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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Dr. Giulio Montalbano Politiche, prassi e culture della sicurezza a confronto: uno studio comparato in ambito europeo e occidentale in genere (Codice AL-R-02)

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Dr. Giulio Montalbano

Politiche, prassi e culture della

sicurezza a confronto: uno studio

comparato in ambito europeo e

occidentale in genere

(Codice AL-R-02)

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Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce,

nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette

di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili

per dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi

che le Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale, si pongono in tema di sicurezza e

difesa.

La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di

svolgere un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza

scientifica interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto

culturale favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle problematiche di difesa e

sicurezza, sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di riferimento.

Più in dettaglio, il Centro:

● effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;

● sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri

ed Amministrazioni Pubbliche;

● forma ricercatori scientifici militari;

● promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;

● pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.

Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze

conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni

il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e

difesa.

Il CeMiSS svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che sono

lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.

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(Codice Al-R-02)

CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Dr. Giulio Montalbano

Politiche, prassi e culture della

sicurezza a confronto: uno studio

comparato in ambito europeo e

occidentale in genere

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Politiche, prassi e culture della sicurezza a confronto:

uno studio comparato in ambito europeo e occidentale in genere

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non

quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali

l’autore stesso appartiene.

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore

Amm. Div. Mario Caruso

Vice Direttore - Capo Dipartimento Relazioni Internazionali

Col. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Marco Francesco D’Asta

Progetto grafico

Massimo Bilotta - Roberto Bagnato

Autore

Giulio Montalbano

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici

Dipartimento Relazioni Internazionali

Palazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779

e-mail [email protected]

Chiusa a dicembre 2016

ISBN 978-88-99468-49-1

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INDICE

Premessa ............................................................................................................................. 6

1. L'Occidente allo specchio: cultura, valori, ordinamenti, tra storia e geopolitica ............... 9

1.1 Ideali e valori ......................................................................................................... 13

1.2 Cambiamenti delle politiche di sicurezza europee nella storia .............................. 17

1.3 Esempi di politiche e discorsi sulla sicurezza ........................................................ 18

1.4 La Germania come caso di studio e modello per una cultura strategica e di

sicurezza dell'UE ................................................................................................... 24

2. Difesa e sicurezza tra sovranismi e integrazione ........................................................... 30

2.1 Legittimità multilaterale ......................................................................................... 32

2.2 Dinamiche della sicurezza europea: i nuovi interessi nazionali ............................. 35

2.3 2.3 Il "Two Level Game": Francia, Regno Unito, Italia e Germania ....................... 37

2.4 2.4 Sviluppi istituzionali europei in materia di difesa ............................................. 43

3. Difesa e sicurezza di fronte alle sfide globali del terzo millennio ................................... 47

3.1 Relazioni tra la politica estera dell'Unione e la Politica di Sicurezza e Difesa

Comune ................................................................................................................ 48

3.2 Verso una maggiore integrazione europea della sicurezza ................................... 52

4. Affinità e difformità lungo lo spazio euroatlantico ........................................................... 65

4.1 Culture della sicurezza transatlantica nell'era post-guerra fredda ......................... 66

4.2 Le sfide emergenti alle culture di sicurezza europee e americana ........................ 68

5. Conclusioni .................................................................................................................... 70

6. Bibliografia ..................................................................................................................... 72

7. NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE ........................................................... 77

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Premessa

La sicurezza è una componente essenziale dell'esistenza umana. Nelle arene politiche

degli stati, dei governi e delle organizzazioni, o nei contesti accademici, la sicurezza è un

concetto inestricabilmente intrecciato con il potere, di conseguenza profondamente

politicizzato e fonte di grandi disaccordi. Nei contesti politici espliciti, l'idea di sicurezza

implica un obbiettivo - ciò che dovrebbe essere reso sicuro – le minacce potenziali o

correnti ad esso e le strategie per mitigare il rischio o per annullare le minacce. Le diverse

scelte per risolvere le suddette questioni, in situazioni particolari, implicano decisioni

politiche che derivano dalle nostre scelte politiche fondamentali e dalle nostre teorie.

Queste idee e queste teorie, implicitamente o esplicitamente, andranno a formare le

priorità, le minacce ed i rischi da essere bilanciati e, infine, le strategie da perseguire.

La nozione di sicurezza ingloba anche il concetto nemici/avversari, che sono la fonte di

emanazione delle minacce/rischi, così come definiti in un determinato tempo storico.

Nell’idea di sicurezza esiste un vago stato d‘indeterminatezza tra realtà e percezioni, che

ne rende arduo il discernimento e spesso è causa di decisioni politico-strategiche

profondamente errate.

La fortissima spinta a ridefinire in modo più consono alla realtà ed alle sfide attuali quel

modello "Westfaliano", giunto ormai quasi al termine del suo percorso durato più di

trecento anni, sembra essere una condizione ineluttabile che investe ogni ambito, dai

soggetti alle regole, che rimodella e ridefinisce gli Stati e gli uomini. In seguito alle sbornie

utopistiche successive alla caduta del muro di Berlino e alla "Fine della Storia", il concetto

di avversario/nemico e rischio/minaccia si sono rigenerati, dominando la scena

pressappoco in uguale misura. Finita la guerra fredda, la sicurezza diveniva

completamente asimmetrica, poiché asimmetrico è il rischio e asimmetrico è il nemico, che

solo raramente assume la forma rassicurante dello Stato.

Se vi è un'inedita insicurezza allora, anche la ricerca sulla sicurezza non può che seguire

direzioni inesplorate; seguendo paradigmi e strumenti datati, operando al contempo per

una loro radicale trasformazione. Al giorno d'oggi gli strumenti maggiormente efficaci in

Europa, ma per questo non ulteriormente perfettibili, sono due organizzazioni

internazionali, l'Unione Europea e la Nato che comunque, in quanto a risposta e

formazione del consenso, sembrano essere meno efficaci del passato.

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In seguito all'11settembre, posti di fronte alla necessità di dover scegliere fra una gamma

di possibili reazioni, gli USA scartarono a priori il ricorso alla Nato per una serie di remore

e paure relative alle lungaggini delle decisioni adottate per "comitati", come già era

avvenuto durante il conflitto in Kosovo. Sul piano militare si configurava una tendenza che

avrebbe ridotto il sodalizio a una mera fonte di strumenti, uomini e know-how, solo ogni

qualvolta apparisse necessario. Lo "Strategic Concept" del 1999, indicava all'art. 24 come

"gli interessi della sicurezza dell'Alleanza possano essere interessati da altri rischi di più

ampia natura, compresi gli atti di terrorismo e sabotaggio, il crimine organizzato e

l'interruzione dei flussi di rifornimento di risorse vitali". La mancata identificazione di un

avversario determinato - in base al paragrafo 23 – e la definizione però degli oggetti della

difesa, ovvero gli "interessi euroatlantici" ovunque essi fossero sotto minaccia, non poneva

limiti geografici all'azione dell'Alleanza. L'ampio ventaglio di minacce avrebbe compreso,

come già episodi tristemente noti hanno confermato, singoli individui (pronti ad attaccare

col terrorismo la società stessa nella quale risiedono), sette, reti o gruppi fanatizzati,

organizzazioni terroristiche nazionali e internazionali (che implicavano nette scelte

politiche, che avrebbero potuto creare spaccature e divergenze in seno all'Alleanza) e,

infine, Stati falliti o semifalliti. Le nuove paventate tipologie di offesa eliminavano in un sol

colpo la distinzione tra obiettivi non militari e militari, fra combattenti e civili, vanificando

buona parte delle regole dello ius in bello. In tempi più recenti la Nato ha tenuto in

considerazione questi punti, ma il più delle volte è stato asserito il primato della politica;

nel momento in cui vi fu la decisione americana di attaccare l'Iraq, emersero ostacoli e

resistenze insuperabili da parte francese e tedesca che indussero Donald Rumsfeld a

parlare di vecchia e nuova Europa, ma che, nonostante tutto, non tranciarono il legame

transatlantico, né fecero sì che l'organizzazione si paralizzasse dal punto di vista

operativo. Appunto, mentre la Francia venne esclusa dal processo decisionale con un

escamotage, altri stati membri come la Polonia, poterono intervenire in modo integrato in

virtù di accordi presi ufficiosamente a Bruxelles e ricevere in concessione assets e

capabilities di cui da soli non avrebbero potuto disporre.

Nei primi anni duemila, l'alleanza, libera da impegni rilevanti ad est, poteva impegnarsi

nell'arco di crisi a Sud, trascurato fino ad allora. Chiave di volta delle azioni dell'Alleanza

Atlantica verso il sud rimaneva il "Dialogo Mediterraneo", iniziativa vacua e foriera di

ulteriore risentimento da parte di alcuni paesi arabi.

Nel ventunesimo secolo, una sempre più stretta e integrata cooperazione in materia di

sicurezza e difesa, appare essere indispensabile, specie tra le varie capitali del continente

europeo.

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L'Unione Europea da parte sua, specie in tempi di crisi più o meno gravi, è accusata di

agire come un mastodontico gigante burocratico e, sebbene il pericolo e l'urgenza

richiedano celerità di decisione, essa ostinatamente agisce con una lentezza che, prima di

tutto, è strutturale. Quando si trattano problematiche come quelle relative alla sicurezza,

che investono allo stesso tempo ambiti nazionali, sovranazionali ed internazionali, al di là

di ogni riferimento spaziale netto e ben definito, la difficoltà sta proprio nell'accettare e

assimilare le limitazioni di sovranità che possono derivare dalla necessità di

coordinamento delle linee di azione nazionale, da integrare e armonizzare per darvi un

senso d'azione comune.

La velocità di cambiamento e le tensioni interne alle strutture euroatlantiche spesso

portano ad un elevato dispendio di risorse nella ricerca di soluzioni di compromesso.

L'allineamento su una linea totalmente condivisa sarebbe la visione e la soluzione ideale e

utopica al problema, ma sino a quando per alcuni Paesi, di fronte a problemi asimmetrici,

quella militare sarà tra le migliori soluzioni possibili, mentre per altri sarà necessaria

soltanto una più decisa e coordinata politica di sicurezza, trovare una linea di condotta

uniforme è pura chimera. Si tratterà ad ogni modo di percezioni più che di realtà ma le

percezioni hanno spesso fatto la storia molto più della realtà stessa.

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1. L'Occidente allo specchio: cultura, valori, ordinamenti, tra storia e

geopolitica

All'indomani della fine della seconda guerra mondiale e del lancio delle bombe atomiche

sul Giappone, la percezione dell'offensività delle 175 divisioni dell'Armata Rossa in Europa

e il pericolo di un revanscismo tedesco si aggiravano come uno spettro per il continente,

mentre sia la Francia e sia il Regno Unito si avviavano ad un lungo e doloroso ritiro verso i

propri confini, invitando gli Stati Uniti a riempire il vuoto lasciato. Dopo la guerra di Corea,

dove il confronto era stato realmente caldo e feroce, in Europa si assisteva a interminabili

dibattiti sugli sforzi americani di riarmare la Germania, appena dieci anni dopo che la

Wehrmacht aveva marciato su Parigi. La questione tedesca conduceva così ad un nuovo

esperimento d'integrazione europea, la CED (Comunità europea di difesa); la soluzione da

adottare era drastica: per assumere le forze tedesche in un esercito europeo composto da

gruppi multinazionali, bisognava inglobare le forze nazionali a livello continentale.

Poichè Parigi non avrebbe mai accettato, seppur avesse proposto l'idea tramite il primo

ministro Pleven; l'Assemblea Generale, tramite un espediente procedurale, rigettò il

trattato il 30 agosto 1954, considerando quel tipo di soluzione peggiore del problema

stesso che voleva affrontare. Nell'ottobre '54, venne quindi presentata una nuova

architettura di sicurezza; non solo la Germania occidentale veniva inclusa nella NATO, ma

il trattato di Bruxelles del 1948, emendato per includere Bonn e Roma, diveniva Unione

Europea Occidentale (UEO)1.

Argomentare sulle credenze e i valori sottostanti le realtà nazionali che si trovano inserite

nel contesto regionale europeo e transatlantico, significa addentrarsi nel regno della

cultura, spesso collidente con una interpretazione realistica e strutturale degli interessi

nazionali. Credi contrastanti circa la natura delle minacce o la moralità della guerra hanno

creato culture divergenti della sicurezza lungo lo spazio euratlantico.

1 Cfr. Julian Lindley-French, A Chronology of European security & defence. 1945-2007. Oxford University Press, 2007. Lentamente ma intensamente Francia e Germania si muovevano verso la definitiva riconciliazione del 22 gennaio del '63 col Trattato di cooperazione e riconciliazione, che avrebbe dato avvio ad un altalenante processo europeo di integrazione politica ed economica.

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Le minacce sono definite in base al contesto culturale nel quale sorgono, in altre parole,

esse sono socialmente costruite; la cultura della sicurezza in tal senso estende l'idea di

Benedict Anderson delle “imagined community”, illuminandoci su come le società

immaginino il loro benessere nel mondo2. Qualche anno fa, Alexander Wendt3

argomentava che gli Stati Uniti e l'Europa vivono in un sistema internazionale kantiano, ma

solo nelle relazioni reciproche. Nelle loro relazioni con regimi e società illiberali, gli Usa

sono maggiormente manichei, il bene ed il male sono scelte lampanti e le guerre possono

spesso essere percepite come necessarie. La sicurezza americana ci informa molto sulla

sua cultura strategica.

Gli americani sono stati e continuano ad essere pronti a combattere per difendere la loro

"American way of life”, specialmente contro mali percepiti come tali nel mondo esterno e

che potrebbero minacciarli. Questo amplifica la necessità di una elevata prontezza e

sicurezza militare per colpire all'estero ciò che viene considerata una minaccia alla propria

sicurezza nazionale, presuntuosamente asserendo il sostegno della benedizione divina.

Le minacce esistenziali alla nazione sono imbevute dal concetto di male e rivelano le

intenzioni malefiche delle forze oscure ("Asse del male") o di barbari selvaggi – retorica

che discende dallo sterminio degli indiani - che minacciano i valori cari agli americani:

libertà, democrazia e "American way of life”4. Da gran parte degli europei, questa

inclinazione a creare dicotomie bene/male è interpretata come base fallace e irrazionale

per una democrazia matura.

L'assunto che la minaccia sia sempre esterna e che le guerre saranno combattute

potenzialmente ovunque è suffragato dal fatto che gli Stati Uniti non hanno mai avuto

un'agenzia di sicurezza nazionale, almeno fino agli attacchi dell'11 settembre. Le guerre

non sono mai state combattute sul suolo americano; la cosiddetta "American way of war"5

richiede un numero imponenente di forze armate, che frantuma gli avversari su campi di

battaglia all'estero. L'inclinazione della strategia nazionale americana ad includere tra gli

obiettivi perseguibili anche il "regime change" può essere riscontrata in abbondanza

attraverso le logiche strategiche di Washington nella storia.

2 Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflecting on The Spread of Nationalism, 2nd ed. (London: Verso, 2006). Tr.it., Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 2009.

3 Alexander Wendt, Social Theory of International Politics, Cambridge: Cambridge University Press, 1999.

4 Seymour Martin Lipset osserva: “To endorse a war and call on people to kill others and die for the country, Americans must define their role in a conflict as being on God’s side against Satan—for morality, against evil.” In Seymour Martin Lipset, American Exceptionalism: A Double-Edged Sword , New York: W. W. Norton, 1997, p. 20.

5 Russell Weigley, The American Way of War: A History of United States Military Strategy and Policy, Bloomington, Indiana University Press, 1973, p. XXII.

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È l'eccezionalismo americano, la spiegazione alla radice. Molti osservatori europei e critici

ritengono che la religiosità americana sia negativa, minacciosa e spesso irrazionale e

renda i comportamenti statunitensi potenzialmente imprevedibili6. L'America rimane uno

stato moderno ma non secolare, il rapporto con il sacro e i richiami alla provvidenza

seguono un filo rosso ininterrotto, da Jefferson ad Obama7. Laddove gli europei rigettano

sonoramente la connessione tra credo in Dio, azione morale e giudizio, la maggior parte

degli americani ha sempre creduto che la vera azione morale possa essere intrapresa ed

informata dal credo in Dio.

L'Europa rimane ancora una collezione di stati, profondamente imbevuti della propria

cultura strategica e securitaria, ma i contorni di una generale cultura europea della

sicurezza sono diventati più chiari e delineati solo dopo lo scoppio delle guerre balcaniche,

negli anni '90.

I valori fondanti la sicurezza europea contrastano con quelli degli Stati Uniti per tre ordini di

ragioni ed influenze: le esperienze profondamente differenti con la guerra, l'impulso

integrazionistico, a livello d'elite, successivo alla Seconda guerra mondiale - che pur gli

Stati Uniti hanno incentivato e finanziato – che ha scoraggiato le narrative nazionali in

favore di un'identità post-nazionale, ed infine il collasso della religiosità in Europa

successiva agli anni '60. Molti europei percepiscono negativamente questa religiosità

sussunta al livello della politica; lanciano anatemi contro la pena di morte e la libertà di

portare armi facilmente. L'Europa è stata radicalmente influenzata dalle idee che Kant

aveva esposto nella sua Pace Perpetua, ovvero che nessuno stato avrebbe cercato il

dominio sugli altri; gli eserciti permanenti sarebbero stati aboliti; gli stati repubblicani

avrebbero dovuto creare una sorta di alleanza, una federazione di liberi stati. Da questa

tipologia di relazioni interstatali, sarebbe sorto il diritto delle nazioni, la promozione

dell'ospitalità tra popoli e stati del mondo, dove agli stranieri sarebbe stato accordato il

rispetto e dove l'incoraggiamento alla creazione di una società cosmopolita sarebbe

divenuto una priorità. Il concetto kantiano di "diritto cosmopolita" suggeriva che gli individui

avessero diritti non soltanto come cittadini degli stati-nazione, ma per prima cosa come

cittadini della terra. La sua concezione di cosmopolitismo è stata fondativa dei valori

europei e di moltissime discipline concernenti l'emergenza di una "democrazia

cosmopolita" e "repubblica cosmopolita"8.

6 Cfr. Ulrich Beck, World at Risk , Cambridge, UK, Polity Press, 2007. 7 Cfr. con James W. Ceaser, “The Origins and Character of American Exceptionalism,” American

Political Thought 1, no. 1 (Spring 2012): 3–28. “American political thought has never fully separated religion and politics.”

8 H. S. Reiss, Kant’s Political Writing , Cambridge: Cambridge University Press, 1991.

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Le istituzioni europee hanno provato negli ultimi tempi a ridefinire il posto dell'Unione nel

mondo, le minacce da fronteggiare e i rimedi possibili a queste. Anche se – come si

evincerà nel corso di questo lavoro – non vi è una omogenea cultura strategica europea. si

fonda sul concetto di "security governance" dove i rischi sono valutati secondo una varietà

di metodi, come potrebbe evincersi dai tasks di Petersburg: “In contrast to the massive

visible threat in the cold war, none of the new threats is purely military; nor can any be

tackled with purely military means”9. Le truppe europee sono dispiegabili in situazioni che

includono assistenza umanitaria, Peace-keeping operations, gestione e prevenzione delle

crisi e operazioni di rafforzamento della pace.

I tasks sostengono, inoltre, che lo strumento militare deve essere perseguito soltanto

come ultima risorsa e solo come uno dei pezzi componenti il più ampio e ragionevole

approccio alla sicurezza, che ingloba mezzi economici e politici. Perfino il ruolo delle forze

armate, nei pronunciamenti strategici e governativi rimane poco definito, salvo che per le

missioni di tipo umanitario.

Il cosmopolitismo organico a questa concezione implica preoccupazioni per la sicurezza

umana, per i cittadini del mondo, ed è caratterizzato da una focalizzazione delle politiche

europee sull'assistenza umanitaria. Dalla fine degli anni '90, l'Europa ha contribuito

approssimativamente alla metà dell'assistenza umanitaria nel mondo; la questione

divenne caratterizzante della cultura strategica europea, dove la "security governance"

avrebbe rimpiazzato i tradizionali paradigmi orientati alla difesa, in un mondo dove si

ricercassero amici, non nemici da smantellare10.

Rispetto all'alleato d'oltreoceano, il secolarismo rimane uno dei pilastri della cultura di

sicurezza europea che è a sua volta una sorta di eccezionalismo, un oasi secolare, specie

in un mondo dove la religiosità e la sua influenza sembrano incrementarsi11.

9 European Council, A Secure Europe in a Better World: European Security Strategy (Brussels: European Union, 2003), p. 7, h ttp://www.consilium. europa.eu/uedocs/cmsUpload/78367.pdf. La strategia riaffermava il modello di "security governance" come il distinto approccio europeo alla politica estera e di sicurezza: " Over the last decade, the European Security and Defense Policy, as an integral part of our Common Foreign and Security Policy, has grown in experience and capability, with over 20 missions deployed in response to crises, ranging from post-tsunami peace building in Aceh to protecting refugees in Chad".

Report on the Implementation of the European Security Strategy-Providing Security in a Changing World, (Brussels, 2008), p.2, http://www.consilium. europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressdata/EN/reports/104630.pdf.

10 U.Beck, Un mondo a rischio, Einaudi, Torino, 2003, pp. 65-67. 11 Peter Berger, The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics,

Washington, DC: Ethics and Public Policy Center; Grand Rapids, MI: W. B. Eerdmans Publishing, 1999, pp. 1–18.

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1.1 Ideali e valori

L'importanza delle percezioni nella formazione delle politiche di sicurezza richiede una

"rivalutazione" delle cosiddette variabili "soft": La questione centrale è: perché attori

differenti spesso percepiscano lo stesso problema in modi radicalmente diversi e allo

stesso modo alcune minacce assumano un determinato rilievo rispetto ad altre.

La sicurezza e le percezioni sono guidate dalla teoria: i decisori politici tendono a vedere

quello che si aspettano già di vedere e queste aspettative sono spesso guidate da lezioni

storiche stereotipate, analogie, vecchi e logori copioni che forniscono scorciatoie nel fare

valutazioni sotto lo spettro delle incertezze12. La sicurezza, intesa come sistema o come

struttura coerente ed organizzata, può essere vista come il prodotto di una particolare

ideologia: una forma di cognizione sociale che provvede a creare delle forme che facciano

da filtri, allo scopo di raccogliere informazioni e redigere classificazioni attorno a costrutti di

verità, normalità e conoscenza. La costruzione del significato di sicurezza, come il

comportamento e il linguaggio, risiede sulle fondamenta degli elementi culturali e

ideologici: l'identificazione dei valori da essere resi sicuri e, ceteris paribus, i mezzi da

usare per la difesa, sono direttamente dipendenti dalla loro relativa posizione su una scala

assiologica di priorità che provengono, a loro volta, dalla cultura e dall'identità. L'esistenza

di una determinata cultura politica influenzerà la percezione della sicurezza e la

determinazione degli scopi, dei mezzi, dei modi, in una grande strategia. Il comportamento

delle èlites sarà sempre costituito in parte dalla cultura e le percezioni deriveranno sempre

dalla concreta esperienza storica nazionale. Tuttavia, si dovrebbe rimarcare che gli assunti

culturali – politici o strategici – non determinano in modo assoluto il comportamento e non

c'è alcuna relazione univoca e deterministica tra cultura e strategia; piuttosto la funzione

culturale potrebbe influenzare l'ordine gerarchico di preferenze, se, ad esempio, le

sanzioni economiche potranno essere considerate più efficaci rispetto alle misure militari.

