di una progressione infinita di cui la sostanza sarebbe l'espressione finale o il risultato.Siffatta concezione è assolutamente estranea allo spinozismo, e M. Gueroult stesso ha spiegato magistralmente: «la numerazione [degli attributi] non finisce perché non è mai iniziata, per la buona ragione: non c'è nessuna numerazione».90 Non si passa dagli attributi - che sarebbero dati uno per uno - alla sostanza mediante una progressione all'infinito: «L'assioma richiamato alla fine dello scolio della proposizione 10 della parte I (‘quanta più realtà o essere ha [un ente], tanti più attributi avrà’) segue dall'idea che abbiamo di un essere assolutamente infinito, e non dal fatto che ci siano, o ci possano essere enti che possiedano tre, quattro o più attributi».91 Tra la substantia unius attributi e la sostanza assolutamente infinita che possiede tutti gli attributi non c'è nulla, nessun intermediario che subordina questo passaggio alle regole di una composizione meccanica. Perciò è preferibile presentare questo passaggio come un'inversione, o come lo sviluppo di una contraddizione, la stessa che identifica nella sostanza la sua unità assoluta e la molteplicità infinita delle sue essenze.Se gli attributi si sommassero gli uni agli altri, o se si componessero tra loro per generare la sostanza, cesserebbero di essere irriducibili, e la loro identità alla sostanza sarebbe, cioè la loro natura sostanziale, così compromessa. In tal caso gli attributi non sarebbero più essenze infinite nel loro genere che non possono essere limitate da nulla, ma gradi di realtà, necessariamente diseguali, e disposti gli uni in relazione con gli altri nel contesto di una gerarchia progressiva che li integrerebbe tutti insieme nell’assoluto. Ma Spinoza è così lontano da questa concezione leibniziana dell'ordine come da quella di Cartesio.Da questo risultata una conseguenza molto importante.  Abbiamo appena visto che gli attributi, anche se sono realmente distinti, proprio perché sono realmente distinti, non sono come esseri che potrebbero essere enumerati, anche se fosse in una prospettiva che va all'infinito, giacché sarebbe ridurre la loro distinzione ad una distinzione modale, cioè in un certo modo riflettere l'infinito dal punto di vista del finito. E ciò che è vero per gli attributi lo è a fortiori per la sostanza che li contiene tutti: la sostanza non si conta più degli attributi, almeno se si rinuncia al punto di vista dell'immaginazione. Per questo la tesi della sua unicità è così difficile da capire: giacché di fatto non ha in assoluto riferimento alla esistenza di un essere unico, di una sostanza che esisterebbe in un solo esemplare, con l'esclusione di tutti gli altri possibili: « Una cosa non può essere detta sola e unica prima che se ne sia concepita un’altra che abbia la stessa definizione [come si dice] della prima. Ma, essendo l'esistenza di Dio la sua stessa essenza, senza dubbio dire di Dio che è solo e unico dimostra o che non si ha di lui un’idea vera o che se ne parla impropriamente».92 Perciò, se Spinoza scrive «che Dio è unico, questo significa [...], che in natura non esiste che un'unica sostanza (non nisi unam substantiam dari), e che questa è assolutamente infinita»,93 certamente si deve intendere che questa nozione, «non nisi una», strettamente negativa, non ha alcun significato causale e quindi non può intervenire nella definizione della natura divina: la sostanza assoluta è unica,

90 Ibid., pag. 15091 Lettera 64 a Schuller.92 Lettera 50 a J. Jelles93 Etica, I, cor. 1 della prop. 14.

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in realtà, ma è solo una conseguenza, non della sua stessa realtà, ma della nostra potenza di immaginare, che forgia la finzione, non solo di due, tre o qualsiasi numero di sostanze, ma anche, più in generale, di sostanze esistenti in un numero determinato, tra le quali «uno» è mai il primo. Dire che non c'è più che una sola sostanza è parlare all'immaginazione, che può considerare l’assoluto solo negativamente, a partire dal nulla, cioè, dalla parte del possibile che essa implica. Per se stesso, Dio non è «uno», più di quanto non sia due o tre, né bello o brutto. Contrariamente a una tenace tradizione, va detto che Spinoza non era un monista più di quanto non fosse un dualista, né qualsiasi altra cosa, qualunque sia il numero col quale si voglia cifrare questa finzione, buona al massimo per gli ignoranti o per gli schiavi.

L’ordine e la connessione delle «cose»

Gli attributi non sono «meno» della sostanza. Né alcuni sono "meno" di altri: è questo che esprime la tesi della loro reciproca irriducibilità. Gli attributi sono incomparabili, ed è per questo che sono identici nella sostanza che li possiede necessariamente tutti, cosa che non sarebbe possibile se si introducesse fra loro una qualsiasi disuguaglianza. Nessuna forma di essere è superiore all’altra: non c'è quindi alcun motivo per cui una di esse debba appartenere a Dio di preferenza più di un’altra o ad esclusione di un’altra. È così come Dio è simultaneamente, e in modo identico, una «cosa pensante» e una «cosa estesa»,94 ma anche tutte le altre cose che non possiamo apprendere per la limitatezza del nostro intelletto. Su questo punto, ci si riferirà al libro di G. Deleuze, che fa una critica definitiva della nozione di eminenza e dimostra che è completamente estranea allo spinozismo. Eminenza è in un certo senso il concetto classico di "superamento". Spinoza ragiona sempre formalmente (formaliter), cioè, non con l'esclusione di ogni contenuto, ma fuori di ogni prospettiva di eminenza (eminenter), poiché questa reintroduce nella conoscenza il presupposto di un possibile che è una finzione. L’immaginazione, al contrario, produce con facili trasposizioni o con amplificazioni: se il triangolo potesse parlare direbbe di Dio che è eminentemente triangolare (vedi lettera 56 a Hugo Boxel). Dio non è in realtà al vertice, o alla fine, di una gerarchica progressione di forme le cui proprietà riunirebbe nella loro totalità «superandole».Perciò Spinoza non si accontenta di risolvere la questione posta dal dualismo cartesiano, ma ne inverte completamente la problematica. Nell'interpretazione dello spinozismo proposta da Hegel, abbiamo visto che tutto avviene come se la sostanza si esprima essenzialmente in due attributi di cui costituisce l’unità assoluta, questi stessi attributi che noi percepiamo, e a cui Cartesio attribuiva lo statuto di sostanze indipendenti. Di conseguenza, tutti gli altri attributi appaiono rispetto a quest'ultimi come possibili, pure finzioni, e possono essere concepiti, al massimo, secondo il modello dei due attributi «reali» che conosciamo effettivamente. Questa concezione è proprio quella che il ragionamento sintetico seguito da Spinoza rende impossibile: secondo questa ogni attributo deve essere «concepito per sé stesso» cioè nella sua infinità propria, che gli conferisce un carattere sostanziale e non sulla base della sua relazione con qualsiasi altro attributo, qualunque sia. Comprendere la natura degli attributi significa precisamente proibirsi di prenderli termine a termine per compararli.Quando Spinoza dice che gli attributi sono «infiniti solo nel loro genere», un'espressione che abbiamo già incontrato, ciò non significa che la loro infinità è in qualche modo limitata e incompleta. Una tale concezione caratterizza, al contrario, il punto di vista dell'immaginazione. Nel primo dialogo che segue il capitolo 2 del Breve trattato, è la Concupiscenza che dichiara,  «Vedo che la sostanza che pensa non ha nulla in comune con la sostanza estesa e che l'una limita l'altra». Questa frase mette insieme tre affermazioni che sono in realtà interdipendenti: 1) l'irriducibilità degli attributi è presentata come separazione tra sostanze; 2) queste sostanze esistono l’una di fronte all’altra in una relazione di limitazione; 3) questa opposizione è una relazione di due termini pensata in base alla distinzione tra pensiero ed estensione. Ma la ragione disfa queste tre affermazioni e la logica che le associa giacché considera le cose dal punto di vista della loro necessità. 1) gli attributi sono identici nella sostanza che li comprende tutti; 2) pertanto non si oppongono l’uno all’altro, in un rapporto necessariamente disuguale; 3) la loro natura è inafferrabile fuori del fatto che sono un'infinità che vieta che gli si applichi una numerazione.

94 Etica, II, prop. 1 e 2.

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La chiave del nuovo pensiero che Spinoza introduce in filosofia è la tesi dell'identità degli attributi nella sostanza nella quale sono unificati pur rimanendo realmente distinti. Questa unità è espressa in una proposizione ben nota. «L'ordine e la connessione delle idee è lo stesso dell'ordine e la connessione delle cose».95 Si interpretata spesso questa proposizione come se formulasse una relazione di convenienza, un accordo tra tutto ciò che dipende dal pensiero ed dall’estensione. Questa interpretazione è inammissibile. Infatti, sebbene in questo enunciato la parola «idee» designa i modi dell'attributo pensiero,  la parola «cose» (res) assolutamente non designa, neppure in maniera restrittiva, i modi dell'attributo dell'estensione, ma i modi di tutti gli attributi, quali che siano, compreso il pensiero stesso: le idee sono come «cose», come qualsiasi altra affezione della sostanza, sia quel che sia. La proposizione quindi significa che tutto ciò che è sotto un attributo, cioè in una forma di essere - quale che sia -, è identico a ciò che sta sotto tutti gli altri attributi, esattamente allo stesso modo che è identico a sé: tornando su sé stesso, senza lasciare il proprio ordine, il pensiero scopre tutto ciò che è contenuto nella sostanza, mentre questa si esprime nell'infinità di tutti i suoi attributi;  verso questa conclusione già ci aveva condotto la teoria dell'adaequatio. Questo si può dire di tutti gli attributi, che sono identici a tutti gli altri, non in una relazione di comparazione, di corrispondenza, di convenienza o di omologia, che implicherebbe la loro esteriorità reciproca, ma nella loro natura intrinseca, che li unifica fin dall'inizio nella sostanza che li costituisce e che essi costituiscono.Conseguentemente, non ci saranno motivi per prospettare un'identità tra due, tre, quattro... un'infinità di serie o attributi, il cui ordine e la cui connessione si riconoscerebbero come concordanti. Si deve capire - cosa impossibile se ci si mantiene nel punto di vista dell’immaginazione - che è uno e medesimo ordine, una e medesima connessione ciò che si effettuata in tutti gli attributi e li costituisce in modo identico nel loro essere: la sostanza non è nient’altro che questa necessità unica che si esprime simultaneamente in un'infinità di forme. Ciò che si incontra in ciascun genere di essere che pertiene anche per definizione a tutti gli altri non comporta nessun mistero: perciò non vi è nessuna necessità di far intervenir la precondizione di una combinazione o di un’armonia. Vediamo quindi quanto sia ridicolo presentare il «monismo» spinozista come un superamento del «dualismo» cartesiano: il modo di pensiero messo in pratica da Spinoza produce i suoi effetti in un terreno completamente diverso, in cui queste vecchie questioni della filosofia vengono semplicemente invalidate.Da questo spostamento dei problemi deriva ancora una conseguenza: così come gli attributi non si limitino gli uni con gli altri in una relazione termine a termine che sarebbe necessariamente una relazione di subordinazione, la nostra stessa conoscenza non è limitata dal fatto di apprende solo due attributi della sostanza. Cogliendone solo uno, secondo il suo ordine e la sua connessione propri, essa comprenderebbe la sostanza tale come è nella sua necessità assoluta, cioè nel concatenamento causale che ne costituisce l’essere. Conoscere la natura di un attributo, nella sua infinità intrinseca, è allo stesso tempo conoscere quella di tutti gli altri. Per questo, dice Spinoza, anche se percepiamo solo due degli attributi della sostanza, non siamo per questo privati della conoscenza di tutti gli altri, nella misura in cui comprendiamo che esistono necessariamente secondo un ordine e una connessione che sono gli stessi che conosciamo. Così, nei limiti prescritti da un intelletto finito, possiamo conoscere tutto, cioè pensare l'assoluto nella forma della necessità.Tutto si sostiene quindi nel dispositivo teorico stabilito da Spinoza: l'infinità degli attributi, concepita indipendentemente da ogni serie numerica, è la condizione per cui sfuggiamo ai dilemmi tradizionali della filosofia. Dal punto di vista dell'assoluto, ora non esiste più tra i generi – che non sono incompatibili né diseguali - un faccia a faccia, ora non esiste più pertanto la necessità di giustificare la loro coesistenza o il loro accordo attraverso il compromesso di una garanzia esterna, evidentemente arbitraria e irrazionale:  la causalità della sostanza è allo stesso tempo la condizione e l'oggetto di un sapere assoluto, che pone solo relazioni intrinsecamente necessarie il cui sviluppo immanente rende visibili le sue forme in sé stesso, al di fuori di ogni intervento di un libero arbitrio, sia posto sotto la responsabilità di un soggetto finito o di un Soggetto infinito. L’errore di Hegel circa gli attributi

Per valutare il cammino percorso, ritorniamo ora a uno dei testi che Hegel dedica alla questione degli attributi:

«Inoltre, Spinoza determina gli attributi come infiniti, e precisamente infiniti anche nel senso di una infinita molteplicità. In realtà, in seguito, ne appaiono solo due di essi, il pensiero e l’estensione, e non viene indicato come la infinita molteplicità si riduca per necessità solo all'opposizione, e

95 Etica, II, prop. 7

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precisamente a questa determinata opposizione del pensiero e della estensione. Questi due attributi, per conseguenza, sono trovati empiricamente. Pensiero ed essere rappresentano l'assoluto in una determinazione; l'assoluto stesso è la loro assoluta unità , così che essi sono solo forme inessenziali;  l'ordine delle cose è lo stesso di quello delle rappresentazioni o pensieri, e l’unico assoluto si trova considerato solo dalla riflessione esterna, cioè, da un modo, sotto quelle due determinazioni, una volta come totalità di rappresentazioni, un’altra volta come una totalità di cose e loro variazioni. Così com’è questa riflessione estrinseca produce tale differenza, così è anch’essa che la riduce e la immerge nell’assoluta identità. Pertanto questo movimento si realizza fuori dall'assoluto. È vero che esso stesso è anche il pensare, e pertanto tale movimento si effettua solo nell'assoluto; ma, come si è già osservato, nell’assoluto il pensiero sta solo come unità con l’estensione, e, quindi, non come un movimento che sia essenzialmente anche il momento dell’opposizione».96

L'interesse di questa pagina - è per questo bisogna citarla per intero – è che presenta insieme un certo numero di affermazioni che applicate al loro oggetto dichiarato, la filosofia di Spinoza, si dimostrano essere egualmente erronee; conseguentemente, è verosimile che l’equivoco di Hegel a proposito della filosofia di Spinoza dipenda dalla «logica» che le ha generate, «logica» che è completamente estranea alla lettera e allo spirito dello spinozismo.Prima di tutto, Hegel riduce gli attributi a forme esterne della riflessione, che hanno perso tutta la reale interdipendenza con la sostanza da cui apparentemente procedono: non c'è a partire da qui alcuna giustificazione razionale per il movimento attraverso il quale sostanza «passa» nel suoi attributi. Questa interpretazione presuppone - lo abbiamo mostrato sufficientemente - che il rapporto tra la sostanza e i suoi attributi sia gerarchico e cronologico: la sostanza, che si presenta allora come un fondamento immediato, viene prima dei suoi attributi ed più di quelli. Ma il concetto di attributo, come Spinoza stesso lo ha fissato, esclude proprio la possibilità di una subordinazione, che ha senso solo in una prospettiva dell'eminenza.Poi, per Hegel, la tesi secondo cui la sostanza si esprime in un'infinità di attributi non ha alcun significato reale; per questo non la richiama che a titolo di indicazione, come una considerazione meramente formale. Infatti, se ci si limita al contenuto, l'unità della sostanza è sempre riflessa attraverso la relazione di due attributi che sono il pensiero e l'essere; ma questo contenuto non può essere giustificato razionalmente, è riconosciuto solo empiricamente. Hegel scrive altrimenti:

«Spinoza pone la sostanza in cima al suo sistema e la definisce come l'unità di pensiero ed estensione, senza dimostrare come arrivi a questa differenza e alla riduzione di questa all'unità della sostanza».97

L’errore di Hegel consiste qui nel porre la distinzione reale degli attributi come un rapporto termine a termine, incarnato nella differenza tra i due attributi posti l’uno di fronte all’altro: in tale prospettiva, è inevitabile che tale distinzione appaia arbitraria, o che sia semplicemente giustapposta all'unità della sostanza, data altrove. Ma abbiamo visto che, nella dimostrazione di Spinoza, l'esistenza di un'infinità di attributi permette di scartare dal principio questa difficoltà: la reciproca irriducibilità degli attributi è quindi perfettamente coerente con la loro identità nella sostanza, la cui natura esprimono in tutti i generi possibili, fuori da ogni restrizione empirica.Di conseguenza, Hegel trasferisce l'identità di ordine che costituisce intrinsecamente la sostanza a una corrispondenza formale tra due serie esterne, l'ordine delle cose (l’estensione) e l'ordine delle rappresentazioni (il pensiero): tra questi due insiemi non può esserci che una comunanza arbitraria ed esteriore, alla maniera dell'accordo decretato da Dio, nella filosofia cartesiana, tra natura e ragione. Ma, dato che questa identità di ordine, nel senso letterale del sistema di Spinoza, non consente in nessun modo di ridurre all'identità tra due ordini separati, tutta questa problematica dell'accordo tra il pensiero e l’essere, che presuppone la loro separazione, viene evitata fin dal principio.D'altra parte, che il pensiero si separi dal reale, che è per Hegel la condizione del loro ricongiungimento ulteriore nell'assoluto, svaluta il pensiero. Sebbene lo collochi in un rapporto di parità con l'estensione,  nella misura in cui

96 Logica, II.97 Enciclopedia, all. al § 151

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propriamente trasferisce solo il pensiero all'assoluto tramite il suo rapporto con estensione, questo ragionamento pone il pensiero in una posizione di inferiorità rispetto l'assoluto: «nell’assoluto il pensiero sta solo come unità con estensione», il che significa che non può per sé stesso, con un movimento proprio, uguagliarsi con l'assoluto. Hegel dice ancora:

«È vero che la sostanza è l'assoluta unità di pensiero e essere, ossia dell’estensione; contiene, pertanto, il pensiero stesso, ma lo contiene solo nella sua unità con l’estensione, vale a dire, non come separato esso stesso dall'estensione, e, di conseguenza, in generale non come un determinare e formare, né come un movimento che ritorna in e comincia da se stesso».98

Il pensiero non può realizzare da se stesso la sua relazione con l'assoluto, poiché è necessario che passi per l'estensione per scoprirsi come momento di un’unità che si effettua solo nella sostanza. Ma già abbiamo detto abbastanza da non dover insistere oltre sul fatto che la diversità infinita degli attributi, in Spinoza, implica che questi siano allo stesso tempo e irriducibili e uguali nella sostanza. Così la differenza tra il pensiero e l’estensione, o qualunque altra relazione tra attributi quale che sia, non ha come conseguenza la subordinazione di questi alla sostanza, come ciò che è diviso da ciò che è unito, ma, al contrario, la loro assoluta identificazione in essa. Ciò che è infinito solo nel suo genere non è meno infinito di ciò che è assolutamente infinito. Questo è vero per il pensiero come per qualsiasi altro attributo in generale.Infine, la distinzione tra gli attributi, riflessa attraverso la distinzione tra il pensiero ed l’estensione, è interpretata da Hegel come una relazione di opposizione: la coesistenza di queste forme esteriori è anche il loro confronto, poiché rappresentano in concorrenza la sostanza unica e dividendosela. Perciò, l'unità stessa della sostanza non è se non la risoluzione, il superamento di questo conflitto, la riunione nell’assoluto di termini che, in sé stessi, sono separati e antagonisti: è un'unità degli opposti, un'unità necessariamente astratta, che ricostituisce formalmente, col ricorso all'intelletto, una totalità che era stata prima artificialmente scomposta nei suoi elementi. Assistiamo alla trasposizione del sistema di Spinoza in termini che ovviamente non sono i suoi, trasposizione che implicitamente fa intervenire, con le sue nozioni di opposizione e contraddizione, la dialettica in senso hegeliano, che sta alla base stessa della divergenza che separa le due filosofie.Attraverso lo sviluppo di questa questione per sé stessa riusciremo a far luce sulle ragioni, cioè , sulla posta in gioco, di tutta questa discussione. Perché non ci basta constatare che Hegel si è «ingannato» nella sua lettura di Spinoza, e che ha completamente frainteso il vero significato del suo sistema. Dobbiamo anche, e prima di tutto, capire perché, sfidando l’evidenza, ha voluto a tutti i costi far dire a questa filosofia esattamente il contrario di ciò che essa stabilisce, in un modo che non lascia spazio ad equivoci. Come se il suo discorso fosse stato tanto intollerabile da rendere necessario, non riuscendo a rimuoverlo con una semplice confutazione, sopprimerlo completamente, sostituendolo con la finzione di un discorso opposto e ridicolo.Accade che quest’ultimo dibattito gira interamente intorno a una sola frase e alla sua interpretazione: «omnis determinatio est negatio».

98 Logica, II.

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IV. Omnis determinatio est negatio

Il punto di vista della sostanza

Spinoza ha dunque formulato questa gran frase, come  dice Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia. Mettiamola nel suo contesto e scopriremo che quello che dice non ha molto a che vedere con ciò che Hegel  vi trova, un abisso di significato. Possiamo anche chiederci se questa fase - che trascrive «die Bestimmuheit ist Negation» (Logica), o «alle Bestimmung ist eine Negation» (Lezioni) - non fu scritta da Hegel stesso, dal momento che una frase appartiene a chi la utilizza: in ogni caso, la strumentalizzazione che Hegel fa di questa frase h come condizione che la abbia staccata dal suo contesto, e che la prenda assolutamente, come una formula quasi magica nella quale lo l’intero spinozismo, con le sue contraddizioni, le sue promesse ed i suoi scacchi, si trova in un certo qual modo riassunto.Qui, il culto della lettera non deve smarrirci: ciò che Hegel ha letto in Spinoza - ed ogni lettura autentica è, a suo modo, violenta, se non ha soltanto la benignità di una parafrasi – importa tanto quanto quello che questo ha effettivamente detto; o piuttosto, ciò che conta è la reazione di questi due discorsi, uno rispetto all'altro, perché questa costituisce per essi un insostituibile rivelatore. Da questo punto di vista, che la frase famosa sia di Spinoza o di Hegel, è il migliore dei sintomi per analizzare il rapporto tra le due filosofie.Non si risolve allora il problema che pone l’interpretazione di questa frase se la si riferisce all’immaginazione di Hegel, evidenziando la sua artificialità nell’annichilirla. Tuttavia occorre sapere da quale ragionamento Hegel è stato condotto ad attribuire questa frase a Spinoza, per farne la ragione e l'indizio principale della loro divergenza. Occorre dunque prendere «omnis determinatio est negatio» come un enunciato completamente reale, che funziona da qualche parte tra Spinoza ed Hegel, e nel quale la contraddizione delle loro due filosofie assume una forma visibile.

Il negativismo di Spinoza

Cominciamo col delucidare il senso di questa frase, così come Hegel la prende. Questo senso è fondamentalmente doppio, d’accordo con il posto che Hegel assegna a Spinoza nella storia della filosofia, che è quello di un precursore. Nella frase si annuncia qualcosa di «grandioso»„ - Hegel stesso usa quest'espressione -, ma che assume soltanto la forma di un presentimento, separato dei mezzi che permetterebbero di realizzarlo. È per questo presenta allo stesso tempo due aspetti: da un lato, la frase può essere compresa soltanto rispetto a questa verità essenziale che già si delinea in essa; d'altra parte, esiste soltanto col difetto che impedisce che la sua promessa sia mantenuta. E ciò che la caratterizza, pertanto, è la sua incompiutezza. Rappresenta dunque una verità in movimento, presa nel mezzo del cammino che deve percorrere. Perciò può essere considerata, sia dal punto di vista del compito che ha realizzato, sia di quello di ciò che le resta da fare per raggiungere il suo obiettivo.Vediamo inizialmente l'aspetto buono della frase e rileviamone il contenuto positivo. Questo consiste nella relazione che si stabilisce tra determinazione e negazione: ciò che è determinato implica in sé una negazione, e questa negazione lo fa esistere come qualcosa di determinato. Quindi, la negazione non è soltanto una privazione, poiché per mezzo di essa qualcosa può essere posto: la negazione, in un certo qual modo, produce esistenza, il che implica che ha una funzione costitutiva. Pertanto, come spiega Hegel nell'allegato al paragrafo 91 dell'Enciclopedia, la realtà non può essere compresa dalla sua sola relazione ad uno Essere pienamente positivo e fondatore, che, propriamente, non sarebbe tale se non restando indifferente ed esterno ad ogni realtà effettiva: come tale essere, in sé stesso indeterminato, potrebbe essere anche un principio di determinazione? Questo ragionamento si

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assomiglia molto a quello che Platone, nel Sofista, rivolgeva già contro gli Eleati, per raggiungere, del resto, una conclusione abbastanza vicina a quella di Hegel: è necessario, se si vuole sostenere un discorso razionale su ciò che esiste, accordare al non essere, dunque al negativo, una qualche realtà.Secondo questo primo aspetto, vediamo che la filosofia spinozista, di cui Hegel non cessa di denunciarne l’«immobilità», inizia a muoversi un po': se si ammette, almeno a livello di ciò che ha un'esistenza determinata, un principio di negatività effettivo, questa esistenza non si mantiene più nella sua posizione iniziale, cioè, nella affermazione di un essere assoluto e completamente positivo che comprende tutto in sé e nel quale s'inabissa tutta la realtà. Accanto alla materia vuota e morta, riconosce un mondo di determinazioni che vive soltanto per sua negatività propria. Orbene, non è questo caso già il lavoro del negativo, anche se lo si espone in una forma incompleta, che non domina ancora la necessità del concetto?Occorre, immediatamente, osservare che Hegel non scopre tale promessa nella frase che attribuisce a Spinoza ma dal fatto che la legge a rovescio. Omnis negatio est determinatio: in ogni negazione c'è determinazione, cioè, qualcosa che pone e che agisce, che produce effetti e che fa esistere. In altre parole, in ogni negazione c’è anche qualcosa di positivo: è un mezzo, un intermediario, una mediazione che conduce verso un'altra cosa, che mette sotto scacco la tirannia dell'identità formale e vuota, e rivela che c'è contenuto effettivo solo con l'alterazione di quest'identità, con questo movimento, questo passaggio che eccede la presenza immediata a sé del positivo che è soltanto positivo, e lo realizza in un altro, per mezzo del negativo.Tuttavia - e questo è il lato cattivo della formula che appare se la si legge «al dritto» -, così come Spinoza lo avrebbe scritto, questa relazione interne del positivo con il negativo appare soltanto sotto forma di una insoddisfazione e di un'insufficienza, ma non è veramente compresa. Perché è rimasto nel punto di vista dell'intelletto (in senso hegeliano), Spinoza continua a separare il positivo dal negativo, che appartengono, per lui, a due ordini distinti: dal lato dell'assoluto, che è dato immediatamente al di fuori di qualsiasi determinazione, c'è soltanto la positività di un essere al quale non manca nulla e che non può divenire, in questa presenza originaria, più di ciò che non è già: perciò il negativo, anche se il suo intervento è riconosciuto come necessario, deve essere espulso fuori di sé: appare soltanto lì dove si producono le determinazioni, ossia, nella sfera di ciò che è finito e che è per natura esterno alla sostanza infinita.Allora la frase «omnis determinatio est negatio» lascia intravedere un senso del tutto nuovo, che è precisamente un senso negativo, o restrittivo: ogni determinazione è negativa, cioè è soltanto qualcosa di negativo, e che non è più che negativo. La realtà, l'esistenza del finito, si pensano in un certo qual modo soltanto per differenza, per sottrazione, rispetto all'assoluto della sostanza. Per Spinoza, così come Hegel lo interpreta, la determinazione è un movimento regressivo, non come il ritorno in sé di ciò che è, ma al contrario come la sua decomposizione, la sua degradazione, la sua decadenza. Il determinato è ciò che non può essere colto che per difetto, secondo il proprio difetto, la mancanza di essere, la negatività che lo determina: è l'ineffettivo che si mantiene a distanza della sostanza ed è impotente a rappresentarla se non in un'immagine inversa.Hegel dice inoltre: Spinoza ha concepito la negazione in un modo che è soltanto astratto, come un principio d'alterazione indipendente dalla positività che ha una volta per tutte installata nell'assoluto. La negazione astratta è la negazione considerata restrittivamente, per difetto, in quanto è soltanto negativa. Per Spinoza, il negativo è l'opposto del positivo, e non può essere conciliato con esso, ma che permane sempre irriducibile ad esso. In questo modo, tra il positivo che è soltanto positivo - e che è esso stesso un'astrazione, poiché comporta questa restrizione: è la contraddizione propria dello spinozismo che non può lasciar introdurre la negatività nella sua sostanza - e il negativo che è soltanto negativo, nessun passaggio può essere stabilito che renderebbe effettivo il movimento del concetto e permetterebbe di comprenderne la razionalità intrinseca. Per il fatto che l'assoluto è un immediato, non c'è nulla fuori di esso; o piuttosto, fuori di esso non si ha che «enti» che possono essere misurati

