POMPONAZZI - Armando Editore · 2019. 10. 22. · Sommario Introduzione 7 Il Rinascimento 9 Magia,...

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Clemente Galligani POMPONAZZI Il grande eretico alla ricerca della verità ARMANDO EDITORE

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Clemente Galligani

POMPONAZZIIl grande eretico alla ricerca della verità

ARMANDOEDITORE

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Sommario

Introduzione 7

Il Rinascimento 9

Magia, astrologia, medicina 30

Lotta fra intellettuali laici ed ecclesiastici 43

Pratiche magiche, eresie, astrologia, magia e cabala 47

Giordano Bruno: le opere 125

Rinascita dopo il 1000 147

Dibattito tra fautori di “veritas filia temporis” e fautori di verità immutabile 164

Fonti del diritto romano e canonico 511

Divario in Italia fra Nord e Sud. Assolutismo e Borghesia 641

Le discussioni sul dogma si coniugano con quelle disciplinari 644

Deplorevole condizione di certe diocesi in Germania 654

L'attività evangelica e culturale dei gesuiti dopo il Concilio di Trento 657

Aspirazione unitaria in Francia 679

L'unità linguistica d'Italia nel “De vulgari eloquentia” 692

La filologia, scienza del secolo. Poliziano 706

Tragica morte di Corso Donati 720

Battaglia di Mühldorf. Due bolle di Giovanni XXII contro Ludovico.Appello di Sachsenhansen. Marsilio di Padova e Giovanni di Jandun: scontro con il Papa 766

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Vuoto di potere a causa della mancanza di denaro. Il falso Vladimiro. Incoronazione di Carlo a Roma 783

Savonarola e Machiavelli: due diverse manifestazioni necessarie dello spirito umano 801

Giudizio complessivo sulla azione politica di Savonarola 807

Valore progressivo della “scuola poetica siciliana” 836

Neoplatonismo: tappa importante nella crisi dell'umanesimo italianointeso come impegno civile 841

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Introduzione

I quaderni del carcere di Antonio Gramsci sono stati definiti un “cantiere aperto” un luo-go, per così dire, dove sono depositati materiali per nuove costruzioni. Il presente saggio èuna dimostrazione di quanto sopra asserito. Esso infatti si basa e prende avvio dalle notegramsciane che vanno da pagina 11 a pagina 28 del volume intitolato Il Risorgimento (ediz.Einaudi). Il saggio ha come nucleo contenutistico il passaggio dal Medioevo al Rinascimen-to, ma va anche oltre, sia nel prima che nel dopo, questi termini temporali. Costretti dal di-vagare delle note che seguono la logica del pensatore sardo, il saggio, che su di esse si co-struisce e da cui prende spunto, non risulta composto perfettamente sulla base di un model-lo storico completamente diacronico-progressivo, però affronta diversi temi e differenti mo-menti storici. In esso rivivono personaggi importanti come Federico II, Ludovico il Bavaro,Bonifaci VIII, pensatori come Machiavelli, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, grandi ar-tisti come Leonardo da Vinci, Michelangelo ecc…, dando della società medievale e rinasci-mentale un quadro non convenzionale.

Lucca 24-3-2016

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Il RinascimentoBurckhardt

Il XV e il XVI secolo vedono fiorire in Europa e, soprattutto in Italia, due fenomeni cul-turali l’Umanesimo e il Rinascimento. Il primo prende nome dal vivo interesse per lo studiodel mondo antico, greco e romano, il secondo viene a denotare il rinnovamento globale del-l’uomo nei suoi rapporti con se stesso, gli altri, il mondo e Dio. A questo punto ci si può por-re una serie di domande: 1) Qual è il rapporto dell’Umanesimo-Rinascimento con il Medioe-vo, l’epoca che lo precede? 2) Il Rinascimento è anticristiano come alcuni lo hanno defini-to? 3) Quali sono i centri culturali più importanti nel ’400-’500? 4) Chi sono i maggiori espo-nenti culturali di questo periodo? 5) Quali caratteristiche evidenzia la filosofia di questo pe-riodo? 7) Quale ruolo vi riveste la Chiesa? 8) La magia come viene vista in questo periodo?9) Quali sono le teorie astronomiche ed astrologiche?

I) Una pietra miliare da cui partire per una trattazione organica dell’Umanesimo-Rinasci-mento è l’opera dello storico svizzero Jacob Burckhardt intitolata: “La civiltà del Rinasci-mento in Italia” (1860). Quest’opera incentrata sulla grande antinomia persona-società, pre-senta ancora a più di un secolo e mezzo dalla sua apparizione un modello ideale, che ha ilfascino perenne di ciò che nasce da un’intima adesione all’oggetto studiato, come una tota-le, profonda aspirazione intellettuale, sorta da un atteggiamento critico nei confronti del pro-prio secolo, il secolo del progresso, dell’ottimismo e delle orgogliose certezze borghesi dicui aveva intuito l’intima gracilità. A proposito della Kultur der Renaissance in Italien si ècercato di operare accostamenti di Burckhardt a Schopenhauer e addirittura a Nietzsche, tut-tavia anche se la suggestione si avverte, non si può parlare di un pensiero filosofico bur-ckhardtiano, né l’approfondimento di taluni concetti quali “individualità”, “potenza”, “sco-perta del mondo dell’uomo”, “creatività”, possono legittimare tali accostamenti. L’opera del-lo storico svizzero, la cui formazione è soprattutto storico-artistica, è certamente un capola-voro, non per nulla la sua lettura è stata in tempi relativamente recenti (1974) riproposta. Giàil Croce «riconosceva a Burckhardt, pur storico “senza problemi”, il gusto “eccellente, clas-sico, goethiano; e, se dovessimo chiederci da dove venisse in lui la capacità di intuizione,dovremo senza dubbio continuare a fare riferimento alla sua formazione storico-artisticasempre vigile ed operante, ed alla ricettività di vibrazioni e di fermenti sia antichi che nuo-vi, caratteristica in tal genere di interessi e di studi. E da ciò il fascino della sua rappresen-tazione: quadro, affresco – è stato giustamente affermato – ma anche opera di poesia: sìcchépotremmo paradossalmente concludere che nessuna critica, per quanto fondata è largamen-te condivisa o diffusa, e volta a negare alla Kultur il crisma della “storicità”, potrà mai smi-nuire il valore della grandiosa architettura dell’opera e la sua vitalità sostanzialmente roman-tica» (op. cit. ed. Newton Compton italiana pp. 8-9). Ma tutto ciò non può evidentemente ba-stare. Sì, perché il volume burckardtiano ha suscitato da parte degli storici diverse critiche.Il Rinascimento che da esso emerge sarebbe “come uno splendido fiore sbocciato in mezzoal deserto”. Parole, come si sa, di Federico Chabod, ma che esprimono un concetto che si ri-

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trova, prima o poi, in decine e decine di studi critici. Oltre al problema della origine non sto-ricamente dimostrata dello Umanesimo-Rinascimento, vi è quello della frattura oppure del-la continuità tra Medioevo e Rinascimento che poi, in fondo, contiene anche il primo. Lostesso storico svizzero del problema aveva avuto piena consapevolezza. In tutto il volumeemerge evidente alla sua lettura una brusca e non tenue contrapposizione al mondo medie-vale per dar risalto al quadro vagheggiato, non senza però che le connessioni e gli agganciall’età precedente siano ignorati e sottaciuti e non si ravvisi in talune concezioni e creazionimedievali, soprattutto nel campo letterario e delle arti figurative, il precorrimento e il raccor-do con l’età nuova. Gli stessi studiosi, in polemica con la sua visione, e orientati verso la te-si del nesso profondo tra Medioevo e Rinascimento, furono quelli che misero in circolo leintuizioni burckhardtiane a loro favorevoli, che sono ormai, senza che se ne sospetti la pa-ternità, divenute patrimonio comune della nostra cultura. Persino uno storico del Medioevoe dell’età moderna della portata di Gioacchino Volpe non è stato insensibile alla influenzadell’autore della Kultur. Manca certamente in essa qualsiasi dialettica di tipo hegeliano, tut-tavia il quadro non appare del tutto statico. È un quadro sì non dialettico ma non per questoprivo di stimoli e di vivacità.

Certo, il senso della contrapposizione netta tra Medioevo e Rinascimento rimane e ne èuna testimonianza il ricordo di alcune pagine della Kultur. “In Italia – scrive lo storico sviz-zero – essa (l’Antichità greco-latina) torna in vita in modo affatto diverso. Cessata la barba-rie s’annunzia tosto presso il popolo italiano, per metà ancora antico, la cognizione dei suoitempi anteriori; esso li magnifica e desidera riprodurli. Fuori d’Italia trattasi di trar partito invia di erudizione e di riflessione da singoli elementi dell’Antichità; in Italia invece si ha unvero entusiasmo per tutto ciò che è antico, e non da parte dei dotti soltanto, ma del popolointero, perché vi si scopre il segno tangibile dell’antica grandezza, e perché si ha un impul-so a darvi opera nella facile comprensione del latino e nella copia di memorie e monumen-ti, che ancora esistono” (op. cit. p. 156-157). E ancora: “In qual modo nelle arti figurative ri-sorga l’elemento antico, non appena cessa la barbarie, mostrasi chiaramente dalle costruzio-ni toscane del secolo XII e dalle sculture del XIII” (op. cit. p. 157). Quindi per Burckhardtl’alto Medioevo o addirittura il Medioevo equivalgono alla “barbarie”, ad un lungo periododi barbarie.

Garin: Frattura e continuità fra Medioevo e Umanesimo

Eugenio Garin, storico italiano della filosofia, ha dedicato un intenso lavoro di ricerca alRinascimento italiano, che il Burckhardt mette al centro della sua opera. Egli, al contrario,dialetizza i due termini (Medioevo Umanesimo-Rinascimento) del problema. Vi sarebbe,dunque, secondo il Garin continuità e nello stesso tempo frattura che si risolve nella sintesidi “una creazione affatto nuova, lo spirito moderno italiano, destinato a costituire il model-lo – sono parole del Burckhardt – di tutto il mondo occidentale”. Così il Garin scrive: “L’or-goglioso mito della rinascita, della luce che fuga le tenebre, dell’antico che ritorna, nella suaforza polemica non ci rimanda materialmente ad un contenuto: sottolinea un animo nuovo,una forma nuova, uno sguardo nuovo rivolto alle cose; sottolinea, soprattutto, la coscienzadesta di questo nuovo nascimento dell’uomo a se stesso. Proprio l’antico, quel mondo clas-sico a cui si guarda con occhi nostalgici, è in tutt’altro modo che viene ormai considerato eamato. Chi può negare che il Medioevo abbia anch’esso conosciuto e vagheggiato il mondopagano…?”. Ben ricordiamo che Dante ha inserito lo antico poeta (Virgilio) nell’economiadella storia cristiana, e vi ha reintrodotto anche gli antichi dèi fatti demoni nelle speloncheinfernali (in Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari; Laterza 1954 pp. 98-107).L’Umanesimo però non crede più a Virgilio profeta, e l’antico è non più confuso col presen-te, ma guardato con critico distacco. Alla luce dei risultati di un più attento studio del pro-blema si può oggi intendere il valore non caduco, nella nostra educazione, di quei grandi ini-ziatori e maestri che furono, pur con tutti i loro limiti, i Michelet, i Burckhardt, e i De San-

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ctis. Quindi anche Garin non può assolutamente negare il valore dell’opera burckhardtiana,se non altro una delle prime opere della storiografia sul Rinascimento.

Gramsci e il Rinascimento

Anche Antonio Gramsci in alcune sue note dei quaderni dal carcere che si trovano pub-blicate nel volume Risorgimento (ediz. Einaudi 1972) scrive dell’Umanesimo, del Rinasci-mento e mostra di conoscere oltre alla Kultur der Renaissance in Italien, “La Storia della let-teratura italiana” del De Sanctis e altre opere italiane e straniere. “Il libro del Burckhardt –scrive Gramsci – fu interpretato diversamente in Italia e fuori d’Italia. Uscito nel 1860, eb-be risonanza europea, influenzò le idee di Nietzsche sul superuomo e per questa via suscitòtutta una letteratura, specialmente nei paesi nordici, su artisti e condottieri del Rinascimen-to, letteratura in cui si proclama il diritto alla vita bella ed eroica, alla libera espansione del-la personalità senza riguardi e vincoli morali” (op. cit. p. 13). Oltre che di Nietzsche possia-mo parlare di Schopenhauer. Quest’ultimo, autore dell’opera intitolata Il mondo come volon-tà e rappresentazione, presenta “la volontà di vivere” come la vera realtà metafisica del mon-do e dell’uomo, di contro al fenomeno sensibile pura apparenza e manifestazione esteriore.Questa volontà di vivere diventa in Nietzsche “volontà di potenza” come ha ben dimostratoMartin Heidegger nel suo saggio intitolato appunto Nietzsche ediz Adelphi (1994). Il concet-to di volontà di potenza mette capo alle idee del superuomo e dell”’eterno ritorno dell’egua-le”. Il concetto di “superuomo”, dell’uomo cioè che accetta gioiosamente la vita così comeviene, attraverso l’“eterno ritorno dell’eguale” essendo al di là del bene e del male, sarebbestato suggerito, secondo la suddetta interpretazione del Burckhardt, soprattutto storico del-l’arte, e non certamente orientato verso il pensiero filosofico. La sua influenza sarebbe de-terminata dall’ammirazione sua per le grandi personalità del Rinascimento: Cesare Borgia,tanto per fare un esempio. Oltre che in Cesare Borgia il Rinascimento – continua Gramsci –si riassume così in Sigismondo Malatesta, Leone X, lo aretino, “con Machiavelli come teo-rico e, a parte, solitario, Michelangelo. In Italia D’Annunzio rappresenta questa interpreta-zione del Rinascimento”.

La Kultur der Renaissance in Italien – ci informa Gramsci – fu tradotta nel 1877 dal Val-busa e lo stesso Gramsci asseriva che “la traduzione italiana metteva più in luce le tendenzeanticuriali che il Burckhardt vede nel Rinascimento e che coincidevano con le tendenze del-la politica della cultura del Risorgimento. Anche l’altro elemento messo in luce” dallo stori-co svizzero – continua Gramsci – “nel Rinascimento, quello dell’individualismo e della for-mazione della mentalità moderna, fu in Italia visto come opposizione al mondo medievalerappresentato dal papato” e conclude “in Italia fu meno notata l’ammirazione per una vitaenergica e di pura bellezza; i condottieri, gli avventurieri, gli immoralisti, trovarono in Italiameno attenzione” (op. cit. p. 14).

Quadro della Roma papale e dello Stato Pontificio

Siamo nel Rinascimento ai tempi della congiura di Stefano Porcari contro Niccolò V(1453) “Sotto lo stesso pontificato Lorenzo Valla chiudeva la sua famosa invettiva contro ladonazione di Costantino, augurando l’immediata secolarizzazione dello Stato pontificio”(Kultur p. 102 103) Sono i tempi del “terribile” Sisto IV e Innocenzo VIII. “Se Sisto s’eraarricchito colla vendita di ogni sorta di cariche e di onori, Innocenzo e suo figlio eressero ad-dirittura una banca di grazie temporali, nella quale, dietro il pagamento di tasse alquanto ele-vate, poteva ottenersi l’impunità per qualsiasi assassinio o delitto: di ogni ammenda cento-cinquanta ducati ricadevano alla Camera papale, il di più a Franceschetto” (op. cit. p. 106)(Franceschetto, figlio del Papa). Non migliore è la situazione sotto i Borgia, di origine spa-gnola; Alessandro VI (Rodrigo Borgia) (1431-1503), padre di Cesare e Lucrezia, sale al so-

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glio nel 1492. Sotto questo pontificato si notano il dominio degli stranieri (spagnoli), la cor-ruzione dilagante, si mirava a che la “simonia dell’acquisto fosse ampiamente sorpassata dal-la simonia delle vendite” (op. cit. p. 108). Gli Orsini ed i Colonna che rivendicavano il pon-tificato non dormivano certamente sonni tranquilli: i nemici venivano eliminati col veleno(Cardinale Orsini). Con Cesare Borgia incombe la minacciata secolarizzazione dello StatoPontificio. E ciò senza dubbio sarebbe avvenuto se Cesare, nel momento in cui morì suo pa-dre, non si fosse egli pure trovato infermo sul letto di morte. Giulio II “nei punti più sostan-ziali fu l’uomo che salvò il Papato” “per quanto anche una critica severa trovasse a ridire sui‘suoi’ costumi privati”, (op. cit. p. 113). Sotto Leone X (Giovanni dè Medici) “la pubblicaopinione, di fronte alla corruzione della Curia e della corte romana, s’era negli ultimi annisvegliata più imperiosa che mai, e uomini che vedevano nel futuro, come, per esempio, ilgiovane Pico della Mirandola, invocavano con forza pronte riforme. Frattanto era comparsosulla scena Lutero” (p. 117). Le riforme furono fatte sotto il pontificato di Adriano VI (15211523); ma scarse e insufficienti e in ritardo di fronte al dilagare della Riforma protestante.Fino al tempo di questo ultimo pontificato la simonia, il nepotismo, la prodigalità, la delin-quenza e la più profonda immoralità erano state le piaghe che avevano deturpato la Chiesa.Sotto Clemente VII (1478 1534) (Giulio dei Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, eletto1523). “L’indomabile cardinale Pompeo Colonna la cui presenza soltanto è una minacciapermanente pel papato, tenta una sorpresa su Roma (1526) nella speranza di poter, con l’aiu-to di Carlo V, cingere senz’altro la tiara, non appena Clemente fosse caduto vivo o morto nel-le sue mani”. Clemente trovò però rifugio in Castel S. Angelo. Il Papa, poi, provocò la ve-nuta delle truppe austro-spagnole comandate dal Borbone e da Frundsberg. La calata deiLanzichenecchi in Italia provocò il sacco di Roma (1527) con l’uccisione di innumerevolipersone delle classi inferiori e con la spoliazione delle altre, usando, fra l’altro, anche la tor-tura. Nel 1526, alleato con Francia, Inghilterra, Milano e Venezia contro Carlo V, per contra-starne la prepotenza dannosa all’Italia e al papato, (1527-29) il Pontefice finì per accordarsicon lui dopo il sacco di Roma, e ne ebbe in compenso l’aiuto per abbattere in Firenze la re-pubblica e ristabilirvi i Medici (1530), dovette fronteggiare lo scisma luterano e quello in-glese scoppiato con la sua opposizione al divorzio di Enrico VIII da Caterina di Aragona.Carlo V si era comportato come carceriere del Papa e i monarchi non potevano permettereche un loro eguale assumesse questa terribile funzione e nell’intento di ridonare a quest’ul-timo la sua libertà conclusero appunto il trattato di Amiens (1527). Roma aveva troppo sof-ferto per poter pensare a tornare, nemmeno sotto il pontificato di Paolo III, l’allegra e cor-rotta Roma di Leone X. Questo è il quadro della Roma papale e dello Stato Pontificio, mi-nato dal nepotismo, durante il Rinascimento e il Burckhardt conclude che “il Papato sotto ilpunto di vista morale dovette la sua salvezza ai suoi stessi nemici” (p. 120). Infatti, secondolo storico svizzero, “… senza la Riforma…tutto lo Stato della Chiesa sarebbe passato da lun-go tempo in mano laiche” (p. 120).

De Sanctis: il Rinascimento e Machiavelli

I motivi anticuriali e anticlericali non mancavano ed erano ben giustificati nel Rinasci-mento. E Gramsci vede una linea di continuità su questo terreno tra Rinascimento e Risor-gimento e furono certamente anticuriali Garibaldi, Mazzini, Brofferio, Cavour ecc. “Il DeSanctis accentua nel Rinascimento i colori oscuri della corruzione politica e morale; nono-stante tutti i meriti che si possono riconoscere al Rinascimento, esso disfece l’Italia e la con-dusse serva dello straniero” (op. cit. p. 14). Anche il De Sanctis nel quadro del Rinascimen-to evidenzia, come il Burckhardt, gli aspetti “della corruzione politica e morale”. “La Chie-sa lasciava libero il passo – scrive nella Storia della letteratura italiana – a tutta quella lette-ratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa, della quale era esempio la corte di Leo-ne, ma non potea vedere senza inquietudine questo risvegliarsi dell’intelligenza nelle scuo-le” (op. cit. p. 36). E ancora all’inizio del paragrafo su Machiavelli scrive: “Fu appunto in

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quel tempo che Lutero, spaventato come Savonarola alla vista di così vasta corruttela italia-na, proclamò la Riforma e regalò al mondo una teologia purgata ed emendata” (p. 38) Al Ri-nascimento vanno però riconosciuti anche dei meriti e questi si colgono sul piano dellascienza e del progresso verso la mentalità e il mondo moderni, che emergono lentamente daicondizionamenti della società medievale. “Pomponazzi – scrive De Sanctis – negando l’esi-stenza degli universali, rigettando i miracoli, proclamando mortale l’anima e spezzando ognilegame tra il cielo e la terra, pose obiettivo della scienza l’uomo e la natura. Platonici ed Ari-stotelici per diverse vie proclamavano l’autonomia della scienza, la sua indipendenza dallateologia e dal dogma” (p. 36). E ancora De Sanctis nota, come aspetto positivo: “Affranca-ta già dalla teologia e abbracciando in un solo amplesso tutte le religioni e tutta la cultura,l’Italia del Pico e del Pomponazzi, assisa sulle rovine del Medioevo, non potea chiedere labase del nuovo edificio alla teologia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu Niccolò Machiavel-li” (op. cit. p. 39). Oltre a quello di Pomponazzi si possono fare altri nomi: Lorenzo Valla,Ficino, Cusano, Copernico, Montaigne in Francia, Leonardo da Vinci, importante come ar-tista e come scienziato ecc… Certo che sul piano politico e sociale il Rinascimento presen-ta aspetti non positivi, di decadenza. Per quanto riguarda i singoli stati italiani il numero del-le persone che li abbandonano è considerevole e “quegli uomini non erano semplici fuggia-schi banditi dalla loro patria, ma l’avevano abbandonata di proprio impulso, perché le con-dizioni politiche ed economiche di essa erano divenute ormai insopportabili” (Kultur p. 126).L’Italia poi non era “fatta” come si disse alla fine del Risorgimento ma “disfatta”. Basta pen-sare che a proposito dell’impresa di Carlo VIII che, attraversando tutta la penisola giunge aconquistare il Regno di Napoli il 21 febbraio del 1495, si dice che la sua impresa venne fat-ta “con gli speroni di legno ed il gesso per segnare gli accampamenti”: ossia pura passeggia-ta militare, non una guerra combattuta. Fu tuttavia successo di breve durata perché dopoqualche mese dovette ritirarsi. L’impresa del re francese dimostrò la grave debolezza deglistati italiani, la fragilità della politica dell’equilibrio perpetrata da Lorenzo il Magnifico, de-finito “l’ago della bilancia”, evidenziatasi dopo la sua morte, inoltre – commenta Saitta – “unfatto nuovo si era prodotto e nulla ormai poteva più distruggerlo: una invasione straniera eraavvenuta in Italia e l’esempio di Carlo VIII sarebbe stato ben presto imitato da altri” (A. Sait-ta, Il cammino umano, vol. II, p. 7). La nuova Italia divenne dunque terra di conquista per lepotenze straniere, la Francia e la Spagna, poi loro campo di battaglia per il predominio poli-tico (armistizio di Lione 1504): il regno di Napoli alla Spagna e il ducato di Milano alla Fran-cia. Giulio II pratica una politica di favore verso la Spagna, promuovendo la Lega Santa(1511-13) contro la Francia, in seguito alla quale i Francesi dovettero abbandonare Milano.Sotto il re Francesco I (1515-1547) avvenne la netta riscossa francese e il trattato di Noyon(1516) confermò il possesso di Napoli alla Spagna e ridiede il ducato di Milano alla Francia.Contemporaneamente agli avvenimenti in seguito alla Riforma protestante, si svolge il duel-lo tra le due più forti monarchie dell’Europa, la Francia e l’Impero di Carlo V (1527-1559).Questo comprende quattro fasi l’ultima delle quali, dopo l’abdicazione di Carlo V e la spar-tizione dei suoi domini in Impero (al fratello Ferdinando I) e in regno di Spagna (al figlio Fi-lippo II), si chiude con la pace di Cateau – Cambrésis, che consacrò definitivamente il pre-dominio della Spagna in Italia – (Calais e i vescovati di Metz, Toul e Verdun furono dati al-la Francia). L’Italia è ora veramente una “espressione geografica” sulla quale si avverte ilpredominio spagnolo, anche su quegli stati che vantano una politica indipendente. Unico sta-to forte, veramente indipendente, è Venezia, tanto da sostenere con il Papa Paolo V (1605-1630) un’altra lotta giurisdizionale.

“Insomma, il Burckhardt – scrive Gramsci – vede il Rinascimento come punto di parten-za di una nuova epoca della civiltà europea, progressiva, culla dell’uomo moderno: il DeSanctis, dal punto di vista della storia italiana e per l’Italia il Rinascimento fu il punto di par-tenza di un regresso ecc… Il Burckhardt e il De Sanctis però coincidono nei particolari del-l’analisi del Rinascimento e sono d’accordo nel rilevare come elementi caratteristici il for-marsi della nuova mentalità, il distacco da tutti i legami medievali di fronte alla religione, al-l’autorità, alla patria, alla famiglia” (op. cit. p. 14).

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La religione e Machiavelli

L’ammirazione del De Sanctis per Machiavelli è apertamente e senza condizioni, dichia-rata, egli avrebbe, secondo lo storico della letteratura, rotto completamente i legami con ilMedioevo e avrebbe dato l’avvio alla scienza moderna che trova in Galilei, poi, il suo piùcompleto iniziatore e sostenitore. “Il Machiavelli – scrive De Sanctis – è la coscienza e ilpensiero del secolo, la società che guarda in sé e si interroga e si conosce; è la negazione piùprofonda del Medioevo, e insieme l’affermazione più chiara dei nuovi tempi; è il materiali-smo dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue applicazioni al-la vita” (op. cit. p. 39). E ancora: “questo era il lato positivo del materialismo italiano: un an-dare più dappresso al reale ed alla esperienza, dato bando a tutte le nebbie teologiche scola-stiche, che parvero astrazioni. Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo, e in quelloche negava e in quello che affermava, è il Machiavelli”. De Sanctis tocca poi la sostanza delpensiero del Segretario fiorentino e scrive: “il concetto del Machiavelli è questo: che biso-gna considerare le cose nella loro verità effettuale”, cioè come sono poste dalla esperienza eosservate dall’intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo e la base dottrinale delMedioevo capovolta: concetto ben altrimenti rivoluzionario che non quel ritorno al puro spi-rito della Riforma, e che sarà la leva da cui uscirà la scienza moderna” (op. cit. p. 40). E in-fine: ”La scienza della natura si sviluppa più tardi. Non si crede più al miracolo, ma si cre-de ancora all’astrologia. Attendete ancora un poco, e il concetto di Machiavelli, applicato al-la natura, vi darà Galileo e l’illustre corte dei naturalisti” (p. 40). Machiavelli è visto dunquecome un precursore del pensiero moderno e della scienza contemporanea.

Anche per quanto riguarda il modo di concepire la religione Machiavelli è fuori dal Me-dioevo. La fede e la religione a quel tempo erano il culmine dell’attività della mente umana.“Intelligo ut credam” sosteneva San Tommaso d’Aquino. Diverso l’orizzonte mentale delMachiavelli “Motivi tutti di limitatezza spirituale, – scrive lo Chabod – aggravati finalmen-te per quella disposizione fondamentale dello spirito del Machiavelli che poco risente lacommozione di ogni movimento spirituale, non contenuto nella pura idea politica; che igno-ra, non soltanto l’eterno e il trascendente, ma ben anche il dubbio morale e l’ansia tormen-tosa di una coscienza che si ripieghi su se stessa; che è condotta quindi forzatamente a tra-mutare il valore umano e mistico, al tempo stesso, di una fede, in valore pienamente politi-co, inquadrato nelle leggi e negli ordini dello Stato. La religione – continua lo storico – puòben costituire, con le leggi buone e la milizia, il fondamento della vita nazionale; ma quelloche viene alla luce, qui, non è il sentimento in sé, non la sua necessità per l’anima stessa del-l’uomo che trovi il sostegno dove appoggiare la naturale inquietudine, sibbene il caratterepratico che ne deriva, costituendo un freno alla corruzione e un elemento per lo svolgersi or-dinato della vita collettiva Scritti su Machiavelli (ediz. Einaudi p. 80-81)”. Il Savonarola checostata nella Chiesa del suo tempo, immersa completamente nel ‘temporale’, il distacco dal-la umiltà e dalla povertà originarie, è per Machiavelli ‘un profeta disarmato’ un frate che pre-conizzava la riforma senza individuare le forze capaci di portarla a termine, in una societàcompletamente secolarizzata. Le tracce tuttavia della sua predicazione così violenta ma de-stinata al fallimento “permangono forti in lui stesso, poiché l’irritazione contro gli errori po-litici del Savonarola, riordinatore di governo, si tramuta inconsciamente in disprezzo perl’ecclesiastico, e, inserendosi sul fondo naturalmente poco religioso dello animo suo, ne de-termina maggiormente l’acredine contro la Chiesa. Lo sdegno del frate domenicano controAlessandro VI è da Niccolò ripreso, ampliato, condotto alla più generale ostilità verso il pa-pato, causa della corruzione d’Italia, mentre ad un tempo gli eccessi della reazione fratesca– conclude lo Chabod – rafforzano quella sua sprezzante incredulità, che culminerà più tar-di nella creazione di fra Timoteo… uno dei personaggi della Mandragola, un frate cinico,ipocrita e corrotto, come lo è la Curia romana”. Anche Pomponazzi, per quanto riguarda lareligione, si pone sullo stesso piano del Machiavelli. Per il Peretto come per Machiavelli in-fatti la religione è solo ‘instrumentum regni’, strumento di potere. Il filosofo mantovano tut-tavia va più a fondo del segretario fiorentino, pur rimanendo aderente allo stesso orizzonte

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intellettuale che è quello razionalistico, chiuso ad ogni motivo sentimentale. E infatti sostie-ne che la religione non è altro che un fenomeno naturale intendendo per fenomeno naturaleanche tutto ciò che sottostà alla potenza astrale ed esiste conformemente a un ciclo di nasci-ta, crescita e morte. Infatti alla nascita dei fondatori delle religioni si vedono prodigi esatta-mente come alla nascita di re e principi, quindi abbiamo le predizioni astrologiche che le ri-guardano e infine la somiglianza dell’origine e della natura di tutte le religioni. Esaminan-do, poi, i prodigi che sono avvenuti nella religione cristiana Pomponazzi ne pronostica ad-dirittura una fine vicina. Inoltre, notando la stessa natura e origine delle religioni ritiene chesia la stessa cosa parlare della religione di Mosè, di Cristo o di Maometto, oppure dell’Im-pero Romano e di Cesare. Stessi prodigi, stesso cielo, stessi fenomeni. Il complesso di cre-denze che la religione propone è basato solo sulla superstizione. La religione, per esempio,impone la credenza nei demoni. Nel De incantationibus Pomponazzi dimostra che l’esisten-za dei demoni è inutile, che i demoni in realtà non esistono. Tutto può, secondo il Peretto,essere prodotto da cause naturali e spiegato con esse, per esempio anche “le stigmate”, del-le quali persino la scienza contemporanea tuttora non conosce la causa. Pomponazzi antici-pa così hume nell’affermare che il miracolo non è altro che un fenomeno del quale non si co-nosce la causa. La Chiesa, però, impone la credenza nel miracolo. Consideriamo l’esempiodei “serpenti”. Come dice Tommaso d’Aquino (De miraculis) secondo Agostino “nel com-mento della Genesi, i serpenti fatti dai maghi del faraone furono generati per cause naturalidall’intervento dei demoni, mentre quelli generati da Mosè furono fatti grazie alla preghie-ra di Mosè per la potenza divina, nonostante, tutti quei serpenti sembrassero simili”. Anchedi fronte a due fenomeni simili si deve dire che è un miracolo quello indicato dalle religio-ni. “Perché tali eventi siano miracoli, mentre altri della stessa specie non lo siano, è suffi-ciente l’autorità della Chiesa romana, la quale è guidata dallo Spirito Santo…” (De incanta-tionibus p. 60). VIII – “All’ottava dubitazione – si dice… che sebbene quei segni potrebbe-ro essere rassicurati nei cuori per una forte immaginazione e le stigmate potrebbero esseregenerate in certe parti, come si legge del beato Francesco, tuttavia, dato che la Chiesa stabi-lisce che questi fatti sono stati operati per miracolo, così fermamente si deve credere per lacausa detta sopra. Tali cose, tuttavia, con possibilità molto remote sembrano poter essere fat-te in modo naturale, poiché non sembra essere sorprendente che il feto nell’utero venga se-gnato in un determinato modo per l’obbedienza della materia, dal momento che essa è mol-to tenera e facilmente impressionabile, in questi casi però essa non è molto ubbidiente ed ècontraria nella disposizione, perciò la prima disposizione è migliore ed è più pia.” (p. 61-62).Qui Pomponazzi si riferisce a quelle macchie e tracce sulla pelle che vengono chiamate “vo-glie”. Esse interessano prima di tutto il feto tenero e impressionabile, non vi è una spiega-zione scientifica di questo fenomeno mancando una cognizione esatta della causa. Non è daescludere che questa sia una causa naturale. Anche per quanto riguarda le stigmate che inte-ressano la parte esteriore del corpo umano può avvenire, ma non è certo, come per le “vo-glie”. La Chiesa, come nel caso di San Francesco di Assisi, a cui nel 1224 si manifestaronosulla Verna le stigmate della Passione di Cristo, proclama il miracolo e alla Chiesa, sostienePomponazzi, bisogna credere e ubbidire assolutamente, per cui una spiegazione naturale,non assolutamente certa, passa in seconda linea. Le verità di fede ed il dogma valgono per ilvolgo, non per chi persegue la verità della scienza, e, su questo terreno, ancora oggi il feno-meno oscuro delle stigmate appare un mistero sul piano scientifico. Doppia verità? Infatti aproposito del Pomponazzi si parla del suo muoversi sul piano della doppia verità. Possiamotracciare questo schema: A) Posizione probabile secondo la ragione e secondo Aristotele; B)Dogma di fede che ogni credente deve accettare. “Sincera o meno la posizione di Pompo-nazzi, sta di fatto che egli, con essa, riuscì a difendersi dalla tempesta polemica che accom-pagnò la sua opera sull’anima, salvaguardando, nello stesso tempo, i diritti della pura ragio-ne” (Abbagnano, “Filosofia e filosofi nella storia”, p. 49). Infatti lo scritto più notevole delPomponazzi è quello intitolato sull’immortalità dell’anima del 1516 che provoca numerosereazioni.

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Il principio di autorità

Per quanto riguarda il principio di autorità possiamo distinguere questo su due piani: at-teggiamento nei confronti del potere costituito, e atteggiamento nei confronti dell’autorità difilosofi e degli scrittori antichi. Al potere nei diversi stati italiani vi sono case principesche:i Medici a Firenze, i Visconti a Milano, i Gonzaga a Mantova, gli Estensi a Ferrara ecc. edil potere è detenuto da tiranni. “Presso i Fiorentini – scrive Il Burckhardt – tutte le realtà cheessi effettivamente si sbarazzarono o almeno tentarono di sbarazzarsi dei Medici, il tiranni-cidio era accolto come un’idea accettata universalmente” (op. cit. p. 65). Tutti i mezzi usatidai tirannicidi erano giustificati poiché la tirannide stessa era incondizionata e sciolta da ognifreno. Già nel suo tempo il Boccaccio lo dice apertamente: “Debbo io chiamare re o princi-pe un usurpatore e serbargli fede come a mio Signore? No! Perché egli è nemico della cosapubblica. Contro di lui sono bene usate le armi, le congiure, le spie, le insidie, le astuzie: so-no anzi opera santa e necessaria. Non vi è sacrificio più accetto del sangue di un tiranno! ”(op. cit. p. 62). Il Machiavelli in un capitolo dei suoi Discorsi (III. 6. ) tratta delle congiureantiche e moderne, cominciando dai tiranni dell’antica Grecia, e le giudica con la solita im-parzialità secondo i diversi loro fini e il loro esito. Sia i tiranni che i tirannicidi si studiava-no di imitare esempi antichi, gli uni ispirandosi all’antico impero romano, gli altri agli anti-chi nemici della tirannide fra questi ultimi l’esempio più seguito era quello di Bruto. Comun-que conclude il Burckhardt: “Un radicalismo che muova dal popolo, quale si è venuto for-mando nei tempi moderni di fronte alla monarchia, invano si cercherebbe negli Stati princi-peschi dell’epoca del Rinascimento. Benché ognuno protestasse isolatamente nel suo inter-no contro il principato, cercava tuttavia al tempo medesimo di farsi una posizione tollerabi-le o comoda sotto di esso, anziché di assalirlo con forze riunite. Ci volevano eccessi quali sividero a Camerino, a Fabriano ed a Rimini, perché una popolazione si decidesse a distrug-gere o a cacciare una casa regnante. Inoltre si sapeva anche troppo bene che non si sarebbefatto altro, fuorché mutar padrone” (op. cit. p. 66). Esiste, però, un’altra autorità quella deipensatori e degli scrittori antichi. Già nel Medioevo l’autorità di Aristotele era indiscussa sulpiano filosofico tant’è vero che lo si designava con le parole latine Ipse dixit. Altri autori go-devano grande autorità: Tolomeo, Seneca, Cicerone, Sant’Agostino, ecc… Oltre Aristotelenel Rinascimento si studia anche Platone, il centro del primo è la Università di Padova, incui si era cominciato a studiare lo Stagirita fin dal XIII secolo, sulla base del commento delfilosofo arabo, Averroè, e in cui si erano scontrate le opposte correnti aristoteliche del tomi-smo e dell’averroismo – mentre il centro del secondo era l’Accademia Platonica fondata aFirenze da Marsilio Ficino e Cosimo dei Medici, Aristotele aveva disegnato un’immaginedell’universo e del mondo che poi era stata ripresa con alcune variazioni da Tolomeo, vissu-to ad Alessandria nel II secolo d. C. Per lo Stagirita l’universo è finito perché perfetto e nonsarebbe tale se fosse infinito. Il cielo delle stelle fisse segna il confine dell’universo. La Ter-ra sta al centro di esso e intorno ad essa si muovono, di moto circolare i pianeti. Il mondo sidivide in mondo “sullunare” e mondo “sublunare”: i corpi del primo sono perfetti, incorrut-tibili ed eterni, quelle del secondo soggetti al divenire, mortali ed imperfetti. Non esiste, perAristotele, spazio vuoto. Anche Tolomeo, autore della “composizione matematica” in 13 li-bri che dopo di lui fu detta La massima (donde il nome arabo Almagesto), segue la lezionearistotelica in astronomia. Nota, però, che per accordare l’immagine aristotelica dell’univer-so alle osservazioni, per salvare le apparenze deve introdurre delle modifiche che contrav-vengono alla semplicità dell’astronomia antica. Per questo gli “eccentrici” e gli “epicicli” simoltiplicarono nella sua opera. Questa tuttavia formò la base delle osservazioni astronomi-che per molti secoli e servì come punto di partenza anche alla nuova astronomia. di Coper-nico e di Keplero. L’importanza del sistema tolemaico consiste però nel fatto che esse cheesso consente di stabilire quelle “tavole” di ciascun astro, che sono anche il compito del-l’astronomia odierna, e che permettono di calcolare la posizione e il movimento passato diun astro e di predire la posizione e il movimento che esso assumerà ad ogni istante futuro. Ilsistema tolemaico, dunque, non si accorda perfettamente con la fisica aristotelica. Questa in-

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segna infatti che l’etere (o quinta essenza) che compone gli astri e le loro sfere, si muove dimoto circolare intorno al centro della Terra, che è anche il centro del mondo. Nella teoria del-le sfere eccentriche e degli epicicli le cose evidentemente non sono così. Ci furono allora po-lemiche, ma il più delle volte si cercò la conciliazione con il sistema aristotelico. Su questavia si pose lo stesso Tolomeo che cercò di inquadrare la sua dottrina astronomica nella fisi-ca di Aristotele e si avvalse anche di argomenti aristotelici per combattere il movimento del-la terra. Aristotele infatti aveva detto che se la terra si muovesse, un proiettile lanciato in al-to non ricadrebbe sul punto di partenza. L’argomento era fondato sull’ignoranza della relati-vità, scoperta da Galilei, per cui il movimento comune al nobile e al mosso è come se nonfosse. E su tale ignoranza sono anche fondati altri argomenti addotti da Tolomeo contro ilmovimento della Terra.

Superamento del principio di autorità

Nel 1543 vedeva la luce il De revolutionibus orbium caelestium di Copernico, che asse-stava un duro colpo alla concezione aristotelica tolemaica del mondo fisico. Già Niccolò Cu-sano (1401-1464) attraverso il principio della “dotta ignorantia” era giunto ad una nuovaconcezione del mondo fisico, che prelude direttamente a quella di Copernico, Keplero e Ga-lilei. Cusano nega la differenza aristotelica tolemaica tra mondo sublunare perfetto e mondosublunare imperfetto. Tutte le parti del mondo hanno lo stesso valore, ma nessuna raggiun-ge la perfezione che è propria di Dio. Il mondo non ha un centro e una circonferenza, com-prende tutto lo spazio e tutta la realtà. Il mondo non ha confini né limiti, anche se non è in-finito come Dio. La terra non è al centro del mondo, essa si muove di movimento circolare,sebbene con una circolarità non perfetta. “È una nobile stella che ha luce e calore come lealtre stelle. Un’altra stella è il sole, che ha la stessa composizione della terra, per quanto for-mato di elementi più puri. E nelle stelle possono esserci abitanti più o meno simili a quellidella terra” (Abbagnano Filosofi e filosofie nella storia ediz. Paravia, p. 42). I movimentisulla terra sono verso il basso per i corpi pesanti e verso l’alto per i corpi leggeri e hanno loscopo di salvaguardare l’ordine è l’unità del tutto, ogni movimento tende verso il movimen-to circolare, che è il più perfetto e ogni figura tende verso la forma sferica come si vede nel-le parti degli animali, degli alberi e del cielo. Cusano riprende anche la teoria dell’“impetus”che i filosofi della scuola occamista avevano formulato per spiegare il movimento dei cielie dei proiettili, superando la concezione aristotelica del moto prettamente e indissolubilmen-te legato al motore e riconoscendo quel principio di inerzia, che ripreso da Galilei, è uno deifondamenti della meccanica moderna. La meccanica di Leonardo da Vinci prese le mossedalle concezioni di Cusano, le quali hanno ancora un carattere quasi completamente dedut-tivo, in quanto non del tutto verificate sul piano sperimentale. Semplice ipotesi matematicasi presenta anche la teoria eliocentrica di Copernico. Il De revolutionibus orbium caelestiumportò infatti un’introduzione di Osiander che la presenta come tale, essendo estremamentepericoloso sostenere il movimento della terra e la fissità del sole contro l’autorità di Aristo-tele e delle Sacre Scritture, di cui sono custodi le università, i dotti e la Chiesa cattolica, chesi serve dei tribunali dell’Inquisizione per salvaguardare l’ortodossia. Copernico era convin-to della verità della sua teoria, ma l’introduzione del teologo luterano Osiander la faceva fi-gurare come ipotesi matematica atta a “salvare le apparenze o fenomeni”. Anche la teoria ari-stotelica-tolemaica per molti secoli era stata ritenuta valida per spiegare i fenomeni e la teo-ria copernicana, per giunta supposta più semplice, in alcuni casi risultava matematicamentepiù complessa e incapace di dar una ragione di alcuni movimenti celesti. Persino la Chiesaluterana, fedele alle scritture, non approvava il copernicanesimo.

Il modello copernicano mette al centro dell’universo non la Terra ma il Sole, attorno acui girano i pianeti compresa la Terra, che ruota anche su se stessa dando origine così intor-no a sé al moto apparente del Sole. dei pianeti e delle stelle; la luna ruota attorno alla Terra;infine lontano dal Sole stanno, fisse, le stelle. La teoria copernicana non era del tutto origi-

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nale: l’eliocentrismo era già stato sostenuto nell’antichità da Aristarco di Samo (310 a. C. ),inoltre risentiva dei limiti che imponeva la tradizione: l’universo era finito e le orbite dei pia-neti circolari. Fu però l’ipotesi accolta nel mondo moderno, confermata da Galilei e da Ke-plero il quale, però, vi apportò la modifica delle orbite ellittiche, e verificata definitivamen-te dall’astronomo inglese Giacomo Bradley, con strumenti più potenti e quindi idonei alloscopo.

Il cosmopolitismo

Abbiamo parlato sopra di gente che è costretta ad abbandonare la patria e a prendere lavia dell’esilio. L’esilio è ciò che sopra ogni altra cosa ha la forza di logorare un uomo o diportarlo al massimo grado del suo sviluppo. Il cosmopolitismo, che si manifesta negli esulipiù colti, è l’individualismo portato al suo più alto grado. Già Dante, trova una nuova patrianella lingua e nella cultura di tutta Italia ed anzi va ancora più in là ed esclama: “La mia pa-tria è il mondo intero”. E dopo aver fatto “parte per sé stesso”, quando gli fu offerto di tor-nare a Firenze, ma a condizioni ignominiose rispondeva: “non posso io contemplare la lucedel sole e delle stelle dovunque? Non posso io meditare dovunque le più alte verità, senzaperciò presentarmi oscuramente, anzi vituperosamente, dinanzi al mio popolo e alla mia cit-tà? Un pane non sarà per mancarmi in nessun luogo né mai”. Anche gli artisti più tardi conorgoglio alzano la voce, affermando la loro libertà indipendentemente dal luogo dove si tro-vano. “Colui che è ricco di cognizioni, dice il Ghiberti non è, anche fuori di patria, stranie-ro in nessuna parte del mondo: anche privo dei suoi beni e abbandonato dagli amici, egli èpur sempre cittadino in qualunque città, e può senza timore spezzare la instabilità della for-tuna” (Kultur p. 127). E non diversamente un umanista fuggiasco scriveva: “Dovunque undotto fissa la sua dimora, qui egli trova subito una patria”. Parole che possono essere sinte-tizzate con il detto “Ubi bene, ibi patria”. Le soddisfazioni morali, indipendenti da ogni lo-calità e privilegio comune a tutti gli Italiani più colti, alleviavano loro i dolori dell’esilio. Delresto, il cosmopolitismo è un segno dell’epoca, nella quale si scoprono nuovi mondi (La sco-perta dell’America è del 1492) e si anela ad uscire dal vecchio. Il cosmopolitismo di questiuomini del Rinascimento, anticipa quello degli illuministi, per i quali la patria è là dove sista bene, intendendo il bene quello che deriva da favorevoli condizioni politiche e sociali.

