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Studi e ricerche sul fascismo Polìtica economica e istituzioni. Il ministero dei Lavori pubblici. 1922-1925 di Giuseppe Barone La riforma amministrativa del ministero dei Lavori pubblici Quando a poche settimane dalla Marcia su Roma il governo Mussolini ottiene dal Parla- mento i pieni poteri per riordinare il sistema tributario e gli apparati burocratici (legge 22 novembre 1922, n. 1722), il fascismo non ha ancora elaborato un disegno coerente e orga- nico di riforma politica e amministrativa del- lo Stato. Nel solco della legislazione garanti- sta promossa da Crispi nel 1887-88, i provve- dimenti governativi del 1922-24 rinsaldarono la continuità dei profili istituzionali dello sta- to liberale. La forzata rinuncia da parte di Mussolini a fondare uno ‘Stato nuovo’ in chiave antiburocratica e di valorizzazione esclusiva delle competenze tecniche, e il con- testuale abbandono dei ‘gruppi di competen- za’ istituiti da Massimo Rocca, resero sem- pre più esplicito il compromesso fra il fasci- smo e le vecchie classi dominanti finalizzato a una parziale razionalizzazione degli appa- rati pubblici sotto il vigile controllo della bu- rocrazia tradizionale. Nel complesso, la sbandierata operazione di riorganizzazione delle strutture burocratiche dello Stato com- piuta dal fascismo si svolse in maniera fram- mentaria, e, in assenza di un criterio ispirato- re unitario, le riforme all’interno dei singoli rami dell’amministrazione furono attuate per iniziativa autonoma dei rispettivi ministri e dei loro diretti collaboratori, senza coordi- namento e uniformità di metodo atti a im- pedire nuovi squilibri e sfasature funzio- nali1. Nonostante il fallimento del piano genera- le di riforma, il riordinamento più significa- tivo fu certamente quello del ministero dei Lavori pubblici realizzato da Gabriello Car- nazza col Rd 1809 del 31 dicembre 1922, sul- la base dei criteri operativi suggeriti da Carlo Petrocchi. Alla vigilia della Marcia su Roma, infatti, l’esecuzione delle opere pubbliche re- stava ancora regolata in gran parte dalla or- ganica ma oramai antiquata legge 20 marzo 1865 n. 2248, anche se il trascorso mezzo se- colo di storia unitaria aveva visto moltipli- carsi e differenziarsi senza soste la produzio- ne legislativa in materia di lavori pubblici. Di fronte all’incessante aumento degli organi e delle funzioni amministrative connesse ai crescenti poteri d’intervento dello Stato nella vita economica e sociale, durante il primo quindicennio del Novecento la rinnovata bu- rocrazia giolittiana cercò di coordinare la sel- va intricata e caotica di norme e disposizioni, compilando una serie completa di ‘Testi uni- 1 Per una ricostruzione criticamente aggiornata della riforma burocratica cfr. Piero Calandra, I pieni poteri per le riforme amministrative 1922-1924, “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1975, n. 3, pp. 1349-1373. Dello stesso autore vedi pure Storia dell'amministrazione pubblica in Italia, Bologna, 11 Mulino, 1978, p. 265 sgg. Italia contemporanea”, settembre 1983, fase. 151/152

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Studi e ricerche sul fascismo

Polìtica economica e istituzioni.Il ministero dei Lavori pubblici. 1922-1925

di Giuseppe Barone

La riforma amministrativa del ministero dei Lavori pubblici

Quando a poche settimane dalla Marcia su Roma il governo Mussolini ottiene dal Parla­mento i pieni poteri per riordinare il sistema tributario e gli apparati burocratici (legge 22 novembre 1922, n. 1722), il fascismo non ha ancora elaborato un disegno coerente e orga­nico di riforma politica e amministrativa del­lo Stato. Nel solco della legislazione garanti­sta promossa da Crispi nel 1887-88, i provve­dimenti governativi del 1922-24 rinsaldarono la continuità dei profili istituzionali dello sta­to liberale. La forzata rinuncia da parte di Mussolini a fondare uno ‘Stato nuovo’ in chiave antiburocratica e di valorizzazione esclusiva delle competenze tecniche, e il con­testuale abbandono dei ‘gruppi di competen­za’ istituiti da Massimo Rocca, resero sem­pre più esplicito il compromesso fra il fasci­smo e le vecchie classi dominanti finalizzato a una parziale razionalizzazione degli appa­rati pubblici sotto il vigile controllo della bu­rocrazia tradizionale. Nel complesso, la sbandierata operazione di riorganizzazione delle strutture burocratiche dello Stato com­piuta dal fascismo si svolse in maniera fram­mentaria, e, in assenza di un criterio ispirato­

re unitario, le riforme all’interno dei singoli rami dell’amministrazione furono attuate per iniziativa autonoma dei rispettivi ministri e dei loro diretti collaboratori, senza coordi­namento e uniformità di metodo atti a im­pedire nuovi squilibri e sfasature funzio­nali1.

Nonostante il fallimento del piano genera­le di riforma, il riordinamento più significa­tivo fu certamente quello del ministero dei Lavori pubblici realizzato da Gabriello Car- nazza col Rd 1809 del 31 dicembre 1922, sul­la base dei criteri operativi suggeriti da Carlo Petrocchi. Alla vigilia della Marcia su Roma, infatti, l’esecuzione delle opere pubbliche re­stava ancora regolata in gran parte dalla or­ganica ma oramai antiquata legge 20 marzo 1865 n. 2248, anche se il trascorso mezzo se­colo di storia unitaria aveva visto moltipli­carsi e differenziarsi senza soste la produzio­ne legislativa in materia di lavori pubblici. Di fronte all’incessante aumento degli organi e delle funzioni amministrative connesse ai crescenti poteri d’intervento dello Stato nella vita economica e sociale, durante il primo quindicennio del Novecento la rinnovata bu­rocrazia giolittiana cercò di coordinare la sel­va intricata e caotica di norme e disposizioni, compilando una serie completa di ‘Testi uni-

1 Per una ricostruzione criticam ente agg iornata della rifo rm a burocra tica cfr. P iero C a landra , I p ien i p o te r i p e r le rifo rm e am m inistra tive 1922-1924, “ R ivista trim estrale di d iritto p ubb lico” , 1975, n . 3, pp . 1349-1373. Dello stesso au to re vedi pure Storia dell'am m in istrazione pubblica in Italia , B ologna, 11 M ulino, 1978, p. 265 sgg.

Ita lia con tem p o ran ea” , se ttem bre 1983, fase. 151 /152

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ci’ che servissero da punto di riferimento ob­bligato e giuridicamente certo. La emanazio­ne dei più importanti ‘Testi unici’ legislativi, relativi a bonifiche (22 marzo 1900, n. 195), acque pubbliche (25 luglio 1904, n. 523), fer­rovie nazionalizzate (6 luglio 1907, n. 429) e strade ferrate secondarie date in concessione a esercenti privati (9 maggio 1912, n. 1447), sistemazioni idraulico-forestali (21 marzo 1912, n. 442), opere marittime e navigazione interna (11 luglio 1913, n. 959), costituì sen­za dubbio uno sforzo notevole di riunifica­zione amministrativa dello stato liberale2. I contemporanei provvedimenti speciali per il Mezzogiorno, inaugurando le prime forme di legislazione straordinaria per le aree de­presse, allargarono però ulteriormente il var­co delle disposizioni eccezionali e transitorie in materia di sgravi fiscali e di incentivi alle iniziative industriali: le leggi sulla Basilicata, per l’incremento industriale di Napoli, per la Calabria e le altre province meridionali, il ‘Testo unico’ dei provvedimenti per la Sarde­gna, sul Magistrato veneto delle acque, non­ché le svariate norme valide per località col­pite da terremoti frane e alluvioni accavalla­rono nuovamente controlli e competenze del­l’amministrazione pubblica, che gli stessi giuristi stentarono a raccogliere e decifrare3.

Fino a quel momento i servizi dell’ammi­nistrazione dei Lavori pubblici erano stati suddivisi per materia, e nel corso dell’ultimo ventennio il moltiplicarsi delle competenze aveva portato alla creazione di otto uffici centrali (Segretariato generale, preposto ai servizi del personale; Direzione generale di ponti e strade; Direzione generale delle opere

idrauliche; Direzione generale delle bonifi­che; Direzione generale delle opere maritti­me; Direzione generale dei servizi speciali, per la esecuzione di opere in Basilicata Cala­bria e nelle zone terremotate; Ufficio specia­le delle acque pubbliche) senza contare i ser­vizi attribuiti ad altri dicasteri. Con il Rd 31 dicembre 1922 n. 1809, Carnazza, appena in­sediatosi a Palazzo San Silvestro, rivendicò anzitutto al suo ministero la competenza sui servizi disseminati altrove, in particolare quelli relativi sia alle grandi opere d’irriga­zione e alla sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani che erano stati affidate alle cure del ministero di Agricoltura, sia alla costruzione di tutti gli edifici pubblici (esclu­si quelli per uso militare) e degli acquedotti finora demandata al ministero dell’Interno. Ricomposta così l’unicità funzionale dei ser­vizi concernenti le opere pubbliche, essi furo­no ripartiti in tre sole Direzioni generali a ba­se territoriale. Nascevano perciò una Dire­zione generale dell’Italia settentrionale com­prese le tre Venezie, una per l’Italia centrale compresa l’Emilia, e una per l’Italia meridio­nale e insulare: ognuna di queste Direzioni generali fu a sua volta organizzata in tre Di­visioni soltanto distinte per categorie, rispet­tivamente attinenti a ponti e strade, alle ope­re idrauliche terrestri e marittime comprese le derivazioni delle acque pubbliche, alle co­struzioni edilizie e alla riparazione dei danni. Con il contemporaneo ridimensionamento del Segretariato generale e dell’Ufficio spe­ciale per le ferrovie e tramvie date in conces­sione, le mastodontiche diramazioni dell’am­ministrazione centrale risultarono notevol-

2 A lberto C araccio lo-Sabino Cassese, Ipo tesi su l ruolo degli apparati burocratici n e ll’Italia liberale, “ Q uadern i S to­rici” , 1971, n. 18, pp . 601-608; Sabino Cassese, L ’am m inistrazione dello S ta to liberale dem ocratico , ivi, 1972, pp. 703-713; R iccardo Faucci, Teoria e politica am m inistra tiva n e ll’Italia liberate: p ro b lem i aperti, “ Studi S to ric i” , 1972, pp . 447-465; R affaele Rom anelli, Stato , am m inistrazione, classi d irigenti nellT ta lia liberate, “ Q uadern i S tori­ci” , 1973, n. 23, pp . 603-642.3 P er una guida rag ionata cfr. i com m entari di C arlo M elograni, Legislazione su i lavori p ubb lic i, N apoli, P ietroco- la, 1920; S tefano Alessio, Codice dei lavori pubb lic i (parte generale ed espropriazione), F irenze, B arbera, 1922, e M .C . Isacco, Codice delle strade ordinarie, Firenze B arbera, 1922.

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mente snellite, tanto che le Direzioni generali furono ridotte da otto a quattro e le Divisio­ni da ventuno a tredici4.

L’abbandono dell’arcaica organizzazione per categorie tecniche delle opere pubbliche e la sua sostituzione con il sistema territoriale della ripartizione dei servizi per le tre grandi aree geografiche del paese, oltre a conseguire sensibili economie di bilancio per lo sfolti­mento di personale in esubero, tendevano a eliminare una delle cause principali della de­ficiente azione dello Stato, l’assenza cioè di uno studio integrale dei problemi e di una vi­sione organica d’insieme entro cui collocare l’esecuzione dei lavori pubblici. La fram­mentazione di competenze separate secondo la natura tecnica delle opere non solo aveva creato una pluralità di organi di fronte alla unicità di quelli esecutivi, ma aveva pure im­pedito alle singole Direzioni generali di for­mulare un piano organico delle opere pubbli­che che ne valutasse gli intimi nessi e le reci­proche interrelazioni, cosicché a lungo anda­re l’amministrazione centrale aveva finito per prescindere dai bisogni generali delle grandi aree regionali o subregionali per la­sciarsi guidare da esigenze clientelali o dalle pressioni di ristretti interessi. Soprattutto nel Mezzogiorno la politica dei lavori pubblici aveva sempre risentito eccessivamente delle influenze elettorali, le quali richiedevano che in ogni collegio lo Stato spendesse non meno degli altri collegi senza troppo riguardo alla effettiva utilità e al rendimento economico delle opere, cosicché di fronte alle più dispa­rate sollecitazioni dei notabili locali i governi decidevano di polverizzare gli stanziamenti

in troppi lavori, conducendoli tutti lenta­mente e lasciandone molti in sospeso alle pri­me difficoltà tecniche o per difetto di risorse finanziarie. Di qui gli inevitabili squilibri fra l’incremento di alcune categorie di opere ri­spetto alle altre, sproporzioni e incongruenze nella erogazione dei fondi disponibili e man­canza di criteri organici d’intervento che me­glio rispondessero alla diversità delle condi­zioni regionali e alle esigenze prioritarie dell’economia nazionale.

La giurisdizione di tipo territoriale avreb­be dovuto invece ridare al centro unità di direzione e di impiego qualificato dei flussi di spesa pubblica, restituendo così alle Dire­zioni generali dei tre distinti compartimenti geografici la visione complessiva dei bisogni delle singole province capace di affrontare la programmazione degli interventi in ma­niera coordinata in rapporto al loro grado di necessità e di utilità collettiva. La rifor­ma dei vertici gerarchici del ministero si ri­percuoteva inoltre sui rami periferici del­l’amministrazione, ridando impulso e unici­tà di indirizzi alle sedi provinciali del Genio civile, le quali, dovendo simultaneamente sovrintendere a tutte le specie di lavori, ave­vano ricevuto per il passato ordini contrad­dittori emessi senza collegamento alcuno dai molteplici centri decisionali, quando in­vece il rinnovato profilo organizzativo del dicastero faceva sperare nella rapida scom­parsa di queste interferenze e in una miglio­re armonizzazione tecnico-economica delle opere che gli uffici locali del Genio civile avrebbero dovuto eseguire sulla base delle disposizioni emanate dall’unica direzione

4 Le linee direttrici della rifo rm a del d icastero fu ro n o tracciate da C arnazza in una relazione al C onsiglio superiore dei Lavori pubblici, pubblica ta poi sulla rivista teorica del fascism o con il tito lo L e esigenze d e ll’Italia nuova e ip r o ­b lem i dei Lavori P ubblici, “G erarch ia” , dicem bre 1923, pp . 351-356. V. pure la pun tuale esposizione di G iuseppe O ttone , I lavori pubb lic i, “ L ’Idea N azionale” , 27 dicem bre 1922; Renzo B onora, L a nuova riform a d e ll’A m m in i­strazione dei L L .P P ., “G iornale dei Lavori pubblici e delle S trade fe rra te” , 25 settem bre 1924. Vedi anche la docu­m entazione inedita racco lta in A rch iv io P olitico C arnazza (d ’o ra in avanti A P C ), pacco 49, b . O rdinam ento e gestio­ne d e ll’am m in istrazione centrale dei L avori p ubb lic i, con u n a relazione illustrativa di C arnazza e M ussolini del 21 d i­cem bre 1922.

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generale della circoscrizione territoriale d ’appartenenza5.

L’eccessiva dispersione e suddivisione del­le funzioni nei rami sia centrali che periferici del ministero avevano pressoché vanificato il ruolo promozionale degli organi consultivi, cosicché accanto all’unico Consiglio superio­re dei Lavori pubblici istituito nel 1882 si era­no sovrapposti altri quattro corpi consultivi con funzionamento e struttura assai farragi­nosi: la Commissione centrale per le sistema­zioni idraulico-forestali e per le bonifiche, il Comitato speciale per l’edilizia sismica, la Giunta per le opere pubbliche delle Colonie, il Consiglio superiore delle acque, oltre a nu­merose altre commissioni permanenti. Per annullare un tale eccessivo frazionamento delle funzioni, che era a tutto danno della vi­sione sintetica e integrale dei problemi, Car- nazza abolì tutte le commissioni speciali, fu­se i quattro corpi consultivi nel rinnovato Consiglio superiore dei Lavori pubblici arti­colato in quattro sezioni, di cui la prima per la viabilità e l’edilizia, la seconda per bonifi­che irrigazioni e opere marittime, la terza per acque pubbliche ed elettricità, la quarta per ferrovie tramvie e servizi automobilistici, mentre per i problemi più urgenti costituì un comitato ristretto per ogni sezione che per gli affari comuni si riuniva con i comitati delle

altre sezioni. Oltre a predisporre il piano an­nuale delle opere pubbliche, il nuovo conses­so, a differenza del vecchio, non costituiva più un organo esclusivamente tecnico-buro­cratico, essendone stati chiamati a far parte per ogni sezione due consiglieri di Stato, due avvocati erariali, i direttori generali del mini­stero e — innovazione degna di rilievo — quattro esperti estranei all’amministrazione e scelti fra gli esponenti dell’industria e delle scienze applicate. La riunione in un unico or­gano di elementi tecnici giuridici ed economi­ci era ispirata al criterio di una programma­zione integrale che evitasse l’inconveniente dell’esame separato delle opere da parte di organi e uffici diversi; per la stessa logica effi- cientistica e di rapida operatività la legge stabilì anche che i pareri del Consiglio supe­riore sostituissero ogni altro parere di corpi consultivi e che lo stesso ministro fosse tenu­to a conformarvisi, salvo a provvedere in ca­so contrario con motivato decreto congiunta- mente deliberato dal Consiglio dei ministri6.

Un apposito decreto reale dettò norme specifiche per la costituzione del Consiglio, a presiedere il quale fu chiamato Orso Mario Corbino, ordinario di fisica sperimentale al­l’Università di Roma e politicamente legato alla Democrazia sociale siciliana7. A far par­te in qualità di esperti nella prima sezione

5 G abriello C arnazza, L a politica dei lavori pu b b lic i e la questione m eridionale. D iscorso p ro n u n zia to a Castiglione d i Sicilia il 7 se ttem bre 1924, C a tan ia , tip . M onachini, 1924, pp . 6-7. Sulla tradizionale inefficienza degli uffici del G enio civile specialm ente nel M ezzogiorno cfr. q u an to scriveva M euccio R uini nella sua m agistrale relazione su L e opere pubbliche in Calabria, B ergam o, 1913, p. L1X sgg.6 D ecreto Reale 31 dicem bre 1922 n. 1809 concernente la rifo rm a dei servizi de i M in istero dei L a vori P ubblici, “ G az­zetta U fficiale del Regno” , 23 gennaio 1923, n . 18. Vedi pure il D ecreto R eale 21 gennaio 1923 n. 238 che approva te nuove tabelle p e r la sistem azione del personale d e ll’A m m in istra z io n e centrate dei L a vo ri P ubblici, ivi, 17 febbra io 1923, n. 40, e il D ecreto m inisteriale 25 gennaio 1923 che approva la d istribuzione dei servizi d e ll’am m in istrazione centrale del M inistero dei Lavori P ubblici, ivi, 24 gennaio 1923, n. 19.7 N ato ad A ugusta (Siracusa) nel 1876, C orb ino aveva v in to la ca tted ra di fisica nel 1905 presso l’U niversità di M es­sina. M olto vicino agli am bienti dell’industria e lettrica, fu ch iam ato nel 1917 a presiedere il C onsiglio superio re delle acque; nom inato senatore il 3 o tto b re 1920, en trò a far parte del m inistero B onom i nel 1921-22 quale tito lare del d i­castero della P ubblica istruzione. Nel luglio 1923 divenne tito lare del nuovo d icastero dell’E conom ia nazionale , la­sciando la presidenza del C onsiglio superiore a G uglielm o M arconi. C fr. il p ro filo b iografico traccia to nel necro lo­gio com posto da G iovanni G iorgi, O rso M ario C orb ino , in C onfederazione fascista dei professionisti e degli artisti. C elebrazioni siciliane. Parte P rim a 25 se ttem bre-7 o ttobre 1939, U rb ino , 1939, pp. 227-246.