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solo negativamente, a partire dal nulla, dal difetto di sostanza che li compone intimamente e che è causa della loro fatticità. Ritroviamo qui un'obiezione che conosciamo bene: la sostanza spinozista ha eliminato del suo ordine proprio, come si eliminano corpi estranei, ogni determinazione, ed è questa chiaramente la condizione della sua identità assoluta con sé. Così non può avere con ciò che essa non è più che delle relazioni estrinseche. Questo è vero dapprima per gli attributi o generi, che sono determinazioni della sostanza, e che appartengono già al mondo della finitudine. Si comprende anche che possono essere compresi soltanto da un intelletto, cioè un modo, che conferisce loro quest'esistenza astratta e finita, aliena alla pienezza della sostanza. È vero inoltre, e a fortiori, rispetto ai modi stessi, o a ciò che Hegel denomina gli individui, che, non avendo in se stessi il loro principio d'esistenza, non sono veramente nulla in se stessi, se non apparenze presto condannate a scomparire, che è per esse il migliore modo di manifestare la loro scarsa realtà. Quindi la filosofia di Spinoza, in contraddizione con la sua proclamata affermazione della pienezza del positivo, è in fondo un negativismo, come tutti i pensieri orientali:

«Nello stesso modo, nella rappresentazione orientale dell'emanazione, l'assoluto è la luce che illumina se stessa. Tuttavia, non illumina soltanto sé ma anche ciò che si emana. Le sue emanazioni sono distanze (Entfernungen)dalla sua limpida chiarezza: le creazioni che seguono sono più imperfetti dei precedenti da cui procedono. L'espansione è considerata come un evento, il divenire soltanto come un perdersi continuo. Così l'essere si oscura sempre più, e la notte, il negativo, è il termine della serie, che già non fa ritorno alla prima luce».99

Sorprendente inversione! Come non può essere stabilita nessuna misura comune tra il positivo ed il negativo, e che restano assolutamente esteriori l'uno all'altro, l'essere nella sua luce primitiva è condannato ad essere presto invaso dall'ombra che riempirà tutto il suo spazio, e che lo inabisserà nel nulla non meno assoluto in cui si produce la sua abolizione. Ecco un altro testo nel quale Hegel descrive questa caduta in modo impressionante:

«La sostanza, così com'è la si apprende da Spinoza, senza mediazione dialettica precedente, immediatamente, è in quanto potenza universale negativa, in una certa forma è soltanto quest'abisso oscuro, informe, che assorbe in sé ogni contenuto determinato, poiché essendo stato originariamente il nulla [néant], e non produce niente [rien] che abbia in se steso una consistenza positiva».100

«È la potenza universale negativa»: nella misura in cui l'universalità della sostanza è vuota, e come tale condannata all'immobilità e alla morte, può essere investita soltanto da questa potenza inversa che la corrompe, che la disfa, e che allo stesso tempo proclama la sua verità profonda, il Nulla [Néant].Si vede dunque dove conduce la presentazione dell'assoluto come positività pura: al trionfo del negativo che è realmente la sua fine. Allora ciò che è in gioco nel dibattito appare chiaramente: riconoscendo al negativo una funzione costitutiva, e creando le condizioni della sua alleanza, della sua unità con il positivo, si tratta soprattutto, per Hegel, di difendere il positivo da sé stesso, di impedire la sua decadenza che è inevitabile se cede alla tentazione di essere sufficiente a sé stesso nella pienezza vuota, astratta, del suo essere immediato. Rispetto a ciò che apparivano inizialmente, le posizioni sono ora esattamente invertite: rivendicando esclusivamente il positivo, Spinoza ha scelto di fatto il negativo, o almeno vi si è abbandonato, mentre Hegel, accordando la sua parte di realtà al negativo, ne

99 Logica, II.100 Enciclopedia, agg. al § 151.

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fa lo strumento o l'ausiliario del positivo a cui garantisce, a sua insaputa, il trionfo: astuzia della ragione. Ciò significa che nel negativo, a condizione che sia considerato in modo razionale, c'è qualcosa che tende al positivo; ed è questo ciò che sfugge necessariamente all'intelletto astratto per il quale positivo e negativo, definitivamente esterni l'uno all'altro, sono anche irriconciliabilmente opposti.

Questo arresto razionale del negativo è ciò che si esprime nell'idea di negatività assoluta. Possiamo comprendere quest'idea soltanto abbandonando la sfera della riflessione astratta, che rappresenta le cose nella loro rapporto immediato con loro stesse: se le consideriamo nel loro movimento, vediamo che esse stesse sono soltanto per il tramite di altro che riflettono in sé. Questo passaggio è negazione, negazione dell'essere immediato; ma è già anche negazione della negazione, o piuttosto negazione del negativo stesso, nella misura in cui scopre la cosa nel suo concetto, così come è in e per sé.Ciò che si designa comunemente con l'espressione «negazione della negazione», è dunque la razionalità infinita del processo nel quale tutta la realtà si effettua. Ma la tendenza naturale è di interpretare questa razionalità nei termini della riflessione astratta. Diventa allora una relazione tra due termini, che sono due negazioni distinte e successive. È lo schema formale della triade, nel quale si riassume troppo spesso la presentazione dell’hegelismo, e che Hegel stesso ha espressamente ricusato: dapprima un essere dato nella sua presenza immediata; poi la sua negazione, cioè il riconoscimento dell'altro che disfa questa immediatezza: infine una nuova negazione che si «aggiunge» alla precedente, se si può dire, o la prende come oggetto e la annulla, reintegrando l'essere iniziale nella sua identità, aumentata con tutte le trasformazioni per le quali è passata, con tutto ciò che ha «appreso» nella successione di questi episodi.Ma, ciò che Hegel ha voluto pensare attraverso la negazione della negazione, è qualcosa di completamente diverso, che non può essere riportato così al taglio meccanico di una serie temporale. Nello schema precedente, la negazione della negazione risulta dalla combinazione di due operazioni distinte, il cui adattamento corregge gli effetti, producendo una sorta d'equilibrio, ma queste due operazioni sono in se stesse identiche, equivalenti; tutta l'efficacia del processo proviene dalla loro ripetizione. Accade, «secondo una regola grammaticale ben nota» - dice Hegel stesso - che il risultato di quest'operazione è positivo, ma questa positività è soltanto constatata, non è razionalmente dimostrata, e nulla ne giustifica la necessità. Ancor più, anche ammettendo che due negazioni «fanno» una affermazione, nella misura in cui si succedono, nulla ci dice che l'operazione si svolgerà sempre fino alla fine, che una seconda negazione verrà a correggere la prima: il ritorno in sé del positivo, di conseguenza, non è più garantito.Neanche la negazione della negazione, nella dialettica hegeliana, si lascia ricondurre alla combinazione di due negazioni. In realtà si tratta di un processo intrinsecamente coerente e necessario, nel quale è la stessa negazione che, dal principio alla fine, sviluppa tutti i suoi effetti. In un primo momento, questa negazione si scopre come negazione finita, cioè che è astrattamente determinata, nel senso più usuale del negativo, come un atto d'opposizione che installa l'altro di fronte allo stesso e fuori dello stesso. Questo trattamento del negativo come esteriorizzazione è precisamente quello che Hegel attribuisce a Spinoza. Ma in un secondo momento - che succede al precedente in un modo che non è semplicemente cronologico, ma logico -, questa negazione si riprende e si comprende in se stessa come infinita. Appare allora che non ha, finalmente, altro oggetto che essa stessa, o anche che, presa assolutamente, è negazione di sé come negazione. La negazione della negazione non è dunque per Hegel la sovrapposizione di due negazioni che si annullano combinandosi - non si vede del resto come quest'aggiustamento potrebbe costituire un divenire -, ma il movimento unico e immanente di una negazione che va fino al fondo di sé stessa, che ritorna su di sé e produce, così, effetti determinati.La negazione assoluta è dunque la negazione che, negando qualcosa, si nega essa stessa in questa cosa come negazione e si risolve effettuandola (portando la cosa all’essere). È la negazione che non è già più soltanto negazione, ma che, andando più lontano, scopre in sé il cammino che conduce al positivo. Così,

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come abbiamo accennato poco fa, il negativo appare come un intermediario: la sua apparenza immediata è voltata, subordinata agli interessi del positivo di cui prepara l'evento. È per questo che l'espressione «negazione del negativo» sarebbe preferibile per designare l'insieme di questo processo, poiché marca bene il collegamento intrinseco tra i suoi momenti ed anche, nel confronto che si opera qui tra il positivo ed il negativo, il fatto che è il positivo quello che fissa le questioni in gioco e che deve importarle, mentre il negativo gli è inesorabilmente sottoposto, come un mezzo che il positivo utilizza per i propri fini. Ritorneremo ulteriormente su questo punto, poiché è essenziale.Rispetto a questa concezione sviluppata del negativo, le insufficienze dello spinozismo sono per Hegel evidenti:

«Spinoza resta alla negazione come determinazione o qualità: non va fino alla conoscenza di questa (negazione) come negazione assoluta, cioè (negazione) negantesi; pertanto la sua sostanza non contiene essa stessa la sua forza assoluta, e il conoscere di questa stessa sostanza non è conoscere immanente».101

Con la forma di riflessione astratta che si è fissato, lo spinozismo è un pensiero arrestato, incapace di afferrare il negativo nel movimento che lo porta irresistibilmente al di là di sé stesso, verso il positivo: «si arresta» alla negazione immediata, colta limitatamente come un negativo che è soltanto negativo, e «non va oltre» la risoluzione di questa negatività nell'effettivo ed il razionale, cioè nel concetto. È questo che spiega la caduta nel negativo alla quale giunge alla fine il suo sistema: avendo posto di primo acchito l'assoluto come identità immediata con se stesso, può rifletterlo soltanto nelle sue determinazioni esteriori astratte, che sono la negazione, e solamente la negazione. In modo tale che il cammino di questo negativo, lungi dal coniugare le apparenze della negatività facendo addivenire un positivo, non fa che rafforzare questa negatività, degradando gradualmente l'assoluto fino alla sua completa sparizione. La debolezza dello spinozismo deriva dal fatto che non ha potuto trovare nell'intelletto un'arma efficace contro il negativo, ed in particolare quest'arma assoluta che è la negatività infinita, o negazione della negazione, poiché questa appartiene al pensiero razionale, in quanto non si lascia ridurre alle determinazioni dell'intelletto, e ne garantisce lo sviluppo concreto, la vita immanente.Hegel dice anche che il ragionamento di Spinoza si scontra con opposizioni inconciliabili o insolubili perché non è giunto al processo razionale della contraddizione:

«L'intelletto ha determinazioni che non si contraddicono; non può far fronte alla contraddizione. Orbene, la negazione della negazione non è altro che la contraddizione, negando la negazione come semplice determinabilità, è da una parte affermazione e, d’altra parte, negazione in generale. E questa contraddizione, che è propriamente il razionale, è ciò che manca a Spinoza».102

Per Spinoza, determinare un essere, quale che sia, sarebbe determinarlo in modo finito: la determinazione è soltanto riflessa dall'intelletto come un limite, cioè - lo abbiamo visto - come una relazione di esteriorità. Perciò un essere è sempre determinato rispetto ad un altro essere, che ne costituisce la negazione. Così il pensiero, come attributo, cioè come determinazione della sostanza, si pone come un op-posto nella limitazione che lo separa da un altro attributo, l'estensione. Questi due termini non hanno in se stessi le condizioni della loro unità, che deve dunque essere riflessa fuori di essi, nella sostanza in cui sono indistinti, indifferenti. Così, dall'assoluto alle sue determinazioni, e da

101 Logica, II.102 Lezioni sulla storia della filosofia.

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queste determinazioni all'assoluto stesso, nessuna progressione razionale può essere stabilita, perché si tratta di termini irriducibili, legati da relazioni esclusivamente negative.Il pensiero razionale della contraddizione afferma, al contrario, l'unità degli opposti, e non si accontenta di associarli o riunirli in un equilibrio meccanico, ma ne rileva la relazione intima nel momento stesso in cui la realizza. La contraddizione (Widerspruch) si distingue dall'opposizione (Gegensetz) per il fatto di non essere una relazione fissata tra termini distinti ed antagonistici, ma di essere movimento irresistibile che scopre in ciascuno dei suoi elementi la verità dell'altro e li produce, in tal modo, come i momenti di un processo unico nel quale appaiono come inseparabili. La sostanza spinozista è, secondo Hegel, soltanto un'unità di opposti, perché risolve con un colpo di autorità, senza necessità vera, l'antagonismo esteriore delle sue determinazioni: il concetto hegeliano è un'unità di opposti perché il suo sviluppo è anche ritorno a sé che pone un'identità relazionando lo stesso con l'altro, e li riconosce così come solidali. Essendo l'assoluto, in Spinoza, dato all'inizio nella totalità di ciò che è, non può incamminarsi in questo movimento, appropriarsi della sua propria contraddizione per risolverla e divenire se stesso, ma deve subire gli antagonismi inevitabili nei quali lo fa cadere la sua pretesa irrisoria di essere immediatamente identico a sé.

È per questo che la concezione della determinazione come negazione, presa in un senso che non comprende ancora il movimento della negatività assoluta con il quale la negazione torna in sé stessa e diventa l'ausiliaria del positivo, rappresenta ancora il limite del pensiero spinozista: essa fa vedere chiaramente ciò che le manca per riuscire nel suo progetto di pensare l'assoluto. Questo è ciò che giustifica il tipo molto particolare di lettura applicato da Hegel alla filosofia di Spinoza, lettura per difetto: a tutti i livelli del testo, Hegel ritrova questa stessa necessità di pensare fino in fondo una contraddizione – cioè, di pensarla in vista della sua soluzione necessaria -, ed ogni volta constata anche la stessa impotenza di Spinoza a raggiungere quest'obiettivo, impotenza il cui migliore l'indice è l'assenza, nel suo sistema, del concetto di negazione della negazione.

Una dialettica impotente

Due esempi ci permetteranno di caratterizzare meglio questo approccio molto singolare che consiste nel riprendere una filosofia a partire dalla sua impotenza a realizzare le sue proprie tendenze: si tratta del commento che Hegel fa delle definizioni 1 e 6 del libro I dell'Etica.La prima definizione ha per oggetto la causa sui, questa nozione primordiale che implica una riflessività della sostanza ed innesca la trasformazione con la quale si converte in soggetto: «Se Spinoza avesse continuato sviluppare più da vicino ciò che questa causa sui implica, non sarebbe arrivato, come arriva, alla conclusione che la sostanza è l'Immobile (das Starre)» (Lezioni). Cosa contiene dunque questa nozione, e come è potuto passare inosservato questo contenuto? Hegel commentò la prima volta questa definizione in un testo pubblicato a Iena nel 1802:

«Spinoza comincia la sua Etica con la seguente dichiarazione: per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza, o, il che è lo stesso, ciò la cui essenza non può essere compresa che come esistente. Ma, il concetto di essenza o natura può essere posto soltanto se si fa astrazione dell'esistenza; uno esclude l'altro; l’uno è determinabile soltanto in opposizione all'altro; se si collegano i due e li si pone come uno, allora la loro relazioneo contiene una contraddizione, e tutti e due vengono allo stesso tempo negati».103

Hegel scopre qui nello spinozismo un riferimento positivo perché lo interpreta di primo acchito in un senso dialettico: l'unità necessaria posta nella causa sui tra l'essenza e l'esistenza è razionale in quanto

103 Scetticismo e filosofia.

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è l'unità di una contraddizione di cui costituisce la soluzione. Sembra dunque che Hegel abbia iniziato più tardi a sospettare che Spinoza restasse in un pensiero dell'intelletto: per il momento, scopre in lui un arpiglio, nel suo sforzo per giustificare il «lato negativo)»104 cosa che comporta in sé ogni filosofia autentica e che è la condizione effettiva della sua razionalità. Allora Spinoza sta, se si può dire, dal lato buono della ragione, dato che assicura il suo trionfo sulle opposizioni nelle quali l'intelletto resta fermo, e impedisce così

«[…] la trasformazione del razionale in riflessione e la conoscenza dell'assoluto in conoscenza finita. Ma, la forma fondamentale che conduce da un estremo all'altro questa trasformazione consiste nello stabilire come principio l'opposto della prima definizione di Spinoza, che esplica una causa sui come ciò la cui essenza implica allo stesso tempo l'esistenza, e nell’affermare come principio fondamentale che il pensiero (das Gedachte), per il fatto di essere un pensato, non implica allo stesso tempo un essere (ein Sein). Questa separazione del razionale, nella quale pensiero ed essere sono uno, nei termini opposti di pensiero ed essere, questo attaccamento assoluto a questa opposizione, dunque l'intelletto eretto in assoluto, costituisce il fondamento che questo scetticismo dogmatico ripete senza sosta e che applica ovunque.»105

Affinché la filosofia di Spinoza sfugga alla condanna così lanciata contro la riflessione astratta, ed anche perché serva per sopraffarla un po' di più, occorre procedere poi ad una doppia trasposizione: dapprima, riportare la relazione che stabilisce la definizione tra essenza ed esistenza alla relazione tra pensiero e essere; poi, identificare questa relazione come una contraddizione, e l'oggetto definito, la causa sui, come la risoluzione di questa contraddizione. È manifesto che il carattere «autenticamente razionale» della filosofia di Spinoza può essere riconosciuto soltanto a condizione che venga distorto. Ma cosa resterà di questa razionalità se, ritornando alla sua letteralità, si rinuncia a queste trasposizioni che la salvano?A dire il vero, il commento di questa stessa definizione che Hegel proporrà più tardi nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia ci allontana ancora un po' di più dal testo:

«L'unità del pensiero e dell'esistenza (die Einheit des Gedankens und der Existenz) è immediatamente allo stesso tempo posto [l’essenza è il generale, il pensiero]; è di quest'unità che si tratterà eternamente. Causa sui è un'espressione importante. L'effetto è opposto alla causa. La causa di sé è la causa che produce un effetto, separa un altro, ma ciò che fa uscire è sé stessa. In questa fuoriuscita, essa supera così la differenza; la posizione di sé come un altro è la caduta ed allo stesso tempo la negazione di questo declino. Si tratta di un concetto completamente speculativo. Noi ci rappresentiamo che la causa produca un qualche effetto, e che l'effetto sia qualcosa di diverso dalla causa. Al contrario, l'esteriorizzazione della causa (das Herausgehen der Ursache) è qui immediatamente superata, la causa di sé non produce che sé; è un concetto fondamentale per qualsiasi speculazione. È la causa infinita nella quale la causa è identica all'effetto. Se Spinoza avesse sviluppato più da vicino ciò che c'è nella causa sui, la sua sostanza non sarebbe stata l'Immobile.»

È una nuova contraddizione che Hegel scopre questa volta nella causa sui: la contraddizione tra la causa e l'effetto. Questa contraddizione, che porta in sé la causalità della sostanza - poiché la causa può essere pensata soltanto in relazione ai suoi effetti, nei quali si manifesta [esteriorizza] -, si vede dall’inizio superata nell'identità con se stessa della sostanza, che fonda l'unità degli opposti, causa ed

104 Ibid.105 Ibid.

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effetto. Ma questa «dialettica» si arrestata dal principio perché Spinoza, anziché far coincidere il suo sistema con lo sviluppo di questa contraddizione, la dà subito questa come risolta, ponendo immediatamente l'identità con se stessa della sostanza. Bell’esempio di filosofia a colpi di pistola106, che esaurisce dall'inizio tutto il tenore del suo contenuto, e non ha poi più nulla da dire (più nulla a dire che sia vero, s’intende). Sviluppare con più precisione ciò che c'è nella causa sui non potrebbe significare che una cosa sola: mantenere la contraddizione aperta tutto il tempo necessario alla sua maturazione, affinché la sua soluzione comprenda tutti gli intermediari necessari alla sua realizzazione, anziché richiuderla subito sotto l'impulso di quest'impazienza teorica che «richiede l'impossibile: raggiungere l’obiettivo senza i mezzi».107

Dalle prime righe dell'Etica, Hegel scopre dunque il segno dell'insufficienza caratteristica dello spinozismo: presentata implicitamente, la contraddizione è privata, tuttavia, della sua spiegazione razionale in una esposizione ordinata e progressiva.Nella sesta definizione, il cui oggetto è Dio, Hegel scopre la stessa promessa di razionalità incompiuta. Nel suo commento delle Lezioni, si interessa soprattutto alla spiegazione che accompagna questa definizione, e che riguarda la differenza tra i due infiniti, l'assolutamente infinito e l'infinito solo nel suo genere. Ecco questa spiegazione, così come è stata formulata da Spinoza:

«Dico assolutamente infinito, e non nel suo genere, poiché, di ciò che è meramente infinito nel suo genere, possiamo negare infiniti attributi, mentre all'essenza di ciò che è assolutamente infinito compete tutto ciò che esprime la sua essenza, e non implica alcuna negazione».

Se questo testo attira l'attenzione di Hegel è perché il concetto di negazione vi appare in termini propri: deve pertanto trovarvisi un'indicazione sull'interpretazione spinoziste di questo concetto.

Ciò che è assoluto soltanto nel suo genere, cioè, l'attributo, è ciò di cui si può negare un'infinità di cose. Hegel interpreta questa particolarità nel modo seguente: l'attributo è ciò la cui natura implica una negazione e, come tale, è una determinazione della sostanza, determinazione esterna, soltanto negativa… Questo infinito è, prosegue, il «cattivo infinito», l'infinito dell'immaginazione, che è rappresentato soltanto da un passaggio al limite, «e così via all'infinito». Questo si oppone all'infinito del pensiero, o all’assolutamente l'infinito, che si tiene fuori da tutte le negatività, ed è pura affermazione di sé, o anche infinito in atto, cioè, l'infinito concepito come effettivo e non rappresentato soltanto come un possibile. Ed Hegel conclude questa sintesi esclamando: «Ed è completamente giusto. Ma avrebbe potuto esprimerlo meglio dicendo: ‘è la negazione della negazione’». Se si prende la relazione tra gli attributi come una contraddizione - ed abbiamo visto, infatti, che Hegel considera, per sviluppare la nozione attributo, soltanto due attributi, il pensiero e l’estensione, e li colloca uno in relazione all'altro -, Dio è questa contraddizione risolta, nella misura in cui è allo stesso tempo affermazione assoluta di sé e negazione assoluta, cioè, superamento di tutte le negazioni specifiche che costituiscono l'essenza specifica di ogni attributo; in questo modo, s'innesca anche un movimento verso il razionale - completamente caratteristico del procedere di Spinoza, così come Hegel lo comprende -, anche se questo movimento si arresta immediatamente, e la feconda contraddizione subito fissata in un'opposizione sterile ed astratta.L'abuso di quest'interpretazione proposta da Hegel si attiene evidentemente al fatto che Spinoza non dice da nessuna parte che l'essenza che costituisce ciascun attributo «implica una negazione». Senza di che evidentemente questa essenza non potrebbe più essere «concepita per sé». D'altra parte, allorché

106 «[...] l'entusiasmo che, come un colpo di pistola, comincia immediatamente con la conoscenza assoluta, e si sbarazza degli altri punti di vista dichiarando che non sono degni di essere presi in considerazione» (Prefazione alla Fenomenologia).107 Ibid.

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Spinoza scrive che l'assolutamente infinito comprende nella sua essenza «tutto ciò che esprime la sua essenza, e non implica alcuna negazione», quest'espressione designa gli attributi stessi in quanto stanno tutti nella sostanza che si esprime in essi in maniera completamente affermativa: per introdurre nell'essenza dell'attributo una negatività, occorre staccarlo dalla sostanza nella quale esiste per provare a comprenderlo, in maniera astratta, a partire dalla differenza che lo separa da tutti gli altri; occorre dunque cessare di concepirlo per sé - ma non è tale che nella sostanza - per concepirlo nella sua relazione ad altre essenze, che esso nega e che lo negano. Ora è assolutamente necessario che Hegel inverta così la vera natura degli attributi - abbiamo visto come: non considerandone che due e ponendoli in una relazione d'opposizione – perché possa identificare l'infinità degli attributi, di ciò che è «infinito soltanto nel suo genere», all'infinito dell'immaginazione o al «cattivo l'infinito», così come Spinoza lo caratterizza, d'altra parte, nella sua lettera 12 a Louis Meyer. Ciò che è infinito nel suo genere non è dunque meno, o differentemente infinito, di ciò che è assolutamente infinito, poiché non è infinito che in sé.

È per questo che non è permesso dire, come ha fa Hegel, che manca alla filosofia di Spinoza l'idea di negazione della negazione, e che sia essa la causa della sua imperfezione o della sua incompiutezza. Poiché dice Spinoza stesso, il termine imperfezione significa «che a un essere manca ciò che tuttavia gli appartiene per sua natura».108 Ma, l'idea «di negazione della negazione», e la concezione molto particolare della contraddizione che le sta legata, è precisamente ciò che il ragionamento seguito da Spinoza esclude decisamente. I commenti di Hegel che abbiamo appena riprodotto sono quindi, più che erronei, incongruenti, nella misura in cui applicano per forza alla dimostrazione spinozista il tipo di argomentazione che questa aveva dovutamente eliminato fin dall'inizio, come lo stesso Hegel segnala in un'altra parte. In tutti i modi, questa incongruenza non è gratuita, ma è paradossalmente pertinente, poiché mette chiaramente in evidenza, al contrario, una caratteristica essenziale della filosofia spinozista, la sua resistenza ad una certa forma d'argomentazione alla quale è vano misurarla perché ne costituisce in anticipo la confutazione: la dialettica hegeliana.

Il finito e l’infinito

Ritorniamo ora alla formula «omnis determinatio est negatio» e vediamo quale è il suo significato per Spinoza stesso. Esso appare nella lettera 50 a J. Jelles, alla quale abbiamo già abbiamo fatto riferimento per spiegare che Dio, così come lo concepisce Spinoza, non può che impropriamente essere caratterizzato come un essere unico. Letteralmente c’è scritto: «determinatio negatio est», e vi assume la forma di una affermazione incidentale. Nel suo commento dell'Etica109 L. Robinson arriva a supporre a che questa frase non sia della penna di Spinoza, la cui lettera era scritta originalmente in Olandese, ma che sia stata aggiunta, come spiegazione, nella versione latina. Senza arrivare a questa posizione estrema, vediamo subito quale divergenza c'è tra questa frase, così come appare nel testo latino della lettera di Spinoza, e ciò che Hegel ne ha ricavato: da una proposizione incidentale che rinvia ad un contesto molto particolare, sul quale ritorneremo, Hegel ne ha fatto una proposizione generale, che assume un significato universale, con l'aggiunta di una piccola parola che cambia tutto e che confonde molte cose: omnis.Ma, nella lettera 50 a J. Jelles, Spinoza non affronta il problema della determinazione in generale, ma lo prende in relazione a un caso molto particolare che è quello della figura. Occorre riprendere il passaggio integralmente:

108 Lettera 36 a Hudde.109 Lewis Roamson, Kommentar zu Spinozas Ethik, Lipsia, 1928, p. 103.

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«Quanto al fatto che la figura è una negazione, e non realmente qualcosa di positivo, è manifesto che la materia pura, considerata in modo indefinito, non può avere alcuna figura, e che la figura trova posto soltanto nei corpi finiti e determinati. Poiché chi dichiara di percepire una figura non indica con ciò null'altro che il fatto che concepisce una cosa determinata, ed il modo in cui è determinata. Dunque questa determinazione non appartiene alla cosa secondo il suo essere (juxta suum esse), ma al contrario è ciò che essa non è (ejus non esse). È per questo che dunque, essendo la figura soltanto una determinazione - e la determinazione è una negazione -, non potrà, come è stato detto, essere altro che una negazione».