Patria e famiglia nel Rinascimento Attività economica inquadrata in una prospettiva religiosa.

Coloro che rimangono in patria mostrano un attaccamento e un interesse vivi per la pro-pria famiglia. Intanto per patria si intende non uno stato unitario come è, per esempio, quel-la della Francia, ma un regno o un principato o una repubblica, come quella di Venezia, cheoccupano ciascuno singole parti dell’Italia. La vita familiare degli italiani di allora si è con-siderata come disordinata a causa della grande immoralità. Invece non si può non constatareche in genere l’infedeltà non esercitò qui neanche lontanamente quelle perniciose influenzesulla famiglia, che si verificarono nei paesi settentrionali. La famiglia nel Medioevo era mo-dellata sugli usi prevalenti nel popolo o unicamente sulla legge del naturale sviluppo dellenazioni o sull’influenza esercitata dal diverso modo di vivere secondo la propria classe e ipropri mezzi. Non sempre, però, in quell’epoca, la famiglia veniva curata e apprezzata. Unistituto caratteristico del Medioevo fu la Cavalleria. Essa era costituita soprattutto dai figliminori dei signori feudali tagliati fuori dall’eredità paterna per la legge del maggiorascato,che si dedicavano alla vita errante. Sulla cavalleria esercitava una notevole influenza la Chie-sa cattolica e la religione e quindi cavalieri, bandita la violenza, si proponevano di fare delbene. Proteggevano la vedova e l’orfano, alleviavano la fatica e il bisogno, proteggevano dal-la violenza e dalla prepotenza. I cavalieri passavano di terra in terra, non avevano una dimo-

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ra stabile, e una famiglia da proteggere. Amavano una donna che non era la madre dei lorofigli e la omaggiavano come un essere superiore. Il Rinascimento invece cercò di fondare lavita familiare come una realtà regolarmente ordinata, come frutto di uno studio attento e con-seguente ad una seria meditazione. Si pose attenzione all’economia domestica per una vitacomoda ed agiata, ma soprattutto si considerarono “tutte le questioni riguardanti la conviven-za, l’educazione, l’organizzazione e il servizio” della casa. Ne sono testimonianza il dialogosul Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini e il trattato Della famiglia di L. B. Alberti.Nel Governo della famiglia un padre parla ai figli ormai adulti e li inizia all’amministrazio-ne della casa. Questa è ubicata nella campagna intorno a Firenze. Vi si vive in uno stato lar-go ed agiato. Un podere abbastanza grande, accanto al quale fiorisce un’industria qualunque,una tessitura, per esempio, di seta o di lana, provvede con i suoi prodotti a quasi tutti i biso-gni della famiglia. Gli arredamenti della casa devono essere fatti in grande e senza risparmi,la vita quotidiana deve invece essere semplice ma serena. Ogni altra spesa, dai maggiori pa-gamenti, nei quali è impegnato l’onore, sino ai più modesti assegni che si fanno ai figli piùgiovani per i loro piaceri, deve stare con ciò in una proporzione ragionevole, per modo chené ‘passi più oltre che richiegga l’onestà, né sia minore di quello che richiegga il bisogno’(op. cit. p. 341). La cosa più importante è, però, l’educazione che il padrone di casa deve da-re non solo ai figli, ma a tutta la famiglia, usando ‘più l’autorità che la violenza’. La primaeducazione è dovuta alla moglie, che da timida fanciulla pian piano diventa una vera donnadi casa che sa dirigere tutti coloro che sono alle sue dipendenze. Una caratteristica peculiaredel libro del Pandolfini è l’entusiasmo con cui si parla della vita in campagna, che veniva or-mai apprezzata dalle classi colte. Mentre nell’Europa settentrionale, la campagna era abitatadai nobili rinchiusi nei loro castelli o dai più famosi ordini religiosi, che avevano ben muni-te abbazie ai piedi o sulla cima di qualche monte, in Italia invece, era invalsa l’usanza di usci-re temporaneamente dalle città e vivere in campagna, mentre la borghesia dell’Europa set-tentrionale, anche ricca, non varcava in nessuna stagione dell’anno le mura delle città. Imi-tando gli usi dei Romani, che spesso preferivano gli ‘otia’ della campagna ai ‘negotia’ dellacittà, la borghesia italiana, quando la prosperità e la cultura progredite lo permisero, costrui-rono splendide ville nella campagna adiacente alla città. “In queste ville, come in quelle lun-go il Brenta, sui laghi di Lombardia, a Posillipo e al Vomero, la vita sociale assume un ca-rattere più libero e sciolto che nelle sale dei grandi palazzi di città. Le descrizioni degli invi-ti, delle cacce e di tanti altri passatempi di quella vita condotta quasi per intero all’aperto han-no ancora oggi qualche cosa di attraente negli scrittori, presso i quali s’incontrano. Ma quel-le dimore campestri offersero altresì ozio e quiete a profondi pensatori, e in esse furono ma-turate talvolta le più nobili creazioni dell’ingegno umano” (op. cit. p. 342). Nel senso pienodella realtà della vita economica rientrano i pratici consigli che L. B. Alberti ha trasmesso aiposteri nella sua opera I libri della famiglia nei quali si rispecchia la consapevole esperien-za di questi valenti mercanti. “Forse farei lavorare – dice Giannozzo – il il primo personag-gio del dialogo le lane, o la seta, o simili, che sono esercitii di meno travaglio e di molto mi-nore modestia, et volentieri mi darei a tali esercitii ai quali s’adoperano molte mani, perchéivi in più persone il danaro si sparge, et così a molti poveri utilità ne viene”. Lionardo, se-condo personaggio del dialogo allora nota “Questo sarebbe officio di grandissima pietà, gio-vare a molti”. Noi oggi parliamo soprattutto di fine sociale, della proprietà qui, invece, si usauna parola dettata dalla religione, la parola “pietà”. Giannozzo afferma, inoltre, il valore eti-co dell’attività produttiva o industriale come scelta migliore e più proficua. Infatti consiglia:“Siate con qualunque si venga onesti, giusti et amichevoli, con gli strani non meno che congli amici, con tutti veridici et netti, et molto vi guardate che per vostra durezza o malizia maialcuno si parta dalla nostra bottega ingannato o male contento; ché figliuoli miei, così a mepare perdita piuttosto che guadagno, avanzando monete, perdere grazia e benivolentia” econclude: “… et in questo modo spererei Dio me ne prosperasse, et aspecterei acrescerminon poco concorso alla bottega mia, e fra cittadini stendermi buono nome”. Qui si affermala credenza in Dio, oltre al perseguimento dei valori etici. Il proprietario è un padrone giustoè illuminato, non per questo negligente o assente. Infatti dichiara “essere affitio del merca-

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tante… sempre scrivere ogni cosa, ogni contracto, ogni cosa entrata ed uscita fuori di botte-ga…” non rimandare perché “se tu indugi d’oggi in demane, le cose t’invecchiano pelle ma-ni, vengonsi dimenticando, et così il factore piglia argomento et stagione di diventare o vi-tioso, o come il padrone suo negligiente… La diligentia del maestro può d’un fattore nonmolto buono farlo migliore, ma la negligentia di chi debba avere principale cura delle cosesempre suole di qualunque buono lascialla peggiorare”. A proposito dell’Alberti e della suaopera Della Famiglia Ruggiero Romano e Alberto Tenenti scrivono giustamente: “… Que-sta franca prospettiva di un benessere sociale e terreno, d’altronde non meglio specificato dalpensatore fiorentino, figura come una delle posizioni più avanzate del pensiero di quest’epo-ca. In ogni caso essa si preoccupa ancora di inquadrarsi almeno formalmente in una prospet-tiva religiosa per eliminare la possibilità di qualsiasi conflitto con la visuale etica-cristiana.Anche questa ardita posizione del problema, l’Impiego sagace dei beni terrestri viene presen-tato come gradito a Dio che li ha fatti per le sue creature razionali.

La visione veramente autonoma di una prosperità umana non viene sfiorata, e analogamen-te non si pensa a fare della scienza o della tecnica una costruzione teorica valida di per sé” (R.Romano, A. Tenenti, Storia universale, Feltrinelli).

Questa controcorrente di studiosi di cui parla Gramsci si è formata dalla fine della 1aguerra mondiale agli anni 30. Infatti il libro che recensisce lo Janner (Nuova antologia del1° agosto 1933) è di Ernst Walser, ed è intitolato Gesammelte Studien zur Geistesgeschichteder Renaissance (Raccolta di Studi sulla storia culturale del Rinascimento) (ediz. BennoSchwobe) ed è del 1932. Fra le opere dell’Olgiati, sacerdote cattolico e docente all’Univer-sità Cattolica di Milano fin dalla fondazione, ricordiamo il saggio intitolato L’anima del-l’Umanesimo e del Rinascimento che è del 1924 ecc. A questo punto Gramsci però sente ilbisogno di smussare gli spigoli, di attenuare il concetto della ‘frattura’. Davvero che primadel Rinascimento – egli si chiede – “l’uomo” era nulla ed è diventato tutto? o si è sviluppa-to un processo di formazione culturale in cui l’uomo tende a diventare tutto? Pare si debbadire che prima del Rinascimento il trascendente formasse la base della cultura medievale, maquelli che rappresentavano questa cultura erano forse ‘nulla’ oppure quella cultura non era ilmodo di essere “tutto” per loro? Se il Rinascimento è una grande rivoluzione culturale, nonè perché dal “nulla” tutti gli uomini abbiano cominciato a pensare di essere “tutto”, ma per-ché questo modo di pensare si è diffuso, è diventato un fermento universale ecc. Non è sta-to” scoperto” l’uomo, ma è stata iniziata una nuova forma di cultura, cioè di sforzo per crea-re un nuovo tipo d’uomo delle classi dominanti” (A. Gramsci, il Risorgimento, ediz. Einau-di pagina 11) Il “tutto” per uomo del Medioevo consiste nell’elevarsi alla trascendenza e at-traverso la fede attingere al divino, la dimensione dell’uomo del Rinascimento è più laica-mente rivolta al mondo terreno, senza per questo rinnegare la trascendenza e il divino. L’uo-mo del Rinascimento non si riconosce del tutto nella Chiesa, e cerca il divino anche al di fuo-ri di essa. Qui (a p. 14 del libro Il Risorgimento, cit. a pie’di pagina) vi è una nota che affer-ma: “In ogni caso occorre distinguere in le facezie contro il clero che sono tradizionali findal ’300, dalle opinioni più o meno ortodosse sulla concezione religiosa della vita”. Vi è cioèun anticlericalismo d’accatto e becero, e un laicismo conseguente ad una ben precisa visio-ne del mondo e della vita. Le facezie contro il clero sono tradizionali fin dal Medioevo e ca-ratteristiche anche della società contemporanea. Gramsci ricorda Ernst Walser autore di ope-re sul Rinascimento in lingua tedesca che, vissuto a lungo in Italia, “osserva, che per com-prendere il carattere del Rinascimento italiano è utile, entro certi limiti, conoscere la psico-logia degli italiani moderni” e trova l’osservazione molto intelligente perché pone il proble-ma di ciò che sia lo spirito religioso modernamente, e se esso possa essere paragonato nondico allo spirito religioso dei protestanti, ma anche a quello di altri paesi cattolici, special-mente della Francia (op. cit. p. 12). “Che la religiosità degli Italiani sia molto superficiale èinnegabile, commenta Gramsci, così come è innegabile che essa ha un carattere strettamen-te politico, di egemonia internazionale”, e porta come esempio il Primato morale e civile de-gli italiani, una opera dell’abate Vincenzo Gioberti del 1843. Forse Gramsci cita il “Prima-to” perché lo vede, per così dire, non espressione di una profonda religiosità, ma come esal-

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tazione del Papato sotto un profilo essenzialmente politico e strumentale. L’abate torinese,infatti, attraverso il “Primato” si fece assertore di un pensiero moderato, federalista, progres-sivo in modo da fare raccogliere intorno al papato tutti i principi italiani al fine non solo del-la unificazione dell’Italia fino ad allora “pura espressione geografica”, ma anche di una po-litica di conquista e appunto di “primato” nel mondo del popolo italiano datato di una storiaricca e di una civiltà plurisecolare, da proporre come punto di riferimento mondiale. Gram-sci vede ancora una linea di continuità non solo fra Rinascimento e Risorgimento, ma anchetra storia italiana moderna e storia italiana contemporanea.

Giulio II e la Lega Santa

Non bisogna dimenticare – continua l’autore dei Quaderni – che dal ’500 in poi l’Italiacontribuì alla storia mondiale, specialmente perché sede del papato. 1) L’Italia contribuì al-la storia mondiale perché sede del Papato” 2) Il cattolicesimo è sentito come “spirito impe-rialistico”. Per spiegare queste due affermazioni di Gramsci basta pensare alla “Lega Santa”del 1511-1513. Alla rottura della Lega di Cambrai (1508) tenne dietro subito dopo la conclu-sione di un accordo militare fra Giulio II, il Papa allora al soglio, ed i Cantoni svizzeri, con-tro il re di Francia. Le ostilità si limitarono in un primo tempo al territorio di Ferrara, feudopontificio, secondo Giulio II, ma di fatto alleata di Luigi XII, re di Francia. Il Papa in perso-na diresse l’assedio di Mirandola. Di fronte, però, alla energica reazione della Francia, chenon solo bloccò militarmente le truppe pontificie, ma convocò anche un concilio che dove-va essere tenuto a Pisa (1511), per deporre Giulio II, il conflitto si allargò. L’iniziativa tro-vava l’adesione di Luigi XII e dell’imperatore Massimiliano il cui vecchio sogno di asservi-re l’Italia e la Santa Sede si era cristallizzato in una sconcertante forma definitiva: l’aspira-zione al papato, con il concorso dei Fugger. L’iniziativa trovava il sostegno anche nella ri-bellione di un certo numero di cardinali. Giulio II cercò allora di minare la compattezza delblocco nemico. Notò l’indole irresoluta di Luigi XII: “tant’è vero che dopo l’occupazione diBologna, anziché irrompere negli stati pontifici e spingere a fondo una guerra facilissima,aveva ordinato al Trivulzio di piantare tutto in asso e di tornare a Milano” (Fusero p. 384).Un altro punto debole era costituito dalla scarsa intesa dei cardinali ribelli: il Papa operò conun certo successo anche in questo settore. Contro il Concilio pisano il 25 luglio del 1511 fe-ce affiggere alle porte di San Pietro una BOLLA concistoriale del 18 “con la quale indicevaun concilio economico che si sarebbe aperto in Roma il 19 aprile dell’anno successivo” (C.Fusero Giulio II Edizioni dall’Oglio (MI). p. 385). Il suddetto documento, dopo aver esalta-to la dignità della Chiesa romana e affermato il dovere di difenderne l’unità, “rivendicava alSommo Pontefice il diritto esclusivo e inalienabile di indire concilii e dichiarava nulla e in-valida la progettata assise pisana, comminando le più severe pene ecclesiastiche ai suoi pro-motori e ai suoi aderenti, nonché l’interdetto alle città che l’avessero accolta e favorita” (p.385). Prometteva la convocazione di un concilio ecumenico i cui fini dovevano essere: “lot-ta contro l’eresia, repressione dello scisma, provvedimenti per la riforma morale, ristabili-mento della pace e della concordia nel mondo cristiano, accordi per la crociata” (p. 385)Concilio contro conciliabolo dunque, universalità di Roma contro la faziosità d’una mano-vra periferica: ecco la contromossa del Papa sul piano spirituale nei confronti dell’offensivafranco-germanica. Sul piano diplomatico Giulio II promoveva un nuovo sistema di alleanza,“attirando nel cerchio dell’intesa veneto-pontificia la giovane e prorompente potenza spa-gnola” (op. cit. p. 385) Ferdinando che scorgeva la possibilità di sostituirsi alla Francia nelpredominio in Italia “coprendo l’impresa con il manto di un nobile intervento a protezionedella Chiesa (p. 386), fu contento dell’invito che il pontefice gli offriva, e cominciò ad alle-stire un forte corpo di spedizione. “Con la chiamata degli spagnoli, premessa di una rovino-sa ispanizzazione non soltanto politica e militare della Penisola, Giulio II tirava le logicheconseguenze del gioco nel quale la restaurazione del potere temporale l’aveva costretto adinvescarsi, e si caricava, agli occhi degli Italiani, di un’altra inespiabile colpa in aggiunta a

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quella del 1494 (Carlo VIII) e del 1508 (Lega di Cambrai), attirandosi la terribile lapidariasentenza con la quale il Guicciardini avrebbe bollato la sua figura di uomo politico”. Fataleistrumento e allora e prima e poi de’mali d’Italia” (op. cit. p. 386). Il Machiavelli poi, nonsolo danneggiato dalla restaurazione medicea, ma legittimamente inasprito come italianoavrebbe vergato quella sferzante requisitoria contro la Chiesa che si legge nel libro primo,capitolo XII, dei Discorsi: “Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questoprimo obbligo: di essere diventati senza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno mag-giore, il quale è la seconda cagione, della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto etiene questa provincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se lanon viene tutta alla ubbidienza d’una repubblica o d’uno principe, come è avvenuto allaFrancia o alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbiaanch’ella o una repubblica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché aven-dovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù chel’abbia potuto occupare la tirannide d’Italia e farsene principe e non è stata, dall’altra parte,sì debole che per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali la non abbia po-tuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato trop-po potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante Carlo Ma-gno la ne cacciò i Longobardi ch’erano già quasi re di tutta Italia; e quando nei tempi nostriella tolse la potenza a’Veniziani con l’aiuto di Francia; dipoi ne cacciò i Franciosi con l’aiu-to de’Svizzeri” (op. cit. p. 386-87). Giulio II stesso si pentì di aver consegnato l’Italia agliSpagnoli e avrebbe allora espresso l’intenzione di scacciare dall’Italia anche loro, se Dio glidava la vita, Dio non gliela diede. Del resto le sue forze militari non glielo permettevano, néegli sarebbe stato in condizione di affrontare un’impresa del genere senza chiamare in Italiaaltri stranieri. “Un circolo vizioso allora infrangibile. Era ancora infrangibile nel 1859” (op.cit. p. 387) commenta Fusero, riferendosi alla II guerra di indipendenza quando, dopo gli ac-cordi di Plambiers, i francesi intervennero in Italia accanto all’esercito federalista italianoper scacciare gli austriaci, e facendo notare, nel lungo periodo, le tragiche conseguenze del-la politica cinquecentesca del papato. “I carteggi diplomatici attestano tuttavia che nell’esta-te del 1511 il pontefice – mentre dava l’Italia in balia agli Spagnoli e sollecitava l’interven-to dei mercenari svizzeri e istigava contro la Francia la giovane Inghilterra tudoriana di En-rico VIII – non mancava di perseguire trattative di pace con Luigi XII, il quale pareva dispo-sto ad un’intesa. Senonché Giulio II poneva una condizione che al re non poteva non sem-brare umiliante e inaccettabile: la consegna, senza condizioni, dei cardinali transfughi. Con-tro questo scoglio s’infransero le pallide possibilità di una pacifica composizione nella qua-le la Chiesa avrebbe indubbiamente avuto adeguate contropartite per ricompensare la rinun-cia all’azione armata contro gli Estensi e i Bentivoglio. Senza parlare della incalcolabilesomma di sciagure che sarebbe stata risparmiata alla Italia futura” (op. cit. p. 387). Dopo laperdita di Bologna, Giuliano della Rovere si ammala, ma anche tra le vampe della febbre la-vora freneticamente. I Colonna e gli Orsini calarono dai loro feudi sulla città, per impedirealle case avversarie di prevalere. La città rimase vuota con un aspetto sinistro. Tutti eranofuggiti nei loro rifugi. Scoppiò un moto rivoluzionario d’ispirazione repubblicana e anticle-ricale. Il popolo veniva spronato ad abbattere il dominio del Papa e dei preti. Il Papa si ri-prende dal suo quatriduano letargo ed è disposto a continuare la lotta. L’apertura del conci-lio pisano venne rimandata. Giulio II, irritato contro la Signoria fiorentina, per le sue conni-venze con la Francia e per aver consentito ad ospitare a Pisa il sinodo dei sediziosi, diedeuna nuova significativa prova del suo orientamento mediceo, conferendo al Cardinale Gio-vanni la legazione di Bologna e della Romagna.

In un concistoro del 24 ottobre, scomunicò 4 cardinali (Carvajal, Briçonnet, Prie e Bor-gia) che si mostravano non ravveduti, e comminò identica pena al Sanseverino e all’Albret.Affrettò la conclusione dei negoziati per la coalizione antifrancese, a cui era assicurato an-che un poderoso concorso di milizie svizzere. La Santa Sede, la Spagna e Venezia, si strin-gevano il 4 ottobre “in quella Lega Santa, che auspice il pontefice, doveva far scorrere fiu-mi di sangue cristiano e che sotto il manto del venerabile nome accatastava in un solo muc-

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chio tanti ignobili moventi”. A questo nucleo di forze unite dalla volontà del Papa, frustratonei suoi piani di consolidamento territoriale e sfidato dal sinodo pisano, erano invitati ad ag-giungersi Enrico VIII d’Inghilterra e l’imperatore Massimiliano. Il re di Spagna, che inten-deva approfittare di questa specie di crociata contro la Francia anche per occupare la Navar-ra e che aveva interesse a vedere gli eserciti francesi impegnati in un fronte in più, convin-ceva il discendente dei Tudor a muovere alla conquista della Guienna, anzi alla riconquista,perché quest’ultima era già stata posseduta dall’Inghilterra fin dal tempo di Enrico II, chel’aveva acquisita come dote della moglie, la bella e sensuale Eleonora d’Aquitania, e soltan-to nel 1474 era tornata sotto la signoria della Francia. Il 17 novembre la coalizione potevacontare sulla adesione dell’Inghilterra. Era incerto se aderire o meno l’imperatore Massimi-liano d’Asburgo ancora legato a Luigi XII dal filo della Lega di Cambrai e ostile a Venezia,ma attirato anche dalla forza del nuovo blocco creatosi a sud delle sue frontiere. Il conciliopisano attirava ancora le sue simpatie, ma notava che era avversato dalle popolazioni del-l’Impero e dall’opinione dei suoi più avveduti consiglieri. Informato delle disperate condi-zioni di salute del Papa, decise di attuare la sua intenzione di diventare Papa. Per corrompe-re i cardinali allo scopo di ottenere i voti occorrono 300.000 ducati. Li chiede alla banca ro-mana dei Fugger, offrendo delle garanzie e il pagamento di interessi. Jacopo Fugger decisedi non sborsare nulla per un’operazione così balorda. Giulio II venne a sapere del progettodell’imperatore, e meditava di punire i cardinali Sanseverino e d’Albret, che appoggiavanole aspirazioni papali di Massimiliano, sfumate nel nulla, fra l’altro, per la guarigione del pon-tefice. L’imperatore intanto continuava a condurre una fiacca guerricciola contro Venezia,ma era adirato per la scarsa collaborazione della Francia. Giulio II gli offrì la propria media-zione per una pace soddisfacente con la Serenissima. L’imperatore esitò, poi, per suggeri-mento di Ferdinando, accennò ad approvare. Per debellare le ultime esitazioni che lo tratte-nevano dall’abbandonare la Francia, il Papa gli fece un regalo che egli molto apprezzò. Men-tre Tommaso de Vio, detto il Caietano, nel suo scritto De auctoritate Papae et concilii, utra-que invicem comparata, negava ogni validità ad un concilio acefalo, privo della presenza delPapa e non da lui convocato; e mentre dall’altra parte il frate Zaccaria Ferreri esaltava in ver-si e in prosa l’autonomia del concilio e la grandezza dei francesi, la scismatica assise pisa-na, scivolava nel ridicolo. “La Signoria fiorentina, titubante e spaurita in seguito ad una vi-brata protesta del Papa, mandò il Machiavelli in Francia per tentar di indurre Luigi XII a di-rottare il concilio da Pisa, e poi a Pisa per cercar di persuadere i padri a trasferirsi in altra se-de”, (op. cit. p. 393) però senza successo. Il Papa allora “scagliò sulla città il suo prevedibi-le interdetto e i Pisani – clero e popolo – accolsero i riformatori d’oltralpe come un brancod’appestati, rifiutando loro le case, i viveri e perfino una Chiesa dove tenere i loro raduni”(op. cit. p. 393). La situazione impossibile a Pisa, dove avvennero, fra l’altro, uno scontrosanguinoso fra armigeri francesi e soldati toscani, e una sollevazione dei cittadini, convincei ribelli conciliari di trasferirsi a Milano, dove un pronto intervento di Giulio II fece loro tro-vare un’atmosfera simile a quella di Pisa. Il 3 dicembre inviò ai sediziosi un’altra ammoni-zione: essi continuarono imperterriti a radunarsi, chiedendo nel contempo al re di Francia ilcompenso pattuito. Giulio II, però non dava tregua. Sebbene con la sua reazione avesse or-mai spezzato la spina dorsale al conciliabolo – che si rivelava sempre più asservito agli in-teressi di Luigi XII e con due cardinali non francesi (il Carvajol e il Sanseverino, ora aggre-gatisi agli altri ribelli) sconfinava da un ambito puramente nazionale – egli continuava a col-pirlo con duri provvedimenti. Il 17 dicembre: comandava a Francesco Gonzaga di far prigio-nieri i cardinali transfughi che avessero messo piede nei suoi territori ; il 30 gennaio 1512nel concistoro pronunciava la destituzione del Sanseverino; in febbraio: conferiva ad altri ibenefici dei quali aveva spogliato i ribelli.

Con un lavoro indefesso, coraggioso e accorto, era riuscito ad isolare la Francia sul pia-no delle alleanze e ad isolare il concilio dei faziosi nell’ambito della cattolicità. Alla vigiliadella ripresa delle ostilità, aveva accanto a sé, oltre Venezia, la Spagna; e già poteva contaresulla prossima collaborazione militare della Svizzera, dell’Inghilterra, forse dell’Impero. “Eintanto fervevano i preparativi di quel concilio ecumenico romano la cui augusta voce cora-

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le avrebbe spento lo stridulo concertino del conciliabolo randagio” (op. cit. p. 394). La vit-toria militare fu ottenuta dai Francesi che sotto la guida del venticinquenne Gastone di Foixsbaragliavano a Ravenna (11-aprile-1512) le forze collegate della Spagna e del pontefice.“La vittoria tuttavia era stata ottenuta a così duro prezzo (lo stesso Foix cadde sul campo) el’arrivo di un nuovo corpo di spedizione dai Cantoni svizzeri capovolse talmente la situazio-ne che Luigi XII preferì ritirarsi dall’Italia e abbandonare il ducato di Milano” (Saitta vol. IIp. 18). Per il momento i Francesi avevano dovuto abbandonare l’Italia; gli Svizzeri aiutava-no Massimiliano Sforza a rientrare a Milano. Genova liberatasi dalla sudditanza francese, ri-tornava nuovamente nell’orbita del signore di Milano e a Firenze un esercito ispano-ponte-ficio, dopo aver saccheggiato Prato, poneva fine alla repubblica oligarchica dell’inetto e pu-sillanime Pier Soderini e restaurava i Medici (1512). La situazione francese non migliorò conla scomparsa di Giulio II e con la successione di un figlio di Lorenzo il Magnifico, il Cardi-nale Giovanni dei Medici, con il nome di Leone X; il conflitto si era ormai ampliato trasfor-mandosi in un vero e proprio conflitto internazionale e il passaggio di Venezia all’alleanzafrancese non fu in grado di controbilanciare le sconfitte riportate dalle truppe francesi a No-vara (1513) da parte degli Svizzeri e a Guinegatte (1513) da parte delle truppe inglesi sbar-cate sullo stesso suolo di Francia. Gramsci, come abbiamo visto denuncia, la politica tuttatesa al “temporale”del papato, fin dal ’500, sul piano nazionale, e internazionale, come ab-biamo notato a proposito di Giulio II e poi anche sul piano mondiale con l’imperialismo co-loniale benedetto dal pontefice, nell’età contemporanea. Già Guicciardini e Macchiavelli ac-cusavano il papato di essere la causa della rovina dell’Italia, il primo vedendola preda dellepotenze straniere, il secondo denunciandone la debolezza a causa della disunione e dellamancanza di unità, a cui il papato contribuiva.

Aristotelismo e Platonismo nel Rinascimento

Il mondo culturale del Rinascimento è caratterizzato dalla presenza di due correnti filo-sofiche: la prima è l’aristotelismo, la seconda il platonismo. Naturalmente non si deve pen-sare ad una separazione rigida fra queste, solo schematicamente la si può indicare: un esem-pio ne è Pietro Pomponazzi che, aristotelico, conosce ed usa, per piegarli a proprio vantag-gio, i dialoghi platonici e le opere dei neo-platonici. Due avvenimenti fondamentali per losviluppo di entrambe le correnti furono certamente il Concilio dell’Unione, aperto a Ferraranel 1438 e spostato a Firenze l’anno successivo, e la Caduta dell’Impero Romano di orientecon la conquista di Costantinopoli ad opera dei Turchi nel 1453. Questi eventi portarono co-me conseguenza il trasferimento a metà Quattrocento di molti dotti bizantini in Occidente;tra questi, al seguito dell’imperatore Giovanni Paleologo, il cardinale Bessarione, i cui scrit-ti furono cari al Pomponazzi sia per aver egli rifiutato il condiviso contrasto tra Platone eAristotele, sia per la interpretazione delle dottrine psicologiche aristoteliche. Bessarione, co-sa che il Pomponazzi, approvava, sosteneva anche che Platone ed Aristotele non potevanoessere fatti passare per cristiani e nemmeno fatti concordare con la religione. Infine sostene-va che l’anima, se si usava in modo coerente il principio aristotelico di “sinolo”, cioè di unio-ne di forma e materia, non poteva dirsi immortale. Elementi, dunque, del pensiero di Bessa-rione saranno ripresi e condivisi dal Pomponazzi. In generale, grazie all’arrivo di questi dot-ti bizantini molti testi greci, fino ad allora ignorati, (ben pochi conoscevano il greco e Pom-ponazzi mai lo imparò) vennero introdotti e alla loro scuola si formarono intellettuali di pri-mo piano. A Firenze Cosimo dei Medici favorì la conoscenza di Platone, i cui testi furonotradotti dal neoplatonico Marsilio Ficino e studiati nell’Accademia platonica; le universitàrimasero, dominate da Aristotele, tanto che il normale “cursus studiorum” continuava a pre-vedere lo studio dei testi di Aristotele, mentre, però, le nuove traduzioni umanistiche veni-vano a soppiantare progressivamente quelle medievali. La Firenze medicea fu il fulcro delneoplatonismo, mentre l’aristotelismo trovava i suoi centri a Bologna e Padova e di notevo-le importanza furono però anche Ferrara, Perugia, Napoli e Pavia.

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Il Platonismo era permeato di spirito religioso, perché i neoplatonici vedevano nel mae-stro la sintesi di tutto il pensiero dell’antichità, che, secondo una tradizione, attraverso i sa-pienti cristiani e pagani, risaliva agli egizi (la “pia philosophia”) e riconosceva così comefonte comune tanto al sapere di Platone quanto a quello di Mosè e si distingueva grosso mo-do dall’aristotelismo per la ricerca naturalistica.

Per quanto riguarda quest’ultima non si deve pensare ad un’indagine di tipo sperimenta-le ma speculativo sulla natura, che spesso si riduceva alla citazione di altri “autori degni difede”, anche storicamente lontani, che hanno visto, hanno sentito, hanno provato ecc. Sen-za parlare poi, della mancanza di una verifica diretta. Fra gli aristotelici si distinguono cor-renti diverse, ma accomunate dalla raffigurazione della struttura del Cosmo secondo la fisi-ca di Aristotele. Occorre tener conto del fatto che le dottrine aristoteliche venivano tradizio-nalmente accompagnate dalle interpretazioni dei commentatori, che, oscure e ambigue nonmeno di quelle di Aristotele, davano adito a serie autonome di problemi. I commentatori diAristotele più importanti furono tre: Alessandro d’Afrodisia, il più vicino ad Aristotele, Avi-cenna le cui opere erano in arabo, Averroè, detto appunto “il Commentatore”, per antono-masia, le cui opere furono conosciute attraverso traduzioni ebraiche. Secondo Avicenna ciòche dalla potenza passa all’atto deve avere necessariamente una causa. Ciò vale anche pergli atti di volontà determinati dai movimenti celesti, a loro volta dipendenti dalla volontà di-vina. Da qui la giustificazione della predizione astrologica. L’errore di un pronostico nonpuò essere considerato una prova decisiva, perché esso dipende dalla molteplicità di elemen-ti da considerare, talmente numerosi da poter sfuggire facilmente, non totalmente, in parteall’astrologo.

Il cosmo ha un ordine gerarchico caratterizzato dalla soggezione reale ed effettiva di ognielemento inferiore ai suoi superiori. L’intelletto umano inoltre non è legato in maniera asso-luta alla materia ed al corpo, perché è capace di due modi di intellezione: 1) l’anima ricavaalcune conoscenze attraverso l’astrazione dai sensi, negli infanti l’intelletto è ancora in po-tenza. 2) in seguito, senza alcuna azione umana, ottiene per “infusione divina” la conoscen-za dei principi primi, dopo di che può intervenire l’attività discorsiva. Averroè, sulla base delDe anima di Aristotele, teorizzò invece che l’individuo è separato dall’intelletto attivo e daquello potenziale (universale).

Secondo Averroè, il processo intellettivo si svolge al di fuori dei singoli individui, l’in-telletto, quindi, non è legato ad essi, né diviso nella loro molteplicità, e mentre quelli sonomortali, questo è immortale. Di “averroismo latino” si può già parlare dalla II metà del XIIIsec., soprattutto in riferimento all’università parigina, con Sigieri di Brabante e Boezio diDacia. Sigieri (n. 1235? ), maestro nella facoltà delle Arti nell’università di Parigi fu certa-mente il maggiore di questi averroisti. Nel 1277, accusato d’eresia dall’inquisizione di Fran-cia; fu internato presso la corte papale e morì ad Orvieto tra il 1281 e il 1284. Egli negava lalibertà dell’uomo, perché sosteneva che tutte le cose del mondo, tutti gli eventi del mondo,comprese le azioni umane, sono determinati necessariamente dai movimenti celesti. Poichéperò queste tesi erano in contrasto con la fede cristiana, Sigieri dichiarava che se, come filo-sofo, doveva giungere a quelle conclusioni, come cristiano accettava invece le verità dellafede. Quest’ultima è la dottrina che fu chiamata della “doppia verità”: una dottrina diretta-mente contraria al punto di vista tomistico, che ammetteva la perfetta armonia tra fede e ra-gione. Le stesse tesi si trovano sostenute da uno scolaro di Sigieri, il danese Boezio di Da-cia, autore di un’opera intitolata Sull’eternità del mondo, scoperta alla fine degli anni ’80. Ladottrina della “doppia verità” doveva diventare, nel XIII secolo e in quello successivo, unascappatoia molto comune fra i filosofi del tempo. Tra i nomi maggiori del XIV secolo si pos-sono ricordare Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun, a Padova Pietro d’Abano, per poicontinuare fino ai tempi di Pomponazzi con Paolo Veneto, Gaetano da Thiene, Nicoletto Ver-nia e Alessandro Achillini. La posizione alessandrista è opposta. Essa afferma la mortalitàdell’anima individuale e la negazione dell’intelletto unico. Il principio base degli alessandri-sti è che le cose sono, in fondo, “sinolo” cioè unione indissolubile di materia e forma. L’uo-mo non fa eccezione, anch’egli è “sinolo” unione stretta di materia e forma, di corpo e di ani-

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ma. Il corpo non può stare senza l’anima e l’anima non può sussistere senza il corpo. Nel Deanima (III libro) appunto Aristotele avrebbe negato la separabilità della forma dalla materia.Basandosi su questo concetto aristotelico di “sinolo”, per cui non è proprio concepibile l’esi-stenza separata di corpo e anima, gli alessandristi arrivano ad affermare che nulla dell’uomopuò sopravvivere. A differenza dello averroismo, le origini dell’“alessandrismo” sono più re-centi: nel Medioevo infatti, Alessandro d’Afrodisia fu praticamente trascurato, forse ancheper il carattere naturalistico della sua dottrina e Pomponazzi con il trattato De imortalitateanimae è uno dei primi a sostenere una tesi alessandrista. Un altro aspetto dell’aristotelismoriguarda l’interpretazione di San Tommaso. Il commento di quest’ultimo a tutto il “corpusaristotelico” mira – come era tradizione negli studi a metà ’200 – a conciliare Aristotele conla dottrina cristiana e quindi l’Aquinate gli attribuisce l’immortalità dell’anima. In tema diastrologia, magia e demonologia sostiene tesi già formulate da Sant’Agostino, però, a diffe-renza di quest’ultimo, che risente di influssi platonici, tanto da essere definito Il Platone cri-stiano, Tommaso discute di angeli, di demoni, di paradiso e inferno, tenendo in una mano lesacre scritture e nell’altra Aristotele. La scolastica, già prima di Tommaso, aveva visto neitesti aristotelici l’espressione coerente dell’ordine del mondo, un prodotto perfetto della ra-gione, superiore a qualsiasi altro. Si poneva, però, l’esigenza pressante, perché vivamentesentita, di determinare i limiti della ragione rispetto alla fede e viceversa. Tommaso aveva ri-sposto che quello che ci dice la religione è vero; d’altra parte anche per via di dimostrazio-ne si può arrivare al vero: dato però che solo il falso è contrario al vero, verità di fede e ve-rità di ragione non possono essere in contrasto. Per Tommaso, per quanto riguarda la verità,non vi è distinzione tra il campo della fede rivelata e quello della verità dimostrata. Questoorientamento di Tommaso riguardante fede e ragione è stato prevalente fino al tempo diPomponazzi e oltre. Questo aspetto non deve essere trascurato perché adesso vi si richiama-vano, coevi di Pomponazzi, gli uomini dell’Inquisizione, l’istituzione nata tra il XII e il XIIIsecolo contro l’eresia.

La dottrina della “doppia verità”

Pochi erano coloro che mostravano di discostarsi dalla lezione di San Tommaso: tra essiil cardinale Caetano e Tommaso de Vio, che influenzò Pomponazzi al tempo del De immor-talitate. Fra gli inquisitori Bartolomeo Spina, allievo di padre Prierias, fra l’altro, aveva ten-tato di colpire Pomponazzi scrivendo il Novus Malleus maleficarum del 1519 dove lo asso-ciava al De Vio, ma proprio a causa dell’attacco al cardinale ne fu vietata la lettura. Ricor-dando gli inquisitori si tocca un punto molto importante per capire lo spirito del De incanta-tionibus e il suo contesto, costituito di commistione di elementi storici e pratici, dato che iprecetti filosofici diventano il presupposto di tutto un modo di considerare la natura e lascienza e quindi applicati, portavano ad emanare condanne che non erano solo teoriche, masegnate dal sangue e dalla morte di alcuni filosofi e di molte “streghe”. Occorre tenere pre-sente che si era in anni in cui venivano intentati sempre più frequenti processi per stregone-ria. Siamo alle soglie della Controriforma che comincerà di qui a pochi decenni, e certi ar-gomenti non erano discussi solo nelle università ma avevano messo alla prova la penna e itribunali, di molti inquisitori. Gli aristotelici che si opponevano alla suddetta linea piuttostoche a Tommaso si rifacevano ad Alberto Magno. Al contrario di Tommaso, Alberto facevadistinzione tra filosofia e fede che si muovevano su piani inconciliabili: l’oggetto propriodella filosofia, infatti, è la verità dimostrata razionalmente, quello della fede è la rivelazio-ne. Tra rivelazione e dimostrazioni razionali non vi è una vera opposizione perché non vi èaddirittura comunicazione. Il contrasto non viene risolto, o meglio viene risolto proprio at-traverso la sua non risolvibilità, attraverso cioè la separazione tra filosofia e teologia.

Non necessariamente quanto si dimostra con la seconda è in accordo con i precetti dellaprima, ma nessuna delle due deve essere costretta al servizio dell’altra. Alberto così assumeun atteggiamento duplice, per esempio: quando parla degli angeli negli scritti teologici tiene

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una posizione ortodossa cioè sul piano della loro effettiva esistenza, quando, invece, seguela filosofia peripatetica afferma la loro non esistenza e li identifica con i motori dei cieli, an-ziché con entità antropomorfizzate. Se l’“aristotelismo ortodosso” di Tommaso è stato l’at-teggiamento prevalente, anche la tesi di Alberto, chiamata poi dagli storici, come già dettosopra, della” doppia verità”, ha avuto molto seguito nel Medioevo (si pensi agli averroisti) epoi fino ai libertini: il De Incantationibus ne è uno degli esempi più evidente.

Pomponazzi loda Alberto apertamente e dice che è l’unico a non aver fatto una filosofiada frati (“fratizare”), cioè a non mischiare “diversa broda”, teologia e filosofia. Si indica coltermine “doppia verità” anche il contrasto tra religione e filosofia messo in evidenza da Aver-roè. Per questo tema l’opera di Averroè intitolata Destructio destructionum è una delle fontidi Pomponazzi. Averroè infatti ritiene che il filosofo deve credere a ciò che la ragione, pervia di dimostrazione, gli indica come vera. La religione rivelata, invece, è creata per chi è in-capace di seguire le dimostrazioni filosofiche ed è quindi portatrice di una verità imperfettae semplificata. In questo caso si evidenzia un contrasto fra due modi di espressione dellastessa verità. Pomponazzi fa proprio questo motivo fondendolo con il precedente, creandocosì la base per la teoria dell’“angustia delle religioni” e per l’affermazione della filosofianaturale come strumento necessario e sufficiente per spiegare il mondo in ogni sua manife-stazione. Soprattutto dal Rinascimento in poi, si è molto discusso quanto questo atteggia-mento della cosiddetta “doppia verità”, concepito in coincidenza con tempi di mancanza diuna moderna libertà di coscienza, preludio alla Controriforma, fosse realmente dettato dallaconcezione di due piani distinti e quanto piuttosto dal bisogno di occultare tesi in contrastocon la Chiesa, ma negando di fatto la veridicità degli insegnamenti di questa. “In altre paro-le un filosofo seguiva un certo percorso logico arrivando a conclusioni eterodosse, ma poichiudeva dicendo che se la Chiesa sostiene qualcos’altro, la Chiesa ha certo ragione… an-che se si è appena dimostrato che ciò contraddice appunto la ragione!”. Tutto il De incanta-tionibus è rivolto a rendere ragione di ogni aspetto della vita attraverso la ragione; sembrainnegabile quindi la presenza di entrambi questi modi esplicativi: da una parte la verità di fe-de è indimostrabile, dall’altra l’atteggiamento dei sacerdoti è improntato a falsità, è quindicondannabile e anche pericoloso tanto da far dire a Pomponazzi rivolgendosi ai propri allie-vi: “Nella filosofia credete solo quanto vi dice la ragione, ma nella teologia credete tantoquanto vi dicano i teologi e tutti quelli che stanno con la Chiesa Romana, perché altrimentivi faranno fare la fine delle caldarroste!”