Gli Stati che condividono alti livelli di identificazione di gruppo tenderanno a condividere

culture strategiche che esibiscono caratteristiche di "hard realpolitik". Viceversa, gli Stati

con debole identificazione di gruppo o gli Stati che percepiscono altri Stati con valori

abbastanza omogenei, è più probabile che saranno influenzati culture strategiche

incentrate sull'"idealpolitik"13.

12 R.Jervis, Perception and Misperception in International Politics, Princeton nJ: Princeton University Press, 1976.

13 A. I. Johnston, (1995) Thinking about Strategic Culture. International Security. 19 (4). pp. 32–64.

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In questi tempi di "guerre opzionali", ovvero interventi militari decisi nei consessi di

organizzazioni regionali o internazionali e in cui si può prestare il consenso o meno di

partecipazione, vi è una considerevole pressione da parte di attori domestici e

dell'opinione pubblica. Le politiche di sicurezza subiscono quella che è stata chiamata "de-

securizzazione"14. La sicurezza diventa un'area di policy soggetta alle più disparate

pressioni, anche se rimane di certo il fatto che la sicurezza sia un'area speciale.

La principale dinamica nelle politiche di sicurezza nell'Unione Europea è direttamente

legata alla situazione post-nazionale europea: più opzionale diviene la guerra, più debole

supporto viene raggiunto e di conseguenza il bisogno di negoziare tra livelli domestici e

multilaterali. Più pericolosa è la missione, più contestata sarà. Presi insieme questi due

fattori implicheranno che una guerra opzionale che è pericolosa significherà un supporto

pubblico debolissimo o vacillante. Gli Europei, o perlomeno la maggior parte dell'opinione

pubblica, sembrano aver espunto la guerra come mezzo ottimale di risoluzione delle

controversie internazionali.

L'abbandono dei conflitti territoriali è stato cruciale nel fare dell'UE la prima forma politica

realmente postmoderna: riconfigurando l'identità attraverso il processo di reintegrazione,

gli stati membri hanno via via cominciato ad interiorizzare l'esistenza degli altri membri e

immaginare un'esistenza collettiva europea. Diffondendo le sue norme, l'Unione Europea

ha delineato l'obiettivo di europeizzare le periferie attraverso un attivo processo di

socializzazione delle elites politiche degli stati candidati e attraverso incentivi economici;

da quel momento sembra che la strategia di diffusione sia divenuta l'àncora per riempire di

senso le relazioni europee con il vicinato.

Cionostante, svariati fattori in gioco hanno lavorato e continuano a lavorare contro una

comune difesa europea. Primo, considerati i permanenti e preponderanti contributi

statunitensi alla sicurezza europea generati dalla Nato, la creazione di una difesa europea

potrebbe solo essere meno efficiente ed effettiva se non corrispondente ad ulteriori

investimenti - non semplici da ottenere di fronte alla crisi economica strutturale e alle

politiche di rescaling in tema di difesa. Secondo, una politica comune in tema di sicurezza

e difesa non fa che accentuare le divergenze strategiche e così autoindebolire la stessa

immagine unitaria dell'Europa, specie nelle relazioni con la Russia. La creazione di una

comune politica estera e di sicurezza ha risposto piuttosto alla volontà di creare coesione

e rafforzare l'identità comune e l'autoconsapevolezza collettiva. Lo sviluppo di una politica

di sicurezza comune dovrebbe essere vista in relazione al tentativo europeo di affermare

14 B. Buzan and O.Wæver, Regions and power: The structure of international security. Cambridge: Cambridge University Press, 2003.

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15

la propria identità, inizialmente come attore internazionale e poi attore di sicurezza

globale; ciò dovrebbe essere visto come un riflesso dell'auto-percezione come membri

della medesima comunità di sicurezza15. In una comunità di sicurezza saldamente

combinata e plurale, è probabile che le identità condivise ed un alto grado di fiducia

conducano ad un alto livello di sicurezza collettiva e integrazione militare16. Speranza e

fiducia mal riposta?

Tre esperienze risalenti al periodo della Guerra fredda sono state cruciali nel formare la

cultura della sicurezza in Europa e le sue pratiche17. L'esperienza delle trattative sul

controllo delle armi ha convinto gli europei della necessità e dell'importanza delle

negoziazioni sulla sicurezza: effettivamente ciò ha ridotto il rischio di violenza.

In aggiunta, la creazione di comunità di controllo delle armi ha creato accordi su alcuni

blocchi basici ed essenziali per la costruzione della sicurezza, tanto che, alla fine, il

dialogo è valso tanto quanto il risultato prodotto. Ancora, l'esperienza del processo di

Helsinki e lo sviluppo delle misure di confidence-building hanno rimosso la segretezza

degli stati sugli affari militari, affermando l'effettività e la preferenza per un approccio

cooperativo e mutuo relativo alla sicurezza.

È stata introdotta la sicurezza completa, onnicomprensiva; la dimensione politica ed

umana della sicurezza ha acquisito nuova rilevanza. Last but not least, nutrita

dall'esperienza della guerra in Bosnia e dall'instabilità ai confini europei, l'Europa diede

una nuova lettura della sicurezza "obiettiva", legata a fatti incontestabili, empirici, provabili,

a fonti di minaccia e insicurezza reali e non percepiti, come invece aveva insegnato la

Guerra fredda lungo quei quarantacinque anni.

Ridefinire l'Unione Europea come potenza globale significa riconoscere l'esistenza di un

coacervo di sfide interconnesse e minacce alla sicurezza dell'Unione come spazio

economico, politico e territoriale unificato. Ergersi a potenza e così assumere la credibilità

internazionale come valore, ma anche come interesse, si è tradotto nella combinazione di

un più vasto attivismo nella promozione del multilateralismo e l'identificazione nell'ONU di

un punto di riferimento istituzionale. È stato inoltre creato a Bruxelles un più ampio

apparato istituzionale, capace di fronteggiare le sfide geopolitiche, e nuove istituzioni abili

a trasformare l'Europa in forza di proiezione, tra i quali, HR, EUMS, la Policy Unit (PU), il

15 E. Adler e M. Barnett, Security Communities. Cambridge: Cambridge University Press, 1998, pp. 29–65.

16 Ibidem. 17 K. Krause, Culture and Security. Multilateralism, Arms Control and Security Building. London

and Portland: Frank Cass Publishers, 1999, pp. 23–54.

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16

Joint Situation Centre (JSC), lo Special Representatives (SR), il General Secretariat of the

Council (GSC), e la Committee for Civilian Aspects of Crisis Management (CCACM).

Fu stabilita l'idea che potessero essere adoperati gli strumenti militari, sebbene con

rilevanti caveat ; le operazioni di pace dell'UE cominciarono ad introdurre una componente

militare che vari documenti chiave e il Trattato di Lisbona confermarono. I tasks di

Petersberg rimasero come punto di riferimento essenziale, ma i "Military Headline Goals",

formulati nel corso del tempo, dettero il compito di ricoprire l'intero ciclo dei conflitti dalla

prevenzione al consolidamento della pace, con la possibilità di usare risorse militari.

Sebbene non siano mai stati dispiegati, sono stati creati i Battlegroups dell'Ue che hanno

raggiunto una piena capacità operativa sin dal 2007. In aggiunta, le culture strategiche

nazionali degli stati membri dell'UE, hanno lentamente cominciato a convergere riguardo

alle norme strategiche prevalenti sotto l'influenza di mutevoli percezioni di minacce; la

socializzazione istituzionale; esperienze condivise da missioni congiunte; valutazioni

condivise delle minacce, da parte di alcune comunità epistemiche; socializzazione delle

elites all'interno delle istituzioni comuni; apprendimento dalle crisi altrui ed aumento delle

domande di operazioni esterne all'Unione18. Le divergenze esistenti riflettono l'assunto che

la cultura strategica può essere eterogenea e contestata, poiché essa è sempre sottoposta

a forze interne ed esterne di contestazione e cambiamento. Gli stessi effetti della

socializzazione sono stati trovati nelle culture militari e perfino nell'ethos militare degli stati

membri19. Una delle pietre angolari dell'emergente ethos militare è "Pretend to be warlike

but don’t fight", riflettendo però l'ambigua attitudine e le differenze riguardanti l'uso della

forza tra i paesi europei. Tra di loro vi erano pure divergenze nelle culture strategiche

rispetto alle necessità o meno dell'esistenza di limiti geografici all'impegno della Politica di

Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), un'opportunità che l'intervento dell'UE copra o meno

l'intero arco temporale della crisi o, infine, alla prevalenza di una tipologia di intervento

civile o militare. In positivo vi sono alcuni elementi di convergenza che caratterizzano

l'incipiente cultura strategica europea, ovvero il principio di proiezione delle forze entro un

contesto multilaterale; il principio della legittimazione internazionale e l'implementazione

della titolarità delle forze locali; l'affidamento su approcci flessibili, onnicomprensivi,

dinamici, di lungo periodo e basati su un utilizzo di strumenti multidimensionali integrati

(civili/militari) e per ultimo un ristretto uso dei mezzi militari, dispiegati in base a mandati

limitati nel tempo e nello spazio, con la previsione di una strategia d'uscita.

18 C. O. Meyer, E.Strickmann, Solidifying Constructivism: How Material and Ideational Factors Interact in European Defence. Journal of Common Market Studies. 49 (1), 2011, pp. 61–81.

19 T. Koivula, Towards an EU Military Ethos. European Foreign Affairs Review. 14 (2). 2009, pp. 171–90.

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17

L'Unione Europea ha elaborato delle linee guida strategiche, ha identificato le sue

minacce e sviluppato una capacità di azione e norme condivise sulla legittimità delle

operazioni.

Secondo Kornprobst20, gli stati membri dell'Unione Europea però non concordavano

pienamente sul reale significato di "multilateralismo", soppesando il loro status

internazionale differentemente, avendo un'idea diversa delle "special relations" differenti,

ma anche interpretando in maniera difforme l'adeguatezza dell'uso della forza. Pertanto,

sebbene vi fossero fondate ambizioni verso il contrario, l'Europa aveva fallito la sua

trasformazione da attore regionale ad attore pienamente globale.

1.2 Cambiamenti delle politiche di sicurezza europee nella storia

Lord Ismay, primo segretario generale della NATO, descrisse icasticamente il fine ultimo

dell'alleanza nella celebre asserzione: i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto.

L'Alleanza avrebbe agito da deterrente per un'ipotetica aggressione sovietica - poi

rivelatasi storicamente infondata – impegnava gli Stati Uniti alla difesa dell'Europa e

provvedeva alla rassicurazione, specie dei francesi, che la Germania non sarebbe stata

più una minaccia. In seguito alle lunghe traversie della Guerra Fredda, ove si alternarono

periodi di cooperazione autonoma Est-Ovest (v. CSCE, poi OSCE) a tensioni di varia

natura, si giunse al contesto geopolitico del post-guerra fredda, definito da una più

smaccata unipolarità occidentale; mentre gli Stati Uniti godevano del monopolio strategico

e militare mondiale, Washington ha continuato ad appellarsi ad un più ampio referente

politico-ideologico occidentale. Gli Usa si comportavano come l'"egemone benevolo" in un

tentativo evidente di creare un ordine globale che riflettesse i suoi valori e interessi.

Attraverso gli anni '90, Washington e la NATO hanno continuato a giocare un ruolo

primario nella geopolitica europea.

Il ruolo conduttore nei più significativi sviluppi era palese: dalla riunificazione della

Germania, all'allargamento della NATO all'Europa centrale ed orientale e, anche se in

termini poco soddisfacenti per l'Europa, alla pacificazione dei Balcani occidentali. Gli Stati

Uniti miravano, attraverso i loro sforzi diplomatici e militari, a ricreare un milieu regionale

proprio adesso che non vi era più il contrappeso di Mosca, dopo aver pressato per

decenni per ottenere sviluppi in tal senso.

20 M. Kornprobst. Building Agreements Upon Agreements: The European Union and Grand Strategy. European Journal of International Relations.27 giugno 2014 pp. 1–26.

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18

Infatti, fu la prospettiva di un incontrollato potere americano ad animare largamente un

ulteriore sviluppo chiave del dopo guerra fredda: l'emergere di alcuni paradigmi

revisionistici all'interno dell'Occidente stesso.

I cambiamenti nell'ambito securitario europeo hanno elevato la rilevanza e la significatività

delle questioni non militari e di "soft security", dal crimine organizzato al terrorismo,

all'immigrazione e all'instabilità sociale; su queste problematiche le istituzioni europee, le

concertazioni ed i meccanismi di cooperazione sono diventati crescenti.

La divergenza tra Stati Uniti ed Europa su punti focali della sicurezza è sintomatica di

divari più ampi, d'interessi e di valori. Il divario sta alimentando i tentativi di rafforzare la

collaborazione europea in tema di sicurezza. Una volta acceleratosi lo sviluppo

istituzionale in tema di sicurezza, l'Unione Europea ha messo in atto una serie di azioni

concrete su questioni securitarie, inclusi gli impegni con i Paesi vicini ed il dispiegamento

di missioni militari oltre i confini degli stati membri. La cooperazione sulla sicurezza intra-

europea e attraverso l'Atlantico è sempre più connotata dalla formazione di una coalizione

di stati operanti sotto la bandiera della NATO o sotto quella dell'Unione Europea.

Dopo decenni d‘integrazione tra i paesi europei, l'area di mercato comune,

l'interdipendenza economica, l'interpenetrazione sociale e le interazioni strategiche hanno

forgiato un'unica comunità di sicurezza – un gruppo di stati la cui sicurezza è talmente

interconnessa che le sicurezze nazionali non possono essere realisticamente considerate

come monadi isolate. L'Unione si è dotata di un esplicito articolo di difesa collettiva, (art.

42 Trattato di Lisbona) che chiaramente offre ai suoi membri sicurezza collettiva, a

prescindere dagli impegni contratti con la NATO.

1.3 Esempi di politiche e discorsi sulla sicurezza

Nella grande strategia degli Stati Uniti, basata sul "National Security Strategy" (NSS), del

200221, obiettivi e missioni sono distinti sulla base di interessi e valori vitali: nonostante il

focus sull'uso della forza, l'agenda è vasta e non include soltanto la difesa e la protezione

del territorio nazionale, ma anche indefiniti interessi economici, democratici ed energetici,

che spingono il Paese ad agire ed intervenire su tutto il globo per valori, da essi

considerati universali.

21http://www.state.gov/documents/organization/63562.pdf

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19

Il Canada è uno dei maggiori stati promotori del concetto di sicurezza umana. Già nel

White Paper del 199422, si aggiungevano – oltre ai tradizionali concetti di difesa - compiti

quali il supporto alla rule of law e l'ordine, la protezione dell'industria ittica, l'interdizione

delle droghe, la protezione ambientale, il sostegno umanitario, il controterrorismo, il

supporto alla sicurezza multilaterale, il peacekeeping e alla costruzione di fiducia nei paesi

post-conflitto e le evacuazioni di emergenza. Il Canada è ancora oggi particolarmente

attivo nelle operazioni di peacekeeping, dai Balcani al Ruanda, all'Afghanistan.

Il Regno Unito, nel 1998 pubblicava la Strategic Defense review (SDR)23 indicando la

sicurezza, la prosperità e la qualità della vita come interessi nazionali, mentre nuove o

tradizionali minacce venivano menzionate: proliferazioni di armi, danni ambientali,

terrorismo e traffici internazionali di armi e droga, attacchi tecnologici, tensioni etniche,

collasso delle strutture statuali. I compiti per le forze armate, potevano includere la

sicurezza in tempi di pace anche dei territori d'oltremare, diplomazia, supporto ad interessi

più ampi del regno, supporto alla pace nei contesti di operazioni umanitarie, conflitti

regionali fuori e dentro l'area Nato e difesa della Nato stessa. Le capacità e competenze

convenzionali e nucleari, sono esplicitamente conteggiate; da evidenziare che tra i 28

tasks in lista, 21 sono non bellici.

La nuova Strategic Security Defense Review (SDSR 2015)24 offre un'ampia sintesi tra

strategia, sicurezza e difesa. Essa sembra il tentativo di risanare le finanze pubbliche,

pareggiando il bilancio possibilmente nel giro di un quinquennio. I cambiamenti strategici

non sono novità: terrorismo, migrazione, urbanizzazione, aumenti potenziale dei disordini

sociali, cambiamento climatico ed impatto delle tecnologie sull'occupazione.

Questa strategia tuttavia non riesce ad inquadrare degli obiettivi chiaramente delineati sui

quali impegnare le pur sempre limitate risorse. Il futuro del dispositivo militare britannico

dovrebbe essere quello di una forza dalle caratteristiche altamente qualitative, intorno alla

quale combinare rapidamente una forza in grado d'intervenire in piena autonomia sullo

spettro intero delle operazioni. Le sue forze armate non potranno che essere, in tempi

d'austerità, una mera deterrenza strategica numericamente limitata, che si specializza in

settori quali l'antiterrorismo di alto livello e dove la marina solo formalmente e

limitatamente, potrebbe proiettare la sua potenza verso le principali vie di comunicazioni

marittime.

22 http://www.civcap.info/fileadmin/user_upload/Canada/White_Paper_on_Defence_01. 23 http://fas.org/nuke/guide/uk/doctrine/sdr98/. 24 https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/478933/ 52309_Cm_9161_NSS_SD_Review_web_only.pdf

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20

Per ciò che concerne le operazioni, gli inglesi contribuiscono pesantemente ad operazioni

di peacekeeping o operazioni umanitarie condotte autonomamente in Sierra Leone, in

aggiunta alle più note partecipazioni nella guerra in Iraq ed Afghanistan.

Come verrà visto più in dettaglio nel paragrafo successivo, la Germania ritiene che sia

possibile avere stabilità solo dove esistono democrazia e rispetto per i diritti umani, welfare

e giustizia sociale e dove infine gli stati vicini cooperino in pace reciprocamente.

Nonostante la constatazione della necessità di affidarsi a mezzi civili, è stato più volte

riconosciuto che non è possibile rinunciare totalmente alla forza militare. La Germania è

stata difatti coinvolta in operazioni di peace-enforcement e peace-keeping in Bosnia,

Kosovo ed Afghanistan.

Il primo fine della strategia securitaria francese è quello di preservare gli interessi vitali

della Francia contro ogni forma di aggressione, inclusa la garanzia dell'integrità del

territorio nazionale, la libertà dei cittadini, la sovranità, mantenendo la credibilità della

deterrenza attraverso un utilizzo combinato di mezzi convenzionali e nucleari. Le minacce

sono viste come diversificate e il terrorismo è specificamente menzionato. Il secondo

scopo è quello di cooperare per la sicurezza dello spazio europeo e mediterraneo in una

prospettiva di una politica di difesa e sicurezza comune, per prevenire l'emergenza di

minacce alla stabilità del continente, del Medio Oriente e del Mediterraneo, contribuendo

alla prevenzione dei conflitti e la loro eventuale risoluzione in particolare attraverso azioni

militari (v. Libia 2011).

Da ultimo, il terzo obiettivo è contribuire al rispetto del diritto internazionale, assicurando la

partecipazione della Francia negli interventi umanitari e nelle operazioni di peacekeeping.

Fondamentali vengono rilevati il rispetto della sovranità, la protezione dei cittadini, degli

interessi e delle risorse e il servizio di rafforzamento della protezione pubblica del territorio

francese. È interessante notare come questo discorso sia particolarmente tradizionalista e

considerevolmente conservatore rispetto a quello britannico o americano. La Francia ha

condotto la missione europea in Congo e fino al 2007, quella della Nazioni Unite in Libano

(UNIFIL), che è stata guidata dal generale italiano Luciano Portolano dal 24 luglio 2014 al

19 luglio 2016 ed ora è sotto il comando del Generale Irlandese Michael Beary.

Il Libro bianco italiano della difesa, del 2002, discuteva il ruolo delle forze armate nel

perseguimento di finalità e responsabilità internazionali per il conseguimento globale della

libertà, del rispetto del diritto e della giustizia in un mondo profondamente trasformato

dopo l'11 settembre. I rischi e le minacce richiedono una speciale attenzione e l'utilizzo

delle forze armate non soltanto per la difesa nazionale e l'integrità politica, ma pure per

valori di civilizzazione, welfare e sviluppo economico e sociale.

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21

Vi è un esplicito riferimento ad un concetto più ampio di sicurezza che non è limitato alla

solita difesa della sovranità nazionale, ma un qualcosa che contiene anche l'aspirazione al

mantenimento della stabilità internazionale, la prevenzione di vecchi e nuovi rischi, così

come l'opposizione alle violazioni della pace e del diritto internazionale.

La Spagna nella revisione strategica del 200325, espressamente rinunciava all'uso della

forza come mezzo per la risoluzione delle controversie politiche internazionali, dando

priorità alla diplomazia rispetto alle soluzioni militari ed esprimeva la sua ferma volontà di

difendere i suoi interessi legittimi ovunque essi risiedessero. La prevenzione dei conflitti ed

un contributo attivo al mantenimento della pace attraverso la capacità di gestione delle

crisi sono viste come priorità e finalità ultime delle forze armate. La diplomazia è

individuata come lo strumento precipuo per incoraggiare e stimolare la fiducia reciproca tra

le nazioni, insieme al dialogo e alla mutua conoscenza, alle misure di controllo delle armi e

alla mutua trasparenza delle attività militari.

Con riguardo ai livelli di ambizione nella sicurezza internazionale, lo status di neutralità o

non allineamento, nel senso di non essere membro di alleanze militari, quali la NATO, non

implica assoluta indifferenza. Alcuni Paesi, formalmente neutrali come l'Irlanda e la Svezia,

hanno mostrato livelli rimarchevoli di attività internazionali.

Non tutte le nazioni europee hanno rimodellato i contesti legali interni alle realtà

contemporanee e alle crescenti domande in termini di sicurezza, che includono un certo

grado di flessibilità e potenzialmente, rapida reazione.