Questo testo non si presta ad alcun equivoco, purché lo si comprenda integralmente. Il suo «oggetto» è la figura, che è una realtà molto particolare nella misura in cui non è né un'idea né una cosa, ma un limite: in questo senso, non è un essere fisicamente reale, ma soltanto un ente di ragione, ed è per questo che il suo contenuto è negativo. Così, «percepire una figura», non è per niente «percepire» una cosa così come è, ma è «concepirla» come determinata, cioè in quanto limitata da un'altra cosa: la figura non esprime null'altro che questa limitazione reciproca che esiste tra «corpi finiti e determinati», e che li rappresenta non secondo il loro essere proprio, ma secondo ciò che essi non sono.Per anticipare, accostiamo questa definizione di ciò che dice Spinoza in un'altra lettera in cui tratta, in altri termini, lo stesso problema:

«Per quanto riguarda il tutto e le parti: considero le cose come parti di un certo tutto, in quanto ciascuna di esse si adatta a tutte le altre, in modo tale che stanno tutte tra loro, e per quanto possibile, armoniose e concordanti; ma, in quanto queste cose si oppongono, ciascuna di esse forma allora nel nostro spirito un'idea distinta e deve essere considerata non come una parte, ma come un tutto (12. Lettera 32 di Spinoza a Oldenburg)».110

Percepire una figura, è concepire una cosa come limitata da un'altra che le si oppone; è dunque considerarla come un tutto, e distinguerla dalle altre cose che non appartengono a questa configurazione. Ma, se ci si mette ad un altro punto di vista, secondo il quale al contrario essa si adatta, o si confà alle cose che appaiono qui come agenti su di essa dell'esterno, essa si presenta come una parte, in rapporto a un tutto che procede esso stesso da un'altra determinazione. Ne risulta, dapprima, che la rappresentazione della figura dipende non dalla cosa che essa limita, ma dal punto di vista dell'intelletto che la ritaglia nel concatenamento infinito delle cose singolari, considerandola come un tutto. D'altra parte - e vedremo che quest'idea è molto importante per Spinoza -, la nozione di totalità, in quanto dipende da una tale determinazione, non rappresenta l'esistenza positiva di un essere, che si afferma una volta per tutte in un'individualità stabilita: ma comporta in sé l'idea di una limitazione, e, attraverso di essa, di una negazione. Qui si delinea la distinzione, scandalosa per Hegel, tra sostanza e soggetto: la sostanza è ciò che non può essere soggetto, nella misura in cui, essendo assoluta, dunque indeterminata, non può essere determinata come un tutto; per contro, il soggetto è ciò che, per sua limitazione propria, non può essere sostanza.Ciò che è problematico qui è la nozione di determinazione. È manifesto che, come funziona nella lettera 50 a J. Jelles, non si applica a qualsiasi tipo di realtà. Non riguarda ovviamente gli attributi che sono essi stessi illimitati e la cui essenza non comporta alcuna negazione: abbiamo sufficientemente spiegato che non si limitano l'un l'altro, in conseguenza della loro infinità e la condizione del loro carattere sostanziale; d'altra parte, sarebbe assurdo se si limitassero essi stessi, ed in sé stessi. Ma, la nozione di determinazione, così come viene qui definita, può anche applicarsi ai modi, ad esempio al

110 Lettera 32 di Spinoza a Oldenburg

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modo dell'estensione, la cui esistenza implica al contrario una limitazione? Non sembra trattarsi neppure di questo.Infatti, i corpi «finiti e determinati» non sono determinati in questo senso, cioè negativamente, a meno che un intelletto li concepisca dal punto di vista della loro limitazione reciproca, indipendentemente dall'ordine effettivo della natura, all'interno del quale essi convengono tra loro, come le parti di un tutto. Allora il concatenamento dei modi si presenta come una successione discontinua, i cui termini sono separati per il fatto che si negano gli uni agli altri, opponendosi. Ma questa rappresentazione è adeguata? Non lo è certamente, nella misura in cui non conosce i suoi oggetti a partire dalla loro causa, la sostanza infinita che si esprime in loro in modo assolutamente continuo: ponendo il finito fuori dell'infinito, come il negativo rispetto al positivo, lo considera dal punto di vista astratto dell'immaginazione che separa ciò che è intimamente unito, e che interpreta ogni totalità come se fosse costituita in sé stessa, a partire dal rapporto delle sue parti.Determinare l'estensione attraverso la figura, come ha fatto Cartesio, è concepirla negativamente, riportandola ad una relazione di limitazione reciproca, indifferente ed incompleta, a un ordine astratto nel quale il movimento può intervenire soltanto dell'esterno:«Quanto all'estensione cartesiana concepita come una massa inerte, non soltanto è problematico ma completamente impossibile dedurne l'esistenza dei corpi. La materia in quiete, infatti, persevererà nella sua quiete fintanto che è in sé; essa sarà messa in movimento soltanto da una causa esterna più potente; è per questo che non ho esitato in precedenza ad affermare che i principi cartesiani della natura sono inutili per non dire assurdi ».111

È anche comprenderla esclusivamente dal punto di vista del finito, a partire dal quale la sua infinità non può essere colta senza contraddizione, come indica chiaramente la lettera 12 a Louis Meyer:

«Scherzano, per non dire sragionano, quelli che pensano che la sostanza estesa sia composta di parti, cioè di corpi realmente distinti gli uni degli altri. È come se qualcuno cercasse, con l'aggiunta e l'accumulo di una moltitudine di cerchi, di produrre un quadrato, un triangolo o qualche altro oggetto di essenza radicalmente diversa da quella del cerchio».

Il modo la in cui procede l'immaginazione è qui evidente: per apprendere l'estensione la determina o la divide, e tenta in seguito di ricostituirla, di generarla, a partire dagli elementi così ottenuti. Ma questa «genesi» può essere soltanto fittizia: non esprime null'altro che l'impotenza dell'immaginazione a rappresentare l'infinito che dividendolo, in modo strettamente negativo, dunque inadeguato alla sua essenza. Ora, il quantitativo, preso così come è in sé, così come lo concepisce l'intelletto, appare al contrario come indivisibile, cioè non riducibile a parti discrete, che ne sono soltanto la negazione e a partire dalle quali non può essere compreso positivamente.È ciò che, in un'osservazione del libro I della Logica dedicata al «concetto della quantità in Spinoza» 112, Hegel designa con la nozione di quantità pura, appoggiandosi allo scolio della proposizione 15 (Etica, l):

«Se facciamo attenzione alla quantità così come si dà nell'immaginazione – che è il caso più frequente e più facile - noi la troveremo finita, divisibile e composta di parti; se al contrario facciamo attenzione a ciò che è per l'intelletto e la concepiamo come sostanza, cosa che è più difficile, allora, come abbiamo già sufficientemente dimostrato, la troveremo infinita, unica ed indivisibile.»

111 Lettera 81 di Spinoza a Tschirnhaus112 Logica, Trad. Labarrière

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Determinare la quantità riportandola ad una causa esterna, è negare il suo infinito, il quale impedisce di comprenderne positivamente la sua l’essenza. È a questo proposito che Spinoza introduce una distinzione tra ciò che Hegel chiama cattivo infinito e l'infinito razionale; ma questa distinzione non ha nulla a che vedere con quella dell'infinito nel suo genere e l'assolutamente infinito. Il cattivo infinito corrisponde all'attitudine dell'immaginazione che pretende di comprendere ogni cosa determinandola, cioè negandone la sua essenza, in una conoscenza necessariamente inadeguata. Ma questa deformazione riguarda tanto la sostanza che le sue affezioni:

«Come ci sono numerose cose che possiamo afferrare soltanto con l'intelletto ed in nessun modo con l'immaginazione, quali la sostanza, l'eternità, ecc., ci si applica realmente a sragionare con l'immaginazione se si tenta di spiegare tali concetti per mezzo di nozioni come il tempo, la misura, ecc., che sono soltanto ausiliari di quest'immaginazione. Anche i modi della sostanza non possono essere conosciuti correttamente se li si confonde con questi enti di ragione o ausiliari dell'immaginazione. Quando facciamo questa confusione, infatti, li separiamo dalla sostanza e dal modo in cui derivano dall'eternità, trascurando così che senza questa non possono essere conosciuti (15 - lettera 12 a Louis Meyer)».113

Conoscere adeguatamente i modi finiti, consiste nel concepirli non a partire dalla loro finitudine, cioè della loro limitazione reciproca (Cfr. Etica, I, def. 2), ma a partire dall'infinito da cui dipendono e da cui devono essere compresi nel loro concetto, se è vero che «la conoscenza dell'effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica» (Etica, I, assioma 4). Per l'immaginazione, al contrario, la finitudine è un dato in sé indispensabile, e la rappresenta tal quale, fuori di qualsiasi riferimento all'infinito, con mezzi strettamente finiti, cioè, come dice Spinoza, con la misura e con il numero: questa fissazione al finito, l'immaginazione la traspone all'infinito, che tenta di analizzare con l'ausilio di questi stessi strumenti, invano.Per far comprendere questa relazione d'implicazione o d'avvolgimento che lega il finito all'infinito per una conoscenza adeguata, Spinoza prende in prestito dalla geometria un esempio sul quale occorre insistere, poiché Hegel vi si è riferito a più riprese: nel capitolo delle Lezioni sulla storia della filosofia (commento della VI definizione del libro I dell'Etica); nel libro I della Logica (osservazione storica sull’infinito matematico che si trova alla fine del capitolo sul quantum). Affinché la discussione guadagni un po'in chiarezza, cominciamo col riprendere l'esempio geometrico così com’è dato da Spinoza:

«Tutte le diseguaglianze dello spazio (inegalitates spatii) interposto tra due cerchi, AB e CD, e tutte le variazioni che deve subire la materia che muta in questo spazio, sono superiori a qualsiasi numero. E ciò non segue dell'ampiezza eccessiva dello spazio interposto: infatti, per quanto piccola sia la parte di questo spazio che prendiamo, tuttavia le diseguaglianze di questa piccola parte saranno superiori a qualsiasi numero. E ciò non si conclude neppure, come avviene in altri casi, dal fatto che non abbiamo né massimo né minimo; infatti, nell’esempio qui presentato, abbiamo l’uno e l'altro: il massimo è AB e CD il minimo; ma da ciò si conclude soltanto che la natura dello spazio interposto tra due cerchi aventi centri distinti non può sopportare nulla del genere. È per questo che se qualcuno volesse determinare con qualche numero (certo aliquo numero determinare)

113 Lettera 12 a Louis Meyer

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questa variazione dovrà allo stesso tempo concludere che un cerchio non è qualcosa di circolare».114

In questo testo, «lo spazio interposto» tra i due cerchi non concentrici indica l'insieme delle distanze, comprese tra AB e CD, che separano le due circonferenze. «Le disuguaglianze di questo spazio», sono l'insieme delle differenze tra queste distanze disuguali o la loro variazione. Quest'insieme non è riducibile ad alcun numero, poiché si tratta di una variazione continua, che è una conseguenza della circolarità delle figure ADA e BCB. Ma questa «incertezza» non deriva dal fatto che lo spazio interposto tra i due cerchi sia “di un’ampiezza troppo grande », cioè che la sua dimensione è illimitata: al contrario, essa è limitata dalle due circonferenze, e questa limitazione è segnata dai due segmenti disuguali, AB e CD, che sono le forme estreme della sua variazione. Del resto, se si prende una parte soltanto di questo spazio, ad esempio andando da AB verso CD nel senso delle lancette di un orologio, la stessa incertezza persiste: appare inoltre in questo caso che la somma delle diseguaglianze delle distanze comprese in questo semi-spazio, senza poter essere rappresentata da nessun numero, è la metà della somma delle diseguaglianze della distanza dello spazio totale compreso tra le due circonferenze, insieme che non è neppure riducibile a nessun numero: è la lettera 81 a Tschirnhaus che aggiunge questa precisazione.Le difficoltà che illustra quest'esempio non sono tali per l'immaginazione che vuole rappresentare ogni cosa con dei numeri, e che, nel caso presente, cerca di analizzare la grandezza con un numero, cosa che la conduce a paradossi insolubili. Ma i matematici, che percepiscono queste cose chiaramente e distintamente, non si lasciano fermare da questi paradossi:

«In effetti, oltre al fatto che hanno trovato molte cose che non possono essere spiegate da alcun numero, cosa che rende abbastanza manifesta l'impotenza dei numeri a determinare tutto, ne hanno anche molte che non possono essere uguagliate (adaequari) a nessun numero, ma che sono superiori a qualsiasi numero che possa essere dato. E tuttavia non concludono che tali cose sono superiori a qualsiasi numero a causa della moltitudine delle loro parti, ma a causa del fatto che la natura della cosa non può, senza contraddizione manifesta, supportare il numero (numerum pati)».

Ci sono grandezze limitate che non possono essere numerate, perché il movimento che le costituisce è assolutamente continuo, e dunque indivisibile. È l'immaginazione che vede là una contraddizione, e si arresta, mentre per l'intelletto la nozione del continuo è perfettamente chiara e distinta.Vediamo ora come Hegel interpreta questo stesso esempio, inizialmente secondo il testo della Logica, che è della mano di Hegel, mentre quello delle Lezioni è stato ricostituito a partire da note di allievi che hanno più o meno ben compreso e registrato il ragionamento di Hegel:

«Si sa che il suo esempio dell’ infinito vero è uno spazio tra due cerchi disuguali, di cui l'uno cade all'interno dell'altro senza toccarlo, e che non sono concentrici. Dava grande importanza, sembra, a questa figura e al concetto; un esempio nel modo in cui li utilizzò, è che ne fece il tema principale (Motto) della sua Etica. “I matematici, dice, concludono che le diseguaglianze che sono possibili in tale spazio sono infinite non a causa della moltitudine infinita delle parti, poiché la sua grandezza è determinata e limitata, e si possono porre tali spazi più grandi e più piccoli, ma perché la natura della cosa supera ogni determinatezza (weil die Natur des Sache jede Bestimmheit übertrifft).” Come si vede, Spinoza respinge questa rappresentazione dell'infinito secondo la quale è rappresentato come moltitudine o come serie che non sono complete, e ricorda che qui, nello spazio che riporta nell'esempio,

114 Lettera 12 a Louis Meyer.

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l'infinito non è al di là ma è presente e completo (gegenwärtig und vollständig); [questo spazio è uno spazio infinito “perché la natura della cosa supera (übersteigt) ogni determinabilità”, perché la determinazione della grandezza che vi si trova contenuta, allo stesso tempo non è un quantum. Quest'infinito di una serie, Spinoza lo chiama infinito dell'immaginazione; per contro, l'infinito come relazione a sé, lo chiama l'infinito del pensiero o infinitum actu. È infatti actu, è effettivamente infinito, perché in sé è completo e presente (vollendet und gegenwärtig)]».115

Nella seconda edizione della Logica, il passaggio tra parentesi quadre è modificato nel modo seguente:

«Questo spazio è qualcosa di limitato, ma anche qualcosa di infinito “perché la natura della cosa supera ogni determinatezza”, perché la determinazione di grandezza che vi è compresa non è neppure rappresentabile come un quantum, o, d’accordo con l'espressione kantiana già citata, la sintesi che conduce ad un quantum - discreto - non può concludersi. Come in generale, l'opposizione tra quantum continuo e discreto conduce all'infinito, ciò deve essere chiarito in una nota ulteriore. Quest'infinito di una serie, Spinoza lo nomina l'infinito dell'immaginazione; l'infinito, al contrario, come relazione a sé stesso [lo chiama] l'infinito di pensiero o infinitum actu. È propriamente actu, è effettivamente infinito, perché è in sé completo e presente».

Ecco infine come lo stesso esempio è presentato e commentato nelle Lezioni sulla storia della filosofia:

«Spinoza introduce qui per illustrare il concetto di infinito degli esempi geometrici; nelle sue opere postume, ad esempio, fornisce una figura come immagine di quest'infinito (anche prima della sua Etica). Pone due cerchi che sono l'uno dentro l'altro senza essere concentrici. La superficie tra i due cerchi non può essere data, non può essere espressa in un rapporto determinato, non è commensurabile; se volessi determinarla, dovrei continuare all'infinito - una serie infinita. Questo è il di fuori (das Hinaus), che è sempre per difetto, la negazione; e tuttavia questo cattivo infinito è concluso (fertig), limitato - affermativo, presente in questa superficie. L'affermativo è anche negazione; duplex negatio affirmativa, secondo la ben nota regola grammaticale. Lo spazio tra i due cerchi è effettivo, è uno spazio circoscritto, interamente e non in un solo lato; e pertanto la determinazione dello spazio non si lascia sufficientemente indicare da un numero. Determinarlo non crea lo spazio stesso, e tuttavia è presente. O anche una linea, una linea limitata, consiste in una infinità di punti multipli; e tuttavia è presente, è determinata. L'infinito deve essere rappresentato come effettivamente presente. Il concetto di causa sui è così l'effettività vera. Appena la causa ha di fronte a sé un altro, l'effetto, si ha a che fare con la finitezza; ma qui questo altro è allo stesso tempo superato, è nuovamente essa (la causa) stessa».

Leggendo questi testi, ci si può d’acchito chiedere se si riferiscano proprio al passaggio di Spinoza che abbiamo riprodotto per cominciare, tanto lo interpretano liberamente. Questo dubbio potrebbe trovare conferma nel fatto che Hegel, ogni volta, si riferisce ad una «lettera XXIX di Spinoza». Ma, in tutte le edizioni della corrispondenza, questo numero corrisponde ad una lettera di Oldenburg che parla di tutt'altra cosa. Pertanto occorre ammettere che è proprio la lettera XII a Louis Meyer che è qui interessata; ma lo è al prezzo di un certo spostamento del suo contenuto effettivo.

115 Logica. l, testo della prima edizione.

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In primo luogo l'esempio, così come Hegel lo riproduce, non è lo stesso di quello che è dato nel testo di Spinoza: in ogni caso, la stessa figura è sfruttata in sensi ben diversi, come ha osservato il M. Gueroult .116 Spinoza, lo abbiamo visto, considera la variazione delle distanze comprese tra le due circonferenze, ed osserva che è continua. Per questo non può essere determinata da un numero. Nella Logica e nelle Lezioni, Hegel parla soltanto dello spazio interposto tra le due circonferenze, che è costituito da un'infinità di distanze diseguali, e che è tuttavia «completo e presente», poiché è compreso in limiti stabiliti. Se si interpreta così l'esempio ovviamente non ne vede più quale interesse abbia a presentare cerchi non concentrici: lo stesso ragionamento varrebbe se le distanze che separano le due circonferenze fossero ovunque uguali. Hegel trascura dunque qualcosa, che è al contrario essenziale nel ragionamento proposto da Spinoza: è l'idea di una variazione compresa tra un minimo ed un massimo, dunque di una progressione determinata, che non può tuttavia essere rappresentata da un numero.Ma non è la modifica più importante apportata al testo di Spinoza. Più caratteristico ancora è il fatto che Hegel vi introduca, vi inietti, la nozione di infinito in atto, che non vi appare espressamente, come si potrà facilmente constatare riferendosi al testo che abbiamo riprodotto più su. È vero che la lettera da cui questo testo è estratto è conosciuta sotto il nome di lettera sull'Infinito (Spinoza stesso utilizza questa espressione nella sua lettera LXXXI a Eschirnhaus), e che comincia così: «Mi chiedete ciò che penso dell'Infinito, cosa che farò bene volentieri». Come prende posto l'esempio geometrico nel contesto di questa discussione sull'infinito?Per uscire dalle difficoltà che implica l'impiego corrente della nozione di infinito, impiego imposto dall'immaginazione, basta, dice Spinoza, rispettare un certo numero di distinzioni. Vi è ciò che è infinito con sua natura (e che si concepisce per sé come infinito) e ciò che è infinito per la forza della sua causa (e non per la sua essenza propria); vi è ciò che è infinito perché è senza limiti, e ciò che è infinito perché non è determinabile numericamente. Abbiamo a che fare qui con due distinzioni successive, esposte senza precisione sul campo che condividono, o che si dividono: nel suo commento della lettera sull'Infinito, M. Gueroult le riporta all'enumerazione di quattro casi successivi, cosa che, rispetto al testo di Spinoza, sembra eccessiva. Queste due distinzioni rinviano a quella della sostanza (che è concepita per sé) e delle sue affezioni (che non possono essere concepite per sé), ed anche a quella della ragione (che conosce le cose adeguatamente, così come sono) e dell'immaginazione (che rappresenta le cose in modo inadeguato). I paradossi tradizionali sull'infinito derivano dal fatto che queste distinzioni non sono rispettate: basterebbe, al contrario, ristabilirle perché tutte le contraddizioni siano non risolte, ma cancellate, poiché dipendono soltanto dai termini nei quali un problema era stato, mal, posto.L'esempio geometrico, così come è introdotto da Spinoza, si riferisce ad una di queste distinzioni: essa fa vedere ciò che è infinito perché non può essere determinato da alcun numero, benché sia compreso entro certi limiti. Occorre ricordarsi che è l'immaginazione che è portata a determinare con un numero una progressione continua compresa tra un minimo ed un massimo: per questo tenta di dividerla in parti e di ricostituire la variazione a partire da questi elementi. Ma la progressione, essendo continua, non può essere divisa in questa forma. Per questo appare che essa non può essere determinata numericamente. Attenendosi strettamente a questo ragionamento, è dunque l'immaginazione che scopre qui un infinità, in un quantum che non riesce ad uguagliare ad alcun numero, e che determina dunque, con un passaggio al limite, come superiore a qualsiasi numero, dunque come illimitata. In cosa che questa rappresentazione è inadeguata? Nel fatto che ignora questo dato essenziale, che il suo oggetto è limitato poiché è compreso tra un minimo ed un massimo. Esso è dunque finito, nel senso preciso che Spinoza dà di questa nozione («è detta finita nel suo genere la cosa che può essere limitata da un'altra della stessa natura», Etica, I, definizione 2). Sembra dunque che l'errore

116 Spinoza, t. I.

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dell'immaginazione consista nel prendere come infinita, nel suo tentativo di determinarla numericamente, una cosa che è di per sé, se si può dire, finita.Ma le cose non sono così semplici, né così decise. Non basta, per sfuggire all'inclinazione dell'immaginazione, ristabilire una separazione netta tra l'infinito in senso stretto, cioè l'illimitato, e il finito, cioè il limitato. Poiché tale separazione, presa alla lettera, è generata anche dall'immaginazione: questa trascura un carattere essenziale del finito, che non si spiega per sé, che non è nulla al di fuori dell'infinito al che lo produce e di cui implica necessariamente il concetto. Da questo punto di vista, l'esempio geometrico rientra anche in un altro dei casi distinti da Spinoza: quello di ciò che è infinito per la forza della sua causa, che è il proprio di tutti i modi, che siano essi infiniti o finiti. La variazione delle distanze comprese tra i due cerchi non concentrici è anche infinita, non in sé stessa poiché è limitata, ma come affezione della sostanza che si esprime in essa come la causa nel suo effetto.È qui che apparentemente ritroviamo Hegel, poiché questo, nonostante tutte le libertà che si prende con il testo di Spinoza, ne individua bene alcune tendenze essenziali. Da un lato, infatti, Hegel ha capito che ciò che è in gioco nell'esempio è un certo aspetto del problema della causalità, rappresentato dalla relazione della sostanza con le sue affezioni. D'altra parte, designa questa relazione con la nozione di infinito in atto (infinitum actu), in un modo che sembra pertinente. Questa nozione appare in Spinoza nel paragrafo che precede quello dove l'esempio geometrico è esposto: coloro che, dice, ignorano la vera natura delle cose perché la hanno confusa con gli enti di ragione con i quali l'immaginazione tenta di rappresentarla (cioè il numero, la misura ed il tempo) «negheranno l'infinito in atto» (infinitum actu negarunt). Cos'è un infinito in atto? È un infinito che non si dà in una serie illimitata, dunque in modo virtuale o potenziale, ma tutto d'un colpo: è esso che è presente in una realtà limitata, come una variazione compresa tra un minimo ed un massimo, in modo «completo e presente», per riprendere le parole di Hegel. Questa nozione, presa in prestito dal vocabolario della scolastica, segnala che la posizione adottata da Spinoza sulla questione è anche lontana sia da quella di Cartesio che da quella di Leibniz:117 per Cartesio, che procede analiticamente a partire dalle evidenze di una ragione finita, l'infinito in atto è incomprensibile perché non può essere costruito intuitivamente; per Leibniz, che risolve il problema del continuo con il metodo del calcolo infinitesimale, c'è soltanto un infinito in potenza, dato eminenter sed non formaliter, dunque sempre al di là di un limite assegnabile. L'affermazione di Spinoza dell'esistenza di un infinito in atto e della sua razionalità è estremamente importante, nella misura in cui esprime la presenza effettiva dell'infinito nel finito, attraverso l'atto con il quale realmente lo produce: questa presenza può essere negata soltanto da quelli che riconducono la natura delle cose ad un criterio numerico, cosa che li conduce ad ignorare l'infinità, o a mascherarla nell'idea di una serie illimitata, che esclude la possibilità di un infinito in atto.Se adottiamo questa spiegazione, anche l'altra infedeltà commessa da Hegel in relazione al testo di Spinoza sembra poter essere giustificata. Infatti, se la nozione di infinito in atto designa bene questa presenza immanente della causa nei suoi effetti (Cfr. Etica, I, prop. 18: «Dio è causa immanente, ma non transitiva, di tutte le cose»), tutte le particolarità dell'esempio geometrico così come è esposto da Spinoza sembrano superflue: qualsiasi modo finito, ad esempio la superficie compresa tra le due circonferenze, che esse siano o no concentriche, o ancora, per riprendere un altro esempio avanzato da Hegel, l'infinità dei punti compresi in un segmento di retta, esprime un infinito, che implica formalmente (formaliter sed non eminenter) la sua causa. Eccoci dunque rinviati al punto di partenza: perché Spinoza introduce espressamente nel suo esempio l'idea di una variazione compresa tra un minimo ed un massimo, variazione che dipende dal fatto che i due cerchi non sono concentrici? Se Spinoza avesse voluto, col suo esempio geometrico, soltanto rappresentare l'idea di un quantum finito che comporta tuttavia una infinità di parti ed eccede ogni numero assegnabile, non avrebbe avuto bisogno di questa precisione; ma questa semplificazione avrebbe reso allo stesso tempo inevitabile la riduzione di questa infinità ad una relazione estensiva tra elementi, relazione considerata

117 Y. Belaval, Leibniz critique de Descartes, p. 329-338

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negativamente, dunque in modo inadeguato alla natura stessa della cosa: sarebbe così tornato al punto di vista dell'immaginazione da cui cerca al contrario di smarcarsi. Ma, per l'intelletto che afferra le cose così come esse sono, secondo la loro causalità propria, si tratta qui di tutt'altro infinito che deve essere compreso affermativamente, nel senso proprio dell'affermazione assoluta di una qualsiasi natura: questa appare precisamente in una variazione continua ma limitata - essa può dunque essere considerata fuori di qualsiasi determinazione di grandezza (è ciò che indica la precisione fornita dalla lettera 81 a Tschirnhaus) -, che procede intensivamente, non secondo una relazione astratta e determinata negativamente, o numericamente, tra parti estrinseche, ma con la potenza della causa che agisce in essa simultaneamente, e che è la sostanza in persona, nella forma del suo attributo estensione. Questa differenza tra le due infinità, estensiva ed intensiva, è fatta risaltare molto bene da G. Deleuze (20 - Spinoza ed il problema dell'espressione, p. 183-186.).118

L'infinità intensiva esprime direttamente la relazione immanente, e non transitiva, che lega la sostanza alle sue affezioni, e che è conosciuta soltanto dall'intelletto. Da questa conoscenza si ricava qualcosa di molto importante: l'infinità tale come può essere appresa nei modi non è diversa da quella che costituisce la sostanza, ma è formalmente la stessa. Per questo le distinzioni che formula la lettera 12 a Louis Meyer non possono essere riportate ad un'enumerazione di casi, dove ogni volta una forma diversa di infinito sarebbe presentata, come se ci potessero essere diversi tipi di infinito! Poiché, ciò che si esprime come causa sui nella sostanza come natura naturante, o che si manifesta nel concatenamento inesauribile dei modi finiti come natura naturata, che sia conosciuto adeguatamente, cioè positivamente, dall'intelletto, o rappresentato inadeguatamente, cioè negativamente, dall'immaginazione, è sempre lo stesso infinito che agisce necessariamente.Qui occorre prendere sul serio l'idea che l'infinità della sostanza passa, intensivamente, in tutti i suoi modi senza dividersi: tutta l'estensione, indivisibilmente, è in una goccia d'acqua, così come tutto il pensiero è presente in atto in ciascuna idea e la determina necessariamente. Ed è per questo che «se una sola parte della materia fosse distrutta, immediatamente l'estensione intera verrebbe meno»119, e lo stesso accadrebbe per le idee che sono «parti» del pensiero. Così la continuità inalterabile che costituisce tutta la realtà modale, quali che siano i limiti nei quali la si esamina, quale che sia la scala con la quale la si considera, esprime per eccellenza l'assoluto, cioè l'unità della sostanza: è la conoscenza di quest'infinito in atto che costituisce «l'amore intellettuale di Dio», o la conoscenza di terzo genere.Come abbiamo appena visto, questa conoscenza è affermativa: non procede in maniera regressiva dai modi verso la sostanza - che sarebbe, allora, gettata all'infinito, suo limite -, ma procede della sostanza alle sue affezioni, cioè della causa verso i suoi effetti, sinteticamente, in una progressione assolutamente necessaria e continua, che esclude ogni ricorso al possibile ed ogni negatività. Non si può dunque dire, come fa Hegel, che è negazione superata, o sorpassata, e con ciò compresa, ma è ciò il cui concetto esclude ogni negazione, ogni negatività interna.Se si applicasse qui alla lettera il principio forgiato da Hegel, «omnis determinatio est negatio», si dovrebbe aggiungere che la conoscenza adeguata delle cose, per sua propria natura, esclude anche per questo fatto ogni determinazione, la quale è evidentemente assurda. Nell’esempio che abbiamo appena commentato avevamo precisamente a che fare con un’infinità che non può essere determinata da alcun numero, ma che è in sé effettivamente determinata, dato che è finita. Appare allora evidente, a proposito del concetto di determinazione, introdurre una distinzione: determinare una cosa negativamente, significa rappresentarla astrattamente a partire dai suoi limiti e separarla da Dio che agisce in essa, tentando di adattarla alle regole formali, puri enti di ragione, forgiati dall’immaginazione; per esempio, è coglierla intanto che una certa parte della durata le è assegnata: la si riferisce allora a ciò che non è, alla sua possibile sparizione, e la si presenta come contingente.