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(viabilità ed edilizia) furono chiamati il co­struttore Pietro Puricelli, l’architetto Cesare Bazzani, Alessandro Cagnoli e Ernesto Vita- ri; nella seconda sezione (bonifiche idrauli­che e agrarie, irrigazione, opere marittime) gli ingegneri Enrico Coen Cagli, Natale Prampolini, Gaudenzio Fantoli e Ugo Gre- goretti; nella terza sezione (acque pubbliche ed elettricità) l’onorevole Francesco Mauro, Leandro Mazza e gli ingegneri Emilio Piaz- zoli e Angelo Omodeo; nella quarta sezione (ferrovie, tramvie e automobili) gli ingegneri Filippo Tajani, Arturo Forges Davanzati, Giuseppe Ottone, Pietro Biraghi. In seno al Consiglio fu creato anche un ufficio di se­greteria con compiti di coordinamento e di ricerca scientifica, dove Carnazza seppe abilmente collocare come suoi uomini di fi­ducia i conterranei Pietro D’Angelo, capo sezione amministrativo del ministero, e il professor Filippo Eredia, capo reparto del­l’ufficio centrale di meteorologia e geodina­mica8. L’ingresso dei tecnici e degli indu­striali nell’amministrazione dei Lavori pub­blici sollevò un vespaio di polemiche contro il ministro accusato di favorire la collusione fra interessi pubblici e privati a danno del­l’erario statale, tanto che il governo Musso­lini dovette correre ai ripari con il decreto n. 2480 del 30 dicembre 1923 con cui si pre­scrisse il parere obbligatorio del Consiglio di Stato su tutti i contratti e le convenzioni che importassero impegni finanziari non auto­rizzati dalle leggi di bilancio. Queste cautele giuridiche non erano di per sé sufficienti a sciogliere lo stretto connubio fra ammini­strazione pubblica e potere economico, non solo per l’alto grado di omogeneità raggiun­to fra la dirigenza politica e quella burocra­tica, ma soprattutto perché il sistema ammi­nistrativo durante l’età giolittiana aveva ini­ziato a svolgere un ruolo funzionale al siste­

ma capitalistico italiano fino a diventare nel corso della prima guerra mondiale il fattore principale di sostegno dell’industria. La filo­sofia produttivistica della riforma Carnazza non puntava certo ad affievolire lo spessore di questo rapporto, ma tendeva anzi a raf­forzare la compenetrazione fra apparati sta­tali e industria, per imprimere slancio e vita­lità operativa alla costruzione delle opere pubbliche.

La nuova organizzazione territoriale dei servizi rese anche necessaria una profonda modificazione nella struttura del bilancio del ministero, poiché agli stanziamenti di­stinti per singole categorie di opere furono sostituite assegnazioni di spesa per ciascuna delle grandi zone (settentrionale, centrale, meridionale e insulare) nelle quali era stato diviso il territorio nazionale, in corrispon­denza delle tre Direzioni generali che costi­tuivano la moderna ossatura della ammini­strazione centrale. La tripartizione del bi­lancio per aree geografiche si rivelò partico­larmente utile per eliminare la polverizza­zione degli stanziamenti che spesso immobi­lizzava l’impiego dei fondi rendendone dif­ficile una utilizzazione più elastica e più economica, e inoltre permise una più rego­lare attribuzione di finanziamenti a opere da eseguirsi con interventi programmati e complessivi su territori omogenei. Questo aspetto finanziario della riforma assumeva soprattutto un significato politico spiccata- mente meridionalistico, poiché la preceden­te unità indifferenziata degli stanziamenti, ripartiti per singole categorie di opere valide su tutto il territorio nazionale, aveva rap­presentato uno degli ostacoli maggiori che aveva impedito una erogazione proporzio­nale della spesa pubblica fra le varie regio­ni. Il raggruppamento delle somme stanzia­te per lavori pubblici in base al criterio ter-

D ecreto Reale 18 feb b ra io 1923 che reca norm e p e r la costituzione del C onsiglio Superiore dei L a vori P ubblici, B ollettino u fficiale del m inistero dei Lavori P ubb lic i” , 21 febb ra io -10 m arzo 1923, n. 6-7.

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ritoriale non solo restituiva chiarezza e sin­cerità al bilancio, rendendo palese la distri­buzione regionale delle spese, ma realizzava anche il principio dell’assegnazione specifi­ca dei fondi per le opere pubbliche nel Mez­zogiorno e separata dai fondi destinati al resto d’Italia. In tal modo si ponevano le premesse sul piano contabile e finanziario per un intervento realmente compensativo dello Stato a favore delle aree arretrate, im­pedendo il frequente e facile ricorso al siste­ma di stornare le somme da un capitolo all’altro del bilancio con cui tradizional­mente si accusavano burocrazia e classe po­litica di aver saputo dirottare dal Sud cospi­cue risorse per concentrarle nella creazione di infrastrutture per le aree industrialmente avanzate del nord-ovest9.

La scelta meridionalistica di Carnazza non mirava solo a ottenere per il Sud maggiori dotazioni di bilancio; essa tendeva anche a diffondere in queste regioni il sistema delle concessioni di opere pubbliche già proficua­mente sperimentato nell’Italia settentrionale. L’istituto della concessione nella legislazione italiana sui lavori pubblici non era certamen­te una novità se con esso in via eccezionale furono costruiti i canali Cavour e furono in seguito regolarmente elargite sovvenzioni per l’impianto di linee alle compagnie ferrovia­rie. Alla fine del primo decennio del secolo il sistema era stato applicato ai grandi lavori di sistemazione idraulica. Le bonifiche dell’alta Italia e dell’Emilia ebbero infatti un forte impulso dalla legge 20 giugno 1912 n. 712, grazie al largo uso delle concessioni fatte ai consorzi dei proprietari, con rimborso ratea­le in annualità differite comprensive di capi­

tali e di interessi, il cui ammontare fu inizial­mente fissato nella cifra di tre milioni: a con­vincere i ministri dell’Agricoltura, Nitti, e dei Lavori pubblici, Sacchi, circa la bontà di tale tipo di contratto era stato Meuccio Rui­ni, deputato e collaboratore della “Critica Sociale” che proprio quell’anno era stato no­minato direttore generale presso l’ammini­strazione dei Lavori pubblici. I risultati furo­no talmente efficaci da spingere Ivanoe Bo- nomi, tornato a Palazzo San Silvestro dopo appena due anni di assenza, a emanare una serie di decreti legge per introdurre su larga scala il sistema delle concessioni e per abolire nel settore delle bonifiche il limite massimo delle annualità, lasciando libero il governo di determinare in sede di bilancio l’ammontare delle somme secondo il bisogno.

La sempre più completa utilizzazione della concessione da parte degli ultimi governi pre­fascisti dimostra come la collaborazione dei privati nella costruzione di opere pubbliche costituisca una costante della politica dei La­vori pubblici in Italia, a conferma della con­tinuità fra stato liberale e primo fascismo, tanto da risultare uno degli aspetti più rivela­tori dei rapporti fra amministrazione e politi­ca e della relazione fra industria e Stato10 11. Non a caso lo strumento giuridico-economi- co della concessione era stato sin dal 1914 duramente criticato da Luigi Einaudi a causa del sistema di pagamento per annualità, che sarebbe stato fonte di dissesto finanziario per il bilancio statale perché creava veri e propri debiti larvati". Per l’ortodossia liberi­sta di Einaudi l’accensione dei debiti per ope­re pubbliche equivaleva pur sempre a una sottrazione di risparmio privato che avrebbe

9 C arlo Petrocchi, R ifo rm e e C ontroriform e in m ateria d i lavori p ubb lic i, in L a politica dei lavori p ubb lic i, R om a, Rivista A cqua e traspo rti editrice, 1926, pp. 283-285.10 C fr. al riguardo le penetranti osservazioni di Sabino Cassese, Concessione d i opere pubb lich e e partecipazione statale, in L a fo rm a z io n e dello S ta to am m in istra tivo , M ilano , G iuffrè , 1974, pp . 277-292.11 Sulla con tinu ità dell’indirizzo liberistico einaudiano c fr. gli artico li L avori pu b b lic i e d isoccupati del 27 dicem bre 1922 e II p iano dei lavori pubblici e l ’indeterm inazione d e ll’onere del 3 gennaio 1925, en tram bi o ra in Luigi E inaudi, Cronache econom iche e po litiche d i un trentennio , vol. V I, T orino , E inaud i, 1960, pp . 1017-1019, e voi. V II, pp . 4-8.

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visto diminuire la disponibilità del mercato dei capitali verso impieghi più produttivi, e tali argomenti erano condivisi dal ministro delle Finanze De Stefani e dagli ambienti an­tifascisti liberisti raccolti attorno al settima­nale “Il Mondo” , i quali definirono ‘maglia- nesco’ il sistema perpetuato dal governo Mussolini di contrarre debiti al di fuori del­l’autorizzazione del Parlamento. Dalla parte opposta i giovani tecnocrati nittiani e sociari- formisti replicavano invece che l’istituto del­la concessione si era dimostrato l’unico stru­mento in grado di assicurare un rapido incre­mento delle opere pubbliche senza trascinare per anni l’esecuzione con ulteriore dispendio per l’erario e che frazionando la spesa con rate annuali lo Stato conseguiva il duplice vantaggio di non aggravare con oneri a breve termine la finanza pubblica e di accelerare il ritmo dell’economia nazionale, purché fosse rispettata l’ovvia cautela di realizzare opere veramente utili e redditizie12. D’altra parte la diffusione generalizzata del sistema delle concessioni nel 1919, e ampiamente utilizza­to nella riforma Carnazza, non solo aveva avuto validi precedenti nella legislazione straniera, ma si era anche imposta per il falli­mento delle tradizionali procedure seguite in materia di pubblici contratti. Nel 1914 Carlo Petrocchi, pubblicando per conto del mini­stero dei Lavori pubblici una relazione stati­stica su 998 aste pubbliche, 445 licitazioni, 3496 trattative private e 5031 contratti aveva esplicitamente affermato: “La pubblica gara spesso non assicura all’Amministrazione né

il miglior contraente né il prezzo più vantag­gioso. Non il miglior contraente, perché mol­te buone imprese rifuggono dalle aste dove dovrebbero subire contratti non desiderati e sottostare a una concorrenza spesso irragio­nevole. Non il prezzo più vantaggioso, per­ché in molte province le imprese hanno ten­denza a coalizzarsi e sanno regolare i pubbli­ci incanti in modo da eliminare la concorren­za, mentre in altre province la concorrenza si esplica così sfrenatamente da indurre gli im­presari ad offerte eccessive con danno loro e grave pericolo per la buona esecuzione delle opere”13.

Il dibattito che accompagnò la ristruttura­zione dell’amministrazione dei Lavori pub­blici vide perciò contrapporsi due differenti scuole: da un lato i difensori a oltranza di una linea liberista contraria alla dilatazione della spesa pubblica e incline a ripristinare il metodo dell’asta pubblica e del finanziamen­to diretto delle opere sulla base di stanzia­menti fissi regolarmente impostati nella par­te ordinaria del bilancio; dall’altra una pat­tuglia agguerrita di politici e tecnici (Bono- mi, Casalini, Ruini, Petrocchi, Iandolo) as­sertori di una ideologia produttivistica che, facendo dello Stato il centro propulsore della ricostruzione economica postbellica, inten­devano sostituire alla lenta e farraginosa ese­cuzione diretta delle opere forme più moder­ne ed efficienti di partecipazione mista fra fi­nanza pubblica e capitale privato. La rifor­ma burocratica attuata grazie ai pieni poteri da Gabriello Carnazza segnò per il momento

12 In tal senso vedi la relazione di M. R uini, L e opere p ubb liche in Calabria, c i t . , p . L X IX e dello stesso au to re l ’a r ti­colo I lavori pu b b lic i dop o la guerra, “ P roblem i ita lian i” , 1922, pp. 197-211. Vedi pure le analoghe considerazioni svolte da C. P etrocchi nello scritto L a politica dei lavori pubb lic i n e ll’ora presente , “ P roblem i ita lian i” , 1922, pp . 283-298.13 M inistero dei Lavori pubblici, R elazione statistica su i con tra tti d ’appalto , R om a, 1914, p. 223. Favorevole al si­stem a delle concessioni per tra tta tiv e private fu pure il depu ta to socialrifo rm ista V incenzo C asalini nella sua e labora­ta relazione sul bilancio dei Lavori pubblici p resen ta ta il 28 m arzo 1925 in A tti P arlam en ta ri, C am era, Leg. X X V II, Sess. 1924-25, D ocum enti, n. 290 A . È pu re interessante n o tare che critiche analoghe sono ripe tu te oggi da M. Alle- gra-S .A . R om an o -F .P . Pugliese-G . M anzo, R a p p o rto sulle p rocedure contrattuali in Italia, Francia e S ta ti Uniti, M ilano, 1974, p. 89 sgg.

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un importante successo dei tecnocrati nittia- ni e socialriformisti. Se al ministro siciliano spettò in definitiva la decisione politica della riorganizzazione tecnico-finanziaria del dica­stero dei Lavori pubblici, il vero vincitore di questa nuova ‘battaglia burocratica’ fu cer­tamente Carlo Petrocchi, anch’egli politica- mente ‘creatura’ di Ivanoe Bonomi e figura poco nota di grand commis d ’Etat, che della riforma fu uno dei principali ispiratori e l’estensore materiale.

“Da tempo m’ero andato occupando — ri corda egli stesso — della riforma generale dell’amministrazione dei Lavori Pubblici [...]. Sopravvenuto di lì a poco il Governo Nazionale, il dilemma fra ripartizione tradi­zionale per categoria d’opere o divisione re­gionale fu risoluto speditamente dall’on. Carnazza, il quale, nell’incaricarmi di con­cretare in ventiquattro ore o poco più la ri­forma del ministero, m’invitò a scegliere senza esitazioni la ripartizione regionale dei servizi centrali. Entro il breve termine asse­gnatomi buttai giù la riforma e gliela portai; quando il giorno dopo tornai da lui per alcu­ni piccoli ritocchi, mi annunziò che la rifor­ma era stata già approvata dal Consiglio dei ministri [...]. In applicazione della riforma fui posto a capo della nuova Direzione gene­rale delle opere pubbliche per l’Italia meri­dionale ed Insulare, che doveva affrontare un ben poderoso compito. Mi misi al trava­glio con molto entusiasmo sperando che in un decennio di studi e di lavori si sarebbe potuto vedere gli effetti benefici della nuova organizzazione dei servizi; ma feci i conti senza considerare gli isterismi della politica. Tuttavia il breve periodo di quello che io

chiamo il mio regno delle due Sicilie segnò il massimo trionfo del sistema delle concessio­ni di pura costruzione instaurato da Bonomi e riconfermato dal ministro Carnazza. An­che qui la politica, frammischiandosi al­l’Amministrazione, rese claudicanti alcune di dette concessioni; ma non valse ad invali­dare il sistema, checché ne pensasse e facesse il successore di Carnazza, l’on. Sarrocchi d’accordo con De Stefani. In verità il siste­ma, per quanto criticato quale forma di ap­palto larvato, ha l’innegabile pregio di alle­viare l’Amministrazione di compiti che non può sempre disimpegnare con la necessaria celerità e intensità e, consentendo di affidare grossi lavori a ditte di grande capacità tecni­co-finanziaria sostituisce un’attività unica, e organica a quella frammentaria, disarmoni­ca e quindi antieconomica dei vari uffici e dei molteplici, piccoli, male finanziati e liti­giosi appaltatori.” 14

La collaborazione tecnica e politica fra l’alto burocrate socialriformista e il demoso­ciale ministro siciliano nasceva così all’inse­gna di una svolta meridionalistica che mirava a riqualificare l’intervento dello Stato in ter­mini di efficienza industriale e produttività economica dei lavori pubblici necessari ad attenuare gli squilibri strutturali del duali­smo economico italiano. La svolta ebbe in realtà assai breve durata, travolta come fu più che dai pretesi scandali, dai presupposti, dottrinari e giuridici dell’ortodossia liberista di De Stefani; essa tuttavia merita di essere rivalutata sul piano storico non solo perché documenta le diverse linee di politica econo­mica che si intrecciarono scontrandosi du­rante i primi anni del regime fascista, ma an-

14 C arlo Petrocch i, L e m ie battaglie burocratiche, prefazione al volum e che raccoglie alcuni fra i suoi scritti p iù si­gnificativi, L a politica italiana dei lavori pubb lic i, c it., p p . X X -X X I. I punti qualificanti della rifo rm a C arnazza era­no sta ti an ticipati dal P etrocchi nell’opuscolo P er la riform a burocratica. I l riord inam ento del M in istero dei L avori P ubblici, R om a, 1921. Sulla figura di questo a lto funzionario dello S ta to (di cui a tu t t ’oggi m anca u n a b iografia com pleta), che rapp resen ta un notevole esem pio della con tinu ità b u rocra tica f ra prefascism o fascism o e postfasci­sm o, ha richiam ato l’attenzione Sabino Cassese, / / tr io n fo della burocrazia della cifra e l ’am m in istrazione legislatri­ce, “ Rivista trim estrale di d iritto pubb lico” , 1973, n . 3, pp . 1516-1533, che h a ripubb lica to , com m entandoli, alcuni b ran i dell’u ltim o scritto di C arlo Petrocch i, I l p rob lem a della burocrazia, R om a, M igliaresi, 1944.

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che per il suo intrinseco valore di proposta modernizzatrice che coinvolse, per alcuni an­ni, importanti gruppi politici e tecnici della classe dirigente meridionale.