I demoni o diavoli

Parlare di magia in senso univoco non è possibile né in età medievale né in età rinasci-mentale. Gli atteggiamenti prevalenti sono infatti due: l’uno propenso a vedere nella magia“qualcosa” che sempre e comunque aveva a che fare con i demoni e l’altro che separava ma-gia demoniaca e magia naturale. Pomponazzi, da parte sua, aderisce alla negazione stessadella magia demoniaca e all’affermazione della magia naturale. Il principio causale degliastri nel mondo sublunare è unanimemente ammesso: i corpi celesti, cioè, sono preposti al-la generazione e al mantenimento degli individui del mondo inferiore e influenzano i feno-meni naturali come le maree. È unanimemente inoltre ammesso che tale causalità si esprimaattraverso le cosiddette “virtù occulte”, le proprietà delle pietre, delle erbe e degli altri corpinaturali che non si manifestano immediatamente all’uomo, basti pensare al magnete che at-trae il ferro. Ogni altro spostamento assegnato al potere celeste è oggetto di discussione. Ta-li dibattiti vertono su temi vari, per esempio, l’efficacia dei talismani e delle formule magi-che; comunque tutti sono riconducibili a un punto cardine, cioè alle diverse tesi in merito achi – o cosa – comandi i corpi celesti e possa quindi usare le loro forze. “È chiaro per tuttiinfatti che il moto degli astri, intesi fisicamente come corpi stellari, doveva essere governa-to da un principio superiore, capace di imprimere quel movimento così perfetto; tutt’altra co-sa è però pensare ad un’intelligenza immateriale preposta unicamente a quel moto, secondo

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l’ordine avuto da Dio, o un essere animato, capace d’emozioni e di entrare in contatto connoi, quindi passibile di essere pregato e supplicato” (op. cit. p. XVII). Il principio di Avicen-na per cui ogni essere inferiore obbedisce al superiore, applicato alle intelligenze celesti,comporta che esse siano in grado di realizzare e porre direttamente in atto ciò che pensano.Ne segue: 1) che esse pensano e vogliono. Ciò apre nuovi problemi per il modo in cui pos-sono arrivare a formulare un pensiero e un desiderio. 2) Le intelligenze, immateriali, agisco-no attraverso altri esseri lontanissimi da loro, generabili e corruttibili e nemmeno razionali,in certi casi. Questi due punti sono inaccettabili secondo Pomponazzi per le seguenti ragio-ni: 1) il pensiero delle cose singolari muove sempre dal senso, ma le intelligenze non lo pos-siedono; 2) basandosi sull’autorità di Aristotele si può obiettare che la gerarchia con cui è or-dinato il cosmo procede per gradi tra i quali vi deve essere sempre continuità, il precedente,cioè, avrà qualcosa in comune con il seguente e così via, per cui perché un agente immate-riale – l’intelligenza celeste – possa agire nel mondo materiale, deve usare un intermediarioadeguato. Le intelligenze non possono che agire tramite il corpo dell’astro che ha caratteri-stiche comuni con loro (non è soggetto a corruzione in quanto si trova nel mondo sullunare)ma anche con esseri del mondo sublunare (è un corpo fisico, si sposta di luogo). “ugualmen-te applicando lo stesso principio di Avicenna a ogni grado della realtà, risulta che l’animadell’uomo ha un potere diretto sulla materia, e può governare: venti, mari e tutta la natura in-feriore: dunque tuoni e fulmini, guarigioni e malattie rispondono al volere dell’uomo” (op.cit. p. XIII). Questa può essere una spiegazione alternativa di molti miracoli, ma, come nelcaso precedente Pomponazzi obietta che si prevede un “salto” fra l’immateriale e il materia-le senza dare nessuna giustificazione del loro contatto. Queste obiezioni Pomponazzi le usanel De incantationibus anche per altre teorie, perfino contro chi sostiene l’esistenza dei de-moni, come fa San Tommaso. Occorre considerare che uno degli sforzi costanti di Tomma-so nel discutere i suddetti argomenti consiste nel preservare sempre la libertà dell’arbitrioumano, quindi le previsioni astrologiche sono ammesse solo là dove il libero arbitrio non hapotere su casi naturali (un terremoto per esempio), oppure predizioni, che riguardano grandimasse, eventi su cui un singolo non ha possibilità di provocare modificazioni (per esempiouna guerra). È possibile per ciò che riguarda l’individuo fare congetture, ipotesi perché leazioni umane sono determinate da intelletto e volontà, però succede che la maggior parte de-gli uomini si lascia guidare dagli istinti e dai sensi piuttosto che dalla ragione, e su questiagiscono i corpi celesti. Sull’uomo qundi i corpi celesti hanno potere non per sé, ma “acci-dens”. Per Tommaso e per tutti coloro fra cui Agostino che sostengono che la magia è sem-pre demoniaca, esistono angeli e demoni, malvagi e tentatori, quindi per quanto gli astri do-minino solo il mondo fisico, le previsioni astrologiche sono sempre pericolose, perché i de-moni possono approfittarne, così come delle virtù occulte. Il fine dei diavoli – qui demone èsinonimo di diavolo – è quello di far tornare gli uomini all’idolatria: se invocati essi rispon-dono in modo da rubare gli onori che dovrebbero essere tributati a Dio. Ciò comporta allo-ra la condanna sia della astrologia che della magia. Secondo Tommaso, dunque, i demoni so-no in grado di conoscere le cose del nostro mondo e di usarle materialmente. Essi, pur nonpossedendolo, possono assumere un corpo, cosicché le apparizioni non sono frutto dell’im-maginazione, ma spesso della presenza reale dei demoni stessi, che si manifestano in vesteumana, e egualmente tutti i prodigi sono opera loro.

Alberto Magno

Si deve parlare di “prodigi” non di “miracoli”. Questi ultimi sono fatti straordinari chevanno al di là delle leggi di natura, i prodigi invece riflettono il potere concesso ai demonida Dio, potere che non trascende la natura: le azioni demoniache, per quanto stupefacenti,sono dovute a forze naturali. Non è possibile, però, che siano imitate dall’uomo, perché que-st’ultimo non può raggiungere lo stesso grado di conoscenza e di abiità dei demoni. Un’al-tra corrente di pensiero è rappresentata dalle tesi di Alberto Magno, non a caso una delle fon-

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ti più citate del De incantationibus. Questi attribuisce all’astrologia una valenza positiva,concependola come “magna sapientia”. In altre parole, attraverso i cieli si manifesta la stes-sa provvidenza e l’astrologia non ha niente a che fare con il demonio, ma è la lettura del“grande libro del cielo”.

Quanto all’incertezza delle previsioni, Alberto la spiega con la mutualità del mondo in-feriore: l’influenza celeste deve, per così dire, adattarsi alle diverse condizioni dei corpi equesto ne causa una perdita d’efficacia. Le previsioni astrologiche, dunque, sono general-mente valide; ma, talvolta, possono essere smentite. Lasciare spazio in questo modo all’ac-cidentalità, non è però ancora sufficiente a salvaguardare il libero arbitrio, come anche Al-berto vuol fare; per risolvere la questione Alberto introduce il concetto di “inclinazioni”, so-luzione ripresa da molti compreso Tommaso: “le influenze celesti non sono necessitanti, mastimolano passioni e facoltà sensibili e quindi, quando la ragione non le padroneggia, guida-no l’uomo (op. cit. p. 77) Nasce però il problema di come si trasmette questa influenza. Se-condo il metodo della doppia verità, nel senso sopra chiarito, Alberto discutendo sul pianofilosofico afferma che è indimostrabile, cioè priva di fondamento razionale la tesi per cui unessere spirituale può agire nel mondo sublunare senza modi appropriati – ed è questo l’inse-gnamento fondamentale appreso da Pomponazzi. Gli astri rispetto alle vicende del mondosublunare si pongono non com cause effettive, ma come cause prossime: Dio causa prima,controlla la vita del creato fino alle ultime creature, attraverso una catena di cause. È alloranecessario che le intelligenze si servano dei corpi celesti, mentre è assurdo – così lo defini-sce Alberto stesso – che i demoni scendano a noi. Per spiegare certi fenomeni è sufficientel’azione delle virtù celesti e dei principi attivi e passivi: allora ciò che avviene non è dovutoagli angeli o ai demoni, ma a cause naturali. Discutere degli angeli e dei demoni non è com-pito della filosofia, che non può dimostrarne l’esistenza, ma è proprio della Teologia. L’in-dagine di questi principi richiede strumenti diversi da quelli che la ragione può offrire. Sem-pre secondo la filosofia, erroneamente platonici, stoici e teologi hanno concepito le intelli-genze prima come dei, poi come angeli e demoni; sempre le hanno credute simili agli uomi-ni antropomorfizzandole.” Per Alberto, che a sua volta si rifà ad autori arabi come al-Kindi,le intelligenze sono solo i motori degli astri, sono tante quanti sono i corpi celesti ed esisto-no con il compito specifico ed unico di muovere gli astri. Allora non esiste più un referentevolontario capace di risponderci. L’astrologia rimane solo una disciplina matematica che mi-sura i movimenti dei cieli, il che porta a giustificare le predizioni su base “scientifica” (op.cit. p. XX).

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PicoMagia, astrologia, medicina

L’astrologia, dunque, è un modo di interpretare la natura. Sulla conoscenza delle virtù oc-culte e dell’astrologia si basa la magia: essa ha un fondamento tutto naturale e può essereconsiderata come una scienza. Tra queste due linee, con netta prevalenza della prima, si svol-ge il dibattito sulla magia fino all’Umanesimo. Anche in questo campo il ’400 fiorentino ave-va portato un rinnovamento notevole. Di magia e di astrologia hanno scritto soprattutto Mar-silio Ficino e Pico della Mirandola.

Il primo ha scritto un trattato intitolato De vita, in cui accettava pienamente la medicinaastrologica, secondo cui, per la corrispondenza del mondo astrale e sublunare, si deve tenerconto degli astri in tutti i tempi della cura, ad esempio per la scelta del tempo di applicazio-ne del medicinale e ancor più nella scelta dei medicinali stessi. I primi due libri trattano an-cora di nozioni pratiche di medicina astrologica, mentre il terzo libro, il De vita, finito nel1489, è particolarmente interessante anche da un punto di vista teorico. Scritto, mentre sta-va traducendo e commentando le Enneadi di Plotino, sulle quali vuole proporre una disgres-sione, Ficino discute il caso delle statue animate, facendovi risolvere ogni influenza celeste.Attraverso la corrispondenza tra macro e micro-cosmo, cioè tra strutture dell’universo e del-l’uomo (entrambi sono concepiti come composti da corpo, del tutto materiale, anima, deltutto immateriale, e spirito, un corpo sottile che fa da medio), Ficino ammette che il “ma-go”, il sapiente, può manipolare le specie degli oggetti materiali attirando i poteri superioridelle stelle cui sono giunti attraverso lo spirito e l’azione del mondo (riferendosi a questaconcezione si è appunto usato il termine di “magia spirituale”) (op. cit. p. XXI). La magiaper Ficino è una scienza “fattiva”, cioè capace di creare o mutare la realtà delle cose, cosache è condivisa anche da Pico della Mirandola. In particolare un talismano unirà i poteri deisuoi componenti e potrà sfruttare anche la figura: una figura zodiacale è conforme ad unafigura celeste e questa sintonia facilita il fluire del potere stellare. Ficino così ammette lafunzione terapeutica di amuleti e talismani (un motivo discusso nel “De incantationibus”)che sarebbero in grado di catturare gli influssi dei demoni astrali. Ogni astro sarebbe infat-ti “dotato” di un demone appropriato, con sue caratteristiche specifiche e capace di entrarein contatto con il mondo inferiore (i demoni di Venere per esempio sono sensibili e potentiper i problemi amorosi). “Non si tratta né di un concetto platonico o neo-platonico, né deirivali cristiani; qui si nota piuttosto la forte influenza dei trattati attribuiti ad Ermete Trisme-gisto, che Ficino aveva tradotto e commentato in gioventù” (op. cit. p. XXI). Ne risulta al-lora una mescolanza di elementi naturali ed entità superiori che Pomponazzi certamente tie-ne presente, insieme con alcune tesi di Giovanni Pico della Mirandola, quando discute del-la natura dei demoni. Pico che fra l’altro aveva conosciuto Nicoletto Vernia e Agostino Ni-fo aristotelici che insegnavano a Padova e a Bologna, e che nel De incantationibus viene at-taccato come esempio di vuota petulanza per le sue “Disputationes adversus astrologiam”,aveva certamente influito su Pomponazzi sia per la sua concezione dell’uomo sia per quel-

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la magia, intesa come compimento della filosofia naturale. Sono interessanti in questa sedesoprattutto le Conclusiones e le Disputationes. Questi due testi, senza dubbio conosciuti daPomponazzi, ci presentano due punti di vista quasi opposti. Per quanto riguarda il primo visono legate delle vicende che dimostrano quanto fosse pericoloso pubblicare certi scritti “Pi-co avrebbe voluto tenere a Roma un convegno di dotti, riuniti a sue spese a discutere pro-posizioni di vari temi. Lo stesso Pico preparò 900 tesi, o conclusioni che toccavano argo-menti cabalistici, astrologici e magici. Le tesi però fecero scandalo. La discussione vennevietata nel febbraio dell’87 da Innocenzo VIII che nell’agosto ne condannò una parte comeeretiche” (op. cit. p. XII). In esse Pico sosteneva che la magia null’altro era che un’arte, ca-ratterizzata dal potere “fattivo” sulla natura e l’astrologia era non solo accettata, ma posta afondamento dell’arte magica. Nell’introduzione, la celebre “Oratio de dignitate nominis” di-chiarava: “La natura determinata degli altri esseri viventi è contenuta entro leggi da me(l’ottimo artefice: Dio) prescritte. Tu (rivolto all’uomo) te la determinerai, da nessuna bar-riera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo delmondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celestené terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti pla-smassi e ti scolpissi nella forma che avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle forme infe-riori che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che so-no divine”. Nella parte finale conclude: “Nell’uomo nascente il padre ripose semi d’ognispecie e germi d’ogni vita. E, secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e da-ranno in lui i loro frutti”. Garin commenta: “La tesi pichiana è veramente notevole: ogni re-altà esistente ha una sua ‘natura’ che condiziona la sua attività per cui il cane vivrà canina-mente e leoninamente il leone. L’uomo invece, non ha una ‘natura’ che lo costringe; non haun’essenza che lo condizioni. L’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo nonha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà. La sua costrizione è la costrizio-ne ad essere libero, a scegliere la propria sorte, a costruirsi con le sue mani l’altare di glo-ria o le catene della condanna” e alla fine conclude: “e l’uomo è tutto, perché può essere tut-to, animale, pianta, pietra; ma anche angelo e figlio di Dio” (E. Garin L’Umanesimo italia-no Laterza p. 124). Potere assoluto rispetto alla natura, totale fiducia nelle sue possibilità;uomo come nesso del mondo questa è la visione di Pico, differente da quella di Manetti; percui l’uomo è creatore del mondo dell’arte e differente da quella di Ficino secondo cui l’uo-mo è orizzonte dei mondi. A seguito della condanna Pico non ritrattava nell’Apologia chenel frattempo aveva scritto, ma accusava di ignoranza i suoi giudici, perché le sue proposi-zioni – affermava – non erano assolutamente in contrasto con la religione cristiana. Inno-cenzo VIII condannò anche l’Apologia e, poiché Pico tentò di fuggire in Francia, emise unordine di arresto immediato che giunse nelle mani del grande inquisitore Tommaso de Tor-quemada a capo dell’Inquisizione spagnola, famosa per la sua rigidità. Catturato vicino aLione, Pico fu liberato dopo un mese di prigione grazie all’intervento di potenti amici, e no-nostante la protezione di Lorenzo il Magnifico fu assolto solo dal successore di InnocenzoVIII, Alessandro VI (Rodrigo Borgia). Pico, tuttavia, nell’ultima parte della sua vita si av-vicinò al Savonarola, predicatore di una riforma del costume nel clero e nel popolo, soste-nitore contro le signorie dei Medici di una repubblica in Firenze sotto il segno di Cristo, percui le ultime opere hanno un carattere diverso in modo sensibile. Soprattutto nelle Disputa-tiones adversus astrologiam divinatricem del 1493, rifacendosi ad Oresme, Enrico d’Assiae altri scolastici critici della astrologia, Pico formula una severa confutazione: ne ammettesolo la sua parte matematica (la nostra astronomia), eliminando così del tutto l’astrologia di-vinatrice o giudiziale (secondo cui dagli astri è possibile imperare il corso delle umane vi-cende). In questo modo aveva assunto una posizione non solo diversa, ma praticamente op-posta a quella di Pomponazzi, che appunto dell’astrologia aveva fatto il fondamento di tut-ta la sua costruzione.

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A. Achillini, A. Nifo, Concilio Lateranense V

Al tempo di Pomponazzi si continua ancora a discutere questi temi. Nel 1503 AlessandroAchillini, che nell’anno accademico 1507-1508 è diretto concorrente del Pomponazzi, pre-para una “Quaestio de subiecto physionomiae et chyromantiae” come introduzione metodo-logica ad un’opera di Bartolomeo Della Rocca o Cocles, un chiromante che girava per le cor-ti italiane. Erano stati attribuiti ad Aristotele un ventina di trattati di chiromanzia e fisiogno-mica e l’Achillini stesso nel 1501 ne aveva pubblicato uno intitolato: Opus septigmentatum.Nella fisiognomica e nella chiromanzia l’Achillini vede dunque una forma di sapere specu-lativo in accordo con i principi della filosofia naturale di Aristotele e, nonostante le profes-sioni di fede, nega che secondo la filosofia si possa giustificare l’esistenza dei demoni. Nel1503 anche Agostino Nifo pubblica un suo scritto il De daemonibus, in cui si dimostra nontanto lontano da Pomponazzi. Il Nifo a Padova era stato condiscepolo, con il Peretto (questoera il soprannome attribuito a Pomponazzi per la bassa statura) del Vernia e lì era diventatodiretto “concorrente” di Pomponazzi per la cattedra di Filosofia Ordinaria dell’anno accade-mico 1495-96; due anni dopo aveva pubblicato il commento alla Destructio destructionumdi Averroè, dove insinuava che l’esistenza dei demoni fosse stata creata per impaurire lementi semplici. La Destructio con questo commento ha influito notevolmente sia sulla ideache Pomponazzi fa della distinzione tra filosofi e volgo, sia sulla teoria dell’“impostura del-le religioni”. La possibilità di spiegare in modo naturale i “miracoli”, inoltre, si legava fre-quentemente a dibattiti sulla natura dell’anima umana.

Alla fine del 1513 il Concilio Lateranense V dichiara l’immortalità dell’anima dogma perla Chiesa e vieta che, al di fuori del commento di Aristotele negli studi, vengano divulgate ediscusse in pubblico tesi alessandriste ed averroiste; è condannato ogni tipo di “incantatio-nes”, è inoltre richiesta l’approvazione del Vescovo per stampare libri (ne nasceranno Indicisu base diocesana). Il Nifo a questo clima aveva già prima reagito con una certa dose di op-portunismo, spostandosi su posizioni sempre più ortodosse e sicure, polemizzando aperta-mente contro Averroè, e infine diventando uno dei principali accusatori dell’ex compagnonella “querelle”, sull’immortalità. Pomponazzi, invece, accogliendo e discutendo tutti i mo-tivi che abbiamo finora esposto, pubblica coraggiosamente, solo tre anni dopo il Concilio, ilsuo trattato sull’immortalità dell’anima, seguendo un cammino che lo porterà in meno di unlustro fino alla negazione di inferno, paradiso, di diavoli e di angeli.

Vite e opere di Pomponazzi. Nascita e fine delle religioni. Il problema dell’anima. Gli incantesimi come fenomeni di natura. I De fato: uomo prigioniero delle stelle.

Pomponazzi (Mantova: 1462-1525) ha dedicato tutta la sua vita all’insegnamento dellafilosofia e in questo si possono distinguere due periodi padovani (inizio dell’insegnamentoprobabilmente 1485, fino al 1496, e decennio 1499-1509) interrotti dal soggiorno alla corteumanistica di Alberto Pio a Ferrara poi, dopo un periodo di sosta e riflessione e un nuovo an-no d’insegnamento a Ferrara, il periodo bolognese (1511-1525), in cui compone le sue ope-re maggiori. La sua formazione è avvenuta a Padova, sotto la guida di due professori aver-roisti: Nicoletto Vernia e Pietro Trapolino. Di quest’ultimo sappiamo poco se non che è na-to a Padova nel 1452 e ivi morto nel 1509. Ludovico Panizza, conferma la sua ostilità ad Avi-cenna. Con il Trapolino si addottorarono il Pomponazzi e il Panizza. Nel 1500 il primo fuanche tra i testimoni del contratto di nozze di Pomponazzi. Trapolino è stato definito aver-roista e si è discusso sulle sfumature della sua vicinanza al “Comentatore”. Sembra che lamaggior parte delle sue opere sia giunta distrutta con il sacco di Padova del 1509, provoca-to dall’adesione della città alla lega di Cambrai contro Venezia. Del Trapolino si conservanodei manoscritti. Di Vernia sappiamo che si guadagnò una notevole fama. Allo Studio pado-vano fu anche uno dei pochi a cui fu concesso il privilegio di tenere una cattedra senza con-corrente (secondo l’uso ogni insegnamento era affidato a due professori “rivali”). Averroista

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convinto, come lui stesso affermava, fu colpito dall’editto del vescovo Barozzi e dovette in-fluenzare non poco il pensiero di Pomponazzi. Quando morì nel 1499 fu chiamato a sosti-tuirlo appunto il suo allievo, Pomponazzi, che ormai a sua volta si stava facendo un certo no-me (op. cit. p. XXIV-XXV).

Il vescovo P. Barozzi (Venezia 1441-Padova 1507), diventò prima vescovo di Belluno,fu trasferito a Padova dove rimase fino alla morte. Egli, nel 1489, emanò un editto per argi-nare le dispute sull’intelletto unico di Averroè, editto che non toccò l’ancor giovane Pom-ponazzi, ma uno dei suoi maestri il Vernia appunto, che seguiva una linea apertamente aver-roista. L’università di Padova era a quel tempo uno dei centri intellettualmente più vivaci,tra l’altro “tra il 1452 e il 1474 vi era stata realizzata la prima edizione latina di Aristoteleaccompagnata dal commento di Averroè e vi fu istituita una delle prime cattedre in cui iclassici della filosofia venivano letti in greco da Niccolò Leonico Tomeo. Anche gli altricentri in cui poi il Peretto si spostò, cioè Ferrara e Bologna, gli permisero di rimanere incontatto con ambienti umanistici” (op. cit. p. XXV). A Ferrara seppe rendere fruttuose que-ste relazioni. “Per quanto riguarda il primo soggiorno, Pomponazzi fu assunto da AlbertoPio per istruirlo nella dialettica ed entrambi risiedettero a Ferrara solo perché Alberto erastato scacciato da Carpi; il secondo invece iniziò per una precisa scelta del Peretto che pu-re aveva ricevuto offerte da Pavia, Bologna e Firenze per lo studio di Pisa (Pisa per questorifiuto ricorse addirittura al tribunale, ma Monsignor Giulio de’Medici, Legato di Bologna,intervenne facendo sospendere la causa) Il Peretto accetterà infine la conveniente propostadel prestigioso Studio bolognese nel 1511” (op. cit. p. XXV). Tra gli allievi di Pomponazzivi furono notevoli umanisti e personaggi di potere: Lazzaro Bonamico, Gasparo Contarini,Antonio Surian (nipote dell’omonimo patriarca di Venezia), Andrea Mocenigo (nipote deldoge Giovanni), Ercole Gonzaga, addirittura Ercole, figlio d’Isabella d’Este, che seguì le le-zioni del Pomponazzi dall’11-12-1522, si occuperà della sua sepoltura in San Francesco aMantova, secondo le sue ultime volontà. I corsi tenuti da Pomponazzi all’Università si con-servano nelle “reportationes” e solo una parte è stata pubblicata e studiata, almeno a quan-to risulta intorno agli anni 1990. Particolarmente importanti sono quelli sul De anima del1500, 1504 e 1513. In realtà Pomponazzi aveva tentato di intraprendere questa lettura giànell’anno accademico 1491-1492, ma così non aveva rispettato l’ordinamento dello Studio,infatti i testi da leggere e i professori a cui la lettura spettava venivano fermamente stabili-ti. La lettura del De anima quell’anno era sta iniziata anche da Pietro Trapoliano, che peranzianità e prestigio aveva maggiori diritti di Pomponazzi. Questi dovette così interrompe-re il suo Corso all’inizio. Nel Luglio del 1514 durante la lettura della “Fisica” venne colpi-to da una denuncia per eresia e anche stavolta dovette sospendere il corso. Già aveva pub-blicato il De maximo et minimo, una serie di questioni a cui Pomponazzi si era dedicato frail 1490 e il 1496, e riguardavano i “calculatores” oxoniensi e parigini (in particolare Luis-set, Heytesbury) e il loro imitatore italiano Giovanni Marliani, dei quali Pomponazzi si mo-stra uno dei più decisi avversari. Nel 1514 dette alla stampa il De intensione et remissioneformarum nel ’15 il De reactione. Anche qui Pomponazzi prende di mira Marliani e i “cal-culatores” (anche se in alcuni casi è dimostrabile che Pomponazzi non ne ha letto diretta-mente le opere che pure discute, ma ricava i suoi argomenti da altri testi italiani) (op. cit. p.XXVI). Esaminando il rapporto fra due e quattro qualità contrarie, Pomponazzi avanza unacritica che era già stata formulata da Gaetano da Thiene: i “calculatores” non tengono con-to sufficientemente dell’esperienza, cioè abbandonano l’esperienza sensibile per la ragione.Per questo privilegiano i metodi matematici. Al contrario Pomponazzi afferma il primato delsenso: la ragione, cioè, non deve mai procedere senza tener conto dell’esperienza sensibilee in caso di contrasto è alla seconda che ci si deve affidare. All’università intanto, precisa-mente tra 1515-1516, il Peretto commenta il I libro del De Coelo ed è questo corso a spin-gere frà Girolamo Natale da Ragusa, domenicano, alunno del Pomponazzi, ad andarlo a tro-vare mentre era malato, inducendolo a scrivere il De immortalitate, Nel 1516 appare infat-ti il trattato De immortalitate animae che provoca numerose reazioni. Da Ambrogio Fiandi-no, vescovo di Mantova, parte una nuova accusa d’eresia per essere andato contro le deci-

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sioni del Concilio Lateranense V (op. cit. p. XXVI). Pomponazzi risponde di essere eretico,ma solo in campo filosofico, e di fatto non ritratta. In questa circostanza fu difeso dal car-dinale Pietro Bembo il quale sostenne che si trattava solo di un problema di interpretazionedel testo aristotelico e non di affermazioni contro la dottrina della Chiesa (di questo inter-vento Pomponazzi ringraziò esplicitamente il prelato alla fine dell’“Apologia”). Anche ilContarini, allievo del Pomponazzi, cerca a sua volta di confutare il maestro, e questo gli ri-sponde con l’“Apologia”. Tra i due la polemica continua poi con i libri De immortalitateanimae del Contarini, di cui il primo è la confutazione dell’omonimo trattato sull’anima delPomponazzi e il secondo dell’Apologia. Nel corso della polemica Gaspare Contarini si ri-chiama al famoso argomento di Avicenna dell’“uomo volante”, caro anche al Ficino, voltoa dimostrare la pura spiritualità dell’anima. Ancora Ambrogio Fiandino, dopo l’aperta con-danna del Pomponazzi dal pulpito, incoraggia Agostino Nifo a farsi avanti. Il Nifo intervie-ne nel 1418 con un suo “De immortalitate animae libellus adversus Petrum Pomponatium”.Egli faceva appello alle intelligenze celesti, ammesse da Pomponazzi, e proprio come agen-ti estrinseci (assistenti), in senso tipicamente platonico. Pomponazzi risponde con il “Defen-sorium”. Il Fiandino nel ’19 decide di agire direttamente con un proprio libello “De anima-rum immortalitate… contra assertorem mortalitatis”. Nel 1520 Pomponazzi compone il Deincantationibus e il De fato. Un anno dopo pubblica il De nutritione et augmentatione, do-ve, prendendo le mosse dalla definizione di aumento e dalla distinzione di altri tipi di “mo-tus”, torna nuovamente e in modo ormai compiuto su temi come il microcosmo e la virtùpremio a se stessa. Riprendendo la critica alla teoria averroistica dell’intelletto unico, Pom-ponazzi insiste soprattutto sul limite della conoscenza umana, abbandonando per semprel’ottimismo umanistico e la fiducia nelle nostre possibilità. Il De nutritione è l’ultima ope-ra pubblicata dal Peretto e con il commento ai “Parva naturalia” terminata il 18 maggio del1525, si chiude definitivamente l’insegnamento di Pomponazzi. Muore il 17 maggio del1525. Il Trattatus de immortalitate animae (1516), Apologia e Defensorium (1518), il Deincantationibus (16 agosto 1520) e De fato (5 novembre 1520) sono le opere più importan-ti di Pietro Pomponazzi. Tutte e tre le opere sono il frutto di una lunga serie di riflessioniiniziata almeno tre anni prima del De immortalitate. Per essere più precisi, esaminando icommenti al De anima, si può notare un netto spostamento da una posizione averroista aduna alessandrista: nel corso sul De anima (1500) infatti, Pomponazzi segue il commento diAverroè senza porre molti problemi, già in quello del 1504 vengono messe in evidenza piùdifficoltà e nel ’13 viene avanzata, solo come ipotesi, la tesi secondo cui per Aristotele l’ani-ma e il corpo sono mortali. Se arriviamo al ’16, cioè al De mortalitate animae, possiamo ve-dere con quale decisione viene criticato Averroè. La tesi pertanto è che l’intelletto umanonon è in grado di concepire l’universale puro, la sua conoscenza procede sempre dal senso:l’immaginazione astrae un fantasma dai dati sensibili e da questo fantasma viene elaboratoil concetto. Il fatto che l’immagine astratta delle cose sensibili sia sempre necessaria, impli-ca che l’intelletto necessiti sempre del corpo e quindi non possa esistere separatamente daesso. Le intelligenze celesti sono dotate di un diverso modo di conoscere: esse in niente han-no bisogno del corpo celeste, sono deputate al suo movimento, ma muovono senza esseremosse; esse cioè dal corpo non ricevono niente. Mentre dunque l’intelletto umano ha biso-gno del corpo almeno come oggetto (cioè l’intelletto umano per svolgere la sua funzionenon può fare a meno dell’uso dei sensi e della fantasia), le intelligenze non ne hanno affat-to bisogno. Da questa affermazione ne consegue la dimostrazione razionale della mortalitàdell’anima e chi dunque vuol credere il contrario può farlo solo per fede. Per Pomponazzi èdi fondamentale importanza stabilire il rapporto anima-corpo: averne bisogno come 1) sog-getto significherebbe essere accolti nel corpo in modo quantitativo e corporeo, esattamentecome per le attività organiche; averne bisogno come 2) oggetto significa non trovarsi nelcorpo e comunque averne necessità nelle proprie operazioni. Ora, l’anima umana non puòesercitare le funzioni sensitive e vegetative senza lo strumento del corpo. E non è quindimortale in sé, ma a causa di questa funzione e di questo strumento. […] in quanto conosce,essa sarà in un certo modo immortale perché l’intelletto è immortale in sé. Il punto fonda-

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mentale è che, considerato non congiunto alla materia, sia incorruttibile, la conoscenza pe-rò non può avvenire senza immaginazione, la quale immaginazione si trova nel corpo. Daquesta ambiguità si ha la conclusione: l’anima umana è mortale ed immortale, per sua natu-ra è mortale e solo in un certo senso immortale. L’anima umana, afferma il Peretto, “profu-ma di immortalità”. Le affermazioni sulle intelligenze implicano che esse non concepisco-no altro che l’universale puro, proprio perché non partano dall’immagine del singolareastratta dai sensi. La netta distinzione tra il suddetto modo d’intellezione dell’intelligenza equello dell’uomo, qui impostata, sarà poi uno dei punti d’appoggio del De incantationibus.Allo stesso modo, già nel De immortalitate viene evidenziato un riflesso di questo proble-ma, riproposto e risolto nel De incantationibus: se l’uomo fosse interamente mortale, nonesisterebbe Paradiso e Inferno e conseguentemente cadrebbero i precetti etici proposti dal-la Chiesa. Ci si può allora chiedere quale legge morale, se ce n’è una, può guidare il com-portamento umano. Pomponazzi risponde che all’agire rettamente è ricompensa la coscien-za della propria azione retta e viceversa per un comportamento sbagliato la pena è l’errorestesso. Aristotele nell’Etica Nicomachea afferma che il fine dell’uomo è un “ abito di sag-gezza”. Conseguentemente Pomponazzi sostiene che noi odiamo naturalmente chi si com-porta immoralmente, quindi l’uomo si presuppone “morale”. È un potere di tutti allora agi-re virtuosamente, come tutti possono diventare viziosi, poiché ciò dipende dalla realizzazio-ne dell’intelletto operativo comune a tutti. Il fine universale dell’uomo infatti non poteva es-sere la piena realizzazione del lato speculativo, perché i filosofi sono antologicamente di-versi dalla massa. L’agire moralmente dà la vera felicità e ad essa devono essere subordina-ti tutti i piaceri. Per questa sorta di naturalità non c’è migliore premio alla virtù della virtùstessa, ogni altra ricompensa è accidentale. Solo liberati dalla falsa credenza che Dio debbaricompensare ogni azione giusta con il conseguimento dell’effetto, potremo agire moral-mente in modo puro. Negare l’esistenza di inferno e paradiso, come, secondo Pomponazzi,si deve fare seguendo i dettami della ragione, non è allora affatto equivalente a negare l’esi-stenza e l’importanza dell’etica. In altre parole, per una caratteristica intima dell’uomo, inbase ad Aristotele, si deve credere che naturalmente sia possibile distinguere il buono dalcattivo. Ciò è, però, ammesso a livello di possibilità; se è cosa ardua da capire e ancora dipiù applicare anche per i migliori, è per la massa assolutamente impossibile. A ciò possonoarrivare i filosofi, ma non ci si può tanto aspettare dal volgo. Sorge ora una domanda mol-to importante: perché sono state introdotte idee false come quelle dell’immortalità? La ri-sposta del Peretto è che il volgo deve essere trattato come un bambino che per stare lonta-no dal male deve temere una punizione, per fare il bene deve sperare nella ricompensa. Nonc’è niente di male in un uso strumentale della “verità” e della menzogna, quando l’intentoè politico-pedagogico. Religione come instrumentum regni? Certo, la religione può dar ra-gione del comportamento dei politici, che hanno per fine la pace sociale. Due anni dopo lamorte di Pomponazzi, moriva Machiavelli. Il segretario fiorentino approfondisce il suddet-to tema. Egli teorizzò esplicitamente la funzione della religione come “instrumentum re-gni”, cioè veicolo del consenso popolare alle istituzioni. Ne Il Principe, Machiavelli scris-se che i buoni ordinamenti dello stato traggono stabilità dal consenso del popolo, ove que-sti sia formato a retti principi morali indotti dalla religiosità. Pomponazzi non ammette pe-rò l’uso strumentale della religione proprio da parte dei chierici che la stessa religione pro-fessano, in essi vede un intento non legittimabile: il fine di questi ultimi è, infatti secondolui, solo quello di consolidare sempre più il potere, e per questo non si fanno scrupoli a sfrut-tare l’ingenuità popolare. Si innesta qui la tematica principale del De incantationibus: i sa-cerdoti giocano sul fatto che i più dall’effetto pretendono di conoscere immediatamente lacausa, e quando questa non è evidente ricorrano ad entità superiori. Essi allora, come i mi-stificatori più volgari, non hanno nessun interesse a combattere la superstizione, che ancheè la loro forza. Inoltre, rendendosi conto che il volgo è troppo grossolano per capire qual-cosa al di là della materia, assecondano la credenza nei demoni e negli angeli concepiti informa umana e dotati di volontà (l’“impostura delle religioni”). Quello che nel De incanta-tionibus Pomponazzi si propone è appunto di mostrare quale è invece il percorso della ra-

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gione a partire dalla filosofia aristotelica. Schematizzando, le conclusioni raggiunte da Pom-ponazzi nel De incantationibus sui demoni sono:

1) la loro esistenza non si può provare in via razionale; 2) la loro azione non è necessaria per i fenomeni prodigiosi; 3) perché la natura non fa niente senza scopo, essi sono superflui e quindi sono da elimi-

nare dalle cose che esistono. Per spiegare perché l’esistenza dei demoni concepiti secondol’idea delle religioni non sia accettabile razionalmente, Pomponazzi si serve di quanto ave-va già detto sul loro modo di conoscere il singolare, i demoni non possono entrare in contat-to con il nostro mondo, quindi, anche ammettendone l’esistenza, non potrebbero fare “mira-coli”. Per lo stesso motivo, inoltre, né potrebbero ascoltare la nostra preghiera, né in alcunmodo potrebbero porsi come intermediari tra noi e Dio. Seguendo Aristotele, in base al fat-to che la natura procede sempre in modo ordinato e il cosmo è suddiviso in una scala gerar-chica di esseri, Pomponazzi afferma la necessità di medi tra Dio e il mondo inferiore – esclu-dendo così l’azione diretta di Dio nel mondo, base del miracolo cristiano – ma afferma an-che, per quanto detto, che i demoni sono inadatti a rivestire questo ruolo. Allora, secondoPomponazzi, non rimangono motivi validi per porne l’esistenza in via razionale. Pomponaz-zi, però, non si ferma qui e procede applicando il rasoio di Ockham che afferma: ”Frustra fitper plura quod postest fieri per pauciora?”. (È cosa vana fare con più cose ciò che si può fa-re con poche cose). Se ne deduce allora, semplificando il problema, la soluzione ultima: senon ci sono motivi per affermare l’esistenza dei demoni, si può concludere che i demoni nonesistono. Ne seguono 2 (due) corollari:

1) I prodigi si spiegano facendo ricorso solo ad elementi naturali; 2) Non esiste la magia demoniaca. Data la precedente conclusione non ha più senso parlare di magia demoniaca: essa infat-

ti, come abbiamo visto, presuppone un intervento delle suddette entità nel nostro mondo.Non rimane allora che la magia naturale, cioè la scienza che sfrutta le capacità nascoste del-la natura, e si vedrà che essa per Pomponazzi ha diritto al titolo di “scienza” al pari di ognialtra scienza naturale. La magia demoniaca si riduce allora a superstizione perché basata suun complesso di credenze ingenue e irriflesse, frode perché alcuni possono conoscere i mec-canismi propri della magia naturale e possono utilizzarli facendo credere di aver saputo talicose dai santi e dagli angeli al fine di attendere vantaggi personali. È questo allora il motivoper cui la magia, sebbene vera scienza, debba essere proibita, perché cioè si presta ad esse-re usata per scopi illeciti, ma non perché malvagia in sé. È necessario però che queste affer-mazioni siano sostenute da una spiegazione alternativa e basata solo sulla natura dei feno-meni ritenuti miracolosi. Secondo Pomponazzi essi si spiegano con:

1) la potenza degli astri2) le virtù occulte, che danno ragione dell’efficacia di talismani, resurrezioni apparenti

ecc. ; 3) la forza dell’immaginazione considerata con la complessione personale, che spiega i

casi psico-somatici, tra cui Pomponazzi fa rientrare i poteri dei vati e degli indemoniati; 4) la forza dell’immaginazione, unita alla teoria medica dei vapori, per i casi d’azione

transitiva, cioè su un corpo esterno, come fascinazione e malocchio; 5) fenomeni di ottica e momenti di suggestione collettiva per le apparizioni.

Il fulcro centrale attorno al quale si muove tutta l’argomentazione pomponaziana è laconcezione dell’astrologia come scienza, al pari della medicina. È fondamentale, perciò, lanegazione dei caratteri antropomorfici delle intelligenze; data questa negazione, la dimostra-zione della loro sufficienza per produrre eventi mirabili nel mondo sublunare rappresenta perPomponazzi una vera dimostrazione scientifica. Le intelligenze celesti sono “ forme dei cor-pi celesti”, unicamente preposte al loro moto. Non sono dotate di volontà buona, né cattivanei nostri confronti, non sono contente o arrabbiate, non hanno proprio alcuna delle nostrepassioni. Non hanno niente a che vedere cioè con le indefinite entità superiori, dotate di vo-lontà e in grado di entrare in contatto con noi, necessarie come presupposto della magia de-

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moniaca, che, come si è detto, per Pomponazzi è del tutto vana. Le intelligenze così conce-pite, attraverso i corpi astrali, sono in grado di intervenire nel nostro mondo e quindi di adat-tarsi alla perfezione al ruolo di medi fra Dio e gli uomini. Occorre ricordare ancora che, pe-rò, essendo assolutamente immutabili, esse non rispondono alle nostre invocazioni (sianopreghiere o scongiuri), ma solo regolano la generazione, la corruzione e la conservazione delmondo sublunare, trasmettendo determinate qualità secondo l’ordine imposto da Dio alla na-tura una volta per sempre. È così che al potere degli astri è dunque ricondotta anche l’effi-cacia della “magia”, dunque scienza anch’essa, perché insieme delle operazioni naturali chesfruttano le virtù occulte degli elementi.

I punti inaccettabili per la Chiesa sono evidenti e sono: 1) la religione stessa è un fenomeno naturale2) il complesso di credenze che propone è basato solo sulla superstizione; 3) la religione è solo uno strumento di potere

Come chiarimento al 1° punto si può affermare che tutto nel mondo soggiace alla poten-za astrale ed esiste conformemente ad un ciclo di nascita, crescita e morte, cui l’efficacia del-le religioni sottostà secondo Pomponazzi. Prova ne sarebbero in primo luogo i prodigi chesi vedono alla nascita dei fondatori di religioni esattamente come di re e principi (esaminan-do i prodigi che sono avvenuti nella religione cristiana Pomponazzi ne pronostica addirittu-ra una fine vicina), quindi le predizioni astrologiche che le riguardano (gli “oroscopi dellareligione” appunto) e infine la simile origine e natura di tutte le religioni. È dunque la stes-sa cosa parlare della religione di Mosè, di Cristo o di Maometto, oppure dell’impero roma-no e di Cesare. Stessi prodigi, stesso cielo, stessi fenomeni. Persa nel campo dell’irraziona-le la funzione tutelare della religione, assieme al ruolo di tentatori dei demoni, nasce il pro-blema di come si pone l’uomo rispetto al male e in quale posizione si trova rispetto a que-sto dominio astrologico. Di questi temi Pomponazzi inizia soltanto a parlare nel De incan-tationibus, per poi continuare nel De fato. Anche di fronte ad essi, Pomponazzi ribadisce lapotenza delle stelle, riconducendovi non solo il male di natura, cioè indipendente dalla vo-lontà, ma anche il male di colpa. Allora l’arbitrio dell’uomo non è veramente capace di gui-dare il proprio destino, se la sua scelta è stata determinata dalle stelle. L’uomo è prigionierodel suo fato, pur non conoscendolo. Questa è la conclusione verso cui Pomponazzi propen-de. E coerentemente vede Dio come un essere in cui, secondo quanto avevano detto già glistoici, non vi è alcunché di provvidenziale. Nel De incantationibus non si ha ancora nientedi così esplicitamente deterministico e anzi sono molti gli esempi di persone che seguendoi consigli degli astrologi sono riuscite ad evitare la cattiva sorte, ma nel De fato, che purecontiene ancora delle contraddizioni e manifesta l’angoscia dello stesso Pomponazzi rispet-to a questa conclusione, si trovano affermazioni in cui il dominio degli astri è esteso a tutto,senza alcuna distinzione per l’uomo. Il mago allora anche rispetto alla natura non si pone piùcome sapiente e “artefice”, quale era stato concepito nell’Umanesimo quattrocentesco, masolo come detentore di un sapere difficile da raggiungere e non più in suo potere. Durantel’umanesimo un profondo rinnovamento si operava anche nella cultura più strettamente ispi-rata a premesse aristoteliche, fossero queste averroiste, o alessandriste, o, magari, tomiste oscotiste. È molto difficile tener distinte le varie correnti, e le influenze di Temistio (c 317-c318, oltre che commentatore di Aristotele, oratore e filosofo greco) o di Simplicio (5° seco-lo dopo C. commentatore della Fisica di Aristotele) accanto a quelle più note ed evidenti giàricordate, mentre spunti platonici variamente s’insinuano a rendere estremamente fittizie latradizionale antitesi tra Firenze umanistica e platonizzante, e Padova aristotelica ed averroi-stica. “Tuttavia è innegabile che anche gli incontri, quando vi sono, nascono per l’incrociar-si di vie diverse, per il convergere da varie parti di temi in origine distanti. Come non è dif-ficile notare quando si volga l’attenzione anche a quel motivo caratteristiche della centrali-tà umana, che pur sembra talora accostare in superficie la ficiniana “Theologia platonica” eil De immortalitate animae del Pomponazzi (E. Garin L’umanesimo italiano ediz. Laterza p.156).