118 Spinoza et le Problème de l'expression.119 Lettera 4 a Oldenburg.

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Determinare una cosa positivamente, è percepirla nella sua realtà fisica, singolare, secondo la necessità immanente che la genera nella sostanza, secondo una legge di causalità che è quella stessa per la quale la sostanza produce se stessa, perché è la sostanza stessa che si produce nelle sue affezioni: significa anche considerarla dal punto di vista dell’eternità, in quanto è essa stessa eterna, cioè in quanto non può essere distrutta, se non da una causa esterna (Etica, III, prop. 4).Tutta questa discussione, che ci ha trascinati in considerazioni di dettaglio apparentemente oziose ma di cui non era possibile fare economia, rinvia dunque ad un principio fondamentale, che caratterizza tutta la filosofia di Spinoza: non ci sono due ordini di realtà separati, due «mondi», uno infinito, l'altro finito, nei quali funzionerebbero forme di necessità, leggi di causalità, distinte. L'obiettivo di Spinoza non è neppure di scoprire tra questi due ordini una relazione di convenienza, realizzata in una serie graduale di intermediari che permetterebbero di passare dall'una all'altra con un movimento successivo: questo è l'«ordine» immaginato da Hegel che va dalla sostanza agli attributi quindi dagli attributi ai modi, determinando progressivamente l'assoluto, cioè negandolo nel relativo. Per Spinoza, è uno solo e medesimo ordine, non più l'ordine astratto dell'immaginazione, ma l'ordine concreto, fisicamente reale della sostanza, che si esprime simultaneamente e identicamente come assoluto e come relativo, e che è conosciuto in modo contradittorio dall'intelletto e dall'immaginazione. È per questo che la relazione della sostanza con le sue affezioni non può essere esaurita dalla semplice opposizione dell'indeterminato e del determinato, del positivo e del negativo, come l'interpreta Hegel, nei termini di una logica paradossalmente astratta.

La determinazione

Il punto di vista razionale dell'intelletto è essenzialmente affermativo: al punto che, apparentemente, qualsiasi negatività debba essere attribuita al punto di vista dell'immaginazione che è incapace di comprendere la sostanza così come è sé stessa, ma anche come essa agisce nei suoi modi, come si esprime allo stesso tempo nell'infinito e nel finito. L'interpretazione proposta da Hegel è dunque insostenibile: il negativismo spinozista, conseguenza inevitabile di un pensiero vuoto dell'assoluto, è una finzione, incompatibile con la lettera del sistema. Ma l'interpretazione contraria è più soddisfacente? Si potrebbe dire, come fa G. Deleuze, che «la filosofia di Spinoza è una filosofia dell'affermazione pura»?120 Questo «positivismo», di cui il negativismo precedente sarebbe soltanto la volta o l'inverso, non arriva in definitiva allo stesso risultato? Di questa collusione troviamo almeno un indice nel fatto che queste due presentazioni opposte dello spinozismo finiscono entrambe per mettere in evidenza il suo carattere non dialettico, ciò che l'una interpreta come il sintomo dell'inferiorità e dello scacco di questa filosofia, mentre, l'altra, ne dimostra al contrario sua eccellenza.Ritorniamo un po' indietro. La formula che Hegel mette davanti, «omnis determinatio est negatio», è senza dubbio inadeguata alla lettera dello spinozismo. Ciò significa che si dovrebbe sostituirla con un'altra formulazione: omnis determinatio est affirmatio? Il senso di questo nuovo enunciato è chiaro: la determinazione non ha semplicemente il valore restrittivo di una degradazione di ciò che è in sé sostanziale, in un semplice movimento di esteriorizzazione - passaggio senza ritorno dallo stesso all'altro -, ma è l'atto con il quale la sostanza esprime tutta la sua potenza causale: «Tutto ciò che concepiamo essere nel potere di Dio è necessariamente»121, perché in Dio, che è causa di sé e di tutte le cose, essenza e potenza sono una sola e medesima cosa. Così la necessità dei modi non è inferiore a quella della sostanza o diversa da essa: è precisamente la stessa. Tuttavia, se ci fermassimo qua, una delle obiezioni avanzate da Hegel acquisterebbe nuovo vigore: l'identità qui affermata non è privata di qualsiasi contenuto effettivo, che getta ogni cosa in questa notte indistinta in cui tutte le vacche sono

120 Spinoza et le Problème de l'expression.121 Etica, I, prop. 35.

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grigie? Per rispondere a questa questione, occorre riprendere la nozione di determinazione, di cui Hegel fa un impiego abbondante nel suo commento di Spinoza, e vedere cosa significa esattamente per Spinoza stesso.Tutti i commentatori hanno osservato che Spinoza assume il termine determinatio in sensi molto diversi. Da un lato, lo utilizza per esprimere l'idea di una limitazione, che è essa stessa legata a quella di finitudine: la lettera 50 a Jarig Jelles parla dei corpi «finiti e determinati». Presa così, la nozione di determinazione implica senza contestazione possibile una negazione, e si applica alle cose che «sono limitate da un'altra della stessa natura»122. In questo senso, la sostanza che è soprattutto illimitata è anche indeterminata: «Poiché la determinazione non marca nulla di positivo, ma soltanto una privazione nella natura dell'esistenza concepita come determinata, ne consegue che ciò di cui la definizione afferma l'esistenza non può essere concepito come determinato»123. Ciò è vero della sostanza e dei suoi attributi, la cui nozione non comporta alcuna imperfezione, e che non possono essere detti determinati nel senso che non sono limitati da una cosa della stessa natura.Tuttavia, occorre fare ben attenzione a ciò: la nozione di indeterminazione deve essere presa qui in modo assolutamente positivo. Ma l'inclinazione delle parole, al contrario, ci trascina in senso inverso quando designamo una realtà assolutamente positiva con un termine negativo o privativo. Ma, secondo Spinoza, le parole, prese in se stesse, non esprimono la realtà che pretendono di rappresentare, ma il punto di vista dell'immaginazione che gli sostituisce le sue finzioni. Questo è ciò che conferma particolarmente tutto il vocabolario col quale cogliamo l'assoluto:

«[…] come le parole formano parte dell'immaginazione, cioè noi concepiamo molte finzioni, a seconda che le parole si compongano confusamente nella memoria in virtù di qualche disposizione del corpo, è indubbio che le parole, proprio come l'immaginazione, possono essere causa di molteplici e grandi errori, a meno che non facciamo un grande sforzo per guardarci da loro. Aggiungiamo che sono formate secondo il capriccio e la comprensione del volgo; così non sono nient’altro che segni delle cose tali come sono nell'immaginazione e non tali come sono nell'intelletto. Ciò risulta chiaramente dal fatto che a tutte le cose che sono soltanto nell'intelletto, e non si trovano nell'immaginazione, le si è imposto spesso dei nomi negativi, come: immateriale, infinito, ecc., e che si esprimono in modo negativo anche molte cose che, in realtà, sono positive, e viceversa: così increato, indipendente, infinito, immortale, ecc., certamente perché immaginiamo molto più facilmente i loro opposti; pertanto questi si presentarono all’inizio ai primi uomini e usurparono i nomi positivi. Affermiamo e neghiamo molte cose perché queste affermazioni e queste negazioni sono conformi alla natura delle parole e non alla natura delle cose; in modo che, se lo ignorassimo, prenderemmo facilmente per vero qualcosa di falso»124.

Chi volesse, in modo hegeliano, interpretare l'indeterminazione della sostanza spinozista nel senso della negazione di una negazione (determinazione = limitazione; indeterminazione = soppressione di questa limitazione starebbe allora perdendo tempo: cadrebbe in una speculazione puramente verbale. È vero che, sulla questione della natura del linguaggio, Hegel e Spinoza hanno anche posizioni divergenti: Hegel non ammetterebbe che la disposizione delle parole, sottoposta a leggi puramente corporali, sia messa fuori dall'ordine razionale del pensiero.Dalla parte di Spinoza, le cose sono dunque perfettamente chiare: la nozione di indeterminazione è in sé, invito vocabulo, positiva. Ma, ciò significa che la nozione di determinazione, che costituisce apparentemente il suo opposto diretto, è necessariamente negativa? Quest'opposizione non è

122 Etica, I, def. 2.123 Lettera 36 a Hudde.124 Trattato della riforma dell'intelletto, § 88

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imputabile precisamente all'immaginazione che riflette sulle parole, e che non vede le cose così come sono?In effetti, Spinoza non usa il termine determinatio soltanto nel senso di una limitazione, le cui implicazioni sono negative. È ciò che appare fin dalla settima definizione del libro I dell'Etica: «È detta libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura ed è determinata (determinatur) da sé sola ad agire; [è detta], al contrario, necessaria, o piuttosto coatta, quella che è determinata (determinatur) da un'altra ad esistere e a produrre un effetto secondo una ragione certa e determinata (determinata).» Dal punto di vista che qui ci interessa, questa frase porta un'indicazione molto importante, in quanto applica l'idea di una determinazione tanto alla realtà della sostanza che a quella dei modi: la libertà che appartiene alla causa sui non è l'attività indifferente ed arbitraria di un essere che non sarebbe determinato ad agire da alcuna causa, alla maniera di quel Dio incomprensibile le cui iniziative (decisioni) sostengono tutta la costruzione della filosofia cartesiana. Dio non è meno determinato ad agire delle cose che dipendono da lui: si potrebbe anche dire che lo è di più nella misura in cui riunisce in sé tutte le perfezioni. La sostanza indeterminata non è dunque libera da ogni determinazione, ma, al contrario, è determinata da una causa o ragione necessaria, che è la sua propria natura.Tutto ciò diventa perfettamente chiaro se ci si ricorda che l'azione della causa libera che genera se stessa (natura naturante) non differisce affatto dell'azione causale che si compie nelle cose che non hanno la loro causa in se stesse (natura naturata). Ma esse sono un solo e medesimo atto: Dio non si produce da nessun'altra parte che nelle sue affezioni. Se in Dio non fosse data alcuna determinazione, sarebbe l'esistenza delle cose e la sua propria che sarebbero rimesse in questione.Occorre ancora aggiungere che Dio è per le cose singolari una causa non soltanto in quanto esse esistono, ma anche in quanto producono esse stesse degli effetti, il che significa che sono completamente determinate in Dio: «Una cosa che è determinata a produrre un qualche effetto è stata determinata così necessariamente da Dio: e quella che non è stata determinata da Dio non può determinarsi da se a produrre un effetto»125. Il concatenamento delle determinazioni finite, che si svolge all'infinito. è dunque esso stesso completamente determinato in Dio, e ciò perché egli non ammette in sé stesso alcuna contingenza, cioè nessuna indeterminazione.Ne risulta che, associata all'idea di una causalità che è identica in Dio ed in tutto ciò che dipende da lui, la nozione di determinazione ha un impiego essenzialmente positivo, poiché produrre un effetto non può essere in alcun modo il segno di un'imperfezione: «Ciò per cui le cose sono determinate a produrre un qualche effetto è necessariamente qualcosa di positivo, come è di per sé noto»126. Per questo motivo il collegamento che unisce la nozione di determinazione a quella di negazione si trova sciolto.Ciò significa che la nozione di determinazione, così come funziona nel sistema di Spinoza, è ambigua perché rinvia ad una molteplicità di impieghi che sono del resto contradittori? Non è del tutto caratteristico, al contrario, che Spinoza utilizzi lo stesso termine per designare la causalità infinita che si esercita a partire dalla sostanza e la causalità finita che si compie nei modi, segnalando con ciò che non si tratta di due fenomeni indipendenti? Dunque, se la nozione di determinazione può essere presa allo stesso tempo in un senso positivo ed in un senso negativo, è perché ricusa in se stessa l'opposizione tradizionale di positivo e negativo. Ed eccoci nuovamente molto vicini a Hegel, ma seguendo una via diversa da quella che Hegel ha preso: se il funzionamento del concetto di determinazione di Spinoza riduce a niente l'opposizione tradizionale di positivo e di negativo, ciò non è perché la «supera», o perché la «risolve» come una contraddizione razionale, ma più semplicemente perché la ignora. In questo movimento appare una «dialettica» che non è certamente quella di Hegel: è questa una ragione sufficiente per dire che non si tratta, in generale, di una dialettica?

125 Etica, I, prop. 26.126 Etica, I, prop. 26, dim.

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I modi infiniti

Secondo alcune formulazioni precedenti, si potrebbe credere che la relazione della sostanza con le sue affezioni riproduca quella che intrattiene anche con i suoi attributi: qui come là, in un senso orizzontale come in un senso verticale, se si può dire, si ritrova lo stesso tipo d'unità, che integra una diversità, conferendole la sua razionalità. Non significa questo che quest'unità è l'unità formale di un procedimento che riduce qualsiasi realtà alla stessa cosa, confusamente, ignorando, cancellando, le sue articolazioni effettive? Per rispondere a quest'obiezione, occorre meglio caratterizzare il passaggio dall'assoluto al relativo, con il quale si compie la esteriorizzazione della sostanza, o la sua determinazione.L'aspetto più singolare di questo passaggio è rappresentato dalla stupefacente teoria dei modi infiniti che appare nelle proposizioni 21,22,23 ed nello scolio della proposizione 28 del libro I dell'Etica, che espone, con una concisione estrema, i mezzi con i quali l'infinito agisce nel finito. Il fatto stesso che ci siano modi infiniti dimostra bene che l'infinità non appartiene esclusivamente alla sostanza ed ai suoi attributi, - cioè gli individui - restando i modi al contrario chiusi nella loro finitudine, segnati così in maniera strettamente negativa, come Hegel finge di credere: come abbiamo appena visto, non ci sono due ordini di realtà, l’uno sostanziale ed infinito, l'altro modale e finito, ma una sola e medesima realtà continua ed indivisibile, determinata da una legge di causalità unica, nella quale finito e l'infinito sono legati indissolubilmente; i modi infiniti sono in certo modo il luogo dove si annoda quest'unità, dove si effettua la trasformazione, o anche la determinazione, dell'infinito nel finito.In effetti, i modi infiniti si definiscono in un primo approdo per la loro funzione di transizione: si presentano come intermediari che garantiscono una sorta di conciliazione tra la sostanza infinita ed i modi finiti. È ciò che indica apparentemente lo scolio della proposizione 28: «Alcune cose hanno dovuto essere prodotte immediatamente da Dio, vale a dire quelle che seguono necessariamente della sua natura assoluta, e per la mediazione di queste prime, altre che non possono tuttavia né essere né essere concepite senza Dio» (Etica, I). Quest'aspetto è anche rafforzato dallo sdoppiamento che Spinoza opera all'interno dei modi infiniti stessi, proponendo una distinzione tra modo infinito immediato, che procede della natura assoluta di ogni attributo e lo esprime immediatamente (I, prop. 21) e modo infinito mediato, che deriva dagli attributi che sono già modificati (I, p. 22). Questa divisione interna sembra confermare la funzione che è assegnata al modo infinito nell'economia d’insieme del sistema: provvedere i mezzi per un passaggio graduale, una sorta di evoluzione continua che conduce dall'assoluto al relativo. Occorre dire anche che questo è il punto per eccellenza dove il sistema spinozista si presenta come una costruzione formale, che moltiplica le nozioni astratte per risolvere le difficoltà che sorgono dallo sviluppo del suo proprio ragionamento; ma queste nozioni, che meriterebbero certamente di essere esposte più chiaramente di come non lo sono nel libro I dell'Etica, sono così astratte come sembrano? Sono effettivamente conformi alla funzione con la quale le abbiamo definite?Poiché, se manteniamo questa determinazione, che fa del modo infinito né più né meno che un processo artificiale per effettuare una transizione dalla sostanza verso le sue affezioni, alla maniera del termine medio in un ragionamento formale, vediamo riapparire l'idea, che crediamo di aver scartato, di una gerarchia degli esseri, che riconduce lo spinozismo ad una variante del neoplatonismo: allora è confermata l'interpretazione regressiva proposta da Hegel del passaggio dell'assoluto al relativo, per la quale l'infinito si diluisce, si esaurisce, nel finito, fino a scomparirvi del tutto. Spinoza scrive d'altra parte: omnia quamvis diversis gradibus animata tamen sunt.),127 «[gli uomini e gli atri individui] tutti, sebbene in diversi gradi, sono pertanto animati». Non è questo l'indizio del carattere essenzialmente

127 Etica, II, scolio alla prop. 13.

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processuale della realtà che avanza, o degrada al contrario, da un massimo verso un minimo di essere, passando in maniera continua per tutte le tappe intermedie, passaggio che riassumono propriamente, con la loro funzione transitoria, i modi infiniti? Ma, se si ammette una tale interpretazione, si è indotti così a reintrodurre nel sistema spinozista «uno aristotelismo senza Aristotele», secondo una curiosa espressione di M. Gueroult,128 ed anche l'idea di una finalità interna immanente,129 cioè di un kantismo senza Kant, e, perché no, anche una metafisica della totalità, cioè un hegelismo senza Hegel: la porta è allora largamente aperta, come si vede, a tutti gli accostamenti, a tutte le confusioni, a tutte le alterazioni, che sopprimono puramente e semplicemente l'efficacia singolare del ragionamento spinozista. Vedremo che tali interpretazioni devono essere invalidate assolutamente. Per mostrarlo, occorre ritornare sulla teoria dei modi infiniti e alla distinzione di modo infinito immediato e di modo infinito mediato, poiché essi servono precisamente ad eliminare tali concezioni.Come abbiamo già indicato, la nozione di modi infiniti, così come appare nell'Etica, è molto enigmatica. Cosa che ha spinto uno dei corrispondenti di Spinoza a chiedergli qualche chiarimento, per dare a questa nozione un contenuto: «[...] vorrei esempi di cose prodotte immediatamente da Dio e di cose prodotte mediatamente da una modificazione infinita; del primo genere mi sembrano essere il pensiero e l'estensione; del secondo l'intelletto nel pensiero, il movimento nell'estensione, ecc.».130 L'errore commesso qui, assimilando i modi infiniti immediati agli attributi stessi, è flagrante, ma conferma la difficoltà del problema che occorre risolvere. La risposta di Spinoza è data senza commenti, con la secchezza di una constatazione: «Ecco gli esempi che mi chiedete: quelli del primo genere sono, nell'ordine del pensiero, l'intelletto assolutamente infinito; nell'ordine dell'estensione, il movimento ed la quiete; per il secondo genere, c'è la figura di tutto l'universo (facies totius universi) che rimane sempre lo stesso, benché vari secondo un’infinità di modi; vedete su questo punto lo scolio del lemma VII che viene prima della proposizione 14, parte II».131 Lasceremo qui da parte l'anomalia che ha interessato tutti i commentatori: Spinoza, mentre dà esempi di modo infinito immediato rispetto ai due attributi del pensiero e della dimensione, ne dà soltanto uno del modo infinito mediato, la «facies totius universi», che riguarda ovviamente l'estensione. Per caratterizzare queste nozioni anche noi ci limiteremo al caso della dimensione, cioè al problema stretto della fisica, poiché deve valere per tutti gli altri.In questo caso preciso, la relazione tra assoluto e il relativo si espone a partire dalle seguenti distinzioni:

estensione / attributo sostanzialemovimento e quiete / modo infinito immediatofacies totius universi / modo infinito mediatocorpo singolare (individuo) / modi finiti

Queste distinzioni conducono alla rappresentazione di una gerarchia di forme, che integra tutta la realtà nella sostanza, che sarebbe essa stessa una forma assoluta ed ultima, messa al di sopra ed al termine di tutte le altre ed che impone loro la sua determinazione? Ciò sarebbe, ovviamente, tornare al punto di vista dell'immaginazione.Cosa intende dire Spinoza facendo del movimento e della quiete il modo infinito immediato dell'estensione? Null'altro che questo: la realtà sostanziale dell'estensione si esprime assolutamente nel movimento ed nella quiete, cioè in un certo rapporto (certa ratione) di movimento e di quiete. Quest'idea può essere presa in molti sensi: l'estensione non può essere colta al di fuori di questo

128 Spinoza t. II.129 .Ibid.130 Lettera 63 di Schuller a Spinoza.131 Lettera 64 di Spinoza a Schuller.

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rapporto di movimento e di quiete che la anima; ed è chiaro che ciò che è qui scartato è la concezione cartesiana di una estensione inerte, definita esclusivamente attraverso proprietà geometriche, in estensione, ed alla quale il movimento deve essere aggiunto dall'esterno, sotto forma di quantità determinata di movimento che deve essere conservato identico al suo impulso iniziale. Ma Spinoza vuole dire anche che tutto ciò che si produce nell'estensione si spiega col rapporto di movimento e di quiete, che ne costituisce in un certo qual modo la legge fondamentale. È questo che spiega molto chiaramente un passaggio del breve Trattato:

«Se [...] consideriamo solamente l'estensione, non percepiamo in essa nient'altro che Movimento e Quiete, dai quali troviamo che sono formati tutti gli effetti che fuoriescono da essa; e questi due modi sono tali nel corpo che nessun'altra cosai può apportarvi alcun cambiamento». (II, cap. 19)

Eccetto che qui il movimento ed la quiete non sono più considerati come modi distinti, l'Etica riprende questa concezione: secondo il lemma II della proposizione 13 (libro II), «tutti i corpi convengono in alcune cose», cioè hanno proprietà comuni in quanto implicano il concetto di uno stesso attributo, l'estensione, che si esprime immediatamente nel rapporto di movimento e quiete. Così si trova dimostrata, geneticamente, l'universalità delle leggi della natura e la possibilità di conoscerle: se tutto ciò che esiste nell'estensione si spiega con il movimento e con la quiete, è perché l'estensione produce, producendosi così essa stessa, un certo rapporto di movimento e di quiete, agisce e si raffina in questo rapporto, che la rappresenta assolutamente, cioè senza intermediario e senza restrizione. Le leggi della natura, che esprimono questo rapporto di movimento e di quiete, sono irriducibili nella misura in cui derivano immediatamente dalla sostanza: esse sono una sorta di incondizionato, che funge da base per lo studio di tutti i fenomeni naturali.Ci si può allora chiedere in cosa questa proporzione, nella quale l'attributo estensione si esprime immediatamente, è modale: non è l'attributo stesso, considerato nella sua causalità interna, nel suo rapporto immanente a sé? Ma la risposta a questa domanda va da sé: la proporzione è modale necessariamente, in quanto che essa è propriamente una proporzione, cioè in quanto essa è determinata da una certo rapporto (certa ratione), che obbliga a distinguerla dalla sostanza illimitata ed indeterminata. Ciò che crea allora un problema è la possibilità per l'indeterminazione di esprimersi assolutamente, immediatamente, in una determinazione, che è – per certo - infinita, dunque, inassegnabile. Non è certo che i concetti spinozisti permettano di risolvere questa difficoltà, ma permettono propriamente di affrontarla: appare allora che, nella logica del sistema, la determinazione non è una privazione, una negazione dell'indeterminato, ed è per questo che non ogni determinazione non è necessariamente ed esclusivamente finita. Omnis determinatio non est negatio.Vediamo ora ciò che è il modo infinito mediato - facies totius universi, cioè la natura corporale presa nel suo insieme. Va detto che questa nozione è ambigua, perché, a seconda dei testi, Spinoza ne dà presentazioni molto diverse, e persino inverse: a volte, infatti, la definisce geneticamente a partire dalla sua causa, che è necessariamente anch'essa infinita; a volte la costituisce, o occorrerebbe piuttosto dire che la costruisce, a partire dagli elementi che essa raccoglie, cioè le determinazioni finite che «totalizza». Quale di questi due movimenti è adeguato alla natura del modo infinito mediato?Se si seguono le proposizioni 22 e 23 del libro I dell'Etica, il modo infinito mediato segue necessariamente da un attributo in quanto quest'ultimo è modificato da una modificazione che, per la natura di quest'attributo, esiste necessariamente: in questo senso la figura dell'universo, considerata nel suo insieme, è questa determinazione infinita che segue dall'attributo dell'estensione in tanto che questo è già modificato dalla modificazione che segue necessariamente della sua natura, cioè una certa proporzione di movimento e di quiete. Ciò significa che dall'estensione, presa assolutamente, derivano un certo numero di leggi di movimento, e che queste leggi si applicano alla natura corporale presa nel

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suo insieme di cui ritagliano, in un certo qual modo, la figura globale. Facies totius universi, è dunque ciò che si deduce dalla sostanza stessa per mezzo dell’estensione e le leggi della natura che la esprimono immediatamente, cioè l’insieme dei fenomeni corporali così come sono sottoposti alle leggi del movimento e della quiete.Ma la deduzione, che procede qui dall'infinito all'infinito, si ferma precisamente in questo punto, come precisa la proposizione 28, che espone come sono i modi finiti essi stessi determinati, non affatto a partire dall'infinito, ma nel loro proprio concatenamento interno:

«Tutte le cose singolari, in altre parole, ogni cosa finita e che ha un'esistenza determinata, non può esistere né essere determinata a produrre un effetto se non è determinata ad esistere e a produrre quest'effetto da un'altra causa, che è anch'essa finita e che ha un'esistenza determinata; ed a sua volta questa causa non può neppure esistere né essere determinata a produrre un effetto se non è determinata ad esistere e produrre questo effetto da un'altra, che è anch'essa finita, e che ha un'esistenza determinata, e così all'infinito.»