La distinzione tra atlantisti ed europeisti, che tradizionalmente relegava il Regno Unito e la

Francia agli opposti estremi dello spettro ha inficiato l'unità, ma ha stimolato un ampio

dibattito nel contesto della incipiente Common Security and Defence Policy dell'UE26.

Focalizzarsi sulla strategia e quindi sulle culture strategiche e le questioni relative al

dispiegarsi delle politiche di sicurezza e difesa, incluso il mantenimento, l'utilizzo ed il

controllo delle proprie forze armate, conduce ad una distinzione tra tre tipologie di Paesi:

quelli la cui sicurezza è guidata dal tentativo di asserire la propria presenza nel sistema

internazionale; nazioni le cui culture strategiche conducono ad ampi sforzi per mostrare

l'attitudine verso la formazione di un ambiente di sicurezza multilaterale, attraverso

negoziazioni internazionali, e da ultimo Paesi che sfruttano la loro politica di sicurezza e

difesa per proiettare la propria potenza statuale.

25 http://www.defensa.gob.es/Galerias/defensadocs/revision-estrategica. 26 V.anche B.Giegerich: European Security and Strategic Culture. National Responses to the

EU’s Security and Defence Policy. Baden-Baden: Nomos, 2006.

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22

Più in dettaglio, nel primo caso, un numero di paesi s'impegnano nelle organizzazioni

internazionali e partecipano alle missioni militari internazionali, sfruttando questo impegno

per mettere in mostra così facendo la propria statualità. Spesso si tratta di piccoli stati con

risorse limitate, in termini di territorio, popolazione e mezzi finanziari.

Il loro fine primario è quello di dimostrare che possono assumersi delle responsabilità

internazionali ed essere riconosciuti come membri della comunità internazionale,

meritevoli di una parità, che vada al di là del riconoscimento giuridico. Il ruolo chiave delle

forze armate di queste nazioni è quello di supportare queste manifestazioni di statualità; le

élites percepiscono il bisogno di mettere in risalto il fatto che la loro nazione è capace di

giocare un ruolo di sicurezza e difesa costruttiva. In pratica, alcune nazioni sono riluttanti

all'uso della forza militare e mostrano una spiccata preferenza per i mezzi civili di gestione

delle crisi e prevenzione dei conflitti, che sembra essere un riflesso della loro inabilità

strutturale a provvedere alla propria difesa autonomamente. Questi Paesi tendono a

canalizzare il loro impegno sempre attraverso l'UE e la NATO, in parte poiché quest'ultima,

sebbene la formale eguaglianza, è percepita come un'alleanza dominata dall'influenza e

dalle risorse degli Stati Uniti, unico primus inter pares, nell'organizzazione.

La seconda tipologia di Paesi, conduce le politiche di sicurezza e difesa nelle forme

propriamente multilaterali attraverso alleanze ed organizzazioni. Essi sono molto meno

preoccupati circa gli effetti diretti e primari dei loro impegni, come eventuali schieramenti,

ma mirano ad influenzare maggiormente politiche multilaterali al fine di generare un senso

condiviso di obbligo e solidarietà. Spesso ciò potrebbe portare a scelte politiche

all'apparenza ciniche, come ad esempio quando la partecipazione alle operazioni in

Afghanistan è usata per giustificare il non impegno operativo in Iraq. Due sottocategorie

potrebbero ancora essere rintracciate: svariate nazioni, inclusi i paesi baltici ed altre

nazioni centro-orientali europee sono maggiormente interessate alla difesa collettiva; il

loro impegno nella NATO è orientato dal desiderio di generare delle garanzie di sicurezza

affidabili, per se stessi. Ciò va di pari passo con gli intensi sforzi per mantenere buone

relazioni bilaterali con gli Stati Uniti. Questo serve da fondamento logico per giustificare

eventuali dispiegamenti militari in teatri come l'Afghanistan e l'Iraq in assenza di altri

rilevanti interessi nazionali. Il loro zelante impegno mira a costruire crediti nelle aspettative

che i partner dovrano poi contraccambiare. Una residuale, ma profondamente sentita

preoccupazione delle minacce militari convenzionali – spesso legata alla Russia – li

conduce ad agitare e a porre enfasi sulle funzioni classiche delle alleanze, piuttosto che

orientarsi verso nuove e più concrete sfide alla sicurezza.

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23

Le azioni di altri paesi come Germania, Spagna ed Italia mirano anche a generare effetti

secondari, ma di tipo differente. Essi sono interessati ad essere percepiti come partner

affidabili nella NATO e nell'UE, su cui si possa fare affidamento anche quando impegni

presi dall'organizzazione, non riguardino distinti interessi nazionali, nel contesto di

particolari operazioni.

In compenso, questi paesi si aspettano di essere capaci d'influenzare le politiche di questi

consessi multinazionali e il loro impegno è un prezzo volontariamente pagato per un posto

al tavolo principale. Molti di loro continuano ad essere nel mezzo di tentativi protratti di

riforma della sicurezza e della difesa, cominciati all'indomani della fine della Guerra fredda.

Molte riforme sono state inconcludenti, poiché è spesso mancata una convincente ragione

nazionale all'integrazione, che servisse ad esempio a giustificare particolari ruoli per le

forze armate. A quale scopo servano in ultima istanza le forze armate è spesso vago sia

per gli elettori che per le élites, proprio perché è mutevole il concetto che passa dal

tradizionale strumento di difesa territoriale ad una mentalità di spedizione, senza che però

ci si leghi fermamente a nessuna delle due.

Un terzo gruppo di paesi fa delle valutazioni sulle politiche di sicurezza e difesa,

relativamente alla proiezione della potenza statale all'estero e alla protezione del proprio

territorio. Queste nazioni sono convinte dell'utilità delle forze armate nel perseguimento di

questi obiettivi onnicomprensivi. Coloro i quali sono concentrati sulla protezione sono

guidati da una percezione delle minacce che si focalizza sulla vulnerabilità del territorio

nazionale. Il senso di vulnerabilità è culturalmente radicato, come nel caso della Grecia, e

non è il prodotto di una mera analisi obiettiva e fattuale. La politica di difesa e sicurezza è

vista come la creatrice di ordine internazionale e stabilità. Si concepisce una

responsabilità d'impegno che vada oltre l'Europa, possibilmente proiettata globalmente,

per risolvere e gestire crisi, conflitti, appropriarsi delle risorse e adoperare le forze armate

per sorreggere tali ambizioni. Danimarca, Francia e Regno Unito sono molto vicine a

questa descrizione, ma pure Svezia ed i Paesi Bassi si avvicinano a questa variante di

cultura strategica. Le organizzazioni internazionali sono facilitatrici di queste ambizioni fino

a quando potranno dimostrare le loro capacità d'azione. Se le organizzazioni in questione

non dimostrassero effettivamente questa capacità, i suddetti paesi parteciperebbero

comunque alle "coalizioni dei volenterosi", come dimostrato chiaramente in Iraq e

nuovamente in Libia nel 2011. Spesso queste classificazioni possono essere imprecise,

troppo rigide e dogmatiche e la realtà strategica di ogni singola nazione può apparire

sfuggente, ambigua, evanescente.

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24

Tuttavia questa categorizzazione mira a divenire un buono strumento di analisi per

semplificare la realtà ed evitare di trattare individualmente più di trenta Paesi presi in

esame.

Tabella 1: Culture strategiche europee.27

Politica di sicurezza come

manifestazione di statualità

Politica di sicurezza come negoziazione

internazionale

Protezione e proiezione del potere

statuale

Dimensione 1: livello di ambizione nelle politiche di sicurezza internazionale

Relativamente alto Medio-basso Alto

Dimensione 2: Scopo dell'azione dell'esecutivo nel decision-making .

Ampi diritti dell'Assemblea

legislativa

Ampi diritti dell'Assemblea

legislativa

Alta flessibilità per l'esecutivo in molti casi, forti legami informali tra esecutivo e legislativo

in altri

Dimensione 3: Orientamento di politica estera

Tendenza verso l'UE Funzionale: NATO per

la difesa collettiva, altrimenti UE

Forte sostegno per UE e per NATO

Dimensione 4: Volontà di impiego della forza militare

Bassa Alta per scopi di difesa,

bassa per gestioni delle crisi

Alta

Paesi

Austria, Cipro, Finlandia, Ungheria,

Irlanda, Lussemburgo, Malta,

Portogallo

Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca,

Estonia, Germania, Italia, Lettonia,

Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia,

Spagna

Danimarca, Francia, Grecia, Paesi Bassi,

Polonia, Svezia, Turchia, Regno Unito

1.4 La Germania come caso di studio e modello per una cultura strategica e di

sicurezza dell'UE

A causa della sua singolare esperienza come grande potenza militare, della sconfitta e

della vergogna morale, la Germania occidentale sviluppò una cultura della sicurezza

unica.

La Germania post-bellica continuava ad essere una nazione profondamente religiosa, ma

le élites, Adenauer in primis, rigettarono l'idea che quel paese fosse stato scelto o

benedetto da alcuna Provvidenza.

27 Tabella riadattata da: H. Biehl, B. Giegerich, A. Jonas, Strategic Cultures in Europe. Security and Defence Policies Across the Continent, Schriftenreihe des Zentrums für Militärgeschichte und Sozialwissenschaften der Bundeswehr Volume 13, Springer Vs, New York, 2013.

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25

I cambiamenti politici postbellici e quelli relativi alla cultura della sicurezza, assicurarono

alla Germania una forte ricettività verso i processi integrativi. Katzenstein osservava che

mentre la Germania ad un certo punto della sua storia cercò di "germanizzare" l'Europa, il

percorso di sviluppo perseguito dopo la Seconda guerra mondiale le ha permesso di

recepire convincentemente l'"europeizzazione" della Germania28.

I leader politici tedeschi hanno esercitato il loro potere solo in contesti multilaterali mediati

istituzionalmente; in questo modo la Germania ha forgiato in Europa l'istituzionalizzazione

del potere, dove tutti i membri rinuncerebbero ad una quota di sovranità, partecipando

nella cultura equilibratrice e di moderazione. L'approccio alla proiezione di potenza e

l'interventismo militare sviluppò quella che venne chiamata "cultura della reticenza".

Il termine "never again" per i tedeschi venne ramificato in due assi: "never again" di una

guerra sul suolo tedesco, e "never again" ad un sostegno verso demagoghi non

democratici, alla Hitler. L'identità tedesca ha sviluppato concetti che presentavano la

Germania come "potenza civile", come primo stato "post-nazionale", cosmopolitico e

assertore della non-aggressione. L'ex cancelliere Gerhard Schröeder, riflettendo in modo

conciso su quest'approccio ebbe a dichiarare nel 2001 che le capacità militari e la forza

sono caratteristiche sempre meno prominenti nei programmi di sicurezza del ventunesimo

secolo e che le questioni relative alla sicurezza non possono essere lasciate agli eserciti29.

Nel 1999, durante l'intervento in Kosovo e soprattutto nella seguente missione di peace-

keeping, essa conteneva gran parte degli elementi che validavano l'approccio tedesco alla

proiezione di potenza internazionale: gli obiettivi di sicurezza collettiva si focalizzavano

sugli aspetti umanitari. Era una prova positiva al mondo che la Germania volesse prendere

parte tra le democrazie responsabili che avrebbero fermato la pulizia etnica e avrebbero

punito i perpetratori; era stata condotta internamente ad un'organizzazione internazionale

e da ultimo, si trattava dell'Europa.

La rilevanza dei tasks di Petersburg era chiaramente in evidenza. Nonostante ciò, la

partecipazione tedesca alle forze alleate appare in retrospettiva un'eccezione alla

partecipazione tedesca ad una guerra. I tedeschi impararono delle lezioni significative

dall'intervento del '99, specie sull'assenza di un mandato delle Nazioni Unite, una

rinnovata resistenza dell'opinione pubblica verso guerre combattute all'estero; resistenza

28 Peter Katzenstein, Tamed Power: Germany in Europe , Ithaca, NY, Cornell University Press, 1997.

29 Cit. in Mary N. Hampton, A thorn in Transatlantic relations. American and European Perceptions of Threat and Security, Palgrave MacMillan, Basingstoke, Uk, 2013, p. 73.

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che successivamente emerse durante la guerra in Iraq, dove i bombardamenti furono

percepiti come abominevoli30. Nel caso dell'ISAF in Afghanistan, specie per i tedeschi,

l'area di operazioni continuava ad espandersi, deteriorando l'ambiente di sicurezza e

spingendo la stessa missione verso operazioni militari tradizionali che furono avversate dai

cittadini.

Il rifiuto tedesco a partecipare alle operazioni Nato in Libia nel 2011, rifletteva

lucentemente la suddetta "cultura della reticenza" e il credo che le guerre e i

bombardamenti non fossero mai giustificati.

In comparazione ad altre nazioni europee come il Regno Unito, l'opinione pubblica

tedesca rigetta vasti interventi militari come strumento legittimo per il coinvolgimento nelle

crisi esterne – solo il 14 % li sostiene. Per converso, il 50 % si fa fautore di misure

economiche come le sanzioni e l'83% preferisce la diplomazia. Si rileva finanche una non

indifferente tendenza verso l'isolazionismo.

La costruzione securitaria della Germania, guidata dalle èlites sin dalla fine degli anni '40,

fu accolta e interiorizzata bene dalla società, che si dimostrò fortemente recettiva in tal

senso; il diffuso pacifismo degli anni '50 ("Ohne mich", senza me) contrario alla Nato,

dimostrava una forte propensione della società tedesca alla democratizzazione e ai

processi di integrazione, politico-civili. La "cultura della reticenza" tedesca fornì i

fondamenti per l'evoluzione del modello di "security governance" e la fondazione di un

blocco di cultura strategica europea.

In questo paradigma, la comprensione tradizionale di un mondo di stati-nazione che

fronteggiano minacce mortali è rigettato. Emerge via via un modello cosmopolitico delle

relazioni internazionali dove gli stranieri sono potenziali vicini, non nemici; dove i concetti

manichei di bene e male che separano nemici da amici sono respinti e dove le guerre

devono essere soppresse ed espunte dai processi di civilizzazione.

In confronto ai più vicini alleati NATO, il budget per la difesa tedesco tende ad essere

relativamente piccolo: nel 2015, la Germania ha diretto solo l'1,2% della spesa militare, a

fronte di un 2% nel Regno Unito, 2,1% in Francia, 1,3% l'Italia in discesa, per non

menzionare il 4,7 % degli Stati Uniti nel 2011, in netta diminuzione fino al 3,3% del 201531.

Le missioni all'estero sono state finanziate con il budget della difesa esistente, che limita

considerevolmente la capacità finanziaria di partecipazione negli interventi militari.

30 Wolfgang-Uwe Friedrich, The Legacy of Kosovo: German Politics and Policies in the Balkans, German Issues 22, Washington, DC, American Institute for Contemporary German Studies, 2000, pp. 27–50.

31 SIPRI (2015): Military Expenditure Database. http://www.sipri.org/databases/milex/ %3E.

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Il desiderio di sviluppare una politica estera e di sicurezza basata su principi morali ed

umanitari, stava insieme ad un orientamento devotamente transatlantico e faceva della

Germania un "egemone riluttante" nel bel mezzo dell'Europa32.

La Germania ha continuato a battersi per un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza,

sin dai tempi del cancellierato di Schröder, ritenendo l'Onu il più grande consesso

internazionale dove esercitare realmente il potere sulle questioni globali.

Le frizioni atlantiche sono apparse nella gestione della crisi ucraina e quindi nei rapporti

della NATO con la Russia, nelle sanzioni che hanno fortemente danneggiato le relazioni

bilaterali con Mosca e nella grande esercitazione "Anakonda" in Polonia, quando il

ministro agli affari esteri Steinmeier non ha esitato a esprimere la sua stizza nel constatare

la divergenza di interessi tra Berlino e l'organizzazione militare di cui fa parte33.

Storicamente, le controversie degli orientamenti intra-occidentali in Germania (NATO vs

UE) rimangono tenui rispetto ai dibattiti sull'orientamento Est-Ovest dopo la Seconda

Guerra Mondiale – a titolo esemplificativo, l'"Ostpolitik" di Willy Brandt o le pubbliche e

cordiali relazioni con la Russia, durante il cancellierato di Helmut Kohl e Gerhard Schröder.

I vicini orientali della Germania hanno osservato con occhio vigile questi riavvicinamenti,

come nel caso del progetto "North Stream Pipeline". Ciononostante, il governo tedesco

non ha mai messo in questione il suo orientamento occidentale e più recentemente, le

relazioni più distanti tra Angela Merkel e Vladimir Putin sembrano aver convinto perfino i

critici più accaniti. In generale, la relazione bilaterale più importante quando si tratta di

politiche di sicurezza è ancora proprio quella con gli Usa, seguita da quella con la Francia.

Le relazioni con la Polonia sono cresciute altrettanto celermente negli ultimi anni, mentre

l'ambizione complessiva è ancora diretta verso la ricerca di un accordo sulle questioni di

sicurezza internazionale entro i contesti UE e NATO. In ogni caso appare indiscussa la

dedizione verso il multilateralismo. Sebbene alcuni commentatori vedono le decisioni nel

contesto della Libia nel 2011 o l'Iraq nel 2003, le asserzioni riguardo alla richiesta di ritiro

delle armi nucleari americane dal territorio tedesco nel 2010 e la disapprovazione di una

larga parte dell'opinione pubblica tedesca nei confronti degli Stati Uniti e del loro

unilateralismo, come un'altra forma di unilateralismo tedesco, l'orientamento di politica

estera e securitaria tedesca resta profondamente multilaterale – anche se talvolta si tratti

di multilateralismo "strategico"34 o multilateralismo "selettivo".

32 William E.Paterson : The Reluctant Hegemon? In: Journal of Common Market Studies, 49: 1, 2011, pp. 57–75.

33 http://www.lookoutnews.it/nato-europa-russia-germania/. 34 Hans Kundnani: Germany as a Geo-economic Power. In: Washington Quarterly, 34: 3, 2011,

pp. 31–45.

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L'articolazione di interessi nazionali entro il contesto delle Nazioni Unite, è un modello

comune a quello adottato da Francia e Regno Unito.

In Germania quantunque il termine di "interesse nazionale" permane, il concetto è

radicalmente controverso poiché implicherebbe che gli interessi tedeschi potrebbero

deviare rispetto agli interessi europei o addirittura globali, contraddicendo la stessa visione

del multilateralismo. Uno dei termini chiave nella sicurezza tedesca è la nozione di

“networked security” (“Vernetzte Sicherheit”) tra i vari attori del governo federale tedesco.

Quando si valutano poi le altre istituzioni di polizia e di sicurezza, il report – il cosiddetto

“Werthebach Report”- , la fondazione di un "joint center" per combattere il terrorismo

(Gemeinsames Terrorabwehrzentrum – GTAZ), e la creazione di un centro nazionale per

la cyber security (Nationales Cyber-Abwehrzentrum – NCAZ), sono segni profondi di una

svolta nell'architettura di sicurezza tedesca.

Il decision-making intra-organizzativo è stato parzialmente migliorato, come mostrato dalla

creazione del Joint Operations Staff nel 2008, che ha creato un comando centralizzato ed

una struttura di controllo per le missioni militari all'estero; pur tuttavia, le strutture

interorganizzative rimangono in larga parte trascurate35.

In aggiunta, c'è un'ovvia divergenza tra il livello strategico e politico da una parte e il livello

tattico ed operativo dall'altra; le forze armate tedesche non hanno una grande resilienza

alle continue sfide militari che pongono le campagne, come quella in Afghanistan, a causa

di una mentalità strategica che vede l'uso della forza in termini di difesa territoriale e di

deterrenza ad un livello politico-strategico. Queste strutture organizzative delle forze

armate sono state approntate in base ai dettami della Guerra fredda e teorie dei tempi di

pace: modificarle potrebbe essere un lento e travagliato processo36. Le politiche della

sicurezza tedesche sono pure connottate da una consistente ambivalenza verso l'utilizzo

della forza militare. Sia la società civile che larga parte delle èlites politiche guardano allo

strumento militare soltanto in "ultima ratio"; il mero supporto per azioni civili rimane

indiscusso. Questa ambivalenza può essere riconosciuta altrettanto nella Bundeswehr, le

cui regole d'ingaggio tendono ad essere formulate restrittivamente per consentire una

cooperazione armoniosa con gli alleati. Questa visione, strettamente connessa a quella di

potenza civile", rimangono pietre angolari della cultura strategica tedesca.

Questa forma mentis è strettamente correlata alla sensibilità, che è prevalsa sin dalla

fondazione della Bundeswehr, dalla quale sono originati tutti gli sforzi tedeschi per evitare

35Timo Noetzel: Germany’s Small War in Afghanistan: Military Learning amid Politico-strategic Inertia. In: Contemporary Security Policy, 31: 3, 2011, pp. 486–508.

36Benjamin Schreer: Political Constraints: Germany and Counterinsurgency. In: Security Challenges, 6: 1, 2010, pp. 97–108.

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qualsiasi sospetto circa il ritorno alla classica politica di grande potenza, facendo

affidamento sul proprio potere geo-economico nel cuore dell'Europa.

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2. Difesa e sicurezza tra sovranismi e integrazione

Nell'attuale fase di transizione europea sta emergendo una politica post-nazionale di

difesa e sicurezza e ciò rappresenta uno spostamento di paradigma.

La politica di sicurezza evidentemente non concerne in maniera esclusiva questioni militari

e può pertanto essere utilmente definita come la politica rivolta a qualsivoglia situazione

che ponga una minaccia; ma la minaccia non deve essere esistenziale. Come aveva

puntualizzato uno studioso37 qualche anno addietro, si vive adesso in società di rischio

piuttosto che in società minacciate e di conseguenza le politiche di sicurezza riguardano la

gestione dei rischi piuttosto che la difesa. La sicurezza, ancora, può riferirsi alla

promozione degli interessi statali – quelli propri della politica estera. Le connotazioni che si

hanno generalmente intorno al concetto di difesa vincola la comprensione della nuova

situazione dove lo strumento militare è adoperato attivamente, ma in maniera limitata, per

fini politici. Possiamo discernere il paradigma napoleonico, che è durato fino in tempi

recentissimi in Europa; quest'ultimo era caratterizzato dalla coscrizione obbligatoria, difesa

del territorio nazionale, lealtà alla nazione e una "raison d’être" fondata sulla

sopravvivenza esistenziale dello Stato e della nazione. Questa tipologia di politica di

sicurezza mirava alla sopravvivenza e/o alla prevaricazione e proiezione esterna della

nazione: lo Stato poteva così chiedere lealtà fino alla morte dai suoi cittadini-soldato

poiché le minacce erano spesso esistenziali. Come scrisse qualche tempo fa il generale

Rupert Smith38: "War as battle in the field between men and machinery, war as a massive

deciding event in a dispute in international affairs, such a war no longer exists". Si tratta di

"guerre contro il popolo", spesso combattute contro attori non statali, contro ribelli, e non

mirano alla vittoria nel senso classico del termine, ma a mantenere un territorio o una pace

nel senso che sia possibile per gli attori politici continuare ad agire e governare. In questa

era di "neo-medievalismo", lo stato-nazione non ha più il monopolio dell'uso della forza –

anche se è ancora di gran lunga il più importante attore - e non è più il solo attore nel

campo della sicurezza, ove spesso i soldati sono reclutati sul mercato privato; per queste

ragioni la forza militare non può più trovare legittimità nel solo riduttivo concetto di nazione,

37 M. Vedby-Rasmussen. The risk society at war. Terror, technology, and strategy in the 21st Century. Cambridge: Cambridge University Press, 2006.