Fra Camazza e De Stefani: meridionalismo e liberismo a confronto

Tra il 1918 e il 1922 erano stati spesi in tota­le per opere pubbliche 6.706 milioni contro i 1.980 milioni del periodo 1911-1914, ma questi valori assoluti sono fra loro incompa­rabili per gli effetti della svalutazione mone­taria, che fece registrare nel 1922 un aumen­to medio del 597 per cento nel costo della manodopera rispetto agli anni prebellici (1910-1914=100), del 541 per cento nel prezzo dei materiali e del 625 per cento in quello dei trasporti. La. rielaborazione com­piuta di recente da Paolo Frascani sui da­ti relativi ai pagamenti per opere pubbli­che effettuati tra il 1908 e il 1922 dimostra come nel primo dopoguerra gli stanziamenti si ridussero del 39 per cento passando dai 3.420 milioni del periodo 1908-1915 ai 2.090 milioni del periodo 1915-22. La guerra pro­dusse inoltre una diversa dislocazione delle varie categorie di opere, dal momento che aumentarono notevolmente le spese militari e le assegnazioni di fondi per i danni di guer­ra e per la ricostruzione delle province inva­se, mentre si contrassero drasticamente le ri­sorse disponibili per bonifiche idrauliche, porti, ferrovie, strade, edilizia. Calcolando anche la distribuzione geografica delle som­me erogate per opere pubbliche straordina­rie, lo stesso Frascani ha potuto rilevare che la media annuale di spesa nel quadriennio 1918-22 si ridusse del 64 per cento per le re­gioni meridionali, e del 25 e 36 per cento ri­spettivamente per quelle settentrionali e cen­

trali15. Parallelamente all’enorme spinta alla concentrazione industriale e al generale tra­sferimento di ricchezza dall’agricoltura agli altri settori produttivi provocati dalla guer­ra, anche il calo degli investimenti pubblici contribuì ad allargare gli squilibri strutturali del paese. L’urgenza di provvedere alla di­soccupazione dilagante e alla ripresa dei la­vori interrotti spinse in verità gli ultimi go­verni liberali ad approvare massicci stanzia­menti per opere pubbliche. Con il decreto luogotenenziale 17 novembre 1918, n. 1698 era stata autorizzata la spesa di un miliardo per l’esecuzione di opere marittime bonifiche e strade, di 1.800 milioni per la costruzione di strade ferrate e di 500 milioni da assegnar­si ad altri dicasteri per spese di pubblica utili­tà. La legge 20 agosto 1921 voluta da Bono- mi per combattere la disoccupazione impe­gnò lo Stato per altri 480 milioni da destinare a lavori pubblici straordinari, e un successivo decreto del 19 novembre 1921 stabilì uno stanziamento aggiuntivo di 800 milioni.

Tutte queste autorizzazioni consentirono l’assunzione di rilevanti impegni nel bilancio del ministero dei Lavori pubblici. Il proble­ma fondamentale era però costituito dal di­vario esistente nel dopoguerra fra gli stanzia­menti assegnati e i pagamenti effettivi, nel senso che alla danza delle centinaia di milioni autorizzati dai decreti legislativi non faceva riscontro una corrispondente capacità di spe­sa delle singole amministrazioni centrali e pe­riferiche dello Stato, cosicché nell’intero quadriennio 1918-1922 i residui passivi am­montarono a circa un terzo delle spese auto­rizzate. Queste considerazioni ridimensiona­no l’incidenza finanziaria dell’intervento sta­tale nell’economia italiana postbellica e dan­no ragione della sfasatura verificatasi fra programmi e risultati realmente conseguiti dalla politica degli ultimi governi prefascisti

15 P ao lo F rascan i, P olitica econom ica e fin a n za pubblica in Italia nei p r im o dopoguerra , N apoli, G iann in i, 1975, pp . 201-218.

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prima della crisi definitiva del sistema libe­rale.

Benché il ministero di coalizione formato da Mussolini subito dopo la Marcia su Roma non rappresentasse un gruppo omogeneo di interessi e non avesse una precisa filosofia economica, l’impostazione ‘manchesteriana’ del primo fascismo trovò modo di affermarsi grazie alla prestigiosa personalità di alberto De Stefani. Educato alla scuola liberista di Ca’ Foscari, il giovane ministro delle Finan­ze riuscì a imporre il problema della restau­razione finanziaria come l’obiettivo qualifi­cante della politica economica fascista. Per rimettere in moto il processo di accumulazio­ne capitalistica occorreva lasciare piena li­bertà d’azione all’imprenditoria privata, spogliando nel contempo lo Stato di tutte quelle funzioni di controllo e delle bardature di guerra che si erano accumulate disorgani­camente negli anni precedenti.

Quello delle economie e del pareggio del bilancio era del resto un tema comune alla cultura antifascista liberista e la sua assun­zione a punto cardine della politica econo­mica servì non poco ad attirare verso il fa­scismo le simpatie, o quanto meno la so­spensione di ogni giudizio negativo, da parte dei liberisti intransigenti come Einaudi, Gi­retti, De Viti De Marco e dello stesso Salve- mini. La ‘normalizzazione’ in campo finan­ziario consegui risultati apprezzabili, che si tradussero nella ‘storica’ riconquista del pa­reggio del bilancio entro il 1926 ottenuta con la rapida contrazione della quota delle spese effettive sul reddito nazionale diminuita dal 35 al 13 per cento nel breve arco di un qua­driennio. Lo sforzo principale per il conteni­mento della spesa fu concentrato nelle am­ministrazioni postale e ferroviaria, che dopo

i pesanti disavanzi precedenti tornarono nel 1925 a produrre utili di gestione grazie a so­stanziosi aumenti tariffari e a drastiche ridu­zioni di personale, mentre la privatizzazione di servizi come quello telefonico permetteva di sgravare l’erario da ulteriori oneri fi­nanziari16.

Contro la rigida ortodossia finanziaria del liberista De Stefani, nel siciliano Gabriello Carnazza si identificavano le tendenze inter- ventiste e meridionalistiche di alcuni settori della burocrazia e della grande industria. Da tempo, anzi, politici e tecnici radicalriformi- sti guardavano con interesse l’ascesa politica del deputato catanese, tanto che la Kuliscioff lo aveva inserito nella lista ideale dei ministri di un possibile governo democratico, e lo stesso Turati nel giugno 1921 ne aveva tessu­to gli elogi alla Camera per le trasformazioni fondiarie intensive operate nelle aziende-mo­dello di Canalicchio e della Rotondella. Di­scendente da una solida famiglia borghese di insigni giuristi e ricca di tradizioni risorgi­mentali, sin dagli inizi del secolo la stretta os­servanza giolittiana di Gabriello Carnazza non si era mai identificata con la piatta rasse­gnazione di tanti ascari meridionali. Nella città etnea gli aveva certamente nuociuto la battagliera concorrenza del ‘santone’ repub­blicano-socialista Giuseppe De Felice che a capo dei partiti ‘popolari’ aveva retto l’am­ministrazione comunale sin dal 1902, e con­tro la triade radicalmassonica dei deputati Macchi Saitta e Vincenzo Giuffrida non ave­va esitato a ingaggiare una lotta senza esclu­sione di colpi per il controllo politico della provincia, nella quale era riuscito alfine vin­citore grazie alla calcolata adesione al fasci­smo. Ma più che l’evidente caratura di gran­de notabile erano stati la sua consumata peri-

16 C fr. in p roposito l ’equ ilib ra to giudizio di G ianni T on io lo , L ’econom ia d e ll’Italia fa sc is ta , B ari, L aterza , 1980, p. 51 sgg. Vedi pure i recenti con tribu ti di P ao lo F rascan i, R estaurazione finanziar ia e politica m onetaria e creditizia in Italia nella prim a m età degli anni ’20, “C ritica sto rica” , 1978, nn . 2-3, pp . 229-269, e di F ranco M arcoald i, M a ffe o Pantaleoni, la riform a finanziaria e il governo fa sc ista nel periodo dei p ien i p o te r i attraverso le lettere ad A lb e rto D e S tefan i, “A nnali della Fondazione E inaud i” , 1980, pp . 609-665.

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zia di giurista e l’avviatissimo studio legale di consulenza commerciale a fargli superare la grigia dimensione del potere locale e ad assi­curargli stabili contatti con i gruppi di co­mando dell’economia italiana'7. La carica di vicepresidente della Commissione parlamen­tare delle spese di guerra, tenuta con pruden­te abilità nel 1921-22, gli era senza dubbio servita ad accrescere rapporti ed entrature nel mondo finanziario italiano: nessuna iniziati­va capitalistica, nessuno dei ‘grandi affari’ nel settore delle opere pubbliche passava in Sicilia senza la sua mediazione politica e con­sulenza legale. Dal settore minerario alla raf­finazione degli zolfi, dai derivati agrumari all’industria dell’acido citrico, dalle linee tramviarie alle ferrovie secondarie in conces­sione, dalle attività portuali di magazzinag­gio agli appalti di opere pubbliche, l’interven­to del capitale finanziario settentrionale nel­l’isola (specialmente nel suo versante orienta­le) nel primo quarto del secolo XX passa at­traverso questo influente personaggio: au­menti di capitale, fusioni societarie, scambi di pacchetti azionari, compravendite immo­biliari con la decadente proprietà nobiliare, controversie con il fisco lo trovano attento protagonista e al centro di un vasto reticolo di relazioni economiche e di agganci politici.

Questa identificazione della ‘politica’ con 1’‘economia’ in Carnazza aveva finito con il sussumere i moduli ideologici dell’industria- lismo nittiano in coincidenza con l’impetuo­so sviluppo delPindustria elettrica in Sicilia. Grazie alla pluriennale consulenza legale a favore del gruppo elettrofinanziario Comit- Bastogi-Società generale elettrica della Sici­lia, Gabriello Carnazza aveva potuto intrec­ciare solide relazioni d’affari e vincoli perso­nali con le nuove leve della tecnocrazia rifor­

mista, a cominciare dall’ingegnere Angelo Omodeo che, giunto nell’isola per progettare la costruzione delle prime grandi centrali idroelettriche, sin dagli inizi del secolo aveva convinto il notabile catanese a diventare uno dei principali sostenitori del piano elettroirri­guo per il Mezzogiorno17 18. Non desta perciò alcuna meraviglia se con la conquista del po­tere da parte del fascismo il disegno moder- nizzatore di origine nittiana, e fatto proprio dai gruppi più dinamici del capitalismo ita­liano, doveva approdare ai massimi livelli di coerenza legislativa e di concrete scelte im­prenditoriali. La riforma amministrativa del ministero dei Lavori pubblici doveva rappre­sentare il primo serio banco di prova per ren­dere funzionale la macchina statale alla stra­tegia del capitale finanziario: quella di con­centrare il proprio intervento in alcune aree del Mezzogiorno a più elevata suscettività di sviluppo, godendo degli incentivi fiscali e dei contributi pubblici assicurati dalla legislazio­ne speciale del decennio giolittiano a soste­gno degli investimenti privati. Appena inse­diatosi a palazzo San Silvestro, la prima di­rettiva del ministro siciliano fu quella di ag­giornare l’elenco di tutte le opere pubbliche già avviate o progettate per riclassificarle in rapporto alla loro utilità e urgenza, con prio­rità assoluta per le infrastrutture civili nelle regioni meridionali. La raccolta dei dati presso i singoli rami dell’amministrazione centrale fu lunga e minuziosa e potè essere completata solo nel marzo 1923. Per la pri­ma volta si potè disporre di un preciso qua­dro di riferimento circa la situazione delle opere pubbliche, e fu possibile apprezzare in tutta la sua gravità il danno provocato dalla interruzione forzata dei lavori pubblici du­rante la guerra. Dai calcoli effettuati dai di-

17 Sulla figura politica di C arnazza e sul suo progressivo em ergere a una dim ensione nazionale rim ando al m io sag­gio, P artiti ed élites po litich e , in A A . V V Società e letteratura a Catania tra le due guerre, P a lerm o , P alu m b o , 1978, pp. 29-86.18 C fr. in p roposito il m io saggio C apitale fin a n zia r io e bonifica integrale nel M ezzog iorno tra le due guerre, “ Ita lia con tem poranea” , g iugno-settem bre 1979, n. 137, pp. 63-80.

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nuo di 1.600 milioni per il quinquennio 1923- 28, che lasciava però un esubero di spesa di 3.600 milioni da distribuire negli esercizi suc­cessivi al 1927-2820.

Il braccio di ferro fra i tecnocrati rifor­misti e gli economisti liberisti si risolse natu­ralmente a favore di questi ultimi. Per ridi­mensionare il programma degli interventi pubblici nei limiti imposti dall’obiettivo prio­ritario del pareggio finanziario il consolida­mento della spesa per opere pubbliche straor­dinarie fu attuato con il decreto reale 3 mag­gio 1923, n. 1285, che autorizzò uno stanzia­mento globale di lire 6.204.407.165,60 di cui 2.454.407.165,60 lire per l’esercizio finanzia­rio corrente, e la restante somma per il suc­cessivo quinquennio 1923-28 in ragione di 750 milioni annui2'. Lo stesso decreto fissò inoltre il criterio di ripartizione dei pagamen­ti da effettuare fra i vari servizi ristrutturati dall’amministrazione centrale22.

Rispetto all’ipotesi ‘minima’, che fra im­pegni già assunti e lavori indifferibili ancora da realizzare aveva calcolato un fabbisogno finanziario di 11.600 milioni per il periodo 1923-28, lo stanziamento di 6.200 milioni equivaleva a poco più della metà della somma ritenuta indispensabile ad avviare la politica di ‘ricostruzione nazionale’. La scure delle economie si era così pesante­mente abbattuta sul bilancio dei Lavori pubblici da compromettere gli stessi criteri ispiratori che avevano presieduto la riorga-

19 Fabbisogno d i autorizzazion i d i spesa p e r l ’esecuzione d i opere pubb lich e straordinarie, m arzo 1923, in A P C , pacco 46, b. Bilancio.20 Fabbisogno d i s tanziam enti p e r opere straordinarie, ap rile 1923, ivi. Sui con trasti tra gli alti dirigenti del m iniste­ro dei Lavori pubblici e la speciale com m issione istitu ita d a De S tefani per l’esam e dei bilanci (com posta dagli econo­m isti liberisti U m berto Ricci e M affeo P an ta leon i, dal ragioniere generale dello S tato De Bellis e dal consigliere di S tato M ontalcini) cfr. la le tte ra del d ire tto re generale delle opere pubbliche dell’I ta lia m erid ionale e insu lare , P e tro c­chi, a C arnazza, 16 aprile 1923, in A P C , pacco 46, B ilancio. Vedi pure ivi la le tte ra analoga di M ichele C arlo Isacco, d ire tto re generale per l ’I ta lia centrale.21 D ecreto Reale 3 m aggio 1923, n. 1885 concernente la spesa d i lire 6.204.407.165,60, p e r esecuzione d i opere p u b ­bliche straordinarie a carico del M inistero dei L a vori P ubblici, “ G azzetta U fficiale del R egno” , 14 luglio 1923, n. 165.22 Vedi la T abella 1 a p. 40. L a tabella, che riassum e con esattezza i dati analitici ricavabili da lla tabella A annessa al decreto sopra c ita to , si trova in A P C , pacco 46, b. Bilancio.

rettori generali del ministero risulta che il to­tale delle spese autorizzate per opere pubbli­che straordinarie anteriormente la Marcia su Roma ammontavano a 5.652,7 milioni di lire; sulla base di queste autorizzazioni risultavano già impegnate somme per complessivi 3.426 milioni che, sfrondate da tutte le possibili eco­nomie, si riducevano a poco più di tre miliardi netti. A fronte di queste cifre, già di per sé as­sai cospicue, si apriva la voragine dei nuovi la­vori necessari a completare in un quinquennio il programma nazionale: in questo senso gli impegni ancora da assumere, distinti in lavori suppletivi indifferibili, necessari e utili, as­sommavano a oltre diciassette miliardi di lire correnti. Sulla base di tale preventivo le dire­zioni generali avevano preferito costruire due ipotesi alternative: una concernente il pro­gramma massimo avrebbe richiesto una spesa complessiva di circa quindici miliardi, mentre l’altra restringeva il programma minimo a uno stanziamento che sfiorava i sette mi­liardi19. Esclusa subito l’ipotesi ‘massima’ per la sua manifesta incompatibilità con l’obietti­vo del risanamento finanziario, Carnazza e i collaboratori a lui più vicini ripiegarono sul programma ‘minimo’, con l’intenzione di da­re battaglia pur di non cedere a ulteriori rima­neggiamenti. La riduzione dei nuovi impegni ai soli lavori suppletivi e indifferibili e il man­tenimento degli impegni già assunti permisero di diminuire il fabbisogno finanziario genera­le a 11 .600 milioni per un riparto medio an-

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nizzazione della macchina amministrativa del ministero.

Lo staff politico e tecnico di Palazzo San Silvestro dovette subire un duro contraccol­po per il drastico ridimensionamento del pia­no dei lavori. Per trovare una via d’uscita al rigido consolidamento della spesa pubblica, nei mesi di maggio e giugno Carnazza rispol­verò l’idea, già avanzata subito dopo la fine della guerra, di un prestito di 1.500 milioni da contrarsi all’estero e ammortizzabile in cinquant’anni, destinato esclusivamente alle opere pubbliche e tenuto distinto da ogni al­tra operazione di indebitamento. A somi­glianza dell’operazione finanziaria compiuta dal governo belga nel 1920, la emissione dei titoli pubblici avrebbe dovuto aver luogo at­traverso un consorzio bancario con garanzia statale; in tal modo si sarebbe notevolmente alleggerita la parte straordinaria del bilancio dei Lavori pubblici, che per molti anni non avrebbe avuto altro carico al di fuori degli interessi e dell’ammortamento del prestito23.

Anche questa proposta, in via riservata avanzata al capo del governo, non ebbe l’ef­fetto sperato, perché il tesoro giudicava im­praticabile l’ipotesi di un ulteriore indebita­mento all’estero. In mancanza di valide solu­zioni di ricambio, l’unica conclusione ragio­nevole restava quella di gestire in maniera ra­pida e tempestiva gli scarsi stanziamenti asse­gnati, tanto più che alla presidenza del Con­siglio affluivano memoriali e proteste perché fosse accelerata l’esecuzione di opere pubbli­che, soprattutto nelle province dove si regi­strava un elevato indice di disoccupazione.

Questa evidente contraddizione della poli­tica economica fascista fra le necessità di per­seguire in tempi brevi l’equilibrio del bilancio statale e l’esigenza ‘sociale’ di alimentare con tutti i mezzi il mito delle nuove opere del

regime fu comunque abilmente sfruttata dal ministro siciliano. Per restare entro i limiti degli stanziamenti autorizzati senza rallenta­re nel contempo l’esecuzione delle opere pubbliche fu dato perciò massimo impulso al sistema delle concessioni capace di diluire l’onere finanziario dei lavori in un più lungo arco temporale, rafforzando quello sposta­mento all’area privata di funzioni pubbliche, che confermava la validità della sperimenta­ta collaborazione fra capitale finanziario e pubblica amministrazione avviata nel primo dopoguerra. A prescindere dalle spese gene­rali, da quelle relative ai servizi autoferro- tramviari, distinte in sovvenzioni e costruzio­ni di ferrovie, nonché dal fondo di riserva e dagli oneri imprevisti, che costituivano parti­te di spesa comuni a tutto il regno, la riparti­zione delle somme per l’esecuzione di opere pubbliche straordinarie nel sessennio 1923- 1928, per la prima volta nella storia d’Italia, stabiliva con chiarezza l’ammontare degli impegni assunti dallo Stato nelle tre rispetti­ve zone territoriali. Nella impostazione fi­nanziaria del bilancio, meticolosamente cu­rata da Carnazza, appare evidente anche la svolta meridionalistica, dal momento che gli stanziamenti autorizzati per il Mezzogiorno (2.185.800.000) superavano largamente quel­li previsti per il resto del paese. La prevalen­za delle assegnazioni attribuite all’Italia me­ridionale e insulare non era certamente cosi netta come potrebbe desumersi da un raf­fronto puro e semplice delle cifre assolute, poiché la cifra assegnata al Mezzogiorno cor­rispondeva quasi per intero al totale delle spese da eseguire nel sessennio, mentre quel­la attribuita al Centro-Nord rappresentava in grande misura solo il cumulo delle cinque an­nualità del contributo governativo che sareb­bero scadute entro l’esercizio finanziario

23 R elazione riservata di C arnazza a M ussolini del 10 giugno 1923, ivi. Nel carteggio sono pu re conservati gli studi p rep a ra to ri per la em issione del p restito e u n a bozza di decreto con cui si au torizzava il m inistero dei Lavori pubblici a p rocurarsi an ticipazioni m ediante m utui in lire-oro stipu lati dal C onsorz io di credito per le opere pubbliche o da al­tri istitu ti bancari.