Questa proposizione, enunciata qui in modo assolutamente generale, sarà ripresa nel libro II dell'Etica nel caso dei modi del pensiero (prop. 9), e poi in quello dei modi dell'intelletto (prop. 13, lemma III). Essa deriva immediatamente dalla definizione dei modi finiti che è data all'inizio del libro I dell'Etica: «È detta finita nel suo genere la cosa che può essere limitata da un'altra dello stesso genere» (def. 2). Ma qui è stabilita differentemente, per mezzo di una dimostrazione che procede per eliminazione: le cose singolari finite non hanno potuto essere prodotte né dalla natura assoluta di qualche attributo di Dio, né da quest'attributo in quanto affetto da una modificazione infinita, ed è per questo che devono procedere da un modo finito, che è la loro causa e che dipende, esso stesso, da un altro modo finito, e così via all'infinito. Vediamo dunque riapparire qui una sorta di taglio tra l'infinito e il finito: dall'infinito si può dedurre soltanto l'infinito, e il finito non può esso stesso che essere dedotto dal finito. Allora viene meno l'idea di una processione degli esseri, che avanza, o regredisce, gradualmente, dell'assoluto verso il relativo passando per tutte le tappe intermedie. Ciò significa che tra la natura presa nel suo insieme e le cose singolari che riempiono la sua figura della loro esistenza determinata non vi è un passaggio continuo, ma al contrario una separazione. Non è allora il postulato razionale dell'unità della natura che viene così rimesso in questione?A prima vista, la separazione passa qui tra le essenze infinite ed le esistenze finite. Questa distinzione appare alla fine del Trattato della riforma dell'intelletto, dove Spinoza distingue nell'ordine della natura «la serie delle cose singolari mutevoli» e «la serie delle cose fisse ed eterne» (§ 100). La prima sfugge alla conoscenza umana, a causa della moltitudine infinita delle circostanze che la compongono. Ricordiamoci il dialogo fittizio che, nell'appendice al libro I dell'Etica, oppone i partigiani del finalismo a quelli che cercano di vedere le cose così come sono, nella loro necessità immanente: un uomo è morto per la caduta di una pietra piombatagli da un tetto sulla testa; perché la pietra è caduta? perché il vento soffiava nel momento in cui passava. Perché lo vento soffiava in quel momento? Perché si era alzato alla vigilia, il mare aveva iniziato ad agitarsi, e quell'uomo era stato invitato da amici, et caetera. Vediamo qui riapparire la regressione all'infinito che, secondo la proposizione 28 del libro I, concatena tutte le determinazioni finite. Per definizione, questo concatenamento non può essere esaurito in una conoscenza, ed è per questo che i confusionisti se ne appropriano come di una argomentazione e vi trovano conferma di un'intenzione nascosta, che dà il suo senso a tutto questa serie di eventi, senso irriducibile ad ogni determinazione strettamente causale, che non riesce ad esaurire la successione, ma che richiede l'intervento di cause finali. Questi fini sono proiettati dall'immaginazione li proietta precisamente al termine dell'enumerazione delle determinazioni finite, che essa chiude idealmente, totalizzandola: è precisamente questa concezione

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che la nozione spinozista dell'infinito l'attuale elimina, impedendo di costruire l'infinito a partire dal finito.Per evitare di dar campo alle illusioni dell'immaginazione, che si installano in questo luogo aperto dalla regressione all'infinito, questo et caetera che è il vero asilo dell'ignoranza, occorre rinunciare all'ambizione di una conoscenza esaustiva delle cose singolari, cioè del loro concatenamento globale, che è per definizione inaccessibile: l'infinito non può essere appreso a partire dal finito, in un movimento di totalizzazione, o perde la sua necessità intrinseca per diventare un puro possibile, cioè una finzione formale. Occorre dunque limitarsi alla conoscenza delle cose «fisse ed eterne» e delle loro leggi, in tanto che esse «comandano l'esistenza e la disposizione delle cose singolari (34. Trattato della riforma dell'intelletto, § 101.)» 132: a partire da queste leggi, le cose singolari sono intelligibili, sufficientemente almeno perché possa essere scartata la tentazione di interpretarle a partire da fini immaginari.Ci chiederemo in seguito cosa sono queste cose fisse ed eterne, di cui Spinoza dice anche che, malgrado la loro singolarità, sono una sorta di universali. Per il momento teniamo soprattutto fermo che non è possibile, a meno di ricadere in errori incorreggibili, osservare l'insieme della natura corporale a partire dai modi finiti che questa concatena gli uni agli altri, benché questi si determinino l'un l'altro all'infinito con un concatenamento necessario. Ma si deve al contrario cercare di conoscere e dominare quest'ordine del finito a partire da determinazioni essenziali, forse i modi infiniti, che lo rendono intelligibile. Ciò significa che non è possibile procedere dal finito all'infinito come fa l'immaginazione, ma che occorre andare all’inverso, secondo l'ordine causale reale, dall'infinito al finito. Quest'esigenza è compatibile con la separazione che abbiamo appena riscontrato tra le cose infinite e le cose finite?E ancora, come può Spinoza presentare la natura corporale, considerata nel suo insieme, a partire dai corpi che la costituiscono, al termine di una progressione all'infinito, cosa che fa, d'altra parte, nello scolio del lemma VII della proposizione 13 (Etica, II)? Per comprendere il senso di questo testo occorre riprendere fin dall'inizio il riassunto di fisica che Spinoza propone in allegato a questa proposizione, in vista di trarne indicazioni sulla natura e la composizione del corpo umano. In un primo momento, le leggi del movimento sono applicate ai «corpi più il semplici» (entia simplicissima), nozione sulla quale ritorneremo; in seguito, le stesse leggi sono applicate ai corpi composti, cioè agli individui, che sono formati da un'unione di corpi: esse devono allora essere complicate; infine, nello scolio che commentiamo, Spinoza sviluppa quest'amplificazione fino al suo termine, la natura corporale presa nel suo insieme, in quanto è essa stessa un'unione di corpi, determinata da leggi costanti, da cui potrebbe allontanarsi soltanto con un « concorso straordinario di Dio», cioè un miracolo, la cui necessità non potrebbe essere dimostrata. La rappresentazione della natura così esposta è ottenuta attraverso un passaggio al limite:

«[...] e, se continuiamo in tal modo all'infinito, concepiremo facilmente che tutta la natura è un solo individuo, le cui parti - cioè tutti i corpi - variano di un'infinità di modi (modis infinitis), senza alcun cambiamento dell'individuo totale.»

Spinoza vuole dire qui che la natura corporale, pur comprendendo una varietà inesauribile di determinazioni, conserva tuttavia una identica forma, nel senso che resta sottoposta a leggi costanti, che escludono ogni intervento straordinario come, del resto, qualsiasi finalità. Ed è appunto a questa determinazione universale (facies totius universi) che faceva riferimento nella sua lettera 64 a Schuller.Ma numerosi commentatori hanno cercato in questo passaggio conferma di un'interpretazione vitalista, organicista del sistema spinozista: è precisamente a questo proposito che M. Gueroult stesso parla di un «aristotelismo senza Aristotele». Riconosciamo che c'è qui, nel testo di Spinoza, una

132 Trattato sulla riforma dell'intelletto. § 101.

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difficoltà reale: dando del modo infinito mediato la definizione genetica da cui siamo partiti, egli ha escluso la possibilità di comporre quest'ultimo a partire dai modi finiti, totalizzandoli; ma, nella misura in cui questo stesso modo infinito mediato appare qui al termine di una progressione infinita, che integra le cose singolari in un'unità allo stesso tempo individuale e totale, questa esigenza è, sembra, invertita. Gli effetti positivi di quest'inversione saltano agli occhi: nella misura in cui il modo infinito mediato si situa nella confluenza di due movimenti inversi, di cui uno parte dall'infinito e l'altro dal finito, è precisamente il luogo privilegiato della loro congiunzione. Ma allora si producono anche degli effetti negativi: nel momento stesso in cui questa conciliazione è realizzata, il principio universale del determinismo, che scarta ogni illusione finalista, è, se non annientato, almeno in grandissima parte attenuato nella sua applicazione; ed allora riappare, con l'idea di una logica interna del tutto, realizzata nella natura considerata un solo individuo, quella di una finalità immanente di questo tutto, ancor più pericolosa di quella di una finalità che suppone il ricorso ha una trascendenza. Riprendiamo lo scolio del lemma VII.133 Passando dai corpi più semplici, che non sono individui (poiché egli rifiuta ogni filosofia corpuscolare), ai corpi composti, poi, all’estremo, alla natura intera considerata come l'insieme di tutti i corpi, e presa come un Tutto, Spinoza dà l'impressione di costruire una totalità a partire da elementi che la compongono realmente, in uno sviluppo progressivo. Ma quest'impressione è ingannevole, poiché tale costruzione è evidentemente impossibile. Nel suo movimento apparente, questa costruzione porta fino al suo termine il concatenamento dei modi finiti che presenta la proposizione 28: essa dà un contenuto reale al «e così via all'infinito» sul quale si chi completa questa proposizione. Ma questo completamento è realmente impossibile, al livello dei modi finiti stessi, poiché non è possibile concludere dal finito all'infinito, come abbiamo mostrato.Non è tutto: non soltanto questa progressione non si completa, ma neppure comincia mai realmente. Ciò deriva dal carattere molto particolare di questi «corpi più semplici» a partire dai quali l'ordine comune della natura è razionalizzato nel sunto di fisica.134 Infatti, questi non sono elementi materiali primitivi, ai quali giungerebbe un'analisi della natura corporale o dell’estensione. Spinoza rifiuta gli atomi, che sono corpi assolutamente semplici, o parti indivisibili dell'estensione, poiché «non è meno assurdo supporre che la sostanza corporale sia composta di corpi o di parti che di supporre che il corpo è composto da superfici, le superfici di linee, e infine le linee di punti:135ritroviamo qui lo stesso ragionamento secondo il quale è impossibile costruire l'infinito a partire dal finito, di generarlo nel movimento di una progressione all'infinito.La natura non comporta dunque che corpi composti, o individui, perché ogni modo finito è determinato da un concatenamento infinito di cause; ciò che significa che ogni determinazione finita è anche infinita, contemporaneamente per la potenza infinita della sua causa immanente, che è la sostanza stessa, e per la molteplicità infinita delle sue cause transitive. È questo che esprime, ad esempio, l'assioma 4 del libro II dell'Etica: «Sentiamo che un corpo è affetto in molti modi», che interviene nella dimostrazione della proposizione 51 del libro III: «Il corpo umano è affetto dai corpi esterni in un gran numero di maniere.» Orbene condivide questa proprietà con tutti i «corpi» ed al limite con tutte «le cose». La formula «certa et determinata ratione», che identifica nel discorso spinozista tutto ciò che esiste nella forma della finitudine, non rinvia dunque all'idea di una determinazione elementare, unica, e che come tale potrebbe essere isolata, ma a quella di una determinazione complessa, che comporta un'infinità di determinazioni:

«Se fosse data in Natura una cosa che non abbia con le altre alcun commercio e che ne fosse data un'essenza oggettiva, che dovrebbe convenire in tutto con l'essenza formale, questa non avrebbe alcun commercio con le altre idee, cioè noi non ne potremmo

133 Etica, II, prop. 13.134 Etica, II, annesso alla prop. 13.135 Etica, I, scolio alla prop. 15.

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concludere nulla. E, al contrario, le cose che hanno commercio con le altre, come lo sono tutte quelle che esistono in Natura, saranno comprese e le loro essenze oggettive avranno anche un commercio simile, in altre parole, se ne potrà dedurre da altre idee che a loro volta avranno commercio con altre». 136

Come quello di tutte le «cose», il concatenamento delle idee è interminabile: come abbiamo mostrato precedentemente, non ci sono per Spinoza idee prime o ultime, ma c'è sempre già, ci saranno sempre ancora idee, prese in un ordine infinito di cause che le concatena interminabilmente le une alle altre, e che impedisce che siano mai sufficienti a se stesse; l'idea adeguata non è un'idea semplice - un atomo intellettuale - che potrebbe essere presentato in un'intuizione elementare ed isolata: la ragione finita conosce solo attraverso l'infinità che agisce in essa, e così conosce assolutamente, senza limitazioni formali. È ciò occorre dire anche di tutte le cose finite, che esistono in se stesse, secondo la loro essenza propria, ma non per se stesse, come se la loro esistenza potesse dedursi dalla loro essenza.È per questo che, per quanto sorprendente ciò possa sembrare, occorre dire che i «corpi più semplici» non sono corpi realmente semplici, nella misura in cui tutto ciò che è reale è anche irriducibile ad elementi isolati: esistono soltanto cose complesse. Secondo la definizione che ne dà Spinoza, i corpi più semplici sono «quelli che si distinguono gli uni dagli altri soltanto per il movimento ed la quiete, la velocità e la lentezza»:137 vale a dire che ci sono corpi che si considerano soltanto sotto quest'aspetto, ad esclusione di tutti gli altri. I corpi più semplici sono dunque astrazioni, enti di ragione, che permettono di costruire un discorso sulla realtà, ma che non esistono in essa sotto una forma tale che possano essere isolati: in questo senso, M. Gueroult è determinato a distinguere una fisica astratta dei corpi più semplici ed una fisica concreta dei corpi composti, che prende per oggetti gli individui effettivamente esistenti.138 Allora acquista tutto il suo senso un'indicazione del Trattato della riforma dell'intelletto, che abbiamo già riportato, secondo la quale la conoscenza delle cose singolari dipende da quella delle cose fisse ed eterne:

«Così queste cose fisse ed eterne - nonostante la loro singolarità - saranno tuttavia per noi - grazie alla loro presenza ovunque ed alla loro grandissima potenza - tipi di universali, cioè generi per le definizioni di cose fisse e mutevoli, e come le cause prossime di tutte le cose» (§ 101).

I corpi più semplici non esistono in natura, e tuttavia permettono di conoscerla, nella misura in cui ne fissano le proprietà essenziali: non sono determinazioni elementari dalle quali la sua realtà complessa potrebbe essere ricostituita, non sono neppure forme ideali che si incarnerebbero nel reale imponendogli un modello di intellegibilità; ma sono in natura come generi universali, infinitamente potenti, che permettono di afferrare ciò che c'è in essa, cioè nella diversità inesauribile delle sue forme, d'eterno.Il concatenamento delle cause transitive, ordo e connexio rerum, è dunque irriducibile a qualunque forma o a qualunque principio che sia: completamente determinato nella misura in cui è anche interminabile, esso è la realizzazione dell'infinito nel finito, in una serie senza inizio né fine, totalità che non è totalizzabile, insieme che non può essere compreso a partire dai suoi elementi, né dedotto a partire dalla sua forma globale.È per questo che la rappresentazione della natura corporale come un Individuo o come un Tutto deve avere un significato molto limitato. È essa stessa un'astrazione: ciò che essa considera, è l'unità della natura in quanto questa è assolutamente determinata da leggi costanti, da cui nulla può farla spostare.

136 Trattato della riforma dell'intelletto, § 41.137 Etica, II, prop. 13, lemma III, assioma 2.138 Spinoza, t. II, p. 156.

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Ma, come per la nozione dei «corpi più semplici», di cui è in un certo qual modo l'immagine speculare, bisogna guardarsi dall'incarnarlo in una realtà singolare effettivamente esistente. La natura non è certamente, presa in se stessa, un Tutto, anche se è, da una parte, unica, e dall'altra, un insieme di determinazioni sottoposte a principi costanti.Allorché Spinoza scrive che «la Natura nella sua totalità è un solo individuo, le cui parti, cioè tutti i corpi, variano in un'infinità di maniere, senza che l'individuo totale cambi»139, non vuole assolutamente dire che essa si conservi identica a sé come una forma stabilita, inalterabile, immobile, alla maniera delle Forme platonicizzanti, poiché sarebbe la sua infinità che diventerebbe allora problematica. Egli, al contrario, si allontana da tale concezione, come Epicuro aveva potuto fare quando scriveva nella sua Lettera ad Erodoto: «Così il tutto (to pan) è sempre stato la stesso di come è ora e sarà sempre tale. Poiché non c'è nulla in cui possa trasformarsi, poiché non esiste nulla fuori del tutto che possa penetrare in esso e trasformarlo» (§ 39). Questo «tutto» che costituisce la natura, è l'insieme di tutto ciò che esiste, al di fuori del quale nulla può essere pensato: si comprende che sia in sé stesso inalterabile, nella misura in cui è irriducibile a qualunque cosa che non sia il suo proprio concatenamento, è perfettamente sufficiente a sé stesso, e definisce solo per sé stesso tutto ciò che appartiene alla sua realtà. Ma questa «totalità», che è quella di un insieme esclusivo ed illimitato, non si lascia ridurre ad un sistema di determinazioni ordinate, che convergono nella costituzione di un Essere unico ed unificato, alla maniera dell'Universo degli stoici. Si può applicare a Spinoza un'analisi formulata da G. Deleuze a proposito dell'epicureismo:

«La Natura come produzione del diverso può essere soltanto una somma infinita, cioè una somma che non totalizza i suoi propri elementi. Non c'è combinazione capace di abbracciare tutti gli elementi della Natura in una volta, né un mondo unico o universo totale. Phusis non è una determinazione dell'Uno, dell'Essere o del Tutto. La natura non è collettiva ma distributiva; le leggi della natura distribuiscono parti che non si totalizzano».140

Precisiamo soltanto, affinché questo accostamento abbia un senso: Spinoza non esclude del tutto la possibilità di afferrare o di comprendere tutti gli elementi della Natura nello stesso tempo, nella loro infinità intensiva, poiché è in questa possibilità, al contrario, che consiste il punto di vista dell'eternità, o terzo genere di conoscenza. Ciò che esclude, è che questa conoscenza possa effettuarsi in una combinazione, nella legge di una serie convergente che totalizza il finito a partire da un tipo di logica interna della sua progressione: Spinoza si oppone a Leibniz tanto quanto all'epicureismo allo stoicismo.Dire che la natura è sempre la stessa non significa, dunque, che è ordinata a partire da un principio formale che la costituisce come una totalità, ma che si esplica in modo esaustivo con il concatenamento delle sue determinazioni, aa esclusione di ogni intervento esterno, con il quale sarebbe reintrodotto il pregiudizio della finalità. È questa stessa idea che riprende Spinoza, nell'introduzione al libro III dell'Etica:

«Non accade nulla in Natura che possa essere attribuito ad un vizio esistente in essa; poiché la Natura è sempre la stessa, ed ovunque la sua virtù e la sua potenza d’agire è una ed identica. Ciò significa che (hoc est) le leggi e le regole della Natura, secondo le quali ogni cosa accade e passa da una forma a un'altra, sono ovunque e sempre le stesse, e di conseguenza può esistere un solo e medesimo modo (ratio) di comprendere la natura di queste cose qualunque esse siano, cioè attraverso le regole universali della Natura».

139 Etica, II, m. 13, scolio del lemma VII.140 Logica del senso.

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Spinoza se la prende qui con i mistificatori che pretendono di mettere la natura umana fuori dell'ordine comune della Natura, «concepire l'uomo come un impero nell'impero», fare l'individuo umano in un soggetto libero che potrebbe, con il suo comportamento straordinario e con l'iniziativa delle sue scelte, modificare la necessità naturale, sia per migliorarla, sia per corromperla. Ora, per Spinoza, che si appresta a «considerare le azioni e gli appetiti del corpo umano come se fosse questione di linee, di piani o di corpi» (Ibid.), non c'è specificità del soggetto umano che gli permetterebbe di sfuggire all'ordine naturale o di attentarvi.Ma occorre andare ancora più lontano: non c'è per niente un soggetto, quale che sia, che potrebbe porsi di fronte alla natura per imporle la forma della sua intenzione. Dio che, secondo una proposizione importante del libro I dell'Etica, è «causa immanente ma non transitiva di tutte le cose» (prop. 18), non interviene nella realtà come un agente esterno che la sottometterebbe ai suoi obiettivi, ai suoi fini: con la sua azione, strettamente causale, egli esprime in tutte le sue affezioni la necessità della sua essenza, in maniera completamente determinata che è evidentemente conforme a questa essenza, e non può né limitarla né comprometterla. I miracoli esistono soltanto nello spirito disturbato di quelli che vogliono credervi perché il loro corpo ve li dispone, e che scoprono in quest'illusione la promessa di una libertà:

«[…] il volgo ritiene che, mentre la natura agisce secondo l'ordine abituale, Dio non agisca; ed al contrario che la potenza della natura e le cause naturali sono inattive mentre Dio agisce. […] E il volgo non può che adorare Dio e ricondurre tutto alla sua potenza ed alla sua volontà sospendendo le cause naturali delle cose e immaginando cause esterne all'ordine della natura; e la potenza di Dio non appare mai più ammirevole di quando ci si immagina la potenza della natura in qualche modo come soggiogata da Dio».141

Ma il problema non è di ammirare la potenza divina e di sottoporvisi nell’adorarla, come lo stesso Cartesio noi siamo portati a mettere Dio nella natura come il re nel suo regno; è quello di conoscere questa potenza, cioè di comprenderne le leggi interne, cosa che conduce all'amore intellettuale di Dio, sola forma di libertà che pretende il saggio.È per questo che spiegare la natura secondo la necessità dei suoi concatenamenti suppone che si rinunci a subordinarla all'iniziativa di un soggetto quale che sia, questo soggetto è stato posto, integrato nella natura stessa, e impostagli la forma definitiva di un Tutto. Ritorneremo su questa questione, ma possiamo immediatamente segnalare che le illusioni della finalità interna non sono meno pericolose di quelle della finalità esterna; che sono del resto le stesse che sono proiettate e concentrate dall'esteriorità illusoria di un soggetto indipendente nell'ordinamento immanente di una forma che dà a se essa stessa i propri fini:

«E come quelli che non comprendendo la natura delle cose sono incapaci di affermare alcunché su di esse, ma le immaginano soltanto e scambiano l'immaginazione per l'intelletto, credono fermamente che ci sia un Ordine nelle cose, ignoranti come sono della natura delle cose e della loro propria. Infatti allorché le cose sono disposte di modo tale che la rappresentazione dei sensi ci permette di immaginarle facilmente, diremo che esse sono bene ordinate. In caso contrario, diremo che sono male ordinate o confuse. E siccome le cose che possiamo immaginare facilmente ci tornano più piacevoli delle altre, gli uomini preferiscono quindi l'ordine alla confusione, come se, fuori dell’immaginazione, l'ordine sia qualcosa di interno alla natura».142

141 Trattato teologico-politico, cap. 6.142 Etica, I, appendice.

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Nella natura stessa non c'è né ordine né disordine: queste nozioni sono inadeguate alla sua essenza.

Si vede dunque cosa significa l'idea d'unità della natura, ed anche ciò che esclude. Inizialmente, indica l'unicità della natura, che comprende senza limitazione tutto ciò che appartiene al suo genere, secondo un concatenamento causale identico in tutti gli attributi. Allo stesso tempo, indica la potenza di Dio che agisce in essa - e non affatto su essa - con la necessità immanente della sua essenza. Infine, elimina la rappresentazione di un'unità interna, o di un Ordine della natura, che è soltanto una comodità del ragionamento, ma che rende incomprensibile la sua realtà infinita limitandola fittiziamente.Se ne deve concludere un'identità assoluta dell'infinito e del finito: questi non sono come due ordini indipendenti, tra i quali si potrebbe soltanto instaurare un rapporto di corrispondenza o di sottomissione; ma occorre dire che non sono nulla l'uno senza l'altro, che non sono nulla l'uno al di fuori dell'altro, se non dal punto di vista astratto dell'immaginazione che li separa. Su questo punto, l'interpretazione hegeliana della nozione di determinazione, che tende ad isolare le affezioni dalla sostanza, come se non fossero che esistenze fittizie rispetto alla sua essenza immutabile, è insostenibile.

Non apposita sed diversa

La posizione molto particolare che occupa Spinoza nella filosofia si esprime in particolare nella messa in disparte, o la corruzione, delle forme tradizionali «della logica». Così egli fa nel suo sistema un uso aberrante del principio di contraddizione. Questa modificazione va nel senso della logica hegeliana, che è anch'essa elaborata contro questo principio? Non è facile rispondere a questa domanda, perché la Logica è oggetto, nella filosofia hegeliana, di una teoria che ne sviluppa tutte le implicazioni; mentre per Spinoza «la logica», se tuttavia questo termine è qui pertinente, resta implicita: essa non esiste che in atto, inestricabilmente mescolata alle dimostrazioni singolari che costituiscono esclusivamente la sua forma visibile. Proviamo tuttavia a caratterizzarla, almeno in alcuni dei suoi effetti.Per far questo passeremo per Cartesio, poiché ci dà un termine di raffronto molto illuminante: si tratta della sua corrispondenza e della polemica con Regius, nella quale emerge il tema ben noto, che i commentatori applicano spesso a Spinoza, «diversa sed non opposita». Ricordiamo che Regius era un medico che impartiva, dal 1638, all'università di Utrecht un insegnamento molto controverso sostenuto sui principi della fisiologia cartesiana. Apparì molto rapidamente che interpretava questi principi in modo unilaterale, paradossale, travisandone il significato; è per questo che Cartesio si si attivò per togliere il marchio della sua dottrina dalle tesi di questo discepolo abusivo. L’errore commesso da Regius era di intervenire senza precauzione in questioni di metafisica delicate, pericolose e complicate allo stesso tempo, avanzando formulazioni imprudenti che Cartesio non poteva accettare.In una lettera del luglio 1645, ecco come ricapitola gli errori di Regius:143

«Prima, considerando l'anima come una sostanza distinta dal corpo, avete scritto che l'uomo era un essere per accidente. Attualmente, considerando al contrario che l'anima ed il corpo sono strettamente uniti nello stesso uomo, volete che sia soltanto un modo del corpo, errore che è peggiore della primo.»