38 R. Smith. The utility of force: The art of war in the modern world. London: Allen Lane, 2005.

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ma deve essere legato in qualche modo all'etica ed al diritto internazionale e alle sue

norme internazionalmente riconosciute, non certo agli interessi dello stato westfaliano.

Tra l'altro, le minacce diffuse affliggono sia la dimensione interna che esterna dello Stato,

riducendo al minimo la rilevanza del concetto di monopolio della forza39, spingendo a

deterritorializzare e denazionalizzare le politiche di sicurezza. La linea di ragionamento

che si vorrebbe seguire è che sia sempre meno rilevante la nozione di nazione per

l'organizzazione, la definizione e l'uso attuale della forza militare. Proteggere i propri

confini e i propri connazionali naturalmente rimane un compito chiave per qualsiasi stato

europeo, ma "gli stranieri" diventano alquanto rilevanti per il dispiegamento della forza. In

Bosnia, Kosovo e Repubblica democratica del Congo vi sono stati interventi per "salvare

vite" di altri cittadini, di altri Paesi.

Salvare e proteggere i propri connazionali è più probabile che sia un obiettivo delle

campagne antiterroristiche e di gestione della crisi, dopo un attacco terroristico.

Organizzazioni come la NATO, ma anche la stessa ONU, sono state spesso ostacolate nei

loro adattamenti da interessi politici nazionali e sovranismi diffusi di ogni sorta, tanto da

arrivare al paradosso che più grande è un'organizzazione più vantaggi avrà politicamente

ed in termini di legittimità, ma meno ne avrà militarmente. La relazione tra integrazione

politica e integrazione militare è spesso disfunzionale, seguendo ogni sfera una propria

logica. L'esperienza dell'ISAF in Afghanistan evidenzia che più caldo diventa il teatro degli

scontri, più i cosiddetti caveat nazionali vengono alla luce. Sembra chiaro che nessuno

Stato vorrà perdere il controllo nazionale sul proprio contributo militare, specialmente nel

campo delle decisioni e laddove i rischi aumentano. È inoltre vitale per uno Stato

"mostrare la bandiera", che sembra l'antitesi dell'integrazione politica. Chiaramente non c'è

nessun processo politico voluto fino in fondo verso le strutture militari sovranazionali, né

nella NATO, né nell'UE, né nelle Nazioni Unite. Proprio i britannici, tra i principali assertori

del mantenimento della sovranità nazionale, pensano che ci debba essere un controllo

nazionale quando le vite dei propri connazionali sono a rischio, per una questione

quantomeno di accountability democratica. Ancora, ci sono vari fattori chiave strutturali

verso l'internazionalizzazione e verso l'integrazione: ciò include budget stagnanti o in forte

riduzione nella maggioranza degli stati, la necessità di condividere i costi e le capabilities,

e "condividere" i rischi in operazioni su larga scala e di lungo termine, specie in guerre non

esistenziali, e da ultimo, l'incremento dell'efficacia e dell'efficienza delle organizzazioni

internazionali tramite il loro rafforzamento. Tutti questi fattori chiave premono verso la

39 D. Kennedy. Of law and war. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006.

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condivisione delle forze armate, perfino verso l'integrazione, ma i meccanismi politici e

decisionali rimangono largamente intergovernativi, almeno formalmente.

2.1 Legittimità multilaterale

Si è già visto come la legittimità all'uso della forza nel mondo occidentale sia divenuta di

preminente importanza dopo la guerra fredda. La politica di sicurezza e difesa post-

nazionale è stata basata su un fondamento abbastanza differente rispetto alla guerra tra

Stati. L'uso della forza militare è aumentato considerevolmente dopo la guerra fredda,

precisamente perché ciò non implica una guerra totale o una totale distruzione. I mandati

emessi dal Consiglio di sicurezza sono stati allargati nel senso che non solo le tragedie

umanitarie ed i disastri possono essere qualificati come "minaccia alla pace e alla

sicurezza internazionale", ma anche i "regime change", nella forma della

democratizzazione, hanno ricevuto tale qualifica. La legittimazione, particolarmente quella

delle Nazioni Unite, è necessaria ma di per sé non è una condizione sufficiente per l'uso

della forza tra gli Stati occidentali40.

La pratica dell'intervento non ha condotto verso nessuna nuova regola nel diritto

internazionale, sull'uso della forza – né per interventi umanitari, né per attacchi preventivi

contro altre nazioni sovrane per colpire i terroristi. Piuttosto, la situazione appare poco

chiara riguardo alle regole sull'uso della forza; con l'avvento del terrorismo globale la

strategia del "regime change" è prima di tutto collegata ad esigenze ed interessi di

sicurezza e le violazioni di norme, internazionali e non, sono aumentate notevolmente:

pochi sono stati gli interventi militari degli ultimi anni che avevano davvero a cuore l'aiuto

umanitario ed i diritti umani. Quando il terrorismo è presentato come una questione

militare, molti stati europei rifiutano di accettarlo come tale. La ragione per "rischiare" le

vite di propri cittadini deve riguardare minacce serie e gravi allo Stato, ma se i governi non

vedono la battaglia al terrore in questi termini, questa ragione per l'uso della forza

scompare. Inoltre, politicamente la prima divisione riguardante l'ISAF è stata la carenza di

una comune percezione della minaccia lungo lo spazio euro-atlantico. Alla conferenza

sulla sicurezza di Monaco del 2008, sia il segretario alla difesa americano che il segretario

generale della NATO, equipararono la minaccia del terrorismo alla minaccia presente

durante il periodo della Guerra fredda, ma pochi governi europei concordavano su quei

termini pubblicamente.

40 J. Welsch, Humanitarian intervention and international relations. Oxford: Oxford University Press.2004, pp. 163–75.

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Soltanto la Gran Bretagna ha avallato apertamente il link tra stati falliti e terrorismo, ma

essa nondimeno conta ancora sul possesso del mandato ONU nella maggior parte delle

questioni militari. Nel caso dell'Iraq, nonostante gli inglesi fossero strenui sostenitori della

politica interventista di Bush, è degno di nota il fatto che Londra insisteva sulla necessità di

un esplicito mandato delle Nazioni Unite (ma fallì nell'ottenerlo). Così la questione della

legittimità in qualche forma di sostegno multilaterale è la chiave per tutti gli Stati europei.

Anche le operazioni in Libia furono autorizzate dalle risoluzioni 1970 e 1973 del CDS, ma

l'azione europea non si caratterizzò secondo il modello politico-diplomatico onusiano

(mediazione imparziale tra le parti in controversia fino alla cessazione della violenza e

all'inizio dei negoziati), ma si è indirizzata verso un attivo sostegno politico, economico e

militare a favore di una delle due parti, anche quando ciò comportasse l'uso della forza e il

rifiuto di soluzioni negoziali41. L'attivismo europeo ha cercato legittimazione in almeno due

principi fondamentali: il primo, l'universalità dei valori fondamentali proclamati nei Trattati

istitutivi (diritti inviolabili e inalienabili della persona, libertà, democrazia, uguaglianza, stato

di diritto) e l'esigenza assoluta e inderogabile di diffusione degli stessi - che spesso non

coincide con la sicurezza internazionale - a partire dalle macroaree confinanti; il secondo,

costituito dal concetto politico di sicurezza umana (e complementare dottrina della

responsibility to protect) che eleva ad oggetto della cooperazione interstatale in tema di

sicurezza non più lo Stato, ma l'individuo nelle sue molteplici accezioni, secondo una

logica economica neoliberista e individualistico-democratica a livello politico. Sebbene

nella forma sia cambiata, la trama conserva una sostanza imperitura della storia europea,

ovvero l'autopercezione di culla depositaria di valori universali, da diffondere nel mondo.

La questione chiave adesso non è che lo strumento militare debba essere dispiegato dallo

Stato, ma piuttosto che sia dispiegato con una legittimità, anche ma non esclusivamente

normativa. La visione degli Stati Uniti è che il mandato sia importante ma non vitale,

laddove gli europei sostengono che il mandato sia la chiave per legittimare l'uso della

forza.

In stati come la Germania o i paesi nordici, un mandato Onu è visto quasi come una

necessità indispensabile; ciò implica che la legittimità politica in Europa – ma non solo

quella, pensiamo alla legittimità data dall'opinione pubblica - è legata al mandato ONU -

41 P. Bargiacchi, L'Unione Europea dinanzi alla crisi libica del 2011: azione umanitaria e neutrale o, piuttosto, democratica e interventistica?, in G. Finizio e U. Morelli (a cura di), L'Unione Europea nelle relazioni internazionali, Carocci, Roma, 2015.

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vista ancora come un'organizzazione importante - o comunque da un'organizzazione

internazionale come la NATO, ma certamente non da costruite coalizioni di "volenterosi"42.

La legittimità è divenuta proporzionalmente più importante, nell'era post-guerra fredda,

poiché il Consiglio di Sicurezza stesso è diventato l'arena che conferisce legittimità ora

che le guerre interstatali sono diventate significativamente meno numerose. L'avvento del

diritto (ma non dovere) di intervento umanitario negli anni '90, ha messo in risalto la

sicurezza umana rispetto a quella classica statale. Questo sviluppo sta continuando con

l'emergere di "missioni integrate" nel contesto delle Nazioni Unite e risulta evidente, nelle

gestioni delle crisi da parte dell'UE, che l'uso di strumenti militari massicci è escluso in

questi contesti.

Negli anni '90 gli Stati occidentali intervennero in Somalia, Bosnia e Kosovo ed inviarono

missioni militari in Macedonia e in una serie di stati africani. Tuttavia, la carenza di precisi

e mirati interessi di sicurezza resero questi interventi speciali. Sembrava che i paesi

occidentali volessero usare la forza per contrastare "gross violations" di diritti umani e

fermare i genocidi, ma nei casi più eclatanti, del Ruanda e del Darfur in Sudan, l'Occidente

si astenne dall'intervenire, mostrando che non sempre i suddetti requisiti, ovvero le estese,

gravi e ripetute violazioni dei diritti umani o peggio ancora i genocidi, fossero sufficienti per

predisporre un pronto intervento. Inoltre l'intervento aereo sulla Bosnia, arrivò dopo i

massacri di Sreberenica da parte dei serbi, o di quelli perpetrati dai croati. Nel caso del

Kosovo, Srebrenica fu la lezione che spinse i governi a prevenire il ripetersi.

Essere un attore chiave nella sicurezza, in questa era implica così due cose: la prima è la

"giusta autorità", ovvero legittima, per potere usare la forza militare – basata su norme

internazionali; la seconda è l'abilità militare, che sia però strettamente collegata ad una

serie di altri strumenti, da quelli politici, diplomatici ed economici.

Se non si tratta più di stati e della loro sopravvivenza, si tratta allora di esseri umani e della

loro sopravvivenza. Gli abusi e le violazioni dei diritti umani calzano perfettamente con la

gamma post-moderna di diritti e valori dell'Unione ed il suo ruolo tradizionale di

organizzazione di "soft power".

42 J. Matlary, Values and weapons: From humanitarian intervention to regime change? Basingstoke: Palgrave-Macmillan, 2006.

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2.2 Dinamiche della sicurezza europea: i nuovi interessi nazionali

Al giorno d'oggi gli analisti situano l'Unione Europea fermamente nel contesto della teoria

e della politica internazionale. Ma con riguardo alla politica di sicurezza e difesa, sembra

esservi una tendenza che porta o alla sottovalutazione o alla sovrastima del ruolo dell'UE.

È chiaro che solo pochi stati nell'UE sono capaci militarmente ed hanno interesse in

questo campo e che molti rimarranno fuori da questa cooperazione; nel caso di lancio di

un'operazione, le forze d'intervento iniziali e gli elementi civili spesso sono dispiegati solo

dagli attori con rilevante capacità. Non c'è alternativa ad un qualche tipo di "cooperazione

rafforzata" o "coalizioni di volenterosi e capaci" all'interno dell'Unione, specie dopo i

turbolenti eventi recenti, legati al Brexit. La NATO così come l'UE soffrono di un "deficit

politico": né l'una né l'altra delle due organizzazioni può considerarsi preferita quale

organizzazione di sicurezza per l'Europa. La Francia e qualche altro stato preferiscono

l'UE, mentre la Gran Bretagna era tra i fautori della politica "NATO first", assicurandosi che

l'integrazione europea non andasse troppo oltre nell'assumere un ruolo autonomo. Predire

il futuro della politica di sicurezza dell'UE, richiede previsioni allo stesso modo sul ruolo

della NATO in Europa.

La forza trainante dell'integrazione militare europea sta divenendo un fattore visibile.

L'EDA (European Defense Agency) potrebbe giocare un ruolo chiave poiché anche grazie

alla riduzione delle risorse, gli stati sono costretti a rendersi conto che hanno un reale

bisogno di una qualche tipologia di direzione top-down per la ricerca militare,

l'approvvigionamento, l'addestramento e la manutenzione. Si intravedono diversi schemi di

cooperazione bi/multilaterale, ma pochi sono propriamente sovranazionali. La necessità

per una direzione razionale e funzionale del processo di integrazione militare sta

diventando più evidente sia nel contesto europeo che in quello NATO. Le necessità

economiche per un'integrazione razionale diventeranno il traino per una politica di

sicurezza europea comune, semplicemente perché l'UE è un sistema politico maturo

nonostante le difficoltà e le ambiguità, che padroneggia una serie di elementi civili che

sono e saranno centrali nel supporto delle operazioni di pace. Nella NATO, le differenze

transatlantiche sono piuttosto grandi e non pare che possano scomparire rapidamente,

anzi l'opposto. L'Unione Europea arranca a divenire un attore strategico, questo

nonostante il fatto che i governi avranno incentivi a integrarsi nella logica del gioco a due

livelli – "l'Europa ce lo chiede" – per contenere l'opinione pubblica eccessivamente

attivista. Ancora permane un ostacolo affinché l'UE diventi un attore strategico - che

significa propriamente un attore unitario capace di diplomazia coercitiva – ovvero la

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capacità di saper utilizzare la forza militare come strumento politico; in Europa non vi è

corrispondenza di intenti, di ragioni, nelle più sensibili aree di politica estera, tra cui la

sicurezza. Lungi dal dare alcun giudizio di valore sul tema, si riscontra in tutta evidenza

che l'Unione, quale complesso unitario nel suo insieme, non ha quasi nessuna "etica-

guerriera", che di solito alimenta e forgia il nascere di una cultura strategica.

Tuttora esiste solamente nelle maggiori tradizioni militari, in Francia e nel Regno Unito.

Stati piccoli e deboli necessitano delle organizzazioni multilaterali, molto di più delle grandi

potenze: questo è quasi un assioma. Essi non sono militarmente capaci di fare alcunché

da soli, specie se i budget per la difesa decrescono. L'integrazione militare, o quantomeno

la cooperazione militare è l'unica via. Francia e Gran Bretagna non sono tuttavia in questa

categoria. I bisogni d'integrazione così, non possono spiegare i cambiamenti nelle loro

politiche sulla sicurezza, come lo si può fare per i piccoli Stati. In aggiunta al "great game",

gli Stati giocano uno "small game" nei contesti multilaterali in base ai bisogni della loro

politica interna e la capacità d'influenza interna. Spesso le organizzazioni internazionali in

questione fungono da capro espiatorio se qualcosa andasse storto, argomentando in tal

caso di essere legati, di dover essere più accomodanti a livello internazionale, potendosi

nascondere ogni qualvolta vi sia la possibilità, dietro il processo decisionale multilaterale,

quando e nel caso essi fossero criticati da altri stati o avversari politici.

Poiché le èlites di governo solitamente godono di privilegi in entrambi i livelli – perché

pochi giornalisti, osservatori o liberi cittadini hanno accesso ai lavori interni delle

organizzazioni internazionali – esse possono massimizzare il potere modificando gli ordini

del giorno nelle sfide domestiche, fuggendo dalle critiche e dall' "accountability" sia

internamente che nelle organizzazioni internazionali.

Qua si argomenta che tutti gli Stati – incluse le grandi potenze – hanno nuovi interessi di

sicurezza dopo la guerra fredda. Ciò include principalmente in un'impostazione

multilaterale, il bisogno di acquisire legittimità per l'uso della forza, il bisogno condividere i

rischi e le colpe ed il bisogno di compartire i costi. Questi "nuovi" interessi relativi alla

sicurezza non sono egualmente distribuiti tra gli Stati, evidentemente. Per la Francia,

l'opinione pubblica domestica gioca un ruolo minimo riguardo al dispiegamento di truppe,

e il presidente ancora gode del privilegio della politica estera tradizionale. Nel caso della

Gran Bretagna, con la partecipazione nella guerra in Iraq, l'opinione pubblica è divenuta

più ferrata sui problemi di sicurezza e si è sviluppata una più ampia opposizione alla

guerra, rendendo le politiche di difesa e sicurezza sempre più politicizzate, a partire dal

dibattito sul mandato delle truppe in Afghanistan.

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37

Nel caso tedesco, come visto precedentemente, c'è anche un interesse nazionale

nell'agire da "grande potenza", ma solo in funzione dell'UE e della NATO. Per dispiegare

truppe all'estero, le élites tedesche hanno bisogno, di gran lunga, di maggiore sostegno

internazionale per assicurarsi la necessaria legittimità e gli elementi pacifisti interni

possono essere acquietati solo nel caso in cui la Germania debba onorare impegni

internazionali.

L'opinione pubblica francese e britannica (anche precedentemente al Brexit) è molto più

scettica nei confronti dell'UE, rispetto alla tedesca. Questo opera in direzione di un minor

supporto a ciò che in generale i governi fanno a Bruxelles. Ma il governo tedesco è

pesantemente circoscritto nelle politiche di sicurezza a prescindere dalla propria

legittimazione pubblica, laddove i governi di Londra e Parigi dispongono di uno status

indipendente, rispetto a Berlino. La strategia politica francese è stata basata sulla visione

europea di De Gaulle, che non includeva la Gran Bretagna tradizionalmente; egli

declamava un'Europa unita che poteva rivestire una parte chiave nel mondo, e nella quale

la Francia avrebbe giocato un ruolo costituivo. La Francia poteva essere la Francia solo

nel ruolo di grande potenza: la Francia non può essere se stessa senza la sua grandezza.

Perfino Chirac continuava su questa base, provando a creare un'Europa dove gli stati

avrebbero svolto un ruolo primario: una "federazione di stati-nazione".

Nel Regno Unito, la linea storica è stata atlantica, marittima, pluricontinentale, piuttosto

che europea. Churchill definiva la sua isola: "With Europe, but not of Europe", e la

Thatcher attaccava l'Europa perchè le creava solo problemi in patria: "nella mia vita tutti i

nostri problemi sono venuti dall'Europa continentale e tutte le soluzioni sono venute dalle

nazioni anglofone in tutto il globo"43.

2.3 2.3 Il "Two Level Game": Francia, Regno Unito, Italia e Germania

E' vantaggioso essere vincolato dai consessi internazionali se a livello domestico il

disaccordo è forte o politicamente volatile. Gli Stati che non possono compiere i

cambiamenti desiderati, solitamente usano gli obblighi internazionali, vincolandosi a fare in

quel modo.

43 K.M. Haugevik. Britain and the ESDP. 1998–2004. MA thesis. Department of Political Science, University of Oslo, 2005.

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38

Gli stati forti – nel nostro caso nel campo della sicurezza e della difesa - possono

influenzare le negoziazioni ed usare le organizzazioni internazionali come moltiplicatore

per i propri interessi. Dall'altra parte lo stato debole può far uso della sua debolezza per

argomentare che una volta raggiunto l'accordo, ci si deve adattare, poiché solo gli stati forti

possono agire liberamente44. Durante la Guerra Fredda il governo italiano era abbastanza

felice di cedere la propria sovranità alle organizzazioni internazionali, se ciò avesse

significato la rimozione della "difesa" dal dibattito pubblico; stesso discorso valeva per la

Germania occidentale45.

I nuovi interessi nazionali sono ampiamente differenti dagli interessi geopolitici statici della

politica di sicurezza realista tradizionale. Essi sono al contrario, modificabili e opzionali,

ma non più opzionali del fatto che un governo che desidererà influenzare la decisione

nella NATO e/o nell'UE deve essere capace di contribuire con rilevanti capacità militari ed

assumersi dei rischi.

Gli Stati con un ruolo debole nella politica di sicurezza (senza prerogative di politica

estera) adotteranno forti posizioni politiche in seno all'UE: Germania e Italia, entrambi

strenui sostenitori della politica estera comune dell'Unione e di una politica di sicurezza e

difesa europea. La Francia e la Gran Bretagna invece sono gli unici due stati che

ritengono una prerogativa la gestione della propria politica estera, il che significa che il

presidente francese e il primo ministro britannico decideranno, in ultima istanza, sul

dispiegamento di truppe.

Il controllo parlamentare risulta debole. Ecco che in questi due casi il modello

intergovernativo soddisfa di gran lunga i paesi più sovranisti.

I "battlegroup" dell'UE illustrano la discrepanza tra l'impegno nell'integrazione militare e la

natura intergovernativa del decision-making politico, poiché uno stato che partecipa in un

battlegroup non può chiamarsi fuori (opt out) da una decisione di schieramento; se lo

facesse dovrà lasciare il battlegroup, che sarà ricostruito (probabilmente non schierato

come già pianificato), e si potrebbe anche assumere, che lo stato in questione non sarà

più invitato a partecipare in nessun battlegroup. Se aggiungessimo una forte dimensione

domestica a ciò, diverrebbe chiaro che i governi possono ritrovarsi politicamente impotenti,

schiacciati tra un'opinione pubblica negativa ed impegni militari concreti nelle

organizzazioni internazionali.