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Achillini, Trapolino, Contarini ecc. discussioni fra occanisti, scotisti e tomisti. L’anima come medietà e orizzonte. De nutritione

Pietro Pomponazzi, il maggiore degli aristotelici del ’500 successore del Vernia, nel 1488ancor giovanissimo fu chiamato a Padova a tenere un corso, parallelo ad Alessandro Achil-lini, a cui più tardi succedette sulla cattedra bolognese. L’Achillini, che, sembra, era stato suomaestro, anche se meno brillante e meno profondo del Pomponazzi, fu pensatore notevole.Averroista, aveva fatto ricorso alla più caratteristica espressione della formula della “doppiaverità” quando aveva dichiarato di scegliere, a proposito dell’intelletto, ”fra due opinioni fal-se (rispetto alla fede) la più probabile. , e cioè quella averroistica”. Nei suoi scritti egli trat-ta argomenti fisici, medici, logici, con un interesse proponderante per un tema d’obbligo nel-le scuole universitarie: l’anima. Affermare che l’intelletto umano fosse forma del corpo lo ri-teneva una pericolosa riduzione dello spirituale al corporeo e nella “separazione” vedeva lasalvaguardia dell’autonomia del pensiero. Dall’altra parte, l’uomo, nodo vivente del corpo-reo particolare e dell’universale intelligibile, gli appariva “termine del mondo materiale, per-ché in lui si uniscono cose materiali e immateriali, onde si svela la guisa per cui è vincolodelle inferiori e delle superiori”. Conclusione alla quale, sempre su terreno aristotelico, arri-vava un altro maestro del Pomponazzi, Pietro Trapolino, che nel commento all’anima secon-do Aristotele ed Averroè, riafferma la “ medietà” dell’intelletto, forma “separata”, ma anima-trice della materia. In questo clima, dunque, si alimentò l’indagine del Pomponazzi, che ar-rivò alla centralità umana per vie ben diverse da quella ficiniana e pichiana. A Padova, infat-ti, i tentativi più dichiaratamente umanistici in senso letterario non trovarono terreno adattoe degenerarono facilmente in un’arida ricerca grammaticale. “Il Vernia lodava il Barbaro perle versioni da Temistio e, forse, per certi interessi logici; ma né il Barbaro, né, poi, l’elegan-te ed erudito Niccolò Leonico Tomeo, amico e raccomandato dal Bembo, si affermarono ol-tre una ristretta cerchia di letterati puri” (op. cit. p. 158). Erano vive, al contrario, le discus-sioni di logica formale e di fisica degli occamisti, che in gioventù attiravano anche il Pom-ponazzi. Ed erano altrettanto vive le discussioni degli scotisti, fra cui emergeva un efficacepolemista: il Trombetta; erano presenti anche i tomisti ai quali pareva aderire, in un certomomento anche il Pomponazzi. Crisostomo Javelli da Casale, domenicano, dopo la pubbli-cazione del De immortalitate, rimpiangerà, come un tradimento l’atteggiamento del pompo-nazzi (“ i moltissimi a te devoti… si stupiscono che tu abbia volto le spalle a Tommaso, gui-da saldissima tua e mia…”. ) In realtà il Peretto non fu ripetitore né di S. Tommaso, né diAverroè, anzi il Cantarini ricorda che egli era critico di Averroè. La filosofia era per lui nondogma, ma aspra ricerca, che amava paragonare all’avvoltoio che rode il fegato a Prometeoincatenato. Ed egli riteneva il filosofare come un perenne discuter se stessi, un combattimen-to e un cadere nell’eresia. “È necessario infatti che nella filosofia sia eretico colui che desi-dera trovare la verità” affermava. Proprio per questo egli si faceva gioco dei chiosatori, deiripetitori, di quelli che Galilei chiamerà i ‘trombetti’ dell’altrui opinione. Non a caso Spero-ni, autore dei Dialoghi, vicino al Pomponazzi, lo presenta come critico acerbo di quanti, aisuoi tempi, ‘confidandosi solamente nella cognizione della lingua’, hanno osato por mano ailibri d’Aristotele, “quelli a guisa degli altri libri d’umanità pubblicamente esponendo”. “Nondiversamente dall’Achillini il Pomponazzi aveva cominciato col trattare problemi di fisica edi logica, riprendendo la questione proposta in origine dagli occamisti inglesi, e poi dibattu-ta a Parigi, e in Italia da Gaetano di Thiene e dal Marliano, dei rapporti tra variazioni quan-titative e qualitative” (de intensione et remissione formarum) (op. cit. p. 159). L’opera, tut-tavia, che per fervore di discussioni più lo impegnò uscì a Bologna nel 1516 come tentativodi risolvere su un piano schiettamente razionale il problema dell’immortalità. L’uomo, la suanatura ancipite, la sua centralità, erano stati i grandi temi del ’400 e lo stesso Ficino avevadedicato al problema dell’immortalità dell’anima il suo capolavoro. Pomponazzi vede laquestione con rigore estremo, connettendola con una sua chiara concezione dell’ordine na-turale. “La natura – egli osserva una volta – procede per gradi; i vegetali hanno già un pò dianima; seguono gli animali dotati soltanto di tatto, di gusto e indefinita immaginazione; ven-

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gono quindi gli animali tanto perfetti da sembrare dotati di intelligenza, che costruiscono ca-se e si organizzano in civili società, come le api, tanto che un gran numero di uomini sem-brano inferiori ai bruti per intelligenza”. La continuità implica poi il concetto di medietà, dianelli congiungenti e sintetizzanti. “Vi sono animali medi fra le piante e le bestie, come lespugne marine, fisse a guisa di piante, ma senzienti a mò di animali. Vi è la scimmia, chenon sai se sia bestia o uomo; vi è l’anima intellettiva media fra il temporale e l’eterno”. Se-nonché non poteva sfuggire al Pomponazzi il carattere nuovo di questa medietà, non più col-locata fra gradi diversi della natura, ma al confine tra natura e sopranatura, fra necessità e li-bertà. Egli si sforza per capire che cosa possa significare la partecipazione dell’anima almondo soprannaturale. Perché è nettamente contrario alla separazione platonica, e quindi,averroistica, anche se dell’averroismo conserva tutta la spregiudicatezza critica. Troppi sonoi legami fra sentire ed intendere, né si può spiegare l’intendere senza un costante riferimen-to al sentire. “E se la essenza con cui sento fosse diversa da quella con cui intendo, in chemodo io che sento potrei essere colui medesimo che intende? Ed è ridicolo il supporre chesi tratti quasi di due uomini insieme congiunti le cui cognizioni siano corrispondenti”. Nonsolo la netta separazione, ma una qualunque occasionalistica corrispondenza viene così di-sdegnosamente scartata. Contro averroisti e platonici era naturale che Pomponazzi si avvici-nasse così a Tommaso, che aveva ben evidenziato l’intrinsecarsi nell’uomo di forma e ma-teria. L’influenza di Alessandro di Afrodisia, così insistente nel proporre l’identità con Diodella luce intellettuale, è assai meno appariscente di quanto si sia spesso sostenuto, mentre icontemporanei, e in particolare avversari scaltriti come lo Javelli, si compiacquero di porresullo stesso piano Pomponazzi e Tommaso de Vio, il più grande tomista del ’500. Anzi, se-condo lo Javelli, non si potrebbe fare nessuna distinzione fra i due sul problema dell’anima.In realtà però Pomponazzi critica l’Aquinate il quale dalle sue premesse avrebbe conclusoad un’anima “veramente e assolutamente immortale”, laddove l’immortalità umana è solo“impropria”, come solo parzialmente slegato dal corpo è l’intelletto, in quanto cioè ci si ri-ferisce alla sua funzione. Quando, con una bella metafora, Pomponazzi parla di un “profu-mo (odorat) di immortalità”, vuol indicare appunto, nell’uomo, un’ansia, un’esigenza, unaideale direzione, non un carattere posseduto che sarebbe in sé assurdo e contraddittorio. Nel-l’ascesa di tutta la natura l’uomo è il culmine; ma là dove Pico faceva dell’uomo il limite,dinnanzi al quale il mondo naturale si inchinava come ad alcunché di superiore, Pomponaz-zi pone l’uomo nei confini naturali, anche se proteso oltre. e non sempre, che talora leggia-mo osservazioni ben amare “se tu esaminerai le regioni abitate, troverai che quasi tutti gliuomini sono più bestie che uomini, e rarissimi sono quelli che sembrano razionali. E anchequelli razionali, non possono chiamarsi così in senso proprio, ma solo per confronto con al-tri sommamente bestiali, così come le donne non sono mai veramente sagge, ma solo in rap-porto ad altre particolarmente sciocche” (op. cit. p. 160-61). Una separazione totale comequella che ammettono i platonici; una immortalità dell’anima, è, dunque impossibile. Pro-prio perché medietà, orizzonte, l’anima non può essere staccata da quella realtà di cui è con-fine senza essere snaturata e falsata, resa inconcepibile nelle sue operazioni che hanno sem-pre necessità di un dato sensibile. Né il rifiuto della immortalità, o almeno della certezza ra-zionale dell’immortalità, può scuotere la moralità. Virtù e felicità, intimamente connesse, an-zi aspetti diversi di una sola realtà, sono la stessa armonia interiore. Il vizio che la spezza, seimbestia l’uomo, gli toglie insieme ogni gioia (chi dunque, benché mortale, preferirà il viziofacendosi con ciò bestia, anzi peggiore della bestia?). “Nonostante tutto lo scritto del Pom-ponazzi finisce ambiguamente, in un problema ‘neutro’, ripetendo per l’immortalità press’apoco quello che S. Tommaso aveva detto a proposito dell’eternità del mondo: “coloro cheprocedono per le vie della fede, rimangono fermi e saldi”. Nel De nutritione, il più radicaledegli scritti editi di Pomponazzi, in cui, qualcuno, esagerando ha trovato un chiaro materia-lismo, leggiamo questa affermazione: “io credo vera secondo Aristotele la divisibilità, nonsolo delle anime delle piante e degli insetti, ma in genere di tutte quelle che siano atto di unamateria inferiore. E questo benché secondo quella verità (rivelata), che Aristotele non conob-be, l’anima umana debba considerarsi assolutamente indivisibile. Il che, tuttavia, mi sembra

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debba porsi solo per fede, e non per ragione naturale… La Chiesa, invece, non si fonda sul-le stoltezze dei filosofi, né sulla umana ragione, che è tutta avvolta nelle nebbie, ma sulloSpirito Santo, sull’evidenza di indiscutibili miracoli; ora né le ragioni né le parole d’Aristo-tele debbano farci abbandonare questo santo proposito”. ”Era sincero o ironico, qui, il Pom-ponazzi? o voleva soltanto accentuare la possibilità paradossale di fare appello oltre la chiu-sura terrena, a un atto di fede? ”si chiede Garin. Il Pomponazzi come poi sarà del Tasso scri-ve in tempi molto difficili non solo perché caratterizzati da guerre che si svolgono sui cam-pi di battaglia a causa della lotta fra la Francia e l’Impero, da congiure ecc. ma anche da quelclima di intolleranza simboleggiato dal Tribunale dell’Inquisizione che impedisce la liberaespressione del pensiero e quindi la libertà di coscienza. Da una parte c’è la Chiesa deposi-taria della verità teologica e detentrice, in definitiva, del potere politico, che si fonda sulloSpirito Santo, sull’evidenza di indiscutibili miracoli…”, dall’altra c’è la ragione umana, la“stoltezza dei filosofi”, le guerre di religione. Sincero, oppure ironico il Peretto? Difficiledirlo, ma facile dubitarlo. Appello ad atto di fede? forse si, ma le conclusioni filosofiche delPomponazzi hanno un carattere fortemente apodittico, per cui il richiamo alla fede appare unpò forzato.

Discussioni intorno al “De immortalitate” bruciato pubblicamente

Il libretto del Pomponazzi, bruciato pubblicamente in Venezia, vilipeso dai pulpiti, mal-trattato dalle cattedre, dette luogo ad una ampia e lunga discussione. ”Scrivono contro di es-so e l’acre Ambrogio Fiandino e Bartolomeo di Spina e Crisostomo Javelli e il Fornari, masoprattutto, Gaspare Contarini e Agostino Nifo da Sessa, cui il Pomponazzi risponderà col-l’Apologia e col Defensorium (op. cit. p. 162). Le obiezioni fondamentali vertevano tutte sul-la possibilità, negate da Pomponazzi, dell’esistenza di sostanze separate. L’intelletto che èconoscenza dei puri principi primi, delle forme slegate da ogni materia, mostra con questasua attività la falsità della tesi dell’impossibilità di un pensare indipendente dal fantasmasensibile. Inoltre, in quanto pura capacità di comprendere tutto, l’intelletto respinge con que-sto ogni legame con la estensione, ogni divisibilità. Il Contarini, come abbiamo visto sopraa favore della pura spiritualità dell’anima, si richiamava all’autorità di Avicenna, mentre ilNifo a quella di Platone. Il Nifo nella discussione dell’anima era stato scolaro del Vernia,aveva subito forti influenze averroistiche, per finire favorevole ad una certa separazione pla-tonica. Ma la sua funzione storica non fu in determinate dottrine, ma nella sua cultura. Aver-roismo fu per lui affermazione di spregiudicatezza, più che solida e seria posizione. Al chiu-so delle accademie, preferiva le riunioni mondane. Temperamento diverso ebbe Simone Por-zio, anche se impegnato negli stessi problemi. Egli fu veramente e rigorosamente contrarioad ogni separazione dell’anima e per questo combatté averroisti e simpliciani e ad Alessan-dro di Afrodisia rimproverava l’identificazione con Dio della luce intellettuale. La mente,pur con la nobiltà delle sue azioni, è “ opus naturae”, opera della natura, L’aristotelismo, seben integrato, non significa altro che questa rigida fedeltà alla natura, questa chiusura del-l’uomo nei limiti terreni. Di qui il contrasto con quel Jacopo Antonio Marta, discepolo delNifo, che polemizzando con il Porzio, e, più tardi, con Telesio, volle ancora trovare un ap-poggio alla religione in Aristotele. In realtà è impossibile una rigida classificazione di preci-se correnti nei riguardi del problema dell’anima. Una buona panoramica dell’ampiezza del-la discussione e delle correnti ne fa Eugenio Garin ci piace riportarla (L’Umanesimo italia-no Ed. Laterza p. 164-165) né si possono isolare i seguaci di Temistio, di Simplicio o diAverroè, quelli d’Alessandro, quelli d’Avicenna, i tomisti e così via, anche se, volta a voltasentiamo parlare di simpliciani o d’averroisti, di tomisti e d’alessandristi. Abbiamo vistoPomponazzi apparire agli uni seguace ortodosso d’Alessandro di Afrodisia, e allo Javelli, do-menicano e platonizzante, nella identica posizione del più grande tomista del ’500, il De Vio.In realtà le varie denominazioni sono solo bandiere di battaglia, ed hanno un significato pu-ramente polemico. Così un Giulio Castellani, che si professa ammiratore e seguace del Por-

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zio, che dichiara insieme di accettare il commento di Alessandro di Afrodisia, e la posizionedel Pomponazzi, ma che ama Ficino e Platone, e a un tempo imita Vincenzo Maggi peripa-tetico ortodosso, in sostanza vuole soprattutto rivendicare alla filosofia una precisa indaginepsicologica che mostri lo svolgersi dal sensibile dell’attività di pensiero, senza preoccupa-zioni religiose. Ed infatti la sua critica dichiarata va contro i simpliciani di Padova e gli aver-roisti, in quanto separano, e cioè staccano, platonicamente, un mondo spirituale dalla natu-ra. E la sua condanna non risparmia un suo parente, Pier Niccolò Castellani che, traducendola plotiniana Theologia Aristotelis, aveva in qualche modo fornito nuovi argomenti alla tesidella separazione. D’altra parte, se ai seguaci di Alessandro gli averroisti sembravano trop-po inclini alla trascendenza per la separazione estesa all’intelletto possibile, e quindi per uncerto platonismo, gli averroisti a loro volta si ponevano, di fronte ai tomisti, come campionidi un pensiero libero e critico. Il Varchi, che aveva non poche tenerezze per Averroè, discu-tendo dell’anima, affermava: “la presente materia, oltre l’essere dubbiosa e malagevolissimadi sua natura, è stata trattata da tanti tanto scuramente e diversamente, che né anche quelliche sono stati molti anni per molti studi osano favellare sicuramente: anzi questa è quella co-sa, della quale chi più sa, meno ardisce di ragionare. ”

Machiavelli e Pomponazzi

Sebbene meno celebri dell’opera De immortalitate, il De incantationibus e il De fato nonsminuiscono la grandezza del Pomponazzi, perché si segnalano per la non comune arditez-za e per la innegabile profondità. In un luogo famosissimo dei “discorsi sulla prima deca diTito Livio”Machiavelli discute delle varie religioni esclusivamente in rapporto alla loro ef-ficienza pratica e politica. Nell’ambito di una visione esclusivamente terrestre l’appello alcielo è considerato, anch’esso, un fenomeno puramente mondano, e che interessa nei suoiaspetti sociali, innegabili e molto vasti. Pomponazzi è spirito per più lati affine al Machia-velli. Entrambi prendono in considerazione solo la vita terrena, e nell’uomo vedono sì un mi-rabile costruttore, ma sempre e soltanto una creatura terrena, chiusa nel limite terreno, oltreil quale non escludono la possibilità della fede, assolutamente gratuita, completamente sle-gata dalla ragione, anche se interessante l’indagine razionale per i fenomeni concreti attra-verso cui si ripercuote nella nostra vita mondana. E come Machiavelli esamina quelle riper-cussioni sul piano politico, Pomponazzi le considera da un punto di vista psicologico, logi-co e fisico. L’immortalità dell’anima, per esempio, è una credenza che risponde al desiderioche la religione vuol soddisfare per il bisogno connaturato dell’uomo di prolungare la vitadopo la morte.

Pomponazzi, come Machiavelli, vuole considerare come il fatto religioso incida sulla na-tura umana; e la trasformi; il primo, in particolare, nel De incantationibus si chiede che va-lore hanno le affermazioni di influenze miracolose di cause soprannaturali e la risposta èchiarissima: “Noi possiamo salvare ogni esperienza mediante cause naturali, né v’è ragionealcuna che ci costringe a far dipendere da demoni alcuni fenomeni. È inutile dunque intro-durli; ed è ridicolo e fatuo abbandonare l’evidenza e la ragione naturale per andare a cerca-re quello che non è né verosimile né razionale”. Tutto il complesso dei miracolosi interven-ti può essere agevolmente ricondotto nell’ambito delle cause naturali, o, meglio, è miracolo-so né più né meno di quello che miracolose sono tutte le altre connessioni causali: non sispiegano i miracoli come non si spiega perché il canto del corvo produca sventura, come nonsi spiega perché un’erba guarisca una malattia. Pomponazzi ci mette davanti a uno dei suoitipici capovolgimenti: tutto rientra nell’ordine dell’esperienza e della ragione; tutto è spiega-bile, tranne questa stessa spiegazione. E in questo margine il Peretto lascia ancora aperto ilcammino verso Dio, Astri e simboli religiosi agiscono in modo naturale, come naturalmen-te agiscono le formule magiche e le immagini astrologiche, solo che “la croce è efficace uni-camente come segno di quel Legislatore, che anche gli altri rispettano”. Uguale paradossotroviamo nel De Fato posto al centro del conflitto fra il contingentismo di Alessandro di

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Afrodisia e l’universale necessitazione stoica. Anche qui Pomponazzi sembra prima propen-dere per la posizione dello stoicismo, per rifiutarla poi riammettendo per il sapiente, anchese terrena, una pienezza di libertà. Sulle bestie umane, dominate dalle leggi di natura, si le-vano i pochi saggi che, trasformando la condanna in una redenzione, si sollevano sulla natu-ra incrinandone irrimediabilmente la compattezza. Quando lo Speroni (1500-1588) (segua-ce della poetica aristotelica), legato in tanti modi al Peretto, opporrà, nel dialogo sulla reto-rica, al filosofo solitario, assorto in metafisiche contemplazioni, il retore “civile” senza ren-dersene conto distinguerà fra una visione scolastica tradizionale della filosofia come metafi-sica sistematica, e un’operosa riflessione impiantata nella vita, e volta a modificare la vitastessa. E, in questo senso, in parte inconsapevole, si impegnava il Pomponazzi medesimo.

Conclusione

Il De incantationibus fu terminato a Bologna nel 1520. Non venne però stampato con ilconsenso dell’autore, poiché era cosa pericolosa, dopo gli attacchi che aveva scatenato il Deimmortalitate animae. L’autore, se il testo finiva in mani sbagliate, poteva rischiare il rogo.L’opera, però, per volere del Peretto stesso, circolava egualmente sottobanco in più copiemanoscritte. La stessa cosa è capitata al “De fato”. Entrambi furono pubblicati postumi a Ba-silea nel 1556 e nel 1567 da Guglielmo Gratarol, calvinista in esilio per motivi religiosi. Inqueste stampe il De incantationibus ha circolato ed è stato conosciuto in tutta Europa, mamotivi di sicurezza anche dopo la sua comparsa hanno suggerito a più di uno di tener solocopia manoscritta e senza titolo.

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Lotta fra intellettuali laici ed ecclesiastici

“Così è giusta l’osservazione – continua Gramsci – che lo spirito anticuriale è una formadi lotta contro ceti privilegiati; e non si può negare che in Italia i ceti religiosi avessero unafunzione economica e politica molto più radicale che negli altri paesi, dove la formazionenazionale limitava la funzione ecclesiastica, L’anticurialismo degli intellettuali laici, le”fa-cezie”anticlericali, ecc…, sono anche una forma di lotta tra intellettuali laici e intellettualireligiosi data la prevalenza che questi ultimi avevano”, (op. cit. p. 12). I papi come Giulio II,Leone X, ecc…, papi del ’500, posseggono non solo un potere spirituale, ma anche un pote-re temporale, sono papi re, capi di stato, hanno vasti possedimenti, vivono in modo signori-le, come tutti gli altri principi italiani, i Medici, i Gonzaga ecc… I cardinali, poi, i vescovigodono di lauti benefici ecclesiastici, vi sono anche, per giunta, le sinecure, che sono bene-fici ecclesiastici senza obbligo di funzioni ed uffizi. In Italia, dunque, i ceti religiosi sono ce-ti privilegiati che hanno una funzione economica e politica più radicale che nei paesi, dovela funzione ecclesiastica è limitata dallo stato nazionale come in Francia e in Inghilterra,l’una attraverso il gallicanesimo, l’altra attraverso l’anglicanesimo. Data la situazione italia-na l’anticurialismo e l’anticlericalismo degli intellettuali laici sono una forma di lotta, che siesprime anche attraverso le “facezie”, fra intellettuali laici e intellettuali religiosi privilegia-ti che godono di uno status sociale e politico privilegiato.

Sacchetti, Burchiello e Berni letteratura popolareggiante

“Se lo scetticismo e il paganesimo degli intellettuali – scrive ancora Gramsci – sono ingran parte mere apparenze superficiali e possono allearsi a un certo spirito religioso, anchenel popolo (1) le manifestazioni licenziose (carri e canti carnascialeschi) che al Walser sem-brano più gravi, possono spiegarsi allo stesso modo”.

La nota (1) del quaderno dice: Cfr il libro di Domenico Guerri sulle correnti popolari nelRinascimento (D. Guerri, La corrente popolare nel Rinascimento. Berte, burle e baie nellaFirenze del Brunellesco e del Burchiello, Sansoni, FI 1931 N. d. R. ). “Come gli Italiani dioggi, – continua l’autore dei quaderni – quelli del Rinascimento, dice il Walser, sapevanosviluppare separatamente e contemporaneamente i due fattori dell’umana capacità di com-prensione, il razionale e il mistico, e in modo che il razionalismo condotto fino all’assolutoscetticismo, per un invisibile legame, inconcepibile all’uomo nordico, si riallaccia in modosaldo, al primitivo misticismo, al più cieco fatalismo, al feticismo e alla crassa superstizio-ne” (op. ci. p. 12). Come abbiamo visto a proposito dell’Alberti, il pensiero laico rivolto al-l’attività terrena, si inquadra ancora, almeno formalmente, in una prospettiva religiosa pereliminare qualsiasi conflitto con la visione etico-cristiana, così lo scetticismo e il paganesi-mo degli intellettuali, mere apparenze superficiali, possono allearsi “a un certo spirito reli-

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gioso”. A questo proposito il Walser, che ritiene utile studiare la psicologia degli italiani mo-derni per capire il Rinascimento, nota che anche le manifestazioni giocose e licenziose “car-ri e canti carnascialeschi”, hanno le stesse caratteristiche, cioè si inseriscono in uno spiritoimprontato alla religione. Il libro di Domenico Guerri (edito nel 1931) che Gramsci cita trat-ta delle beffe e delle burle nella Firenze del Brunelleschi (1337-1446) e del Burchiello(1404-1409) nell’ambito della corrente popolare nel Rinascimento. Un brillante e abilissimonarratore di burle è certamente il Boccaccio e non a caso i novellieri del ’500 a lui guarda-no come modello, ma certamente insuperabile. Ricordiamo Calandrino, Bruno, Buffalmac-co, il “porco imbolato” ecc. Questo filone narrativo è ripreso dal Sacchetti (1330-1400) cheriversò nella raccolta Il trecentonovelle la sua esperienza prima come mercante poi come po-destà. Nelle sue novelle risalta l’inclinazione alla risata, allo scherzo, alla beffa; il gusto peril personaggio bizzarro, l’episodio insolito, l’aneddoto saporoso, la battuta divertente, eppu-re l’autore fu uomo religiosissimo come mostrano le sue “Sposizioni di Vangeli”. Propriedelle esigenze d’intrattenimento e di divertimento della società comunale, che la sfera dellapoesia comica esprimeva, sono anche le stravaganti rime del Burchiello (1404-1449), il bar-biere Domenico di Giovanni. Si tratta di puri e semplici divertimenti ai limiti del gioco diparole e dell’assurdo. Sia Sacchetti che Burchiello fanno da tramite tra l’ambiente trecente-sco e quello cinquecentesco di Francesco Berni (1498-1535). Quest’ultimo critica l’imitazio-ne troppo scolastica e diffusa del Petrarca, e nelle sue rime satiriche e giocose, dall’eligiacae malinconica riflessione espressa nelle forme della lirica alta passa alla divertente e maga-ri scollacciata chiaccherata, il cui unico scopo è quello di suscitare il riso. Non si tratta del-la stessa cosa certamente, ma si di due cose che stanno benissimo insieme. Si assiste alla con-tinuità di un livello stilistico ma anche alla sua corrispondenza ai bisogni espressivi non deltutto riassorbiti dalle letterature colte dominanti. Il Walser, osservando gli italiani di oggi,proietta a ritroso la sua attenzione sugli italiani del Rinascimento e nota che essi, cosa chel’uomo nordico non riesce a “comprendere”, sviluppavano “separatamente e contempora-neamente i due fattori della umana capacità di comprensione, il razionale e il mistico” in mo-do tale che il razionalismo spinto fino allo scetticismo più assoluto, si riallaccia invisibilmen-te “al più primitivo misticismo, al più cieco fatalismo, al feticismo e alla crassa superstizio-ne”. Il papato, come abbiamo visto, è tutto impegnato nel consolidamento del proprio domi-nio temporale e il clero, o almeno la parte più vigile di esso, nella sua riorganizzazione. Da-ta questa situazione, la presa degli ecclesistici sui fedeli si allenta notevolmente. I pastori chepiù rimangono vicini al loro gregge si occupano ben poco di coltivarne lo spirito e si dedi-cano a plasmarne e mantenerne la pratica cristiana. Nello stesso tempo l’elite laica prendeun atteggiamento critico verso questa Chiesa e sviluppa una religiosità più intima più con-notata sul versante etico-sociale.

La pietà popolare, le indulgenze e i pellegrinaggi

Avviene così un accentuato distacco tra le moltitudini da un lato e – per quanto diversi-ficate – le varie élites ecclesiastiche e borghesi dall’altro. Nelle masse così, abbandonate ase stesse, permane vivissima la pietà cristiana, ma spesso incanalata nelle sue più deterioritendenze da un clero che ne approfitta e non sa reagirvi. La pietà popolare, nel ’400 e nel’500, è un vasto campo non completamente esplorato, ed è solo possibile trattare di fenome-ni noti anche se non ben conosciuti a fondo. Uno di questi è costituito dalle “indulgenze”.Esse scandalizzarono, dopo il suo viaggio a Roma, Lutero, che ne trattò nelle “95 tesi” cheil 31 ottobre del 1517 affisse alla porta della cattedrale di Wirttemberg, rivelando una presadi coscienza geniale che scalzava una lunga pratica durata per lungo tempo. Questa praticaevoca non solo lo sfruttamento dei fedeli da parte del clero, ma anche quel complesso col-lettivo di atteggiamenti mentali e di costume che l’accompagna non disgiunto dai riflessieconomici. Nel mondo cristiano l’indulgenza serviva non solo ad affrettare la costruzionedella basilica di San Pietro a Roma, cosa principale, ma anche ad elevare dighe contro la mi-

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naccia del mare. Le indulgenze sono una vera forma della pietà collettiva, esse sono capacidi attrarre in modo sicuro le masse, perché strumento quasi inesauribile per sedurre la loroemotività, in quanto persuadono di alleviare grazie ad esse non soltanto il peso dei propripeccati ma anche quello dei loro morti, che credono espianti in Purgatorio. “Vecchia pratica,certo, ma incrementata progressivamente e diffusa ora in modo capillare da Roma e da ognicentro diocesano: forma di devozione dai molteplici aspetti, in cui l’intento morale non siscinde dal profitto economico di pochi e dalle credulità della moltitudine” (Storia universa-le Feltrinelli 12 p. 235). Analoghe osservazioni valgono per i pellegrinaggi. Si deve notare,del resto, “che è proprio di questi anni (1476) la bolla papale che sanziona la “legittimità” diapplicare l’indulgenza alle anime dei defunti “per modum suffragii”: essa raccoglie il con-senso della maggior parte dei teologi” (op. cit. p. 235). Anche i pellegrinaggi sono una vec-chia pratica: nel Medioevo famosi erano quelli che avevano per meta Santiago de Compo-stela (Spagna), o Loreto, in provincia di Ancona; grandi affluenze di pellegrini avvenivanoa Roma specialmente durante i giubilei, il primo dei quali fu indetto da Bonifacio VIII per il1300. Il giubileo è detto anche “anno santo”, perché è l’anno nel quale ogni fedele che si re-chi a Roma, visiti le 4 basiliche (S, Pietro, Paolo, S. Giovanni, S. Maria Maggiore) e facciale prescritte pratiche, ottiene l’indulgenza plenaria. Oltre a questi pellegrinaggi a Roma e icontinui viaggi in Terrasanta, non c’è santuario o reliquia che non sia una meta regionale eperiodica per lo spostamento dei fedeli. “Raramente la spiritualità occidentale – scrivono Ro-mano e Tenenti – è stata così diffusamente mescolata di serio e di pittoresco, di passionale edi capzioso, di rigore e di leggerezza. Non è certo questo l’ultimo dei motivi che hanno con-dotto, in modo più naturale di quanto non paia talora, a una fisionomia religiosa nuova, senon altro più chiara e ordinata. La religione di quest’epoca (400-500) è veramente un mag-ma caotico, soprattutto quando si ricordi che essa costituisce ancora la trama e l’impalcatu-ra delle civiltà d’occidente” (op. cit. p. 235). Oltre i pellegrinaggi, altre forme di incontro, acarattere sacro, profano e misto, oltre naturalmente le imprescindibili cerimonie liturgiche,sono le sacre rappresentazioni, i “misteri”, i carnevali, i carri e i canti carnascialeschi (checolpiscono, come detto, il Walser), che si affermano appunto in questo periodo con crescen-te successo, le campagne oratorie dei grandi predicatori (Il Savonarola fu, tra l’altro uno diquesti) e infine le reliquie. Sì quelle reliquie che sprigionavano la fantasia e l’ilarità del Boc-caccio già nel ’300, a danno di alcuni contadini che, gabbati, stanno attoniti ad ascoltare lapredica di frate Cipolla nella novella 10a della sesta giornata. Basta leggere il sommario diessa per farsene un’idea: “frate Cipolla promette a certi contadini di mostrare loro la pennadello agnolo Gabriello; in luogo della quale, trovando carboni, quegli dice di esser di quelliche arrostirono San Lorenzo” (G. Boccaccio Decameron ed. Mursia p. 403). Non meno fan-tasiosa è la realtà storica, basta pensare al caso di Tommaso Paleologo che, per spingere an-cor più Pio II alla crociata antiturca, gli porta a Roma “una testa venerata come quella di San-t’Andrea e un braccio reputato di San Giovanni Battista?”. La funzione delle reliquie è ulte-riore e probante esempio della poliedricità dei fenomeni “religiosi”: da pretesto per mire eprogrammi politici a magico e quasi totemico incentivo della pietà popolare, fino ad argo-mento di accanite dispute teologiche di vasta risonanza. Tale fu quella che si accese intornoalla venerazione delle reliquie del sangue di Cristo. La disputa riguardava il Cristo: Gesù nel-l’ultima fase della sua passione perdette molto sangue; era da secoli comunemente ammes-so che qualcuno ne aveva raccolto alquanto. Sorgeva allora il seguente problema: erano ve-ramente divini questi residui? Per il credente erano divine le membra in cui il Verbo si eraincarnato: ma rimanevano tali le parti che, come quel sangue, si fossero separate dal suo cor-po? O piuttosto colla resurrezione il Redentore non aveva ripreso nella loro interezza tutti isuoi elementi corporei, non lasciando quindi reliquie? Domenicani e francescani tanto perconsiderazioni filosofiche quanto per antagonismo monastico, discussero pubblicamentedella questione. Ci fu chi, verso la metà del ’400, dalla cattedra episcopale condannò la ve-nerazione di simili reliquie. La facoltà teologica di Parigi, però, prese posizione a favore delloro culto, ma il Papa NiccolòV (Tommaso Parentuccelli di Sarzana primo Papa del Rinasci-mento) a cui gli oppositori si erano rivolti, risolse la questione con un “escamotage”: dichia-

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rò infatti che si trattava del sangue scaturito, molti secoli dopo la morte di Cristo, dalla feri-ta inflitta alla sua immagine e concluse che il liquido poteva essere venerato dai fedeli, a cau-sa della sua origine miracolosa. Un’altra disputa che opponeva domenicani e francescani ri-guardava il concepimento immacolato della Vergine. La maggior parte della cristianità erafavorevole a questa credenza bandita dai francescani, mentre i domenicani giunsero fino asimulare, nei primi anni del ’500 delle apparizioni, per rivelare che davvero Maria era stataconcepita in stato di peccato originale. Occorre del resto sottolineare che la devozione ma-riale tocca punte altissime nel corso del’400. La Madre di Gesù Cristo, investita di funzionicelesti, suscita l’emotività più larga, spesso a lei ci si rivolge nelle preghiere perché incarna-zione della pietà, faccia opera di intercessione essendo molto vicina e quasi alla pari dellatrina deità cristiana e vi rappresenta il polo complementare a quello di Cristo. La sua acces-sibile ed antropomorfica umanità permette alla sensibilità di riversare le sue effusioni su unpiano immediato. Così, ad esempio, della Vergine si venera tutto, dal latte ai capelli e al man-tello protettore, che essa allarga sempre più benevolmente secondo le esigenze dei fedeli.Verso il 1470-75 nasce il culto della Madonna di Loreto dove in suo onore si trova un San-tuario costruito intorno alla Santa Casa della Vergine in Nazareth quivi trasportata, secondola leggenda, dagli angeli, (dopo una sosta in Dalmazia) nel 1294. Si fondano in questo pe-riodo le prime confraternite del rosario che diffusero, ad opera di San Domenico e dei dome-nicani, la devozione del rosario, peraltro d’incerta origine, ma certo nota come espressionedi pietà popolare. La festa liturgica del rosario è poi fissata al 7 ottobre, data della vittoriacristiana sui Turchi a Lepanto (1571) attribuita all’intervento della Madonna. Si sviluppa,quindi, a partire dalla fine del ’400 la pratica della Via Crucis, introdotta in Europa dal do-menicano beato Alvaro (m. 1402) e, dopo di lui, dai minori francescani. Essa, devozione ex-traliturgica del cattolicesimo, consiste nel commemorare la passione di Cristo percorrendo,in una Chiesa o all’aperto, un determinato cammino e sostando in preghiera alle 14 stazioni,cioè innanzi a quadri e sculture raffiguranti ognuna un episodio della passione, che viene rie-vocata, in fondo, come una sacra rappresentazione in maniera del tutto realistica oltre chepatetica. In quest’ultima pratica, attraverso la contrapposizione drammatica tra la mansuetu-dine di Cristo da una parte e la ferocia dei suoi carnefici dall’altra, si può intravedere il bi-sogno popolare di esprimere ripugnanza per le ingiustizie terrene e per la dura oppressionedella più umile umanità, una sublimazione, in fondo, delle proprie sofferenze terrene. Allafine del ’400, nell’Europa tutta, il cristianesimo, per quanto profondamente mutato rispettoa quello dei secoli precedenti, è ancora l’unico telaio, come abbiamo visto, spirituale e men-tale. All’interno di esso si agitano forze divergenti, tendenze contraddittorie: ma nessuna diesse ne prescinde, né intende prescinderne in modo radicale. Vi sono accezioni soltanto sulpiano individuale e il più delle volte esse sono soltanto parziali. Si possono ricordare i casidi Pomponazzi il cui pensiero naturalistico appare, nella dottrina della doppia verità, espres-so in modo timido e contraddittorio, per la incapacità e la impossibilità di prescindere dallamentalità e dalla cultura di un’epoca in cui la Chiesa usa oltretutto mezzi estremamente co-ercitivi come l’Inquisizione, il caso di Machiavelli che maschera la propria insensibilità re-ligiosa o il proprio radicalismo evangelico attraverso la teorizzazione della politica, di cui nedichiara l’autonomia conducendola sul terreno della scienza.

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Marsilio FicinoPratiche magiche, eresie, astrologia, magia e cabala

Nulla sembra preludere, in nessun settore, ad una svolta storica di grande portata. Sul ter-reno politico, il grande certame militare europeo non è ancora cominciato; su quello econo-mico nessuno intravede nemmeno le immediate conseguenze degli sbocchi coloniali d’oltre-mare una delle quali, gravissima, sarà la rivoluzione dei prezzi, causata dall’afflusso dei me-talli preziosi dal continente americano, ma già in gestazione all’inizio del ’500; in quello eti-co-religioso si avverte il desiderio, in forme diverse e sporadiche e confuse, di una “rifor-ma”. Il Pico, per esempio, “proponeva ormai solo la riforma dei costumi e della predicazio-ne, e la riorganizzazione della disciplina ecclesiastica in senso savonaroliano; non la rivalu-tazione culturale e intellettuale della religione, ma la riaffermazione della tradizione eccle-siastica” (D. Cantimori Eretici italiani ecc… p. 7). Non si prevedeva ancora che un avveni-mento di natura culturale e spirituale, avrebbe contribuito, al pari delle scoperte geografiche,a modificare profondamente il volto dell’Europa del XVI: la Riforma protestante. Intanto lasensibilità collettiva va, in larghi settori, alla deriva. Ne è un esempio il dilagare e il diffon-dersi delle pratiche magiche. Esse sono molto vicine a tante pratiche cultuali, definite cristia-ne, ma in realtà non meno superstiziose. Siccome, tuttavia, esse sfuggivano al controllo delclero, o cercavano di sfuggirvi, su di loro soltanto si abbatte una pesante reazione dell’auto-rità ecclesiastica. A livello dell’elites si può dire che Ficino e Pomponazzi consideranol’astrologia al pari della scienza e credono nella magia, Pico della Mirandola dà importanzaalla cabala, di fronte all’astrologia, invece, assume un atteggiamento di riserva, ed, esclusal’astrologia giudiziaria o divinatrice, ammette l’astrologia matematica o speculativa che sipreoccupa unicamente di determinare le leggi matematiche dell’universo. Dalla metà circadel 15° secolo vengono rese disponibili a tutti opere mai davvero conosciute se non per lamediazione di una classe clericale fortemente sospettosa verso l’antico. Marsilio Ficino tra-duce in latino i dialoghi platonici, testi di Proclo, Porfirio, Giamblico, Dionigi l’Areopagitae i 14 trattati attribuiti ad Ermete Trismegisto, che venne ritenuto un Sapiente dell’AnticoEgitto (mentre il Corpus risale al II secolo dopo Cristo). Tutta la tradizione magica del piùlontano e più recente passato viene inserita in un nuovo orizzonte, i cui confini sono defini-ti da una cornice platonica, ermetica, che non viene più intesa in antitesi alla grande tradi-zione cristiana. Tutto ciò sul piano della cultura ufficiale, ma certamente esiste una realtà piùprofonda a livello popolare e mantenuta a livello nazionale quanto regionale e locale sullaquale proiettano scarsa luce i documenti lasciati da coloro che talora in modo spietato, vi in-quisirono. Sta di fatto che con la bolla Summis desiderantes del 1484 Innocenzo VIII dà ilvia alla repressione della magia. Il documento, però, come spesso accade anche nei confron-ti degli eretici, distorce la realtà umana che viene demonizzata alla luce non solo del dogmama anche di interessi concreti e materiali. “Vi si legge che persone d’ambo i sessi hanno bia-simevoli rapporti con i demoni, che i loro delittuosi sortilegi fanno perire fanciulli e anima-li, guastare i raccolti, la frutta, persino i prati; esse, insomma, istigate la ‘nemico’ del gene-

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re umano – il diavolo – rinnegano il battesimo e disprezzano la maeità divina” (Romano-Te-nenti, op. cit. p. 238). La visione religiosa tradizionale che si dimostrava incapace di com-prendere il suddetto fenomeno, colpiva tuttavia in maniera medievalmente barbara intere set-te cristiane, che si attenevano alle loro credenze in modo ben più evangelico e pacifico del-la Chiesa ufficiale. Un esempio sono i Valdesi. Certo essi perseguivano la povertà evangeli-ca e disprezzavano la potenza terrena della Chiesa, il suo ordinamento gerarchico, e a piùforte ragione rifiutavano indulgenze, culto dei santi, purgatorio e pellegrinaggi. Ora, proprioessi, assertori di una religione eminentemente spirituale, si trovavano assai mal ripagati del-la loro avversione alla guerra e alla stessa crociata. Dopo una pausa di relativa tranquillità,goduta durante il regno di Luigi XI, essi, infatti, dovettero subire una di quelle crociate chealtrimenti invano erano state bandite contro i Turchi. “Intorno al 1487-88 una nutrita schie-ra di armati – provvisti in anticipo, come chiunque dava loro aiuto, di indulgenza plenaria eremissione dei loro peccati – si riversò sulle popolazioni inermi di numerose valli del Pie-monte e del Delfinato spargendo il terrore, processando e uccidendo. Alle vittime, venne tri-butato, postumo, un omaggio che gli adepti della magia non ebbero mai: la riabilitazionepubblica in capo a 20 anni”.

L’umanesimo fenomeno italiano ed Europeo - Signorie e Principati -Decadenza dall’ultimo ’400 a tutto il ’500

I legami fra razionalismo e superstizione, di cui sopra abbiamo parlato, “sarebbero – con-tinua Gramsci – le più importanti correzioni che il Walser porta alla concezione del Rinasci-mento propria del Burckhardt e del De Sanctis” (Gramsci, op. cit. p. 12). Gramsci, riportan-do l’osservazione di Arminio Janner, recensore dell’opera citata del Walser, secondo cui que-st’ultimo “non riesce a distinguere l’Umanesimo dal Rinascimento” e riferendo le stesse pre-cisazioni dello Janner secondo cui “senza l’Umanesimo non ci sarebbe stato il Rinascimen-to” e “questo però supera per importanza e per le conseguenze l’Umanesimo”, afferma: “An-che questa distinzione deve essere più sottile e profonda: pare più giusta l’opinione che il Ri-nascimento è un movimento di grande portata, che si inizia dopo il Mille, di cui l’Umanesi-mo e il Rinascimento in senso stretto sono due momenti conclusivi, che hanno avuto in Ita-lia la sede principale, mentre il processo storico più generale è europeo e non solo italiano”(Gramsci, op. cit. p. 13). La nascita dopo il Mille e lo sviluppo della civiltà rinascimentale ècertamente un fenomeno europeo di grande portata che segue il trapasso dall’età medievalea quella moderna, ed è caratterizzato da taluni eventi di grande rilievo: la costituzione dellegrandi monarchie europee, le scoperte geografiche, l’invenzione della stampa e della polve-re da sparo, la Riforma protestante. Tutti questi fatti si accompagnano ai fenomeni della for-mazione degli Stati sul piano politico e all’ascesa della borghesia sul piano economico-so-ciale. Tramontate definitivamente le istituzioni universalistiche dell’impero e del Papato, lacarta geo-politica dell’Europa presenta un mutamento che si articola in regni nazionali d’ol-tralpe e Stati regionali in Italia. Il processo di formazione di monarchie centralizzate e buro-cratizzate, fuori dall’Italia, già avviato nel ’300, continua lungo tutto il ’400, giungendo alculmine nel ’500 quando Francia e Spagna, ormai grandi potenze, iniziano un gigantescoduello, che insanguinerà l’Europa fino alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). In Italia la cri-si dei comuni mette capo alla formazione delle Signorie e quindi dei Principati regionali, checombattendosi aspramente fra di loro impediscono il processo di unificazione della Peniso-la, lasciando l’Italia politicamente frammentata e priva di un polo egemone. Logorata dallelotte interne, l’Italia, dopo la pace di Lodi (1454), conosce un periodo di relativa stabilità,basata su di un fragile sistema d’equilibrio, non priva di scontri locali, fra i suoi maggioriStati (Milano, Venezia, Firenze, Stato della Chiesa, Regno di Napoli). La debolezza politicadi un simile controbilanciamento di forze fa si, come abbiamo sopra denunciato, che l’Italiadiventi facile preda di conquista dell’imperialismo francese e spagnolo. Corsa e depredataper decenni dagli stranieri, la penisola, dopo la pace di Cateau-Cambrésis, diviene in gran

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parte, possesso spagnolo, entrando in un lungo periodo di decadenza, segnato dal malgover-no e da una grave crisi economica.

Prima di quest’ultimo periodo l’economia prospera grazie al fenomeno della civiltà ur-bana e si presenta come economia “aperta” in contrapposizione all’economia “chiusa” delMedioevo, essa è basata sul commercio e la finanza ed è il punto di arrivo di un processo ini-ziato con i comuni e risultato dell’attività di una borghesia industriosa dedita ai traffici e alguadagno. Nel ’400 questa classe nuova è particolarmente forte soprattutto in Italia, le cuibanche finanziavano i principi di tutta Europa, mentre Genova, Venezia e Firenze continua-no a rappresentare grandi poli di egemonia commerciale e finanziaria. Dalla seconda metàdel ’400 e per tutto il ’500 si ha invece una battuta d’arresto del commercio e della borghe-sia italiana. La caduta di Costantinopoli prima e le scoperte geografiche poi danno inizio aduno spostamento dell’asse commerciale del Mediterraneo all’Atlantico. In tal modo, in Eu-ropa si formano altri centri d’egemonia economica, mentre l’Italia finisce per restare ai mar-gini del grande traffico internazionale. Questo avviene, però, nel lungo periodo, perché co-me ha ben dimostrato Fernand Braudel (Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’Età di Filip-po II P. B. E. ), la vitalità dell’area mediterranea risultava dirompente ed essenziale, per laciviltà del Vecchio Mondo, ancora per tutto il secolo XVI. All’interno di questo processo chesiamo soliti chiamare Rinascimento, cioè rinnovamento globale dell’uomo nei suoi rapporticon se stesso, gli altri, il mondo e Dio, si situa il fenomeno chiamato Umanesimo, così det-to perché fondato sullo studio delle opere letterarie (humanae litterae) degli antichi. Esso tro-va le sue origini già nel ’300 con il Petrarca e utilizza la filologia come strumento di ricercasui codici antichi, e nelle letterature classiche.

Anche l’Umanesimo è un fenomeno europeo perché, dopo aver trovato il proprio epicen-tro in Italia, si diffonde in Europa con Erasmo da Rotterdam, con Montaigne, con Robelaisecc… Robelais, per esempio, era autore che non dissimulava la propria cultura: onde la re-lativa facilità di rintracciare quei testi per riportarli all’opera sua: Plinio, Platone, Luciano,Cornelio Agrippa alcuni dei quali citati anche da Pomponazzi nel De incantationibus.L’Umanesimo e il Rinascimento in particolare sono sorti principalmente in Italia, il proces-so storico però più generale è europeo.