Ciò che rende le imprudenze di Regius particolarmente intollerabili, è che mettono il dito su una difficoltà particolare della dottrina cartesiana, che è la teoria dell'unione dell'anima e del corpo. Nella

143 Opere filosofiche, t. III.

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sua corrispondenza con Elisabeth, Cartesio riconosce egli steso il carattere contradittorio di questa teoria che afferma allo stesso tempo la distinzione dell'anima e del corpo, rinviando a quella della sostanza pensante e della sostanza estesa, e la loro unione sostanziale nella natura dell'uomo:

«Non mi sembra che lo spirito umano sia capace di concepire ben distintamente ed allo stesso tempo la distinzione fra l'anima ed il corpo e la loro unione; occorre perciò concepirli come una cosa sola, ed insieme, concepirli come due, cosa che si contraddice».144

Sembra che le dottrine successivamente professate da Regius si spieghino col desiderio di uscire da questa contraddizione, che risolvono prendendo in considerazione ogni volta un solo termine: inizialmente Regius insiste sulla distinzione dell'anima e del corpo, e caratterizza su questa base la natura dell'uomo come accidentale e composto, poiché consiste nella sovrapposizione di due nature distinte. In seguito, diffidato da Cartesio a ritirare questa concezione eretica, che può essere sospettata di pelagianesimo, Regius adotta una dottrina inversa alla precedente, rifiutando di accordare all'anima una natura distinta da quella del corpo, di cui non costituisce che una modificazione: cade allora in un errore, per Cartesio più grave ancora del precedente, poiché arriva a professare il materialismo.Ciò che ci interessa in questa polemica è che fa intervenire, in un certo qual modo allo stato pratico, il problema della contraddizione, che illumina in modo abbastanza particolare. Questa questione appare abbastanza presto nella corrispondenza di Descartes con Regius:

«Dato che riconoscete che il pensiero è un attributo della sostanza che non rinchiude alcuna estensione, e che al contrario l'estensione è l'attributo della sostanza che non racchiude alcun pensiero, occorre perciò che riconosciate anche che la sostanza che pensa è distinta da quella che è estesa; poiché non abbiamo affatto un altro segno per conoscere che una sostanza differisce dall'altra se non il fatto che comprendiamo l’una indipendentemente dall'altra; ed infatti, Dio può fare tutto ciò che possiamo comprendere chiaramente; e se ci sono altre cose che si dice che Dio non possa fare, sono quelle che implicano contraddizione nelle sue idee, cioè che non sono intelligibili. Ma possiamo comprendere chiaramente una sostanza che pensa e che non sia estesa, ed una sostanza estesa che non pensa, come ammettete: essendo così, sebbene Dio leghi e colleghi queste sostanze per quanto lo può, non potrà per ciò privarsi della sua onnipotenza, né togliersi il potere di separarle, quindi esse rimangono distinte».145

Occorre seguire questo ragionamento nel dettaglio. Comprendiamo chiaramente il pensiero senza l'estensione, e l'estensione senza il pensiero, come due sostanze distinte. Infatti, definire il pensiero con l'estensione, e viceversa, implica contraddizione. Ma quest'idea, chiara nel mio spirito, può imporsi a me con una tale evidenza soltanto perché Dio ha voluto così; e, poiché la sua perfezione esclude che possa volermi fuorviare, quest'idea deve corrispondere ad un contenuto effettivo. L'estensione ed il pensiero sono dunque realmente due sostanze distinte. Così il principio di contraddizione funziona come un criterio nei limiti di ciò che comprendiamo; ma occorre stare in guardia di non applicarlo al di là dei limiti della nostra ragione, che è strettamente limitata per sua natura. Dio, la cui onnipotenza è infinita, può ben fare ciò che è per noi incomprensibile, se è assolutamente necessario che faccia ciò che comprendiamo. Così, è del tutto possibile, anche se questa nuova operazione costituisce per me un profondo mistero, che Dio «leghi ed unisca queste sostanze quanto lo può». È ciò di cui testimonia precisamente l'unione di un'anima e di un corpo nella mia natura: per il fatto che non comprenda quest'unione, perché la sua idea implica per me una contraddizione, non risulta che sia impossibile,

144 Lettera ad Elisabeth, il 28 giugno 1643, Ibid., t. III.145 Lettera a Regius, il 6 ottobre 1642, Ibid., t. II.

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poiché in Dio nulla è a priori impossibile, poiché la sua potenza è per definizione illimitata. Tutto ciò che posso affermare è che Dio non può, legando queste sostanze, volere e fare che non siano allo stesso tempo tali che io le comprenda, cioè separate e distinte.Il principio di contraddizione ha dunque valore di criterio oggettivo ed assoluto per tutte le mie idee; ma perde quel valore per tutto ciò che è oltre il mio potere di conoscere. La logica divina, se si può dire, comprende e garantisce la logica umana, ma non si identifica con essa e la supera infinitamente:

«In quanto alla difficoltà di concepire come Dio sia stato libero ed indifferente di far sì che non sia vero che i tre angoli di un triangolo siano uguali a due retti, o in generale che i contradittori non possano stare insieme, la si può facilmente eliminare, considerando che la potenza di Dio non può avere alcun limite; anche considerando, poi, che il nostro spirito è finito e creato di tale natura che può concepire come possibili le cose che Dio abbia voluto fossero veramente possibili, ma non che possa anche concepire come possibili quelle che Dio avrebbe potuto rendere possibili ma che tuttavia ha voluto rendere impossibili. Poiché la prima considerazione ci fa conoscere che Dio non può essere stato determinato a far sì che fosse vero che i contradittori non possano stare insieme, e che quindi avrebbe potuto fare l'opposto; quindi l'altro ci garantisce che, benché ciò sia vero, non dobbiamo affatto provare a capirlo, perché la nostra natura ne non ne è affatto capace».146

È del tutto caratteristico che queste arguzie, che stupiranno così tanto Leibniz, dipendano dall'attribuzione a Dio di un libero-arbitro, che lo fa regnare come un monarca su idee e su cose di cui fa ciò che vuole: una concezione della natura divina che Spinoza respinge espressamente perché, al contrario delle sue pretese dichiarate, immagina questa natura a partire dalla nostra, per proiezione, in una relazione d'eminenza. Così, per Cartesio, Dio si ispira al principio di contraddizione eminentemente ma non formalmente: questo principio è esso stesso una conseguenza della sua azione, e non un principio eterno che potrebbe limitarla regolandola. Non è precisamente dal lato di Hegel che guarda qui Cartesio, sospendendo l'efficacia di un principio razionale quando si tratta dell'assoluto? È vero che questa sospensione ha qui per effetto di rendere l'infinito come tale incomprensibile, marcando così che la nostra ragione finita è impotente ad accedere ad una conoscenza dell'assoluto, o ad una conoscenza assoluta.Questi preamboli erano necessari per farci vedere ciò che c'è dietro l'argomentazione che Cartesio oppone pubblicamente a Regius nel 1647, nel suo Notae in programma, in risposta ad un certo «manifesto» di questo, Regius scriveva in particolare:

«Per quanto riguarda la natura delle cose, nulla impedisce, sembra, che lo spirito possa essere o una sostanza o un certo modo della sostanza corporea; oppure, se vogliamo seguire il parere di alcuni nuovi filosofi che dicono che il pensiero e l'estensione sono attributi presenti in alcune sostanze come nei loro soggetti, poiché questi attributi non sono affatto opposti ma semplicemente diversi (non apposita sed diversa), non vedo nulla che possa impedire che lo spirito o il pensiero possa essere un attributo che convenga ad uno stesso soggetto tanto quanto l'estensione, sebbene la nozione dell'uno non sia affatto compresa nella nozione dell'altra: la cui ragione è che tutto ciò che possiamo concepire può anche essere. Oppure, è concepibile che lo spirito umano sia qualcuna di queste cose, poiché non c'è in ciò nessuna contraddizione; e quindi può essere qualcuna.

146 Cartesio a Mesland, il 2 maggio 1644, Ibid., t. III.

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È per questo che si illudono quelli che sostenendo che concepiamo chiaramente e distintamente lo spirito umano come una cosa che per necessità è distinta realmente del corpo».147

Questo testo è del tutto caratteristico del modo di Regius, che si sforza, appoggiandosi su principi presi a prestito da Cartesio, di giustificare conclusioni che sono proprio quelle che Cartesio ha scartato: Regius ha forse ragione di sostenere posizioni diverse da quelle di Cartesio, ma ha certamente torto nel cercare di sostenerle con prove prese a prestito da Cartesio, cosa che conferisce al suo ragionamento l'aspetto di un compromesso abbastanza ambiguo.La «dimostrazione» di Regius tende a stabilire che lo spirito ed il corpo possano appartenere ad una stessa sostanza, come attributi diversi che si rilevano senza contraddizione di uno stesso soggetto: siamo molto lontani qui da Spinoza, non soltanto perché quest'ultimo mantiene tra il pensiero el'estensione una distinzione reale, ma soprattutto perché scarta la concezione grammaticale degli attributi, secondo la quale la relazione di questi con la loro sostanza può essere riportata ad una relazione del tipo soggetto-attributo. Ma vedremo che la confutazione opposta da Cartesio a Regius ha una portata molto più ampia dell'oggetto che la riguarda immediatamente: in questo senso, tale confutazione illustra molto bene un modo di ragionare che è proprio quello col quale Spinoza romperà.Per Cartesio, Regius ha commesso un primo errore confondendo le nozioni d'attributo e di modo: quando i «nuovi filosofi», cioè Cartesio stesso, definiscono il pensiero come un attributo della sostanza immateriale e l'estensione come un attributo della sostanza corporale, intendono con questa parola d'attributo «una cosa che è immutabile ed inseparabile dall'essenza del suo soggetto», come una sostanza ha per attributo di esistere di per sé; non si tratta dunque di un modo, cioè, secondo Cartesio, in un maniera di essere variabile, che può essere modificata senza che cambi l'essenza della cosa a cui appartiene: così l'estensione, considerata in sé, non è modificata in nulla dal fatto che può assumere diverse forme (sferiche, quadrate, ecc.), e lo stesso vale per il pensiero. Ciò stabilito, anche se il principio «non opposita sed diversa» fosse ammissibile, non si applicherebbe qui: l'identità con se stessa di una sostanza che passa nei suoi attributi, che sono quindi immutabili, esclude anche che questi siano «diversi», poiché ciò introdurrebbe nella sostanza da cui dipendono un principio di cambiamento.Ma il principio sul quale si appoggia Regius, «non opposita sed diversa», è esso stesso inaccettabile. L'obiezione che Cartesio gli oppone ci può sorprendere, poiché consiste in un richiamo al principio di contraddizione. Ora, abbiamo appena visto che Cartesio stesso ha rimesso in questione l'universalità di questo principio, affermando che non può essere applicato a tutte le cose nelle quali la perfezione infinita di Dio si esprime direttamente e che sfuggono alla nostra ragione finita; ma, se l'universalità di questo principio è scossa da tutto ciò che eccede il nostro potere di conoscere, e deve restare per noi incomprensibile, quest'ultima resta tuttavia inattaccabile per tutto ciò che rimane nei limiti della luce naturale, di cui costituisce - come abbiamo visto - un criterio oggettivo di verità. Il ragionamento di Regius è dunque difettoso perché è contradittorio:

«Aggiunge "che questi attributi non sono opposti ma semplicemente diversi". In ciò c'è ancora una contraddizione: poiché, quando si tratta di attributi che costituiscono l'essenza di sostanze alcune, la più grande opposizione tra loro può essere soltanto di essere diversi. E allorché confessa che uno è diverso dall'altro, è come se dicesse che uno non è l'altro. Ma essere e non essere sono opposti. [...] Per quanto riguarda questi tipi di attributi che costituiscono la natura delle cose, non si può dire che sono diversi e che non sono in alcun modo compresi l'uno nella nozione dell'altro, convenendo ad uno solo e medesimo soggetto: poiché è come se si dicesse che un solo e medesimo soggetto abbia due nature

147 Ibid., t. III.

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diverse; cosa che implica una contraddizione manifesta, almeno quando si tratta, come qui, di un soggetto semplice e non di un soggetto composto».148

Nel caso di una sostanza semplice e non composta (come è proprio la natura umana che è l'unione di un'anima e di un corpo), è assurdo pensare degli attributi distinti in uno stesso soggetto in cui debbano precisamente opporsi, come «nature» incompatibili o esclusive. Di qui la necessità, al contrario, di concludere dalla diversità degli attributi la distinzione delle sostanze da cui essi dipendono: essendo queste irriducibili l'una all'altra, come i soggetti di due proposizioni grammaticali distinte, potendo essere dette solo «diversa sed non opposita», precisamente nella misura in cui, essendo esterne l'una all'altra, non danno luogo a contraddizione.La concezione spinozista degli attributi, tra cui il pensiero e l'estensione, non ha certamente nulla a che vedere con il materialismo elementare e confuso di Regius; tuttavia, cade sotto i colpi dell'obiezione di Cartesio: non perché scarta, tra il pensiero e l'estensione, una distinzione reale, ma perché rifiuta di concludere, da questa distinzione, quella delle sostanze. Come abbiamo mostrato, la diversità infinita degli attributi è, per Spinoza, l'altro aspetto dell'unità della sostanza che la costituisce effettivamente, nell'infinità attiva delle sue essenze, che la esprimono ciascuna nel loro genere, in modo identico e senza opposizione.Ciò significa che la sostanza, così come Spinoza la concepisce, ha perso la funzione di soggetto che deteneva ancora nella filosofia cartesiana, ed è per questo che non è determinata, nella sua natura intrinseca, dal principio di contraddizione della logica tradizionale, che è impotente a determinarla. A suo modo, Spinoza si ricongiunge qui con Cartesio: il principio di contraddizione non riesce a farci afferrare tutto ciò che concerne l'assoluto. Ma quest'incapacità non significa, per Spinoza come per Cartesio, che l'assoluto debba restare per noi incomprensibile, perché i principi che guidano la ragione finita non gli sono applicabili; vuol dire, al contrario, che la razionalità delle vere cause - che non ha più nulla a che vedere con «i fini impenetrabili» di un Dio eccessivo - non è riducibile ai principi formali di una logica, di cui rivela al contrario la fondamentale precarietà: tutto ciò che è generale è anche, per Spinoza, immaginario.È qui che vediamo quanto siamo allo stesso tempo vicini e distanti da Hegel: vicini per questa sospensione dei criteri razionali astratti ai quali Cartesio resta ancora attaccato (è il motivo per cui, se quest'ultimo ammette nella sua filosofia l'idea dell'infinito, respinge la possibilità di trarne qualunque conoscenza); ma anche molto lontani, poiché, con il principio di contraddizione tradizionale e la separazione rigida, automatica, che installa tra il vero ed il falso, è il pensiero stesso della contraddizione che Spinoza respinge apparentemente fuori della filosofia, rifiutando in anticipo la nozione hegeliana di una razionalità del negativo, e scartando forse con essa la possibilità di una dialettica.In modo rimarchevole, Spinoza rivela dunque, nell'hegelismo, una collusione stupefacente con la ragione classica, di cui prende in considerazione ancora un preconcetto: è l'idea che la contraddizione è una relazione che può essere compresa e risolta soltanto in un soggetto, o da un soggetto. Infatti, per Cartesio, è l'assimilazione della sostanza l soggetto di una proposizione che gli permette di applicarle il principio di contraddizione e di individuarne la razionalità. Per Hegel, è la presentazione dell'assoluto come soggetto, che ritorna in sé in un discorso esaustivo, che permette di sviluppare in esso tutte le contraddizioni di cui è capace, ed attraverso esse di condurre lo spirito fino al suo compimento effettivo. Nei due casi, il metodo che conduce al vero è la risoluzione delle contraddizioni intanto che appartengono ad un soggetto.Ma, Hegel non smette di dirlo, Spinoza è il filosofo che ha pensato l'assoluto nel concetto di una sostanza che non è un soggetto. È per questo che la sostanza, così come la presenta, è liberata allo stesso tempo dalle costrizioni della ragione finita, così come Cartesio le aveva fissate, e anche dal

148 Cartesio, Notae in programma, ibid., t. III.

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modello evolutivo immaginato da Hegel. Nel momento stesso in cui impedisce l'intervento nella filosofia di un soggetto giuridico - Dio creatore delle verità eterne di cui si fa garante -, Spinoza invalida la funzione di un soggetto logico che funge da fondamento alla proposizione vera e ne attesta il carattere non contradittorio, o gli permette di esplicitare, e dunque risolvere, tutte le contraddizioni che porta in sé.

Le essenze singolari

Spinoza prende posizione di fronte alla ragione classica, di cui ricusa l'ordine immutabile e formale, facendone un uso aberrante, deviante, o per lo meno differente del principio di contraddizione. Spieghiamoci di più su questo punto.Questo principio logico tradizionale è introdotto nel libro III dell'Etica, in un posto ed in una formulazione che meritano riflessione:

«Le cose sono di natura contraria, cioè che non possono essere nello stesso soggetto (in eodem subjecto esse), nella misura in cui l’una può distruggere l'altra».149

Ciò significa che gli opposti si escludono, e che non possono coesistere, cioè, come indica la dimostrazione, «convenire tra loro» (inter se convenire), per costituire insieme uno stesso essere, o uno stesso «soggetto».Qui riappare la stessa divergenza tra Spinoza ed Hegel: per quest'ultimo, non soltanto gli opposti possono molto bene coesistere in uno stesso soggetto, ma è proprio quest'unità degli opposti che costituisce la natura del soggetto come tale, in quanto è il processo vivo ed autonomo del suo sviluppo. Espellendo dal soggetto ogni negatività interna, Spinoza non fa apparentemente che manifestare la sua impotenza a pensare una dialettica del soggetto, cioè una dialettica che trova le sue condizioni nel soggetto stesso, nel suo soggetto: punto di vista della sostanza. Tuttavia, le cose non sono così semplici: si potrebbe anche dire che ciò che Spinoza rifiuta è di pensare la dialettica in un soggetto, come farà precisamente Hegel? Allora una nuova via è aperta, anche se Spinoza non la percorre effettivamente: è porre il problema di una dialettica della sostanza, cioè di una dialettica materiale che non presuppone il suo compimento nelle sue condizioni iniziali per mezzo di una teleologia necessariamente ideale. Ma tale dialettica è l'impensabile hegeliano. Ritorniamo al libro III dell'Etica: la proposizione 5 vi è enunciata in maniera assolutamente generale, e la sua «dimostrazione» che procede per assurdo, facendo riferimento soltanto alla proposizione precedente «evidente per sé stessa», mostra bene che si tratta di una sorta di assioma, di un principio formale che non riguarda alcuna realtà in particolare, ma che espone una condizione universale di ogni pensiero razionale: essa sembra dunque avere principalmente un significato logico, e potere essere riportata all'enunciato tradizionale: «una cosa non può essere allo stesso tempo se stessa ed il suo opposto».Tuttavia, il senso di questa proposizione può essere completamente determinato soltanto nel suo contesto. Perché Spinoza ricorda questo principio generale, dandogli la forma di una proposizione, nel corso della sua argomentazione? È chiaro che le proposizioni 4 e 5 del libro III dell'Etica, che sono in fondo agli assiomi, fungono da preambolo alla presentazione della nozione di conatus, il cui significato è al contrario completamente reale e determinato, al quale sono dedicate le proposizioni seguenti:

«Ogni cosa, per quanto è in essa (quantum in se est), si sforza di perseverare nel suo essere (in suo esse perseverare conatur)» (prop. 6).

149 Etica, III, prop. 5.

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«Lo sforzo (conatus) con il quale ogni cosa cerca di perseverare nel suo essere non è null’altro di distinto dall'essenza attuale di questa cosa (nihil è praeter ipsius rei actualem essentiam)» (prop. 7).

Così, una cosa singolare o finita, nella quale la potenza di Dio si esprime in modo certo e determinato (certo et determinato modo) attraverso uno dei suoi attributi, tende naturalmente a conservare il suo proprio essere, e questa tendenza costituisce la sua essenza, poiché vi esprime tutto ciò che è in essa (quantum in si è): poi questa essenza, ed il conatus che la effettua, si oppone a tutto ciò che può distruggerla o sopprimere la sua esistenza (existentiam tollere), come indica la dimostrazione della proposizione 6. Infatti, «nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna ad essa» (prop. 4), poiché non è possibile che uno stesso atto affermi la sua essenza e la neghi al tempo stesso. È per questo che, secondo la sua essenza propria o attuale, qualsiasi cosa tende a perseverare nel suo essere indefinitamente.Quest'argomentazione conferma ancora, apparentemente, l'interpretazione di Hegel, nella misura in cui mostra che Spinoza resta attaccato al concetto classico di una «negatività finita», negazione esterna che elimina e che esclude, al di fuori di ogni discorsività immanente o lavoro del negativo che ritorna su se stesso, precisamente per costituire un'essenza: il conatus è un movimento assolutamente positivo, nel quale si esprime un'attività ed una potenza, al di fuori di qualsiasi limitazione, di qualsiasi esclusione. Tuttavia, se ci si ferma in questo punto, non si comprende più molto bene perché questa realtà si afferma e si effettua tendenzialmente in un conatus.D'altra parte, il ragionamento di Hegel vacilla su un altro punto, poiché questo movimento con il quale una cosa tende a conservare il suo proprio essere è precisamente la sua essenza attuale, o anche, come Spinoza scrive in altra parte, la sua «essenza singolare», che la fa essere, non assolutamente come lo può soltanto la sostanza, ma in maniera certa e determinata come un'affezione particolare della sostanza, presa in uno dei suoi generi. La nozione di conatus rinvia dunque direttamente a quella di determinazione, della quale rimuove ogni negatività interna: nella misura in cui una cosa è determinata come tale (quantum in se est) per il suo rapporto immanente alla sostanza di cui è un'affezione, essa si oppone tendenzialmente a tutto ciò che ne limita la realtà, minacciando di distruggerla. È allora certo che la determinazione non è in se stessa una negazione, ma al contrario un'affermazione: allora l'argomentazione di Hegel, secondo la quale Spinoza pensa la determinazione soltanto per difetto, dunque come l'ineffettivo, diventa caduco.C'è dunque per Spinoza un concetto positivo della determinazione che sembra del resto rimettere in questione le definizioni iniziali che davano la sua base al sistema:

«È detta finita nel suo genere la cosa che può essere limitata da un'altra della stessa natura» (I, def. 2).

«Con modo, intendo le affezioni della sostanza, in altre parole ciò che è in altra cosa, per la quale è anche concepito» (I def. 5).

«[...] chiamo necessaria, o piuttosto, coatta, la cosa che è determinata da un'altra ad esistere e a produrre un effetto secondo una ragione finita e determinata (certa e determinata raziona)» (I, def. 7).

“Per le cose che hanno origine da cause esterne, che si compongono di molte parti o di un piccolo numero, tutto ciò che hanno di perfezione o di realtà lo hanno in virtù della causa

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esterna, e anche la loro esistenza proviene dalla sola perfezione di questa causa, non dalla loro„ (I, scolio della prop. 11).

In tutte queste formule, una cosa non è determinata per ciò che è in essa (quantum in se est) come nel libro III, ma, al contrario, dell'esterno, a partire da altre cose che la limitano e che allo stesso tempo la fanno esistere, costituendola essa stessa come una causa esterna per altri effetti. Questo ragionamento è dunque completamente diverso da quello del libro III: una cosa finita vi è determinata dell'esterno da un'altra cosa; in quest'esteriorità non sono raccolte le condizioni che potrebbero distruggere la sua esistenza, ma quelle che, al contrario, la rendono possibile, o che la producono, necessariamente. Queste definizioni conducono alla proposizione 28 del libro I, secondo la quale una cosa singolare non esiste di per se stessa, ma per un'altra che è a sua volta determinata da un'altra, in un concatenamento infinito.Ma, questa differenza, questo contrasto tra due esposizioni della nozione di determinazione, determinazione «esterna» o determinazione «interna», può spiegarsi solo con una ragione evidente: non sono le stesse «cose» che sono determinate nell'uno e nell'altro caso; o, almeno, le stesse cose sono determinate a da punti di vista diversi. In un caso, una cosa finita è determinata quanto alla sua essenza, per la quale tende indefinitamente a perseverare nel suo essere; mentre, nell'altro caso, è determinata quanto alla sua esistenza, in condizioni che la limitano. Tale è precisamente la situazione particolare delle cose singolari: esse hanno un’essenza propria, che è data in esse, e nella quale la sostanza si esprime certo e determinato modo, ed esistono esteriormente in un concatenamento interminabile che le lega a tutte le altre cose. Si comprende di conseguenza perché, a differenza della sostanza stessa, queste cose non esistono necessariamente, in altre parole la loro essenza non implica l'esistenza: è che la loro esistenza e la loro essenza «sono determinate» in modi completamente diversi, in se et in alio. È per questo che il fatto che le cose singolari non esistono nell'eternità, ma nel movimento incessante e mutevole di relazioni estrinseche nel corso delle quali appaiono e scompaiono, non affetta in nulla l'eternità della loro essenza, cioè della loro tendenza immanente a perseverare nel loro essere.Riprendiamo l'esempio che funge da pretesto a Spinoza nel suo dialogo immaginario con gli oscurantisti (Etica, I, appendice). Un uomo muore per la caduta di una tegola portata via dal vento e che gli è caduta sulla testa nel momento in cui si recava da amici: la sua esistenza è distrutta da un concorso di circostanze esterne, che si spiega con un concatenamento interminabile di determinazioni, tutte esteriori le une rispetto alle altre, senza alcun collegamento immanente. Ma, per sua essenza propria, non per la sua comune appartenenza al genere umano, ma questa forma attuale e singolare che lo fa essere una persona, niente lo destinava a subire ciò che deve dunque essere designato, in senso forte, come un accidente, cioè qualcosa che gli arriva al di fuori di qualsiasi predisposizione, di qualsiasi tendenza interna, poiché questa, al contrario, vi si oppone. Si tratta di un accidente necessario, poiché si spiega con delle cause, anche se con un concatenamento infinito di cause che lo determina completamente, ma senza che da nessuna parte in questo concatenamento appaiano le condizioni di un'unità interna, che leghi tra loro tutte queste cause nel quadro di uno sviluppo immanente, cioè di un movimento finalizzato. È questa la ragione per cui l'interpretazione di quest'evento con la provvidenza o il destino, che ricerca, tramite cause finali, un significato interno nascosto, è perfettamente inadeguato: disvia dalla questione, poiché riguarda in realtà tutt'altro oggetto che quello che pretende di spiegare; sfrutta una circostanza e l'ignoranza nella quale ci troviamo necessariamente in quanto alla totalità delle sue condizioni e la utilizza come un pretesto per stabilire o rafforzare una superstizione. La tesi provvidenzialista, che funge da veicolo alla religione del timore, si sostiene sulla confusione dei punti di vista dell'essenza e dell'esistenza.Torniamo al problema della contraddizione. Cosa sono due cose contrarie? Sono due cose di cui l'una sopprime l'esistenza dell'altra, e che non possono dunque convenire tra loro, cioè essere in uno stesso

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soggetto (in eodem subjecto simul esse). Ma cosa significa essere in uno stesso soggetto? Letteralmente, significa coesistere, secondo il termine stesso utilizzato da Spinoza: due cose sono contrarie quando l'esistenza dell'una esclude quella dell'altra, apportando le condizioni esterne del suo annullamento. Da ciò risulta una conseguenza molto importante: l'enunciato del principio di contraddizione riguarda qui esistenze e non essenze. e il «soggetto» che fa intervenire, e di cui garantisce la possibilità è egli stesso determinato al livello delle esistenze e non a quello delle essenze. Vi sarebbe contraddizione soltanto tra esistenze e per esistenze, e non tra essenze e per essenze? Ne risulterebbe che le cose singolari, considerate così come sono in se stesse (quantum in se est), secondo la loro propria essenza, non sono determinate come soggetti, poiché un soggetto è soltanto un «ente» nel quale coesistono esistenze distinte, cioè ciò che Spinoza chiama in un altro punto un individuo. La nozione di soggetto ha significato razionale soltanto con le esistenze, e non le essenze.Se in Spinoza c'è una teoria del soggetto, essa assume d'acchito una forma non logica ma fisica, nel senso che la fisica studia le forme di coesistenza tra gli enti. Questa teoria è esposta nella proposizione 13 del libro II dell'Etica:

«Quando un certo numero di corpi di stesse o differenti dimensioni sono costretti da altri a restare attaccati gli uni contro gli altri, o anche - muovendosi secondo una velocità identica o differente -a comunicarsi gli uni agli altri i loro movimenti secondo una certa relazione, diremo che questi corpi sono uniti tra loro e che compongono insieme uno solo e medesimo corpo, in altre parole un individuo, che si distingue dagli altri per questa unione di corpi.»