44 R. Putnam. The logic of two-level games. International Organisation, 1988, 42(3), 427: 60. 45 M.Koenig-Archibugi. International governance as a new raison d’etat? The Case of the EU

CFSP. European Journal of International Relations, 10(2), 2004 .

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39

Prenderemo adesso in considerazione i quattro maggiori Paesi europei nel "two-level

game": due con esecutivo debole, due con esecutivo forte. Con un breve sguardo sul caso

italiano, si nota che il parlamento detiene un controllo più rigido sulla politica di difesa,

rispetto ai casi, francese e britannico. Esso deve approvare il dispiegamento delle truppe,

prima del loro invio all'estero; esso deve approvare inoltre il mandato della missione, il

budget, la durata, e detiene pure il diritto di fare visite di ispezioni sul campo. Per ciò che

riguarda la politica estera e di sicurezza comune, il parlamento italiano ha una

commissione affari esteri, che è informata solo su discrezione del governo. Nell'area di

sicurezza e di difesa i parlamenti francese e britannico sono molto deboli e l'italiano più

forte, mentre l'esito opposto si ottiene nel caso delle politiche dell'Unione. Il governo

italiano ha spesso sfruttato i suoi impegni internazionali per legittimare internamente le

attività in materia di difesa, mentre ha giustificato i suoi minimi impegni, verso i corpi

internazionali, in virtù proprio della sua debolezza interna. È abbondantemente evidente

che i poteri formali non esauriscono la comprensione del vero decision-making. Gli affari di

sicurezza e di difesa sono complessi, spesso coperti dal segreto, distanti dagli interessi

generali della popolazione e non apportano grandi quantità di voti. È concepibile perciò

desumere che tali questioni sono anche di poco interesse per i parlamentari stessi che non

otterrebbero un ritorno in termini di voto o di pubblicità nel prenderne parte con interesse.

Lo stesso "gioco a due livelli" è giocato non solo dai governi ma persino dai parlamenti;

questi si impegnano solitamente in programmi e tematiche con un forte riscontro e una

vasta sensibilità nell'opinione pubblica e così, spesso, gli affari esteri generalmente non

rientrano in questa categoria.

L'opinione pubblica italiana è generalmente favorevole alle operazioni internazionali

purché esse siano multinazionali ed abbiano scopi umanitari, ma rispetto all'opinione

pubblica degli altri paesi europei spesso vi è una minore tolleranza sulle perdite di vite

umane, siano proprie o nemiche. L'uso della forza dovrà così essere legale, umanitario e

non dovrà causare perdite; il pubblico post-moderno non accetta più l'utilizzo dello

strumento militare e ciò presenta di fronte ai governi grossi ostacoli, promuovendo l'azione

a due livelli. Il governo italiano spesso debole per gestire le opposizioni interne, deve

"importare" decisioni dalle organizzazioni per fare in modo di partecipare ad esse.

Nel caso italiano il "multilateralismo esecutivo" ha avuto successo senza troppo conflitto,

nonostante l'opinione pubblica continui ad essere fortemente pacifista nella maggior parte

dei casi. Ci si chiede come l'esecutivo sia riuscito a bilanciare le due posizioni inconciliabili

per così tanto tempo, ma ancora una volta la sopravvivenza politica interna ha surclassato

una seria politica di sicurezza.

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40

Nel caso tedesco vediamo una matura e ben organizzata democrazia, dove il controllo

democratico del dispiegamento militare è davvero pregnante. In Germania c'è una forte

enfasi sul controllo democratico dello strumento militare ed un forte e generale scetticismo

verso di esso. C'è anche più pacifismo nelle attitudini dell'opinione pubblica nei land della

ex Germania orientale, correlate ad un orientamento politico di sinistra. Con l'unificazione

nel 1990, si potrebbe assumere che in generale la cultura politica pacifista della Germania

è stata rafforzata. I parlamentari hanno il diritto ad approvare preventivamente l'invio di

truppe all'estero e il mandato della missione. Il parlamento tedesco (insieme a quello

danese e olandese) ha perfino diritto a un'approvazione preventiva delle regole d'ingaggio,

del comando e del controllo, nonché a una valutazione dei rischi e l‘eventuale

sospensione di una missione. 46

Per la Legge Fondamentale tedesca la Bundeswehr (Difesa Federale) può essere

impiegata solo per autodifesa (art 87a) o, in via eccezionale, per attività di sostegno alle

autorità civili in caso di catastrofi naturali o disastri (art. 35 co. 3) e per i doveri legati alla

partecipazione a sistemi di sicurezza collettivi (art. 24 co. 2). A queste previsioni si

aggiungono quelle della Corte Costituzionale47 che stabiliscono la necessità costituzionale

di un’autorizzazione da parte del Bundenstag, prima Camera del Parlamento. Come negli

altri paesi è prevista una procedura d’urgenza o emergenza e, in caso di minaccia

imminente, il Governo può decidere di schierare le truppe all'estero ed ottenere

l’approvazione del parlamento a posteriori48.

Il caso tedesco è speciale nel senso che poggia su una cultura politica post-bellica

realmente antimilitarista, ma è d'interesse generale che il controllo parlamentare sulla

difesa sia davvero ben sviluppato anche se, occorre rilevare, che oggi si può parlare di un

„controllo parlamentare indebolito“, con il caso particolare della „guerra lampo“, in cui il

Governo può agire da solo nell’organizzare e portare avanti un dispiegamento di forze

all’estero quando il dispiegamento ha termine prima del voto parlamentare49.

La politica di sicurezza e difesa è, in linea generale, altamente impopolare presso

l'opinione pubblica e la società civile e pertanto la classe politica farà sempre in modo di

evitare tali questioni.

46 W. Wagner. The democratic legitimacy of ESDP. ISS Occasional Paper no. 57, 2005 Paris: EU Institute of Security Studies. Cfr. anche con W. Wagner. The democratic control of military power Europe. Journal of European Public Policy, 13(2), 2006, pp. 200–216.

47 Giudizio della Corte Costituzionale BVerfGE 90, 286 del 12/7/1994 e BVerfGE 121, 135 del 7 maggio 2008.

48 Paragrafo 5 dello “Statuto sulla partecipazione del Parlamento” 49 Giudizio della Corte Costituzionale tedesca sulla operazione di salvataggio “Pegasus” in Libia

del 23 settembre 2015.

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41

Questo è un dato di fatto ed un fenomeno pervasivo, crescente nella politica europea.

Nel 2008 gli Stati Uniti avevano garantito in Afghanistan 3.200 soldati in più, provenienti

dall'Iraq per un'emergenza di ulteriori sette mesi nel sud del Paese dove le forze canadesi,

britanniche, danesi ed olandesi avevano già sofferto numerose perdite ed erano pronte ad

essere sollevate. Il contributo di truppe era già non uniforme nella distribuzione: la

Germania con la sua popolazione di 80 milioni di abitanti contribuiva con soli 3200 soldati,

dispiegati nel relativamente pacifico nord e con regole d'ingaggio vincolate; non potevano

impegnarsi in combattimenti o in qualsiasi altra attività ad alto rischio. Questi doppi

"caveat" erano tra i più vincolanti dei paesi NATO; il governo era obbligato a concordare

ogni dettaglio sul mandato con il Parlamento e l'opinione pubblica rimaneva estremamente

ostile (a prescindere) a qualsiasi tentativo di utilizzo della forza militare. Il caso tedesco è

all'estremo dei sistemi della politica di sicurezza e difesa, dominati dalla politica interna; la

Francia è all'altro estremo.

In Germania vi è un dominio totale dei fattori interni, inquadrati nella combinazione di forti

poteri parlamentari e opinione pubblica ostile. L’osservazione che i fattori interni

surclassino completamente la pressione internazionale va di pari passo con quella che,

mentre un governo debole gioca su due livelli, utilizzando la sponda internazionale per

legittimare la sua attività di difesa, il governo forte non ha bisogno di farlo.

Quali esempi di governi forti e Paesi storicamente sovranisti, vedremo il funzionamento dei

sistemi politico-legali di Francia e Gran Bretagna, in tema di sicurezza e difesa50.

In quest'area il parlamento britannico detiene pochi poteri formali; esso non approva l'invio

delle truppe, il mandato della missione, le regole d'ingaggio, la durata delle missioni ed il

budget, prima del lancio delle operazioni. Nel confronto con gli altri paesi europei il

controllo parlamentare britannico è il più debole d'Europa. La Francia segue subito dopo,

anche se il Parlamento francese deve approvare il budget prima del dispiegamento della

missione.

Il governo britannico era debole nell'area delle politiche generali dell'UE poiché

l'opposizione domestica ed i media sono sempre stati storicamente duri oppositori

dell'integrazione europea, cosa che dovrebbe farci sorprendere di meno, dell'uscita di

Londra dall'Unione; ma il campo della difesa e della sicurezza è uno dei capisaldi che

rende il governo britannico uno dei più forti in Europa.

Il dispiegamento all'estero è, dopo tutto, la normalità nel caso britannico – dove parte delle

truppe sono sempre all'estero, e lo scopo globale è uno scopo normale.

50G. Bono, National parliaments and EU external military operations: Is there any parliamentary control? European Security, 14(2), 2005,pp. 203–229.

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42

Così, ciò che è considerata un'aberrazione nella maggior parte dei paesi europei è

semplicemente la norma nel Regno Unito. Questo spiega perché non esista pubblico

dibattito su certe operazioni e perché il parlamento accetti le prerogative di politica estera

del governo. Solo nel caso dell'Iraq vi fu una pronunciata e pubblica insoddisfazione dei

fallimenti militari della guerra. L'opinione pubblica britannica è generalmente favorevole

all'uso del proprio esercito e fiera dei suoi conseguimenti; esiste nel paese una cultura

militare che rispetta e supporta il lavoro del soldato. La sola ragione perché il governo

britannico ha giocato e gioca su due livelli è stata per fronteggiare il problema

dell'euroscetticismo, ma ciò non ne ha compromesso la solidità e la presa sulla politica di

sicurezza e difesa.

Il potere esecutivo francese è il più forte tra quelli degli stati analizzati in questa sede; non

vi è il bisogno di un'approvazione parlamentare su alcuno degli aspetti riguardanti l'invio

all'estero delle proprie truppe. La Costituzione francese del 1958 concede interamente

nelle mani del presidente il potere sulla politica di sicurezza e difesa. Il Parlamento

francese non è coinvolto nella ratifica dei trattati internazionali, sulla difesa, sugli accordi di

cooperazione militare, o di altri trattati relativi a questioni di sicurezza. Si tratta di una

posizione molto confortevole per il Presidente che può decidere da sé, con il supporto dei

suoi soli consiglieri. Il ruolo dell'opinione pubblica è ugualmente poco problematico, poiché

essa non è capace di agire in modo significativo su quelle che sono strettamente, decisioni

presidenziali. In Francia l'opinione pubblica, spesso approva in larga maggioranza quasi

tutti i tipi di uso della forza51.

Tirando le somme, vi è una chiara evidenza che le èlites degli stati più deboli ottengono

vantaggi dalle possibilità offerte dal "two-level game"; anche i governi tedeschi hanno

usato gli obblighi internazionali e le aspettative internazionali come argomenti fondanti dei

cambiamenti interni. Le pressioni della NATO e le aspettative suggerirono la necessità di

modificare la reticenza tedesca verso l'invio di truppe all'estero, laddove la partecipazione

nell' European Security and Defence Policy (ESDP) era parte imperativa della politica

estera generale della Germania. Combinate, queste due organizzazioni internazionali

hanno esercitato un'influenza decisiva sulle politiche di sicurezza e difesa della Germania:

l'Europa ha rappresentato un utile mezzo per aggirare la forte pressione interna contraria.

Se l'opposizione interna all'uso della forza aumentasse, ci si potrebbe aspettare che i

governi cerchino "strategie di limitazione", condividendo sempre più il fardello con le

51 R. Balme and C. Voll. France: Between integration and national sovereignty. In S. Bulmer and C. Lequesne, The member states and the EU. Oxford: Oxford University Press, 2005. Fino all'80 % approva i dispiegamenti, inclusi gli interventi umanitari.

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organizzazioni internazionali e possibilmente cercando una possibile maggiore

integrazione.

Come già visto, i governi più vincolati, più deboli, probabilmente si impegneranno in forme

d'integrazione auto-vincolanti. Anche per paesi come Francia e Gran Bretagna, possono

esservi vantaggi nella condivisione di sovranità negli organismi internazionali. Per i governi

che sono più resistenti alle pressioni interne, per cultura politica o per norme istituzionali,

potrebbe essere utile aver accesso all'integrazione e condivisione, come risorsa ulteriore

in termini di competenze, ed una sede per la condivisione di rischi militari e politici. Come

visto nel caso francese, c'è piuttosto un uso sistematico dell'ESDP, come motivazione per

un cambiamento delle pressioni interne. Nel caso britannico - proprio nel momento in cui

scriviamo - ciò ha meno rilevanza, poiché la visione generale sull'Europa è fortemente

negativa, ma non è del tutto originale, anzi storicamente comprovata in più di

un’occasione.

L'aumentato grado di un'integrazione militare delle forze armate europee, condurrà ad un

ruolo più forte a livello internazionale del "two-level game": non soltanto occorrerà

un'integrazione auto-vincolante, ma anche un'integrazione vera, "realmente vincolante":

come correttamente sottolineato da Wagner, il trend generale di privilegiare l'esecutivo nel

processo di europeizzazione è ancor più esacerbato nelle politiche di sicurezza e difesa52.

I battlegroup dell'UE illustrano la discrepanza tra gli impegni d'integrazione militare e la

natura intergovernativa del decision-making politico. Se aggiungessimo una forte

dimensione interna a questo, sarebbe tangibile che i governi si trovino schiacciati e

politicamente impotenti, tra opinioni pubbliche pressanti ed impegni reali derivanti dalle

organizzazioni internazionali.

2.4 2.4 Sviluppi istituzionali europei in materia di difesa

Il sentiero della Politica estera e di sicurezza comune aveva preso avvio con il Trattato di

Maastricht. Mentre si riscontrava un grande consenso a sostegno delle integrazioni

economiche e sociali che poi avrebbero portato alla nascita dell'Unione Europea, le

questioni riguardanti la politica estera non ebbero la stessa fortuna ed i sovranismi

continuarono a guidare il dibattito per tutti gli anni '90. - . Maastricht aveva comunque

portato al secondo pilastro della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC),

52 W.Wagner. The democratic legitimacy of ESDP. ISS Occasional Paper no. 57. Paris: EU Institute of Security Studies, 2005, p.5.

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affidandola al Consiglio Europeo; l'organismo sovranazionale per eccellenza, la

Commissione, era ridotta ad un ruolo marginale, avendo solo un ridotto ruolo d'iniziativa.

La pervicacia con la quale gli Stati difendevano le prerogative sovrane non lasciava spazio

ad ulteriori margini di movimento: il quadro che usciva era fortemente intergovernativo, ma

non comunitario o ancor meno sovranazionale53.

Le frizioni e le inefficienze, specie durante le crisi balcaniche, avrebbero indotto i governi a

introdurre alcune modifiche dal Trattato di Amsterdam in poi, in vigore dal 1999.

L'istituzione dell'Alto rappresentante dell'UE avrebbe garantito continuità, visibilità ed

efficacia all'Unione e alle sue relazioni esterne54. I paesi più refrattari ad una compiuta

politica estera e di difesa comune, capeggiati dalla Gran Bretagna non volevano

abbandonare l'esclusiva sovranità in tale ambito, né correre il rischio di infastidire l'alleato

d'oltreatlantico.

Il vero atto fondatore della Politica Europea di Sicurezza e di Difesa (PESD) va fatto

risalire al novembre 1998 a Saint Malô, quando Blair e Chirac si accordarono sull'obiettivo

di dotare l'UE della capacità di agire in propria autonomia, appoggiandosi su forze militari

credibili55.

La difesa europea consentiva alla Gran Bretagna, storicamente in condizione di relativa

marginalità nel processo d'integrazione europea, di assurgere in seno all'UE ad un ruolo di

leadership in una sfera così importante e significativa. Ciò le avrebbe consentito in

qualche modo di controllare dall'interno il progetto, salvaguardando la NATO, i rapporti

transatlantici, la special relationship con gli Usa e l'approccio intergovernativo. Una PESD

autonoma ed in parte sovranazionale avrebbe potuto creare problemi alla potenza

americana, allora in un'epoca unilaterale. Se era vero per la Francia che essa aveva visto

nell'Europa unita un modo per poter contare di più a livello internazionale, era altrettanto

vero che in quel dominio, della difesa e della sicurezza, vedere le istituzioni comuni

ottenere qualche diritto era pressoché inaccettabile. Però in Francia si era andati verso

uno spostamento più marcatamente federalista, anche perché in un contesto europeo a

25, poi 27-28, si riduceva il margine di manovra ed influenza, specie con la natura

intergovernativa del decision-making56.

53 Il voto all'unanimità era l'ostacolo primario, in quanto offriva il diritto di veto ad ogni Stato, in ogni decisione su ogni materia.

54 Finalmente, con qualche anno di ritardo gli europei avrebbero dato il numero di telefono dell'Europa, come era stato provocatoriamente richiesto da Henry Kissinger qualche anno addietro.

55 La dichiarazione finale del summit di Saint-Malô è consultabile nel sito dell'Iss-Eu (www.iss-eu.org).

56 A tal proposito va sottolineato quello che ebbe a dire Zbigniew Brzeznski, uno dei più fini ed

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Va ancora rimarcato il livello di autonomia e sovranità che francesi e inglesi rivendicavano

per la difesa europea, per comprendere appieno le linee di faglia che attraversano i Paesi

europei; mentre gli inglesi privilegiavano l'obiettivo dell'efficacia militare nelle gestioni delle

crisi e la complementarietà con l'Alleanza Atlantica, a Parigi si dava risalto alla credibilità

dell'Europa politica ed al consolidamento dell'Unione come potenza globale, in un mondo

in trasformazione57. Anche dopo Saint Malô erano presenti due visioni, non del tutto

componibili, d'Europa. Una, promossa dagli inglesi, voleva che l'UE fosse credibile

militarmente, ma all'interno del quadro atlantico. L'altra, quella francese, di ispirazione che

potremmo definire post-gollista, desiderava un ruolo globale e di grande potenza per

l'Europa, autonoma da Washington. Gli Usa, per bocca dell'allora segretario di Stato

Madeleine Albright, mostravano la consueta ambivalenza nei confronti delle costruzioni ed

integrazioni europee; se da una parte accoglievano con favore che i Paesi europei

volessero migliorare la loro efficacia e la loro capacità militare, che rispondeva agli

interessi strategici di "divisione del lavoro", dall'altra temevano, nonostante le

rassicurazioni della Gran Bretagna, che a lungo andare l'autonomia richiesta dagli europei

avrebbe disimpegnato il continente dalla NATO. L'Albright ammoniva gli europei nel non

cadere nei rischi delle cosiddette tre "D", ovvero di non disgiungere la sicurezza europea

da quella americana, di duplicare le strutture alleate già esistenti (NATO) e di non

discriminare i membri NATO che non facevano parte dell'UE, come la Turchia. Gli Usa

avrebbero accettato qualunque accordo sulla sicurezza e difesa europea a patto e

condizione che non si mettesse in discussione il principio della "NATO first"58.

Qualche anno dopo al vertice di Helsinki furono definiti gli organi politici e militari

dell'Unione:

1) Un Comitato politico e di sicurezza (COPS), formato da rappresentanti nazionali e alti

funzionari, le cui funzioni sarebbero state quelle di monitorare la situazione

influenti strateghi americani alla fine degli anni '90: " Una Ue più grande assieme ad una NATO allargata saranno utili per gli interessi della politica americana tanto nel breve quanto nel lungo termine. Una Ue più estesa accrescerà il raggio d'influenza americana senza che al tempo stesso si formi una Ue integrata dal punto di vista politico al punto da costituire un serio rivale per gli Stati Uniti in questioni di importanza strategica, specialmente per quel che rigurda il Medio Oriente". Inoltre : "Finché le nazioni europee alleate restano strettamente dipendenti dalla protezione americana, ogni espansione del raggio d'azione politico dell'Europa è automaticamente anche un'espansione dell'influenza statunitense". In Z. Brzeznski, "A geostrategy for Eurasia", in D.L. Boren, E.J. Perkins jr. (a cura di), Preparing America's Foreign Policy for the 21st Century, University of Oklahoma Press, Norman, Oklahoma, 1999, pp. 311 e ss.

57 N.Gnesotto, La politica di sicurezza e difesa dell'UE. I primi cinque anni (1999-2004), Istituto di studi per la sicurezza, Parigi, 2004, p.15.

58 Cfr. con M. Clementi, L'Europa e la politica mondiale, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 159-165.

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internazionale e contribuire a definire le politiche in ambito PESC e PESD, formulando

avvisi e consigli al Consiglio Europeo; nel caso fosse stato decretato un intervento

militare dell'UE, in risposta a delle crisi, al COPS erano demandati sia un controllo

politico che la direzione strategica;

2) Un Comitato militare (CMUE), composto dai Capi di Stato Maggiore della Difesa dei

paesi membri, che avrebbe offerto consulenze tecniche e raccomandazioni, esercitando

la direzione militare in caso di intervento UE in crisi internazionali;

3) Stato maggiore (SMUE) che avrebbe avuto la funzione di fornire consulenza tecnica e

sostegno in campo militare alla PESD59.

In quella sede gli inglesi avevano ottenuto il riconoscimento che i membri della NATO non

facenti parte del'UE, avrebbero potuto partecipare alle operazioni dell'Unione, con gli

stessi diritti e doveri dei suoi membri: era una chiara vittoria per gli anglo-americani che

non avrebbero visto "duplicazioni di strutture alleate" ed inutili sovrapposizioni. Nei primi

anni duemila il quadro normativo permaneva sostanzialmente intergovernativo: la regola

era quella del consenso, ovvero dell'unanimità. Il Trattato costituzionale firmato a Roma il

29 ottobre 2004, poi bocciato dai referendum in Francia e Olanda, teneva conto delle

novità in ambito PESD, fra cui la fondazione dell'European Defense Agency, istituita per

ottimizzare la capacità degli Stati membri nel settore della difesa e della sicurezza, in

quattro ambiti: sviluppo delle capacità difensive, promozione della tecnologia e della

ricerca tecnologica per la difesa, promozione della cooperazione nel settore degli

armamenti, creazione di un mercato europeo di attrezzature per la difesa e rinvigorimento

della base tecnologica ed industriale della difesa europea, con a capo l'Alto

Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Come vedremo nel prossimo

capitolo il Trattato di Lisbona imprimerà una svolta verso quella che diventerà Politica di

Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), non più PESD o secondo l'acronimo inglese ESDP,

ma Common Security and Defense Policy.