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1927-2824. La precisazione non sminuisce co­munque l’importanza dello spostamento ra­dicale di risorse pubbliche verso le aree arre­trate del Meridione, che furono concentrate in poche ma grandi categorie di opere25.

A questi stanziamenti va aggiunta la som­ma di 307,2 milioni per le ferrovie comple­mentari e secondarie della Sicilia (compresa nella voce generale “Costruzione di strade ferrate”), e i nuovi impegni assunti con due decreti reali del 3 marzo 1924, numeri 286 e 287, che stanziarono 500 milioni per la co­struzione di una organica rete stradale in Calabria da completare nel quinquennio e un mutuo di altri 240 milioni per ultimare in un decennio i lavori dell’Acquedotto puglie­se: queste ultime autorizzazioni di spesa ele­varono a oltre tre miliardi l’intervento finan­ziario dello Stato nel Mezzogiorno, e, tenuto conto delle più modeste assegnazioni ulte­riormente attribuite alle altre due circoscri­zioni territoriali, fecero saltare quasi subito il tetto massimo fissato dal bilancio consoli­dato.

Più che le cifre assolute, in sé cospicue ma largamente insufficienti ai bisogni del paese, furono i sistemi da appalto e di concessione escogitati di Carnazza a preoccupare forte­mente De Stefani e i gruppi liberisti fiancheg­giatori del governo. Il ministro delle Finanze e del Tesoro si oppose decisamente all’istitu­to delle concessioni con annualità differite, ricorrendo a un sistematico ostruzionismo

che si concretava nei tentativi di insabbia­mento delle pratiche o nei lunghi ritardi per l’emissione dei mandati di pagamento alle ditte private, fino a negare di controfirmare alcuni decreti già deliberati dal Consiglio dei ministri e firmati dal sovrano. Le vibrate proteste del collega titolare dei Lavori pub­blici, che non esitava a reclamare diretta- mente presso Mussolini26, non smontavano tuttavia De Stefani, le cui argomentazioni si appoggiavano a precise contestazioni: “Dal prospetto riassuntivo degli impegni assunti sul fondo consolidato per opere pubbliche straordinarie, si desume che sulla spesa auto­rizzata per i sei esercizi dal 1922-23 al 1927- 28 in 6.204 milioni a tutto il 30 aprile 1924 esistono impegni per 4.218 milioni. L’entità di questa cifra è tale che non posso non ri­chiamare su di essa l’attenzione dell’E.V. Per il rimanente periodo di quattro interi esercizi e due mesi, restano disponibili solo 2.854 milioni ed ove si continuasse col ritmo sin qui seguito si giungerebbe allo esaurimen­to del fondo assai prima dell’esercizio 1927- 28, ponendo lo Stato nella difficile condizio­ne o di non eseguire altre opere per un note­vole periodo di tempo o di dovere autorizza­re nuove spese in eccendenza del fondo con­solidato. E in fatto vari recenti provvedimen­ti hanno autorizzato siffatte eccedenze, men­tre si và estendendo il sistema di provvedere alle opere per concessione, metodo che, men­tre libera i bilanci prossimi di una parte

24 C fr. al riguardo la precisazione di C arlo P etrocch i, L a nuova po litica dei lavori p u b b lic i e gli interessi de l M ezzo ­giorno, “ L ’E p o ca” , 28 luglio 1923, ripubblica to nel volum e dello stesso au to re , L a po litica dei lavori pubb lic i, c it., pp . 131-142.25 Q ueste cifre risu ltano dalla rie laborazione dei capito li del b ilancio conso lida to r ip o rta ti nella tabella A del D ecre­to Reale 3 m aggio 1923, c it., p p . 16-24 (vedi T abella 2 a p. 40). C irca le m otivazioni di concen trare l ’in terven to dello S tato nell’Ita lia m eridionale cfr. la relazione riservata al m inistro p rep a ra ta d a C arlo Petrocch i il 23 m aggio 1923, in A P C , pacco 46, b. P iano dei lavori. Vedi pure contra la relazione in pari d a ta del d ire tto re generale delle opere p u b ­bliche dell’Ita lia se ttentrionale, A lessandro G uglielm inetti, che lam entava la evidente condizione di in ferio rità in cui era venuta a trovarsi la sua circoscrizione territo ria le , dove “i fondi assegnati risu ltano del tu tto insufficienti a svol­gere un qualsiasi p rogram m a o parte di p rogram m a che risponda a criteri di o rgan ic ità” , ivi.26 C fr. al riguardo il frequente e tem pestoso carteggio f ra C arnazza e D e S tefani in A P C , pacco 46 e 49, c it. Spesso la posizione assun ta da M ussolini fu quella di a rb itro e m ediato re fra i due m inistri: ad esem pio, c fr. ivi, pacco 49, la p ra tica relativa a ll’an ticipazione di fondi alla C om pagnia ferrov iaria m editerranea esercente le linee secondarie di B asilicata e C a labria , che fu rono sbloccati so ltan to dopo l’in tervento del capo del governo.

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dell’onere, impegna una lunga serie di bilan­ci futuri per il carico delle spèse e dei relativi interessi. Gli impegni assunti a carico degli esercizi successivi al 1927-28 sommano infat­ti già a 1.770 milioni. È quindi necessario che nel disporre l’esecuzione di opere pubbliche si proceda con maggior freno”27.

Le controdeduzioni avanzate da Carnazza chiariscono, senza bisogno di ulteriori com­menti, le radici oggettive del contrasto: “ I ri­lievi fatti mi impongono di richiamare nuo­vamente l’attenzione di V.E. sulle cifre indi­cate, poiché non è possibile che Ella voglia separare il problema finanziario da quello economico. L’attrezzatura necessaria allo sviluppo delle varie regioni d’Italia fu da noi trovata in molta parte deteriorata notevol­mente per la lunga usura, senza alcuna spesa di manutenzione o di reintegrazione, sempre non proporzionata alle esigenze materiali e culturali del dopoguerra. A riparare e a rin­novare questa attrezzatura, non era certa­mente sufficiente quella somma di 750 milio­ni all’anno prevista dal bilancio consolidato e rappresentante una somma minore di quel­la che si spendeva annualmente nell’ante­guerra, e V.E. rammenterà che il fabbisogno da me previsto nel quinquennio si eleva ad oltre undici miliardi solo per le esigenze più giustificate ed urgenti. Malgrado ciò il limite della spesa fu contenuto nella somma di sei miliardi, di cui circa due miliardi erano già impegnati, perché, come si rimase d’accordo in Consiglio dei Ministri, la differenza sareb­be stata colmata mediante concessioni a pa­gamento in annualità comprensive di capita­le ed interessi, la cui cifra massima sarebbe dovuta essere stabilita con successivo prov­vedimento. Aggiunto che senza tale presup­posto nessuno avrebbe potuto assumere la responsabilità dell’amministrazione dei

LL.PP. con un consolidamento cosi rigido. In qual modo potrà dunque svolgersi negli anni venturi l’azione amministrativa e tecni­ca dei servizi dipendenti da questo ministero che tanto interessano l’economia nazionale? Il problema non ha altra soluzione, a mio av­viso, che quella di alleggerire il carico dei pa­gamenti stessi in un periodo più lungo che non sia il quinquennio, e ciò con concedere ad enti o ad imprese l’esecuzione delle opere d ’importo più cospicuo ancora da effettuare. Sarebbe veramente doloroso se malintesa esagerazione dei compiti della Finanza do­vessero abbandonarsi quei compiti più ur­genti della ricostruzione nazionale a cui io non senza fatica mi sono accinto”28.

La Controriforma Sarrocchi e la sconfitta del meridionalismo nittiano

La polemica fra i ministri del Tesoro e delle Finanze e quello dei Lavori pubblici rappre­senta un conflitto che si è costantemente ri­proposto all’interno delle compagini gover­native dell’Italia liberale. Il fiscalismo rigido della Destra storica, le interminabili querel­les sulla ‘finanza allegra’ di Magliani, la poli­tica della ‘lesina’ durante gli anni novanta, i dibattiti pro e contro la riforma tributaria e le prime forme d’intervento straordinario nel Sud sperimentate in età giolittiana, avevano scandito senza soluzione di continuità le dif­ficoltà di un paese povero di risorse naturali e di capitali, nel quale i flussi di spesa pubbli­ca, necessariamente elevati per la dotazione delle più elementari infrastrutture e per il so­stegno della domanda interna, rischiavano perennemente di disseccare le fonti del credi­to per il gracile nucleo delTimprenditoria pri­vata.

27 Situazione al 30 aprile 1924 degli im pegni sulle autorizzazioni p e r spese straordinarie. Relazione riservata di De Stefani a C arnazza del 29 m aggio 1924, in A P C , pacco 46, b. Bilancio.28 C arnazza a De S tefani, 7 giugno 1924, ivi.

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Insieme a difficoltà e a problemi struttura­li di più antica data il contrasto fra Carnazza e De Stefani rifletteva tuttavia le nuove e pe­culiari contraddizioni del capitalismo italia­no e dei suoi processi interni di modificazio­ne durante e dopo la prima guerra mondiale. I fenomeni di concentrazione e di rapida tru- stificazione dell’economia nazionale, l’in­treccio sempre più stretto fra politica ed eco­nomia e la compenetrazione fra sfera pubbli­ca e settore privato avevano fatto dello Stato il principale sostegno della grande industria e del sistema bancario a essa collegato. Il pro­getto liberista di De Stefani tendeva certa­mente ad attenuare il condizionamento trop­po rigido di questo rapporto, ridando impul­so alla concorrenzialità dell’impresa privata, che avrebbe dovuto essere progressivamente sganciata dalla dipendenza delle commesse statali e facilitata a reperire finanziamenti a basso saggio d’interesse su un mercato di ca­pitali reso più elastico dalla riduzione del de­bito pubblico e dal risanamento della finanza statale. Apparentemente più empirica e me­no legata a un disegno generale, la posizione di Carnazza esprimeva con maggiore duttili­tà politica il bisogno di mediare le tensioni e le divergenze interne del sistema economico. Senza possedere le competenze specifiche e la strumentazione analitica dell’economista pu­ro, al notabile siciliano non faceva difetto l’esperienza politica di ritenere che nella complessa congiuntura economica del dopo­guerra i ristretti margini di un’azione meri­dionalistica passavano attraverso una più or­ganica collaborazione fra capitale finanzia­rio e Stato. Del resto il radicalismo tecnocra­tico dei nittiani, anche nella sua versione so- cialriformista, aveva già inaugurato nuovi indirizzi di politica economica: nella trasfor­

mazione degli stanziamenti di bilancio in an­nualità differite e nella sostituzione dei pri­vati concessionari al posto della esecuzione diretta delle opere da parte dello Stato si era­no individuati per tempo la veste giuridico- formale e gli incentivi economici per chiama­re a raccolta le forze dell’‘alta banca’ e del capitalismo industriale, con la prospettiva di una ‘ricostruzione nazionale’ che partendo dal Mezzogiorno avrebbe dovuto rafforzare la credibilità politica e la stabilità sociale del regime fascista.

Il pericolo evidente delle collusioni affari­stiche e delle possibili speculazioni private a danno dell’erario non sembrava preoccupare il parlamentare catanese, anche in ragione del fatto che egli in prima persona risultava organicamente inserito nei gruppi di coman­do dell’economia italiana, e in particolare collegamento con la potente lobby Comit- Bastogi, la quale sin dall’età giolittiana si era premunita di occupare in condizioni di asso­luto monopolio alcune posizioni-chiave nei settori idroelettrico chimico e dei trasporti, tale da garantirle un ruolo di interlocutore pressoché esclusivo per qualsiasi piano di in­vestimenti pubblici nelle regioni meridiona­li29. Ma fu proprio la eccessiva trasparenza di un così intenso connubio tra forze economi­che quadri amministrativi e personale politi­co a decretare l’anticipato fallimento della strategia meridionalistica del capitale finan­ziario italiano. Le accuse di connivenze affa­ristiche non soltanto bruciarono politica- mente Carnazza (e con lui il conterraneo Corbino ministro dell’Economia nazionale) ma posero bruscamente fine a quel lento ma significativo processo di coinvolgimento dei più forti gruppi industriali nello sviluppo economico del Mezzogiorno.

29 Sulla penetrazione del capitale finanziario nel M ezzogiorno, rim ando ai miei recenti con tribu ti C apitale fin a n z ia ­rio e bonifica integrale nel M ezzog iorno tra le due guerre, c it.; S u ll'u so capitalistico del terrem oto . B locco urbano e ricostruzione edilizia a M essina durante il fa sc ism o , “S to ria u rb a n a ” , 1982, n. 19, pp . 47-104; C apitale finanziar io , Stato , M ezzog iorno , in A A .V V ., L a m odern izzazione d iffic ile , Bari, De D onato , 1983, pp . 27-88.

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Nel giro di poche settimane tutta l’impal­catura tecnica e amministrativa del dicastero dei Lavori pubblici fu nuovamente smem­brata e ricondotta sui tradizionali binari del più piatto e inefficiente centralismo burocra­tico. Protagonista della ‘Controriforma’ fu il nuovo titolare di Palazzo San Silvestro, il to­scano Gino Sarrocchi, un agrario di tenaci concezioni paleo-liberiste assai gradito a De Stefani e agli ambienti economici della destra lombarda. Con due decreti emanati d’urgen­za il 28 agosto 1924 vennero unilateralmente abolite le più significative innovazioni decise da Carnazza. Fu in primo luogo ‘purificato’ il Consiglio superiore dei Lavori pubblici, da cui furono estromessi gli esperti estranei all’amministrazione: al posto dei tecnici e de­gli industriali furono collocati alti funzionari a riposo e alcuni scienziati ‘puri’ che non avessero alcun legame con le industrie o rap­porti d’interesse con lo Stato. I poteri del Consiglio furono inoltre drasticamente dimi­nuiti, essendosi stabilito che su tutte le sue delibere fosse obbligatoriamente sentito il parere del Consiglio di Stato, che come su­premo ordine di controllo giuridico tornava a sovrapporsi alle scelte tecnico-operative dei dicastero. Anche il sistema della esecuzione delle opere fu profondamente modificato ri­dando assoluta prevalenza al vecchio sistema dei pubblici incanti in sostituzione della lici­tazione privata e della concessione sperimen­tate con successo dai tecnocrati socialrifor- misti. Con successivo decreto del 25 settem­bre, infine, furono soppresse le tre direzioni generali dell’Italia settentrionale, centrale e meridionale, e con esse venne praticamente vanificata la tripartizione per aree territoriali degli stanziamenti di bilancio, formalmente compensata con la creazione di un Ispettora­to centrale per le opere pubbliche nel Mezzo­

giorno e nelle Isole30. Complessivamente considerati, i provvedimenti di Sarrocchi rappresentavano un brusco ritorno all’anti­co, frenando quella cauta tendenza riforma­trice che dopo un decennio di evoluzione le­gislativa era stata avallata dal binomio Car- nazza-Petrocchi nell’intento di trasformare l’amministrazione dei Lavori pubblici in una struttura più moderna ed efficiente, meno le­gata ai lenti e farraginosi congegni della ge­rarchia burocratica e meglio rispondente ai compiti di carattere tecnico e industriale a es­sa demandati.

L’essere tornati indietro riproducendo il paralizzante antagonismo fra elementi tecni­ci e amministrativi fu apertamente denuncia­ta in molti degli interventi dalla Camera du­rante la discussione del bilancio dei Lavori pubblici nel dicembre 1924. Accanto al depu­tato Martelli, che rimproverò al governo l’esagerata diffidenza’ verso le imprese pri­vate sulla base di ‘supposti scandali’ e lo ‘spi­rito di rinuncia’ con cui si affrontavano i problemi della ricostruzione postbellica, an­che il siciliano Abisso non esitò a censurare l’ingiustificato ‘terremoto’ che, sconvolgen­do i delicati meccanismi di un ministero ap­pena riorganizzato, finiva per bloccare l’ope­ratività e la produttività del più importante strumento della spesa pubblica a tutto danno delle aree arretrate del Mezzogiorno dove si stava cominciando a sperimentare un tipo di intervento statale più organico e incisivo. La cacciata degli esperti, la decapitazione del Consiglio superiore e la reintroduzione del parere obbligatorio del Consiglio di Stato fu­rono giudicate come decisioni che, rimetten­do la ‘scala di Giacobbe’ dei controlli buro­cratici multipli e settoriali, avrebbero costi­tuito pesante intralcio a ogni agile ed efficace azione amministrativa31. Gli attacchi più du­

30 C arlo Petrocch i, L a politica dei lavori pubb lic i, c it., pp . 256-272.31 II discorso di A bisso in A tti P arlam en ta ri, Cam era, Leg. X X V II, l a Sessione, D iscussioni, to rn a ta del 4 dicem bre 1924, pp . 1115-1121. L ’in tervento di M artelli, ivi, to rn a ta del 2 dicem bre 1924, pp . 1049-1056.

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ri si concentrarono sulla completa destruttu­razione dell’amministrazione centrale del mi­nistero, dove Sarrocchi aveva d’un tratto abolito il moderno criterio della ripartizione regionale per tornare ad attenersi all’arcaico modello della divisione per materie: “La Controriforma voluta da Sarrocchi — notava Agostino Lanzillo — ha determinato questo non senso: al centro si ha una visione analiti­ca dei problemi, mentre si ha una visione ed un’esecuzione sintetica alla periferia. Il cen­tro amministrativo e finanziario quindi, che per sua natura è organo di sintesi, è invece spezzettato, mentre l’ingegnere capo del Ge­nio Civile di un qualsiasi compartimento, che pure deve occuparsi con concezione d’in­sieme di tutti i problemi che interessano il territorio da lui dipendente, ha a Roma tanti capi servizi quante sono le categorie d’opere in cui il ministro ha scisso e diviso il ministe­ro!”32.

L’opposizione delle forze economiche fu comunque esplicitata dal qualificato inter­vento di Gino Olivetti. Nel ribadire la diffusa convinzione circa la bontà della riforma Car- nazza “ingiustamente affossata prima che desse i frutti sperati” , il segretario della Con­federazione generale dell’industria tornò a insistere sulla opportunità di coinvolgere il capitale privato nell’“immane opera di rico­struzione nazionale” con il ricorso all’istitu­to della concessione e alle forme controllate di licitazione privata ritenute più idonee ri­spetto ai limiti imposti dall’asta pubblica: “La questione vera è quella di trovare i meto­di di esecuzione dei lavori pubblici che me­glio convengano all’economia della spesa e alla rapidità di esecuzione. E allora, quando voi avete sul telaio più di 1 miliardo di opere pubbliche da eseguire prontamente, quando voi avete nella storia dei lavori pubblici in Italia gli esempi di continui storni di fondi,

di mancata realizzazione di opere approvate per legge, di ponti che non hanno le strade e di strade che non hanno i ponti — e i colleghi del Mezzogiorno ne sanno forse qualcosa — voi troverete che il sistema dell’appalto per opere singole non è più rispondente alle esi­genze di oggi, e che per ottenere la pronta e completa realizzazione delle opere è invece necessario ritrovare altre forme più moderne e rispondenti allo scopo che nella pur dove­rosa tutela degli interessi dello Stato diano modo di selezionare veramente le ditte, non soltanto in base alla meccanica ed automati­ca riduzione dei prezzi, ma anche in base alla capacità, alla serietà ed onestà professionale delle medesime; e che soprattutto, quando i progetti non sono ancora pronti, quando il vostro esiguo personale non può rapidamen­te compilarli, si mettano a disposizione dello Stato, attraverso il sistema dell’appalto-con- corso, anche le forze private, incaricandole di redigere il progetto dettagliato sulle linee di massima date dallo Stato [...] Credo che il nuovo ministero sia rimasto troppo impres­sionato dalle detestabili montature di certa stampa. Ma quello che lo Stato deve temere non è già la collaborazione apertamente rico­nosciuta ed esercitata delle rappresentanze professionali degli imprenditori, sebbene l’influenza occulta ed egoistica di interessi singoli”33.