Questa definizione si applica immediatamente ai corpi, cioè alle determinazioni dell'estensione; ma vale anche, indirettamente, per tutte le altre forme di unioni di determinazioni che si producono anche in altri generi di essere; è per questo che è possibile appoggiarsi ad essa per trarne una nozione generale di individuo.Cos'è un individuo? Un'«unione di corpi», cioè un certo assemblaggio di elementi della stessa natura che convengono tra loro, non soltanto in quanto alla loro essenza, poiché tutti i corpi convengono tra loro quanto alla loro essenza (52. Etica, II, lemma 2 di prop. 13150), ma quanto alla loro esistenza: formano allora «un solo e medesimo corpo, in altre parole un individuo», che si distingue dagli altri per un certo numero di proprietà comuni. Risulta immediatamente da questa definizione che gli individui non esistono assolutamente, ma relativamente a circostanze o a un punto di vista:

«Per cose singolari intendo le cose che sono finite ed hanno un'esistenza determinata; se più individui concorrono in una stessa azione in modo che tutti siano causa allo stesso tempo di uno stesso effetto, li considero tutti a tale riguardo (eatenus) come una stessa cosa singolare».151

«A tale riguardo»: l'unità che costituisce un individuo non è affatto eterna, ma dipende dalle condizioni che la fanno e la disfanno.Da dove proviene quest'unione? Da un principio interno di raccolta che legherebbe tra loro elementi diversi, secondo il loro proprio essere, per costituire la realtà singolare ed originale dell'individuo? Così i finalisti, «quando vedono la struttura del corpo umano sono colpiti da uno sciocco stupore e, siccome ignorano le cause di un così di un bell'accordo, concludono che non è formato affatto meccanicamente, ma da un'arte divina o sovrannaturale, ed in modo tale che nessuna parte nuoccia all'altra»„ (Etica, I, appendice), come se si completassero secondo il principio di un'armonia immanente. Ma i corpi singolari che compongono individui nell'estensione vi sono «attaccati gli uni

150 Etica, II, lemma 2 della prop. 13.151 Etica, II, def. 7

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contro gli altri», da una costrizione che è necessariamente esterna, e non per la necessità interna di un'essenza che tende indefinitamente a perpetuarsi. Per riprendere un'espressione di M. Gueroult, la genesi degli individui si spiega con «la pressione dei fattori ambientali»,152 cioè con un'azione meccanica, un concatenamento di determinazioni che si articolano, o, piuttosto, che sono articolate tra loro, al di fuori di ogni ragione intrinseca: questa riunione momentanea assume allora la forma specifica di una «costrizione».L'individuo, o il soggetto, non esiste dunque per se stesso, nella semplicità irriducibile di un essere unico ed eterno, ma è composto dall'incontro di esseri singolari che si accordano congiunturalmente in esso, quanto alla loro esistenza, cioè che vi coesistono, ma senza che quest'accordo presupponga una relazione privilegiata, l'unità di un ordine interno, al livello delle loro essenze, che sussistono in modo identico, quali com'erano in se stesse prima di essere così raccolte, e senza essere per nulla affette.Prendiamo un esempio di una tale associazione. Abbiamo appena ricordato che i finalisti hanno spesso preso il corpo umano come il modello di un'organizzazione integrata, e la sua perfezione ha suscitato il loro «sciocco stupore». Ecco come Spinoza risolve questo problema, appoggiandosi alla definizione dell'individuo che abbiamo appena commentato (prop. 13):

«Le parti che compongono il corpo umano non appartengono all'essenza del corpo stesso se non in quanto si comunicano le une alle altre i loro movimenti secondo un certo rapporto (certa ratione)[…], e non in quanto possono essere considerate come individui, a prescindere dal loro rapporto col corpo umano (55. Etica, II, dim. di prop. 24).»153

Intanto che è, come qualsiasi individuo, un essere composto, il corpo umano è costituito da parti che possono essere considerate in due modi: in quanto elementi che coesistono in esso e formano insieme la sua organizzazione globale, e in quanto sono esse stesse degli individui indipendenti, che esistono essi stessi come dei tutti, a prescindere dalla loro appartenenza al corpo umano. Spinoza propone la stessa distinzione nella sua lettera 32 a Oldenburg. Ma è soltanto l'immaginazione che scopre tra questi due aspetti un'identità o una convergenza: come se ciascuna parte fosse costituita in se stessa in modo da formare con tutte le altre una totalità armoniosa ed ordinata. A questa concezione finalista, che riassume astrattamente un concatenamento infinito di determinazioni nella finzione di un'intenzione unica, occorre sostituire una spiegazione completamente causale: questa, che non considera che le relazioni esterne tra i corpi, è completamente meccanicista. Ogni parte del corpo appartiene a questa forma globale che è il corpo preso nel suo insieme, non secondo la sua propria essenza, ma a causa di questo collegamento esterno, la cui necessità transitiva è quella di una costrizione, che fa tenere insieme tutti gli elementi del corpo umano fino al momento in cui, essendo cambiate le condizioni ambientali, le relazioni tra questi elementi sono anche modificate: l'assemblaggio si disfa, e le sue parti sono rinviate ad altre combinazioni. Non vi è dunque nessuna necessità di interpretare la struttura del corpo umano da partire da un'arte divina e sovrannaturale, le cui ragioni sono essenzialmente misteriose, prendendo a pretesto il fatto che «è costituita in modo tale che nessuna parte nuoce all'altra» ma al contrario gli convenga: la ragione di quest'accordo non è da ricercare in una predeterminazione oscura delle essenze singolari che le spingerebbe a convergere tutte insieme verso una essenza unica (una natura ideale), ma nella relazione transitiva di determinazione che le costringe provvisoriamente ad associarsi.Si sarà osservato che, nel testo che abbiamo appena commentato, Spinoza stesso presenta le parti del corpo umano, considerate al di fuori della loro appartenenza comune all'individuo nel quale coesistono come degli «individui»:

152 M. Gueroult, Spinoza, t. II, p. 166153 Etica, II, dim. di prop. 24.

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«Il corpo umano è composto d’un numero molto grande di individui (di diversa natura) ciascuno dei quali è molto composto (56. Etica, II, post. I al seguito della prop. 13).».154

«Le parti del corpo umano sono infatti individui molto composti (post. 1) le cui parti (lemma 4) possono essere separate dal corpo umano e comunicare i loro movimenti (assioma 1 a seguito del lemma 3) ad altri corpi secondo un altro rapporto, sebbene il corpo conservi interamente la sua natura e la sua forma. [...] Si può dire altrettanto di qualunque parte dell'individuo che entra nella composizione del corpo umano».155

Gli elementi costitutivi di un individuo sono dunque essi stessi delle realtà complesse, composte di parti distinte che coesistono in esse e che sono a loro volta determinate da questa relazione, e così via all'infinito, poiché l'analisi della realtà è, secondo Spinoza, interminabile, e che non può mai condurre ad esseri assolutamente semplici, a partire dai quali sarebbe costruito il sistema complesso delle loro combinazioni. Esistono, propriamente parlando, solo relazioni: è per questo che le essenze singolari, che sono determinate in se stesse, non sono affette dal concatenamento esterno delle esistenze: è per questo che non possono essere raggiunte da un'analisi che scoprirebbe il semplice al termine del complesso, come un elemento terminale, un'unità irriducibile. Le essenze non sono le unità costitutive di un tutto, così come non sono delle totalità, che unificano elementi per l'eternità. Come abbiamo già visto, questo movimento può essere preso nell'altro senso: nei corpi, presi come individui, ci sono sempre altri corpi, che sono anch'essi degli individui: ma così, ciascun corpo, in quanto esso stesso è un individuo, appartiene ad un altro corpo, che è anch'esso un individuo, e così all'infinito, fino a che arrivavamo a quell'individuo totale, facies totius universi, che è, lo abbiamo mostrato, il modo infinito mediato dell'estensione: «La natura nella sua totalità è un solo individuo le cui parti, cioè tutti i corpi, variano di un'infinità di modi, senza che l'individuo totale cambi». Lo abbiamo indicato, si avrebbe torto ad interpretare questo testo nel senso di una concezione organicistica della natura, inevitabilmente associata alla rappresentazione di una finalità immanente, come, tuttavia, si fa generalmente. Secondo tale concezione, le parti della natura, cioè l'insieme delle cose corporali (ma anche l'insieme delle cose che costituiscono ciascuno degli altri attributi), sarebbero esse stesse costituite, ciascuna per quanto riguarda la sua propria essenza, da un rapporto interno di solidarietà che le farebbe convergere tutte nella realizzazione di una forma globale, all'interno della quale sarebbero disposte le une rispetto alle altre in maniera unitaria. Sarebbe così possibile concludere armonicamente dalle loro proprie nature - che si concatenano tra loro secondo una stessa regola - la loro organizzazione infinita e viceversa: non si farebbe altro, allora, che leggere Leibniz dentro Spinoza.Ma una tale rappresentazione della natura, come la conoscenza del corpo umano alla quale si riferisce come ad un modello, appartiene secondo Spinoza al dominio dell'immaginazione: questa occulta o altera l'idea adeguata dell'infinito attuale, secondo la quale la sostanza si esprime immediatamente ed in modo identico - senza la mediazione di un principio d'ordine, inevitabilmente gerarchizzato e finalizzato - in ciascuna delle sue affezioni, di cui produce le essenze singolari tutte in una volta, senza accordare alcun privilegio a nessuna, conferendo loro quella tendenza originaria a perseverare nel loro essere che appartiene in maniera propria a ciascuna e che non può esserle tolta. Queste tendenze sono equivalenti nella misura in cui non possono essere comparate, poiché esse si realizzano nella pienezza positiva della loro propria natura. Occorre dunque rinunciare definitivamente alla comune illusione per la quale le cose sono conformate le une alle altre in modo da effettuare, con le loro relazioni reciproche che le situano le une rispetto alle altre nel concatenamento infinito delle cause e degli effetti, uno stesso ordine di perfezione. Poiché tale interpretazione «mette la natura a rovescio»

154 Etica, II, post. I al seguito della prop. 13.155 Etica, II, dimostrazione della prop. 24.

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(Etica, I, appendice): essa riconduce ogni parte della natura alla natura stessa considerata come un tutto e come il principio finale della loro ripartizione, dal quale esse stesse sono determinate; occorre, al contrario, considerare la natura come risultante dalla loro coesistenza, cioè come un insieme che non è totalizzabile. La natura, considerata da questo punto di vista, costituisce bensì un individuo nel senso che abbiamo stabilito: essa realizza tra gli esseri che la riempiono un rapporto necessario di coesistenza, poiché tutte le cose corporali vi si trovano per definizione raccolte, senza che questo rapporto sia retto da un ordine, di conseguenza ideale, di essenze, di cui sarebbe soltanto la manifestazione o la materializzazione.Tuttavia, una nuova difficoltà appare qui: secondo la definizione che Spinoza dà dell'individuo, la relazione degli elementi che lo costituiscono come un essere composto è interamente determinata dall'esteriorità, nella forma esclusiva della causalità transitiva, o secondo il principio della «pressione dei fattori ambientali», per riprendere l'espressione avanzata da M. Gueroult. Ciò non costituisce problema per nessuna cosa della natura, che si trova così costretta esteriormente dal concatenamento infinito delle cause nel quale è presa. Ma questo si può ancora dire della natura stessa, che comprende o almeno comporta tutto in essa, e per la quale nulla le può essere ancora esterno? Ciò mette apparentemente in scacco il principio della pressione dei fattori ambientali.Ci arrestiamo qui perché abbiamo reintrodotto, senza rendercene conto, questa nozione di interiorità che esclude completamente la definizione di individuo: se la natura corporale osservata globalmente come facies totius universi è un insieme illimitato che non può essere totalizzato, ciò significa che essa stessa esiste completamente nell'esteriorità. Nulla gli è esterno, precisamente perché qualsiasi esteriorità cade dentro di essa e vi si ritrova, se non collegata e compresa (cioè risolta a partire da un principio interno d'unità), almeno riunita ed assemblata in un rapporto di coesistenza immutabile ed illimitata: in questo senso il suo «ordine» esclude ogni contraddizione, cioè che tende a risolverla in uno stato d'equilibrio che è, d’altra parte, costantemente rimesso in «causa». La pressione dei fattori ambientali che fa tenere insieme tutti gli esseri corporali e costituisce la natura come la loro forma globale d'individualità, è il concatenamento infinito delle loro determinazioni causali. L'esteriorità di questo concatenamento è interpretata dall'immaginazione secondo la finzione astratta di un esterno, che esisterebbe indipendentemente da ciò che determina; ma occorre comprendere, al contrario, che non vi è nulla «al di fuori» delle cose che determina. Questo concatenamento delle cause transitive che è esso stesso - in sé stesso si potrebbe dire -, un concatenamento in esteriorità. Non c'è allora alcuna necessità di supporre una realtà esterna alla natura per comprendere che essa stessa è sottoposta ad una determinazione esterna, la stessa degli esseri che la compongono. Tutto è nella la natura proprio perché essa non può essere spiegata a partire da un'armonia ideale, da un ordine integrato, che stabilirebbe un limite fittizio tra ciò che gli è interno ed e ciò che gli è esterno. È per questo che ritroviamo, al livello della natura stessa considerata nel suo insieme, come in quello di ciascuna delle sue parti, la stessa concezione dell'individuo, considerato come una relazione esterna tra esistenze.Ciò significa che nessuna unità può più essere pensata in natura, e che questa è dispersa all'infinito, in una successione circostanziale di incontri, a livello dei quali nessuna necessità immanente può più essere individuata? Ma, per sfuggire all'illusione di un ordine finalistico, non basta sostituirgli la rappresentazione di un disordine contingente di pure esistenze, che non ne è dopotutto che l’immagine allo specchio. Tutto ciò che si produce in natura è determinato dalle leggi universali del movimento, per le quali ogni cosa esprime, in modo certo e determinato, l'essenza della sostanza in quanto è cosa estesa: il che significa che c'è per ciascuna cosa un'essenza singolare che la fa essere necessariamente, non più per la costrizione di un essere esterno, ma per l'atto della sostanza che si afferma in essa come in tutte le sue altre affezioni. In questo senso, la natura stessa, considerata come un essere unico, possiede un'essenza propria che è la ragione della sua necessità e della sua unità: essa è modo infinito immediato, nel quale la sostanza si esprime direttamente, al di fuori di qualsiasi relazione ad altra cosa. Ma, considerata così, dal punto di vista della sua essenza, nella quale la potenza

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di Dio si esprime immediatamente, essa non è più un individuo o un soggetto, cioè il sistema di tutte le coazioni che riunisce in essa, in una serie infinita, di esistenze esterne le une alle altre. Lo abbiamo visto, Spinoza nega ogni tentativo di ricondurre uno di questi aspetti all'altro, poiché ciò reintrodurrebbe quella concezione gerarchizzata del reale e l'ordine dei fini di cui si stupiscono gli sciocchi e gli schiavi.Nello stesso modo, come ogni realtà modale, il corpo umano possiede un'essenza singolare, distinta della sua esistenza, per la quale tende a perseverare nel suo essere. Ma, considerato da questo punto di vista, non è più un individuo, cioè un assemblaggio complesso di parti che si dispongono in lui secondo la coazione esterna delle loro relazioni reciproche; poiché è determinato da una disposizione interna, che non è l' ordine finalizzato di una composizione o di una totalità, ma l'affermazione – che non può scomporsi - della sostanza che si esprime in esso in modo certo e determinato, in un atto unico, incomparabile, ed irriducibile ad una determinazione esterna quale che sia.Più in generale, occorre dire che nessuna essenza singolare può dedursi direttamente come tale da un'altra essenza singolare, non più, del resto, della natura comune, cioè l'attributo da cui dipendono tutte: «Ciò che è comune a tutte le cose e che è ugualmente in una parte come nel tutto non costituisce l'essenza di nessuna cosa singolare».156 La necessità universale rappresenta non solo un ordine comune tra le cose, dal quale potrebbero essere comprese per astrazione: essa è l'affermazione concreta della sostanza che agisce in tutte le cose, in un'infinità assolutamente uguale ed assolutamente diversa di affezioni che l’esprimono in maniera identica nella misura in cui sfuggono ad ogni comparazione reciproca.Siamo così riportati ad un'idea importante che abbiamo già incontrato precedentemente: la sostanza stessa, la cui l'unità coincide con la sua potenza infinita, che non può mai venire a mancare e che si esprime in un'infinità di essenze, non esiste come un individuo, sotto l'ordine del quale ogni determinazione sarebbe compresa. Come indica brevemente Spinoza nella lettera 50 a J. Jelles - ma l'idea vera, si sa, basta a se stessa -, l'unità della sostanza non è numerica, non è quella di un solo essere che esisterebbe con l’esclusione di tutti gli altri esemplari che si potrebbero immaginarne, ma è l'unità assolutamente infinita, che non può essere osservata come tale dall'esterno, per eliminazione –in qualche modo -, in un movimento che condurrebbe del possibile al reale. Non soltanto Dio non è un individuo, ma è la sola «cosa» che non può assolutamente essere considerata da questo punto di vista, astrattamente, secondo un principio d'ordine o di coesistenza che eliminerebbe in lui ogni intellegibilità, poiché in Dio essenza ed esistenza coincidono esattamente, nella necessità immanente della causa sui. Mentre tutte le cose della «natura», in qualunque attributo siano, possono essere considerate da questo punto di vista esterno e negativo, dove la loro relazione causale assume una forma esclusivamente transitiva, Dio è per definizione tutto positivo: è ciò che determina ogni cosa come tale, positivamente. Hegel ha dunque buone ragioni per dichiarare che, nel ragionamento di Spinoza, la sostanza non «diventa» mai soggetto: possiamo anche dire che questo è ciò che dà al pensiero spinozista il suo contenuto effettivo, lo stesso che Hegel ha percepito come la sua restrizione ed il suo limite. Il Dio dell'Etica non è una totalità di determinazioni, disposte in un ordine razionale dalla logica del loro sviluppo o del loro sistema: per Spinoza, l'intellegibilità di un tutto è quella di una forma individuale, che si spiega relativamente con un concatenamento meccanico e transitivo, in una serie interminabile di coazioni; essa si distingue dunque radicalmente da un'essenza singolare, che è determinata, al contrario, dal suo rapporto necessario con la sostanza. Così, è l'idea di totalità che è, nel contesto in cui si forma, astratta e negativa: essa non rappresenta affatto la realtà positiva di un essere che tende, per la sua natura propria, a perseverare indefinitamente nel suo essere, ma questa limitazione reciproca che situa le forme individuali le une rispetto alle altre e che spiega la loro comparsa e la loro scomparsa, con cause sempre esteriori.

156 Etica, II, prop. 7

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Laddove si presentano contraddizioni e conflitti, ma anche equilibri e compromessi, nella successione transitiva delle coazioni individuali, ciò che esiste si spiega con un ordine negativo di determinazione che permane esteriore alle essenze. Ma la conoscenza assoluta delle cose, in che consiste «l'amore intellettuale di Dio», ricusa questo modello di conoscenza e se ne separa assolutamente: elimina dal suo oggetto ogni contraddizione, non nel movimento illusorio della sua risoluzione interna, ma riconoscendo che la vera necessità consiste nel rapporto esclusivo di ogni realtà alla sostanza che si afferma in essa, al di fuori di qualsiasi contraddizione.Nei Pensieri metafisici, Spinoza scriveva già:

“Dalla comparazione delle cose tra loro emergono alcune nozioni che tuttavia non sono nulla, al di fuori delle cose stesse, che semplici modi di pensare. Ciò si vede al fatto che, se volessimo considerarle come cose poste fuori del pensiero, rendiamo confuso il concetto chiaro che, per altro, abbiamo di esse. Tali sono le nozioni di Opposizione, di Ordine, di Convenienza, di Diversità, di Soggetto, di Complemento e di altre simili che si possono aggiungere a queste» (I, cap. 5).

Come l'ordine e la convenienza, l'opposizione è soltanto un modo di rappresentarsi non le cose stesse ma le loro relazioni: queste nozioni dipendono infatti dalla loro «comparazione». Si tratta dunque di nozioni astratte, formali, che non corrispondono realmente ad alcun contenuto. Come non c'è un ordine in sé non c'è opposizione in sé: vale a dire che è impossibile, a partire da tali nozioni, conoscere adeguatamente ciò che è. Tuttavia, non basta osservare che sono formali ed illusorie; occorre anche sapere da dove provengano e che cosa le renda così facilmente credibili. «Comparare le cose», anche se ciò non ci insegna nulla sulla loro vera natura, non è un'operazione assolutamente gratuita, nella misura in cui rappresenta il concatenamento transitivo delle esistenze che autorizza tale comparazione, perché essa misura essa stessa i suoi oggetti gli uni rispetto agli altri nella relazione indefinita delle loro determinazioni reciproche. Come modo di pensare, l'opposizione corrisponde, dunque, anche ad un certo modo di essere: quello che fa coesistere delle cose finite nella serie illimitata dove si limitano reciprocamente. Ma questa rappresentazione ignora completamente quella determinazione positiva delle affezioni che le collega direttamente alla sostanza. È per questo che non dà luogo ad un principio razionale la cui validità sarebbe effettivamente universale.Da tutto ciò risulta che il meccanismo del principio di contraddizione, che regola ancora il funzionamento di un pensiero razionale nell'epoca classica , anche se comincia ad essere messo in dubbio (come in Pascal), si trova in un certo qual modo da Spinoza deviato, o sregolato. Riportato all'ordine astratto delle esistenze, che costituisce gli individui in relazioni d'esteriorità, permette al massimo di misurare, o piuttosto di constatare, la durata precaria della loro sopravvivenza; ma non ci insegna nulla sulla realtà essenziale che sola conferisce alle cose la loro relazione immanente alla sostanza, cioè quella necessità positiva che le fa essere e perseverare. Per Spinoza, nessuna cosa è intrinsecamente determinata dalle sue contraddizioni, come osserva giustamente Hegel: in questo senso, la dialettica è effettivamente assente dello spinozismo. Ma occorre insistere anche sul fatto che la contraddizione ha perso allo stesso tempo il suo potere negativo di confutazione, da cui essa trae, ancora con Cartesio, una funzione essenzialmente logica: dato che non stabilisce più un essere nella sua realtà essa non permette neppure di rifiutargli una realtà, poiché il suo discorso è completamente esteriore all'essenza delle cose. Mentre Hegel non fa, dopo tutto, che rovesciare il principio di contraddizione, traendone conclusioni inverse da quelle che attestava tutta una tradizione precedente, Spinoza ne sposta completamente il campo d’applicazione, togliendogli, come a qualsiasi altro principio formale, il potere universale che permette di applicarlo uniformemente a qualsiasi realtà. Ma una dialettica, se se ne sviluppa fino in fondo la propria tendenza immanente non deve saper pensare anche contro la contraddizione?

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Forza et conatus

Spinoza attribuisce ancora al principio di contraddizione un significato razionale, ma gli toglie di fatto il potere di pensare la natura reale delle cose, cioè ne limita l'impiego, confutando la sua pretesa all'universalità. Su questo punto si anticipa, sembra, la filosofia critica che prende posizione, in modo apparentemente analogo, contro il formalismo. Questo accostamento tra Spinoza e Kant è pertinente?Secondo le «Anfibolie dei concetti della riflessione», che costituisce nella Critica della ragione pura l'appendice dell'«Analitica dei principi», l'applicazione del principio di contraddizione dà luogo ad una conoscenza soltanto dal punto di vista dell'intelletto puro, che considera una cosa in generale senza determinarla all'interno di un fenomeno particolare:

«Quando la realtà ci viene presentata dall'intelletto puro (realitas noumenon), nessuna discordia può concepirsi tra le realtà; vale a dire che non si può concepire un rapporto tale che queste realtà, essendo collegate in uno stesso soggetto, distruggano reciprocamente i loro effetti, e che 3 - 3 = 0».157

Una cosa non può essere al tempo stesso se stessa ed il suo contrario: l'universalità di questo principio è astratta ed universale, perché tratta il suo oggetto come una cosa qualunque, indipendente da ogni carattere empirico, e che l'intelletto pone soltanto in se stesso, come un soggetto puramente logico che non può ammettere attributi opposti. Si pone allora la questione di sapere se lo stesso principio può essere applicato anche alle cose che sono realmente presenti nell'esperienza e se sufficiente a spiegarle razionalmente.Ma nelle relazioni tra i fenomeni appaiono contraddizioni, o piuttosto opposizioni, il cui movimento non può essere ridotto a questa determinazione formale:

«Al contrario, le realtà interne ai fenomeni (realitas phaenomenon) possono certamente essere opposte tra loro ed essere riunite in uno stesso soggetto; l'una può eliminare completamente o in parte gli effetti dell'altra, ad esempio due forze motrici sulla stessa linea retta, intanto che corrono premono un punto nella direzione opposta, o anche il piacere che compensa il dolore».158

La conoscenza scientifica della natura non può risolvere queste contraddizioni in maniera speculativa, riducendole all'impossibile o al nulla, ma deve spiegarne le conseguenze, il che significa che riconosce la loro esistenza, o loro realtà. Non c'è conflitto, allora, tra la logica e l'esperienza?Kant introduce questo problema nella Critica della ragione pura in una prospettiva polemica ben precisa: la sua osservazione è diretta contro la tradizione leibniziana che ha risolto questo conflitto «intellettualizzando i fenomeni», cioè sottomettendo direttamente la natura e l'esperienza alle condizioni dell'intelletto puro per il quale l'esistenza è un predicato logico che può essere estratto dal suo soggetto con analisi:

«Il principio che le realtà (come semplici affermazioni) non si oppongono affatto logicamente tra loro è una proposizione molto vera per quanto riguarda il rapporto dei concetti, ma è senza alcun valore ne rispetto alla natura, e soprattutto rispetto ad una cosa in sé (di cui non abbiamo alcun concetto). [...] Sebbene Leibniz non abbia dichiarato questa

157 Critica della ragion pura.158 Ibid.

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proposizione come nuova, ne ha fatto tuttavia uso per nuove affermazioni ed i suoi successori l’hanno introdotta espressamente nella loro dottrina leibniz-wolfaniana. Secondo questo principio, tutti i mali, ad esempio, non sono che le conseguenze dei limiti delle creature, cioè, negazioni, perché queste negazioni sono l'unica cosa che si contrappone alla realtà (ed è effettivamente così nel concetto di una cosa in generale, ma non nelle cose come fenomeni). I seguaci di Leibniz trovano non di meno che non è soltanto possibile ma anche naturale conciliare ogni realtà in un essere, senza timore d'opposizione, perché non riconoscono altra opposizione che quella della contraddizione (con la quale il concetto stesso di una cosa scompare); ma essi non conoscono l'opposizione di danno reciproco, che ha luogo quando un principio reale distrugge l'effetto di un altro. È solo nella sensibilità che incontriamo le condizioni necessarie per rappresentare quest'opposizione o contrarietà».159

Dal punto di vista dell'armonia universale la necessità delle cose si riconduce al rapporto di convenienza che le lega le une alle altre, e si spiega completamente con esso: un tipo di logica oggettiva permette allora di dedurre il reale dal possibile con un ragionamento omogeneo e continuo, che non fa intervenire alcuna determinazione esteriore, nessun principio d'esistenza autonoma. L'ordine del reale si trova di conseguenza garantito dalla sua conformità ad un principio puramente intellettuale, per il quale, in particolare, tutto ciò che si contraddice sopprime allo stesso tempo il suo diritto all'esistenza: reciprocamente, da tutto ciò che esiste, le contraddizioni si trovano effettivamente assenti.Kant rifiuta questo modo diretto di dedurre il sensibile dall'intelligibile, che si risparmia una vera deduzione trascendentale, perché essa non lascia mai quella sfera di idealità con la quale ha, una volta per tutte, identificato ogni realtà. La sintesi di determinazioni che è alla base di una conoscenza empirica, e ne garantisce la legittimità, non si riduce alle condizioni formali dell'intelletto puro, che ragiona con analisi di concetti, ma suppone il concetto di una cosa in particolare, così come è data nell'esperienza. Ma, da questo punto di vista, nella natura, il principio per il quale delle realtà (considerate come di semplici affermazioni) non possono contraddirsi o negarsi tra loro, cioè entrare in un rapporto conflittuale, non è più applicabile universalmente. Occorre dunque sviluppare un nuovo concetto della contraddizione e della negazione, che non sia più determinato da condizioni strettamente logiche.È ciò che Kant aveva intrapreso dal 1763, nel Saggio per introdurre in filosofia il concetto di grandezza negativa, nel quale prendeva già posizione a favore del «realismo» newtoniano contro il «concettualismo» dei cartesiani e di Leibniz. Le grandezze negative, il cui concetto appartiene alla fisica e non alla logica, derivano da opposizioni reali, così come sono date nell'esperienza, con le quali una cosa si afferma positivamente negandone un'altra, o almeno «eliminandone gli effetti». Appare qui un nuovo rapporto tra il positivo e il negativo che non è più, in senso stretto, contraddittoria.Per spiegare questo fenomeno del tutto particolare che è una grandezza negativa, occorre far intervenire la distinzione tra contraddizione logica ed opposizione reale:

«Due cose sono opposte tra loro quando per il fatto di porre l'una elimina l'altra. Quest'opposizione è doppia: sia logica (per la contraddizione), sia reale (senza contraddizione). Si è considerata finora soltanto la prima opposizione o opposizione logica. Essa consiste nell'affermare e nel negare qualcosa di uno stesso soggetto. Questa connessione logica è senza effetto (nihil negativum repraesentabile), come l’enuncia il principio di contraddizione. [...] La seconda opposizione, l'opposizione reale, è tale che i due predicati di un soggetto sono opposti ma senza contraddizione. Certamente, una cosa

159 Ibid.

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distrugge egualmente ciò che è stato posto da un'altra, ma qui la conseguenza è qualcosa (cogitabile)».160

Nelle due forme dell'opposizione, la relazione che si stabilisce tra le determinazioni conflittuali si presenta come la relazione tra predicati che appartengono ad uno stesso soggetto. Ma la natura di questa relazione è, nei due casi, completamente diversa. Poiché, nella contraddizione logica, i predicati non sono considerati in se stessi, nella loro esistenza reale, ma soltanto per il loro rapporto reciproco, all'interno di questo soggetto comune che non può sopportare determinazioni antagonistiche: allora la contraddizione può essere risolta da una semplice analisi, interna al soggetto stesso. Quest'analisi toglie ai predicati ogni positività, poiché porta all'impossibilità di pensarli insieme:

«Si considera solo la relazione per la quale i predicati di una cosa e i loro effetti si annullano reciprocamente per la contraddizione. Quale dei due predicati è veramente affermativo (realitas) e quale veramente negativo? Non ci interessa minimamente».161

Al limite, occorrerebbe dire che sono tutti e due negativi: non sono nulla in se stessi, nella misura in cui ciascuno si definisce, in modo astratto e relativo, con l'esclusione dell'altro. Osservazione che Hegel riprenderà dal canto suo per trarne tutt'altro partito: vi scoprirà una ragione per affermare il carattere immanente del rapporto del negativo col positivo.Al contrario, in un'opposizione reale, i predicati devono essere realmente e positivamente determinati al di fuori del loro antagonismo, cioè indipendentemente da quella negatività (annullamento o diminuzione) che si manifesta nel loro incontro: non sono dunque in se stessi esclusivi l'uno dell'altro, e perché entrino in conflitto occorre un'occasione che li riunisca in uno stesso «soggetto», dove coesistono, in un senso non più logico ma fisico. Questo conflitto non può dunque essere risolto da una semplice analisi concettuale, ma da una sintesi di determinazioni esteriori, le cui condizioni sono date dall'esperienza:

«Ciò che è affermato da un predicato non è negato dall'altro, poiché ciò è impossibile; al contrario, i predicati A e B sono entrambi affermativi; ma, poiché le conseguenze di ciascuno di essi presi in particolare sarebbero a e b, né l'uno né l'altro possono coesistere in un soggetto, così che l'effetto è zero».162

In questo caso, il disaccordo è dunque non tra i predicati stessi, ma tra ciò che ne risulta: sono i loro effetti che si annullano o si correggono reciprocamente, in uno stato d'equilibrio. Ciò significa che i predicati non sono, come nel caso precedente, predicati logici, determinati a partire dal loro soggetto di cui esprimono la natura intrinseca, ma sono essi stessi dei «soggetti» autonomi, definito ognuno in se stesso per le sue proprietà, o ciò che Kant chiama i loro «conseguenze». L'opposizione reale è in realtà una relazione estrinseca, coesistenza, nel senso strettamente fisico del termine, tra esseri indipendenti.Per presentare questa forma d'opposizione Kant ricorre inizialmente all'esempio di un movimento meccanico: una nave sottoposta alle pressioni contrarie di venti che soffiano in direzioni opposte non entra in contraddizione con se stessa, come il soggetto di un giudizio predicativo, ma è presa nella tensione degli effetti inversi che si affrontano in essa perché la prendono per oggetto delle loro azioni antagonistiche. Nessuna di queste azioni è di per sé negativa, poiché «sarebbe assurdo immaginarsi

160 Saggio per introdurre in filosofia il concetto di grandezza negativa.161 Ibid.162 Ibid.

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una specie particolare di oggetti e chiamarli negativi»;163 ma una negatività appare soltanto nella relazione reciproca che si stabilisce in occasione del loro incontro:

«Uno degli opposti non è il contradittorio dell'altro, e, se questo è qualcosa di positivo, quello non è una pura negazione, ma gli è opposto come qualcosa di affermativo».164

La «contraddizione» assume qui la forma di un'opposizione tra cause che agiscono una sull'altra in un rapporto di forze empiricamente determinato e che modificano reciprocamente i loro effetti.Nel suo Saggio del 1763, Kant prevede «di applicare questo concetto (di grandezza negativa) agli oggetti della filosofia», cioè di trasporre lo studio delle opposizioni meccaniche dal mondo naturale a quello del mondo spirituale: questo tentativo, che produce del resto risultati singolari (scoprendo anche nell’anima dei conflitti di forze), sarà abbandonato nel periodo critico. Ma lo stesso concetto d'opposizione, strettamente limitato al dominio della fisica, fa da fondamento ai Primi principi metafisici della scienza della natura del 1786, dove il suo significato è più pienamente esplicitato.In questo testo Kant prende posizione contro un meccanicismo geometrico ereditato da Cartesio, che suppone la riduzione della realtà materiale all'estensione astratta, in mancanza di un principio fisico di determinazione che si applichi non ad un mondo intelligibile ma alla realtà dell'esperienza: ad esso sostituisce una fisica dell'opposizione reale che si appoggia sul concetto metafisico di forza. La scienza della natura non si limita ad una «foronomia», che interpreta i fenomeni da partire dai soli principi della figura e del movimento, per la quale «la materia è ciò che è mobile nello spazio»;165 ma la corregge con una «dinamica», per la quale «la materia è mobile in quanto riempie uno spazio ».166 Il movimento non si spiega dunque soltanto con proprietà geometriche, ma per l'intervento di una «forza» reale che agisce sul mobile, sia come spinta sia come resistenza al movimento.In questa occasione Kant si impegna in una polemica con Lambert i cui termini sono abbastanza caratteristici:

«Secondo la loro opinione, la presenza di qualcosa di reale nello spazio dovrebbe implicare questa resistenza già in virtù del suo stesso concetto, come conseguenza del principio di contraddizione e fare in modo che nulla d'altro possa coesistere nello spazio con questa cosa. Tuttavia, il principio di contraddizione non rifiuta alcuna materia che si approssima a penetrare in uno spazio in cui si trova un'altra materia. Soltanto qualora io attribuisca a ciò che occupa uno spazio una forza per respingere ogni mobile esterno che si avvicina, io posso comprendere che ci può essere contraddizione nel fatto che nello spazio occupato da una cosa un'altra cosa dello stesso genere possa penetrare».167

Qui Kant, ancora una volta, rifiuta ogni confusione tra determinazione logica ed una determinazione fisica - «Il principe di contraddizione non rifiuta alcuna materia»: non ha qui un valore effettivamente causale; al massimo può, una volta compiuto il movimento, esprimere alcune delle sue proprietà, descrivendone, formalmente, il risultato. Ma fare passare quest'interpretazione astratta per la spiegazione razionale del fenomeno significa rinunciare a conoscere la realtà fisica che è determinata dal rapporto delle forze antagonistiche: l'«impenetrabilità ad un fondamento fisico».168 La fisica non è qui più subordinata ad un presupposto logico, ma trova la sua garanzia in un principio metafisico.

163 Ibid.164 Ibid.165 Primi principi metafisici della scienza della natura.166 Ibid.167 Ibid.168 Ibid.

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Infatti, queste forze primitive, il cui concetto da una spiegazione dell'esperienza, non si possono come tali assegnare nell'esperienza, e possono essere rappresentate solo «metafisicamente». Né la forza attrattiva né la forza repulsiva possono essere ricondotte ad un movimento empirico che si effettua in un luogo determinato a partire da un corpo determinato: questo movimento è soltanto il loro effetto, la manifestazione fisica di un principio che non è in se stesso fisico. Così, l'idea di un'opposizione reale tra forze è alla base di una razionalità sperimentale, ma non si confonde con le relazioni reali tra corpi che costituiscono effettivamente la natura materiale. Ciò significa che le «forze» non appartengono a parti della materia di cui esprimerebbero la natura essenziale, ma che sono forze della natura stessa, considerata in generale da un punto di vista metafisico. Il concetto di forze antagonistiche permette dunque una «costruzione della materia»: i fenomeni devono essere interpreti a partire dall'opposizione reale delle forze, e non l'inverso. Come, d'altra parte, sappiamo, il ritorno all'esperienza non implica per Kant la sottomissione all'esperienza, ma la sua determinazione a partire da principi razionali che si applicano all'esperienza senza essere dati in essa.Come abbiamo visto questi principi si sviluppano non nel senso di un'analisi ma di una sintesi. Presuppongono dunque che sia confutata la riduzione della materia all'estensione:

«Lo spazio è un concetto che non contiene ancora qualcosa di esistente, ma soltanto le condizioni necessarie delle relazioni esteriori tra gli oggetti possibili dei sensi esterni».169

Come riempie un corpo un posto nell'estensione? Non per i caratteri che appartengono all'estensione stessa o che potrebbero esserne dedotti:

«Ecco il principio generale della dinamica della natura materiale, è che tutta la realtà degli oggetti dei sensi esterni e che non è semplicemente determinazione dello spazio (luogo, estensione e figura) deve essere considerata come forza motrice».170

Introducendo nella rappresentazione della natura la categoria metafisica di forza, Kant elimina dunque la concezione meccanicista «che spiega con la combinazione del pieno assoluto o del vuoto assoluto tutte le diversità della materia»,171 poiché tale concezione sfocia alla fine in una filosofia corpuscolare che determina la natura con la relazione astratta tra elementi pieni e l'estensione vuota nella quale essi sono in movimento; essa si limita ad una fisica dell'urto, la cui razionalità è incompleta ed arbitraria, poiché dipende dal preconcetto di un impulso iniziale, e si riduce così ad una teologia fisica:

«Tutto ciò che ci dispensa dal ricorrere a spazi vuoti è un vero guadagno per la scienza della natura; poiché questi spazi danno troppo gioco all'immaginazione per rimpiazzare con sogni vuoti la mancanza dell'intima scienza della natura. Il vuoto assoluto e il pieno assoluto corrispondono, più o meno, in questa scienza, a ciò che sono in filosofia metafisica il caso cieco e il destino folle, cioè una barriera per la ragione dominatrice affinché la fantasia occupi il suo posto o che la metta a riposo sul cuscino delle qualità occulte».172

La positività di quest'interpretazione geometrica o meccanica, che scarta dal suo oggetto ogni azione reale, genera al massimo, nei suoi margini, la finzione poetica di un mondo possibile.Il punto di vista metafisico sulla natura, che introduce al contrario ad un'indagine dinamica dei fenomeni, determina la materia con la combinazione di forze primordiali. Ma questa spiegazione

169 Ibid.170 Ibid.171 Ibid.172 Ibid.

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«è ben più conforme alla filosofia sperimentale e gli è così più vantaggiosa poiché conduce direttamente a scoprire le forze motrici proprie della materia e le loro leggi, pur eliminando la libertà di ammettere gli intervalli vuoti ed i corpuscoli primitivi variamente figurati, poiché queste due cose non possono essere determinate né scoperte dall'esperienza».173

Mentre la rappresentazione meccanicista della natura, le cui determinazioni astratte possono essere sviluppate con l'analisi, vale soltanto per un mondo possibile, l'ipotesi metafisica delle forze ha un significato concreto, una validità sperimentale; permette di conoscere, per costruzione, il mondo reale.Secondo quest'ipotesi, le relazioni tra i corpi che costituiscono la natura si spiegano con l'antagonismo di due forze primitive, la repulsione e l'attrazione, che agiscono l'una sull'altra in una relazione sintetica.Questa relazione è primitiva. Se la forza repulsiva è immediatamente accessibile alla rappresentazione, poiché l'esistenza di un corpo quale che sia coincide con la resistenza che oppone ad ogni intrusione esteriore, appare immediatamente evidente che questa forza non può essere pensata come principio unico d'esistenza della materia, poiché questa, se fosse costituita soltanto da questa tendenza espansiva, tenderebbe non soltanto ad occupare uno spazio e a difendere quest'ultimo contro le aggressioni esterne, ma si diffonderebbe in tutto lo spazio, in maniera illimitata.

«Cioè che si disperderebbe all'infinito, e non si potrebbe trovare in nessuno spazio determinabile una quantità determinabile di materia. Conseguentemente, se esistessero soltanto forze repulsive nella materia, tutti gli spazi sarebbero vuoti, e non ci sarebbe, propriamente parlando, nessuna materi».174

La forza repulsiva è dunque un principio di intellegibilità per la natura considerata nel suo insieme solo se è, in un certo qual modo, equilibrata da un principio contrario, una forza d'attrazione:

«Occorre dunque ammettere da qualche parte una forza primitiva della materia che agisce con una grandezza opposta alla forza repulsiva e che produce il raccostamento, dunque una forza d'attrazione».175

Il teorema 6 della dinamica («nessuna materia è possibile per la sola forza d’attrazione senza la forza di repulsione»), riprende la stessa dimostrazione in senso inverso: spiegare la natura per la sola forza d’attrazione, sarebbe sottoporla ad un movimento di contrazione infinita che farebbe egualmente svanire la materia in un solo punto dello spazio. Ne risulta che ciò che è «primitivo», e costituisce il vero principio di conoscenza della natura, è il conflitto originario di forze opposte, che determina tutto il movimento della materia nello spazio. Questo conflitto è originario nella misura in cui non può essere ridotto ad una determinazione più profonda. Fornendo il suo principio a tutta la scienza della natura, questo principio non può esso stesso essere spiegato, cioè analizzato, ed è per questo che è un principio metafisico:

«Tutta la filosofia della natura consiste nel riportare le forze date, apparentemente diverse, ad un numero più piccolo di forze e di potenze, atti a spiegare gli effetti delle prime; ma questa riduzione può giungere soltanto fino alle forze fondamentali oltre le

173 Ibid.174 Ibid.175 Ibid.

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quali la nostra ragione non può elevarsi. [...] Questo è tutto ciò che può fare la metafisica in previsione della costruzione del concetto di materia».176

Così, il conflitto delle forze è il punto ultimo al quale può risalire una spiegazione razionale della natura; ma ciò non significa affatto che la costituisce tale come è in sé secondo la sua destinazione finale. Poiché i principi metafisici di una scienza della natura non sfociano su null'altro che questa conoscenza alla quale assegnano le sue condizioni, ma non ci conducono affatto ad una metafisica della natura che - se la sua impresa ha un senso - dovrebbe mettere in pratica altri concetti e altre prove. Nella dottrina kantiana, corrisponde nella filosofia della storia, che si appoggia in principio sullo stesso concetto di forze antagonistiche (si veda ad esempio il concetto di «insociabile socievolezza» in Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolita), il risolvere il conflitto dentro una determinazione ultima che riconcilia la natura e la ragione in uno stato di diritto: è perché c'è un fine della storia che tale «soluzione» è possibile, e che è necessariamente conforme all'«intenzione della natura».Nel dominio della natura, è facile comprendere perché questo conflitto originario è irriducibile, e non si lascia ricondurre, in particolare, ad una relazione analitica: se così fosse, le forze antagonistiche potrebbero essere ricondotte l'una all'altra, come le forme inverse o avverse di una stessa forza primitiva, alla maniera ad esempio di un impulso vitale o di un'energia fondamentale, che costituirebbe una sorta di modello generale d'interpretazione della natura. Emergerebbe allora un problema insolubile: perché questa forza entra in conflitto con se stessa al livello delle sue manifestazioni? Ma una tale riduzione è impossibile, se non per astrazione, poiché le forze antagonistiche sono nel loro principio anche irriducibili le une alle altre:

«Le due forze motrici sono di specie molto diversa e non esiste la minima ragione per rendere l'una dipendente dall'altra e per rifiutarle ogni possibilità senza l'intermediazione dell'altra».177

Le due forze sono dunque inseparabili, poiché agiscono una sull'altra, se non l'una attraverso l'altra, e pertanto la loro relazione è sintetica e suppone la loro reale esteriorità. È qui che ritroviamo il concetto di grandezza negativa, poiché è soltanto il gioco di un'illusione o di una convenzione che ci fa dire che l'una è il negativo dell'altra.Riprendiamo il movimento d'insieme di questo ragionamento, così come è riassunto nel «Corollario generale alla dinamica».178 Il punto di partenza è dato dalla forza di repulsione come determinazione immediata del reale nello spazio: il corpo si offre inizialmente alla rappresentazione come un solido, attraverso il fenomeno della resistenza. La forza di attrazione è presentata, dopo, in opposizione alla precedente; ma quest'opposizione è quindi compresa nell'ordine della rappresentazione che fa apparire «ciò che rispetto a questo reale, vero, oggetto della percezione esterna, è negativo, ovvero, la forza d'attrazione». C'è in questo caso non negatività in sé, ma soltanto secondo le condizioni immediate della nostra apprensione del reale, che ne scompone i rapporti seguendo l'ordine di successione che gli è proprio. È per questo che l'opposizione delle due forze è data soltanto a posteriori, come una relazione di limitazione reciproca, che è la condizione di intellegibilità della natura. Si vede il vantaggio di questa rappresentazione, immediatamente comprensibile poiché si appoggia alla rappresentazione spontanea della realtà fisica: fa bene apparire il carattere sintetico della relazione antagonistica, poiché oppone a posteriori l'attrazione alla repulsione. Ma, trasformando l'attrazione in una forza intrinsecamente negativa, inverte di fatto l'ordine fisico razionale che deve

176 Ibid.177 Ibid.178 Ibid.

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partire dal conflitto delle forze e non dall'una o l'altra di queste, per comprendere realmente e non formalmente le relazioni necessarie tra i fenomeni. Ma ciò che diventa allora problematica è l'indipendenza reale di queste forze ed il carattere originariamente sintetico della loro relazione. Nella sua osservazione al paragrafo 262 dell'Enciclopedia, Hegel segnala che Kant «ha aperto la via, grazie al suo saggio, a ciò che chiama una costruzione della materia, verso un concetto della materia, e grazie a questo saggio ha destato dal suo sonno il concetto di una filosofia della natura.179 Tuttavia, Kant non ha potuto, secondo Hegel, andare fino in fondo a quest'impresa, perché ha limitato la determinazione della realtà materiale alla considerazione di forze tra le quali non esiste che una relazione sintetica d'esteriorità, «come saldamente collocate l'una di fronte all'altra». Ridotta a questo rapporto di forze, la materia resta in sé inintelligibile: come abbiamo appena visto, è precisamente per rispettare questa limitazione della conoscenza che Kant presentava il conflitto delle forze come irriducibile. Ma ne risulta una conseguenza paradossale: la relazione delle forze, data come un'opposizione reale, la cui esistenza di fatto è insuperabile, è tuttavia accessibile soltanto da un punto di vista metafisico, perché non si manifesta mai come tale nell'esperienza. Per uscire da questa «contraddizione», occorre dare un nuovo contenuto al concetto di materia, non più costruendolo sinteticamente per mezzo di queste «determinazioni riflessive»180 che sono le forze primitive, ma producendolo effettivamente a partire dallo sviluppo delle sue contraddizioni interne. Qui sta in effetti ciò che separa contraddizione ed opposizione: in quest'ultima, i termini antagonistici sono esterni ed indipendenti; nel movimento della contraddizione gli opposti sono collegati tra loro in uno stesso processo immanente. Hegel sviluppa completamente questa distinzione nel libro II della Logica.181

Hegel inverte dunque la posizione kantiana: attrazione e repulsione non sono più elementi irriducibili che permettono soltanto di dare della natura una rappresentazione razionale. Esse sono le manifestazioni, o i momenti, di un processo materiale unico, dentro lo sviluppo del quale appaiono come intrinsecamente legate:

« […] l’attrazione e la repulsione […] non è necessario considerarli per se come indipendenti, o come forze; la materia deriva da loro soltanto in quanto sono momenti concettuali, ma essa è il presupposto perché si manifestino fenomenicamente».182

Come si vede, i sentieri della dialettica, che dà qui il cambio alla metafisica, riportano Hegel ad un'analisi strettamente logica della realtà. Ma questa utilizza altri mezzi rispetto a Leibniz, ed in particolare fa un impiego completamente opposto del principio di contraddizione.La stessa argomentazione si trova sotto una forma più sviluppata nella prima sezione del libro I della Logica, sotto la forma di una osservazione al capitolo sull'«essere per sé».183 La costruzione della materia per Kant parte dall'attrazione e dalla repulsione considerate come forze autonome, «in modo tale che non si rapportano l'una all'altra secondo la loro natura, cioè che ciascuna non debba essere soltanto un momento che passa nel suo opposto, ma che debba stabilmente mantenersi di fronte all'altra»:184 queste forze sono quindi astrattamente giustapposte, e la materia non è che il risultato del loro conflitto. La realtà materiale non è realmente conosciuta, nella misura in cui è rappresentata da determinazioni esteriori, che sono esteriori tra loro e che le sono esteriori. La metafisica delle forze impedisce la comprensione del movimento interno, del «passaggio», che unifica gli elementi costitutivi della materia nel momento stesso in cui li effettua.

179 Enciclopedia.180 Ibid.181Logica.182 Enciclopedia.183 Logica, t. I.184 Ibid.

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Kant ha dunque mancato il suo obiettivo di dare una deduzione razionale della materia. Questa valutazione conduce Hegel ad una conclusione sorprendente: «Il metodo di Kant è al fondo analitico e non costruttivo.»185 Infatti, il concetto delle forze primitive è ottenuto a partire da una rappresentazione immediata della materia, data nell'intuizione, di cui esplicita i presupposti:

“La repulsione sarebbe pensata immediatamente nel concetto della materia perché così sarebbe immediatamente data: l'attrazione, in compenso, gli sarebbe aggiunta tramite sillogismi. Ma alla base di questi sillogismi si trova ciò che si è appena detto, cioè che una materia che avesse semplicemente la forza repulsiva non esaurirebbe ciò che ci rappresentiamo come materia. È chiaro che questo è il metodo di conoscere abituale che riflette sull'esperienza; questo conoscere percepisce inizialmente le determinazioni nel fenomeno, le mette allora a fondamento e per la loro cosiddetta spiegazione ammette materiali fondamentali ed anche forze che dovrebbero produrre queste determinazioni del fenomeno».186

Il concetto di forze primitive proviene dunque dall'analisi della rappresentazione empirica: esse sono soltanto elementi di questa rappresentazione, astratti ed oggettivati. La loro differenza, la loro esteriorità reale non sono dunque altro che un'esteriorità, una differenza nella rappresentazione, proiettata nella forma di un'opposizione reale. Le «forze» non sono proprietà effettive della natura, ma “delle determinazioni prese dalla percezione», formalmente realizzate ed artificialmente isolate.Su questo punto, dunque, Kant è per Hegel un pensatore non conseguente, che non ha saputo andare fino in fondo nella sua critica del meccanicismo: determinando la materia a partire da forze che determinano i movimenti reali dei corpi, Kant ha eliminato il concetto astratto di una materia inerte, analizzabile con mezzi puramente geometrici; egli apre così la via ad una nuova concezione della materia, non soltanto dinamica, ma dialettica, che riconduce questa al processo razionale dell'attrazione e della repulsione, unite intrinsecamente nella loro contraddizione. Ma di fronte a questa conseguenza, che è la vera costruzione della materia, cioè la sua genesi effettiva, Kant è restato «bewusstlos [inconscio]»:187 non l'ha afferrata perché ha travestito «la natura della cosa» nella rappresentazione astratta, ed allo stesso tempo empirica, della forza.La critica di Hegel, se si lasciano di parte le libertà che si prende con il testo di Kant, ha soprattutto il merito di mettere in evidenza l'ambiguità del concetto d'opposizione reale ed il carattere artificiale della distinzione che la separa dalla contraddizione logica. Cosa significa infatti il termine «reale» nell'espressione «opposizione reale»? Esso significa un carattere che è irriducibile ad una determinazione logica salvo che per l'operazione di un intelletto formale. Ma «reale» ha qui anche un significato positivo - e non critico -, che indica l'esistenza materiale, indipendente dal pensiero, di una realtà oggettiva che non gli è immediatamente adeguata e che gli resta in sé esteriore? Certamente no, poiché «la realtà» del conflitto originario delle forze, che può essere affermata soltanto metafisicamente, è posta dal pensiero, in quanto questo mira ad appropriarsi degli oggetti con la conoscenza, ed è dunque sottoposta alle condizioni, trascendentali e non più formali, della ragione.L'opposizione delle forze è il concetto di cui la ragione ha bisogno per spiegare teoricamente la natura, e questo concetto gli è fornito dalla metafisica che dà alle scienze della natura le loro condizioni di possibilità. Kant si oppone a Leibniz, lo abbiamo visto, nella misura in cui rifiuta una deduzione continua che identifica immediatamente l'esistenza ad un predicato, il sensibile all'intelligibile. Ma si accorda con lui molto più profondamente, prendendo in considerazione l'idea di una deduzione (anche se questa non è più soltanto formale) che conduca dal possibile al reale, al termine di una sintesi

185 Ibid.186 Ibid.187 Ibid.

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complessa che tiene conto della diversità delle fonti della conoscenza anziché installarsi di primo acchito nella finzione di un intelletto intuitivo. E il reale a cui mira tale deduzione, quali che siano le condizioni, non può che essere la realizzazione di condizioni razionali che anticipano il movimento effettivo e ritagliano in lui a priori un dominio aperto alla conoscenza.Lucio Colletti ha creduto di poter riconoscere in Kant «il solo filosofo tedesco classico nel quale sia possibile ritrovare almeno un grano di materialismo»:188 questo materialismo «critico» consisterebbe precisamente nella distinzione che installa tra l'opposizione reale e la contraddizione logica, distinzione che garantisce «la priorità dell'esistenza ed il suo carattere extralogico»189, cioè «l'eterogeneità di pensiero e essere».190 Ma quest'interpretazione sovrappone la distinzione di intuizione e concetto, che condiziona il funzionamento interno della ragione differenziando le fonti della conoscenza, e quella della cosa in sé e del fenomeno, che limita dall'esterno il potere della ragione. Ma, in questi due casi, il rapporto del reale e del pensiero designa un contenuto completamente diverso, e precisamente irriducibile. Il reale che restituisce il concetto fisico d'opposizione deriva da una costruzione metafisica, o anche, per riprendere l'espressione che abbiamo appena utilizzato, è la realizzazione di un possibile; in questo senso, è determinato a partire da condizioni che sono inizialmente date nella ragione: resta dunque esteriore alla costituzione della realtà materiale come tale.

188 L. Colletti, Il marxismo ed Hegel.189 Ibid.190 Ibid.