59 J. Howorth “The Political and Security Committee: A Case Study in ‘Supranational Inter-Governmentalism" . ”Les Cahiers Européens, Sciences Po 1, 2010, pp. 1–24.

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3. Difesa e sicurezza di fronte alle sfide globali del terzo millennio

La fine della guerra fredda ed i due decenni che seguirono portarono, nell'agenda

internazionale, nuove prospettive in termini di sfide e opportunità che assunsero presto

una chiara dinamica intrastatuale e una dimensione transnazionale. Il terrorismo

internazionale, i traffici illeciti di droga, armi, esseri umani e il crimine organizzato pongono

nuove sfide all'autorità statuale e sono esempi, così come guerre civili e violenze intra-

statuali, della natura multidimensionale delle minacce alla sicurezza internazionale e alla

stabilità. L'allargamento dell'UE, tra il 1995 e il 2014, che è equivalso al duplicarsi della

sua grandezza, è stato un fattore d'impedimento per la formalizzazione di regole comuni a

tutti gli stati membri riguardo al decision-making e ai processi di costruzione e

dispiegamento delle operazioni di pace. Il declino acuto della spesa militare strettamente

collegato alla crisi economico-finanziaria del 2008 ha avuto un profondo impatto

nell'Unione ma, ciononostante, la discussione circa la necessità di una componente

difensiva più forte ed efficiente entro la Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) ha

guadagnato un certo rilievo, particolarmente dopo gli eventi ucraini. Addizionalmente, le

diversità tra gli Stati membri, con riguardo a quanto ambiziosa e intraprendente dovrebbe

essere la promozione della pace attraverso mezzi civili e militari, ha contribuito ad acuire la

carenza di consenso. Infatti, vari paesi europei continuano ad avere differenti framework

normativi per le missioni civili ed un unico livello di partecipazione con le missioni europee,

altrettanto differente volontà e capacità per il dispiegamento di forze in conflitti complessi.

Tuttavia la sostituzione del termine "europea" con il termine "comune", dopo il Trattato di

Lisbona, è un esempio di come le nuove dinamiche istituzionali concernenti la PSDC

possibilmente rifletteranno un cambio effettivo nei processi di decision-making. Come già

precedentemente accennato, minori progressi sono stati fatti per rimuovere gli ostacoli

politici e culturali e principalmente, l'assenza di una comune percezione tra gli stati membri

delle minacce o degli obiettivi delle politiche o ancora i mezzi richiesti per raggiungerli. La

diversità di visioni sull'uso della forza, le diverse tradizioni di difesa e i divergenti interessi

geopolitici tra gli stati membri, specie tra i più significativi, pongono un'evidente e

insormontabile sfida alla costruzione di una comune cultura strategica, requisito

necessario per una strategia europea tout court.

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3.1 Relazioni tra la politica estera dell'Unione e la Politica di Sicurezza e Difesa

Comune

La PSDC non è un'autonoma politica europea, ma piuttosto una nuova serie di procedure

e capabilities per il miglioramento e il completamento della politica estera dell'Unione.

Soggetta alla volontà politica dei governi, la PSDC consente all'Unione di incrementare i

suoi contributi alla sicurezza globale. Prima della creazione della PSDC, l'UE aveva già

sviluppato un'ampia serie di azioni in politica estera. A titolo esemplificativo, l'UE: riduceva

o eliminava del tutto le tariffe sulle importazioni dei Paesi in guerra (Afghanistan, Iraq),

paesi minacciati dalla guerra (Sudan) o vittime di disastri naturali (Pakistan); negoziava

accordi di cooperazione e commercio con Seul; accordi di non proliferazione di armi di

distruzione di massa (Iran e Siria); provvedeva agli aiuti verso circa 160 Paesi; forniva

assistenza umanitaria (Somalia, Haiti) per rispondere a disastri naturali, sottosviluppo,

carestie, malattie e ai bisogni dei rifugiati o degli sfollati interni. L'ECHO spende

annualmente più di 700 milioni di euro negli aiuti a 85 Paesi, subappaltando la

distribuzione ad agenzie ONU ed ONG; l'Unione ha imposto sanzioni diplomatiche,

commerciali (embargo, divieto d'ingresso nel proprio territorio, congelamento dei beni) a

leader, persone influenti o organizzazioni di quei Paesi che si supponga violino norme

globali (Bielorussia, Fiji, Hamas, Iran, Libia, Myanmar, Corea del Nord, Sri Lanka,

Uzbekistan, Zimbabwe) ed infine ha disposto delle missioni di monitoraggio elettorale in

quasi tutti i continenti.

La politica estera dell'Unione Europa non è che una proiezione esterna di quei valori e

norme condivise lungo lo spazio europeo. Esempi di posizioni ed azioni di politica estera

value-based includono opposizioni attive alla pena capitale, supporto per il funzionamento

e l'efficacia della Corte Penale Internazionale, sostegno per la protezione da abusi dei dati

raccolti dalle compagnie aeree nella lotta contro il terrorismo ed i crimini transnazionali;

partecipazione e leadership del processo di Kimberley per porre fine al commercio illegale

dei diamanti. In definitiva la logica ed i principi dietro la PSDC sono quelli di espandere gli

strumenti a disposizione dell'UE per offrire una sempre crescente e differenziata gamma di

opzioni in contesti globali sempre più complessi ed asimmetrici.

I governi e i primari organi dell'UE stessi sono le fonti più importanti di decisioni

concernenti la politica estera e la PSDC - a loro volta influenzati da un insieme di pressioni

nazionali ed internazionali affinché si rinunci o ci si adoperi per un'azione collettiva. Due

esempi che si potrebbero rammentare sono il caso della Georgia e quello della Repubblica

Democratica del Congo.

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Il presidente francese in quanto presidente temporaneo del Consiglio Europeo offrì i suoi

"good offices", a nome dell'UE, per mediare il conflitto russo-georgiano ed aiutare al

raggiungimento di un cessate il fuoco.

Nel 2006 invece la Germania, assumendo la responsabilità della pianificazione e gestione

della missione militare in Congo a cui contribuì con 1/3 del contingente ed 1/5 del costo

della missione, non realizzava un suo interesse strategico ma quello della Francia e del

Belgio; il suo ruolo di leadership era quindi solo il risultato della forte pressione diplomatica

ed informale esercitata dai partners.

I governi nazionali non sono gli unici input nel sistema europeo di politica estera. Gruppi

d'interesse, lobby, Ong e partiti politici interni all'Unione che possiedono speciali interessi

esterni che sono perseguiti a livello europeo (p.es. Il partito dei Verdi tedesco esercitò

pressioni sull'Unione per una presa di posizione energica alle negoziazioni sul protocollo

di Kyoto nel dicembre 2009, alla conferenza Onu sul cambiamento climatico a

Copenaghen). Le organizzazioni internazionali esterne all'Unione spesso spingono l'UE ad

agire e prendere parte attiva in azioni di politica estera e di sicurezza, come quando le

stesse Nazioni Unite chiedono all'Europa di dispiegare operazioni di PSDC in Africa. Altri

governi stranieri influenzano altrettanto il processo decisionale dell'UE, come quando la

Cina pressò l'Unione affinché ponesse fine all'embargo di beni militari nei confronti di

Pechino (imposto dopo l'inasprimento delle proteste studentesche del 1999) e gli Stati

Uniti, dal lato opposto, pressavano l'Unione affinché lo mantenesse. Il governo russo

bloccò i pattugliamenti della missione di monitoraggio europeo in Georgia, negando

l'accesso all'Ossezia del Sud e all'Abkhazia, in violazione degli accordi che avevano

condotto alla cessazione delle ostilità nella regione. Da parte loro le organizzazioni non

governative cercano d'influenzare il processo decisionale esterno dell'Unione (Amnesty

International e Human Rights Watch) e spesso operano in subappalto per implementare i

programmi umanitari europei (Oxfam, International Rescue Committee, Medici senza

frontiere). Un ulteriore input al processo decisionale PSDC viene dal "Committee of

Contributors" (CoC), un gruppo ad hoc di contributori europei ed extra-europei che

prestano dipendenti alle operazioni di gestioni di crisi e che vengono assunti come

consulenti per delineare ed imbastire le operazioni.

I contributori non europei, specie Stati Uniti e Turchia, vorrebbero che il comitato abbia un

ruolo più influente, argomentando che il CoC è marginalizzato, con un ruolo minimo nella

struttura decisionale del PSDC.

Come precedentemente accennato, la governance sulla sicurezza globale si riferisce ai

processi di cooperazione, negoziazioni ed interazioni tra attori statuali, organizzazioni

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internazionali, ONG, per rafforzare la stabilità e la sicurezza per gli Stati, i gruppi sociali e

gli individui. Nel contesto della governance sulla sicurezza globale, nuovi approcci e

concetti stanno creando ed hanno creato neologismi, come sicurezza umana, sicurezza

comprensiva e "responsibility to protect".

L'UE ha tutto il potenziale per intraprendere politiche e dislocare una serie di operazioni

indirizzate alle nuove minacce alla sicurezza. C'è un grande interesse fuori dall'Unione su

come essa potrebbe contribuire alla governance della sicurezza. In aggiunta all'ONU e alla

NATO, l'UE, l'Unione Africana ed una serie di attori appaiono indispensabili per rinvigorire

la sicurezza nelle aree di conflitto. In svariate regioni del mondo si guarda all'UE come un

contributore imprescindibile alla sicurezza internazionale. Ci sarebbero una pletora di

azioni da intraprendere per rendere sicuro il mondo, con così pochi attori trasparenti,

disponibili e capaci d'aiutare alla prevenzione e alla fine dei conflitti, delle disuguaglianze

che poi stanno alla base di questi, ed ingaggiare percorsi di stabilizzazione post-conflitto,

nonché rispondere nelle maniere più adeguate alle minacce asimmetriche. L'Unione sta

guadagnando terreno e riconoscimento come fornitore sui generis di sicurezza globale,

perché rispettosa dei principi legali del diritto internazionale che regolano l'uso della forza.

Lo schieramento di operazioni di PSDC per la gestione di crisi militari solitamente rispetta

le richieste e i mandati degli organi delle Nazioni Unite e rientra organicamente nella

concezione di "multilateralismo effettivo" dell'Unione. Nonostante vi sia la consapevolezza

che alcuni stati releghino l'azione comune a mero uso parziale e strumentale, frenando o

spingendo soltanto sulla base dei propri stringenti e contingenti interessi interni, l'Unione

Europea, quale attore primario di sicurezza globale, e il suo impegno nel supporto delle

corti o dei tribunali ad hoc per l'efficacia della giustizia criminale internazionale dimostrano

quanto essa sia catalizzatrice di un concetto di sicurezza inglobante l'intera società

internazionale, la comunità delle nazioni e dei popoli, delle minoranze e delle società civili.

Gli scontri e le divergenze tra Stati piccoli e grandi, tra il personale civile e militare, tra il

personale nelle strutture di gestione crisi della PSDC e nella Commissione e i funzionari

del nuovo Servizio Europeo per l'Azione Esterna, sono soltanto la punta dell'iceberg di più

estese divergenze sulle priorità interne degli Stati membri, di dinamiche personali

individuali, sulle politiche burocratiche, di distanze che si accentuano quando occorre

adottare procedure organizzative standard o, ancora, quando devono essere regolati gli

accessi alle risorse e alle capabilities. La competizione sulle idee e le risorse è insita nella

natura della politica, così come in ogni processo decisionale si perseguono più fini settari e

di parte, rispetto a quelli collettivi ed istituzionali. L'UE non è uno Stato con una politica

estera statale, questo dovrà essere costantemente messo in chiaro, ma è una comunità

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politica disordinata, ancor più all'indomani del Brexit, ed in costante pressione centrifuga

da parte di alcuni Paesi o partiti politici interni. Per ogni processo decisionale occorre

conciliare una miriade di interessi prima di giungere ad un compromesso che possa

lanciare un'operazione di PSDC.

Giacché l'Unione implementa la sua politica estera e le operazioni di PSDC nella corrente

rapida degli affari globali, essa ha difficoltà, in quanto coacervo di Stati, ad agire

strategicamente ed agilmente. Spesso la stessa inazione può essere vista con occhi più o

meno critici; non sempre significa debolezza, indecisione o inettitudine ma semplicemente

la decisione conclusiva di mantenere atteggiamenti prudenti in determinati crisi anche se

questo potrebbe attirare le critiche di chi vede in ciò l'utilizzo di due pesi e due misure,

specie quando non sono in gioco interessi europei generali.

Ciò detto, i funzionari della PSDC e della Commissione spesso sviluppano relazioni

lavorative efficaci e produttive trovando modi pragmatici di cooperazione anche in assenza

della guida, ambigua talvolta, di Bruxelles. Gli Stati membri concordano sul fatto che vi sia

un gap visibile nelle capacità dell'Unione di impegnarsi in pianificazioni della difesa e della

sicurezza strategica. Nella fase di implementazione del Trattato di Lisbona, l'UE e i

funzionari dei Paesi membri hanno stipulato che vi sarà necessità di ridurre il numero di

operazioni PSDC e di ottimizzare gli sforzi europei per focalizzarsi in un numero minore di

operazioni60. Questo cambio significherà il lancio di operazioni in Paesi dalla grande

importanza strategica per tutta l'UE o per la maggior parte dei paesi membri o dei suoi

membri più influenti, nonché dove gli interessi europei siano evidentemente in gioco e

dove ci sia un gap di sicurezza rilevante. I Paesi membri hanno raggiunto queste

conclusioni in seguito al vaglio dei primi dieci anni e più di operazioni di PSDC. C'è ancora

una questione aperta circa il grado di moltiplicazione degli effetti positivi sulla politica

estera europea che avrà il Trattato di Lisbona, spostando l'Unione dal ruolo di assistente

alla sicurezza di nicchia ad un più strategico ruolo d'attore globale. Nel breve termine, è

improbabile che il nuovo Servizio Europeo d'Azione Esterna sarà capace di prevalere sugli

scontri tra gli interessi statuali in modo tale da dare una coerenza alla politica di sicurezza

ed estera europea. Nel medio-lungo termine, il raggiungimento di una politica estera e di

difesa comune e strategicamente condivisa non solo è auspicabile, ma anche possibile.

La politica estera europea, come diversi altri settori sovranazionali, sono tutti dei cantieri

aperti, processi in fieri, influenzati e inficiati da forze endogene ed esogene, sia previste

che inaspettate.

60 Cfr. con Roy H. Ginsberg , Susan E. Penksa, The European Union in Global Security. The Politics of Impact, Palgrave MacMillan, Basingtoke, 2012.

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Quantunque l'UE non abbia sviluppato una cultura strategica, ha operato e continuerà ad

operare in un mondo di attori strategici, considerando che le istituzioni esterne all'Unione e

gli Stati trattano l'Europa come un interlocutore cruciale nella sicurezza globale e di

conseguenza come un attore strategico. Allo stesso tempo, poiché l'Unione non parla con

un'unica voce, essa non agisce strategicamente con una serie di politiche e principi

unificati. Questo vincola la sua efficacia nella governance della sicurezza globale.

Altri attori pongono in rilievo la consistenza dell'Unione e l'agilità a sostenere interessi ed

implementare politiche verso le più disparate regioni del mondo. Sebbene l'Unione fosse il

leader durante i colloqui internazionali sugli aspetti militari del programma di arricchimento

nucleare iraniano, essa non parla ancora con un'unica voce con la Russia, a torto o a

ragione, su molte questioni chiave, specialmente sulla sicurezza energetica o, ancora,

sulla visione delle relazioni con il Pakistan. Le sue relazioni con la Cina sono ancora poco

sviluppate e solo da poco sta emergendo un dialogo strategico-commerciale relativo alla

"New Silk Road Economic Belt", uno dei programmi che interesserebbero pienamente

l'Europa e i suoi commerci, inseriti nel più vasto progetto globale cinese, "One belt, one

road". Con Washington vi sono elementi di partnership e competizione, come a fasi alterne

vi sono sempre stati dagli anni'40 ad oggi. Per concludere, l'UE è ingabbiata nel dilemma

tra l'ambizione di essere un attore securitario globale, così come riconosciuto dagli altri

attori, e le limitazioni politico-istituzionali che abbiamo summenzionato, che frenano e

vincolano un effettività più ampia ed incisiva a livello interno.

3.2 Verso una maggiore integrazione europea della sicurezza

All’alba del ventunesimo secolo il rinquadramento della minaccia transnazionale del

terrorismo come fenomeno di rete ha reso necessaria una maggiore cooperazione

internazionale ed ha fornito un pretesto per l'accelerazione di processi legislativi61. Dopo

l'11 settembre, proprio mentre aumentava la condivisione delle informazioni attraverso

l'atlantico, emerse palesemente l'ampio divario che separava la visione del mondo degli

europei e degli americani.

61 M. Den Boer, 9/11 and the Europeanisation of Anti-Terrorism Policy: A Critical Assessment. Policy Paper 6, Paris: Notre Europe, 2003.

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L'opportunità per l'Unione di definirsi autonoma e contraria a quanto si decideva a

Washington diede un'ulteriore spinta agli sforzi europei di guadagnare autonomia nella

protezione di se stessa e divenire un attore decisivo al di fuori della propria sfera

geografica62. Questa atmosfera innescò una serie di iniziative, inclusa la "Declaration on

Combating Terrorism", l'"European Security Strategy" (ESS, anche conosciuta come

"Solana document"), e la "Clausola di Solidarietà", la quale prometteva che nel caso uno

Stato membro fosse stato vittima di un attacco terroristico o altri disastri umani e naturali,

gli altri sarebbero accorsi in aiuto.

Ma le esigenze di breve periodo non erano abbastanza per costruire un non collaudato

ordine sovranazionale perché la sicurezza è elemento fondamentale della sovranità

nazionale63. La divisione della dimensione interna/esterna ha in larga parte perso la sua

importanza come concetto analitico e come linea-guida politica per le azioni di sicurezza

europea64.

L'UE può essere un attore della sicurezza con significativo potere militare, perfino in

mancanza di un proprio esercito europeo. I governi degli Stati membri possono

regolarmente parlare con una sola voce in politica estera senza formalmente rinunciare

alla sovranità nazionale in quest'area. Perfino nei settori di sicurezza maggiormente

intergovernativi, le decisioni non sono prese nelle sole capitali, e i processi alle spalle di

esse abbracciano sia l'hard che la soft integration. In questa contingenza storica il

raggiungimento di qualche livello di cooperazione sulla sicurezza può apparire

significativo.

Come più volte evidenziato già nel corso di questo lavoro, i Paesi membri hanno una

storia differente, tradizioni, visioni del mondo e delle minacce profondamente differenti

quando si tratta di difendere i propri cittadini o vedersela con il bisogno di bilanciare la

sicurezza con le libertà civili. Perfino più decisive appaiono le differenze nelle culture legali

nazionali – tra civil law e common law – che conducono verso una serie di ulteriori

distinzioni in termini di sistema delle corti e procedure penali. Gli Stati membri sono pure

dissimili quando si giunge a dover scegliere sugli impegni nelle azioni esterne e il tipo

d'azione da intraprendere. Alcune nazioni enfatizzano l'aspetto militare delle proprie

capacità, mentre altri con orgoglio mostrano i loro maggiori contributi civili. Singolarmente

62 J. Howorth,J.T. S. Keeler, eds. Defending Europe: The EU, NATO, and the Question for European Autonomy. New York: Palgrave Macmillan, 2003.

63 V. Mitsilegas, J. Monar, W. Rees. The European Union and Internal Security: Guardian of the People? (One Europe or Several?). Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2003.

64 Cfr. con M. Ekengren,“Terrorism and the EU: The Internal-External Dimension of Security.” In The European Union and Terrorism, ed. David Spence. London: Harper, 2007, 30-53.

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la Germania, la Polonia, la Francia, il Regno Unito, la Spagna e l'Italia hanno più personale

militare a loro disposizione di quanto non ne abbiano, complessivamente, Malta, Cipro,

Lussemburgo, Lettonia, Slovenia ed Estonia. Alcuni Stati come Svezia, Finlandia, Francia,

Germania, Slovenia, Ungheria e Belgio, pongono l'accento sull'importanza della PSDC

come strumento d'influenza, mentre altri – come visto nel summit di Varsavia dell'8 luglio –

auspicano e pressano per un ruolo sempre più ampio della NATO e sullo schieramento di

battaglioni nell'Europa Orientale.

Ma continuiamo a ripetere che nonostante queste spinte centrifughe, gli Stati membri

dell'UE continuano ad agognare al raggiungimento di nuovi e sempre più avanzati livelli di

cooperazione ed integrazione.

Proviamo ad inquadrare adesso le aree della sicurezza dove gli europei sembrano

cooperare al meglio.

Nel caso del terrorismo e del crimine organizzato la polizia e le autorità giudiziarie

lavorano in cooperazione in modi diversi e stanno provando ad allineare i rispettivi sistemi

penali e di giustizia nazionali. Il Mandato di cattura europeo, ad esempio, consente alla

polizia di emettere mandati validi attraverso l'Unione per individui sospettati di terrorismo o

altri gravi crimini, anche se le violazioni sono definite differentemente. La polizia in

qualsiasi altro Stato membro, potrebbe arrestare e detenere sospettati, a prescindere dalla

sua nazione d'origine. Effettivamente, questo principio va ben oltre il principio di mutuo

riconoscimento degli ordinamenti per un'armonizzazione legislativa attraverso i Paesi

membri65. L'European Evidence Warrant, sulle prove, concede alle corti statali il potere di

richiedere che altri Stati membri forniscano prove relativamente a taluni casi. In quest'area

il mutuo riconoscimento degli ordini giudiziari, consente alle autorità di congelare e/o

confiscare beni. Infine, le politiche come il congelamento dei beni dei terroristi o presunti

tali e la prevenzione del riciclaggio di denaro, sono interessi primari. Queste aree, come

altre, rappresentano l'hard integration. Una delle aree chiave di soft integration rapida, è il

regno delle attività della polizia. Europol agisce come attore di primo piano, a livello

sovranazionale, indirizzandosi a tutti i crimini più gravi concernenti più di uno Stato

membro così come qualsiasi questione relativa al controterrorismo. Europol ha uno staff di

più di 500 dipendenti ed un budget di oltre 90 milioni66. Mentre Europol non conduce

investigazioni in proprio, prepara però analisi strategiche e valutazione delle minacce,

facilitando lo scambio di informazioni con gli Stati Uniti, mantenendo diversi ed estensivi

65 W.Rees, “Inside Out: The External Face of EU Internal Security Policy.” European Integration 30:2008,pp. 97–111.

66 https://www.europol.europa.eu/content/budget-and-staff-establishment-plan-2015.