Umanesimo e Rinascimento”regressivi” in Italia e non in Europa-Stati nazionali

Essi, come espressione letteraria di questo movimento storico europeo, hanno avuto inItalia la sede principale, ma il movimento progressivo dopo il Mille, se ha avuto in Italia granparte coi comuni, proprio in Italia è decaduto e proprio coll’Umanesimo e il Rinascimentoche in Italia sono stati regressivi, mentre nel resto d’Europa il movimento generale culminònegli Stati nazionali e poi nell’espansione mondiale della Spagna, della Francia, dll’inghil-terra, del Portogallo. In Italia agli Stati nazionali di questi paesi, ha corrisposto l’organizza-zione del Papato come Stato assoluto – iniziato da Alessandro VI – organizzazione che hadisgregato il resto d’Italia ecc… Il Machiavelli è rappresentante in Italia della comprensio-ne che il Rinascimento non può esser tale senza la fondazione di uno Stato nazionale, ma co-me uomo egli è il teorico di ciò che avviene fuori d’Italia, non di eventi italiani” (op. cit. p.13). Non solo l’Umanesimo e il Rinascimento sono fenomeni, tutto sommato, europei ma neipaesi europei, dopo una fioritura, più lenta che in Italia, hanno avuto una maggiore persisten-za, mettendo capo, senza soluzione di continuità o quasi, al sorgere della grande culturascientifica del ’600 e del movimento illuministico del ’700. “Queste differenze – scrivonoAbbagnano e Fornero – sono facilmente riconducibili a sottostanti differenze economiche,sociali e politiche: dal punto di vista economico e sociale l’Italia era agli inizi ben più pro-gredita, donde la precocità con cui vi si profilò il moto rinascimentale, ma dal punto di vistapolitico la sua situazione era quanto mai precaria, si da farla rapidamente precipitare nellacrisi più completa e nell’asservimento allo straniero; di qui la rapida involuzione dell’Uma-nesimo rinascimentale italiano nel formalismo grammaticale ed erudito, o in quello che fis-

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sava i requisiti del buon cortigiano. Caduto il motivo ‘civile’, cadeva il nucleo più vitale del-l’originaria ispirazione umanistica e rinascimentale: perciò il Rinascimento italiano ci appa-re come uno splendida fioritura senza sbocchi, cui succede un periodo di involuzione e ditorpore, sia pur relativi. Negli altri paesi d’Europa – continuano i 2 storici della Filosofia –questo brusco arresto non avviene. Uno sguardo panoramico alla loro evoluzione culturalenei secoli dal XV al XVIII ci mostra senza ombra di dubbio come l’Umanesimo vi rappre-sentasse il primo momento di un processo continuo che porta alla formazione della mentali-tà moderna, in tutta la ricca varietà dei suoi aspetti. Le nuove forze sociali, incanalate più omeno felicemente nell’alveo loro apprestato dalle grandi monarchie nazionali, riescono inInghilterra ad affermarsi per conquiste successive e graduali, mentre dovranno in Francia, unsecolo dopo, spezzare quello stesso assolutismo regio che già le aveva favorite. Anche altro-ve la loro esistenza più precaria non conoscerà mai la crisi e l’asservimento quasi totale alquale sono ridotte in Italia” (op. cit. p. 30).

In Italia – sostiene Gramsci – “L’Umanesimo e il Rinascimento sono stati regressivi nonsi sono risolti cioè in un ulteriore progresso, ma hanno messo capo alla decadenza in tutti isettori. Solo il papato con Alessandro VI e il figlio Cesare Borgia hanno cercato di imitarel’assolutismo d’oltralpe, ma il risultato è stata la disgregazione e l’indebolimento dell’Italia,come abbiamo già visto. Il Machiavelli aveva compreso che non si può avere Rinascimentosenza la fondazione di uno Stato nazionale e, attento alle cose d’oltralpe, non valuta positi-vamente ciò che avviene in Italia, essendo dotato di una visione progressiva più ampia diquella dei suoi contemporanei.

“Del Walser – scrive l’autore dei quaderni – è uno studio sulla religiosità del Pulci. Egli– riprendendo gli studi del Volpi e di altri – analizza il tipo di eresia del Pulci e le vicendedell’abiura che ne dovette fare più tardi; ne mostra “in modo assai convincente l’origine(averroismo e sette mistiche giudaiche) e mostra che nel Pulci non si tratta solo di distaccodai sentimenti religiosi ortodossi, ma di una sua nuova fede (intessuta di magia e spiriti-smo), che più tardi si risolve in una larga comprensione e tolleranza di tutte le fedi” (op. cit.p. 14-15).

Luigi Pulci (Fi 1432-Padova 1484). Di famiglia un tempo nobile e ricca ma ormai deca-duta, cercò appoggio e fortuna, insieme con i fratelli, nella potenza dei Medici, la cui casa invia Larga, cominciò a frequentare intorno al 1461. Un rapporto di viva amicizia lo legò a Lo-renzo, che cercò in lui un compagno di svaghi e di esperienze poetiche negli anni giovanilie, quando assunse la guida della famiglia e dello Stato, gli affidò incarichi commerciali e di-plomatici. Durante l’ultimo decennio della sua vita, in seguito probabilmente alle rivalità conalcuni membri della cerchia medicea (il Ficino, il prete Matteo Franco), i rapporti tra il Pul-ci e Lorenzo si intiepidirono ed egli entrò al servizio di Roberto Sanseverino, capitano deiFiorentini, svolgendo missioni per lui in varie parti d’Italia. La morte lo colse a Padova. IlPulci si trovò per qualche tempo ad essere, accanto al giovane Lorenzo e prima che si affer-masse il Poliziano (al quale, del resto, fu carissimo), il maggior poeta volgare operante in To-scana, erede del gusto letterario e linguistico della Firenze del primo Quattrocento, mercan-tile e borghese. La sua formazione, fondamentalmente comica e burchiellesca, trova espres-sione oltre che nelle opere minori, accanto alla Giostra in ottave, piatta versificazione dellavittoria di Lorenzo in una giostra del 1469, gli Strambotti, la Novella del picchio senese; laConfessione in terzine; la Beca di Dicomano, che riprende, accentuandone gli aspetti burle-schi, la Nencia da Barberino di Lorenzo; i sonetti in dialetto milanese e napoletano; i sonet-ti ingiuriosi contro Bartolomeo della Scala e in tenzone contro Matteo Franco; la frottola Legalee di Quaracchi, testimonianza di curiosità linguistica per i nomi dei cosmetici, alla qua-le va affiancato il repertorio lessicale di voci detta Il Vocabolista; la continuazione del “Ci-riffo Calvaneo” del fratello Luca; le vivacissime Lettere indirizzate per lo più a Lorenzo, (ra-ro esempio di poesia burchiellesca) soprattutto nell’opera maggiore, Il Morgante, il poemacavalleresco che, per la continua inventiva linguistica e l’indubbia abilità metrica e stilisti-ca, è tra gli esempi più interessanti della poesia fiorentina in volgare del Quattrocento. Il Pul-ci ebbe curiosità e manie, fra l’altro, per le scienze occulte, per l’astrologia, per l’Oriente con

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cui Firenze aveva tanti legami, e di cui l’amico Benedetto Dei (1417-1492), singolare tipo digiramondo, e autore di un bizzarro libro di ricordi, era un congeniale “reporter”. Spirito ar-guto e spregiudicato fu accusato per taluni punti dell’opera” Il Morgante” di incredulità ederesia, e per la fama di miscredente, fu sepolto in terra sconsacrata.

Pomponazzi, la magia e l’astronomia

“È da vedere – scrive Gramsci astraendosi dallo specifico caso Pulci – se lo spiritismo ela magia non sono necessariamente la forma che doveva prendere il naturalismo e il mate-rialismo di quell’epoca, cioè la reazione al trascendente cattolico o la prima forma di imma-nenza primitiva e rozza” (op. cit. p. 15). Il Pomponazzi, sebbene, seguendo l’autorità di Ari-stotele neghi l’immortalità dell’anima, e l’esistenza dei demoni, è dotato di una “forma men-tis” tipicamente rinascimentale. Egli vede l’uomo come “microcosmo” riflettente il macro-cosmo intorno e sopra di sé, soggetto agli influssi astrali, ma capace egli stesso di determi-nare la nascita e il corso di fenomeni naturali. Considera una vera e propria scienza l’astro-logia, vede nella natura influssi benefici o malefici. Crede infine in quelle forze occulte “cheGalilei bandirà dal campo specifico della scienza basata sulle”sensate esperienze e le certedimostrazioni”. Considera la remora, un pesce che si attacca alle navi con una ventosa, tan-to potente d’avere la forza di fermare una nave in movimento, credenza diffusa già nel Me-dioevo, avendo fatto studi di medicina distingue le varie erbe che sono dotate di poteri talida guarire determinate malattie. Si è già parlato, a questo proposito, di ingenuità del Pompo-nazzi. Forse egli si rende conto della superficialità di queste spiegazioni dei fenomeni natu-rali o forse non possiede ancora strumenti di indagine tali da negarle, ma pur tuttavia essesono spiegazioni che si trovano nei testi antichi: Plinio, Alberto Magno (Degli animali) Pie-tro d’Abano e sappiamo, come il Rinascimento, apprezzasse la tradizione dell’antichità. “Sitrovano – scrive il Pomponazzi – sia delle erbe che delle pietre che provocano le piogge e lagrandine; ed altre con la qualità specifica di scacciarle, come attestano gli stessi autorevoliautori. Perciò il volgo ignorante e profano e gli uomini rudi… riferiscono tali casi agli dei oai demoni…” e ciò a proposito anche dell’abilità, della scienza e delle stesse arti. ”Infatti –continua il Peretto – un uomo assai dotto e santo, Boezio – come di se stesso riferisce nel“Della consolazione” I L. , a causa delle sue conoscenze ammirevoli, non sfuggì a questo so-spetto: credettero infatti che avesse contatti con gli spiriti immondi” (Gli incantesimi p. 22).

Il predetto sospetto riguarda anche Galeno, famoso fra l’altro, per le teorie degli umori,che, grazie ad una grande esperienza nella pratica dell’arte della medicina, sapeva curare eprevenire le malattie. Infatti fu creduto fare tutto ciò non grazie alla sua scienza, ma “ con lacapacità dei demoni”, come racconta lui stesso. L’uomo anche per Pomponazzi è “parvusmundus”. Questa idea era già comune nel Medioevo, ma ricevette un significato tutto nuo-vo alla luce degli sviluppi dell’astrologia quattrocentesca. Già in M. Ficino acquista un si-gnificato diverso, finché Pico della Mirandola nella sua Oratio le dà un nuovo senso dina-mico. Pomponazzi afferma: “… per comune concessione, l’uomo è medio tra le cose eternee le generabili e corruttibili, e non è posto come loro medio soltanto per l’esserne tagliatofuori; ma anche per partecipazione, perciò gli sarà possibile essere partecipe di entrambi gliestremi, e così qualcuno sarà vicino ad uno di essi, qualcuno all’altro” (Gli incantesimi p.22-23). Occorre, però precisare che il pensiero di Pomponazzi negli anni che intercorrono trala stesura dei suoi trattati maggiori, cioè tra il 1516 e il 1520, prima si avvicina all’“Oratio”pichiana poi se ne allontana. Vista alla luce del graduale sviluppo di una visione del cosmosempre più deterministica, l’oscillazione si spiega con la necessità di fare anche dell’uomoun tassello dell’universo, e già ne Gli incantesimi non a caso si preferirà rimandare questaipotesi appunto ad un autore medievale; Alberto Magno. Alcuni (uomini) sono come leoni,altri come lupi, altri come volpi perciò Alberto nel suo Degli animali, I L. , seguendo il pa-rere di autorevoli filosofi ed esperti di fisiognomica, dice che gli uomini che assomiglianoalle fattezze degli animali ne assumono il carattere; per questo l’uomo è detto piccolo mon-

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do, poiché tutta la natura, tanto gli esseri superiori, quanto quelli inferiori, è compresa nellanatura umana…” (op. Pomponazzi, op. cit. p. 24). La spiegazione di Alberto Magno è tuttafondata sulla rispondenza del corpo all’anima e quindi il corpo risponde a motivi psicologi-ci. È speciale caratteristica dell’uomo quella che Ermete dice ad Asclepio: “l’uomo è nessofra Dio e il mondo” perché ha in sé “l’intelletto divino e in virtù di questo si eleva al di so-pra del mondo” ma “ se per scelta sottomette se stesso al corpo, trasformando gli accidentidel corpo, […] l’anima accelera processi di corruzione del corpo” (Pomponazzi vedi note 33p. 24). Nel De incantationibus non si ha ancora niente di così esplicitamente deterministicoe anzi sono numerosi gli esempi di persone che seguendo i consigli degli astrologi sono riu-scite ad evitare la cattiva sorte, ma nel De fato, che pure contiene ancora delle contraddizio-ni e manifesta l’angoscia dello stesso Pomponazzi rispetto a questa conclusione, si trovanoaffermazioni in cui il dominio degli astri è esteso a tutto, senza alcuna distinzione per l’uo-mo. Il mago allora anche rispetto alla natura non si pone come sapiente e “artefice” quale erastato concepito nell’Umanesimo quattrocentesco, ma solo come detentore di un sapere diffi-cile da raggiungere e non più in suo potere” (P. Pomponazzi Gli Incantesimi ediz. La Nuo-va Italia p. XXXII). Secondo lo schema del Pomponazzi al vertice della realtà e del mondo,vi è Dio, Dio però non agisce direttamente sul mondo sublunare, ma attraverso i corpi cele-sti. “Ma i corpi celesti – afferma Pomponazzi – così, non solo dirigono gli uomini ma dan-no loro chiari indizi degli eventi futuri, ora nei sogni ora durante la veglia, tramite l’appari-zione di diverse figure…” (Gli Incantesimi p. 89). Viene comunemente ammesso che talecausalità si esprime anche attraverso le “virtù occulte”, le proprietà delle pietre, delle erbe edegli altri corpi naturali che non si manifestano immediatamente ai nostri occhi, l’esempiotipico è il magnete che, attraendo, per esempio un anello di ferro, conferisce a questo la “vir-tù” di attrarre un altro anello ecc… Si ammette anche che il moto perfetto degli astri, intesifisicamente come corpi stellari, avendo una causa motrice, doveva essere governato da unprincipio superiore. Il principio di Avicenna secondo cui ogni essere inferiore ubbidisce alsuperiore, applicato alle intelligenze celesti, comporta che questi pensano e vogliano, ma ciòapre 1) il problema di sapere come pensano e come vogliano. 2) Secondariamente ne conse-gue che le intelligenze immortali agiscono attraverso altri esseri lontanissimi da loro, gene-rabili e corruttibili e in certi casi nemmeno razionali. I suddetti due punti sono inaccettabiliper Pomponazzi: 1) Il pensiero delle cose singolari nasce dalle sensazioni che le intelligen-ze non possiedono; inoltre, sulla base dell’autorità di Aristotele, egli obietta che la gerarchiain cui è ordinato il cosmo procede per gradi tra i quali ci deve essere sempre continuità, ilprecedente avrà sempre qualcosa in comune con il seguente e così via, dunque perché l’in-telligenza celeste – un agente immateriale – possa agire nel mondo materiale, deve usare unintermediario adeguato. Le intelligenze allora non possono che agire tramite il corpo del-l’astro che è incontrollabile e nello stesso tempo è un corpo fisico dotato di movimento.Pomponazzi, sulla base di queste premesse, discutendo delle posizioni di San Tommaso, Al-berto Magno, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, riguardo all’astrologia e alla ma-gia, pubblica solo tre anni dopo (1513) il Concilio, sopra ricordato, affermante l’immortali-tà dell’anima il suo trattato De immortalitate animae.

Marsilio Ficino

“Giunto alla fine dei suoi viaggi, il Gigante Pantagruel (cfr. Gargantua e Pantagruel diRabelais, metà del XVI sec. circa), consultando l’oracolo della Diva Bottiglia, si sente ri-spondere una sola parola ‘Bevi’. Che si tratti di un invito da prendere alla lettera, non vi èdubbio, se si pensa alla straordinaria quantità di vino che i due giganti riescono ad ingurgi-tare. Tuttavia, non di questo soltanto si tratta. L’invito a bere è anche un invito ad attingerealle sorgenti del sapere, della vita, di quella trionfale fiammata di conoscenza, di ansia di li-bertà, di voglia di vivere, esplosa in un periodo in cui l’essere umano si è sentito al centrodell’universo” (M. Donà Magia e Filosofia tascabili Bompiani).

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Dalla metà del XV secolo, una generale ansia di rinnovamento, nata in Italia, percorretutta l’Europa e, fra l’altro, anche la magia viene recuperata e coltivata nel Rinascimento. “Ilmago rinascimentale offre, (così), alla cultura europea già in ebollizione uno slancio nuovoe sorprendente, influenzando una straordinaria rinascita dell’arte, della filosofia e dellascienza” (Donà p. 102) Egli sa che tutto parla di Dio; mondo, uomo e Dio costituiscono un“unicum” attraversato da relazioni manifeste e nascoste, di cui egli deve conoscere la topo-logia. Nella sua anima l’uomo riflette il mondo; quest’ultimo è il linguaggio di Dio e le suediverse manifestazioni (animali, vegetali, minerali) sono tutte parole di un linguaggio in cuiDio si rivolge a noi. Conoscerlo significa mettersi in relazione con il principio di tutto, conl’unità originaria di cui è manifestazione la nostra stessa anima. Il mago (dotato anche di ca-pacità operative) è colui che sa trarre musica dalle cose tutte, scoprendo consonanze ed echispesso insospettabili. Deve sapersi inoltrare in un complesso sistema di scatole cinesi fattodi corrispondenze che vanno dall’alto in basso, e che egli dovrà imparare a ripercorrere co-struendo modelli simbolico-numerici che conducano più o meno direttamente al principio ditutto. È evidente che l’influsso platonico e neoplatonico domina anche la magia rinascimen-tale. Non per nulla il suo più noto esponente, Ficino, difende e si fa paladino delle pratichemagiche e per essere a ciò legittimato ricorre all’autorità di Tommaso d’Aquino che citaspesso nella convinzione, come lui, che sostanze naturali possono avere poteri legati alle lo-ro affinità astrologiche, e venire di conseguenza usate in medicina. Ad onta di alcune sue per-plessità, crede nei demoni, buoni e cattivi, e nelle loro capacità d’influire sullo spirito e sulcorpo degli uomini. E riconosce innegabilmente una funzione positiva alla magia almeno inuna sua opera: De vita. “Qui Ficino richiama alla memoria i magi che portarono doni pro-duttori di vita. Oro, incenso e mirra, tre doni da dedicare al Signore delle stelle, in rappre-sentanza di tre signori dei Pianeti: e precisamente l’oro, il più temperato dei metalli in rap-presentanza del temperamento di Giove; l’incenso, fragrante assieme di colore e di odore, inrappresentanza del Sole, sacro a Febo; la mirra, infine, che stabilizza e conserva il corpo arappresentare Saturno, il più fermo di tutti i pianeti” (Donà cit. p. 104). Il risultato è una com-binazione di astrologia e religione, di cristianesimo e paganesimo. Ficino crede alla virtù cu-rativa dell’oro (lo si evince da una sua ricetta magica composta degli elementi più strani epiù disparati) e ciò è cosa notevole e progressiva, perché l’oro appunto ha attirato l’attenzio-ne di una medicina molto più moderna. L’umanista neoplatonico dà inoltre importanza allestatue e alle immagini che già secondo Arabi ed Egizi racchiudono gli ‘spiriti astrali’. Fici-no scopre anche uno degli aspetti più importanti della magia, la cui legittimità è stata infinericonosciuta dalla scienza medica ufficiale, sotto la spinta di una prospettiva ad indirizzoomeopatico reclamata a causa dei limiti di un sapere medico sempre meno capace di guar-dare all’essere umano come totalità concreta.

L’umanista comprende infatti che questo complesso gioco d’influssi e relazioni fra astri,immagini, demoni vita dell’essere umano, un ruolo non indifferente deve essere rivestito dal-l’immaginazione. “Io sono del parere – scrive Ficino – che l’intenzione dell’immaginazioneabbia il suo peso su immagini e medicina, non tanto al momento della preparazione quantoin quello dell’applicazione: ad esempio, se un tale, a quel che si dice, porta indosso un’imma-gine fatta nei modi debiti, o certamente se, facendo uso analogo di una medicina, desidera in-teramente soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con incrollabile fermez-za, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di incremento all’aiuto che essa può da-re” (Donà cit. p. 107). Da quanto riferito sopra si ricava che Ficino si trova molto vicino alleteorie sulle malattie psicosomtiche. E non a caso, perché nella sua dottrina psiche e corpo so-no due realtà strettamente unite e complementari. Perciò, secondo lui il complesso meccani-smo degli influssi astrali è connesso non solo alle buone disposizioni di Dio, alle reali con-nessioni tra gli elementi del cosmo e alla correttezza della nostra azione, ma sempre anche aduna disposizione attiva nei suoi confronti. Dunque non: “credo perché verifico e constato”,ma: “constato e verifico perché credo”. Non in modo assoluto, ma in misura senza dubbio ri-levante. L’efficacia dell’azione magica si verifica, per Ficino, nel contesto di una relazioneben più complessa di quella tradizionale. Nella realizzazione dei prodigi magici, a rivestire

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un ruolo centrale non sono soltanto l’azione del sapiente e la configurazione degli elementi,e quindi la volontà del Principio di tutto, ma è importante anche la disposizione del”pazien-te”, che in realtà non è più tale, essendo il suo atteggiamento non più visto come un “subire”.Non si tratta, infatti, di sapere come stanno le cose, ma anche di volere che stiano così. Le sta-tistiche fatte su persone ospedalizzate infatti (si può fare senz’altro questo esempio ancheavendo presente l’attualità) dimostrano la validità della seguente constatazione: Se due per-sone, della stessa età, sono colpite da una grave malattia mortale, vive certamente più a lun-go quella animata da più viva e profonda volontà di vivere. Questo perché essa non solo se-gue le cure indicate, come l’altro che si ipotizza dotato di una disposizione più abulica, maanche perché vuole con fermezza prolungare l’esistenza o evitare la morte, avendo per lui lavita un valore assoluto. L’esempio testè fatto ci induce a notare nell’umanista un elemento disconcertante modernità che sembra anticipare molte scoperte freudiane e junghiane, ma chein realtà sorge in lui dalla necessità di una “mediazione”, determinata dal principio (tipico delpensiero magico) della continuità per cui “dappertutto, nella serie delle cose, dove esitanocontrasti e forti differenze, si deve riconoscere l’esistenza di elementi intermedi e mediatori”(Paul Oskar Kristeller: “Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino”, trad. it. , Le Lettere Fi 1988p. 96). Elemento di “sconcertante modernità”, perché si arriva (e l’esempio sopra fatto ne èuna prova) ad un risultato accolto dalla scienza moderna per una via diversa da quella dellamodernità. La magia, però, non è stata ripudiata dalla storia della scienza, ma è stata consi-derata, invece, come un anello importante e propulsivo del mondo attuale, in cui la psicolo-gia, la chimica, le scienze biologiche e naturali ecc. occupano un posto rilevante. “Tra il mon-do (ordinato da Dio) e l’agire del mago non poteva non esistere, ai suoi occhi, una terza figu-ra: la volontà, o meglio la disposizione di chi è oggetto dell’azione magica. Per lui non si dàun rapporto diretto ed immediato tra agente ed agito: anche l’agito deve essere agente. Nel-l’azione magica, quello che davvero gli appare sorprendente è l’impossibilità di ricondurla adun rapporto univoco in cui la causa sia causa e l’effetto sia effetto. Là dove la causa è ancheeffetto e viceversa ci si trova di fronte a qualcosa che non è né causa né effetto. E che costi-tuisce la specificità di ciò che chiamiamo anima (Donà, op. cit. p. 108).

Anima per Ficino è ciò che “connette il mondo a Dio e l’uomo al mondo, ma nello stes-so tempo Dio all’uomo”.

Da questo emerge l’importanza del concetto di amore nel neoplatonismo magico – erme-tico di Ficino – amore che tutto muove – e tutto unisce e che non può essere attratto da al-cuna “bellezza” particolare e astrattamente determinata. Le qualità occulte delle cose riflet-tono raggruppamenti planetari, ma spetta a noi, anche con l’uso di talismani adatti, metterein gioco parole, lettere, caratteri e figure che sappiano dischiudere un mondo di connessioniinfinite. Noi agiamo ubbidendo al richiamo del reale, e nel contempo corrispondiamo a talereale agendo. Agire ed essere agiti, azione e passione non sono nettamente distinguibili nel-l’impostazione magica di Marsilio Ficino.

Pico della Mirandola

Vi è, alla radice, un’unità originaria che pone su tutto il sigillo del proprio indecifrabilemistero. Una stessa unità originaria è al centro del pensiero magico di Pico della Mirandola,l’autore della famosa Oratio di cui abbiamo già trattato. Nel III libro del suo trattato intito-lato Adversus Astrologiam, egli espone una teoria degli influssi astrali sostanzialmente iden-tica a quella di Ficino: ”I cieli, all’origine di ogni moto e di ogni forma di vita nel mondo su-blunare, operano tramite un calore che non è primordiale ma contiene e “nella perfezione enella virtù tutte le qualità elementari. Questo calore è condotto dallo spirito celeste in gradodi penetrare dappertutto, di nutrire, di temprare, di formare e di rendere la materia viva. Es-so è analogo allo spirito che negli uomini e negli animali unisce corpo e anima, ”un corpomolto sottile, invisibile, più affine alla luce e al calore delle stesse” (Donà cit. p. 109). Sindal titolo, però, il trattato sembra voler essere una condanna dell’astrologia, che limiterebbe

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o annienterebbe il libero arbitrio dell’uomo e di quello di Dio: lo stesso concetto che impron-ta di sé il De fato pomponaziano. Tuttavia, in verità, a differenza di Pomponazzi, oggetto del-la condanna di Pico, come di quella di Ficino, di Savonarola o di Tolomeo, è soltanto la cat-tiva astrologia, quella che assoggettava interamente la volontà umana agli influssi astrali.Che la mente e la volontà umana possano essere indirettamente influenzate dalle stelle tra-mite i loro effetti sul corpo lo aveva del resto sostenuto Tommaso d’Aquino. Pico della Mi-randola è uno dei massimi esponenti dell’umanesimo rinascimentale: lo dimostra benel’Oratio (1486) improntata ad un evidente ottimismo. “Ma si direbbe – scrive Johan Huizin-ga – nella sua opera L’autunno del Medioevo quasi che non fosse né di moda né di buon to-no, nel secolo decimoquinto, lodare apertamente la vita e il mondo. Chi considerava con se-rietà il corso degli eventi e poi dava il suo giudizio sulla vita, di solito non parlava che disofferenze e di disperazione. Vedeva i tempi accostarsi alla fine e tutte le cose terrene allacorruzione. L’ottimismo che dal Rinascimento in poi andrà crescendo per raggiungere il suofiore nel secolo decimottavo, era ancora ignoto allo spirito francese del ’400. Chi sono colo-ro che, per primi, parlano della propria epoca, pieni di speranza e soddisfazione? Non certoi poeti e meno che mai i pensatori religiosi, neppure gli uomini di Stato, bensì i dotti, gliumanisti. È la gioia di aver ritrovato l’antica saggezza che strappa per la prima volta agli spi-riti accenti di giubilo sul proprio tempo. È un trionfo intellettuale – continua lo storico olan-dese. Il ben noto grido di gioia di Ulrico di Hutten: “O saeculum, o literae! Juvat vivere!” èdi solito preso in senso largo; non è tanto l’uomo che giubila quanto il letterato entusiasta.Si potrebbe citare dal principio del secolo sedicesimo, tutta una serie di siffatte lodi sull’ec-cellenza dell’epoca, ma si troverà che esse concernono quasi esclusivamente il ricupero del-la cultura intellettuale e non sono punto manifestazioni di tirambiche della vera gioia di vi-vere. Anche nell’umanista del resto, la letizia è sempre mitigata dal vecchio suo distacco dalmondo. Più ancora che dalle parole troppo spesso citate di Hutten, la si può conoscere dallelettere di Erasmo verso il 1517 ; un po’più tardi invece non più, ché l’ottimismo – concludeHuizinga – che gli aveva suggerito quei lieti accenti svanisce rapidamente” (Johan Huizin-ga, L’autunno del Medioevo ediz. Sansoni p. 38). All’insegna dell’ottimismo umanistico –ripetiamo – può anche essere inserita l’opera di Pico della Mirandola, un ottimismo però fi-losofico, consapevole dei propri limiti e della necessità di un freno. L’astrologia infatti per-mette di conoscere le venature più profonde delle cose, ma essa può degenerare ed attentarealla libertà dell’uomo. Quest’ultimo, del resto, – come si evince dall’Oratio – è il “faber for-tunae suae” e come tale può innalzarsi al di sopra del mondo, ma può cadere al livello deibruti. Comunque è forse la prima volta che un pensatore esalti la libertà dell’uomo, tanto darenderlo la creatura più degna del creatore e la più eccellente dell’universo. L’uomo è vistogrande sia nella fortuna che nella sventura, perché la sua natura non è necessariamente de-terminata come quella degli animali. Il Pico che esalta l’uomo e su di esso teorizza, non èperò, il “vero” Pico che, pur avendo scritto una rinuncia alle tesi, quando queste venneroegualmente condannate nella loro totalità, dal Papa stesso, fu costretto a ritirarsi in Francia,per evitare più sgradevoli conseguenze. Imprigionato nel castello di Vincennes, venne libe-rato dopo un anno circa per l’intervento di Lorenzo il Magnifico che lo richiamò in Italia,ospitandolo in una sua villa di Fiesole. Le sue famose tesi, sopra indicate, provocarono la suadisgrazia. Il Papa, convinto della pericolosità di tesi che volevano, fra l’altro, unificareEbraismo e Cristianesimo, entrando anche nel campo dell’astrologia, ne bloccò la discussio-ne e ne chiese l’esame: 13 su 900 vennero condannate. Pico non si scorraggiò e ribadì le pro-prie convinzioni nell’Apologia. Ma, come abbiamo visto, senza avere successo. Di vastissi-ma e proverbiale cultura, Pico conosceva l’ebraico e la “qabbalah”, aveva studiato i grandimaestri della scolastica e le dottrine degli arabi, ma era vicino soprattutto al neoplatonismodi Plotino, Proclo, Giamblico e Porfirio. Pensatore profondo, oratore e scrittore brillante su-scita ottimismo sul piano culturale e nelle sue opere, ma la vita reale gli riserva amare sor-prese, pericoli e sofferenza. Ha dunque ragione Huizinga: nel secolo XVI “non è tanto l’uo-mo che giubila, quanto il letterato entusiasta”, e ciò è comprensibile perché i tempi sono fo-schi e torbidi, e lo stato di guerra cronico non è certo atto a sollevare gli spiriti e a fare ama-

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re la vita. Anche Pico è spinto dall’interesse religioso. Egli non aveva la prevenzione degliumanisti contro i filosofi medievali. In una lettera del 1485 ad Ermolao Barbaro condannòl’atteggiamento di coloro che sacrificavano la sostanza all’apparenza e si lasciavano respin-gere dalle speculazioni espresse in un linguaggio rozzo e disadorno. La sua speculazione mi-rò a conciliare e a sintetizzare le dottrine più diverse: quelle della sapienza orientale, quelladei Greci e principalmente di Platone ed Aristotele, quelle medievali principalmente di Tom-maso e di Duns Scoto, ed inoltre quelle della magia e della cabala. Oltre all’Orazione famo-sa Sulla dignità dell’uomo, Pico scrisse l’“Heptalus” che è un commento ai primi capitolidella “Genesi”; “L’ente e l’uno” che è un tentativo di sintesi tra aristotelismo e platonismo ele “Dispute contro gli astrologi” che è una critica all’astrologia. Lo scopo della speculazio-ne di Pico è la pace, l’unione, l’amicizia fra gli uomini: cose che sono possibili solo se gliuomini armonizzano e fondono tutti gli elementi apparentemente eterogenei del loro saperee delle loro credenze religiose. Così Pico dedica l’Heptalus a dimostrare l’accordo tra il rac-conto biblico della creazione e le dottrine filosofiche del platonismo; il De ente et uno a di-mostrare l’accordo tra Platone e Aristotele. Ma egli ritiene che c’è pure un accordo tra tuttequeste dottrine da un lato, la magia e la cabala dall’altro lato. Respinge però la magia dei ne-gromanti, che invocano spiriti e demoni, ed esalta la sola magia “naturale”, che non infran-ge l’ordine del mondo ma piuttosto lo asservisce, utilizzando tutte le energie che sono disse-minate in natura. La “cabala” invece serve a penetrare i misteri divini. Essa è un accordo per-fetto, non solo con le dottrine della Chiesa e della filosofia cristiana, ma anche con quelle diPitagora e Platone. Solo di fronte all’astrologia Pico assume un atteggiamento di riserva.Egli ammette l’“astrologia matematica “ o speculativa che si preoccupa unicamente di deter-minare le leggi matematiche dell’universo. Ma rigetta l’“astrologia giudiziale” o divinatriceche pretende derivare dal corso e dalla natura degli astri le vicende della vita umana. Se que-sta seconda specie di astrologia fosse vera, l’uomo non sarebbe libero perché ogni sua deci-sione dipenderebbe dal corso degli astri. Ma essa non può essere vera, perché ciò che ha va-lore e dignità superiore non può essere soggetto a ciò che ha valore e dignità inferiore. Cosìl’uomo, che è l’essere supremo della creazione, non può dipendere dai corpi celesti che so-no a lui inferiori. Così Pico difendeva contro una delle più diffuse credenze del suo tempo ladignità e la libertà dell’uomo.

Occorre far notare a proposito dell’ottimismo umanistico, di cui abbiamo parlato sopra,che a questa visione entusiastica del rapporto uomo natura nel Rinascimento, vi era anchechi, come Leon Battista Alberti (precursore in questo senso del “disincanto” leopardiano),affermava a proposito della natura: “Essa adempie meccanicamente al suo compito innatonei confronti del genere umano, non ha mai bisogno del nostro intervento né può essere in-fluenzata dalle nostre preghiere” (L. B. Alberti). Sembra, dunque, proprio vero quanto ipo-tizza Gramsci: che, cioè, lo spiritismo e la magia sono la forma che doveva prendere il na-turalismo e il materialismo nel Rinascimento. Essi costituiscono la reazione al trascendentecattolico o la prima forma di immanenza. Il rapporto uomo natura sia in Ficino, sia in Picodella Mirandola, come in Pomponazzi, pur richiamandosi al trascendente, si pone su un pia-no, sia pur confuso, di quasi laico immanentismo, anche attraverso la figura del mago o delsapiente. “Secondo il Walser – continua Gramsci – , l’affermazione del Burckhardt che il ri-nascimento sia stato paganeggiante, critico, anticuriale e irreligioso non è esatta. Gli umani-sti della prima generazione come Petrarca, Boccaccio, il Salutati, di fronte alla Chiesa nonsi staccano dall’atteggiamento degli studiosi medievali. Gli umanisti del ’400, Poggio, il Val-la, il Beccadelli, sono più critici ed indipendenti, ma di fronte alla verità rivelata tacciono an-ch’essi ed accettano. In questa affermazione – nota Gramsci – il Walser è d’accordo col Tof-fanin, che, nel suo libro Che cosa fu l’Umanesimo? afferma che l’Umanesimo, col suo cul-to della Latinità e della romanità, fu assai più ortodosso che non la letteratura dotta in vol-gare del ’200 e ’300 (affermazione che può essere accettata, se si distingue nel mito del Ri-nascimento il distacco avvenuto con l’Umanesimo dalla vita nazionale che andò formando-si dopo il 1000, se si considera l’Umanesimo come un processo ‘progressivo’ per le classicolte cosmopolitiche ma regressivo dal punto di vista della storia italiana)” p. 15.

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Se l’Umanesimo e il Rinascimento furono paganeggianti

L’Umanesimo e il Rinascimento furono paganeggianti? Non furono ortodossi? Abbiamogià sottolineato che Sacchetti fu molto religioso, basta ricordare la sua opera Sposizioni deiVangeli, lo stesso si può dire del Petrarca che nel Secretum si rifà a Sant’Agostino e si pro-pone di formare un intellettuale cristiano. Per quanto riguarda il Boccaccio del Decameronepossiamo parlare di indifferentismo religioso, cioè quel modo di supervalutare l’elementolaico e la cultura, che diventerà più tardi un ostacolo all’introduzione in Italia dei movimen-ti di Riforma, che solo la Controriforma Cattolica riuscirà a domare. La posizione del Pom-ponazzi è duplice da un lato: egli interrompe la sua ricerca naturale e si sottopone all’inse-gnamento della Chiesa e dall’altro riconduce i “miracola” a “facta stupenda”. Per quanto ri-guarda, poi, gli eventi narrati nella storia delle religioni, Pomponazzi gioca sullo spostamen-to da “miracola” a “prodigio”. Fatto ciò, essi vengono equiparati e spiegati nel medesimomodo, ciòè negando l’intervento diretto di Dio. Sono senza dubbio “stupenda”, fatti cioè chedestano stupore, ma che non vanno, secondo il Peretto, al di là dell’ordine naturale. Nel “Defato” mostra anzi come, intendendoli “extra naturam” secondo il dettame delle religioni, inrealtà si pongono al di fuori del piano stabilito da Dio: chiaramente la base di questa affer-mazione è una totale identificazione della provvidenza divina con lo stesso ordine naturale.

Siamo sul piano, come scrive Gramsci, della”immanenza primitiva e rozza”, prima delsorgere della scienza moderna.

L’Inquisizione

Non bisogna dimenticare che anche durante il Rinascimento funziona l’Inquisizione. Es-sa, nata tra il XII e il XIII secolo, contro l’eresia, è praticamente in mano ai frati domenica-ni, Innocenzo IV nel 1246 estende il privilegio ai frati minori. Il procedimento giudiziariopuò essere istituito dall’Inquisizione tanto sulla base della”vox populi”, di una denuncia pub-blica, di un’accusa segreta, quanto di una procedura d’ufficio. Nel caso che l’imputato neghile accuse viene usata la tortura. Questa fu autorizzata definitivamente da Innocenzo IV nel1252. Le condanne possono andare dall’imposizione di una formula di abiura fino al carce-re perpetuo e la consegna al braccio secolare, che corrisponde sempre alla condanna a mor-te. Solo gli eretici impenitenti sono bruciati vivi, mentre i pentiti vengono uccisi per impic-cagione o taglio della testa e poi arsi dopo la morte. Per avvicinarci ai tempi di Pomponaz-zi, nel 1486 i domenicani Heinrich Kramer e Jakob Sprenger composero il Malleus malefi-carum, un vero e proprio manuale che gli inquisitori potevano usare per un’azione più ener-gica ed efficiente. Nel 1542 Paolo III organizzò l’inquisizione romana che prevede un con-trollo centrale formato da una commissione di sei cardinali inquisitori con giurisdizione sututto il mondo cristiano. In questo modo l’inquisizione diventa del tutto indipendente dallediocesi nel 1558: Sisto IV dichiara L’Inquisizione romana la prima di tutte le Congregazio-ni. Nel 1559: viene pubblicato l’“Index librorum prohibitorum” seguito nel ’63 dall’“IndexTridentinus”; il 5. 1. 1568 Sisto V con la bolla “Coeli et terrae Creator “ condanna non soloogni forma d’incantesimo, ma chiunque pratichi l’astrologia giudiziaria; nel 1571 Pio V isti-tuisce la congregazione dell’Indice. La libertà di coscienza non è dunque garantita e l’attivi-tà culturale e filosofica risente di questo clima di intolleranza che si abbatte sugli umanistipiù audaci i Pico, i Pomponazzi, i Savonarola ecc… Nel moto del Rinascimento si ha il di-stacco avvenuto con l’Umanesimo dalla vita nazionale dopo il 1000: già il Petrarca, peresempio, si leva nel ciclo di una cultura umanistica sopranazionale libera dai vincoli comu-nali, e ancora il Machiavelli distoglie gli occhi da un’Italia divisa e asservita per contempla-re, oltralpe, le monarchie nazionali che hanno dato vita agli stati moderni, rompendo l’uni-versalismo mediovale, ecc… L’Umanesimo quindi sarebbe stato progressivo per le classicolte”cosmopolitiche”, ma regressivo per quanto riguarda la storia nazionale.

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Funzione politica reazionaria in Italia e progressiva all’estero del Rinascimento

“Il Rinascimento – scrive ancora il pensatore sardo – può essere considerato comel’espressione culturale di un processo storico nel quale si costituisce in Italia una nuova clas-se intellettuale di portata europea, classe che si divise in due rami: uno esercitò in Italia unafunzione cosmopolitica, collegata al papato e di carattere reazionario, l’altra si formò al-l’estero, coi fuoriusciti politici e religiosi ed esercitò una funzione cosmopolitica progressi-va nei diversi paesi in cui si stabilì, o partecipò all’organizzazione degli Stati moderni comeelemento tecnico, nella milizia, nella politica, nell’ingegneria ecc. ” (op. cit. p. 15). Abbia-mo visto, a proposito di Giulio II, il Caietano (Tommaso da Vio), in campo leggittimista, di-fendere il potere e l’autorità del Papa nei confronti dello scismatico conciliabolo pisano,mentre frate Zaccaria Ferreri affermare l’autonomia del Concilio. Rappresentando l’uno unafunzione cosmopolitica legata al papato e reazionaria, l’altro una funzione altrettanto cosmo-politica ma progressiva, perché volta a mutare una situazione pericolosa per la storia italia-na, essendo il papato un elemento di divisione e di rovina. Lo stesso Gramsci cita i nomi dicoloro che anche fuori all’Italia hanno avuto una funzione politica progressiva ma cosmopo-litica non legata cioè al popolo e quindi non nazional-popolare: Lelio e Fausto Sozzini, Ochi-no, Martire Vermigli, Francesco Burlamacchi, Carnesecchi, Paleario ecc… Lelio e FaustoSozzini furono riformatori ed esercitarono il loro ministero in Svizzera il primo, in Poloniae in Transilvania il secondo. Essi dettero vita al Socinianesimo che si concretò nella istitu-zione della Chiesa dei “Fratelli Polacchi” e i cui fondamenti furono: 1) La libera interpreta-zione del Nuovo Testamento per opera della ragione illuminata dalla grazia, 2) il ripudio del-la tradizione e il rifiuto dei dogmi della Trinità e della transustanziazione. Bernardino Ochi-no (1487-1564) fu predicatore, nel 1538-42 generale dei Cappuccini, accostatosi alla Rifor-ma fu costretto a lasciare l’Italia e a rifugiarsi in Svizzera, Germania, Inghilterra, Polonia,Moravia dove morì. Pietro Martire Vermigli (Fi 1500 Zurigo 1562) fu teologo agostiniano,nel 1542 aderì alla Riforma e divenne (a Strasburgo, Oxford e Zurigo) il più sistematico ecoerente teorizzatore del Calvinismo, una sua opera porta il titolo di “Loci communes”(1576). Francesco Burlamacchi (1498-1548) Gonfaloniere di Lucca, congiurò – con gliStrozzi – contro i Medici. Fu decapitato. Pietro Carnesecchi (Fi 1508-Roma 1567) Sacerdo-te umanista, sostenitore della Riforma, fu decapitato come eretico. Aonio Paleario (Veroli c.1503-Roma 1570) fu umanista riformatore, fu impiccato come eretico per ordine del S. Uf-fizio; Sua l’opera di polemica antipapale Actio in pontifices romanos, e un’altra sua opera èintitolata De immortalitate animarum confutazione del De rerum natura di Lucrezio. Marti-re Vermigli passerà all’università di Oxford e Bernardo Ochino nel capitolo di Canterbury.Leonardo da Vinci, uno dei più insigni rappresentanti del Rinascimento, pittore, scultore, ar-chitetto, studioso di ingegneria e meccanica, matematico, anatomista e scrittore, dopo averlavorato a Milano a Venezia, a Firenze, in Romagna, si trasferì in Francia alla corte di Fran-cesco I. Gian Giacomo Trivulzio, invece si distinse nella milizia (1441-1518): fu condottie-ro al servizio di Lodovico il Moro, poi degli Aragonesi di Napoli, quindi di Carlo VIII e diLodovico XII d Francia, dal quale ultimo, dopo la conquista per opera sua di Milano, (1499),fu nominato maresciallo di Francia e governatore del Ducato.

Umanesimo politico etico e ciceroniano

“Può esser vero – scrive Gramsci – che l’Umanesimo nacque in Italia come studio dellaromanità e non del mondo classico in generale (Atene e Roma); ma occorre allora distingue-re. L’Umanesimo fu ‘politico-etico’, non artistico, fu la ricerca delle basi di uno ‘Stato ita-liano’ che sarebbe dovuto nascere insieme parallelamente alla Francia, alla Spagna, all’In-ghilterra: in questo senso l’Umanesimo e il Rinascimento hanno come esponente più espres-sivo il Machiavelli. Fu “ciceroniano”, come sostiene il Toffanin, cioè ricercò le sue basi nelperiodo che precedette l’impero, la “cosmopolis” imperiale (e in tal senso Cicerone può es-

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sere un buon punto di riferimento per il suo opporsi a Catilina prima, a Cesare poi, cioè al-l’emergere delle nuove forze anti-italiche, di classe cosmopolita” (Gramsci, op. cit. p. 16).Secondo Gramsci l’Umanesimo non fu artistico e il Burckhardt non assume una giusta vi-suale se dà importanza soprattutto alla storia dell’arte italiana. Forse nacque come studio del-la “romanità” e non del mondo classico rappresentato da Atene e Roma. Infatti i politici delprimo ’500 sono animati da grande amore per gli storici antichi (in particolare i Latini). Inuna lettera al Machiavelli del 23 novembre del 1513 Francesco Vettori fornisce un elenco diautori antichi le cui opere appassionavano gli umanisti: Vi si parla infatti di Livio, Sallustio,Plutarco, Appiano Alessandrino, Tacito, Svetonio, Erodiano, Ammiano Marcellino, Procopiooltre ai minori Elio Lampridio e Elio Sporriano (due dei compilatori dell’Historia Augusta).Sono invece pressoché scomparsi i testi della storiografia medievale, cosa che testimonia, ol-tre che una conoscenza minore di quest’epoca, il venir meno di tutte le categorie di giudizioconnesse con una visione trascendente del mondo. Quei testi dell’antichità vengono utilizza-ti come strumenti di interpretazione della realtà contemporanea: un mondo dominato dallegrandi personalità, un mondo risolto in lotta, virtù guerriera e sapienza di governo civile. GiàFrancesco Petrarca, uscendo dal mondo medievale ordinato e gerarchizzato, aveva reso au-tonomo, attento al mondo antico, l’intellettuale detentore di una religiosità più intima e indi-viduale, proteso verso il progresso e la pace, intendendo per intellettuale il poeta, il dotto nel-la forma più sublimata e generale. L’autore del Canzoniere si fece anche antesignano e pa-ladino dell’Unità d’Italia. Non per nulla il Machiavelli, animato dagli stessi ideali alla finedel Principe, dedicato a Lorenzo il Magnifico, che invita a scendere in campo, ne riporta iversi della strofa VI della Canzone “Ai Signori d’Italia” che afferma: “Virtù contro a furo-re/Prenderà l’arme, e fia el combatter corto; /ché l’antico valore/nell’italici cor non è ancormorto/”. Roma e il mondo romano è dunque presente anche nella mente di Machiavelli nonsolo del Petrarca, basti pensare ai “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”, opera anch’es-sa notevole nella produzione del segretario fiorentino.