Il coro di critiche sollevato alla Camera contro le misure adottate da Sarrocchi costi­tuisce un sintomo eloquente dei profondi dis­sidi che dividevano la maggioranza governa­tiva del listone fascista sui temi della politica economica e del modo in cui i latenti conflitti d ’interesse tra i gruppi economici esplodesse­ro apertamente anche in un Parlamento di- midiato dall’assenza dei partiti aventiniani. Non mancarono d’altra parte al nuovo tito­lare dei Lavori pubblici gli argomenti tesi a

32 A tti P arlam en tari, C am era , c it . , 4 dicem bre 1924, p. 1124. T u tto il d iscorso di Lanzillo è r ip o rta to ivi, alle pp . 1121-1133.33 Iv i, pp . 1133-1140.

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giustificare le scelte compiute. A suo parere la riforma del predecessore non sempre avrebbe salvaguardato la regolarità delle procedure amministrative, tanto che per al­cuni contratti conclusi a trattativa privata esistevano sospetti di collusioni affaristiche per le quali occorreva promuovere inchieste coraggiose tali da colpire gli eventuali specu­latori, e ‘purificare l’ambiente’: doveva del resto considerarsi finito il ‘tempo delle illu­sioni’, poiché il governo intendeva prosegui­re nella strada del ‘raccoglimento’ consoli­dando entro limiti tassativi la spesa straordi­naria per opere pubbliche34.

Al di là di ogni pretesa moralizzazione, la parte finale della replica di Sarrocchi tradisce la sostanza reale dello scontro politico con­clusosi con le dimissioni forzate di Carnazza. Di contro ai programmi espansivi e produtti­vistici dei tecnocrati socialriformisti tornava a prevalere la linea liberista e deflattiva di De Stefani. Di fronte alle spinte inflazionistiche interne che provocavano sensibili tensioni sul mercato dei cambi, la linea di ‘raffredda­mento’ della spesa statale fu abilmente oc­cultata con un nuovo consolidamento del bi­lancio dei Lavori pubblici. Con il Rd 11 no­vembre 1924 n. 1932 furono infatti stanziati quindici miliardi per opere pubbliche straor­dinarie da ripartirsi in dodici anni fino al 1935-36. Un impegno apparentemente così elevato comprendeva però tutte le autorizza­zioni di spesa già contenute nel precedente consolidamento varato nel maggio 1923 e le nuove assegnazioni risultanti dai provvedi­menti speciali approvati dopo quella data. Per questo motivo le somme realmente di­sponibili si riducevano alla metà e, dedotte le costruzioni ferroviarie e il fondo di riserva di un miliardo, ad appena quattro miliardi am­montava la cifra aggiuntiva veramente spen­

dibile. A maggior cautela dei criteri restrittivi messi in atto, il decreto conteneva un ferreo vincolo ai pagamenti, che fra residui e com­petenze non potevano oltrepassare la cifra di1.250.000.000 per ciascun esercizio finanzia­rio; anche il tetto delle annualità per opere in concessione fu abbassato alla cifra irrisoria di sette milioni annui35.

Dietro la cruda aridità delle cifre, l’esame comparativo dei due consolidamenti effet­tuati a poco più di un anno di distanza dimo­stra come la dilatazione della spesa pubblica sia stato un autentico pomo di discordia che sin dagli esordi lacerò profondamente il pri­mo governo Mussolini. Il meridionalismo produttivistico nittiano, che tra il secondo e il terzo decennio del secolo XX aveva gra­dualmente conquistato posizioni di forza e di prestigio nei posti chiave dell’amministrazio­ne pubblica e delle cariche governative fino ad assorbire senza traumi la stessa Marcia su Roma, incontrò nella ortodossia liberistica di De Stefani l’ostacolo insormontabile su cui dovettero infrangersi progetti e iniziative volti a privilegiare le aree arretrate del paese nella localizzazione degli investimenti pub­blici. La ‘Controriforma’ di Sarrocchi, capo­volgendo la filosofia modernizzatrice che aveva presieduto la rifondazione del ministe­ro dei Lavori pubblici, privò di qualsiasi vi­sione organica e complessiva l’amministra­zione centrale; la contrazione degli stanzia­menti perseguita da De Stefani diede il colpo di grazia finale ai programmi espansivi nel­l’intervento statale. La frenata fu probabil­mente molto più brusca del previsto, e in ma­teria di opere pubbliche il regime non potè evitare di rettificare il tiro dal momento che il nuovo titolare del dicastero, il fascista Giu- riati, dovette reintrodurre nel 1925-26 non poche delle misure riformatrici a suo tempo

34 La replica di Sarrocchi, ivi, pp . 1179-1198, nonché le controdeduzion i di O livetti (pp . 1199-1200) e una d ich iara­zione di C arnazza per fa tto personale (pp. 1205-1208).35 Per un esam e dettag lia to del decreto vedi A lberto De S tefani, L ’azione dello S ta to italiano p e r le opere pubb liche (1862-1924), R om a, L ibreria dello S tato , 1925, pp . 395-398.

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adottate da Carnazza, a cominciare dal ritor­no al sistema della licitazione privata, alla possibilità di accordare compensi straordina­ri ai funzionari più capaci, alla istituzione dei Provveditorati alle opere pubbliche per il Mezzogiorno e le isole con cui si riaffermò la validità del decentramento regionale36. Ma a quella data la stagione del riformismo meri­dionalistico appariva definitivamente tra­montata. La sostituzione di De Stefani con Giuseppe Volpi di Misurata tendeva a garan­tire nuovi equilibri aH’interno del blocco di potere delle classi dominanti, basati sulla sta­bilizzazione monetaria e sulla apertura dei crediti esteri necessari alla riorganizzazione del settore capitalistico nelPindustria con­centrato nel Nord-Ovest del paese. Rivaluta­zione della lira e crisi degli anni trenta avreb­bero decapitato le residue speranze di una politica realmente compensatrice dello squi­librio territoriale dell’economia italiana: al Mezzogiorno, e in particolare al suo gruppo sociale più conservatore, quello dei proprie­tari terrieri, sarebbe stata lasciata la vecchia e fallimentare carta del ruralismo, neppure sufficiente per congelare i rapporti sociali e controbilanciare i drammatici processi di di­sgregazione sociale ed economica che avreb­bero accelerato l’esautoramento e la perdita di egemonia del blocco agrario.

Fallito l’ambizioso disegno della tecnocra­zia riformista di rinsaldare le relazioni fra Stato e grande industria raccordandole a una svolta meridionalistica della politica econo­mica, il residuo strutturale di quel progetto tornava a identificarsi con il tradizionale pri­vatismo del capitalismo italiano, con le con­suete pressioni delle lobbies finanziarie sugli apparati politici e amministrativi dello Stato per utilizzare comunque a loro esclusivo van­taggio i flussi cospicui della spesa pubblica nel settore delle infrastrutture civili. Anche

in questo caso la ricerca consente di verifica- re con ottica imparziale i concreti meccani­smi di assalto all’erario attivati da alcune po­tenti concentrazioni finanziarie nel contesto neoliberistico dei primi anni venti, scioglien­do sul filo logico della narrazione storica il complesso sviluppo di interessi particolari e generali, di profitto e di rendita, di pionieri­smo industriale e di speculazione affaristica, che serve a restituirci una immagine dell’Ita­lia fascista meno appiattita e scontata di quella offertaci dai logori schemi della sto­riografia etico-politica. La mancata cessione delle ferrovie all’industria privata e la con­temporanea privatizzazione della rete telefo­nica nel biennio 1923-1925 bene illuminano l’intreccio tra politica ed economia al mo­mento della transizione dallo stato liberale al regime fascista.

La mancata cessione delle ferrovie all’industria privata

Uno dei capisaldi programmatici del primo governo Mussolini consisteva nella dichiara­ta intenzione di restringere l’azione dello Sta­to alle sue funzioni essenziali, abbandonan­do alla privata iniziativa tutte le attività di carattere industriale come ferrovie, telefoni e linee di navigazione. Dopo un ventennio di statizzazioni e di municipalizzazione, il ritor­no al privatismo trovava una giustificazione apparentemente tecnica nella necessità di li­berare l’erario dalle gestioni passive accumu­late dalle aziende pubbliche collimando per­ciò con la scelta prioritaria del risanamento del bilancio statale. In realtà un indirizzo co­sì marcatamente privatistico veniva a offrire sul preteso altare delle ‘economie fino all’os­so’ un lauto bottino, che le maggiori società finanziarie impegnate nel settore dei traspor­

36 P er una valu tazione tecnica della rifo rm a G iuriati c fr. C arlo P etrocch i, L a politica dei lavori pu b b lic i, c i t . , pp . 273-312.

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ti e dei servizi si affrettarono a spartirsi, non senza il massiccio intervento del capitale straniero tradizionalmente compartecipe nel­le operazioni di concessione e appalto dei servizi pubblici in Italia.

Soprattutto le ferrovie presentavano una situazione finanziaria notevolmente appe­santita: nell’esercizio 1921-22 il disavanzo ferroviario corrente sfiorava quasi i due mi­liardi se si calcolavano l’onere delle pensioni e l’interesse dei capitali d’impianto. Le cause di un deficit così elevato, equivalente a circa un quarto di tutte le spese effettive dello Sta­to, solo in minima parte erano attribuibili al­la struttura pubblica dell’azienda, che sotto la guida esperta del senatore Riccardo Bian­chi in poco tempo aveva assunto autonomia decisionale e criteri manageriali tali da ga­rantire con continuità rilevanti utili di gestio­ne fino al 191937. Esse dipendevano invece da altre ragioni contingenti e comuni alle reti ferroviarie di tutti i paesi belligeranti: le di­struzioni operate dalla guerra, il deteriora­mento rapido del materiale fisso e rotabile, la disorganizzazione dei servizi e l’aumento vertiginoso dei costi a cui non aveva corri­sposto un proporzionale incremento delle ta­riffe, la inevitabile ma transitoria contrazio­ne dei traffici e la nuova concorrenza oppo­sta dai servizi automobilistici pubblici e pri­vati.

Concentrando l’analisi esclusivamente sul dato appariscente del disavanzo finanziario, i propugnatori dell’esercizio privato ne dedu­cevano tout-court l’incapacità dello Stato a gestire un servizio a carattere industriale, e reclamavano come soluzione obbligata la cessione delle ferrovie alle imprese private. Le proposte avanzate in tal senso dalla Con­

federazione generale dell’industria, e subito raccolte dalla grande stampa borghese, era­no del resto assai prudenti e calibrate. Una cessione della rete di Stato in blocco risultava una ipotesi impraticabile per validi motivi di ordine militare e per la difficoltà di reperire compagnie capaci di gestire gli oltre 16.000 chilometri di linee ferrate. La strategia dei gruppi industriali e bancari fu piuttosto quel­lo di lasciare allo Stato le arterie principali a svolgimento longitudinale, rivendicando ai privati le linee di carattere spiccatamente re­gionale e tutta la rete secondaria e comple­mentare per un totale di circa 6.000 chilome­tri. Lo Stato avrebbe dovuto cedere solo l’esercizio di questa parte della rete, senza trasferire la proprietà né degli impianti né del materiale rotabile, la cui utilizzazione da parte delle società private sarebbe stata auto­rizzata da una semplice cauzione, in modo da evitare alle stesse un ingente immobilizzo di capitali. Distribuite per gruppi regionali, le linee dovevano essere preferibilmente at­tribuite a compagnie già esercenti ferrovie in concessione per la loro sperimentata capacità tecnica e finanziaria: quanto alle clausole economiche, lo Stato avrebbe garantito a es­se il reale prodotto lordo accertato nel primo anno d’esercizio, lasciando loro assoluta li­bertà di commisurare le spese alle entrate mediante economie da conseguirsi con la ri­duzione del personale in esubero e delle pa­ghe e con la diminuzione del materiale mobi­le e del numero delle corse. I profitti sarebbe­ro stati interamente riservati al capitale pri­vato fino alla misura del 7 per cento: oltre ta­le limite sarebbe scattata la compartecipazio­ne dello Stato agli utili con una progressione lievemente scalare.

37 A m m inistrazione delle ferrovie dello S tato , R elazione p e r l ’anno fin a n zia r io 1919-20, R om a, S tabilim ento P o li­grafico per l’A m m inistrazione della G uerra , 1921 ; Idem , R elazione p e r l ’anno fin a n zia r io 1921-22, R om a, 1922. Ve­di pu re le considerazioni svolte da P ie tro L an ino in C ollegio-S indacato nazionale ingegneri ferroviari ita lian i, I l disa­vanzo delle Ferrovie dello S ta to . L e o tto ore net lavoro ferroviario , R om a, 1922, pp . 3-91. P er la situazione prece­dente cfr. A tt i della C om m issione parlam entare p e r l ’esam e d e ll’ord inam ento e de! fu n zio n a m e n to delle fe r ro v ie del­lo S ta to , R om a, B ertero, 1917.

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Abilmente pilotato da Filippo Taiani e scientificamente avallato da un convegno or­ganizzato all’università Bocconi di Milano38, il programma delle compagnie ferroviarie fu interamente recepito dal governo fascista, e nel febbraio 1923 il ministro Carnazza affi­dò all’Ispettorato generale delle ferrovie, di­retto dall’onorevole Edoardo Torre, l’incari­co di predisporre uno schema-tipo di con­venzione alla cui stesura contribuirono diret­tamente i rappresentanti delle compagnie ferroviarie39. I principali gruppi industriali che contemporaneamente presentarono do­manda per l’assunzione delle linee comprese in zone regionali omogenee da stralciarsi dal­la rete statale furono complessivamente set­te, e precisamente: 1) un gruppo che faceva capo alla Società veneta richiese la concessio­ne delle linee secondarie venete e del Raven­nate per un totale di 680 chilometri; 2) la So­cietà nazionale per ferrovie e tramvie, che aspirava a circa 440 chilometri di linee rica­denti nel poligono Treviglio-Brescia-Manto- va-Codogno con diramazione per Parma- Fornovo; 3) le Ferrovie Nord-Milano, che in­tendevano ottenere una rete di 820 chilometri che da Milano si diramava nel basso Piemon­te per risalire lungo Mortara, Varallo, Bor-

gomanero, fino a Domodossola; 4) la ditta Saverio Parisi che associandosi ad alcuni ca­pitalisti locali già esercenti la linea Massa- Follonica domandava la rete della Toscana occidentale estesa per 500 chilometri; 5) la Società delle ferrovie salentine, che richiese la concessione di 300 chilometri di linee nella re­gione pugliese; 6) la Società italiana per le strade ferrate secondarie della Sardegna, che capeggiava un gruppo di altri esercenti mino­ri con l’intento di sostituirsi all’antica Com­pagnia reale delle ferrovie sarde nell’esercizio di oltre 400 chilometri; 7) un gruppo di nuova costituzione diretto da Pietro Biraghi e con la partecipazione di capitali americani, che do­mandava la cessione di tutta la rete siciliana e l’autorizzazione a costruire le linee seconda­rie promesse da una legge del 1911 per com­plessivi 1760 chilometri40.

Sebbene in una intervista del 5 febbraio l’alto commissario per le ferrovie, Torre, af­fermasse la necessità di procedere con grande cautela e a ulteriori studi preliminari, le pres­sioni delle società aspiranti alla concessione e l’opportunità politica di dare all’opinione pubblica “la sensazione immediata di una innovazione completa dei criteri in materia ferroviaria”41, fecero accelerare i tempi

38 II passaggio delle fe rro v ie secondarie a ll’esercizio p riva to discusso a ll’U niversità B o cco n i, “ L ’Ita lia” , 20 aprile 1923. O ltre a lla relazione in trodu ttiva di T ajan i avevano preso p a rte al convegno S ra ffa ed E inaudi. Le richieste del­la C o nfindustria erano sta te rese pubbliche da m olti giornali: in partico lare cfr. L a cessione delle fe rro v ie sta ta li al­l ’industria priva ta , “C ronache degli a ffa ri, dell’industria e del lavo ro” , 18 aprile 1923, e II passaggio delle ferro v ie a ll’industria p riva ta , “ La F inanza ita lian a” , 14 aprile 1923, n . 15. P er una esposizione dettag lia ta delle posizioni pri- vatiste vedi pure Filippo T a jan i, L a cessione delle fe rro v ie secondarie a ll’industria p riva ta , “ P roblem i ita lian i” , 1923, fase. 10, p p . 241-256 e fase. 12, pp. 401-411; Idem , L ’unica via p e r uscire dal disavanzo: l ’esercizio priva to , “ G iornale di R om a” , 28 m arzo 1923. Filippo T a jan i era sta to re la to re della c ita ta C om m issione p arlam en tare di in­chiesta su ll’esercizio di S tato , p resiedu ta d a ll’onorevole C him irri, che nel 1917 concluse i suoi studi con il vo to di ce­dere a ll’industria p riva ta circa 5.000 km di linee a scarso traffico .39 Schem a tipo d i convenzione p e r la concessione d i esercizio d i fe rro v ie statali a ll’industria p riva ta , in A P C , pacco 69, b . VI E , Cessione d e ll’esercizio a ll’industria priva ta . Nel carteggio sono com prese num erose relazioni e planim e­trie presentate dalle com pagnie asp iran ti alle concessioni: c fr. in partico lare , ivi, le lettere di B iraghi, L uzzatto , E n ri­co Parisi. L a com pilazione del cap ito la to generale e dei cap ito lati speciali per la cessione dei singoli g ruppi regionali di linee fu a ffid a ta a una com m issione d ire tta dallo stesso T a jan i, che era azionista di m olte com pagnie ferroviarie.40 L ’elenco delle società e dei g ruppi di linee si tro v a in una relazione riservata al m inistro p rep ara ta d a ll’ispettore generale per le ferrovie e tram vie, F ilippo A llem and, Concessioni d i fe rro v ie sta ta li a ll’industria priva ta , in A P C , ivi.41 I m otivi politici ed econom ici che consigliavano di a ffre tta re i tem pi sono esposti in u n ’a ltra relazione di A lle­m and, Cessione d i esercizio delle fe rro v ie statali. R elazione pre lim inare a S .E . il M in istro , A P C , ivi.