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database. Esso inoltre semplifica il coordinamento tra le varie autorità giudiziarie e di

polizia, nazionali. All'interno dell'Europol opera il Police Chiefs Operational Task Force,

che discute le migliori strategie, i trend criminali, la pianificazione delle operazioni e il

coordinamento dei joint investigation teams, composti da autorità di polizia e giudiziarie

degli stati membri che si occupano del medesimo crimine.

Lo European Police College dell'UE raccoglie insieme ufficiali di polizia da tutta Europa,

per meglio sviluppare le reti, organizzare iniziative di training e condurre ricerche.

In aggiunta al sistema Europol, la polizia può anche condividere informazioni su crimini e

criminali con altri network; uno è lo Schengen Information System, effettivamente uno

strumento legale comune di rafforzamento, che permette ai Paesi membri di integrare i

loro sforzi e porre fine ai crimini transfrontalieri. Esso dispone di un database con più di 14

milioni di dati sui movimenti di individui ricercati per vari crimini, registrazione di dati relativi

a veicoli e permessi di soggiorno. Un'altra rete è il Counterterrorist Group, che riunisce

insieme i capi delle intelligence nazionali.

Gli stati membri hanno adottato il principio di disponibilità, che significa un accordo per

rafforzare la condivisione di informazioni tra le agenzie attraverso l'Europa, in accordo agli

stessi standard che sono applicati entro i singoli stati membri. Molte altre misure specifiche

si indirizzano verso la condivisione di informazioni su sospette transazioni finanziarie,

passaporti rubati o persi, richiedenti asilo, impronte digitali, fotografie o immigrati illegali.

Tuttavia quello che preme rammentare, è il fatto che non tutte le aree stanno mostrando

segni di armonizzazione o integrazione. Europol non ha l'autorità di fermare, ricercare o

arrestare e i capi delle intelligence nazionali preferiscono ancora condividere informazioni

direttamente con i propri corrispettivi attraverso il Counterterrorist Group, piuttosto che

attraverso Europol67. Sia Europol che Eurojust, dispongono di unità dedicate al

controterrorismo ed il Consiglio ha un coordinatore del contro terrorismo (CTC), che

supervisiona tutti gli aspetti delle politiche di contro terrorismo, specialmente quelle che

ricadono sul Action Plan on Combating Terrorism e la Strategia di controterrorismo dell'UE.

Il CTC si affida agli ambasciatori del Comitato dei Rappresentati permanenti per

monitorare i progressi nella strategia, fornire aggiornamenti e implementare le strategie di

follow up.

La Commissione, il Parlamento ed il Consiglio si riuniscono ogni sei mesi per assicurare

una certa coerenza attraverso le istituzioni.

67 Cfr. con M. Anderson,“Internal and External Security in the EU: Is There Any Longer a Distinction?” In The Changing Politics of European Security, ed. Stefan Gänzle and Allen G. Sens, 31–46. Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2011. V. anche W.Rees. Transatlantic Counter-Terrorism Cooperation: A New Imperative. London: Routledge, 2006.

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La Strategia per combattere la radicalizzazione ed il reclutamento, è la componente

principale dell'Action Plan on Combating Terrorism ed include un numero di iniziative in

risposta ai consigli degli esperti sulla convivenza e l'integrazione delle comunità islamiche

in Europa.

Queste istituzioni a livello comunitario, come le unità antiterrorismo o il CTC, operano

grazie al fatto che gli stati membri hanno condiviso le stesse definizioni di reati terroristici.

Queste pratiche includono una lista di individui o gruppi considerati terroristici ed un

minimo di sentenze emesse per certi atti di terrorismo. Nell'accordarsi su una definizione

di terrorismo onnicomprensiva è abbastanza significativo che solo la Spagna, il Portogallo,

la Francia ed il Regno Unito avessere definito in modo soddisfacente da alcuni anni il

terrorismo.

Diverse nazioni, incluse il Belgio e i Paesi Bassi, non avevano neppure una legislazione

antiterrorismo. Oggigiorno gli Stati membri continuamente condividono informazioni sulle

proprie opinioni o convincimenti relativi al terrorismo, attenendosi spesso agli stessi

standard e concordando che quelle specifiche attività siano dei crimini. Le definizioni

comuni e la punizione per le attività terroristiche incarnano di già un percorso verso l'hard

integration e sono prerequisiti determinanti per lo sviluppo di uno spazio di sicurezza

europeo.

L'Unione dispone di diversi uffici istituzionali creati per affrontare le conseguenze di

attacchi terroristici e stabilire una cornice per una risposta integrata adeguata. Questi uffici

includono il Civil Protection Working Party del Consiglio, la Civil Protection Unit all'interno

del Direttorato generale dell'ambiente; il Monitoring and Information Centre della

Commissione, il Common Emergency and Communication and Information System, ed

infine l'Health Security Committee.

Particolare attenzione è stata data agli scenari riguardanti gli attacchi con armi non-

convenzionali. Il Community Mechanism for Civil Protection dell'UE, un'istituzione che è

pronta a rispondere nei casi di emergenza, mantiene un database di esperti in armi

chimiche, batteriologiche e nucleari e di esperti team di gestione delle emergenze. Il cuore

di questo Community Mechanism è il Centro informazioni e monitoraggio che è disponibile

ogni qualvolta si verifichi un disastro. Gli Stati membri dell'Unione sono abbastanza ben

integrati quando si giunge a regolamentazioni sulla sicurezza internazionale. Così gli

aeroporti seguono gli stessi standard di sicurezza (controllo passeggeri, training degli staff

e procedure di ispezione degli aerei).

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Il Parlamento Europeo ha approvato recentissimamente una direttiva68 relativa all'utilizzo

dei dati relativi ai codici di prenotazione (PNR Passenger Name Record) delle compagnie

aeree ai fini della prevenzione, accertamento, indagine ed azione penale nei confronti die

passeggeri sospetti di terrorismo o altri gravi reati. In generale i progressi ai vari livelli

nazionali non sono rapidissimi ma costanti ed ininterrotti.

Dalla fine della Guerra fredda, le forze armate in Europa hanno subito un graduale

processo di riforma. Invece di essere adoperate precipuamente per proteggere il suolo

europeo, gli eserciti sono stati trasformati in forze dinamiche e slanciate, capaci di

intraprendere missioni all'estero in aree di crisi riguardanti sostanzialmente l'intero globo.

Inoltre, gli eserciti europei sono stati recentemente dispiegati dai Balcani, al Medio

Oriente, all'Asia. Il fatto che i Paesi membri dell'UE siano 28 e che quest'area di policy

fosse in partenza la meno integrata, rende il processo di riforma davvero arduo.

I policymaker devono concepire strategie di risposta alle minacce, tenendo conto che le

minacce sono oggi diverse, non tradizionali – comprendenti campi di battaglia sconosciuti,

contro nemici difficilmente individuabili e attori non statali – e che vi sarà necessità di forze

interoperative. L'incertezza di conseguenza sorge proprio su come riformare le forze

armate e quanta integrazione o cooperazione siano possibili o perfino auspicabili. Ogni

Stato membro ha la propria agenda militare e definirà la sua minaccia e le sue priorità di

difesa, differentemente. Regno Unito e Francia rimarranno ancora entità politiche che

avranno la volontà e l'abilità politica di intervenire in operazioni in paesi terzi.

La PSDC sembra essere un contesto unico e possibile sotto la quale i Paesi membri

possano riconoscere i loro obiettivi comuni riguardo alle risposte unite alle crisi globali, a

prescindere dal livello di ambizione e di capacità. La convergenza politica e la coerenza

delle policies nazionali rimangono condizioni inevitabili per generare un efficace azione

comune a livello europeo69. È su questo principio che l'Europa non può derogare.

Gli Stati membri devono continuare verso sentieri di riforme militari e integrazione, poiché

gli studi sulle minacce, negli ultimi dieci anni, hanno indicato che l'utilizzo della forza

potrebbe crescere in misura sempre maggiore rispetto ad oggi. I Paesi europei non

possono permettersi di ridurre gli investimenti militari adesso che la natura delle minacce

alla sicurezza si allontana dal novero delle guerre convenzionali.

68 http://www.europarl.europa.eu/news/it/news-room/20160407IPR21775/PNR-il-PE-approva-la-direttiva-UE-sull'uso-dei-dati-del-codice-di-prenotazione

69G.Grevi. “ESDP Institutions.” In European Security and Defence Policy: The First Ten Years (1999–2009), ed. G.Grevi, D. Helly e D. Keohane, 19–68. Paris: EU Institute for Security Studies, 2009.

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Quasi tutti i Paesi europei hanno fatto della partecipazione militare alle missioni

internazionali un modo per incrementare la loro abilità, addestrando le proprie forze in

modo da operare in modo flessibile e battendosi per incrementarne le capacità.

Quantunque la responsabilità e la titolarità permanga nelle mani dei singoli Paesi, la

capacità europea di hard power non può essere la semplice somma delle sue parti. Se

ogni Paese schierasse un proprio contingente dell'esercito, esisterebbe un elevato livello

di duplicazione a meno che le forze armate non siano considerate come un tutt’uno.

Ancora, non tutte le capacità potrebbero essere disponibili per l'UE in ogni dato momento;

se, ad esempio, uno Stato membro avesse già impegnato un elicottero per una missione

NATO, esso non sarebbe più disponibile per eventuali azioni europee. Alla fine, ci vorrà

comunque l'ambizione e la volontà politica di contribuire ad un'operazione.

Sul versante dell'approvvigionamento della tecnologia militare, gli Stati perseguono una

soft integration. Tradizionalmente, ogni business sulla difesa ha come clienti solo i governi

nazionali. Poiché la tecnologia e il relativo equipaggiamento per la difesa sono

fondamentali per la strategia di sicurezza nazionale statuale, le nazioni europee sono state

spesso refrattarie all'idea di guardare alle nazioni terze per le proprie forniture. Oltre al

bisogno di influenzare la scelta dei fornitori della difesa, i governi devono fare in modo che

le spese dei contribuenti in qualche modo creino posti di lavoro, che servano al pubblico

interesse e proteggano le capacità nazionali in particolari aree di ricerca. Ancora, l'art. 296

del Trattato sull'Unione Europea, esenta il mercato per gli equipaggiamenti della difesa

dalle regole del mercato comune, consentendo ai governi di mantenere alti livelli di

protezionismo, rispetto alle proprie industrie della difesa.

I budget decrescenti per la difesa, attraverso l'Europa e la differente natura delle minacce

esterne, hanno condotto ad un graduale ripensamento del sistema tradizionale anche in

questo settore. Nonostante il processo sia cominciato diversi decenni fa, il tasso del

consolidamento industriale transfrontaliero è aumentato solo negli ultimi anni.

La tecnologia informativa ed aerospaziale sono aree che sono avanzate più rapidamente

rispetto ad altre. Il settore aereospaziale in particolare è uno dei settori maggiormente

integrati tra tutte le industrie europee. È un area di ricerca e di sviluppo di capabilities,

estremamente dispendiosa ed altamente politicizzata. Nondimeno, gli Stati membri hanno

concordato di integrare i loro sforzi per produrre Galileo, l'equivalente europeo del sistema

di posizionamento statunitense, prevedendone il suo completamento entro la fine del

2019. I Paesi membri diedero alla Commissione Europea l'autorità di gestire il programma,

che avrebbe richiesto il lancio di 32 satelliti e anni di ricerca e sviluppo.

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Questa nuova tecnologia avrà chiaramente sia applicazioni civili che militari, e beneficerà

sia la sicurezza interna, che quella esterna. A causa dei costi e dei rischi, l'UE sta

lavorando fianco a fianco con l'Agenzia Spaziale Europea ed altri paesi70 per accelerarne i

tempi e la messa in funzione. Mentre certe sfide rimangono e alcuni ritardi

nell'implementazione sono già avvenuti, Galileo rappresenta un livello significativo di

volontà d'integrazione nel settore aerospaziale europeo. Più in generale l'Agenzia europea

di Difesa ha incoraggiato contratti congiunti, acquisizioni transnazionali e collaborazioni

attraverso il suo Codice di Condotta. Allo stesso modo, la Commissione europea ha

incoraggiato un'integrazione soft in quest'area, proponendo l'armonizzazione delle licenze

attraverso gli Stati membri in modo tale che le transazioni attraverso i confini siano

armoniose. La Commissione ha anche enfatizzato che il ricorso all'articolo 296 dovrà

essere dimostrato dagli Stati membri ogni qual volta lo si vorrebbe invocare. Le singole

nazioni hanno l'onere di provare che i contratti di acquisizione rientrino nei loro interessi

essenziali, piuttosto che assumere che i contratti relativi alla difesa siano esenti dalle

regole del mercato comune71. Queste misure, specialmente quelle portate avanti

dall'Agenzia di Difesa Europea, sono volontarie e non vincolanti. Nondimeno il

consolidamento d’industrie per la difesa di eccellente livello così come i programmi

collaborativi transnazionali si sono verificati sempre più nell'area della ricerca, dello

sviluppo e delle acquisizioni. A titolo esemplificativo compagnie aereospaziali europee

italiane, spagnole, francesi e tedesche, hanno collaborato nella produzione del Eurofighter

Typhoon.

Questi sviluppi non solo creano economie di scala ma consentono la futura interoperabilità

delle operazioni multinazionali e stendono i lavori preparatori per norme comuni sulla

sicurezza e l'eventuale emergere di una comune cultura strategica. Tutti questi

avanzamenti forniscono delle prove per un processo ininterrotto d’integrazione soft

nell'area degli approvvigionamenti.

Analogamente, vi sono numerose vie attraverso le quali la cooperazione è decollata sotto

l'etichetta della PSDC consentendo all'UE di potersi qualificare come una classica

alleanza di sicurezza72.

70 In merito al Programma Galileo l’UE ha firmato accordi con Cina (2003), USA (2004), Israele (2004), Corea del Sud (2006), Ucraina (2006), Marocco (2006), Norvegia (2010), Tunisia (2012) e Svizzera (2013) e ne sta discutendo altri con Russia, Brasile, Cile e Argentina.

71 Cfr. con European Military Capabilities: Building Armed Forces for Modern Operations. London: International Institute for Strategic Studies, 2008.

72T. Salmon. “The European Union: Just an Alliance or a Military Alliance?” Journal of Strategic Studies 29 (2006): pp. 814–42.

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Ma ciò che è importante riconoscere è che queste aree e livelli di cooperazione si

estendono ulteriormente, perfino con il raggiungimento di qualche grado di

sovranazionalismo. Prima di tutto, nelle aree di gestione di crisi civili e militari, commissioni

e gruppi di lavoro nel Consiglio determinano l'appropriata armonizzazione dei due

strumenti e li integrano nella maniera più ampia nella fase di pianificazione: ad esempio

nell'area di focus della PSDC uno degli obiettivi è la riforma del settore di sicurezza in

nazioni terze – ricostruendo le strutture statuali in modo che si conformino alla buona

governance e agli standard internazionali sui diritti umani. Alcune riforme richiedono

spesso l'intervento preventivo dei militari, seguito poi dal coinvolgimento civile e di

expertise. Le commissioni o i comitati e i working group coinvolti nel bilanciamento e

nell'integrazione delle dimensioni civili e militari sono formalmente intergovernativi, anche

se talvolta includono forti comunità epistemiche che esercitano indipendentemente dagli

Stati. In secondo luogo, l'UE formalmente coopera nella produzione degli armamenti,

capacity building, e nella ricerca di fortificare le proprie capacità difensive. In pratica, in

quest'area esiste la soft integration.

Nel corso del tempo tutte le parti hanno accettato l'obiettivo dell'interoperabilità attraverso

un processo convincente portato avanti dai rappresentanti militari degli Stati membri.

L'avvento dell’Agenzia Europea di Difesa e la sua conseguente abilità a incoraggiare la

ricerca multistatale e l'approvigionamento è prova lampante della crescente prassi in

favore dell'interoperabilità. Da ultimo, i collegamenti tra la sicurezza esterna e la sicurezza

interna danno un elemento di sovranazionalismo per difetto consentendo ineluttabilmente

processi di armonizzazione e integrazione. La dimensione esterna del controterrorismo ad

esempio, include la lotta contro le cause che ne stanno alla radice sia internamente sia

all'estero. Come stipulato nell'European Security Strategy, l'UE adesso si sforza d'agire,

non senza difficoltà, come attore unico in entrambe le arene. Esternamente queste arene

includono il commercio, l'aiuto umanitario, la diplomazia e il capacity building in Paesi terzi.

Mentre le missioni civili e militari in seno alla PSDC sono basate sulla cooperazione

intergovernativa, esse contrastano le cause radicali attraverso il peacekeeping, il

peacemaking, e la stabilizzazione. Pertanto, c'è una commistione ancora indefinita tra

approccio integrato e intergovernativo.

La relazione tra diritti umani e PSDC è un esempio di hard integration. Gli Stati membri si

attengono e obbediscono alle medesime linee guida quando si tratta di proteggere le

donne e i bambini nei conflitti armati o quando in misura minore si tratta di affrontare

questioni di genere a livello generale. Ogni missione di PSDC ha consiglieri giuridici sui

diritti umani, i quali dovrebbero assicurare che ogni piano operativo tenga in conto quei

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diritti e quegli interessi. Infine, la soft integration si sta verificando rispetto alle relazioni

dell'UE con Paesi terzi. È dato per garantito, come norma crescente, che l'Unione

dovrebbe sempre sforzarsi di parlare con un'unica voce, ma in tempi duri di populismo, di

euroscetticismo, l'impresa sembra complessa e in regressione.

Vi sono svariati e palesi motivi – ad esempio, la dimensione dei fenomeni - perché sia

indispensabile raggiungere soluzioni di livello europeo e perché possa risultare

controproducente, addirittura contro i propri interessi, ripiegare su politiche o decisioni

prettamente nazionali. Il tema delle migrazioni, appare emblematico. Spesso si teme per la

“sicurezza economica” delle collettività, in primo luogo, ma anche per la “sicurezza fisica”,

per l'inestricabile legame che potrebbe costruirsi fra un afflusso incontrollato di persone

che provengono dalle aree di conflitto e il rischio terrorismo, sebbene i dati empirici

sembrino dimostrare il contrario. Tutto ciò è frutto essenzialmente di una miopia, cioè

dell’incapacità di guardare il problema dalla giusta distanza. I Paesi europei, oggi

sembrano capaci di vedere limitatamente al proprio giardino di casa, o tutt'al più nel

giardino del vicino; manca la capacità di osservare e comprendere le dimensioni e la

portata dei fenomeni. Nella sola Africa ci sono verosimilmente decine di milioni di possibili

migranti; decine di milioni di giovani che desidererebbero migliorare le loro opportunità di

vita – o più realisticamente, che desidererebbero poter avere una vita – e che per questo

sono più che pronti a partire. Queste sono le dimensioni reali del fenomeno, e quando si

discute, in Europa, di riallocare soltanto alcune decine di migliaia di rifugiati, in tutta

evidenza non siamo capaci di comprendere la realtà che abbiamo di fronte. Se questi

sono i numeri in gioco, non possono in alcun modo esistere singole risposte nazionali al

problema della migrazione, quale che sia la lunghezza dei muri che alcuni vorrebbero o

hanno costruito. Serve, al contrario, un’azione decisa e coerente dell’Europa nel suo

insieme. Serve una volontà comune che si esprima attraverso scelte comuni, e che metta

in moto attività comuni.

Non ci si stancherà mai di ripeterlo. Se nel Mediterraneo centrale il flusso dei migranti

sembra quanto meno sorvegliato e gestito, anche e soprattutto in termini di doverosa

salvaguardia della vita umana, lo si deve in maniera particolare alla decisione di

impegnarsi in un’azione politica e “operativa” comune. La Missione EUNAVFOR-MED

“Sophia” rappresenta, al momento, uno dei più prolifici esempi di più intensa

cooperazione, con 22 Paesi dell’Unione che contribuiscono a uno sforzo comune: e come

detto solo un’azione comune da parte di tutti i Paesi europei potrebbe affrontare questo

genere di problema.

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Da anni si assiste a una progressiva ma costante diminuzione d’investimenti nel settore

della difesa, in pratica in tutti i Paesi europei. Ci sono oscillazioni, ovviamente, ma il trend

storico è lampante. Oggi le singole forze armate europee sono sempre più piccole e con

sempre minori capacità; in alcuni casi, hanno mantenuto la disponibilità di una pluralità di

capacità operative, ma solo in sparute quantità. Vi sono tanti “eserciti-bonsai”, che magari

soddisfano le aspettative dei pianificatori e, soprattutto, dei Ministri delle Finanze dei

singoli Paesi, ma che difficilmente sarebbero in grado di condurre operazioni complesse e

prolungate nel tempo. Alzando lo sguardo sul mondo la tendenza segue una direzione

opposta. Questo è lo scenario globale con cui ci si confronterà, ed anche qui, quali

possibilità avrebbero i singoli Stati europei di perseguire scelte eminentemente nazionali,

per adeguare nel tempo i loro apparati di difesa? Pare evidente che, al contrario si debba

rilanciare con nuovo slancio la collaborazione europea in questo settore; che si debba

tornare a lavorare insieme, su progetti concreti e del giusto respiro, innanzitutto globale, in

modo da rafforzare la base industriale e tecnologica e, poi di recuperare alcune capacità

complesse che sono andate perdute. Nei decenni passati gli europei hanno saputo

stringere accordi strategici di collaborazione che hanno consentito lo sviluppo di tecnologie

critiche e l'acquisizione di capabilities fondamentali per gli strumenti di difesa. In campo

aeronautico, navale, missilistico, nel settore spaziale, le più importanti capacità oggi a

disposizione sono il frutto di quell’intensa collaborazione, ricercata a portata avanti con

risolutezza per anni, dai Governi nazionali. Per fare ciò, si pone un’alternativa: si potrebbe

optare per il proseguimento con programmi di cooperazione fra Governi ovvero si

potrebbe optare per la decisione di aumentare lo spazio per attività propriamente comuni,

a livello europeo. Sul primo fronte l'approccio deve essere “inclusivo” e non “esclusivo”: i

Paesi effettivamente e contemporaneamente “willing and able” debbono poter partecipare,

pena il rischio di eccessive competizioni intraeuropee e mancanza di comunalità negli

equipaggiamenti delle forze armate. Sul secondo fronte bisognerebbe assicurare un nuovo

apporto comune di finanziamenti che vadano di pari passo all’auspicato aumento di quelli

interni nazionali.

Ma solo mobilitando ulteriori risorse europee sarà possibile invertire l’attuale tendenza al

depauperamento tecnologico militare europeo.