“La cagione perché tutti questi governi sono stati difettivi è che le riforme di quegli so-no state fatte non a satisfazione del bene comune, ma a corroborazione e securtà della parte:la quale securtà non si è anche trovata, per esservi sempre stata una parte malcontenta, laquale è stato un gagliardo istrumento a chi ha… desiderato variare”. Queste argomentazionisu riferite si trovano nel “Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze” e a questo proposi-to Gennaro Sasso commenta: come nei Discorsi, quindi, anche qui, il punto su cui Machia-velli richiama con forza l’attenzione concerne quel problema del coordinamento di tutte leforze sociali all’interno di un sistema bene ordinato che la società fiorentina non era mai riu-scita a risolvere e che Roma aveva invece risolto fin dall’inizio dell’età repubblicana, ponen-do con ciò le basi granitiche della sua futura grandezza […] (N. Machiavelli Il Principe edaltri scritti. ediz. Laterza, p. 307).

Umanesimo quindi come Romanità e lingua latina. Gli umanisti, però, si sono interessa-ti anche del mondo greco e di quella lingua, che però non tutti conoscevano. La conosceva,invece, bene Marsilio Ficino che tradusse, fra l’altro, dal greco in latino i dialoghi di Plato-ne. Già dal Petrarca la letteratura è proposta essa stessa come valore guida, alto simbolo diuna nuova vita morale ed educatrice, ma l’umanesimo “politico”, come ricerca delle basidello “Stato italiano” parallelo a quello francese, spagnolo e inglese, ha come esponente“più espressivo” (cioè quello che più ne ha trattato e di cui più si è interessato) il Machia-velli. L’Umanesimo fu “Ciceroniano”, cioè fu politicamente repubblicano, e lo si può acco-stare al repubblicanesimo di Cicerone che, conservatore, sostenitore dell’autorità del sena-to, pur con qualche incertezza, seguì Pompeo nella lotta contro Cesare. Inoltre Cicerone èautore di un’opera in 6 libri intitolata Della Repubblica. Il Machiavelli dei Discorsi è chia-ramente repubblicano. Sembrerebbe che vi sia contrasto fra i Discorsi e il Principe, que-st’ultimo detentore di un potere assoluto e quindi monarca e autocrate. Ma, ad un esame piùattento, non si scorge soluzione di continuità, perché il “Principe” rappresenta la politica, laprassi politica che ha di mira, nella sua autonomia, la “realtà effettuale e non l”immagine”di essa, in una visione tanto moderna da indurre Gramsci a definire il Partito Comunista

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d’Italia, appena sorto il “Nuovo Principe”, attento cioè alla lezione del Machiavelli, in chia-ve moderna. I Discorsi, invece si propongono di creare uno stato moderno repubblicano benordinato e forte, seguendo il modello della Roma antica, anche qui operando con saggezzapolitica, quella saggezza che tanto rese potenti i Romani. (Catilina, nobile romano, fu attac-cato violentemente (catilinaria) in Senato da Cicerone che nel ’63 scoprì una congiura anti-senatoria a capo della quale si trovava appunto Catilina (sembra con l’appoggio segreto diCesare e Crasso). Catilina, (n. c. il 109 a. c. , fuggito, morì combattendo nel ’62 a Pistoia, acapo dei veterani di Silla). Gramsci considera Catilina e Cesare come espressioni di “nuoveforze anti-italiche di classe cosmopolitica”. Cicerone sarebbe dunque il difensore della re-pubblica, del senato dei romani e della tradizione italica, contro l’affermarsi di una “cosmo-polis” imperiale, che infine mette capo alla decadenza romana e al crollo dell’impero.

Bilinguismo nel Rinascimento

“Il Rinascimento spontaneo italiano, che si inizia dopo il Mille e rifiorisce artisticamen-te in Toscana, fu soffocato dall’Umanesimo e dal Rinascimento in senso culturale, dalla ri-nascita del latino come lingua degli intellettuali contro il volgare ecc. Che questo Rinasci-mento spontaneo (dal ’200 specialmente) possa solo essere paragonato alla fioritura della let-teratura greca, è innegabile, mentre il “politicismo” del ’400-’500 è il Rinascimento che puòessere riferito al Romanesimo”. Così scrive Gramsci a p. 16 dell’opera citata. Per Rinasci-mento “spontaneo” che si inizia dopo il 1000 si intendono forse sul piano artistico le operedi Giotto, Ghiberti, Donatello, Masaccio, Leon Battista Alberti come architetto, Piero dellaFrancesca, Mantegna, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Antonio da Sangallo il Vecchio eil giovane, Vasari architetti ecc… Sul piano letterario l’uso del latino da parte degli umani-sti fa ritornare l’Italia ad una situazione di bilinguismo come ai tempi di Dante Alighieri. Tut-tavia il latino umanistico “non ha niente della scolasticità e della rigidezza assunte dal lati-no medievale: esso, sebbene sia esemplato sui classici, è però creazione originale e perciòmutevole, con una propria interna dialettica ed una forte tendenza ad assorbire i caratteri delparlato; le sue conquiste e novità diventeranno patrimonio anche del volgare quando questopotrà tornare di pieno diritto alla funzione letteraria.” (Alberto Asor Rosa: Sintesi di storiadella letteratura italiana ediz. La Nuova Italia p. 80). Scrivono in latino: Il Petrarca, oltreche in volgare, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Cristoforo Landino, Giannozzo Ma-netti, Lorenzo Valle, Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), ecc… In volgare (oltre che in la-tino) Leon Battista Alberti, Tommaso Campanella, Machiavelli, Guicciardini, Antonio diTuccio Manetti, Vasari, Francesco Vettori, Pandolfo Collenuccio, Savonarola, Bonaccorsoda Montemagno, Luca della Robbia, Luigi Marsili, Antonio de Ferraris detto il Galateo, Ma-succio Salernitano, Giovanni Villani, Goro Dati ecc.

L’ambiente umano e culturale di Pomponazzi

Dopo l’intervento del cardinale Bembo, anche il Contarini, allievo del Pomponazzi, cer-ca a sua volta di confutare il maestro, che, a sua volta gli risponde con l’Apologia. La pole-mica tra i due, poi, continua con i libri De immortalitate animae, il primo dei quali (col tito-lo: Tractatus contradictoris) è la confutazione dell’omonimo trattato sull’anima di Pompo-nazzi e il secondo dell’Apologia. Ambrogio Fiandano, non demorde, e persino dal pulpito,esprime aperte condanne del Pomponazzi, poi incoraggia il Nifo a farsi avanti. Quest’ultimointerviene nel ’18 con un suo “De immortalitate animae libellus adversus Pectrum Pompo-natium” e il Peretto risponde con il “Defensorium”. Il Fiandano nel ’19 agisce poi in primapersona con un libello “De animarum immortalitate… contra assertarem mortalitatis”. Tragli altri interventi, ancora nel ’19, vanno ricordati: “Tutela veritatis de immortalitate animaecontra Petrum Pomponatium e il Flagellum in tres libros Apologiae eiusdem Petri de cadem

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materia, dell’inquisitore domenicano Bartolomeo Spina. Dopo tutto ciò, Pomponazzi nel1520 compone arditamente il De incantationibus, prendendo come occasione del trattato unalettera di Ludovico Panizza, un medico che, in seguito, esercitò presso i Gonzaga, e poi di-venne Priore dell’ordine dei Medici. Nello stesso anno pubblicò il De fato. Nel 1521 esceDe nutritione et augmentatione, dove, prendendo le mosse dalla definizione di aumento edalla distinzione di altri tipi di motus, torna nuovamente e in modo completo su temi comeil microcosmo o la virtù premio a se stessa. In una prospettiva umanistica e laica, negandocome sostegno alla virtù e come punizione, un al di là premio o castigo, infatti, il Peretto so-stiene la concezione di una virtù premio a se stessa, in quanto portatrice di quella tranquilli-tà dell’animo e di quella sicurezza di spirito che costituiscono, in fondo la “vera” felicità del-l’uomo, e inoltre la concezione di un “vizio connesso al tormento dell’animo e quindi all’in-felicità”. Tutto ciò al di fuori della tradizione e dell’insegnamento della Chiesa. Riprenden-do la critica alla teoria dell’intelletto unico di Averroè, Pomponazzi insiste soprattutto sul li-mite della conoscenza umana, abbandonando per sempre la fiducia umanistica sulle nostrepossibilità. Il De nutritione è l’ultima opera pubblicata dal Pomponazzi e con il commentoai “Parva naturalia”, terminato il 18 maggio 1525, finisce del tutto l’insegnamento e l’attivi-tà pubblicistica del nostro. Pomponazzi, il maggiore degli aristotelici del ’500, era stato chia-mato a Padova (1488) a tenere un corso parallelo ad Alessandro Achillini, al quale più tardisuccedette sulla cattedra bolognese. Piuttosto fittizio era, però, la distinzione fra Firenze pla-tonizzante con l’Accademia di Cosimo e Ficino, e Padova aristotelica ed averroista, perchécorrenti trasversali si insinuavano, accanto a quelle più note, determinando le influenze diTemistio e di Simplicio e l’intromissione di spunti platonici. In questo ambiente e in questoclima si alimenta l’indagine del Pomponazzi, che fra l’altro, venne sedotto in giovinezza dal-le discussioni di logica formale e di fisica degli occamisti. Il Peretto non fu ripetitore né diS. Tommaso, né di Averroè e critico di Averroè lo ricorda il Contarini. Abbiamo visto la rea-zione che suscitò il libretto del Pomponazzi De Immortalitate animae: fu vilipeso, si è visto,dai pulpiti, maltrattato dalle cattedre, qui si deve aggiungere che fu bruciato pubblicamentein Venezia. E quest’ultimo particolare la dice lunga della civiltà del Rinascimento che splen-de – come abbiamo visto sopra affermare Huizinga – solo o nelle pagine degli umanisti, lacui vita reale, (vedi Pico), è, spesso, cosparsa di sofferenza e di atrocità, o negli affreschi diPaolo Uccello o di Masaccio o negli ori e nelle sculture di Benvenuto Cellini, la cui vita pe-rò appare, a questo proposito, drammatica: costellata da risse, duelli, partecipazione al sac-co di Roma (1527), dal lutto familiare per la morte del fratello ucciso in una rissa, uccisio-ni, detenzioni in carcere anche per sodomia. Nel ’500 già si delinea la situazione del lavora-tore o dell’artista nella società capitalistica, dove tutto comincia ad essere mercificato, conla conseguente alienazione, che rende estraneo il risultato della produzione anche di alta qua-lità, ormai tramontato il lavoro artigianale e la produzione artistica artigianale ove rifulgel’ingegno umano. Un uomo, come Cellini, vede infrangersi il proprio narcisismo in una so-cietà ostile, che ostacola il suo grande desiderio di libertà. Una società sotto la spada di Da-mocle della conquista, dell’invasione degli stranieri e del pericolo della guerra. Le dichiara-zioni fondamentali soprattutto del Contarini e del Nifo da Sessa, vertevano sulla possibilità,negata dal Peretto, delle sostanze separate. L’intelletto, che è a conoscenza dei puri principiprimi, delle forme slegate da ogni materia, mostra, con queste sue attività, la falsità della te-si dell’impossibilità di un pensare indipendente dal fantasma sensibile. “Inoltre, in quantopura capacità di tutto comprendere, l’intelletto respinge con questo ogni legame con la esten-sione, ogni divisibilità. Non a caso il Contarini si richiama al famoso argomento di Avicen-na dell’uomo volante caro anche al Ficino, volto a dimostrare la pura spiritualità dell’anima”(Garin, op. cit. p. 162). Il Nifo, invece, faceva appello alle intelligenze celesti, ammesse daPomponazzi, e proprio come agenti estrinseci (assistenti), in senso tipicamente Platonico.“Che Nifo fosse un confusionario chiaccherone è tesi antica, se già al Varchi pareva che nonsolo in questo ma in moltissimi altri luoghi abbia, senza giudizio o considerazione alcuna,detto tutto quello che gli veniva, non che nella mente, alla bocca; il che per avventura gli po-tette avvenire non tanto dalla natura sua, quanto dalla grandissima reputazione ed incredibi-

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le autorità”. Reputazione ed autorità dovute poi – commenta Garin “ad una ambizione scon-finata e ad una produzione che non lasciò intentato alcun campo, anche se, troppo spesso, irisultati rimasero piuttosto scadenti. Ma la sua funzione storica non fu in determinate dottri-ne, che sarebbe impossibile fissare, bensì nella sua cultura, nell’avere idealmente collegatele scuole di Padova e Bologna con quelle di Firenze e Pisa, e poi di Napoli e Salerno, ancheil suo nome risuona, più che nelle dispute dei filosofi, nelle pagine di letterati come Galeaz-zo Florimonte, il buon Galateo, o come Torquato Tasso che gli dedicò due dialoghi sul pia-cere, ritraendo al vivo lo spirito mondano di quel divulgatore, per non dire, platonicamente,rivenditore al minuto di filosofia. “Io, che filosofo sono – gli fa dire il Tasso – come Socra-te non ho indurato le suole ai piedi, ma più tosto come Scipione (le ho) avvezzate alle pia-nelle, e agli ozi delle scuole greche”. Averroismo – commenta Garin – fu per lui affermazio-ne di spregiudicatezza, più che solida e seria posizione; tanto è vero che fu sempre pronto adiluirla in un platonismo di maniera, perfettamente adattabile alle riunioni mondane che pre-feriva al chiuso delle accademie” (Garin, op. cit. p. 162-63). Gaspare Contarini, oltre chepersonaggio dei dialoghi Della perfezione della vita politica di Paolo Paruta, pubblicati nel1579, è personaggio anche del Dialogo di Sperone Speroni. Nei dialoghi il Paruta affronta ilproblema della dignità della vita attiva. Egli afferma che il “puro contemplare” è cosa “su-blime “, ma può realizzarsi solo in “intelletti angelici”. L’uomo però è “vincolato al senso”.Egli “in verità”, raggiunge Dio proprio nel rapporto umano, “avendo rispetto al beneficio chepuò l’uno prestare all’altro, insieme vivendo nella vita civile…” (op. cit. Garin p. 206-207).

Il Nifo dissente dagli averroisti che intendono l’anima forma assistente, ma resta poi in-certo allo stesso modo del Cremonini, fra l’altro, collega di Galilei, alla “definizione del-l’anima che usa il corpo come di uno strumento” (op. cit. p. 167). Cesare Cremonini da Cen-to, poi scolaro del Pendasio, amico del Tasso e del Patrizi, fu uomo “senza dubbio rispetta-bile per la fierezza con cui difese, contro insidie e critiche, la sua fede sulla ricerca raziona-le”. All’Inquisitore sapeva rispondere: “quanto al mutare il mio modo di dire, non so comepotrei io promettere di trasformare me stesso. Chi ha un modo, chi un altro. Non posso névoglio ritrattare le espressioni d’Aristotele perché l’intendo così” (op. cit. p. 167). Il Cremo-nini era, però, uomo del suo tempo, perché convinto assertore dell’astronomia tolemaico-ari-stotelica si rifiutava di prestar, anche attraverso il cannocchiale, fede alle sensate esperienzegalileiane a favore del copernicanesimo. Il Nifo fu anche oggetto di polemica da parte di Tor-quato Tasso, convinto platonico, che mette in bocca a Minturno, (Minturno ovvero della Bel-lezza), nel dialogo a lui intitolato, formule degne della più rigida ortodossia ficiniana. Infat-ti dopo aver prospettato la tesi secondo cui la bellezza sarebbe “una vittoria che la forma ri-porta della materia, o, meglio, un sembiante, ovvero un’immagine del bene”, viene escluden-do dal concetto stesso di bellezza ogni contaminazione di materia. “Laonde io mi meraviglio– scrive il Tasso – del Nifo e degli altri Peripotetici, che riposero la bellezza nella materia,perché ella è di sua natura brutta e deforme oltremodo, anzi è la bruttezza istessa: laonde ilbello si troverebbe nel brutto, quasi in proprio soggetto: il che mi pare molto sconvenevole,perché il bello dee germogliar nel bello, quasi fiore in fiore”. E così la bellezza sembra sfug-gire ogni umano contatto e “non patisce al’essee descritta, o circoscritta dal luogo, dal tem-po, dalla materia o dalle parole”. Posizione estrema, senza dubbio, che, però, il Tasso miti-ga colla asserzione che bellezza è armonia dei dissimili, segno perfetto di un’unità increatach’è oltre la bellezza. Il Cortegiano del Castiglione e il De Principe (Libellus de his quae aboptimis principibus agenda sunt, uscito a Firenze nel 1521) del Nifo sono due opere insigninella produzione del secolo, accumunate dalla meditazione sul problema dell’educazione.Moralità per i due autori suddetti è sincerità di rapporti fra uomini” e, insieme, pienezza dieducazione di uomini; che è, insieme, “disciplina”, come nel Cortegiano definiva il Casti-glione. Per il quale ogni uomo, ha, senza dubbio “incluso e sepolto nell’anima”, il seme del-le virtù morali; ma v’è necessità del bono agricoltore, che coltivi ed apra la via a quei semi;v’è necessità dell’artificiosa consuetudine”, la quale trasformi l’uomo e lo faccia veramenteumano. E questo, non già estirpando gli affetti, come vogliono gli stoici, ma armonizzando-li – conclude Castiglione – entro una misura” (op. cit. p. 195). “Tutto il Cortigiano – conti-

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nua Garin – col suo spirito inconfondibile, è in questa valutazione della passione umana, cheva temperata, non strappata. ”. Agostino Nifo, nel suo opuscolo sopra citato, osservava ap-punto che temperante è, non chi non desidera, ma chi debitamente desidera (qui quae debetet ut debet, et quando debet, non concupiscit). “Si capisce, così, che fondamentale rimane ilproblema dell’educazione; e cioè del trarre a compimento i semi latenti di virtù” levando…le spine e il loglio” finché maturino felici i frutti. Né a caso le due opere ora menzionate,…sono indirizzate entrambe a formare l’uomo “civile” (op. cit. p. 195). “Atene e Roma – scri-ve Gramsci – hanno la loro continuazione nella Chiesa ortodossa e Cattolica: anche qui è dasostenere che Roma fu continuata dalla Francia più che dall’Italia e Atene Bisanzio dallaRussia zarista: civiltà occidentale e orientale, e ciò fino alla Rivoluzione francese e forse al-la guerra del 1914” (op. cit. p. 16).

Tentativo di unione dopo lo Scisma d’Oriente

Tipico frutto della mentalità del Rinascimento, la tendenza a superare le discussioni, con-trasti religiosi, le diversità dei riti, per cogliere la vera essenza della religione alla quale so-la deve volgersi l’intera umanità, a prescindere dalle diversità delle tradizioni nazionali. Aquesto scopo fu notevole l’attività concreta del Cusano, autore del De pace fidei Dialogus.”Quando non si può trovare l’accordo – scrive, fra l’altro, il Cardinale De Cusa – si permet-tono ai popoli riti e cerimonie diversi, purché si salvi la fede e la pace” (Garin Il Rinasci-mento italiano Cappelli editore p. 124). La “Pax fidei” non era solo il sogno del Cusano. Es-sa sembrava trovare una prima realizzazione nella unione della Chiesa greca e latina, anchese dettata dalle preoccupazioni causate dell’avanzata turca. L’esultanza della concordia è vi-va nelle parole del Traversari che avrebbero dovuto essere pronunciate alla prima riunionedel Concilio che avrebbe dovuto sancire l’accordo (A. Traversari, Epistolae et Orationes. Fi1759, vol. IIc. 1161-62). Egli afferma tra l’altro: “Ecco vediamo e annunziamo con sommaletizia le membra del santissimo e mistico corpo, quasi venendo da parti diverse, riunirsi inun’unione d’amore e di pace, corrersi incontro tenendosi le supplici mani, per congiungersiin una sola fede e nella grazia della pietà sotto la pietra angolare di Cristo, per unirsi in unasaldissima unione col dolce vincolo dell’amore” (Garin, op. cit. p. 125-126) (Traduzione dallatino), (Ambrogio Traversari (Portico, Firenze, 1386-149), camaldolese, fu teologo e uma-nista; al Concilio di Basilea (1435) si oppose alla teoria conciliare a favore dell’autorità delPapa; al Concilio di Ferrara. Firenze riuscì ad indurre Eugenio IV all’intesa con i greci e re-dasse l’atto di unione.

Lo Scisma d’Oriente

Lo Scisma d’Oriente, portò nel luglio 1054 alla separazione definitiva dalla Chiesa diRoma, il patriarcato di Costantinopoli, cui poi si unirono i patriarcati di Alessandria, Antio-chia, Gerusalemme e altre chiese che ripetevano la loro origine dalla Chiesa greca; dallo sci-sma nasce, come Chiesa separata, la Chiesa ortodossa o greca.

Fu Michele Cerulario (11° sec. ), Patriarca di Costantinopoli (1043-1058), con la pretesache al suo patriarcato fosse riconosciuta un’autorità premaziale su tutto l’Oriente, che pro-vocò il suddetto scisma. Scomunicato da Papa Leone IX (1054), attrasse nello scisma gli al-tri patriarcati. La Chiesa greca è la Chiesa cristiana (ortodossa) separata da Roma dal 9°sec.e definitivamente dopo la scomunica del patriarca Michele Cerulario (1054) per la questio-ne della processione dello Spirito Santo, che secondo la dottrina cattolica procede dal Padree dal Figlio. Accetta i primi 7 concili ecumenici, sino a quello di Nicea (787); respinge la su-premazia papale, la formula “Filioque” (“e dal figlio”. Espressione teologica introdotta nelcredo cattolico (Concilio di Toledo, 589) per indicare la processione dello Spirito Santo, nonsolo dal Padre, ma anche dal Figlio; la Chiesa orientale, con a capo Fozio, ripudiò la formu-

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la) nel Credo, il Purgatorio, la Immacolata Concezione, l’Assunzione della Vergine, il celi-bato dei preti (non quello dei monaci) tra i quali sono scelti i vescovi: Battezzano per immer-sione, si comunicano sotto la specie del pane e del vino; lingue liturgiche, sono il greco an-tico, lo slavo ecclesiastico, ecc… Sono in generale greci ortodossi i popoli che furono evan-gelizzati da Costantinopoli, quindi tutti i popoli slavi; non vi è una gerarchia unica, ma tan-te chiese nazionali (autocefale) quanti sono gli stati, retta dal metropolita della capitale, as-sistito per lo più da un sinodo, composto di ecclesiastici e laici. Rito greco: è quello dei cat-tolici greci in comunione con la Chiesa di Roma (greci uniti). Caduto l’impero latino di Co-stantinopoli, risorsero le speranze. L’imperatore Michele Paleologo, che desiderava, per mo-tivi, in verità più politici che religiosi, riconciliarsi con Roma, cominciò a trattare con i pon-tefici Urbano IV e Clemente IV, trattative alle quali parteciparono S. Tommaso d’Aquino eS. Bonaventura; ma non si concluse nulla. Finalmente poté concludersi la desiderata unionesotto il pontificato di Gregorio X nel II Concilio di Lione (1274), nel quale si adoprò ancheil Vecco, greco molto dotto, che venne poi nominato patriarca di Costantinopoli e che dife-se in molti scritti l’unione. I vescovi scismatici, e il popolo, fanatizzato dai monaci, però, nonvollero saperne, così che anche i rapporti dell’imperatore con Papa Martino IV si fecero as-sai freddi e sotto Andronico II, figlio e successore di Michele, venne pronunciato l’anatemacontro l’unione e contro coloro che vi aderivano e l’avevano procurata. Spintovi dalla pau-ra dei Turchi Andronico II si rivolse ancora alla Santa Sede. Ma poiché egli cercava di pro-curarsi l’aiuto degli occidentali contro i suoi nemici, più che la cessazione dello scisma, co-sì queste trattative con Giovanni XXII e con Benedetto XII rimasero infruttuose. Per la stes-sa ragione naufragarono anche le trattative dell’imperatore Giovanni V (1341-91) con Inno-cenzo VI e con i suoi successori. A migliori risulTati condussero le trattative intraprese dal-l’imperatore Giovanni VII (1424-48) con la S. Sede. Al Concilio di Ferrara - Firenze, invi-tati da Eugenio IV, comparvero personalmente l’imperatore Giovanni VII, Giuseppe patriar-ca di Costantinopoli e molti distinti vescovi e laici orientali. Lunghe ed aspre furono le di-scussioni, prendendovi parte specialmente per i latini il cardinale Giuliano Cesarini, Andreaarcivescovo di Rodi, Lodovico vescovo di Forlì, Giovanni di Torrecremata, e Ambrogio Tra-versari; per i greci Bessarione arcivescovo di Nicea e Marco Eugenico arcivescovo di Efe-so, nemico implacabile dell’unione. Finalmente ai 6 di luglio del 1439 si venne alla sotto-scrizione dell’atto di unione. La maggior parte però degli scismatici si mostrò avversa al-l’unione conclusa e già nel 1443 i patriarchi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemmela anatemizzarono. Anche nella capitale l’effettuazione di essa unione incontrò gravi diffi-coltà. Il nuovo patriarca Metrofane di Cirico (1443) incontrò fortissima opposizione e il suosuccessore Gregorio Mammete (dopo il 1445), per avervi voluto dare mano con energia, fucostretto ad abdicare (1451). Acerrimo oppositore dell’unione fu pure il monaco Gennadio.Costantino XI imperatore si adoperò invano per trarla ad effetto. Il 12 Dicembre del 1452 sicelebrò in S. Sofia con grande solennità la festa dell’unione alla presenza dell’imperatore, dimolti grandi, di trecento ecclesiastici e di una folla immensa. Ma non sortì altro effetto ched’inasprire sempre più gli scismatici. L’anno seguente il Sultano Maometto II prese Costan-tinopoli e mutò la Chiesa di S. Sofia in una moschea. I Turchi per fini politici favorirono loscisma. Anche gli “Armeni” scismatici, che al tempo di Innocenzo III, si erano sottomessiper breve tempo alla S. Sede, invitati da Eugenio IV, mandarono i loro delegati al Conciliodi Firenze e vi abiurarono nel 1439 i loro errori; ma l’unione incontrò in quel popolo gravidifficoltà e solo una parte degli Armeni si riconciliò con la Chiesa. Anche i “giacobiti”d’Egitto e altre piccole sette d’Oriente seguirono l’esempio degli Armeni e si riunirono allaChiesa (Sessione nona del 4 febbraio 1442). Tra le altre antiche sette orientali, i “maroniti”,monoteliti del monte Libano fin dal 1180 e i “bulgari” sotto il loro principe Calogiovanni nel1202 si sottomisero, sebbene per breve tempo, alla sede apostolica, sotto il pontificato di In-nocenzo III. Tra le sette della Chiesa greca, oltre ai “paulicciani” detti anche “bogomili”, de-vono essere ricordati gli “esicasti” (quieti, oziosi) del monte Athos della Macedonia, autoredei quali fu l’abate Simeone. Si distinse nel combattere questi religiosi il dotto abate Barlaa-mo (1341), chiamandoli massaliani ed “umbilicari” ne prese invece le difese Gregorio Pala-

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mas, che fu poi arcivescovo di Tessalonica. Il sinodo di Costantinopoli del 1341 decise con-tro Barlaam, che aveva accusato come diteisti i monaci del monte Athos per la loro dottrinaintorno alla “luce increata”. Anche due altri Concilii decisero in favore degli esicasti. Ne fupoi special difensore l’imperatore Cantacuzeno, che dopo il 1355 si fece, anch’egli, monacodel monte Athos. La controversia intorno agli azzimi finì, avendo dichiarato i Greci, che laconsacrazione può farsi tanto con il pane azzimo, quanto con il pane fermentato. Per quantoriguarda il Purgatorio si convenne, dopo varie discussioni, che la differenza fra i Greci e iLatini non riguardava l’esistenza del Purgatorio, ma il modo con il quale avviene la purifi-cazione. Vivissima fu la discussione circa l’aggiunta della parola “Filioque” al simbolo. Do-po la splendida difesa di questa aggiunta fatta da Giovanni di Ragusa (che la giustificò contestimonianza di padri greci e specialmente di S. Basilio e del Damasceno) e da AmbrogioTraversari, i Greci al fine cedettero e dichiararono, che, ”insegnando i padri latini che lo Spi-rito Santo procede dal Padre e dal “Figliolo” come da “un solo” principio e per “una sola”spirazione, e non ammettendo essi a questa parola “Filioque” altro senso di quello di queiPadri, che insegnarono procedere lo Spirito Santo dal Padre “mediante il Figliolo”, nessunadifficoltà presentavasi più da questo lato all’unione”. Dopo lunghe discussioni i Greci rico-nobbero anche la prerogativa della S. Sede, senza pregiudizio però dei diritti dei patriarchiorientali. Il decreto d’unione venne formulato dal Traversari e con poche modificazioni fusottoscritto dal Papa, dai cardinali, dai vescovi occidentali presenti, come pure dall’impera-tore greco e dai suoi vescovi, ad eccezione di Marco Eugenico. La parte che riguarda il pri-mato dice: (traduzione dal latino) “Similmente stabiliamo che la Santa Sede apostolica e ilRomano pontefice tengano il primato su tutta la Terra e che lo stesso Romano Pontefice è ilsuccessore del beato Pietro principe degli Apostoli e il vero vicario di Cristo e capo di tuttala Terra e si pone come padre e guida di tutti i cristiani e a lui da Cristo è stata tramandata lavera potestà nel beato Pietro di reggere e di governare tutta la Chiesa, come” anche “ è con-tenuto nei fatti dei concilii ecumenici e nei sacri canoni. Rinnovando inoltre l’ordine traman-dato nei canoni di tutti gli altri patriarchi; affinché il patriarca di Costantinopoli sia il secon-do dopo il santissimo Romano Pontefice, terzo per di più quello di Alessandria, quarto inve-ce quello di Antiochia e quinto quello di Gerusalemme, salvi naturalmente tutti i loro privi-legi e i loro diritti”. In Manuale di Storia ecclesiastica di Monsignor Enrico Bruck, Princi-pe Vescovo di Magonza. Bergamo Stab. Tip. S. Alessandro 1902). Dunque il suddetto Con-cilio (riassumendo), apertosi l’8 gennaio 1428 a Ferrara, poi trasferito a Firenze, proclamò(8 luglio 1443) l’unione della Chiesa greca con la latina, rotta poi nel 1472. Quindi Chiesacattolica (Roma) e Chiesa ortodossa (Atene). Roma e la religione cattolica ebbero un soste-gno notevole dalla Francia i cui re venivano chiamati “cristianissimi” e spesso prendevanole armi per le Crociate, il patriarcato di Mosca era, invece, a capo della Chiesa ortodossa. Siha quindi una divisione fra civiltà occidentale e orientale fin dalla Rivoluzione francese, chesegnò il trionfo della borghesia in occidente di contro alla società ancora agricola di tipo feu-dale in Russia e in Oriente.

Svalutazione dei romani da parte del Romanticismo

“Nel saggio del Rostagni – scrive Gramsci – si trovano molte osservazioni particolariacute, ma la prospettiva è sbagliata. Il Rostagni intanto confonde cultura libresca con quellaspontanea – che la sua svalutazione dei romani – continua l’autore dei quaderni – sia dovu-ta al Romanticismo specialmente tedesco (nel campo artistico) può essere vero: che abbiaavuto motivi pratici immediati, ecc. , può anche essere vero. Ma il Rostagni avrebbe dovutoricercare se tuttava non ci fosse in questo unilateralismo una verità sia pure unilaterale. Ve-rità di cultura, non estetica, perché l’‘autonomia’ estetica è degli artisti singoli, tra l’altro, enon dei raggruppamenti culturali; e sia pure “autonomia di cultura”che certo dovette esiste-re, come appunto dimostra il fatto della scissione culturale tra Oriente ed Occidente, traChiesa cattolica e Ortodossismo bizantino, ecc. Ma allora occorrevano non motivazioni su-

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perficiali, ma più approfondite ricerche non solo in letteratura ma nella cultura in generale.”(op. cit. p. 16) - (Qui si parla di Augusto Rostagni (n. Cuneo 1892). Fu filologo, prof. di let-teratura latina a Torino (1928): studi su Pitagora (1924), sui poeti alessandrini (1916), su Vir-gilio (1933), sull’Arte poetica di Aristotele (1927) e di Orazio (1930); manuali di letteraturalatina e greca) Qui si fa distinzione fra cultura “libresca” e cultura “spontanea”: la prima èquella che è contenuta e tramandata dai libri che trattano delle varie discipline o umanisti-che o scientifiche la seconda è la cultura diffusa di un popolo, di una civiltà tramandata digenerazione in generazione. Il Romanticismo è un movimento culturale che si sviluppa allafine del secolo 18° e ai primi del 19° e che ha la sua manifestazione più cospicua nella let-teratura e nell’arte come opposizione al Classicismo. Sul piano della concezione della storiaesso si presenta con caratteristiche diverse dall’Illuminismo, il fenomeno spirituale che lo hapreceduto e che immette nel divenire storico posizioni critiche e problematiche, poiché ve-de nel passato, errori, pregiudizi, violenze. Il Romanticismo, invece, si configura come unafilosofia della storia “giustificazionista” e tradizionalista, che dà un valore assoluto alle isti-tuzioni basilari del passato: la famiglia, i ceti sociali, la monarchia, lo Stato, la Chiesa. Inol-tre esso trasforma il Medioevo – che per gli illuministi era l’età della barbarie – in un’epocadi fede, di unità spirituale, di fantasia e di imprese cavalleresche, in cui si forgiano le ener-gie che daranno vita alla nazionalità moderna, di conseguenza il mondo romano viene “sva-lutato” a tutto vantaggio non solo del mondo medievale, ma anche di quello greco. Tutto ciòfu conseguente ad un’“autonomia di cultura” che si raggiunge, rispetto al passato dalla finedel XVIII secolo fin quasi alla metà del XIX secolo. Una cultura che non privilegia più laragione illuministica, che rivaluta la religione ed anche le religioni positive, che rifiuta la sta-ticità dell’essere a vantaggio del divenire dialettico, che esalta, erede dello Sturm und Drang,l’esplosione di oscure forze vitali, la passionalità, l’irrazionalismo, l’uomo come “Uber-mensch”, che vede nell’antico mondo germanico e nella sua lingua elementi di modernità edi genuinità, come li vede Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808). Il “giusti-ficazionismo” storicistico del Romanticismo si spiega col fatto che lo spirito, come poi rive-lerà Hegel per molti versi ancora legato al Romanticismo, si articola in “figure” necessariee nello stesso tempo destinate a svolgersi in “forme” susseguentisi, in un continuo divenire,che è un fluire continuamente arricchendosi. “Autonomia di cultura” è appunto quella delRomanticismo, come autonoma è la cultura che divide oriente ed occidente. “E molto impor-tante – continua Gramsci – il libro di Giuseppe Toffanin Che cosa fu l’Umanesimo?” Il Ri-sorgimento dell’antichità classica nella coscienza degli italiani fra i tempi di Dante e la Ri-forma. Il Toffanin coglie fino ad un certo punto il carattere reazionario e medievale del-l’Umanesimo: “Quel particolare stato d’animo e di cultura a cui l’Italia, fra il Tre e il Cin-quecento, si dà nome di Umanesimo, fu una ‘riscossa’ e rappresentò, per almeno due secoli,una ‘barriera’ contro certa inquietudine eterodossa e romantica che era un germe prima del-l’età comunale e prese poi il sopravvento nella riforma. Esso fu spontanea conciliazione didiscordanti elementi ideali, e accettazione di limiti, antifilosofica per eccellenza: ma codestaantifilosoficità, una volta pensata e accettata, è anch’essa una filosofia.

Mi pare appunto che la questione di ciò che fu l’Umanesimo non può essere risolta chein un quadro più comprensivo della storia degli intellettuali italiani e della loro funzione inEuropa. Il Toffanin ha scritto anche un libro sulla Fine dell’Umanesimo e il volume sul Cin-quecento nella collezione Vallardi” (op. cit. p. 17).

Valla e la filologia

“La nuova indagine filologica – scrive Garin – applicata alle questioni religiose, ebbe adesplicare un duplice compito e venne, quindi, a raggiungere un doppio scopo: fu, in primoluogo, l’arma con la quale si combatterono i fondamenti stessi delle pretese politiche dellaChiesa; servì in secondo luogo, a colpire la sua pretesa a essere unica depositaria di una in-terpretazione definitiva ed inoppugnabile della parola di Dio e, perciò, mediatrice necessa-

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ria fra l’uomo e Dio” (E. Garin: Il Rinascimento italiano ediz. Cappelli p. 256). Le due cor-renti hanno l’una come antesignano Lorenzo Valla, l’altra i gruppi platonici fiorentini.L’opuscolo del Valla sulla Donazione di Costantino, (De Costantini donatione), steso rapi-damente nella primavera del 1440 è famosissimo. È lo” smascheramento “ di un “falso”, diun documento apocrifo, probabilmente del secolo 8°, secondo il quale l’imperatore Costan-tino, guarito dalla lebbra con il battesimo da Papa Silvestro, nel 313 avrebbe concesso a luie ai suoi successori Roma, l’Italia e tutto l’Occidente; accolto nelle collezioni canonichepseudoisidoriane, ma ancora ritenuto dubbio nell’età ottoniana, fu usato con piena efficacialegale da Leone IX (1053), compreso nel Decreto di Graziano e accettato senza sospetto fi-no al secolo 15°. Fu dimostrato, come abbiamo detto, non autentico, con argomentazioni sto-riche e filologiche, dopo le critiche del Cusano. La critica del Valla, se mirava ad eliminarela laicizzazione della Chiesa, aveva anche lo scopo di farne davvero una Chiesa spirituale,purgata dalla corruzione e fondata sulla pace, e quindi non più dilaniata dalle guerre e dallelotte politiche. La polemica antiumanistica irride all’ipocrisia inumana dell’interiorità; le an-notazioni critiche sul Nuovo Testamento sottraggono alla Chiesa la pretesa di essere la defi-nitiva interprete della Sacra scrittura. La lotta contro la laicizzazione, la polemica control’ipocrisia fratesca, la revisione della interpretazione della Bibbia conducono direttamente aduna religione vissuta nella interiorità della fede, in un rapporto intimo con Dio. Un appellodunque all’interiorità voluto dai platonici, ma in fondo caratterizzante ogni aspetto del mo-to rinascimentale. Una delle armi per combattere la laicizzazione e la decadenza morale del-la Chiesa è la “filologia” che, con Lorenzo Valla, diventa anche filosofia fondata sulla liber-tà dell’uomo. Anzi la filologia è la scienza nuova ed emblematica dell’Umanesimo, tuttoproteso verso la riscoperta del mondo antico.

Savonarola

Abbiamo parlato del Savonarola, grande predicatore e fustigatore dei corrotti costumi.Qui di seguito viene presentato con una certa acredine da uno studioso di parte cattolica nel-le pagine della sua opera Manuale di storia ecclesiastica: (Ai tempi di Alessandro scrivequest’ultimo sorse l’ardito e dotto Savonarola (nato a Ferrara nel 1452), demagogo riforma-tore in tonaca da frate e implacabile declamatore contro i vizi dominanti, il quale respinsel’invito del Papa di recarsi a Roma e rispose alla sentenza di scomunica pronunciata da Ales-sandro, coll’invitare i principi a radunare un concilio ecumenico per deporre il Papa e ven-ne ai 23 di maggio del 1498 per le sue false profezie e pé suoi fanatici discorsi condannatoa morte a Firenze”.

Si nega poi da parte del suddetto autore che Savonarola sia stato “precursore di Lutero”:“A grande ingiustizia – afferma – e in manifesta opposizione alla storia viene annoverato trai precursori di Lutero il dotto ed intemerato Savonarola, domenicano del convento di SanMarco a Firenze; poiché quest’uomo, pieno di zelo per la religione e per il buon costume, ri-mase fino all’ultimo respiro fedele alla religione cattolica ed alla sua professione e morì nel-la più perfetta unione colla Chiesa, espiando con una morte penitente i falli commessi negliultimi anni della sua vita per una passionata irritazione di animo” (op. cit. p. 516) Savonaro-la, processato, fu giudicato eretico pentito e quindi condannato prima con impiccagione equindi col rogo. La esecuzione della sentenza viene affidata al braccio secolare. Sono bru-ciati vivi solo gli eretici impenitenti. I falli commessi dal Savonarola sono attribuiti, da par-te dell’autore sopra citato, ad una “irritazione d’animo”. Quei falli, però, adombrano un’esi-genza di riforma della Chiesa e dei costumi ecclesiastici e secolari, di cui si sentiva da tem-po la necessità e che si espressero nei “roghi delle vanità” che il “dotto ed intemerato” fratestimolò con le sue prediche.

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Curione e la pedagogia

Tutto ciò per quanto riguarda l’Italia, ma non bisogna dimenticare che molti intellettualiitaliani operarono, perché perseguitati e fuoriusciti, anche in un quadro europeo. Uno di que-sti fu Celio Secondo Curione (1503-69). Il Curione, un piemontese di Moncalieri, il più fa-moso amico di Camillo Renato, dopo una breve sosta a Losanna, si fermò a Basilea. Egli èamico anche di Lelio Sozzini, dello Stancaro, del Bullinger, capo morale della comunità ita-liana di Basilea, professore in quella università, corrispondente ed amico del capo dellaChiesa zurighese. Il Bullinger manda al dotto italiano la “Concordia” dei zurighesi, con Cal-vino sul modo d’intendere i Sacramenti. Il Curione, richiesto di un parere, si mostra, in fon-do, non d’accordo. Il “Consensus”, la Concordia cioè, per il Curione, lede la purezza delladottrina zwingliana, che va difesa. I Sacramenti, nell’accordo, ricevono definizioni e attribu-ti che il Curione non saprebbe approvare: “Appendices vocantur evangelii, sigilla, organa:dicuntur confirmare, continuare, ac reparare communionem Christi ipsius, conferri per ea di-cuntur bona quaedam, augeri quodammodo Christus in nobisdum illa usurpamus” (p. 95). Sielencano sopra dunque caratteristiche dei Sacramenti in senso oggettivo richieste con insi-stenza e ottenute con abilità da Giovanni Calvino, per salvaguardare l’unità della Chiesasvizzera, quelle che il Curione non può approvare come nello stesso tempo non le possonoapprovare i suoi amici Lelio Sozzini e nei Grigioni Camillo Renato. Il Curione critica la con-cezione oggettiva dei Sacramenti sui quali esprime l’idea che non diano alcun frutto, condi-videndo la critica del Renato secondo cui “i Sacramenti (Cena e Battesimo) sono semplice-mente segni, indicazione della fede interiore, e come tali non hanno alcun frutto per il cre-dente; in quanto non accrescono la sua fede, ma si limitano ad esprimerla”. Quelle caratteri-stiche dei Sacramenti elencate dunque non si trovano nella Scrittura (“Sunt ab ulla simplicidivinarum literarum consuetudine… aliena”), sono per Curione semplici costruzioni logichesenza fondamento, in altre parole quasi a “flatus vocis”. Non le sottigliezze intellettuali de-gli italiani, dunque, costituiscono un pericolo, ma il progressivo affermarsi nelle chiese sviz-zere di dottrine, quelle calviniste, cioè alla dottrina zwingliana accentuata in senso soggetti-vistico. Ma affermata la propria posizione che comunica all’amico nella lettera, sostiene chegli eretici possono avvalersi dello strumento della “interpretazione” per addattarsi alle nor-me loro imposte nelle comunità dove si rifugiavano, senza rinunciare alle proprie opinioni.“Sed tamen – scrive – ut idem dicam saepius, commoda possunt interpretatione excusari”. Eintanto accetta l’interpretazione dei zurighesi, cioè le loro riserve. Il Curione si mostra mol-to prudente non vuole creare contrasti ed attriti religiosi. Infatti chiedendogli il Bullinger nelgennaio del 1545 di tradurre in italiano una sua risposta polemica ai luterani, sempre a pro-posito della questione dei sacramenti, il NOSTRO risponde che non è bene farlo. Se infattiparli di Lutero – scrive – sarà di gran lunga più prudente… se a colui che scrive in tedesco,risponderete solo in tedesco, affinché le altre nazioni e le altre lingue, ignorino ciò che nonpuò essere saputo senza molestie e pericolo. Dopo aver ricordato le dispute fra le antichechiese cristiane, che vi fecero danno, afferma con tono di distacco che non va trascurato chese Lutero è preso dalla fretta e vuole che tutto il mondo conosca queste cose, a voi deve sem-brare miglior partito, finché la cosa sarà interamente vostra, che le vostre dispute siano chia-rite nelle vostre lingue. “È ancora la posizione degli italiani, come s’incontra nella lettera delprete e grammatico che chiede libri e consigli, però ammonisce che non contano le disputesui Sacramenti, ma importa solo la fede; come si ritrova in Giorgio Siculo, nel Valdés, in Ao-nio Paleario, e anche nel Renato” (cant. p. 97).