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dell’operazione. Nella seduta del 15 marzo su proposta del ministro dei Lavori pubblici il Consiglio dei ministri approvò uno schema di convenzione, che fissava la ripartizione territoriale delle linee cedibili e la durata di quindici anni nei contratti di cessione; subito dopo un secco comunicato dell’Agenzia Ste­fani annunciò che “nella costituzione dei gruppi si è avuto cura di eliminare le ingeren­ze bancarie, riducendo al minimo i capitali da investire col vantaggio di assicurare allo Stato larga partecipazione agli utili e di rea­lizzare quel decentramento ferroviario da tutti invocato”42. Basta scorrere tuttavia l’elenco dei consiglieri d ’amministrazione delle società aspiranti alle concessioni per comprendere la natura vera dell’affare. Con la sola eccezione del gruppo finanziario inte­ressato alle ferrovie siciliane che era diretta- mente collegato a Carnazza, dietro le altre sei società si profilava decisamente l’ombra delle Meridionali e della Mediterranea, che nella nuova situazione politica creata dal fa­scismo speravano di risuscitare i fasti delle concessioni del 1885. Che poi alle due più grandi e antiche compagnie ferrovie italiane si fossero associati gruppi finanziari diversi (i Marsaglia e i Ceriana Mayneri per la Sarde­gna, i Bombrini per la linea del Salento, Pa­risi e Scialoja per quelle dell’alta Italia e della Toscana) nulla toglie al piano monopolistico di riformare un trust ferroviario, a cui non mancarono di dare il loro apporto le maggio­ri banche come la Commerciale e il Credito

italiano e anche le industrie del settore side­rurgico e meccanico interessate alla fornitura del materiale rotabile e degli impianti fissi43.

La scelta privatistica, coperta da un misti­ficante atteggiamento antiplutocratico, acco­munava in questo caso De Stefani e Carnaz­za, convinto com’era il ministro delle Finan­ze che solo in questo modo si sarebbe avviata la riduzione del disavanzo statale mentre al ministro demosociale restava praticamente carta bianca nella sua politica di aperto so­stegno ai disegni monopolistici del capitali­smo industriale e bancario. Sulla base di una tale convergenza operativa, nella seduta del 25 marzo il Consiglio dei ministri deliberò “la cessione di due gruppi di linee, l’uno a Nord e l’altro a Sud, in base alle norme del capitolato precedentemente approvato”44. Delle due reti concesse, la prima riguardava 400 chilometri di ferrovie poste fra la Lom­bardia e l’Emilia, con Bergamo e Mantova da una parte, Cremona e Parma dall’altra: il suo esercizio fu affidato alla Società anoni­ma ferrovie lombardo-emiliane costituitasi a Roma appena una settimana prima con un capitale sociale di sei milioni. Ne era presi­dente Enrico Scialoja affiancato da Giulio Coen, Enrico Parisi, Gino Luzzatti e dagli ingegneri Giuseppe Ottone e Pietro Biraghi, i quali inseriti in qualità di esperti nel Consi­glio superiore erano riusciti a predeterminare in senso favorevole il parere del massimo or­gano consultivo del ministero dei Lavori pubblici45. La rapidità della procedura e la

42 C opia del C om unicato in A P C , ivi.43 Le coincidenze sono facilm ente riscontrabili consu ltando la pubblicazione del C red ito ita liano , Società Italiane p e r azioni. N o tiz ie statistiche, M ilano, 1925, a d indicem . C fr. pure L e m anovre p e r l ’accaparram ento delle ferrovie . C o n flitti d i interessi capitalistici e ridda d i speculatori, “A v an ti!” , 16 aprile 1923, dove si com m entano le m anovre borsistiche sui tito li delle M eridionali condotte da agenti della F iat, della Breda e della M iani-Silvestri.44 C fr. il com unicato della S tefani, in A P C , pacco 69, busta V IE , Concessione d i fe rro v ie sta ta li a ll’industria p riva ­ta. Il rinvio delle a ltre concessioni non fu però g rad ito dagli industriali: vedi ivi la lettera inviata a C arnazza il 2 aprile da B iraghi che lam entava il d isappun to degli azionisti della N ord-M ilano.45 Schem a d i concessione p e r la cessione d i fe rro v ie sta ta li alla Società Ferrovie Lom bardo-E m iliane , ivi. L a società era una filiazione d ire tta della “Società N azionale per ferrovie e tram vie” : la sua costituzione si rese necessaria per­ché il governo, se am m ise le dom ande delle società esistenti, volle però che venissero costitu ite im prese con capitali e am m inistrazioni separa te per un m igliore contro llo della contabilità .

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mancata pubblicazione delle clausole con­trattuali suscitò alcune perplessità anche ne­gli organi di stampa favorevoli in linea di principio alle concessioni, provocando pure le rimostranze dell’alto commissario Torre, che dichiarò di non essere stato neppure in­formato dal ministro46.

L’attacco più duro provenne però proprio dalle file fasciste. Il ras di Cremona, Roberto Farinacci, intuendo il pericolo di una ridu­zione del personale da parte della compagnia privata, che avrebbe indebolito la sua base di massa reclutata tra i ferrovieri di quel com­partimento, con un infuocato articolo a tutta pagina su “Cremona Nuova” denunciò il si­gnificato antifascista della decisione ministe­riale: “Noi ci chiediamo anzitutto con quali criteri procede l’on. Carnazza nella cessione delle ferrovie all’esercizio privato, e cioè se con criteri finanziari o con criteri politici squisitamente antifascisti. Per noi si tratta di un colpo di testa dell’on. Carnazza, anzi col­po di testa politico del democratico on. Car­nazza! La provincia di Cremona è ormai pas­sata al fascismo: i ferrovieri sono in gran parte passati nel sindacato nazionale fasci­sta. Le cose filano a meraviglia: come si po­trebbe fare per gettare i germi del malconten­to in quest’ambiente fascisticamente discipli­nato? L’intelligenza democratica dell’on. Carnazza ha escogitato il mezzo efficace: in­cominciamo per prima a cedere all’esercizio privato la rete del quadrilatero cremonese. Contro di esso incominceranno a ribellarsi i

ferrovieri e la cittadinanza e così verrà colpi­to nel vivo il Duce e il suo partito!”47.

Nonostante lo scalpore sollevato dalla pre­sa di posizione del ras di Cremona, che im­plicitamente suonava come un ammonimen­to del fascismo intransigente perché Mussoli­ni non si fidasse dei fiancheggiatori liberali, le accuse di presunto antifascismo appaiono del tutto infondate dal momento che Carnaz­za manteneva rapporti assai stretti con il Pre­sidente del Consiglio e, sia pure in previsione di una prossima ‘normalizzazione’, nel di­cembre 1923 decise di aderire ufficialmente al Pnf. Molto più prosaicamente, la scelta del ministro dei Lavori pubblici era caduta sulle ferrovie lombardo-emiliane per un cal­colo puramente economico, essendo questo uno dei pochi raggruppamenti dove era stato possibile accertare consistenti utili di gestio­ne e per il quale si erano mossi per tempo gli appetiti delle forze industriali48. D’altra par­te 1’“Avanti!” commetteva un grossolano er­rore quando identificava in Farinacci il di­fensore delle Meridionali che non avrebbero visto di buon occhio la cessione della rete ad una società concorrente: il ‘capostazione di Cremona’ non ebbe mai legami organici con il mondo dell’alta finanza e le sue retoriche tirate contro l’affarismo corrotto della capi­tale e a favore della ‘sana provincia’ confer­mavano semmai che la cerchia delle sue clientele restava circoscritta agli agrari locali e al sindacato fascista dei ferrovieri49. Se il rappresentante organico delle compagnie

46 C hiarim enti o p p o rtu n i, “C orriere della Sera” , 27 m arzo 1923; Luigi E inaud i, I p u n t i essenziali della discussione ferroviaria , ivi, 14 aprile 1923. P er le risentite d ichiarazioni a caldo di T orre , c fr. L ’esercizio delle fe rro v ie a ll’indu­stria priva ta , “G azzetta del P o p o lo ” , 4 aprile 1923.47 Un colpo m ancino del dem ocratico m in istro C arnazza, “C rem ona N uova” , 3 aprile 1923.48 P rom em oria su lle fe rro v ie lom bardo-em iliane, in A P C , pacco 69 c it ., nel quale si delineavano gli effe tti econom i­ci della nuova organizzazione delle linee e si raccom andava di fissare a C rem ona la direzione effe ttiva della società allo scopo evidente di evitare le reazioni ostili dei fascisti fedeli a Farinacci.49 L ’a ffa re della cessione delle fe rro v ie a ll’industria privata . I voraci appetiti degli speculatori, “A v an ti!” , 5 aprile 1923. Sulla collocazione esclusiva di Farinacci com e ras locale insiste A drian L y ttelton , L a conquista del potere. I l

fa sc ism o dal 1919 al 1929, B ari, L aterza , 1974, p p . 281-282, che so tto linea anche l’in tesa di Farinacci con l ’a lto com ­m issario delle ferrovie T orre , e con Rossoni su u n a p ia tta fo rm a di sindacalism o integrale. Q uesto giudizio è sos tan ­zialm ente conferm ato da H arry D . F o rna ri, R o b erto Farinacci, in U om ini e vo lti del fa sc ism o , a cura di F erd inando C ordova, R om a, Bulzoni, 1980, pp. 213-241.

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ferroviarie era proprio il ministro dei Lavori pubblici, l’imprevista reazione del capo del fascismo cremonese si rivelò quanto mai inopportuna per quei gruppi economici che avevano considerato vantaggiosamente già conclusa la privatizzazione delle ferrovie. Non solo la stampa democratica, ma anche i giornali liberal-moderati criticarono la fretta eccessiva del provvedimento: “Questa divi­sione dell’Italia ferroviaria in pillole — com­mentava ‘Il Giornale d ’Italia’ —, questa ces­sione di linee qua e là, senza un piano organi­co studiato insieme con le ferrovie dello Sta­to; questa creazione di piccole società che domandano esse ed indicano esse le linee che vogliono esercire, abbarbicandole alla rete dorsale, che resta sempre allo Stato e sulle cui spalle, nel caso di magri affari, procure­ranno di vivere, non trova ragione alcuna né razionale giustificazione. Perché è comodo sostenere: lo Stato esercita perdendo, dun­que si accontenta di affidare le ferrovie a una Ditta industriale pur di non perdere più. È comodo il farlo ora che l’esercizio costa mol­to. Ma non sembra opportuno né commer­cialmente conveniente che lo Stato ceda le li­nee proprio adesso, quando si sa che fra bre­ve le migliorate condizioni del bilancio stata­le permetterebbero di trattare coi privati in condizioni assai più vantaggiose del momen­to presente”50.

Furono soprattutto le rumorose assemblee di protesta dei ferrovieri settentrionali orga­nizzate da Farinacci con il pieno appoggio di

Torre e di Rossoni a far recedere il governo dalle deliberazioni già prese. Di fronte all’atteggiamento antigovernativo assunto dal più importante nucleo del sindacalismo fascista, in un colloquio personale con Fa­rinacci, il duce promette di sospendere la concessione delle ferrovie lombardo-emilia­ne51. Il giorno dopo il Consiglio dei mini­stri approva un ordine del giorno redatto da Mussolini nel quale si riaffermava la va­lidità teorica dell’esercizio privato ma si ri­mandava a un esame successivo ogni con­creta decisione al riguardo; il dispaccio ri­servato inviato a Carnazza, con la consueta stringatezza stilistica del duce, mette davve­ro la parola ‘fine’ all’intricata vicenda: “È mio desiderio che per ragioni politiche e fermo restando il postulato programmatico generale di Governo riaffermato nel Consi­glio dei Ministri del 7 corrente, vengano per momento, e fino a mio nuovo avviso, sospese le concessioni di esercizio di linee ferroviarie, anche se in corso di attuazio­ne”52.

In questo caso neppure la stampa fascista e fiancheggiatrice riuscì ad attenuare le gravi proporzioni dell’infortunio in cui era incap­pato il primo ministro Mussolini: non solo la convenzione con le Ferrovie lombardo-emi­liane era stata già formalmente siglata ma anche la concessione della rete sicula risulta­va autorizzata da un decreto reale che fu bloccato appena in tempo sulle rotative della “Gazzetta Ufficiale”53.

50 A urelio Felici, L e fe rro v ie e l ’industria p riva ta , “ Il G iornale d ’Ita lia” , 24 aprile 1923. Vedi l’in tervento di A ttilioC ab la ti, P u n ti da chiarire in torno alla cessione delle ferro v ie , “ La S tam pa” , 18 m arzo 1923, secondo cui “ uno spez­zettam ento della in tera rete continentale fra parecchi organism i privati non servirebbe ad a ltro che ai buoni affa ri delle banche e dei finanzieri” . C fr. pu re A p ro p o sito d i concessioni ferroviarie , “ II M ondo” , 21 aprile 1923.

r 51 L e fe rro v ie e l ’industria privata. I l pensiero dei ferro v ier i fa sc is ti, “ La D iana ferrov iaria” , 24 aprile 1923. / fe r ro ­vieri m ilanesi contrari alla cessione a ll’industria priva ta , “ Il G iornale d ’Ita lia” , 26 aprile 1923; / / p rob lem a fe rro v ia ­rio in una intervista con l ’on. Torre, “ Il N uovo Paese” , 27 aprile 1923; Un risolutivo colloquio M ussolini-Farinacci sulla questione ferroviaria , “ L ’E u ro p a” , 8 aprile 1923; B enito M usso lin i sven ta l ’inconsueto ten ta tivo del m inistro Carnazza, “ C rem ona N uova” , 7 aprile 1923. P er un sarcastico com m ento della stam pa antifascista vedi pure II m in i­s tro dei L avori pubblici agli ordin i de! capostazione Farinacci, “ La Voce repubblicana” , 7 aprile 1923.52 M ussolini a C arnazza, 10 aprile 1923, in A P C , pacco 69, b. VI E , cit.53 II testo m anoscritto del decreto reale riguardan te la cessione della rete sicula con la firm a au to g rafa del Re, ivi. Per qualche tem po le com pagnie sperarono invano che la situazione potesse sbloccarsi a loro favore: in tal senso vedi

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Le vicende della direttissima Firenze-Bolo- gna dimostrano del resto come Carnazza avesse deciso di procedere con i piedi di piombo dopo l’insuccesso della progettata cessione delle ferrovie secondarie all’indu- stria privata. La costruzione di questa im­portante arteria a doppio binario, che con un tracciato di 97 chilometri attraversa l’Appen- nino con una galleria di valico di 18,5 chilo­metri, fra le più lunghe in Europa, era stata stabilita da una legge speciale del 12 luglio 1908, n. 44; i lavori erano cominciati soltan­to nel 1912 a cura diretta delle Ferrovie dello Stato, ma alla fine del 1922 risultavano ese­guiti appena 20 chilometri per un importo di 280 milioni, senza che fossero state ancora affrontate le difficoltà tecniche relative alla grandiosa galleria54. Poiché il fortissimo au­mento dei costi nel dopoguerra e l’austerità finanziaria voluta da De Stefani rischiavano di fermare la già lenta esecuzione delle opere lasciando sul lastrico oltre 5.000 operai occu­pati nell’impresa, il ras del fascismo bolo­gnese, Baroncini, e il direttore de “Il Resto del carlino” , Nello Quilici, avevano richia­mato l’attenzione del governo sull’urgenza di concedere sollecitamente nuovi fondi55. Di fronte al rifiuto opposto dal Tesoro di impe­gnare l’erario in una spesa così ingente, l’unica soluzione consentita al ministro dei Lavori pubblici per non arrestare l’opera con le connesse conseguenze della disoccupazio­ne operaia e del deterioramento degli im­pianti esistenti, fu quella di ricorrere alla

concessione di pura esecuzione da affidare al capitale privato dietro rimborso cinquanten­nale dello Stato. Entro il termine fissato del 28 febbraio 1923 giunsero al ministero le of­ferte di otto ditte concorrenti sulla base delle quali sarebbe stato possibile avviare la tratta­tiva privata. Proprio nel corso del mese di marzo si era sviluppata la polemica sull’eser­cizio privato delle ferrovie con il pesante at­tacco di Farinacci. Per premunirsi dall’accu­sa di favorire le speculazioni affaristiche Carnazza non lesinò le cautele, demandando l’aggiudicazione al giudizio di una commis­sione composta da funzionari governativi e da consiglieri di Stato56. Sotto la direzione dell’ingegnere Raffaele De Corné, vice presi­dente del consiglio superiore dei Lavori pub­blici, la commissione iniziò l’esame delle do­mande il 6 aprile per concluderlo ai primi di giugno con una relazione nella quale espresse l’avviso di sperimentare una nuova gara d’appalto limitatamente a sole quattro delle otto ditte aspiranti, subordinatamente alla loro accettazione di trattare sulla base delle tariffe predisposte dall’amministrazione fer­roviaria, di non richiedere in futuro alcuna deroga ai patti del capitolato e di documen­tare con maggiore precisione le rispettive ca­pacità finanziarie57. Dall’apertura delle sche­de a busta chiusa, avvenuta il 3 luglio, risultò che l’offerta più bassa era stata avanzata dal Sindacato italiano, un gruppo sostenuto dal­la Banca d ’America e d ’Italia e dal Credito immobiliare, per una cifra complessiva di

G iuseppe O ttone , L e cessioni ferroviarie a ll’industria p riva ta e il G ruppo lom bardo-em iliano, M ilano , Reggiani, 1923. P er un giudizio critico retrospettivo cfr. dello stesso G . O ttone , Ferrovie principali e fe rro v ie secondarie, in “ L ’Ingegnere. R ivista tecnica del S indacato nazionale fascista ingegneri” , vol. I I , 1928, n . 2 e L e cessioni delle linee ferroviarie . A discussione f in ita , ivi, 1928, n. 4.54 Lo stanziam ento iniziale era s ta to di 150.000.000: cfr. E p icarm o C orb in o , A n n a li d e ll’econom ia italiana, vol. V, 1901-1914, C ittà di C astello , S d „ pp . 322-323.55 Le lettere di Q uilici, B aroncini e del P re fe tto di B ologna, in A P C , pacco 69, b . VI F D irettisim a Bologna-Firenze. Vedi pure / lavori della D irettissim a, “ Il R esto del C a rlin o ” , 17 gennaio 1923.56 L a direttissim a Bologna-Firenze. L a necessità ed i criteri della concessione, “ Il C orriere della se ra” , 29 m arzo 1923. Le dom ande erano sta te p resen tate da lla Società anon im a per costruzioni cem entizie, dal S indacato tosco-em i­liano, dalla Società veneta, dalla d itta Parisi, dalla Società im prese e gestioni, dal G ruppo Parod i-Salvo e dalla socie­tà am ericana M ac A rthu r: cfr. A P C , pacco 69, b. VI F, fase. Elenco o fferte .57 De C ornè a C arnazza, 3 giugno 1923, ivi.

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573 milioni. L’offerta dell’impresa Ceconi- Ceragioli-Parodi Salvo, legata alla Banca commerciale e all’Istituto italiano di credito marittimo, si attestò sulla somma di 643 mi­lioni; seguivano infine le offerte della Società imprese cementizie e della ditta Parisi en­trambe di 662 milioni dietro fideiussione del Credito italiano58. Dopo la raccolta di ulte­riori elementi di valutazione la commissione il 24 luglio espresse il parere di restringere la gara di appalto alla impresa Ceconi-Ceragio- li-Parodi e alla ditta Parisi, pur rilevando “i fondati motivi di preferenza a favore della ditta Parisi per la maggiore attitudine tecnica di quest’ultima in lavori ferroviari di siffatta importanza”59.