Entrambi gli approcci possono essere efficaci; non si può prendere una posizione troppo

rigida su questa scelta, perché in questi tempi di rigurgiti nazionalistici non sarebbe

proficuo. Al contrario, bisognerebbe pragmaticamente adottare la scelta più conveniente

ed efficace perché senza una forte collaborazione interna europea, nessuno dei singoli

Paesi rimarrà competitivo sul mercato globale.

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Per questo, è ormai matura la necessità di contemplare che anche i Ministri della difesa

europei abbiano pienamente voce in capitolo sulle grandi scelte che riguardano l’Unione; è

matura inoltre l’esigenza di un Consiglio dei Ministri della difesa, sia per far crescere

ulteriormente l’intesa fra i Paesi membri e sia per rinvigorire la rilevanza del tema della

sicurezza internazionale e delle politiche tecnologiche e industriali connesse con le

esigenze della difesa collettiva. Ancora, esiste l’esigenza di un’ulteriore spinta per

ricercare una più forte coesione europea, ed è rappresentata dall’opportunità di fare di più

e meglio in cooperazione con la NATO. Esiste una naturale sinergia fra Unione europea e

NATO, ma senza timore si dovrebbe riconoscere con chiarezza che i cromosomi di queste

due Organizzazioni sono differenti. La si può considerare in forma di complementarietà

ideale o in forma di divergenza siderale tra le due organizzazioni. L’Unione europea ha

ovviamente le capacità di attivare misure economiche o sanzioni efficaci per modellare lo

scenario della sicurezza, prevenendo il rischio di conflitti o mitigandone gli effetti. Mostrare

all'unisono la credibilità militare dell’Alleanza Atlantica con il potenziale politico ed

economico dell’Unione consente di ampliare e rafforzare in maniera determinante una

strategia di sicurezza continentale. Ma non mancano certo le opportunità di una maggiore

sinergia anche in termini di coordinamento delle rispettive operazioni militari.

Il Mediterraneo si presta perfettamente a questo genere di cooperazione ove si consideri

la presenza di missioni, concettualmente ispirate dalla stessa necessità, a guida europea

nel Mediterraneo centrale e a guida NATO in Egeo. Per di più, sarebbe utile coinvolgere

ulteriormente la NATO nella sicurezza complessiva della regione mediterranea, ad

esempio attraverso una nuova ridefinizione dei compiti di “Active Endeavour73”.

La cooperazione per la gestione delle crisi è fondamentale anche con altre Organizzazioni

regionali, a cominciare dall’Unione africana. Pensiamo, ad esempio, alle attività che

l’Unione europea e l’Unione Africana stanno conducendo in Somalia. In questo settore, si

conferma che i motivi di convergenza dei singoli Paesi europei su politiche comuni sono

più forti dei possibili vantaggi derivanti dal perseguimento di politiche nazionali.

L’Europa è un partner fondamentale delle altre Organizzazioni solo se parla e agisce

unitariamente; se ciò non avvenisse, gli Europei si condannerebbero a svolgere un ruolo

marginale per il raggiungimento di obiettivi definiti da altri.

73 LaTask Force Endeavour fu creata dalla NATO dopo l’11 settembre 2011 e impiegata nel Mediterraneo Orientale come mezzo per dimostrare la determinazione dell’Alleanza a combattere il terrorismo internazionale anche facendo valere, ove necessario, l’Art. 5 del Trattato. Il 16 marzo 2004 l’attività navale fu estesa a tutto il mediterraneo con l’Operazione “Active Endeavour”.

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A essere preservato deve essere l’ideale di un’Europa unita, di un'Europa diversa ma

coesa, nell’interesse di ciascun Paese e di ciascun popolo d’Europa. Da questo punto di

vista, una delle cose da migliorare rapidamente è anche quella della “narrazione”, ovvero il

saper spiegare all'opinione pubblica le ragioni, i motivi razionali che devono indurre a

proseguire con decisione sulla strada della cooperazione. Oggi – lo si può dire con

franchezza – la narrazione di un’Europa “perdente” di fronte alle sfide poste dallo scenario

economico e politico internazionale è prevalente in molti Paesi europei. Il realismo e il

pragmatismo, ovvero il saper razionalmente ricercare i vantaggi che può assicurare una

forte coesione, non possono consolidarsi con trasparenza senza una certa dose di

“idealismo”, senza un’idea pregnante di Europa, che sia culla di valori ed anche punto di

riferimento per chi, da fuori dell’Europa, guarda alla strada che gli europei hanno saputo

percorrere in questi decenni.

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4. Affinità e difformità lungo lo spazio euroatlantico

La questione dei rapporti diretti tra NATO e UE è un problema, vecchio quanto la stessa

Alleanza Atlantica, che s’inserisce all'interno dell'equilibrio delle relazioni tra gli Stati Uniti e

gli alleati europei. Già durante la Guerra Fredda le esortazioni di Washington al burden

sharing invitavano gli europei a fare di più per la propria difesa. Con l'incalzare dello

scontro Usa-Urss, l'Europa accettava suo malgrado la protezione statunitense oscillando

ciclicamente tra due paure: che essa potesse mostrarsi come un bluff, o che Washington

ingigantisse i suoi timori antisovietici. Gli europei spesso agivano da mediatori, o si

estraniavano dallo scontro, salvo le preoccupazioni se i dialoghi passavano sopra le loro

teste. Gli Stati Uniti spingevano gli europei a unirsi, ma s'irritavano a ogni accenno di

posizioni autonome. Essi inducevano gli europei a fare di più per la difesa, ma purché

l'egemonia non ne uscisse ridimensionata.

La maggior parte dei resoconti neorealisti sulla cooperazione europea sulla sicurezza,

hanno concentrato gran parte della loro attenzione sulla questione del declino geopolitico

europeo, cosa che ha condotto spesso, a trattare l'Europa come un attore geopolitico

coerente74. Ma all'alba del XXIº secolo gli Stati Uniti non incoraggiavano un legame

militare tra la NATO e l'UE, temendo un eventuale coinvolgimento dell'Alleanza nel caso in

cui gli europei avessero deciso di impegnarsi in modo autonomo. L'Europa maggiormente

adatta agli interventi umanitari, di tipo economico-civile, alle ricostruzioni post-belliche o

alla prevenzione dei conflitti, si sarebbe occupata delle radici dei conflitti e delle tensioni,

lasciando il campo all'intervento successivo della NATO, solo in caso di aggravamento

delle tensioni di natura militare.

Se è vero che americani ed europei, se pur in modi differenti, vorrebbero impegnarsi nel

mondo, che gradiscono ancora trattarsi come partner ed anche percepire in modo simile le

minacce lungo le due sponde dell'Atlantico, ci si deve chiedere come e perché negli anni

recenti ci siano state tante divergenze nei dibattiti e nell'opinione pubblica sulle guerre in

Iraq e in Afghanistan, nonché sul conflitto arabo-israeliano o sul nucleare iraniano. Perché

l'opinione pubblica europea era ed è rimasta nella maggior parte dei Paesi europei

continentali, così fortemente contraria alla guerra in Iraq e altri interventi recenti, rispetto a

74 Cfr. con B.Posen, ESDP and the Structure of World Power. The International Spectator. 39 (1),2004, pp. 5–17. B.Posen, European Union Security and Defence Policy: response to unipolarity? Security Studies. 15 (2).2006, pp. 149–86. S.Jones, The Rise of European Security Cooperation. Cambridge: Cambridge University Press, 2007.

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quella americana? Perché alcuni leader dell'Alleanza hanno e continuano ad avere una

considerevole libertà d'azione di fronte alla propria opinione pubblica mentre altri devono

fronteggiare vincoli straordinari?

4.1 Culture della sicurezza transatlantica nell'era post-guerra fredda

L'ininterrotto spostamento dalla primazia alla partnership ha radici profonde che hanno

poco a che fare con l'antiamericanismo o l'anti europeismo, o ancora con qualsiasi

differenza fondamentale nelle percezioni delle minacce. Tutto sembra essere collegato con

la fine della Guerra Fredda e l'erosione dell'unità d’intenti che i sovietici avevano fornito a

europei e americani. I legami vincolanti adesso sono molto più deboli e questo, combinato

con la trasformazione della sovranità così come con le esperienze condivise nel Kosovo,

in Iraq e nel doppio allargamento, segnarono la fine dell'era post-guerra fredda. Ciò non

significa che stiamo assistendo alla fine dell'Occidente transatlantico con le sue unioni

sovrapposte, ma è vero che vanno emergendo distinti sistemi di valori, di credenze con

interessi talvolta coincidenti, altre volte contrastanti. I partner transatlantici continuano e

continueranno a condividere solo alcuni interessi basici e sistemi di credenze fino a

quando si confronteranno con attori che non li condividono affatto, ma nelle loro relazioni

bilaterali le divergenze affioreranno ogni qualvolta gli interessi americani e le loro azioni

internazionali non corrisponderanno a quelli europei. L'UE continuerà ad affidarsi sulla

direzione americana della NATO mentre la PSDC e la PESD resteranno organismi

necessari (se non indispensabili) nell'architettura della sicurezza europea.

Nel primo decennio dopo la fine della Guerra fredda, la cultura della sicurezza ha

continuato a evidenziare continuità e resilienza. Gli americani hanno continuato a essere

tra i popoli più religiosi nell'Occidente sviluppato e la percepita connettività tra religiosità e

leadership etica non è stata scalfita. Che l'America si credesse una nazione speciale per la

provvidenza era stato già dimostrato nel momento del trionfo occidentale contro il

comunismo. Nei primi momenti dopo gli attacchi dell'11/9, si è rivelata un'unità negli Stati

Uniti molto simile ai primi tempi della Guerra fredda.

Ancora una volta gli americani furono chiamati a dichiarar guerra contro i "malvagi".

La missione speciale e il ruolo provvidenziale dell'America illuminano i discorsi patriottici.

Queste credenze ancora una volta ci informano in modo diretto in che maniera gli Stati

Uniti definiscono e scelgono di contrastare la minaccia del terrorismo.

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Per l'Unione Europea, il progetto guidato dalle élites, di costruzione coscienziosa di una

nuova identità securitaria europea ha continuato a produrre un'unica e larga base di

credenze circa la natura della minaccia e il valore o la necessità delle guerre come mezzo

di risoluzione delle controversie. La cultura della sicurezza europea, che include - come

già più volte evidenziato - il cosmopolitismo, la civilizzazione e il secolarismo, ha

proseguito nella sua evoluzione verso il sorgere di un periodo post-guerra fredda

relativamente stabile, nonostante le guerre balcaniche abbiano necessitato di un

riequilibrio del pensiero europeo sulla sicurezza, evidenziando la vetustà del concetto di

minaccia esistenziale. Progressivamente nella concettualizzazione del cosmopolitismo

europeo, questo è stato spesso contrapposto alla religiosità, al militarismo e al

nazionalismo americano. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha raffigurato la dissociazione

delle due posizioni: “La replica più facile alla iper-complessità e alla contingenza della

società del rischio globale è quella di dire che ciò è il lavoro del male". Probabilmente

alludendo alla guerra al terrorismo di Bush dopo l'11/9, Beck postulò che la categoria del

male, tacitamente diventa una carta bianca per un auto-rafforzamento. Il male deve essere

eliminato, non solo dalla società, ma in ultima istanza dalla razza umana75. L'Europa reagì

alla guerra al terrorismo guidata dagli Usa, prima di tutto con empatia e poi con ampio

scetticismo, specialmente nel contesto della guerra in Iraq. Molti europei s’interessarono

all'influenza della religiosità, all'interno dell'amministrazione Bush, nella definizione del

conflitto in termini manichei.

Chiaramente, gli effetti a breve termine della guerra al terrorismo includevano il

deterioramento dell'armonia transatlantica mentre, da un lato e dall'altro, si rafforzavano le

culture e i valori contrastanti sulla sicurezza. Si è riconosciuto troppo lentamente che

Obama non era che il giusto successore di generazioni di leader americani, quando

anch'egli pronunciava e promuoveva le idee della grazia americana, l'importanza della

religiosità e la necessità del contrasto al male. La pacata discordia transatlantica, evidente

specialmente in Germania, è emersa nuovamente quando l'amministrazione Obama

ordinò e riuscì nell'uccisione di Osama bin Laden. Obama giustificò l'azione militare per

l'uccisione di Bin Laden esponendo il chiaro convincimento che gli Stati Uniti avessero il

diritto di punire i "malvagi" e contrapporsi con la forza al male.

Questo episodio fu uno dei più narrati, in termini di differenziazione tra gli orientamenti

tedeschi e americani, relativamente alla percezione delle minacce e all'uso della forza.

75 Cfr. con U. Beck, World at Risk, op.cit., p. 228.

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Mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel lodò l'uccisione pubblicamente - come

altrettanto fecero i capi di Stato in giro per l'Europa – il suo governo fu messo sulla

difensiva sul piano interno, essendo pressato da un coro di scettici e diffidenti. Mentre

approssimativamente metà dell'opinione pubblica tedesca supportò l'azione, l'altra metà

restava critica. Per questo segmento della stampa e dell'opinione pubblica l'evento

manifestava la nota leggerezza americana nel trattare le uccisioni e la morte degli

avversari, seguite da danze in strada dopo eventi così funerei, quand‘anche in violazione

del diritto internazionale: il protrarsi sotto ogni forma del dualismo bene-male.

Le Nazioni Unite, richiedevano i tedeschi, siano chiamate ora più che mai, in contesti

asimmetrici, a creare regole vincolanti: deve essere cristallino cosa può e non può essere

fatto76.

4.2 Le sfide emergenti alle culture di sicurezza europee e americana

La cultura è dinamica. Laddove la continuità è stata maggiormente raggiunta nella cultura

di sicurezza americana e il progresso è stato un segno caratterizzante dell'emergente

modello culturale sulla sicurezza europea dalla fine della guerra fredda in poi, i

cambiamenti tuttavia si sono succeduti in entrambi i contesti. Gli spostamenti nella cultura

della sicurezza americana appaiano minimi nel breve periodo, mentre alcuni sentori nel

contesto europeo, fanno presagire potenziali crisi del modello stesso.

Un‘ovvia spiegazione per la minore inquietudine statunitense è la continua sofferenza

dell'economia. Un'altra spiegazione per lo scarso cambiamento nella cultura della

sicurezza americana è che la guerra al terrore è rimasta irrisolta, anzi sta subendo

progressivamente un'inaudita recrudescenza del fenomeno pur non raggiungendo più

l'epica narrativa originariamente costruita dopo l'11/9. La mobilitazione della società

americana a contrastare i "malvagi" terroristi ha raggiunto alcuni successi, specialmente

con l'uccisione di Bin Laden, ma la guerra stessa permane in uno stato indefinito,

aleatorio, senza alcuna prospettiva di porvi fine a breve, men che meno con una vittoria

che rafforzerebbe la cultura securitaria stessa. Gli americani però hanno saldamente

creduto che l'uso della forza fosse necessario sotto certe condizioni, e che l‘esperienza

della vittoria americana attraverso una lotta epica debba essere ripetuta anche con la

guerra al "terrore", una guerra che sempre più è percepita come una guerra di frontiera.

76 Siegfried Kauder, cit. in “Merkel Comments on Bin Laden Killing Draw Criticism” Spiegel Online, May 4, 2011, h ttp://www.spiegel.de/international/ germany/0,1518,760580,00.html.

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L'esperienza dei combattimenti nell'ultimo decennio, invece, mina seriamente alla base

alcune radicate credenze d'oltreoceano circa il destino provvidenziale del loro ruolo guida

nel mondo.

La cultura della sicurezza europea che progressivamente andava emergendo nel corso

dell'ultimo mezzo secolo si è identificata come cosmopolita, secolare e civilizzata.

La costruzione della cultura di sicurezza europea post-bellica, guidata dalle élites, è

dipesa dalla sospensione delle percezioni tradizionali delle minacce e delle credenze e dei

valori associati ai nazionalismi e alle guerre. L'identità cosmopolitica europea, per com’è

stata ricreata da alcuni intellettuali europei, riprende la kantiana "idea d'Europa" dove gli

stranieri non sono più caratterizzati come altro, come una potenziale minaccia

esistenziale.

Piuttosto, il modello europeo modifica i "nemici" in "vicini", offrendo ospitalità attraverso la

creazione di spazi ospitali. Il fatto che il titolo di un recente libro di Habermas, riguardante

il progetto d'integrazione europea è titolato: "Europe: The Faltering Project", (Europa, il

progetto vacillante), suggerisce che innegabilmente vi è un processo difficoltoso77.

La cultura europea della sicurezza è quotidianamente indebolita da una rinnovata

narrativa culturale, che ruota attorno alle tensioni insite alla cultura europea stessa,

giustapposta a quella "altra", non europea. I cambiamenti demografici e il malcontento

generale crescente all'interno dei confini europei per quel che riguarda l'immigrazione,

presentano un'alternativa, nonché una sfida al modello di sicurezza esistente, proponendo

una visione chiusa, conservatrice, escludente l'"altro". Il protratto malessere economico e

finanziario nell'Unione funge da combustibile per il risentimento, la sfiducia e il rigetto degli

immigrati. Un possibile futuro sta via via emergendo dall'incremento del "nativismo",

dell'etnocentrismo, comportamenti che erano stati esclusi come anatemi, dal modello

securitario europeo. Una serie di eventi, pubblicazioni e raccolte di dati, suggeriscono che

l'afflusso di non-europei, specialmente quelli provenienti da aree islamiche nordafricane o

mediorientali, fanno emergere una crescente paura degli stranieri in tutta l'Europa, e il

ricorso a sentimenti escludenti o il rinnovamento di alcune vetuste narrazioni unitarie, che

enfatizzano l'idea di Europa come regno della cristianità (o culla dell'Occidente) dove l'altro

è chiaramente marcato dall'etichetta dello straniero o dell'"orientale". È significativo notare

che lo stesso Papa Benedetto XVI scelse il nome di Papa Benedetto che un secolo prima

aveva provato, invano, a unificare l'Europa come regno della cristianità, progetto ripreso e

adottato dallo stesso Ratzinger. L'Europa oggi è molto di più di tutto ciò.

77 J. Habermas, Europe: The Faltering Project , New York, Polity, 2009.

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5. Conclusioni

Le nazioni europee hanno molto in comune. Geograficamente vicine, tutte fronteggiano le

stesse problematiche di relativa debolezza nei confronti dei grandi attori sulla scena

internazionale. Le loro similarità spesso le portano a cooperare, ma ancora le differenze e

le specificità possono far confliggere le priorità e le modalità di come intraprendere la

cooperazione. Le politiche di sicurezza europea sono delineate da una contraddizione

ineluttabile tra cooperazione e conflitto. Gli interessi delle maggiori potenze europee,

costantemente in evoluzione, definiscono questa mutevole e dinamica contraddizione.

Tuttavia, nonostante siano state create in periodi recenti alcune nuove istituzioni, o nuovi

impegni e nuove capabilities siano state adottate, o ancora diverse missioni siano state

lanciate, tutto ciò ci dice molto poco sul reale livello di cooperazione esistente sulla

sicurezza in Europa, oppure sulla natura della CSDP o della NATO. Priorità nazionali

confliggenti hanno limitato il raggiungimento e l'efficacia di ogni singola iniziativa.

La questione chiave di cui si dovrà trattare, adesso e negli anni a venire, sarà quella di

vedere come gli europei si adatteranno e risponderanno alle trasformazioni geopolitiche

sistemiche in corso. Gli Stati riconoscono che non è la sola territorialità o la sicurezza dei

cittadini che deve essere protetta, ma anche, e forse soprattutto, gli interessi non-

territoriali.

La sicurezza va comunque costruita a partire dall'interno, con profonde riforme socio-

economiche che possano evitare alla radice profonde spaccature (di per sé già evidenti)

all'interno della società, che possono diventare focolaio di rancore, di rabbia e frustrazione

facilmente infiammabili dalle sirene del terrorismo. Rendere sicura, ovvero meno incerta e

aleatoria la vita delle persone che in Europa vi abitano, sarebbe un primo grande passo

per curare dall'interno il cancro delle disparità, foriero soltanto di violenza e ingiustizia.

La sicurezza si costruisce dall'interno e l'unità europea potrebbe funzionare solamente con

politiche virtuose: non c'è unità in condizioni di disequilibrio. L'austerity e la burocrazia

distante e cinica di Bruxelles hanno creato un solco profondissimo tra cittadini e istituzioni

e tra i cittadini stessi; la legittimità democratica di queste è messa in discussione, le

divergenze e le ineguaglianze tra gli Stati membri sono così palesi che chiamarla Unione

ad alcuni sembra un'amara ironia. Avere politiche comuni in un continente frammentato in

più di trenta nazioni e altrettante lingue e tradizioni statuali diverse non è per nulla

semplice, se poi anche l'Unione diventa un fine in sé, autoreferenziale (ovvero va bene

tutto purché si resti uniti) come ci si aspetta che vi siano convergenze d'intenti tra la

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Germania e l'Ungheria o tra la Slovacchia e la Francia? Bisogna riconoscere la pluralità di

approcci alla visione del mondo, del proprio Paese, della propria sicurezza e riconoscere

che una così stretta cooperazione, anche in materia militare, potrà essere realizzata

soltanto attraverso fini e obiettivi condivisi. Trovarli non è semplice, ma non è poi neanche

un concetto così fuori dall'ordine delle cose, considerando che siamo un continente

storicamente frammentato e fratricida: magari sessanta anni d'integrazione, a mio parere

troppo accelerata, sono pochi nel lungo corso della storia, per creare un attore unitario,

forte, coerente e armonioso. Il rischio è l'implosione, ma allora la nostra fine sarà già stata

decretata poiché il mondo extra-europeo, in repentino cambiamento, ci considera già un

attore unico (forse riponendo nell‘Europa più fiducia di quanta ne abbiano gli europei

stessi) e il ritrovarsi ancora una volta singolarmente nel flusso della marea geopolitica,

potrebbe consegnarci celermente al dimenticatoio.

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7. NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE

Ce.Mi.S.S.

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e

per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria

opera valendosi di esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di

pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione del

Ricercatore e non quella del Ministero della Difesa.

Giulio Montalbano

Montalbano Giulio, nato a Erice (TP) il 28/07/1990. Ha studiato

prima Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso

l'Università degli Studi di Palermo e poi Scienze Internazionali

e diplomatiche presso l'Università degli Studi di Siena.

Successivamente ha seguito un Master di alta formazione in

Cooperazione internazionale intergovernativa e non

governativa presso la SIOI (Roma). Dopo svariate esperienze

di stage curriculari e post-laurea, attualmente sta svolgendo un anno di Servizio civile

all'estero in Tanzania, per conto di una Ong di Roma (Cesc Project).

foto

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Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa

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