Le dispute e le discussioni di questi riformatori erano un mezzo con cui speravano di farvalere e tutelare il loro modo soggettivo e spirituale d’intendere il rinnovamento della vitareligiosa e se in essa ebbero maggiore successo intellettuale dei loro antichi protettori ed oraavversari, non si deve dimenticare che la loro ispirazione originale era soprattutto il tener inpregio il valore della fede nell’economia della salvazione, il resto aveva un’importanza se-condaria, anzi, sembrava loro più pericoloso che utile. Il Curione sta tutto dalla parte del Bul-linger, seguace di Zwingli, e non solo per complimento, se denuncia il cattivo esempio di Lu-

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tero nocivo per “le nostre chiese ancora tenere verginelle”, ma in fondo, anche se propensoalla dottrina Zwingliana, nei suoi caratteri generali, poco gli interessa, che prevalga più unaformula che l’altra. Del resto il Curione conosceva soltanto genericamente il pensiero delloZwingli perché nella stessa lettera chiedeva che l’amico gli procurasse “le memorie delloZwingli”, anzi domandava “dove fossero state pubblicate”, e solo se possibile e facile chie-deva che il Bullinger le comperasse per conto suo. “Né infatti ho conosciuto altro modo e al-tra via, attraverso cui entrarne in possesso”. Quattro anni dopo lo vediamo sottilizzare sullaterminologia del “Consensus Tigurinus” (Tigurino del Cantone di Zurigo), però, con lo stes-so motivo informatore: le nuove formule e le nuove determinazioni dottrinali che Renato(Paolo Ricci) chiama logica astratta e quindi filosofia portano a contrasti e disunioni, men-tre è necessaria l’unità. Questa si ottiene però nella libertà della vita interiore e nella caritàreciproca, non con mezzi disciplinari esterni. Il fatto è che il Curione fonda il suo atteggia-mento di indifferenza nei confronti delle dispute teologiche, in questo primo periodo del-l’emigrazione italiana in Isvizzera, soprattutto su un pensiero mistico, già elaborato nel sen-so della cultura filosofica italiana del primo Cinquecento, oltre che su un suo modo di vede-re le cose religiose. “Egli aveva infatti pubblicato a Venezia (1540), prima di emigrare defi-nitivamente in Isvizzera, un’operetta filosofica, della quale in Isvizzera preparò una nuovaedizione, che si distacca dalla prima nello stile, più fiorito, del titolo, che ora suonava Coe-lii Secundi Curianis, Araneus, seu de Providentia Dei, libellus vere aureus cum aliis nonnul-lis eiusdem opusculus (Basilea 1544)… ed anche nella precisione dottrinale” (cant. p. 98).La seconda edizione è quella definitiva e fondamentale, poiché, a parte la stessa dedica delvescovo Guglielmo Pellicer, nel 1540 ambasciatore di Francia a Venezia, della prima edizio-ne sembra che Curione si sia completamente dimenticato.

Il motivo fondamentale del piccolo trattato è l’idea che in tutte le creature operi la “vir-tus” di Dio, intesa come potenza che opera nel mondo, con espresso richiamo al virgiliano“spiritus intus alit”. Dio Padre è identificato con questo “esse” o “natura” onnipresente e on-nioperante. Il Curione, come lo spagnolo Serveto, accentua l’invisibilità di questo Dio (ente,spirito, monade, come anche insiste a dire), il quale abita inaccessibile la regione della luce,impossibile a vedersi come lo è la propria mente e il proprio spirito. Quando allora la Scrit-tura parla di qualcuno che ha “veduto” Iddio si deve capire che si tratta di una rivelazione informa speciale e non di una percezione sensibile; la rivelazione, poi, data la invisibilità di Dioe l’incapacità della mente umana ad andare oltre la cognizione fondata sui sensi, presuppone“la supposizione di qualche cosa di visibile, non l’apparizione della sostanza divina”. CosìCristo, nel quale Dio ci è apparso, “si è fatto visibile a noi”, è una “cosa visibile”, aveva det-to il Serveto, è puro uomo, sembra voler accennare il Curione, benché non faccia esplicita-mente questa affermazione. “Tipicamente neoplatoniche, e indipendenti dal Serveto, sono in-vece le considerazioni sulla diade, sulla quale il Curione insiste molto, sulla triade, sulla te-trade e sulla decade, numero perfetto” (op. cit. p. 99). Ma, se c’è “una sola natura, e questasempiterna, occorre che essa indubbiamente sia Dio. Bisogna dire che tutto ciò che è, è Dio,e che o nulla perisce, o Dio muore con le cose create, e allora non è eterno. E se si dice chetutto è eterno, si torna ad Aristotele quello dei patavini e degli averroisti. Curione svolge que-sto motivo nel senso della continua operosità della Provvidenza divina nel mondo: ‘Come in-fatti se separerai dall’uomo quella forza con la quale intende, avrai distrutto l’uomo: cosìavrai fatto un masso’. Proprio, però, questa onnipresenza dell’azione divina porta Curione aduna conclusione panteistica ‘denique com prprie Deum tantum esse, per seque consistere di-catur… Non aberrabit, opinor, qui quodest, quo cohaeret et constat, Deum esse fatebitur’.

Di qui il Curione deduce non solo la eternità o immortalità dell’anima che è divina, maanche la eternità ed immortalità della materia. “Le cose, corpi inanimati come quelli anima-ti, sono formate da una ‘admistione elementarum’ [commistione di elementi]; gli elementi alor volta derivano come rivi da un sol fonte: e le cose, al loro cessare si risolvono nei loroelementi finché non prendano di nuovo un’altra forma. Il Curione afferma di aver preso daPitagora questa dottrina, della palingenesi universale, concepita come metamorfosi della ma-teria.

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“Nihil est aliud quam una cum materia ipsa spiritus (qui quidem in omnibus et per om-nia diffusus est) migratio, nempe, ut cuius illa existit materia, eius pariter spiritus in novamillam formam abeat”.

Curione non crede assolutamente che Pitagora abbia insegnato la teoria della metempsi-così che considera assurda e non degna di quel “grande patriarca della filosofia”. Poi dedu-ce la tesi della onnipresenza di Dio nelle cose dall’“ego sum qui sum” biblico, e dall’iniziodel Vangelo di Giovanni (e qui va notato ancora che la 1a edizione parla del Verbo come“oracolum Deique filius”, nella seconda insiste nell’identificazione di esso con Gesù Cristo).Dal commento della orazione di Paolo gli ateniesi trae le domande: “Quid clarius dici pote-rat? Quam nos vivere, nos in Deo moveri et constare? Nos Deo ortos esse? O generis homi-num excellentiam, o dignitatem…”. La narrazione della favola di Minerva e Aracne conte-nuta nel trattatello suddetto è tipicamente umanistica. Viene interpretata allegoricamente, eMinerva è fatta divenire il simbolo di Cristo “aeterna patris sapientia”, mentre Aracne di Eva,che ha voluto emulare la sapienza divina, causando la decadenza del genere umano, e checerca, con vane fantasie, come Adamo ed Eva, con la foglia di fico, di coprire la propria pec-caminosità: “Ma Dio vuole che ci fidiamo di lui, e che ritorniamo a Dio: il quale solo ha sa-puto rettamente ricoprire i nostri peccati”. “Gli stessi motivi ritornano nel commentario al Icapitolo dell’Evangelio giovanneo, che è stato stampato dal Curione in appendice alla secon-da edizione: identità della ratio divina che è insieme causa e origine di tutte le cose, con Diostesso: nam Deus ipsa ratio erat! (p. 101). Si insiste inoltre sul motivo della invisibilità diDio e sulla necessità di prender forma umana. Ma non potendo Dio essere visto con gli oc-chi in nessun modo, ed essere capito con la mente, piacque rivestire qualche persona, con laquale apparisse come nella sua viva immagine”. Dio si esprimeva in luce e in voce spiritua-le la quale fu chiamata logos, cioè verbum, discorso, oracolo e sapienza. “È evidente qui losforzo di unire il motivo mistico della sapienza divina con quello filologico e razionalisticodella parola intesa in senso letterale”. In questo “verbo” eterno, ragione di Dio, causa e ra-gione di tutte le cose, era quella vita grande, e per così dire una certa fonte perenne di vita,e cercava di attirare a sé gli uomini, come una fiaccola. Gli uomini, però, erano nelle tene-bre, e non capivano, ed allora anche questo verbo decise di assumere una forma, “assumerequalche volto, con il quale Dio potesse insegnare all’uomo in modo più famigliare”. Con lavenuta di Cristo, con il suo annuncio e il suo sacrificio, è stata data all’uomo la possibilità dirinascere in spirito. La fede in Cristo è, come per il Serveto, credere all’Evangelo della rina-scita, onde si partecipa alla prerogativa dei figli di Dio. Qui il Curione si esalta nella consi-derazione mistica delle conseguenze dell’incarnazione: “O metamorphosin omnibus saecu-lis admirandam. Deus erat verbum, verbum vita, vita lux hominum, lux caro, caro homo, ho-mo Deus, laudandus in omnia saecula”. Quest’ultima sequenza è la scala mistica di Giacob-be, attraverso la quale, in sei gradini, si sale dall’uomo a Dio e si scende da Dio all’uomo.Sono motivi neoplatonici, motivi di speculazione orientale forse cabbalistica, presenti e dif-fusi nella cultura italiana dopo la opera di Pico della Mirandola, ; e insieme motivi che sipossono far derivare idealmente dalle sette ereticali medioevali con la loro speculazione sullogos e dalla tradizione gnostica. “La fusione di tutti questi motivi nella religiosità riforma-ta è analoga a quanto si soleva dire e proporre dai platonizzanti francesi alla corte di Mar-gherita di Navarra, e anche a quanto Calvino ci fa sapere dei ‘libertini’, che rinnovano (ocontinuano) il pensiero della ‘secta novi spiritus’ e secondo i quali l’essenza divina si mani-festa come spirito negli esseri creati, e la rinascita cristiana è nascere nello spirito, onde leanime (spiriti) degli uomini sono lo stesso spirito divino che opera in essi (e viceversa gli uo-mini rinati in Spirito sono Dio stesso)” (O. Cantimori, op. cit. p. 102).

L’annuncio della riforma luterana poi zwingliana non poteva dunque avere avuto perquesti riformatori (Camillo Renato, Giorgio Siculo, Michele Serveto, Celio Secondo Curio-ne) che elaboravano con diverse preparazioni e da differenti punti di vista lo stesso concet-to dell’avvento del regno dello spirito e della rinascita spirituale, altro significato che quel-lo apocalittico della fine del regno dell’Anticristo e della pienezza dei tempi. In altre parolequesti uomini erano indotti dal motivo della riforma della cristianità, non ad una necessaria

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purificazione della Chiesa, tesa a conservarla rinnovandola, ma ad interpretare l’azione deigrandi riformatori come punto di partenza per una completa e radicale negazione del passa-to, e non poteva avvenire altrimenti date le premesse di queste concezioni filosofiche e mi-stiche della vita in ispirito. Siamo ormai non solo al di fuori della Chiesa cattolica, ma an-che al di fuori del protestantesimo nelle cui comunità questi uomini vivono adattandosi alleloro dottrine, celando, il più possibile i contrasti e le divergenze, ma dove almeno era possi-bile la negazione dell’Anticristo, e dove si sperava di poter vivere secondo lo spirito nella“libertà dell’uomo cristiano”. Il Curione ne è un rappresentante esemplare. Egli era in rap-porto con il mondo degli anabattisti e degli “spirituali”, per contatti personali e per analogied’idee, ma nello stesso tempo era capo morale della Comunità italiana di Basilea, responsa-bile della vita ecclesiastica di questa di fronte alla Chiesa basilese, insegnante nella Univer-sità, amico dei capi religiosi della Chiesa svizzera. Egli, per non incrinare la concordia fra iriformati, non manifestò mai apertamente la sua opinione se non nelle sue opere, contento dispargere semi delle sue idee, fiducioso della germinazione spontanea di essi. Nelle disputeteologiche entrava solo se richiesto, e con sostanziale indifferenza, come abbiamo già nota-to; esse anche per lui come per il Serveto, per il Siculo e per Renato erano, come si disse poi,sottigliezze scolastiche. Il Curione, data la situazione nella quale si trovava, si proponeva diraggiungere tre scopi unitamente: il minore pericolo, una grande efficacia, e corrisponderealla sua attività professionale di nsegnante. Già la “devotio moderna” aveva dedicato la suamaggiore attività all’insegnamento; e grande fama e diffusione hanno avuto i libri scolasticidell’amico e compagno di idee del Curione, il savoiardo Castellione: ma nell’italiano a que-sti elementi si aggiungeva la grande fede, schiettamente umanistica, nella efficacia dell’edu-cazione. Jacopo Nardi (1476-1563), storico fiorentino ed esule repubblicano, pensava addi-rittura, ripetendo certo un’opinione diffusa nel primo Cinquecento che “l’educazione e la di-sciplina che l’uomo riceve da’suoi genitori era molto potente cagione a causare nel mondo”la grande diversità degli uomini e delle società umane, ed elevava l’educazione a motore del-la storia, intendendo per essa non solo “la dieta del vitto domestico e familiare, e tutta l’os-servanza de’costumi e istituti paterni”, ma anche “la religione, le leggi, le consuetudini e lecerimonie comuni e i comandamenti de’magistrati e de’principi e signori…; e finalmentetutti quegli ordini e maniere di vivere che si osservano e mantengono o volontariamente oforzatamente…, e quinci crediamo esser procedente e procedere quotidianamente le muta-zioni e varietà degli stati, non più de’principi e delle città particolari che de’popoli e delleintiere provincie e nazioni…”. Un concetto analogo dell’educazione ha il Curione, infatti, di-ce: “Tu sai quanto importa esser nato e allevato in una religione, e molte volte più importal’esserci allevato che nato”. A prescindere dalla scarsa importanza, adombrata nel suddettodiscorso, che gli “spirituali” e gli anabattisti italiani davano al Battesimo e a prescindere, inparticolare, dalla loro critica al battesimo degli infanti, si può notare che il Curione concepi-sce anch’egli, umanisticamente, l’educazione come forza principale della vita anche religio-sa. “Non è la dottrina pedagogica del Curione, quel che qui importa, – commenta Cantimo-ri – col principio generale che non è cristiano chi nasce nella religione cristiana, ma chi lavive, con i doveri dei genitori, dei maestri ecc. , ma proprio la conseguenza di quel princi-pio generale e il pensiero in essa implicito, che è dunque comprensibile solo sullo sfondo diquella dottrina spiritualistica e della idea umanistica dell’educazione” (op. cit. p. 104). E ol-tre a quel che il Curione ritenesse si dovesse insegnare, in senso scolastico o specificamen-te religioso, oltre al suo pensiero sui punti obbligati di ogni pedagogia, egli proponeva qual-cosa di particolare, che per noi ha un notevole significato. Accanto, cioè, ai principi che lascelta della professione deve essere fatta secondo le disposizioni naturali, che ogni fanciul-lo va trattato individualmente, ecc. , accanto all’importanza data al catechismo e all’esempiodei genitori, per cui dalla pedagogia si passa alla esortazione morale, va rilevato nella con-cezione pedagogica dell’umanista piemontese un elemento che lo avvicina di nuovo al mon-do dell’anabattismo: l’importanza assegnata al lavoro manuale. Oltre al gioco, il Curioneproponeva, per il fanciullo l’apprendimento di una “qualche arte onesta”, cosa migliore delgioco stesso, seguendo ognuno la propria inclinazione, e “istinto di natura”: e distaccandosi

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esplicitamente dal suo Cicerone, dichiara di ritenere oneste ed onorevoli tutte quelle “arti”,cioè mestieri, “che utili sono et honorevoli alla vita comune, come sono de’fabri di ogni ma-niera, de’calzolai, de’tessitori, de’sarti, de’agricoltori et de altri simili. Io seguo la natura del-le cose e la ragione: Tullio ha seguito l’opinione, et persuasione de’nobili et ricchi: ma nonfu già così nelli antichi tempi…” (op. cit. p. 105)

Oltre a giustificare il lavoro “meccanico” per gli scopi ad esso logicamente connessi co-me l’utilità e l’occupazione da preferirsi al gioco e all’ozio e da alternarsi alle lettere, con isoliti argomenti della morale e della salute, ci deve essere un fondamento per questa esalta-zione del lavoro manuale che non si risolva più sul piano del generico consiglio, ma su quel-lo di imperativo a carattere religioso: e quello che presenta il Curione, così ingenuamenteformulato, si spiega soltanto con la prassi anabattista: ”Oltre tutte queste cause, bisogna tra-vagliare ed operar con le nostre mani, a ciò che con lo artificio et industria nostra avanzia-mo qualche cosa da dar a poveri, et sovenire a quei che non possono lavorare… ”. Ritornaanche il motivo ereticale medioevale: “Il padre Adamo, benché da Dio nell’abundanzia diogni cosa et nelle delitie fosse posto, nondimeno per comandamento di Dio era tenuto lavo-rare: il qual comandamento non è abrogato, o diminuito dopo il peccato, ma stabilito et ac-cresciuto. Voce di Dio fu quella: Nel sudore della tua fronte, ti guadagnerai il pane tuo…”[(Della Christiana creanzia dei figlioli, Basilea 1545, cap. XXI e XXII. )]. Dopo aver confor-tato la sua affermazione con una citazione virgiliana, che viene estesa dal lavoro dei campi,ad ogni genere di lavoro, e con gli esempi di Cristo, di San Paolo e del suo amico Aquila conla moglie Priscilla, ebrei convertitisi al Cristianesimo, Curione conclude “Pertanto non vi siaalcuno che si presuma senza lavorare puoter vivere giustamente “ e cita le parole dell’Apo-stolo: “se alcuno fra voi non lavora, che esso non mangi”. E questo vale anche per le fan-ciulle, non solo per i fanciulli. “Dunque, lavoro manuale per uomini e per donne, non soloper ragioni pedagogiche o igieniche o caritatevoli, ma perché ogni lavoro è onorevole, e so-lo i ricchi dicono, per bocca di Cicerone, il contrario, e perché nessuno può considerarsi giu-sto che viva senza lavorare: e si deve intendere, manualmente” (p. 106). Si arriva così ad in-vestire il concetto dei doveri, della vita sociale, conducendo all’estremo quelle tendenze a farprevalere nella vita religiosa l’elemento morale, che già nelle sette ereticali del medioevo in-duceva a negare validità ai sacramenti amministrati da sacerdoti indegni, ed ora giunge a ne-gare giusta condotta di vita a chi non lavora manualmente. “Il predominio dell’interesse eti-co su quello religioso nella dottrina del Curione sull’educazione è mostrato anche dal suo ca-rattere che è stato giustamente definito come ‘non necessariamente religioso’ nel senso del-la religiosità dei riformati, che conduceva nella vita quotidiana l’ascetismo cristiano e la pre-occupazione devozionale. Il che non era in contrasto con il misticismo del Curione, perchéproprio la credenza nella rinascita in spirito e nella ispirazione divina rendeva vano il senso‘protestante’ della necessità della conquista della fede ogni giorno, e insieme induceva a ve-dere nella semplice vita morale l’effetto della rinascita. A questa maniera si aveva quasi unasovrapposizione di due elementi, il misticismo della speculazione sullo spirito divino conti-nuamente operante nel mondo, e la fiducia prammatistica nella efficacia dell’educazione mo-rale” (op. cit. p. 106). L’importante è che il fondamento dell’educazione del Curione rivelas-se spunti anabattistici. Anabattistici e umanistici insieme sono anche i principi del catechi-smo del Curione, apparso prima in latino, poi in italiano, che rivela lo sforzo di semplifica-re all’estremo la dottrina religiosa: “Il primo officio di pietà… è conoscer un Dio solo…L’altro officio di pietà è riconoscere l’huomo come fratello…”. Nel catechismo lo spiritosanto è inteso come ‘virtù divina’ che si identifica con la persona divina, e si insiste a lungosulla legge di natura, e nella conoscenza naturale di Dio: “Imperò che niuna legge può con-venire a tutti gli Huomini del mondo, se la non è tratta et espressa dal natural giuditio e sen-timento comune non corrotto et dalla coscientia di tutti, come è la legge del Decalogo”; “Checosa sai et conosci di Dio per questo sentimento dell’animo, et per questo tuo natural instin-to? Io ne so et intendo questo, che nel mondo vi è una certa natura, una sostanza, et un cer-to animo, o ver spirito eterno, senza principio et senza fine, il quale chiamiano Iddio, et quel-lo doversi Honorar et adorar da tutti gli Huomini del mondo: la qual cosa ci è efficacemen-

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te dimostrata dalla quasi infinita bellezza di questo mondo, et dall’ordine meraviglioso chevediamo nei celesti corpi et lumi” (op. cit. p. 107). Come il Consensus Tigurinus poteva es-sere accettato con le riserve di una interpretazione adatta, così con una interpretazione adat-ta queste dottrine, che sfuggivano alla condanna delle Chiese protestanti, potevano assume-re carattere radicalmente eretico” (p. 107).

Curione e il De Amplitudine

A Basilea, il Curione credette, anche dopo gli avvenimenti del 1533 (Viaggio in Italia diLelio Sozzini e suo ritorno in Svizzera ecc. ), di potere continuare la sua opera, sostenendoun principio teologico in seguito al quale veniva difesa la tolleranza religiosa. Non si attac-cava Calvino, e nemmeno il principio della “predestinazione”, però si giungeva a negareesplicitamente l’idea della “massa damnationis” e della malvagità congenita del genere uma-no. Si tratta dell’operetta intitolata De Amplitudine Beati Regni Dei, Dialogi sive libro duo,che riecheggia il titolo di uno scritto di Erasmo, ma il contenuto è del tutto diverso, perchéil fiammingo si era limitato ad esortare alla fiducia nella misericordia divina, mentre il pie-montese cerca di dimostrarne filosoficamente l’ampiezza di contro alla asserita ristrettezzadella concezione che ne avevano gli innominati avversari. La operetta è dedicata a Sigismon-do Augusto di Polonia, che destava allora le speranze non solo di Calvino e dei capi dellaChiese elvetiche, ma anche degli irregolari perché la sua azione stava per favorire non solola penetrazione in Polonia del luteranesimo e del calvinismo, ma anche del socinianesimo ounitarismo. “Nello ampolloso stile ciceroniano che gli è proprio, il Curione promette al repolacco gloria sopra ogni altro se seguirà la giustizia e la religione: e riprende il vecchio mo-tivo della LUNA e del SOLE, la giustizia l’una, la religione l’altro, che infiamma con loamore delle cose celesti, e rende immortali i mortali; e così via” (op. cit. p. 184-85). Ufficiodell’autorità regia è anche fare in modo che si insegni ai popoli la vera dottrina evangelica:non costringerli con la forza a seguire la religione, e pertanto è sufficiente procedere a rifor-me istituzionali, riti ecc, che si conceda di nuovo la libertà di predicazione e di discussione,in modo che la verità emerga da sola. Chi manca di devozione e di fede è inutile a Dio: equeste virtù non si possono trovare in coloro che sono costretti a seguire una dottrina che nonsentono. Già nella epistola dedicatoria a Sigismondo Augusto il Curione avverte che nellasua operetta si troverà qualche novità, ma non ci si deve allarmare di fronte ad esse, perchéi tesori della scienza divina sono incessanti, e c’è sempre qualcosa di nuovo da ritrovarvi.Tutti possono ripetere le cose conosciute, solo pochi trarre alla luce le verità celate e nasco-ste negli intimi recessi della dottrina. “Uno di questi arcani – ecco il tema dell’operetta – èla questione se sarà maggiore il numero di coloro che dovranno essere beati (beanoorum) odi coloro che dovranno esser dannati: arcano tanto più difficile a investigare, perché è pre-valsa da secoli l’opinione che saranno di più i dannati e perché nulla si può dedurre dai me-riti e dalle buone azioni umane. Ma quanto più arduo il problema, tanto maggiore la gioiadella soluzione” (op. cit. p. 185). Infatti essa ci darà speranza di salvezza e ci salverà dalladisperazione. Questo problema ha lo stesso valore di quello della misericordia, della sapien-za, della potenza, insomma della natura di Dio, in quanto problemi tutti connessi fra loro. Li-mitare il regno di Dio equivale a limitarne la misericordia; e con essa tutti gli attributi divi-ni, occorre, perciò investigare questo problema con animo sereno e non preconcetto. Anchese si troveranno interpretazioni bibliche non tradizionali, “si ricordi che nella Chiesa e nellasocietà cristiana c’è sempre stata libertà di proporre il proprio parere senza offendere e sen-za essere offesi. D’altra parte tutte le interpretazioni concordano con i principi della religio-ne; e le allegorie e le interpretazioni mistiche son sempre state libere purché non escano dal-la analogia fidei e dal consenso delle Sacre Scritture. È vero che tutto quel che Dio ha volu-to che noi sappiamo e facciamo ci è detto e ordinato nelle Sacre Scritture; ma non si può di-re che tutto sia in esse chiaro e dispiegato: altrimenti, perché tante dispute? E perché ognietà, a cominciare dalla apostolica, che avrebbe meglio delle altre potuto veder tutto chiaro,

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ha dato le sue interpretazioni? ” (p. 184-85). D’altra parte, Paolo ha stabilito che nella Chie-sa ci deve sempre essere profezia, vale a dire chiarimento di cose oscure e recondite. Non sidevono porre barriere e dighe, in modo che a nessuno sia più permesso d’irrigare il giardinoedenico, cioè il regno di Cristo, vale a dire nessuno ha la privativa del regno di Cristo. Avreb-be animo servile chi temesse che la dottrina dell’infinita ampiezza del regno di Dio potreb-be far insuperbire gli uomini di fronte a Dio. “Non il timore – sostiene Curione – ma l’amo-re deve condurre gli uomini alla virtù e all’osservanza della legge cristiana; e la sicurezza diessere salvi, che gli avversari trovano pericolosa, è un conforto a fare il bene, che agisce piùforte delle paure. Questa sicurezza, che non viene da disprezzo della legge divina, è mancan-za di dolore e di tormento, vacuitas aegritudimis, e tranquillità d’animo: e in esse sta la vitabeata, ed essa è la fonte della santità” (op. cit. p. 186). Il dubbio della propria salvezza è unimpedimento al compimento di cose degne di un uomo magnanimo; è da animo meschino ilvoler ridurre la grandezza del regno di Dio. È questa una posizione del tutto umanistica chenon comprende e rifiuta a priori le istanze morali del profondo pessimismo di Calvino; men-tre nel campo teologico sostiene la libertà dell’interpretazione e accenna alla storicità delpensiero che la giustifica; umanistica anche nella sua concezione di una verità celata, di unarcano da intendere attraverso l’allegoria e la filosofia: siamo sul piano dell’ermetismo pla-tonico del Quattrocento che emerge e cerca di affermarsi nella controversia teologica. “L’at-tacco alla teologia ginevrina, pur non nominata, è evidente: si rivendicano la libertà di di-scussione, la libertà di interpretazione, il valore e la possibilità della interpretazione misticae ispirata. Ma c’è anche il richiamo alle dottrine positive dello ‘spiritualismo’ ereticale: al-l’attesa del regno di Dio, da realizzarsi in noi prima che nella vita futura” (p. 186). Il dialo-go si figura svolto a Pavia, fra il giovane Curione e il venerabile Mainardi; il primo, – s’im-maginava, – era stato, in seguito ad un sermone del secondo, colpito da un dubbio così for-te da non lasciarlo dormire. Si noti che in realtà a Pavia il giovane Curione aveva insegnatoall’Università e aveva aderito alla Riforma sotto l’influsso del Mainardi, pastore a Chiaven-na. Il Mainardi non fa tanto la parte del sostenitore della tesi dell’ampiezza infinita del re-gno di Dio quanto quella dell’iniziatore del Curione alla verità nascosta. In primo luogo sipremette che l’idea della grandezza del regno di Dio non va intesa nel senso attribuito ad Ori-gene secondo cui anche i demoni si salveranno, perché contraria alla Scrittura. Neppure è daaccettare l’idea che saranno beati tutti coloro che siano stati bagnati dell’“acqua mistica” eche partecipano del “pane mistico”: poiché si scambia il segno esterno con la trasformazio-ne interiore. “Il Battesimo è Battesimo del cuore, che è spirituale, non opera esteriore”. Dun-que l’idea che il regno di Dio sia più grande di quello di Satana va intesa in senso puramen-te spirituale. Volendo essere sicuro il Mainardi, prima di procedere nella spiegazione, che ilsuo interlocutore non si spaventerà né delle autorità contrarie, che sono così grandi e forti,né della novità della dottrina il Curione lo rassicura, anzitutto perché egli non tiene conto inquesto caso dell’autorità ma della ragione: neppure i padri sono autorità assolute. “Poi il con-senso di molte generazioni, o la vecchia consuetudine, se manchi della ragione o dell’auto-rità dei libri sacri, cos’è se non vecchio errore?”. La verità non è mai nuova perché è figliadi Dio; e se ci fosse novità dovrebbe attirare più che spaventare. Convinto da queste argo-mentazioni il Mainardi spiega al Curione i passi della Scrittura che questi gli propone, sullalimitazione dei salvati, interpretandoli come riferiti al popolo ebraico, e non a quello cristia-no a cui venivano applicati come profezie. È la netta distinzione fra il Nuovo e il VecchioTestamento che i movimenti rinnovatori e innovatori del Cristianesimo hanno sempre affer-mato e che Calvino invece, tendeva ad attenuare. Nel corso di queste interpretazioni si sol-leva il problema del futuro avvento di Cristo, e di quello dell’Anticristo che lo procederà: aquesto punto il Mainardi sollecitato dal piemontese espone l’interpretazione spiritualisticadelle dottrine dell’Anticristo. Poiché questo sarà vinto dalla spada dello spirito, che è il par-lare di Dio, Dei sermo, e dalla folgore della presenza di Dio (op. cit. p. 187). “Ignis enimconsumens Deus est: cuius ignis splendor et fulgor est Christus”. “Qui viene proposta anchela dottrina di un avvento di Cristo in terra, intermedio fra il primo, quello storico, e l’ultimo,quello escatologico. Questo avvento intermedio che non segue dunque la venuta dell’Anti-

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cristo e non precede la fine del mondo, è necessario perché tutte le genti sono corrotte e oscu-rate: i cristiani per i decreti pontifici e la dottrina scolastica, gli ebrei per la dottrina talmu-dica, i maomettani per il Corano di Maometto. Così il Curione non condanna il ‘Medioevo’solo per quanto riguarda la Cristianità, ma anche per quanto riguarda le altre religioni” (op.cit. p. 187-88). È da notare che con questo il Curione si pone in un certo senso al di sopradel Cristianesimo occidentale ed europeo, e abbraccia con uno sguardo solo tutta la vita re-ligiosa nelle tre grandi religioni. E sembra che questo avvenga in funzione di una vera sa-pienza superiore alla religione: “in tanta perturbazione sia di tutte le altre cose sia della vec-chia disciplina, è del tutto necessario che il dottore celeste e Re con la sua chiarissima venu-ta e la sua santissima dottrina porti la calma su tutto e tranquillizzi gli animi oscillanti: affin-ché i dotti siano diretti verso la vera sapienza e gli indotti verso la vera religione” (De Am-plitudine p. 47). Il segno di questo avvento intermedio sono le grandi conversioni degli Ebrei“Vagi et palantes” al cristianesimo. Pochissimi hanno saputo di questo avvento di Cristo e l’-hanno profetato: oscuri quanto all’avvento, ma chiarissimi quanto alla riforma, e al rinnova-mento della Chiesa che esso doveva portare con sé: Cirillo di Costantinopoli e Gioacchinoda Fiore. Anche Papia, Ireneo, Apollinare, Tertulliano e Lattanzio hanno ammesso un avven-to intermedio: persino Agostino non è del tutto contrario. Questo secondo avvento, ammes-so anche da Gerolamo, le cui premonizioni sono le stesse del primo e dell’ultimo e si posso-no adottare interpretandole misticamente al tempo presente, e del quale si vede ora appenal’alba, è, secondo il Curione, il completamento del primo e la preparazione dell’ultimo; eporterà all’unificazione di tutti i popoli in una sola religione.

Con esso si tratta di abbandonare gli errori e nell’indirizzarsi alla vera fede in Gesù Cri-sto, che è la vera vita dell’uomo. Questa dottrina non è del tutto identica a quella del Chilia-smo, ma ne è affine: e il Mainardi dichiara che i chialisti hanno si errato, e non sono da di-fendere, hanno però avuto una gran causa d’errore e si possono e si debbono scusare, perchéa ragione credevano che Cristo stesse per scendere in terra, anche se poi hanno errato nel-l’interpretazione dei segni, che ha fatto loro credere che quell’avvento imminente fosse l’ul-timo, accompagnato dalla fine del mondo, e non il secondo intermedio. “Questo viene de-scritto come il principio della diffusione della luce sulla terra dopo le tenebre, luce che è lospirito e l’Evangelo di Cristo, così dunque identificati, anzi Cristo stesso che è la vera luce”(p. 189). Dunque l’avvento intermedio è “adventum illustrationis” “illius aspectabilis auro-ra quaedam diluculumque”. Per quanto riguarda ancora le argomentazioni circa l’ampiezzadel regno di Dio, il Mainardi osserva che la stessa definizione della natura di Dio ci indicala impossibilità di limitare il numero degli uomini buoni, dei quali Dio gioisce più di ognialtra cosa. La “porta angusta” e “la porta che si chiude” dell’Evangelo vanno riferite stori-camente agli Ebrei del tempo di Cristo, e metaforicamente all’accecamento dei loro animiper suprema deliberazione divina. La via larga dell’inferno e la via stretta del paradiso devo-no essere interpretate, sostiene il Mainardi, non come scarsità degli eletti, ma l’una come viadella natura umana e corrotta, e l’altra come osservanza della legge divina e imitazione diCristo. Il Curione fa poi corrispondere a questa interpretazione religiosa quella filosofica, ri-connettendo il passo evangelico all’apologo di Ercole al bivio e facendo risalire questo a Pi-tagora; e cita un passo pitagorico attribuendolo a Virgilio. L’apologo narra che Ercole fan-ciullo si trovò a scegliere fra due strade, una della virtù l’altra del piacere (scelta poi simbo-leggiata nella lettera g o lettera pitagorica). “Non manca la osservazione della differenza fon-damentale, che per la parabola antica ambedue le vie procedono dalla natura umana e nellavia del bene nessuno ci è guida, mentre per i cristiani la via del male procede da noi, quelladel bene da Dio, che in essa ci è guida. Non molti ma ‘tutti’ entrano nella via del male, poi-ché vi nascono ; tutti vi sono entrati e vi entreranno, eccetto Cristo: essa è la stessa naturaumana. E non ‘pochi’, ma ‘nessuno’ può entrare da solo, ‘natura duce’ nella via della salvez-za e dell’imitazione di Cristo. Tutti invece vi possono entrare per aiuto e ispirazione dellagrazia divina: la quale è data a ‘tutti’; altrimenti bisognerebbe pensare che tutto il genereumano è stato creato soltanto per la morte e la dannazione eterna” (op. cit. p. 189). Non èdetto che chi sceglie una via la debba seguire fino in fondo. Anche i “molti sono i chiamati,

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ma pochi gli eletti” va interpretato secondo il canone di non dare valore assoluto alle paroleevangeliche, e di tenere sempre presente il fine a cui mirava Cristo nel pronunciarle, specieper le parabole. Il che equivale ad una interpretazione storico-prammatistica, che concludecome altrove nel riferire le parole di Cristo solo agli ebrei del suo tempo. La dottrina del mi-nimo numero degli eletti è stata inventata da Satana per impedire l’affermarsi del regno diDio fondato sulla misericordia, e subito l’hanno sostenuta coloro che volevano apparire piùsapienti degli altri. In un primo tempo questa dottrina lusingatrice di superbia si è manifesta-ta, in forma generale, facendo notare che molti sono i malvagi, pochi i buoni: e Curione loafferma citando il poeta satirico latino Giovenale, e l’antico detto di Cicerone, non di Salo-mone, “Infinito è il numero degli stolti”. Platone la confuta quella dottrina osservando nelFedone che la massa maggiore non è dei cattivi né dei buoni, ma dei mediocri sia nel beneche nel male. Unendo il numero dei mediocri e dei buoni, il numero dei malvagi è già supe-rato di molto. Non per nulla a Curione Platone è sembrato “reliquis omnibus religiosior” (p.190). Espediente di Satana è anche la dottrina secondo cui la giustizia limita la bontà e la mi-sericordia divina. Le testimonianze bibliche addotte a favore di essa da parte dei superbi chevogliono essere pochi in questo come nell’altro mondo, sono già state confutate. Direttamen-te contro Calvino, anche se non viene nominato, è diretta la critica delle altre ragioni addot-te per la dottrina della minoranza degli eletti: la prima che consiste nell’attribuire alle operee alle azioni degli uomini la causa di tale minoranza, poiché molto pochi sono realmente ecompletamente giusti. Curione rinnova contro Calvino la polemica del Valla contro lo stoi-cismo di maniera predominante nel mondo umanistico italiano: è come se questi italiani ve-dessero risorgere nel loro ambiente i problemi già posti dalla cultura italiana e credessero dipoterli risolvere riproponendo le vecchie soluzioni e le vecchie critiche. “Pur affermando lapreminenza della sapienza divina su quella umana, della devozione sulla cultura questi uo-mini non si rendono conto che la nuova esperienza religiosa e morale e le nuove situazionisociali e politiche non permettono la identificazione dei vecchi con i nuovi atteggiamenti:sembrano non vedere che quello che era orgoglio e retorica nello stoicismo umanistico, è ve-ra e seria convinzione religiosa in Calvino. Così appare gratuito il corollario nel quale il Cu-rione identifica l’argomentazione pochi saranno gli eletti poiché pochissimi sono i veramen-te buoni (che è la trasformazione a scopo polemico del calviniano pochi saranno gli elettiperché pochi saranno sottratti alla corruzione della natura umana) con il motivo del sorgeredegli ordini religiosi, che avrebbero applicato l’opinione (di origine ‘filosofica’ dice il Cu-rione) della minoranza degli eletti separandosi dal comun popolo dei fedeli” (op. cit. p. 190-91). A quell’argomentazione il riformatore piemontese oppone, per bocca del Mainardi, chela ragione della salvezza non risiede nelle opere (nell’osservanza della giustizia) degli uomi-ni ; ma nella grazia di Dio che è infinita. Concetto che è anche il punto da cui parte Calvi-no, e può esser ritorto contro di lui solo attraverso la interpretazione morale della sua posi-zione: tra la concezione intellettuale degli umanisti e la esperienza religiosa di Calvino quinon c’era possibilità d’incontro “Basta la fede in Dio e nella sua misericordia e il dilettarsidella sua legge, e ciò che attiene all’intimo dell’uomo e della sua mente per poter dire chené i peccati, né la legge, né la forza degli inferi, né alcun’altra cosa al mondo possono con-dannarci” (op. cit. p. 191). Confutati gli avversari Curione passa a raccogliere gli argomen-ti a favore della sua tesi. Più che argomenti – sostiene – sono la vera e semplice dottrina di-vina; e si riducono alla deduzione dell’ampiezza del regno di Dio, dalla potenza, dalla sa-pienza, dalla bontà o misericordia divina, e infine dalle testimonianze della Scrittura. Sì, dal-la potenza, perché la vera potenza di uno stato sta soprattutto nel numero dei sudditi. E Sa-tana dovrebbe essere più potente di Dio? La giusta punizione dei nemici, i peccatori, potreb-be essere una manifestazione della potenza, però, questo sarebbe da tiranno, non da padredel genere umano. Il tiranno che domina questo mondo è Satana, che cerca di portare alla ro-vina il massimo numero di uomini: per cui noi viviamo come in uno Stato che appartenga didiritto ad un buon principe, ma di fatto sia oppresso da un tiranno. Come gli Ebrei nella ser-vitù di Egitto, il popolo cristiano “volentieri e liberamente segue alla apparenza il cenno deltiranno, e obbedisce i suoi ordini: ma di nascosto, è d’accordo veramente con il suo legitti-

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mo principe”. E quando questo ultimo verrà a scacciare l’usurpatore, il tiranno si accorgeràdi aver avuto parecchi nemici dove aveva creduto di possedere molti sudditi ubbidienti soloper coazione o per ignoranza: “Quot quis habe servos, eum tot inimicos habere”. Questoprincipio della saggezza antica viene a confortare e concludere l’argomentazione tipicamen-te cristiana e settaria, che nel Seicento si diffonderà e risorgerà anche ma non sempre indi-pendentemente da questi scritti, come quasi controparte alla elaborazione delle dottrine del-lo assolutismo. Mentre si attende il giorno della liberazione dal peccato – continua il Curio-ne – “il nostro re con i suoi ha colloqui clandestini” e li consola, e li esorta a perseverare nel-la fede, affermando di accettare come perfetta obbedienza questa fede e questo desiderio chei suoi hanno di lui, e il loro tendere a lui. La dottrina della Chiesa invisibile diventa qui dot-trina d’una Chiesa clandestina, come era logico che accadesse in questi gruppi di persegui-tati ; e si appoggia alla distinzione e alla separazione nette fra il regno di Dio e quello di Sa-tana nell’uomo, lasciando a quest’ultimo la vita umana in generale ed assegnando a quellosolo la fede e l’attesa dell’avvento definitivo: insieme di idee che uniscono il “nicodemismo”allo spiritualismo religioso anabattistico. In quanto il Curione fa dire al Mainardi si avverte,cominciando dagli antichi greci ed dagli ebrei, un eco di eresie che richiamano motivi ma-nichei: sulla potenza e sapienza di Satana dice che è piuttosto malizia, “ingegnoso e ingan-nevole modo di nuocere” piuttosto che vera sapienza; più audacia che forza, piuttosto vio-lenza che potenza; ma insomma qualcosa che si oppone validamente a Dio, sebbene destina-ta a soccombere. Alla potenza e alla sapienza segue ora la bontà, cioè la misericordia, per laquale il Curione rimanda all’opera del figlio[di Dio] aggiungendo le sue considerazioni suiluoghi comuni della paranetica su questo tema. L’affermazione che il sacrificio di Cristo èstato compiuto per tutti gli uomini; ma ha giovato a pochissimi, è paragonata alla concezio-ne religiosa di Epicuro, che, non negò formalmente l’esistenza degli dei pur eliminandoli difatto dal suo sistema di pensiero. Anche i popoli del nuovo mondo di recente scoperti, se han-no osservato la legge di natura, se hanno onorato un solo Dio, se non hanno fatto agli altriquel che non vogliono sia fatto a loro o si sono pentiti d’averlo fatto, saranno salvi; come co-loro che han vissuto prima di Cristo e prima di Mosè. Era un pensiero ormai abbastanza di-vulgato, e ammesso anche da Calvino, ma qui volto contro di lui. E contro Calvino si svol-ge tutta l’argomentazione sul carattere della vera predicazione evangelica, che non deve fon-darsi sulla forza e sulle armi, ma sulla predicazione, sull’energia e sulla evidenza spirituale,sui costumi, sulla sapienza, sulla tolleranza e sulle altre virtù cristiane: “se infatti vuoi man-tenere la religione con il comando e la forza, già non sarà difesa, ma piuttosto profanata eviolata”. Se si seguirà la vera religione e la vera predicazione, si avvicinerà il giorno in cuivedremo ingrandirsi ancora il regno di Dio in terra. Anzi già in questo momento il suo in-grandimento progressivo appare notevole. Prima di passare all’elenco e al commento deipassi del Vangelo in favore della sua dottrina il riformatore piemontese si sofferma a parla-re dell’Italia.

“Volesse il cielo – afferma – che qualcuno dei nostri principi, o qualche Repubblica, oRegno aprisse l’asilo a coloro che, a malapena trovano qualche luogo sicuro: che solamenteper una sola causa sono dichiarati empi e sediziosi, poiché veramente vogliono essere pii epiù desiderosi della gloria di Cristo signore”. Certo, chi aprirà questo asilo vedrà in brevetempo fiorire il suo Stato di grandezza e potenza. Sembra, però, che non in Italia, ma in Po-lonia, può aprirsi questo asilo; il Curione cita una lettera di LUTOMIRSKI, protettore e ca-po dei protestanti polacchi, e ricorda come il re di Polonia abbia sangue italiano nelle vene,è inoltre un re generoso, e il suo regno grande e magnifico. È evidente l’intenzione del Cu-rione, e probabilmente dei suoi amici di cercare rifugio in Polonia; “e se si tien conto dellasituazione nel 1554, quando Zurigo stava raccogliendo e annettendo alla cittadinanza i locar-nesi e quando l’emigrazione italiana a Ginevra, lucchese e siciliana soprattutto aveva rag-giunto un valore notevole, e per l’importanza dei singoli, e per il numero dei rifugiati, è an-che evidente che il Curione non pensa agli altri italiani riformati in genere, ma al movimen-to spiritualistico e anabattistico” (p. 194). Dopo la pubblicazione del De Amplitudine il Cu-rione fece per tre volte atto di sottomissione; nei processi per il De Amplitudine stesso, per

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il Gribaldi, autore del De filio, opera alla preparazione della quale egli aveva partecipato, eper il caso degli “Joristi”, cioè i seguaci di David Joris, l’anabattista, le cui idee aveva pro-pagandato. Curione fu uomo del Rinascimento e umanista: lo indicano i rapporti personali ela preparazione culturale legata alla classicità latina (Virgilio, Ovidio, Giovenale, Cicerone)e greca (Platone, Aristotele, Pitagora ecc. ), fino ad accogliere elementi magici ed ermetici(Ficino, Pico della Mirandola, Ermete, Trismegisto). È un umanista che opera su un pianoradicalmente religioso in un contesto pienamente europeo, ormai non solo al di fuori dellaChiesa cattolica, ma persino in polemica con i capi del protestantesimo il cui spirito di tol-leranza anche in loro lascia spesso molto a desiderare come dimostra la fine del Serveto, ilteologo e scienziato spagnolo, che, neoplatonico e antitrinitario, venuto in contrasto con Cal-vino, fu da questo fatto ardere vivo. Con il Curione, che ha rapporti non con Lutero, ma or-mai con Calvino siamo non solo fuori di tutta la religiosità medievale, ma è ormai anche av-venuto il distacco di vari paesi europei, dall’“ecumene” cattolica

Erasmo

Se Lutero è colui che ha dato avvio a questa frattura con la sua azione religiosa e politi-ca, l’umanesimo di Erasmo da Rotterdam e il suo irenismo hanno costituito quella “barrieracontro certa inquietudine eterodossa… che prese poi il sopravvento nella Riforma” comescrive il Toffanin. È con Erasmo, fra l’altro maestro di Curione, che si coglie chiaramente –come afferma Gramsci – “il carattere reazionario e medievale dell’Umanesimo”, di controall’azione rivoluzionaria degli eretici italiani ormai impegnati in un movimento che ha unacerta “funzione in Europa”. Desiderio Erasmo da Rotterdam (1467-1536) fu certamente ilmaggiore e più originale umanista del Cinquecento e uno degli umani più influenti della suaepoca, in relazione con tutto il mondo dei dotti, unanimamente riconosciuto come la massi-ma autorità nel campo degli studi filologici. Egli è importante non solo dal punto di vista fi-losofico, ma anche dal punto di vista storico per i complessi rapporti fra Umanesimo e Ri-forma.