Carnazza disattese parzialmente le indica­zioni della commissione e optò per il gruppo Ceconi-Ceragioli-Parodi, facendosi forte dell’offerta più vantaggiosa di circa venti mi­lioni rispetto a quella dei fratelli Parisi. I mo­tivi di questa scelta non sono del tutto chiari anche se denotano il notevole margine di au­tonomia che il ministro siciliano sapeva riser­varsi in tali operazioni. Che dietro l’impresa prescelta ci fossero i capitali della Comit e del banchiere Della Torre (presidente dell’I­stituto di credito marittimo) a cui Carnazza era intimamente collegato in ordine alla pro­gettata valorizzazione fondiaria ed elettro-ir­rigua della piana di Catania, è un dato già di per sé sufficiente a render conto di tale prefe­renza. Ma non basta. Sembra infatti che l’impresa preferita avesse artatamente au­mentato l’offerta per conseguire un lucro su­periore da destinare al finanziamento de “Il Corriere italiano” , il quotidiano diretto da Filippo Filippelli e fondato nell’agosto 1923

con l’avallo dell’industriale piemontese e se­natore Dante Ferraris e del gruppo zucche­riero-armatoriale Parodi e con cospicue sov­venzioni della Fiat, della Terni e della Ilva. La nuova combinazione editoriale, che ebbe in una prima fase come ispiratore il sottose­gretario aH’Interno Aldo Finzi e il consenso esplicito di Mussolini, era finalizzata sotto il profilo economico ad assicurare il manteni­mento del regime protezionista. Quanto alla linea politica, “Il Corriere d’Italia” fino alle elezioni delTaprile 1924 si sarebbe reso pro­tagonista di una campagna di stampa a favo­re di una ‘normalizzazione’ del fascismo in senso liberal-conservatore, secondo una stra­tegia comune ai fiancheggiatori e alle corren­ti del ‘revisionismo fascista’ che fu portato avanti non solo da altre prestigiose testate, come “La Stampa” e “Il Resto del Carlino” ma anche da “Il Nuovo Paese” di Carlo Baz- zi passato del novembre 1922 da Francesco Ciccotti nelle mani dello stesso gruppo finan­ziario de “Il Corriere d’Italia”60.

A bloccare per tempo la stipula definitiva della concessione intervenne comunque un doppio ostacolo. L’alto commissario Torre, già in cattivi rapporti con il ministro, si pre­murò di rendere pubblica una relazione della direzione generale delle Ferrovie dello Stato nella quale si faceva ascendere a 525.000.000 il fabbisogno finanziario per completare la direttissima; contemporaneamente informa­zioni riservate raccolte dalla polizia e tra­smesse a De Stefani permisero di appurare le critiche condizioni economiche in cui versava Remo Parodi Salvo, dipinto come “uomo abbastanza scaltro ma impreparato ad assu­mere la responsabilità di vaste e complesse

58 E sam e delle o ffe r te presenta te in seconda gara dalle d itte concorrenti alia concessione d i sola costruzione. Rela­zione del 24 luglio 1923, ivi, pp . 5-13.59 Iv i, p. 20.60 V alerio C astronovo , L a stam pa italiana d a ll’U nità al fa sc ism o , B ari, L aterza, 1973, pp . 324-328; G iuseppe R ossi­ni, I l delitto M a tte o tti tra il V im inale e VA ventino , Bologna, Il M ulino, 1966, pp . 94-98; Renzo D e Felice, M usso lin i il fa sc is ta , 1.1, T orino , E inaud i, 1968, p. 454 sgg. Vedi pure la testim onianza dell’avvocato A dolfo Olivieri consiglie­re delegato del giornale racco lta in C esare Rossi, I l delitto M atteo tti, M ilano, C eschina, 1965, pp . 555-562.

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imprese”61. In questa circostanza Carnazza mostrò di preferire la prudenza alla fretta pur di non compromettere l’affare. Egli da un lato chiese e ottenne il recesso del Parodi dalla società quale condizione preliminare per la concessione, cercando dall’altro di sminuire agli occhi di Mussolini il valore dei preventivi calcolati dall’azienda ferroviaria: “Caro presidente, fra i 525 milioni calcolati dalle Ferrovie ed i 643 offerti dalla Ceconi- Ceragioli, la differenza è notevole e potrebbe comportare un risparmio rilevante per l’era­rio. Io sono, a dire il vero, anche oggi poco convinto della possibilità di ottenere tale ri­sparmio. Una parte della maggiore spesa ri­chiesta dai privati concessionari si riferisce certamente alle tasse di registro sulla conven­zione (12 milioni), ai trasporti a tariffa ordi­naria sulle ferrovie (50 milioni), all’acquisto degli impianti attualmente esistenti (20 milio­ni), e tutte queste somme costituiscono sem­plicemente partite di giro, in quanto vengono ad essere incassate dall’Amministrazione dello Stato. A parte ciò è da considerare che il persistere nell’affidare alle Ferrovie dello Stato la costruzione di nuove ferrovie impor­ta il non smobilitare tutti quegli uffici desti­nati alle costruzioni, con relativo grandissi­mo numero di impiegati, con onere non pre­cisabile di pensioni, e tutto questo può ren­dere forse illusorio quel minore costo indica­to. Finalmente è da considerare che, mentre la indicazione del prezzo fatta dal concessio­nario privato è un impegno preciso, a garan­zia del quale la ditta deposita una cauzione, la dichiarazione delle ferrovie dello Stato non importa alcuna garanzia, e se la spesa

supererà il previsto, il maggior costo sarà sempre a carico dello Stato, come è avvenuto per alcune linee del Nord e della Sicilia, i cui preventivi dell’azienda statale sono stati nei consuntivi moltiplicati per quattro e per cin­que. Da queste mie constatazioni, io credo che a un temperamento si possa comunque venire. Io proporrei pertanto di non procede­re per ora alla concessione all’industria pri­vata, ma di lasciare continuare la costruzione per parte delle Ferrovie dello Stato sotto la sorveglianza di funzionari dei ministeri delle Finanze e dei Lavori Pubblici, per accertare in un esperimento di alcuni mesi se effettiva­mente i prezzi unitari coi quali la Direzione delle Ferrovie afferma di completare l’opera verranno mantenuti oppure no. Se ciò ottie­ne la tua approvazione la questione potrà es­sere portata al prossimo Consiglio dei Mini­stri per la necessaria ratifica”62.

Della lettera del titolare dei Lavori pubbli­ci si dovette dare pubblica ragione alcune set­timane dopo per smontare sul nascere la po­lemica alimentata dal foglio intransigente “L’Assalto” circa le speculazioni affaristiche relative alla concessione d’appalto. Il Consi­glio dei ministri che già PII luglio si era pro­nunciato a favore della industria privata, nella seduta del 4 settembre ritornò sulla pre­cedente decisione, deliberando di far prose­guire in via sperimentale fino al giugno 1924 la costruzione diretta a cura dello Stato, mentre il Rd 31 ottobre 1923 n. 2475 autoriz­zò un’assegnazione straordinaria di cento milioni di lire per la prosecuzione dei lavori che furono poi proseguiti a cura dell’ammi­nistrazione ferroviaria63.

61 II rap p o rto , stila to da tre in fo rm ato ri diversi, con la lettera di accom pagnam ento del capo del gab inetto del m ini­stro delle F inanze, in A P C , pacco 69, b. VI F. Im p aren ta to con i più no ti finanzieri, i fratelli P a ro d i, R em o P arod i Salvo aveva conseguito notevoli guadagni d u ran te la guerra con la com pravendita di naviglio finan z ia ta dal Banco di R om a, tan to da acquistare per parecchi m ilioni u n a ten u ta agricola del p rincipe Borghese delle cam pagne di Rieti e uno stabile a G enova. Secondo gli anonim i estensori del rap p o rto già alla fine del 1922 la posizione econom ica del P arod i si era b ruscam ente indebolita con ingenti esposizioni verso la B anca ita liana di sconto.62 C arnazza a M ussolini, 23 agosto 1923, ivi.63 Le copie dei verbali delle due sedute del C onsiglio dei m inistri, ivi. Sulle con trodeduzion i dell’im presa interes­sa ta alla concessione vedi S u i lavori d i com ple tam en to delia D irettissim a F irenze-Bologna. B revi rilievi, R om a,

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L’affare andato a monte ebbe un significa­tivo strascico nel processo celebratosi nel 1925 al tribunale di Roma per discutere una causa privata di danni intentata dal Parodi contro l’impresa Ceconi-Ceragioli accusata di avere estromesso il socio dal contratto a sua insaputa e con apposizione di firma fal­sa. Dinanzi alla corte l’istante produsse la copia della primitiva bozza di contratto sti­pulata d’intesa tra la società e i funzionari ministeriali, dalla quale risultava che sul­l’importo dei 643 milioni il compenso per il finanziamento era stato fissato al 9 per cen­to a favore del capitale (quasi 60 milioni) e che al Parodi sarebbe spettato il 3 per cento (19 milioni) per la direzione finanziaria e per le ‘opere generali’, oltre al diritto di fornire tutto il materiale occorrente salvo ‘congruo corrispettivo’ nel caso di rinuncia ai diritti di opzione. Nelle successive stesure del contrat­to quelle laute provvigioni del 9 e 3 per cento vennero convenzionate nella cifra fissa e uni­ficata del 9,90 per cento, ma a esse si aggiun­sero due tangenti, l’una dello 0,20 per cento a favore dell’avvocato Oderico Dal Fabbro per le pratiche presso i ministeri, e l’altra dell’ 1 per cento a favore di Michele Tonetti per completare le procedure di finanziamen­to presso la Banca commerciale e l’Istituto di credito marittimo. Le rivelazioni del Parodi si riferivano alla fase preliminare delle tratta­tive svoltesi nel febbraio 1923, e la successiva decisione di Carnazza di estromettere il Pa­rodi dalla concessione sembra escludere una sua diretta complicità. Il resoconto del dibat­tito processuale, ripreso soltanto dai giorna­

li d’opposizione, getta comunque una luce assai cruda sugli aspetti speculativi e di cor­ruzione che si annidavano nelle pieghe più ri­poste delle relazioni fra lo Stato e l’industria: “La baraonda è finita — commentava con sarcasmo l’indomito Eugenio Chiesa — e tutto è andato in aria. Erano in troppi quelli delle ‘commissioni e delle provvigioni specia­li’, e si sono traditi. Ma che denti”64.

La privatizzazione del servizio telefonico

Per quanto riguarda le comunicazioni telefo­niche la disputa accesasi tra i sostenitori del­l’esercizio pubblico e chi voleva l’esercizio privato era stata sciolta dal Rd 8 febbraio 1923 n. 309 che attribuiva al governo la fa­coltà di trasferire a enti privati i servizi tele­fonici e la proprietà dei relativi impianti, as­secondando i voleri della Confindustria e dell’Associazione fra le società italiane per azioni il cui direttivo si era espresso in tal senso nella riunione dell’8 novembre 192265. Nella relazione presentata dal ministro delle Poste, il demosociale siciliano duca Colonna Di Cesarò e approvata il 4 settembre dal Consiglio dei ministri, si precisavano gli sco­pi della privatizzazione nella duplice esigenza di sollevare il bilancio dello Stato dagli in­genti immobilizzi finanziari necessari al rin­novamento e all’ampliamento degli impianti e di aiutare nello stesso tempo “la benemeri­ta e promettente industria nazionale delle co­struzioni telefoniche per liberarla dall’assil­lante concorrenza delle case straniere”66.

T ipografia U lpiano, 1923. P er le vicende successive cfr. A n ton io C rispo, L e fe rro v ie italiane. Storia politica ed eco­n om ica , M ilano, G iuffrè , 1940, pp . 280-281, dove sono pure con tenu te notizie interessanti sulle caratteristiche tecni­che dell’opera.64 E ugenio Chiesa, Vera storia d e ll’appetito pantagruelico d i m o lti m ilion i rim asto insoddisfa tto . P erché la d irettis­sim a F irenze-Bologna costava cara, “ La Voce repubblicana” , 21 febbra io 1925. L ’artico lo contiene un resoconto dettag lia to delle vicende processuali.65 Le delibere confindustria li al riguardo , con allegato un m em oriale del novem bre 1922 in A CS, P residenza del Consiglio 1923, f. 1 3 /1 /1 3 2 , Cessione dei T elefoni dello S ta to a ll’industria privata.66 R elazione D i Cesarò, ivi. II docum ento è accom pagnato d a una lettera del m inistro a M ussolini del 24 agosto , nel­la quale si riconferm ano quelle dim issioni che sarebbero sta te poi fo rm alizzate nel febbra io 1924.

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Circa le modalità concrete della progettata cessione, tra le diverse soluzioni possibili (concessione unica, concessione plurima di ampiezza interregionale, concessioni frazio­nate di limitata estensione) il documento mi­nisteriale privilegiava nettamente la seconda, che avrebbe dovuto evitare i rischi tanto del paventato monopolio, quanto dell’eccessiva frammentazione del servizio.

Il trasferimento del servizio telefonico a un unico ente industriale era infatti sostenu­to da un sindacato appositamente formatosi a Milano sotto l’egida di Giacinto Motta e Alberto Pirelli, e al quale era successivamen­te subentrata la Società generale italiana tele­foni che risultava costituita dalle principali banche italiane e da una coalizione industria­le comprendente la Fiat, la Pirelli e la Edison con il concorso di capitali americani sotto- scritti dalla Western Electric Company e dal­la International Telephon and Telegraph Corporation67. A questo gruppo assai poten­te e attrezzato sul piano tecnologico e finan­ziario si contrapponeva la tendenza alle con­cessioni frazionate sostenuta dalle imprese telefoniche esistenti che si ripromettevano di ingrandire le loro reti e di integrarle con nuo­vi tronchi fino a ottenere una maggiore orga­nicità tecnica degli impianti. Ma una terza posizione affiorante era quella di una gestio­ne dell’intera rete telefonica a una società mista fra Stato e capitale privato. Essa era propugnata dalle poche industrie italiane co­struttrici di materiale radio-telefonico, le quali pensavano di associare lo Stato alla ge­stione del servizio proprio per bloccare la concorrenza delle imprese straniere. “L’evi­denza della necessaria compartecipazione statale alla nuova azienda telefonica è suffra­gata dall’argomento finanziario. Global­mente — asseriva il socialista Umberto Bian­

chi — i nuovi concessionari avranno biso­gno, oltre ad un capitale circolante di almeno 200 milioni di lire, d’investire oltre trenta mi­lioni annui per interessi ed ammortamenti dei valori rilevati e circa 120 milioni all’anno per finanziare il programma dei nuovi lavori. Ora noi domandiamo: chi è in Italia che si di­chiara pronto a fornire tutto questo denaro? L’intervento di capitale azionario, il quale non potrebbe venirci se non da grandi ditte straniere interessate ad importare materiale telefonico in Italia, significherebbe fra l’al­tro aprire la porta di casa ai grandi e spregiu­dicati concorrenti della nostra industria na­zionale così faticosamente creata e costrin­gerla inevitabilmente ad una triste fine. Creare invece una società commerciale, nella quale lo Stato intervenga come socio azioni­sta apportando il valore degli impianti ceduti e assumendo una responsabilità di minoranza nella gestione è la migliore arma per impedire ogni infiltrazione di interessi stranieri e per soddisfare le esigenze collettive”68.

Segretario della federazione provinciale del Psi di Ravenna nel 1919, relatore al con­gresso di Livorno sul tema della socializza­zione, sin da quando nel 1910 era tornato dalla Calabria per dirigere la Camera del La­voro di Forlì e successivamente il periodico “La Romagna socialista” , il deputato Um­berto Bianchi poteva vantare un’antica ami­cizia con Mussolini che giustifica il tono spregiudicato della lettera in cui esponeva le sue perplessità sulla progettata privatizzazio­ne: “Caro Presidente, permettimi di dirti che le proposte presentate dal Di Cesarò al consi­glio dei ministri in materia telefonica costi­tuiscono una grossa bestialità dal punto di vista tecnico. Inoltre esse sembrano escogita­te apposta dai funzionari di via del Semina­rio (!) per consolidare il dominio della buro-

67 C fr. il p rom em oria p rep ara to il 28 febbra io 1924 da C ostanzo C iano per M ussolini in A P C , pacco 4, b. Cessione dei telefon i alta industria privata .68 U m berto Bianchi, l i p rob lem a nazionale te le fon ico , R om a, T ipografia della C am era dei D eputati, 1923, pp.16-18.

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crazia sulla Azienda Telefonica. Infine il tradurre in atto lo schema Di Cesarò signi­ficherebbe: a) la fine certa dell’industria nazionale; b) il completo accaparramento dei telefoni da parte della Commerciale. Giuseppe Doglio, che è una splendida figu­ra di italiano e di lavoratore e di gentiluo­mo, aveva insieme a me studiato con pas­sione e grande cura un piano concreto di riorganizzazione aziendale basata sopra una larga base azionaria e sulla compartecipa­zione dello Stato. Ora tutto ciò deve cadere per una cospirazione di funzionari non tutti degni ed a favore di un nuovo piano che è una mostruosità, un’assurdità tecnica? Che è destinato a realizzare le fameliche brame della Commerciale e della Western? Io ti scongiuro di portare un po’ della tua perso­nale attenzione al problema”69.

La formula della compartecipazione sta­tale, sebbene da numerosi esperti ed econo­misti fra cui Maffeo Pantaleoni fosse giudi­cata l’unica in grado di assicurare l’omoge­neità tecnica dell’azienda e insieme lo svi­luppo di una giovane imprenditoria di me­die dimensioni70, non ebbe modo di preva­lere perché fra la politica liberistica di De Stefani e la linea privatista caldeggiata da Motta e Pirelli si venne a stabilire una con­vergenza di fatto che fini per favorire alcu­ne grandi concentrazioni finanziarie multi­nazionali da cui il governo fascista dichia­rava a parole di voler prendere le distanze. Nel timore di essere boicottate dai futuri concessionari collegati con ditte estere, le imprese italiane costruttrici di materiale te­lefonico cercarono di consorziarsi per dare vita a una organizzazione industriale in

grado di abbinare la gestione del servizio all’utilizzazione di impianti fabbricati in Ita­lia. Con queste premesse era stata fondata la Siti (Società imprese telefoniche italiane), il cui presidente Giuseppe Doglio tornò a illu­strare a Mussolini con un lungo memoriale le ragioni politiche ed economiche che mili­tavano a favore di una società mista fra Sta­to e privati71. Ma in una relazione riservata al capo del governo il nuovo ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano mostrò di optare per la pluralità delle concessioni e di non tenere in considerazione alcuna l’idea dell’ente semistatale. La scelta privatista eb­be l’appoggio incondizionato del duce. “Ca­ro Ciano — scriveva Mussolini il 3 marzo — ho letto attentamente il tuo appunto concer­nente il passaggio dei telefoni all’industria privata. Prima di tutto occorre riaffermare il principio, che cioè lo Stato non deve fare il telefonista, specie quando il farlo decente­mente ci accollerebbe oneri finanziari intol­lerabili. Venendo al quando, credo la cosa dopo 17 mesi sia matura abbastanza e che bisogna decidersi alla esecuzione. Quanto al come sono d’accordo: 1° sulla pluralità delle concessioni limitate e selezionate; 2° che il passaggio deve essere in ogni caso simulta­neo in tutta Italia, onde evitare di distribuire la carne e lasciare allo Stato l’osso; 3° porre come condizione se non proprio pregiudizia­le certamente importante il consorzio di tutti i gruppi concessionari; 4° nella più dannata delle ipotesi a cedere al criterio dell’ente uni­co e indivisibile. Approvo la nomina della Commissione di revisione dei capitolati e ti prego di non dimenticare le sorti del perso­nale”72.

69 U m berto Bianchi a M ussolini, 6 settem bre 1923, in A CS, cit. Nel fascicolo c’è pure la m inuta della risposta di M ussolini che conferm ava la decisione di privatizzare.70 M affeo P an ta leon i, L a f in e provvisoria d i u n ’epopea, Bari, 1919. Vedi pure A . A lbata , L a com partecipazione sta ta le nelle im prese priva te , R om a, C olom bo, 1923; Luigi De Sim one, L o S ta to azionista, N apoli, 1923.71 II m em oriale D oglio con una generica lettera di accom pagnam ento scritta da M ussolini il 9 febbra io 1924 a C iano in A P C , pacco 4, b. Cessione dei telefon i a ll’industria privata.72 M ussolini a C ostanzo C iano , 3 m arzo 1924, ivi. Nello stesso fascicolo cfr. pure il p rom em oria riservato di C iano al C apo del governo d a ta to 28 febbraio.

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Predisposto da uno speciale comitato in­terministeriale il Rd 4 maggio 1924 n. 837 modificò a vantaggio delle imprese conces­sionarie alcune delle clausole previste dal precedente decreto dell’8 febbraio: il paga­mento degli impianti ceduti fu stabilito con una rateazione di trent’anni e solo per l’87 per cento del valore riconosciuto dai periti, fu prolungato il termine minimo di rinun­cia dello Stato alla facoltà di riscatto e fu ridotto a una percentuale variabile dal 3 al 4 per cento il versamento dovuto dalle so­cietà concessionarie all’erario sugli introiti lordi, limitando inoltre la partecipazione dello Stato ai profitti solo quando gli utili netti avessero superato il 7 per cento. A ga­ranzia della italianità delle imprese il capi­tale sociale dalle società concessionarie do­veva essere composto da due distinte serie di azioni, di cui la prima doveva essere composta da azioni nominative in possesso di cittadini italiani e rappresentative del 55 per cento del capitale, mentre le azioni det­te di serie B avrebbero potuto essere al por­tatore e quindi facilmente collocate anche all’estero73.

Queste e altre condizioni di favore non valsero però ad accelerare le pratiche per la retrocessione ai privati del servizio telefoni­co. Il motivo principale del ritardo consiste­va nella difficoltà di dividere il territorio na­zionale nelle diverse zone di concessione sen­za scontentare le pretese delle società concor­renti. Oggetto principale di contesa fu so­prattutto la Liguria, che il gruppo finanzia­

rio legato alla Commerciale voleva aggregare al Piemonte e alla Lombardia: “Una forte organizzazione bancaria milanese — riferiva il deputato salandrino Celesia — tende ad as­sicurarsi l’esclusività dell’esercizio del telefo­no nelle 3 regioni più progredite nel campo in­dustriale, ma tale fatto ha provocato vivo malcontento sulla cittadinanza genovese non comprendendosi per quale motivo la città di Genova e le riviere liguri debbono essere man­ciple di Milano in un servizio pubbico così im­portante. Genova è abbastanza progredita per pensare a se stessa. I mezzi necessari per dotare la Liguria di un servizio telefonico pos­sono agevolmente essere trovati nel campo in­dustriale genovese, dove si hanno spiccate personalità pronte a mettersi a capo di un or­ganismo vitale. Ti prego perciò di adoperarti perché gli impianti telefonici della Liguria vengano a costituire una zona a sé da affidarsi ad una società locale”74.

D’altra parte la già citata Siti di Doglio, che una volta abbandonato il concetto del­l’ente semistatale si era ristrutturata con la partecipazione di capitali belgi, subordinava la propria richiesta di assumere i servizi del­l’Italia centrale alla possibilità di aggregare la redditizia rete ligure e premeva pure affin­ché la nazionalità italiana non fosse estesa a tutte le azioni della serie A ma solamente alla maggioranza di esse: autentico revirement de bord per una società che pochi mesi prima si era battuta per la compartecipazione statale come migliore baluardo all’influenza delle ditte estere75.

73 P er il Testo del decreto c fr. “G azzetta U fficiale del R egno” , 5 giugno 1924, n . 132. Sulle bozze p rep ara to rie del decreto e sullo schem a di cap ito la to pred isposto da C iano vedi la docum entazione in A P C , pacco 4, b. C essione dei te le fon i a ll’industria privata. Vedi pure L ’esercizio degli im pian ti te lefonici e società p riva ti e L a cessione dei telefon i alle società priva te , “ La Società per az ion i” , 1924, pp . 139, 285.74 G iovanni Celesia a C arnazza, 7 giugno 1924, ivi. F io ren tino di nascita ed eletto in in terro ttam en te a lla C am era dal 1900 nella circoscrizione di G enova-P orto M aurizio , G iovanni Celesia era s ta to so ttosegre tario ai Lavori pubblici nel secondo m inistero Sonnino (1909) e so ttosegretario agli In tern i nel governo S alandra.75 II m em oriale della Siti d a ta to 16 m aggio 1924 in A P C , b . 4, à i . , N o te su llo schem a d i capito la to p e r la concessione dei telefon i a ll’industria priva ta . Sulla partecipazione di capitale belga nella società vedi pure ivi la le ttera inviata il 10 giugno a C arnazza dall’am basciato re belga. P er qu an to r iguarda le pressioni dell’in dustria tedesca vedi pu re il m em o­riale della Società ita liana servizi B roadcasting , em anazione della T elefunken , inv iato a C arnazza il 13 giugno 1924, ivi.

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Politica economica e istituzioni 37

Nell’aprile 1925 con distinti decreti reali tutte le reti telefoniche urbane e quelle interur­bane a minore distanza, che nonostante il regi­me di monopolio statale risultavano fraziona­te a circa ottanta concessionari diversi, furono cedute in proprietà dallo Stato alle società Sti- pel, Telve, Timo, Teti e Set, al prezzo di 255.345.867 lire: rimasero di pertinenza pub­blica le linee interurbane a maggiore distanza per la loro scarsa redditività16. La prima zona comprendente la Lombardia e il Piemonte fu assegnata alla Società telefonica interregio­nale piemontese e lombarda (Stipel) costitui­ta dal gruppo Sip-Italgas di Ponti e Panzara- sa notoriamente legato alla Banca commer­ciale: nel consiglio di amministrazione, oltre ai nomi di Benni, Agnelli e Pirelli, figurava­no Toeplitz, Conti, Fenoglio e Semenza. La seconda zona, che aggregava le province ve­nete, il Trentino, l’Alto Adige e il territorio di Trieste, fu acquistata dalla Società anoni­ma telefonica delle Venezie (Telve) finanzia­ta dall’Istituto federale per il risorgimento delle Venezie, un ente morale istituito nel 1919 e amministrato dai senatori Chersich, Indri, Pitacco e dai deputati Miari e Capitani De Arzago sotto la presidenza di Max Ravà. L’Italia centrale, che nel primitivo progetto Di Cesarò era stata considerata come zona unica, fu invece suddivisa in due parti lungo la dorsale appenninica per soddisfare le ri­chieste delle minori società concessionarie consorziate. Le regioni Emilia Romagna, Marche, Umbria, e Abruzzo-Molise furono raggruppate in una terza zona concessa alla Telefonica italiana medio oriente (Timo) na­

ta dalla ristrutturazione della Società adriati- ca telefoni che i marchesi Luigi Solari e Adauto Diotallevi avevano fondato sin dal 1914 con il sostegno del Credito romagnolo; Liguria Toscana Lazio e Sardegna come quarta zona vennero affidate alla Telefonica Tirrena (Teti), che faceva capo a società elet­triche come la Valdarno e la Ligure toscana amministrate da Luigi Orlando e dal conte Carlo Cicogna e praticamente sotto il pieno controllo del Credito italiano. Tutta l’Italia meridionale e la Sicilia furono infine acquisi­te da una Società esercizi telefonici (Set), il cui capitale sociale risultò sottoscritto per la parte italiana dal Credito italiano dal Banco di Sicilia e dal gruppo laniero biellese Sella- Schneider, mentre la quota riservata agli stranieri fu versata dalla Hambro’s Bank di Londra per conto del pool industriale svede­se Erickson: oltre ai siciliani Orso Mario Corbino e Giuseppe Dell’Oro (dirigente del Banco di Sicilia) nel consiglio di amministra­zione di questa società la grande proprietà terriera meridionale era rappresentata dal principe-deputato Giuseppe Lanza di Trabia e dal marchese Aslan Granafei di Serrano­va76 77. Le cinque società concessionarie ebbero imposto dal capitolato l’obbligo di preferire i materiali prodotti dall’industria nazionale, e per questo motivo strinsero accordi con le due maggiori fabbriche di apparecchi telefo­nici esistenti in Italia, la Siti di Milano e la Fatme di Roma. Se per la Siti di Giuseppe Doglio si è già sottolineata la presenza di ca­pitale belga, molto più complessa appare la situazione della Fabbrica apparati telefonici

76 “ L a po lpa se la presero i privati e l’osso restò allo S ta to ” avrebbe com m entato tre n t’anni dopo E rnesto Rossi: cfr. il suo P adroni de l vapore e fa sc ism o , Bari, Laterza, 1955, pp. 62-63. Per il funzionam ento dell’A zienda au to n o m a dello S ta to per i servizi telefonici istitu ita con Rd 14 giugno 1925 n. 185 e successive m odificazioni cfr. S alvatore M a- rasà L e aziende au tonom e deilo S ta to , R om a, Ingred, 1963, pp. 67-68. Q ualche accenno anche in Sabino Cassese, P artecipazioni pubb liche ed en ti d i gestione, M ilano, Edizioni di C om unità , 1962, pp. 160-161. Vedi pure Cesare C iano , S ta to ed econom ia in Italia f r a le due guerre m ondiali, R om a, Pacini, 1975, p. 75.77 Le convenzioni con le cinque società concessionarie si possono leggere sulla “G azzetta U fficiale del R egno” , 1° m aggio 1925, n . 108. Le notizie sulla com posizione del capitale azionario sono ricavate da L e nuove società te lefon i­che, “ L a società per az ion i” , 1-15 m arzo 1925, n. 5, pp. 76-77 e da C red ito italiano, Società p e r azioni. N o tiz ie sta ti­stiche, 1925, c it., passim .

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e materiale elettrico (Fatme), costituita nel 1919 da Ponti e Panzarasa, dai lanieri biellesi Schneider e Rivetti e da alcuni capitalisti stranieri collegati alle industrie elettrotecni­che tedesche; la Fatme entrò direttamente nella combinazione internazionale della so­cietà aggiudicataria della quinta zona con l’impegno di aprire uno stabilimento a Na­poli78.

L’organizzazione tipicamente ‘a catena’ di queste società e la larga partecipazione dei capitali esteri interessati alle forniture di ma­teriale telefonico dimostrano il sostanziale fallimento del governo fascista che non riuscì a evitare né la struttura monopolistica del settore né il condizionamento dell’industria straniera. Quello che Ernesto Rossi arguta­mente definirà lo ‘spezzatino telefonico’ sin dall’inizio appare come una matassa inestri­cabile di interessi multinazionali dettati dalla schiacciante superiorità tecnologica america­na e tedesca. La riorganizzazione del sistema creditizio imposto dalla crisi degli anni trenta con il conseguente rilevamento da parte del- l’Iri delle partecipazioni industriali detenute dalle banche miste avrebbe confermato fra l’altro quanto inadeguato fosse stato il fra­zionamento dei servizi telefonici non soltan­to sotto il profilo tecnico ma soprattutto in ordine ai velleitari propositi antimonopolisti­ci del regime fascista. La Società idroelettri­ca piemontese (Sip), che già controllava la

Stipel, nel 1926 aveva potuto utilizzare il pre­stito americano garantito dall’Istituto di cre­dito per le imprese di pubblica utilità (Icipu) e tecnici statunitensi erano giunti a Torino per collaborare alla strutturazione verticale della holding creata da Ponti e Panzarasa: un successivo aumento del capitale sociale e l’emissione di un prestito obbligazionario di dieci milioni di dollari consentirono alla Sip di allargare la propria presenza nel campo delle telecomunicazioni mediante il controllo delle società Telve e Timo, le quali furono in­corporate insieme alla Stipel nella Società in­dustrie elettrotelefoniche (Siet). L’ingente sforzo finanziario per conseguire questo obiettivo di concentrazione capitalistica finì per oberare la Sip di una grave situazione de­bitoria a breve termine nei confronti della Banca commerciale, finché dopo una fase transitoria gestita dalla Sofindit, nell’autun­no del 1933 l’Iri dovette procedere al salva­taggio della Sip, le cui partecipazioni nel set­tore telefonico furono scorporate per dare vita alla finanziaria Stet79 80.

L’“irizzazione” della Sip non attenuò co­munque la prevalenza della tecnologia e del capitale americano nell’industria telefonica italiana. Già nel 1928 la Banca commerciale aveva deciso di alleggerire il portafoglio ce­dendo una notevole quantità di titoli “elettri­ci” (fra cui una quota di azioni Sip) alla Ita­lian Superpower Corporation, una holding

78 E n tra ro n o a fa r parte del consiglio di am m inistrazione della Set il presidente della Fatm e, ingegner G iulio A jm o- ne, e i consiglieri H arle F riedrich W ingrantz , G o ttfried P litz, C am illo P ra tto e Leone G arbaccio : c fr. C red ito ita lia ­no , Società p er azioni, c it., pp. 891, 2035.79 A driana C astagnoli, L a crisi econom ica degli an n i trenta in Italia: il caso della S IP , “ R ivista di sto ria con tem po­ran ea” , 1976, pp. 321-346. Vedi pure E rnesto C ianci, N ascita dello S ta to im prenditore in Italia, M ilano, M ursia , 1977, pp. 184-187, e G ianni T om olo , Crisi econom ica e sm ob ilizzo p ubb lico delle banche m iste (1930-34), in In d u ­stria e banca nella grande crisi 1929-1934, M ilano, E tas libri, 1978, pp. 299, 326-328.80 P er la Ita lian Superpow er C o ., c fr. G iorgio M ori, N u o v i docu m en ti suite origini dello S ta to industriale in Italia, o ra in II capitalism o industriale in Italia , R om a, E dito ri R iuniti, 1977, pp . 260-261. P er i rap p o rti T eti-Itt vedi la p o ­lem ica in tercorsa nel m aggio-giugno 1953 fra il consigliere delegato della T eti, T orch ian i, ed E rnesto Rossi e rip u b ­blicata insieme ad a ltri articoli sul prob lem a telefonico, in E rnesto Rossi, I l m algoverno, B ari, L aterza, 1954, pp. 241-290. P er l ’assorbim ento della Teti e della Set da p a rte dellT ri nel 1957 e per la successiva costituzione della nuova Sip a capitale pubblico nel 1964 cfr. M .V . P osner-S .J. W oolf, L 'im p resa pubblica n e ll’esperienza italiana, T o rino , E inaudi, 1967, pp. 54-55.

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appositamente costituita per trovare sbocchi di finanziamento sul mercato di New York.

Ma l’egemonia americana appare soprat­tutto evidente nella Teti, la cui solida struttu­ra patrimoniale inizialmente sostenuta dal Credito italiano era passata per vie interne al gruppo finanziario Pirelli-La Centrale che negli anni trenta riuscì a concludere un ac­cordo con la International Thelephone and Thelegraph, la potente corporation meglio nota come Itt, a cui fu riservata l’esclusiva delle forniture di materiale telefonico tramite le sue affiliate italiane Sirti e Face80. Quanto alla Set, che fino al 1957 continuerà a eserci­tare le comunicazioni telefoniche dell’Italia meridionale, la sua struttura privatistica a prevalente capitale anglo-svedese sin dal 1927 si aprì alla partecipazione del gruppo fi­nanziario internazionale Pirelli-Itt: nel di­cembre di quell’anno, infatti, si costituì con 85 milioni di capitale la nuova holding Sete- mer (Società Elettrotelefonica meridionale) nel cui consiglio di amministrazione entraro­no, oltre ai rappresentanti della Set, Cenzato

della Sme e Piero Pirelli, mentre il futuro am­ministratore delegato della Teti, Torchiani, diventava consigliere della Set81. Sarebbe toc­cato agli esperti americani dell’Itt presentare nel 1947 al governo De Gasperi un piano per il riassetto del servizio telefonico in cui si di­chiarava esplicitamente che le sei gestioni se­parate costituivano un grave ostacolo allo sviluppo e alla omogeneità degli impianti e che a tal fine occorreva predisporre il passag­gio delle reti a un ente unico, lasciando allo Stato la decisione circa la struttura pubblica o privata dello stesso: per una coincidenza cer­tamente singolare, fra questi esperti funzio­nari dell’Itt figuravano alcuni personaggi co­me l’ammiraglio Stone e il colonnello Poletti, che erano stati fra i protagonisti dello sbarco alleato in Sicilia e della politica dell’Amgot nel 1943-44. Anche per questa via la tecnocra­zia delle multinazionali preparava il terreno per il ‘grande affare’ della ricostruzione eco­nomica dell’Italia nel secondo dopoguerra.

Giuseppe Barone

81 Sulla com posizione del consiglio della Set e della Setem ber vedi Associazione fra le Società italiane per azioni, S o ­cietà italiane p e r azioni. N o tiz ie statistiche, R om a, 1937, pp. 205, 420.

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40 Giuseppe Barone

Tabella 1

Riparto fra i servizi del ministero dei Lavori pubblici, del limite per pagamenti stabilito dall’articolo 4 del Rd 4 maggio 1923 n. 1285

Spesa autorizzata dalla Pagamenti effettuati Pagamenti da effet- Servizi Tabella A annessa al nell’esercizio tuare negli esercizi

Rd 3 maggio 1923 1922-23 1923-24 1927-28

Spese generaliOpere nell’Italia settentrionale Opere nell’Italia centrale Opere nell’Italia meridionale Ferrovie, tramvie ecc.Sovvenzioni, sussidi ecc.Costruzione di strade ferrate Fondo di riserva (tabella A)Somme da ripartire per bisogni imprevisti e Trasporto d’impegni

Totali

221.226.267,38867.300.000, —889.950.000, —

2.185.800.000,—869.800.000, —

1.120.330.898,2250.000.000,—

50.269.292,03117.595.496,09155.051.643,47335.874.994,63124.660.603,74

455.007.764,35

170.956.975,35749.704.501,91734.898.358,53

1.849.925.005,37745.139.396,26

665.323.133,8750.000.000,—

6.204.407.165,60 1.238.459.794,31 4.965.947.371,29

Tabella 2

Stanziamenti autorizzati per il Mezzogiono per gli esercizi 1923-23 /1927-28

In milioni di lire

Opere stradali 835,2Opere idraulico-forestali 104,7Serbatoi e laghi artificiali 39,7Acquedotto pugliese 68,0Acquedotti di Basilicata 461,0Bonifiche 248,3Opere marittime 344,8Danni per alluvioni e frane 156,1Danni per terremoti ed eruzioni vulcaniche 324,0

Totale 2.185,8