“L’Umanesimo acquista nelle opere di Erasmo, quali la Stultitiae laus (Elogio della paz-zia, 1511) e i Colloquia familiaria (Colloqui familiari, 1518), una nuova sensibilità e consa-pevolezza morale. Vengono sferzati con finissima ironia la grettezza della pura erudizione egli eccessi del razionalismo; ad essi è contrapposta “la follia”, cioè l’immediatezza della vi-ta nella sua irrazionalità creatrice. Accanto a questa ironia emerge però uno sdegno veramen-te nobile contro l’immoralità dell’epoca, la superstizione, il mercato delle indulgenze, ecc.Animato da questo sdegno, Erasmo ci presenta la “Humanae litterae” soprattutto come mez-zo per combattere l’immoralità, gli abusi della Chiesa, le astruse e dogmatiche argomenta-zioni dei teologi, l’ignoranza monastica, l’intolleranza e le imposture” (L. Geymonat: Storiadel pensiero filosofico e scientifico, Garzanti vol. II p. 132).

Nelle critiche sopra accennate sono contenuti i mali che travagliano la Chiesa e la socie-tà del tempo nel campo etico e che daranno impulso all’affermarsi della Riforma protestan-te. Ma i punti di contatto fra Erasmo e la Riforma non si limitano a queste critiche, del restogià presenti nella coscienza di altri pensatori del Rinascimento, ma investono anche le SacreScritture. L’applicazione da lui iniziata, della critica filologica a queste, infatti, (con le edi-zioni di Girolamo, Ambrogio, Agostino, con la versione critica del Nuovo Testamento ecc. )può considerarsi come l’antecedente diretto del metodo che sarà propugnato da Lutero perl’interpretazione della parola di Cristo. Tuttavia, quando nel 1519 Martin Lutero chiederà alpiù famoso umanista olandese di pronunciarsi apertamente a favore della Riforma, questi glirifiuterà il suo appoggio, anzi cinque anni più tardi con lo scritto Diatriba de libero arbitrio(Dissertazione sul libero arbitrio, 1524) entrerà in aspra polemica con le tesi teologiche pro-testanti. “Il rifiuto di Erasmo non è un fatto che riguardi soltanto le sue vicende personali,ma un fatto di notevolissimo rilievo per tutta la cultura europea. Esso pone nella massimaevidenza la reale, insuperabile antitesi che effettivamente esisteva, malgrado ogni apparente

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convergenza, fra concezione umanistica e concezione protestante della religione. La primainfatti tendeva ad avvicinare sempre più Dio al mondo e ad esaltare il valore dell’uomo, con-cepito come natura libera, fornito per se stesso delle forze necessarie onde elevarsi a Dio eraggiungere la beatitudine (si pensi alla interpretazione ficiniana della religione); la secondainvece tendeva a mettere in risalto via via maggiore la dipendenza dell’anima umana da Dio,l’origine divina di ogni nostro impulso veramente buono” (Geymonat, op. cit. p. 132).

È vero che la convinzione di questa dipendenza dava all’uomo una forza nuova (se la gra-zia deriva direttamente da Dio, chi possiede la grazia dovrà pure possedere il sostegno divi-no per attuare il bene). Addirittura c’è chi, come Max Weber, vede nel suddetto principio cheaccomuna luteranesimo e calvinismo formarsi le basi dello sviluppo rapido e continuo delcapitalismo nel mondo occidentale. (Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capita-lismo moderno). Però tale forma nuova che l’uomo riceveva, e non traeva origine da lui, eraqualcosa di interamente estraneo alle linee del pensiero umanistico.

Il contrasto piuttosto aspro fu evidenziato dalla risposta contraria di Lutero ad Erasmoche aveva per titolo De servo arbitrio, che non faceva che sviluppare ed approfondire il prin-cipio della “giustificazione per fede”. Erasmo replicherà subito a Lutero con lo scritto Hype-raspistes adversus servum arbitrium Lutheri (Difesa contro il servo arbitrio di Lutero, 1525).Il contrasto erasmo-Lutero non era però solamente teologico-filosofico, perché celava, oltreil piano culturale intellettuale, un contrasto ben più profondo di ordine politico sociale. Lu-tero provocherà non solo la lacerazione del Cristianesimo in occidente, ma scatenerà anchequelle forze provenienti dal mondo economico-sociale che a stento riuscirà a dominare. Era-smo, invece, era un dotto filologo, un aristocratico umanista, non uno spirito rivoluzionario.“La sua mentalità cosmopolita lo portava a sentirsi vicino a tutti gli spiriti colti dell’epocaed a condividere con essi i più raffinati problemi filosofico-letterari, non a mescolarsi nellelotte concrete tra paese e paese o fazione e fazione, dominato da interessi tutt’altro che pu-ramente culturali. Se pertanto sostenne apertamente – come gli uomini più illuminati del se-colo – la necessità di una riforma della Chiesa, lo fece soltanto da un punto di vista morale,senza rendersi conto delle gravissime questioni di altro genere che essa avrebbe sollevato.Ciò che egli vagheggiava era una riforma lenta, graduale, senza sovvertimenti: completa-mente diversa, insomma dall’azione decisa e concreta di Lutero, basata sulla stretta connes-sione tra aspirazioni religiose e problemi politico-economici della Germania. Posto di fron-te alle conseguenze storiche di quest’azione, Erasmo si sgomentò e volle scindere completa-mente la propria responsabilità” (Geymonat, op. cit. p. 133). Il rifiuto erasmiano fu davverouno dei fatti più significativi del ’500. Esso dimostra incontestabilmente l’avvenuto divorziofra cultura e politica. Dimostra, cioè, che l’azione in cui si trovava impegnato l’umanesimoe quella in cui si trovava impegnata la Riforma, si svolgevano ormai su piani distinti e in-confondibili: muovendosi la prima nelle alte sfere della “repubblica letteraria” e la seconda,invece, nel campo ben più complesso dei problemi vivi e reali. Gli umanisti non furono ca-paci di spostarsi da un piano all’altro ; perciò il loro movimento si rinchiuse a poco a pocoin se stesso fino a insterilirsi. Ancora all’interno di un quadro medievale appare l’azione diErasmo capace di frenare le forze eversive della Riforma sulla base di un irenismo che nonammette lacerazioni e contrasti, ma reazionaria si rivela anche l’azione di Lutero che da vi-ta ad una Chiesa protestante reprimendo i moti contadini e i più estremisti movimenti poli-tico-sociali, alleandosi alle forze militari e feudali dei principi tedeschi.

L’idea della frattura fra Medioevo e Rinascimento, la sensazione della potenza dell’uo-mo, e di vivere in un mondo diverso da quello del passato, risultano notevolmente afferma-ti in Rabelais, i protagonisti della cui opera sono due personaggi eccezionali, due giganti:Gargantua e Pantagruel, per cui tutto è grande e tutto è enfatizzato. “La gioia di vivere nelproprio tempo, la felicità di vivere nel presente – scrive Giovanni Macchia – che i silenzio-si umanisti avevano espresso tranquillamente, in Rabelais assumono forma ed accenti di unaesagerata violenza: l’amore della Physis diventava ‘gastrolatria’, l’abbandono alla naturaprecipitava nell’oscenità. E non è possibile non pensare in questo caso ad una polemica con-tro i miti; contro il vuoto spiritualismo, contro il mortificante ascetismo, contro l’incubo e

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l’ossessione della morte che aveva oppresso le coscienze del secolo precedente” (F. RabelaisGargantua e Pantagruel ed, Bur p. XII) Si è sempre dibattuto quale sia il senso del poemaeroicomico Gargantua e Pentagruel e tutti presuppongono che in questo libro si parli del-l’educazione dell’uomo in generale, di ogni uomo. “Ma noi – scrive Giovanni Giraldi – ab-biamo potuto dimostrare che si tratta solo dell’educazione del principe, cioè di colui che de-ve governare lo Stato rinascimentale, lo Stato assoluto, lo Stato del sovrano” (Storia dellapedagogia, ediz. A. Armando p. 158) Rabelais istruisce ed educa il Principe attraverso Gar-gantua e Pantagruel che sono destinati a regnare sull’allegro Regno dei Dipsodi o Assetati.“Con questa prospettiva, si può comprendere perché Rabelais esiga dal principe la conoscen-za del latino, del greco, dell’ebraico e di tutte le scienze possibili. Il principe del Rinascimen-to governa direttamente ; se non è colto, gli uomini che lo affiancano nella sua opera posso-no trascinarlo in errori e delitti inumani. Se tu non saprai di greco e di ebraico, diceva Rabe-lais al suo principe, gli intolleranti ti faranno vedere nel Vangelo ciò che non vi è, e tu saraiil loro zimbello. Se non sai condurre un esercito, i tuoi generali ti porteranno alla rovina. Setu non sai quali siano i doveri tuoi, dei lavoratori, dei sudditi tutti, tu, invece di mandare gliuni a navigare, gli altri a coltivare i campi, gli altri ai commerci, e invece di favorire il lavo-ro intellettuale e spirituale, tu li manderai a fare crociate in terre d’infedeli, e a far guerre direligione in Europa; in luogo della prosperità, nel tuo regno ci sarà la fame, famiglie abban-donate, mogli sedotte dagli avventurieri, miseria e disordine di ogni genere. Se tu non cono-sci quale è la religione vera, in luogo di un Vangelo puro e santo, di carità e di fratellanza, tufavorirai le pratiche dei pellegrinaggi, in cui i mariti abbandonano per interi anni le mogli ei figli ; tu, invece, insegnerai loro che la preghiera più pura è quella che si dice in casa, quel-la pronunciata dal capo della famiglia, con i figli e con la moglie, dopo una giornata di lavo-ro e di opere buone” (op. cit. p. 157-58)

Il principe deve sapere tutto perché nello stato rinascimentale tutto dipende da lui. Que-st’ultima affermazione però indica una cultura così estesa e varia che sembra abbia conser-vato il carattere “enciclopedico” propria della scienza medievale a tal punto da indurre il so-spetto che essa finisca con l’essere piuttosto di ingombro che di stimolo alla formazione del-lo spirito; anche se viene proposta per un principe. Tutto però, come abbiamo fatto notare,dipende in gran parte da quell’ingrandimento paradossale di proporzioni determinato dalprotagonismo di due giganti che la bizzarra fantasia del romanziere ha prodotto. Inoltre è danotare che al tempo dell’autore la scienza nuova era ancora come un processo tumultuoso eframmentario in formazione ed egli non può lodare e raccomandare altro che un processo di“erudizione” e di consigli ricavati dal “buon senso”. Durante il periodo ellenistico, dopo laconquista macedone, essendo la πoliz diventata una realtà effimera e non preminente comeal tempo di Socrate, ed essendo lo Stato lontano dalla vita del cittadino, la filosofia restrin-ge il campo della sua indagine, che, occupato prima dalla politica e dalla metafisica, diven-ta ora “personalistico”e preminente appare il problema di che cosa sono io, singolarmenteconsiderato, che cosa debba in concreto operare nel mondo. In una situazione simile, anchese ormai facente parte della storia moderna, si trova a vivere Michele di Montaigne (1533-1592). Siamo in una Francia “lacerata da sanguinose lotte religiose, in un mondo general-mente dissestato e sconvolto da rivolgimenti profondi, che scompaginano la vita delle nazio-ni e scompongono gli schemi usuali dell’esistenza personale, facendo ovunque pesare un’at-mosfera di grave incertezza e di angosciata inquietudine” (Montaigne, Saggi, ediz. Laterzap. 6). Sul piano della cultura, il Rinascimento riscoprendo con uno spirito nuovo l’antichitàclassica, introduce dimensioni e prospettive che il Medioevo ignorava, ed ora turbano gli spi-riti che si esprimono in atteggiamenti di aperta rivolta al passato e ai valori che lo avevanogovernato. Abbiamo visto Copernico scardinare l’universo medievale, ma Giordano Brunova oltre deducendo dalla infinità della causa l’infinità dei mondi. Tutto ciò spiega l’angosciae l’inquietudine di un secolo che cerca e non trova, la propria stabilità. Sul piano economi-co, politico sociale la scoperta delle Americhe ha spostato il centro del commercio, facendodecadere lentamente l’importanza del Mediterraneo, improvvisando ricchi e poveri, (singolie nazioni), così da rendere precaria la consistenza delle fortune ed economicamente incerta

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l’esistenza delle vecchie classi feudali. La strategia degli eserciti è rivoluzionata dall’inven-zione della polvere da sparo che tende a rendere meno utili le mura che circondano per dife-sa le città, mentre l’invenzione della stampa favorisce una diffusione più larga della culturache va ad interessare strati più ampi della popolazione. Sul piano dell’arte, dell’economia,della filosofia e della religione (Lutero tiene testa vittoriosamente alla curia romana) si pro-fila una rivoluzione che travolge un mondo che pareva stabile, facendo intravedere un mon-do nuovo, che non si affaccia ancora con tanta decisione, da dissipare dubbi ed incertezze.Abbiamo visto nel primo ’400 Pico della Mirandola esaltare nell’uomo, il centro dell’univer-so, il microcosmo. Non è passato un secolo lo spagnolo Francesco Sanchez dichiara di nonsapere nemmeno di non sapere (1587) e Cornelio Agrippa pubblica il De Vanitate et Incer-titudine Scientiarum che, pur gonfio e retorico, pone sul tappeto la questione del sapere. Nel1569, Hervet ed Estienne traducono in francese i testi di Sesto Empirico, concludendo nelloscetticismo il movimento euforico che aveva animato il primo umanesimo.

Quadro storico della vita di Montaigne

In questa atmosfera di rivolgimenti, il contrasto tra la vita privata di Montaigne e quelladei suoi tempi appare notevole ed evidente. Se guardiamo la data di nascita e quella di mor-te del NOSTRO vediamo che passa un periodo di tempo nel quale cade l’acme della crisi percui si è notato giustamente che egli non appartiene all’ardente generazione della Rinascen-za, né a quella felice della Restaurazione, ma a quella generazione di mezzo, che ha eredita-to il carico delle difficoltà dalla precedente e non ha ancora trovato le soluzioni in cui si ac-quieterà lo spirito della generazione successiva. L’andamento dei tempi in cui visse è statoda noi in parte trattato: il duello fra Francesco I e Carlo V e precisamente il III periodo. Do-po l’abdicazione di Carlo v e il conseguente frazionamento dei suoi domini nei due imperidi Casa d’Austria e di Casa di Spagna, le lotte fra Spagna e Francia continuarono tra EnricoII, figlio di Francesco I, e Filippo II, figlio di Carlo V. Nel 1559, finalmente la pace di Cate-au-Cambresis pone fine alle guerre tra Francia e Spagna, ma non per questo le condizioni in-terne della Francia migliorarono radicalmente. “Appena segnata la pace, Enrico II, infatti,inizia la persecuzione contro gli Uganotti, e dietro la maschera delle lotte religiose si cela ilprofondo, insanabile dissidio tra grande feudalità e monarchia, indebolita, questa ultima, ne-gli anni successivi, da lunghe reggenze di donne e da minorità di sovrani. Carlo IX succes-se nel 1562 a Francesco II (rimasto sul trono appena un anno), sotto la reggenza della madreCaterina de’Medici, che promulgò un editto di tolleranza per gli Uganotti. Ma dieci anni do-po, salito al trono, Carlo IX ordinò la famosa notte di San Bartolomeo, in cui tutti gli Uga-notti di Parigi vennero massacrati. Dal 1572 al 1593 (l’anno in cui Enrico IV entra definiti-vamente a Parigi), è da segnalare ancora l’occupazione di Parigi da parte delle truppe spa-gnole del cattolico Filippo II, che intervenne in Francia quando, alla morte per assassinio diEnrico III, era successo al trono il capo del partito degli Uganotti, Enrico di Borbone” (Mon-taigne, op. cit. p. 9). Il quadro storico sopra delineato ci indica come gli eventi nazionali einternazionali, del tempo di Montaigne, si susseguono con un ritmo concitato.

La vita di Montaigne

Michele Montaigne nasce da Pietro Eyquem, il primo dei Montaigne che lascia “pour lemétier des armes”, il lucroso commercio del vino e del pesce salato che aveva arricchito lafamiglia, rendendo possibile a Ramon Eyquem, bisavolo di Michele, l’acquisto della “nobleterre de Montaigne”. Influenzato dalle squisitezze del Rinascimento italiano, allora trionfan-ti alla corte di Francesco I, Pietro aveva voluto che il figlio fosse educato secondo i canonipiù raffinati della pedagogia rinascimentale. Il piccolo Montaigne fu indotto a parlare il lati-no, prima del francese e del dialetto e al mattino veniva svegliato al suono di una spinetta,

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perché fosse dolce il passaggio dal sonno alla veglia. Compiuti gli studi di diritto a Borde-aux, coprì la carica di consigliere alla “Cours des Aides” poi al “Parlement” di Bordeaux, le-gandosi, in questo tempo, di fraterna amicizia con Stefano di La Boetie, di cui pubblicò leopere dopo la morte avvenuta nel 1563.

Visse vicino alla corte, tra il 1559 e il 1562, e per due anni consecutivi fu al seguito diCarlo IX a Rouen; ma si rese conto ben presto di non possedere spiccate doti di cortigianoe, morto il padre, nell’agosto del 1568, si ritira nel castello paterno in seguito ad un accordoraggiunto anche con la madre e dopo che i tre suoi fratelli rinunciavano, con atto notarile, adogni loro diritto di successione sul castello. In realtà ufficialmente si ritira nel castello pater-no solo nel 1571, come risulta da un’iscrizione da lui stesso apposta sulla soglia del suo stu-dio. Ruppe la volontaria clausura nel 1580 (dopo aver pubblicato i primi due libri degli Es-sais) per cercar sollievo a certi malanni con un’appropriata cura di acque, e visitò la Germa-nia, la Svizzera e l’Italia (dove fu a Trento, Venezia, Ferrara, Bologna, Firenze, Siena, Ro-ma, Loreto, Lucca). In quest’ultima città gli venne notificata l’elezione a sindaco di Borde-aux, e la sua opera di civico amministratore fu apprezzata al punto, che, in via del tutto ec-cezionale, i concittadini lo rielessero nell’aprile del 1583. Il nuovo mandato stava per spira-re, quando a Bordeaux scoppiò un’epidemia di peste. Il sindaco Montaigne lasciò allora ilproprio castello per assistere, come voleva la tradizione, all’elezione del successore, ma il ti-more del contagio lo trattenne e non osò varcare le porte della città. Nel 1588 ristampò a Pa-rigi gli Essais, che aveva riveduto, corretto ed arricchito di un terzo libro e andava postillan-do di suo pugno questa nuova edizione, quando la morte lo colse nel settembre del 1592.Quella di Montaigne fu dunque una vita schietta e lineare e perciò in apparente contrasto congli avvenimenti tumultuosi della sua epoca. E furono proprio questa schiettezza e linearità divita a collocare il pensatore francese su un piano di superiore umanità, per cui, cattolico, an-che se non fervente, ebbe amicizie fra cattolici ed Uganotti, e talvolta fu mediatore fra le par-ti, imponendosi al rispetto degli uni e degli altri. Non innalzò a sé stesso un monumento, co-me ci avverte, ma i Saggi e la sua pratica di vita ne hanno fatto un personaggio esemplareanche per i posteri. Così, proprio grazie a questa schietta linearità di vita e all’autorità chene derivava alla sua persona, egli seppe trarsi meravigliosamente d’impaccio in alcune oc-casioni, non liete, anzi, considerati i tempi, addirittura drammatiche. Insomma nell’aver rag-giunto e poi conservato questa schietta linearità consiste la grandezza di Montaigne comeuomo e pensatore nello stesso tempo, perché non è possibile distinguere l’uomo dal pensa-tore, la vita dalla filosofia dell’autore dei Saggi.

La materia degli Essais è l’autore stesso. Montaigne moralista

Egli stesso ha insistito ripetutamente sulla inscindibile unità dell’uomo e del pensatore,e quindi dell’autore e dell’opera sua. “Lecteur, je suis moy-mesme la matière de mon livre”dichiara già sin dal principio, nell’“Indirizzo al lettore” e subito aggiunge, con arguzia, chese il soggetto è frivolo, se è vano, basta chiudere il libro e non darsi pensiero di Montaigne.Egli non sacrifica l’uomo che è e che vive, all’ambizione di costruire un sistema, neanche acosto di passare per un ozioso chiaccherone. Il “pense” di “il ne pense seulement pas à soy”esprime, un atto, quello della ricerca che ognuno è chiamato ad operare su se stesso, e quin-di, il senso della problematicità persistente in cui l’uomo fonda la sua esistenza. Ecco per-ché Montaigne può subito aggiungere: “Io non insegno affatto, racconto”; cioè racconta sestesso, risolvendosi integralmente nella ricerca di sé e nella comunicazione di questa ricer-ca. “Gli altri educano l’uomo, io lo descrivo”, afferma e non descrive l’uomo in generale, maquell’uomo particolare che é Michele di Montaigne, “tout entier et tout nud”. “Mi indago –precisa – non voglio avere a che fare che con me stesso, mi analizzo senza posa, mi control-lo, mi gusto”; questa – conclude – è la mia fisica e la mia metafisica. La descrizione proce-de per esplorazioni o “saggi” puntuali, vigili, penetranti, che nel momento stesso in cui col-gono l’autore, lo fondano e lo costituiscono come uomo e come pensatore, ponendolo al tem-

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po stesso nella condizione, come egli sottolinea, di conoscere l’oggetto della propria indagi-ne meglio di chiunque altro ricercatore. “A me basta la fedeltà; e questa è di buona lega, lapiù pura e sicura che si possa immaginare. Io dico il vero; certo, non confesso tutto il maleche è in me, ma quel tanto che oso; e tanto più oso, quanto più invecchio”. Nella schiettez-za di questa confessione è già presente quell’umile senso della finitudine che radica Montai-gne alle cose della terra e non gli consente di levarsi mai alla pura contemplazione del tra-scendente. E la finitudine è un tema che Montaigne ritiene importante nella sua speculazio-ne. Anzi è proprio la coscienza di questa ad appassionarlo al soggetto della propria indaginefino a scoprire le pieghe più riposte e le sfumature più mutevoli e cangianti. Io non mi pro-pongo, dice, di “cogliere l’essere; mi sforzo di cogliere il transito…, di analizzare avveni-menti diversi, mutevoli e talvolta in contrasto fra loro, sia perché sono diverso da me stesso,sia perché colgo l’oggetto attraverso considerazioni e circostanze nuove”. Montaigne si chie-de anche se ha perduto il suo tempo con la sua analisi assidua e curiosa. Montaigne rispon-de: “mi arricchisco senza posa, perché senza posa mi descrivo”. La sua analisi non è, dun-que, oziosa perché, in fondo, è un arricchimento in se stesso. Questa descrizione di sé, inol-tre, non assume mai moduli diaristici, “stricto sensu”, ed, essendo Montaigne un “moralista”,essa non resta priva di echi e di risonanze: “Espongo – confessa – una vita modesta e umi-le; ma una filosofia morale s’adatta egualmente bene ad una vita semplice e piana; come aduna vita ritagliata su stoffa di lusso, perché ogni uomo reca, in sé, intera la condizione uma-na”. La soluzione del problema di Montaigne non interessa dunque soltanto lui solo, mal’uomo, o meglio gli uomini, che sono chiamati, come lui, ad assumere impegni concreti edecisivi sul terreno dell’esistenza. A questo punto gioverà far notare che Montaigne inaugu-ra in tal mondo, in Francia.

Quel metodo dell’analisi introspettiva che rinnova, seppure con intenti e istanze diverse,il monito agostiniano: “Noli foras te ire; in te ipsum redi; in interiore homine habitat veri-tas”; e tuttavia, occorre subito precisare che l’accento è personale ed inconfondibile.

Autori che hanno meditato Montaigne, la sua forma di meditazione ha i caratteri della modernità

Anche Cartesio prende le mosse da un’analisi introspettiva, ma subito trapassa sul pianodella metafisica. Egli afferma: ”Cogito me cogitare, ergo sum”. Esiste un pensiero, dunqueesiste un essere pensante. Blaise Pascal che come Cartesio medita Montaigne rimane piùaderente alla lezione del maestro, ma piega la ricerca verso posizioni apologetiche e religio-se che sono estranee agli interessi dell’autore dei saggi. Più tardi nell’età romantica, Mainede Biran (1766-1824) tenta di fondare sull’indagine psicologica una metafisica della perso-na e al tempo stesso una metafisica dalla persona, e in tempi più recenti, da un lato, Bergsonfonda la metafisica della slancio vitale sulla analisi dei dati di coscienza dall’altro André Gi-de, che fu ammiratore di Montaigne, si ferma all’estetismo e non va oltre la sfera descritti-va degli stati di coscienza. Però, Montaigne è molto diverso dai suoi successori. Rifugge dal-le conclusioni metafisiche di Cartesio e di Bergson, e impotente si arresta di fronte alla tra-scendenza cui giunge Pascal; non cede all’estetismo di Gide ed è evita lo psicologismo diMaine de Biran. Il fatto è che egli è un uomo che si interroga, è un moralista, ossia un uomoimpegnato in un mondo concreto che gli impone interrogativi improrogabili e ne inclina laspeculazione verso forme di “saggezza”, che sono qualche cosa di più e qualche cosa di me-no di un sistema filosofico. Qualche cosa di meno perché alla “saggezza” manca la rigida or-ditura logica del sistema, qualcosa di più, perché la saggezza sgorga dal terreno di un’esi-stenza vissuta e sofferta e che perciò si propone come esempio di vita e suggerimento di con-dotta. In conclusione, poi, in un’epoca in cui della metafisica e del sistema si sente menol’esigenza, e in cui la psicologia viene rivalutata come scienza, la forma di meditare di Mon-taigne appare avere i caratteri più veri della modernità. Montaigne aveva un fitto e continuocolloquio con i classici, e in essi, per la sua esigenza del concreto, sul piano morale, andava

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la ricerca di elementi di esemplarità. La sua erudizione infatti risulta ancorata alla sua esi-stenza, è umana, sofferta, non retorica esteriorità o letterario ornamento; tantomeno è proflu-vio di lardellature di autori classici, perché questi sono assimilati, entrano a far parte del suomondo interiore. Nel colloquio con i classici, Montaigne cerca se stesso, come l’italiano Ma-chiavelli, che a sera, rivestito condecentemente “nelle antique corti degli antiqui uomini” sipasce – scrive – “di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui” (lettera al Vettori) -Montaigne, però, ai classici non chiede, le regole della politica o le leggi dello Stato, maesempi e suggerimenti di vita e di atteggiamenti. È un moralista, non uno storico né un po-litico consigliere del principe, non gli interessano, però, neppure le leggi Di una morale, fi-losofica finché si vuole, ma astratta: chiede soprattutto la presenza di “modelli”, concreta-mente esemplari. E ciò gli consente oltretutto di assumere verso i classici un atteggiamentodi sufficiente autonomia e di rispetto smagato. Come il Rabelais, come Erasmo, come il no-stro Castiglione, non si lascia affascinare dallo splendido specchietto della classicità né sog-giogare dall’autorità. Anzi è stato notato che egli giunge “a neutralizzare con la erudizione,il volare delle erudizione, ad annullare l’autorità col conflitto delle autorità”. Su Cicerone,per esempio, addirittura uno degli autori che cita più volentieri, si esprime con spregiudica-tezza in termini affatto moderni. “A me – scrive – che desidero diventare più saggio e nonpiù eloquente o più dotto le sue logomachie e il suo aristotelizzare non garbano affatto… De-sidero argomentazioni che colpiscano in pieno il dubbio più solido; le sue languono. Inveceintorno al tema. Saranno buone per la scuola, per la tribuna o per la predica, dove possiamoappisolarci, svegliandoci un quarto d’ora dopo, riprendere tranquillamente il filo del discor-so”. A Montaigne non interessa l’episteme, come dicevano i Greci, cioè la sapienza (cono-scenze adeguate nei vari ambiti del sapere), tanto meno la retorica, un argomentare vuoto einconcludente, ma la phronesis greca, cioè la saggezza (la virtù di chi agisce bene). Nel mo-vimento del suo pensiero non dovremmo pertanto cercare il sistema, come, per esempio, inCartesio, ma l’uomo; e, poiché dietro il filosofo c’è sempre l’uomo che vive, non sarà faci-le classificare esattamente Montaigne. Scettico, stoico, epicureo, egli è stato tutto questo eniente di questo, perché non si può etichettare la natura complessa ed unitaria dell’uomo. Èquestione vana ed astratta decidere se Montaigne sia stoico o scettico, e se sia comunquepossibile conciliare l’apparente contraddittorietà di queste due posizioni. Si può affermareche egli è stoico sul piano pratico, perché è scettico su quello teoretico, sembra che vogliadire: ”nel dubbio fatti stoico “, come nota felicemente un suo critico.

Apologia di R. Sebonet Debolezza dell’uomo sul piano fisico e intellettuale. Scetticismo radicale

Tuttavia ad un esame attento dei saggi, tra le linee che compongono la sua fisionomia diuomo e di pensatore, lo scetticismo è però l’unica nota sulla quale insista puntualmente ecompiutamente. “L’Apologia di R. Sebano che lo esalta ha l’ampiezza e il respiro di un trat-tato breve, e a buon diritto può ritenersi la quintessenza dello scetticismo antico e rinasci-mentale”. L’apologia può essere articolata, per una comprensione più ordinata e completa,in tre momenti essenziali. Il primo di questi momenti costituisce una specie di propedeuticaallo scetticismo. L’umanesimo aveva esaltato l’uomo come il centro dell’universo, Montai-gne rovescia invece la sua posizione, fino a considerare, per certi aspetti superiore l’anima-le e descrive con cura spietata la situazione dell”“uomo solo, privo di soccorsi estranei, ar-mato soltanto delle sue armi”, mettendone a nudo la miseria, la presunzione, egualmente in-finite. “È mai possibile – scrive – concepire cosa più ridicola di questa creatura vana e spre-gevole, che non soltanto non è padrona di sé, ma è esposta da ogni lato alle offese, quandopretende di dominare quell’universo, che conosce solo in piccolissima parte? ”. Paragonatoagli animali che popolano la terra, l’uomo esce dal confronto vergognosamente battuto. Lebestie che “più ci somigliano sono le più laide e abiette; nel portamento e nella configura-zione del volto somigliano alle scimmie… nelle parti posteriori e vitali, al maiale. Se penso

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ad un uomo nudo – conclude – con i suoi difetti, le sue tare, le sue mille magagne, devo con-cludere che nessun altro animale fa bene a vestirsi quanto lui”. Infine, i suoi sensi sono as-sai meno precisi di quelli dell’animale. Si può obiettare che l’uomo, però, ha avuto in cam-bio il dono della ragione, ma Montaigne ha buon motivo di affermare che quel dono lo con-duce alla presunzione e non alla sapienza. E qui inizia il secondo momento dell’Apologia,diretto a criticare non tanto la ragione in sé, quanto le sue manifestazioni storiche, cioè i fi-losofi e le scuole filosofiche. Un momento che viene a sua volta diviso in due tempi: 1) Ilsapere non ha mai reso saggio e felice chi lo ha praticato; 2) il sapere ha portato alla confu-sione delle idee e alla babele delle scuole filosofiche. Il sapere non ha certamente prodottogiovamento a Varrone, ad Aristotele e a Cicerone, la conoscenza della logica non li ha dife-si senza dubbio dalla gotta e non “hanno affrontato più serenamente la morte, sapendo chenessuno può evitarla”. “A Roma – scrive – , Cicerone ha esaltato la ‘pratica delle lettere’,che si offrono all’uomo come strumento di infinita penetrazione del reale e di costante per-fezionamento personale. Ma alla fine ‘mille femminucce hanno trascorso un chissà qualesperduto villaggio una vita più tranquilla, dolce e serena della sua’. Non è tutto, la ragioneha condotto all’‘infinie confusion d’opinions qui se voit entre les philosophes mesmes’; hadato origine alla varietà delle scuole, che si combattono a suon di principi che si equivalgo-no, perché nessuno è certo, deciso e radicale. Ha inoltre creato, nel tentativo di dominare an-che le menti, il dogma, come ha fatto la Scolastica che ha collocato Aristotele sugli altari edha indicato come modelli i peripatetici, per cui, nell’argomentare è fatto obbligo di seguirei procedimenti aristotelici. “Ma perché – si chiede Montaigne polemizzando contro l”ipse di-xit aristotelico – non dovremmo accettare d’altrettanto buon grado, ‘le idee di Platone, o gliatomi di Epicuro, o il vuoto e il pieno di Leucippo e Democrito?’; Pitagora o Talete, Anas-sagora o Diogene, Parmenide o (museo), Apollodoro o Anassimandro o Empedocle? Qualipiù ragionevoli e fondati motivi militano in favore di Aristotele? Basterà esaminare la suadottrina intorno ai principii delle cose. Sono limitati a tre: forma, materia e privazione. Ora,com’è possibile considerare la privazione, che vuol dire assenza, negazione, fra i principi co-stitutivi delle cose che sono? La storia del pensiero ci insegna dunque che” al mondo non vifurono mai due opinioni eguali, più di quanto possano essere eguali due piume o due chic-chi” (op. cit. pag. 19).

Oltre a ciò che abbiamo detto sopra, occorre convenire che l’uomo, non solo non può co-noscere quell’universo di cui si proclama Signore, ma nemmeno può conoscere sé stesso. In-fatti, “vediamo bene che il dito si muove, che si muove il piede; che alcuni organi Pulsanosenza il nostro consenso ed altri invece non operano se non dietro nostro ordine; che taluneapprensioni sono accompagnate da pallore, altre da rossore… ma come un’apprensione, cheè di natura spirituale, possa influire su di un soggetto solido e massiccio, qual’è il corpo, nes-suno è mai riuscito a spiegare”. Insomma, “non conosciamo noi stessi più di quanto cono-sciamo il bianco della neve o la pesantezza della pietra”. Inutili e vani risultano perciò i no-stri tentativi di conoscere l’universo. Nel terzo momento Montaigne focalizza la sua atten-zione sulla ragione umana in se stessa in quanto organo precipuo della conoscenza e ne sot-tolinea l’incapacità, la fragilità e la pochezza con argomenti che anticipano il dubbio macro-scopico di Cartesio, come gli argomenti del secondo momento offriranno motivi essenzialial tema della “misère” umana e dell’esistenzialismo pascaliani. L’esperienza da cui partiamoper la nostra conoscenza si fonda infatti sui sensi ma questi sono incerti e fallaci: “fanno ap-parire grande un corpo a chi è vicino, piccolo a chi è lontano”. Un “suono di tromba per ef-fetto dell’eco nella valle, pare che giunga da una direzione, mentre proviene dalla direzioneopposta… Quando si è colpiti da una palla d’archibugio all’altezza del secondo dito e quel-lo di mezzo è stato stroncato nella parte superiore, bisogna far forza su se stessi per convin-cerci che c’è un dito solo, tanto i sensi ce ne fanno sentire due”. Anche noi, come Montai-gne, potremmo continuare con l’inganno dei sensi: un bastone immerso in un vaso ricolmod’acqua appare spezzato e occorre usare l’organo del tatto per squarciare l’inganno, anchel’umanità è stata ingannata per secoli dall’esperienza sensibile se è vero come è vero che es-sa, osservando il cielo, credeva che fosse il sole a ruotare intorno alla Terra e così via. Ma

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oltre che trarci in inganno i sensi non colgono la realtà degli oggetti, ma ci offrono soltantola loro rappresentazione, e cioè le proprie passioni. “In tal modo, la rappresentazione noncorrisponde all’oggetto, ma semplicemente alla passione dei sensi; passione ed oggetto noncoincidono ; e perciò, chi giudica dalle passioni, giudica da altro, che non è l’oggetto”. Perquanto riguarda il sonno ed i sogni nel sonno – scrive – la nostra anima agisce, vive, eserci-ta tutte le sue facoltà, come quando è desta… nel sonno non distinguiamo certamente conchiarezza ma dal canto suo, la veglia non è mai netta e senza nubi. Almeno il sonno, talvol-ta, addormenta i sogni, mentre la veglia non è mai tanto veglia da dissiparli. E sono i sognid’uno che veglia; cioè, sono peggiori dei sogni”. Ora, “perché dubitare che il nostro pensa-re e il nostro agire non siano che un sogno, e il nostro stesso essere desti nient’altro che unaspecie di dormire? ” Chi non vede qui aperta la via al sistema cartesiano, che nasce dal dub-bio se noi forse non siamo preda, nel nostro sapere, di un diavoletto ingannatore? Ma, a dif-ferenza di Cartesio, che, grazie all’analisi dell’io, giunge, “more geometrico”, alla conoscen-za del vero e alla certezza metafisica, Michele de Montaigne rimane ancorato al suo scetti-cismo ed esclude energicamente che la ragione possa ordinare con chiarezza la massa caoti-ca delle rappresentazioni sensibili. “Per giudicare le percezioni – pensa – che riceviamo da-gli oggetti, ci occorrerebbe uno strumento di giudizio; per verificare questo strumento, ci bi-sognerebbero delle dimostrazioni; per vagliare queste dimostrazioni, ancora uno strumento,ed eccoci in un circolo vizioso”. La sua coerenza di scettico si spinge infatti tanto innanzi dainvestire lo stesso scetticismo. Gli scettici, dice, si limitano generalmente ad affermare: nonstabilisco nulla; questo non è più vero di quello; non comprendo e simili altre proposizioni.La loro espressione sacramentale è lo “epekw” cioè la sospensione del giudizio; ma non siaccorgono di cadere per questa via, in contraddizione: se affermano di non sapere, “sono già– conclude Montaigne – con la spalle al muro, perché sono costretti ad ammettere, come co-sa certa, almeno una cosa – di dubitare… Per conto mio – afferma ritengo che un’autenticaposizione scettica non possa giustamente esprimersi se non mediante un interrogativo: checosa so?”

Capacità e conoscenze limitate dell’autore, orientato anche verso lo stoicismo

Egli, per rappresentare la nostra incapacità di “prendre parti”, immaginava una bilanciacon piatti in perfetto equilibrio. Insomma, “l’ignoranza che si conosce che si giudica e si con-danna non è ignoranza integrale: bisogna che s’ignori, per essere autentica! ” Con ciò lo scet-ticismo ha toccato il suo estremo limite perché il dubbio si è fatto dubbio del dubbio. Nono-stante questa dichiarata professione di scetticismo, che sul piano morale poteva giocare co-me elemento di dissoluzione “nella sua condotta non vi è nulla di stravagante – notava confinezza già Blaise Pascal – ; egli agisce come tutti gli altri umani” (op. cit. p. 21). E non viè nulla di stravagante, perché lo scetticismo teoretico gli consiglia la pratica stoica, senza chefra l’uomo e l’altra vi sia frattura o soluzione di continuità. Constatati i limiti della propriaconoscenza, Montaigne si trova nella situazione dell’uomo delle origini che non si chiede co-me e che cosa si possa sapere ma che cosa si debba fare e alla domanda risponde con unaspecie di moralismo empirico che nasce da un’esperienza fondata sul buon senso. I motiviradicali di questo moralismo sono stoici essenzialmente, e fra tutti, quattro dominano le pa-gine dei saggi: 1) la coscienza dei propri limiti; 2) la pratica del ritiro e l’invito alla solitudi-ne; 3) il senso dell’amicizia; 4) la presenza della morte. Lo scetticismo tanto radicale teori-camente in Montaigne da suscitare il dubbio persino del dubbio non poteva non rivelarsi sulpiano pratico “chi dubita e dubita di dubitare sottolinea infatti, energicamente, i limiti, ecioè… l’infinita finitudine della natura umana” (op. cit. p. 22). A questo proposito, basteràricordare il celebre autoritratto che, intitolato della Presunzione, coglie però Montaigne nel-la sua natura “deboluccia” e nei suoi difetti, al fine di castigare, come per contrappasso, lasuperbia degli uomini… Non a caso si calca la mano con insistenza su ombre e deficienzedella propria persona “non so fare di conto – confessa – né con i gettoni, né con la penna;

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non conosco la maggior parte delle nostre monete; non distinguo la qualità del grano…; néla differenza fra i cavoli e la lattuga del mio orto… Ignoro il nome dei principali utensili ca-salinghi… tanto meno conosco la meccanica, la varietà delle merci e la natura dei frutti… Epoiché devo subire l’onta sino in fondo, confesso che sino ad un mese fa ignoravo che il lie-vito si usa per far fermentare il pane e il vino”. L’autoritratto, come abbiamo accennato, ri-sulta forse eccessivo nella confessione della propria ignoranza e della propria inettitudine,anche se si sa che chi è preso dagli studi filosofici guarda con “distacco” le altre cose più mi-nute e di minore interesse. Tale eccesso si spiega, però, quando si tenga presente che l’auto-re, attento indagatore, alla fine della sua analisi, arriva a concludere che alla ragione nostraè preclusa persino la conoscenza di noi stessi. Nello stesso autoritratto ancora prima avevaconfessato: “rifuggo da ogni forma di comando, di ordine, di ricostruzione. Se mi si costrin-ge esplicitamente a fare ciò che posso fare naturalmente, non lo faccio più”. Questa insoffe-renza ai comandi e alla costrizione può essere spiegata con l’educazione che fin da piccoloMontaigne ha avuto, un’educazione impartita secondo i metodi più liberali della scienza pe-dagogica del Rinascimento. Egli stesso scrive “Ho trascorso la mia infanzia dolcemente e li-beramente lontano da ogni forma di rigorosa soggezione; in tal modo, il mio temperamentoè cresciuto delicato e alieno da ogni sollecitudine” (op. cit. p. 42). A questo punto possiamospiegare oggi il carattere di Montaigne facendo ricorso alla psicanalisi e all’inconscio, a cuiessa dà notevole importanza, comunque la psicanalisi è sempre una teoria come tante altre eanch’essa non può resistere agli attacchi dello scetticismo che sostiene essere negata a noianche la conoscenza di noi stessi. Del resto il senso della libertà, l’insofferenza alla costri-zione esterna sono propri dello stoicismo, di cui Montaigne è un moderno rappresentante.Egli non poteva conoscere Freud, però la notazione seguente è degna dell’inventore dellapsicanalisi: “nelle cose che trattiamo – scrive – , e in particolare a proposito della naturaumana operano elementi segreti e imprevedibili, momenti oscuri, invisibili, sconosciuti per-fino a chi li vive, e che si destano e balzano fuori di colpo non appena si verificano circo-stanze nuove”. La miseria della condizione umana è tale, che la conoscenza dell’uomo è vie-tata all’uomo. Tale miseria si palesa, sul piano morale, quando l’uomo tenta di cogliere, nel-la intimità della propria coscienza, la soddisfazione che dovrebbe accompagnare ogni rettooperare. Anche in questo caso, la coscienza si profila, infatti, limitata, finita, e la natura del-la soddisfazione è affatto terrena o mondana. “La mia coscienza – afferma – è paga di sé.Certo, non come quella d’un angelo o quella d’un cavallo, ma semplicemente come la co-scienza di un uomo”. Quest’affermazione suggerisce, almeno all’inizio, una punta d’orgo-glio, ma questo orgoglio cela di fatto, una profonda umiltà. Difatti, ci si può chiedere qualeorgoglio o quale fiducia può ispirare la natura umana, se “gli uomini” come afferma Epitte-to “sono afflitti non dalle cose, ma dalla opinione che se ne fanno”. “Le mie azioni – diceancora – si regolano e si conformano a quello che sono, alla mia condizione. Non so fare dimeglio”. Mi limito a vivere nel mondo “senza entrare nella mischia, a vivere una vita appe-na dignitosa, che non pesi né a me né a gli altri”. Ecco perché non chiede mai consiglio adalcuno (e, del resto, nessuno può darlo), e ne dà soltanto quando la cortesia lo richiede ri-chieda. Dell’andamento delle cose sue dà colpa perciò, unicamente a se stesso e all’incertez-za del proprio giudizio; e quando gli avvenimenti lo battono, favorendo l’avversario, “nonc’è rimedio – confessa – : non mi rammarico con me stesso; accuso la fortuna, e non l’ope-ra mia”. La fortuna è una figura tipica degli uomini della Rinascenza, la si trova anche inMachiavelli, in Guicciardini e in Pico della Mirandola ma in Montaigne è scomparso ormail’orgoglio e la superbia di chi è disposto a combattere contro di essa, c’è, invece, l’atteggia-mento dello stoico pronto alla sopportazione coraggiosa di ogni evento doloroso dell’esisten-za. “Nous sommes embarqués” dirà più tardi Blaise Pascal, profilando con un’immagine si-gnificativa la condizione dell’uomo nel mondo. Qualche secolo dopo il modernista Mauri-zio Blondel aggiunge che l’ancora è tolta, in tempi più vicini a noi J. P. Sartre ha conclusola metafora affermando che dobbiamo navigare con i mezzi di bordo, in quanto siamo getta-ti a caso nel mondo.

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