POESIE DI SEBASTIANO SAGLIMBENI con prefazione di Mario … · 2011-04-25 · un annuncio di acqua...

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SEBASTIANO SAGLIMBENI DOMINA SUAVIS

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SEBASTIANO SAGLIMBENI

DOMINA SUAVIS

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UNA POESIA SINGOLARE E IMPEGNATA

di Mario Geymonat*

Questa silloge poetica di Sebastiano Saglimbeni, di lettura vivace e luminosa, è pure il

frutto della sua lunga immersione nella letteratura di tutti i tempi, con particolare

predilezione a Virgilio, di cui propone, in fondo al corpus dei testi, alcune intense versioni

di tratti delle Georgiche e dell’Eneide. L' assidua frequentazione di uomini del pensiero scritto

intramontabile ha reso complessa e singolare la personalità intellettuale e poetica di

Saglimbeni. Siciliano, pubblicista e per anni raffinato editore, non dimentico dello

strumento della penna - per fermare le sue occasioni creative – al quale dedica un testo dall'

incipit: “Calamus o stilus, penna: perché quotidiana / mi pare atto nobile ch’io ti scriva”.

Acuti si leggono i suoi riferimenti al mito, da Ecuba ad Agamennone a Polimestore, da

Cassandra a Polidoro ed inaspettato il ricorso alla lingua dei padri, pure intesa con qualche

testo, che egli valuta come esercizio, che è la traduzione in latino de “La quercia caduta” di

Giovanni Pascoli.

Saglimbeni torna frequentemente sulle sue parole dei suoi testi, vi interviene con pazienza

ed abilità, fino a raggiungere una forma che lo completi davvero: troppe volte

l’impossibilità risiede più nel cervello dell’autore che nella realtà delle esperienze e delle

cose.

Elemento di base del modo di atteggiarsi di Saglimbeni verso la vita è il costante contatto

con il paesaggio umano e civile, biografico come poetico: la silloge copre un intero

ventennio di pensoso pendolare da Verona, alla Calabria, alla Sicilia, ad altri luoghi

prediletti, e si si apre con un viaggio

nella mitica Parigi nel 1993, dove Saglimbeni mescola il ricordo bohemienne di

Montmartre con l’esperienza socialista della Comune, e con avventure autobiografiche

tutt’altro non facili: “come serpenti/ in agguato, attentarono alla nostra vita. Cronaca...”.

Una costante imprescindibile è la la fautrice della compiutezza o del termine biologico,

la“domina suavis”. Che, seppure incalzante, non prostra l'autore, anzi, lo motiva al motivo

della poesia, espressione positiva per lo stesso, per gli amici, per il mondo. Di qui il titolo

della silloge.

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Ci si può anzi domandare se in questa scrittura, che segue ad altre, già vagliate, come

Catàbasi e lezione d'umiltà, La volta del libro e Chronicon, si debba intravedere qualche influsso

dello spirito polemico e tagliente del suo autore, armato di un sarcasmo acuto ma non fine

a se stesso, dove l’imperativo morale di raggiungere la verità e di fustigare le debolezze

umane si realizza in una sorta di acre piacere di comunicare, di dubitare, di costruire.

Struggente si legge l’amore che lega questo autore di poesia ad una figlia. Bellissimo su

questo tema è il testo, il cui incipit recita:

“Se imperversa su te la mala sorte,

l'incertezza, la tremula paura,

mentre ti aggiri fra la dura

algia gente, non è proprio il fluire

dinanzi a te di un nulla.”

Pure, in un altro testo, dedicato all'arte di Paolo De Pasquale, teneri si leggono i riferimenti

all’infanzia. Come:

Sì - lo confesso - io sono ritornato a vivere

come i bambini che vedono fantasiosi e perturbati:

e una mela è l’universale come la terra e la luna

e gli astri.”

Dalla conoscenza di Saglimbeni riemergono, nei testi della sezione “Spartito con dedica”,

nomi di artisti famosi, minori, emergenti, sconosciuti, (Il poeta legge meglio il pittore); e

vitale riemerge pure l'eroe antifascista nel quale Saglimbeni si identifica, Francesco Lo

Sardo. Amara anche se purtroppo corretta è la sua visione dell’economia:

“là, dove si truffa: le banche,

invise certo dalla poesia. E pure questa

invisa dalle banche.”

Particolarmente commoventi sono infine per me i ricordi comuni, come il viaggio a

Zsombathely in Ungheria o la nostalgia per il volto terso del coraggioso amico Audenzio

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Tiengo e per i vigneti fioriti di Faedo. Qui c'è, come altrove della scrittura, l'autentico ed

espansivo sentimento dell'amicizia che caratterizza l'uomo Saglimbeni.

I testi, resta da osservare, contengono, soprattutto, le rare doti di uno studio psicologico,

attraente e accessibile per chiunque abbia interesse per la poesia, la storia, la politica (“Nulla

salus bello. La guerra, una peste”). Si tratta di un modello ambizioso, di cui raccomando

convintamente la lettura, stimolante per i giovani e dolce per chi ha letto Orazio e della vita

ha già avuto una non facile esperienza: “la poesia da millenni / spera che l’ANIMALE / sia

meno animale”.

Del futuro è difficile ora farsi illusioni, ma a tenerci vivi la poesia appare sempre più

necessaria, come e meglio del denaro e del pane. Occorrerà del tempo per fare debitamente

i conti con la produzione letteraria di Saglimbeni, ma saranno dei conti certo positivi, e

questo suo lavoro ne costituirà parte essenziale.

* <[email protected]>

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PROMENADE

1. La seconda sera su per Montmartre ci parve

l’esistere meno opprimente, immersi come eravamo nel gusto di intendere quei segni infiniti del pianeta francese e, invece, come serpenti in agguato, attentarono dei malviventi alla nostra vita. Cronaca…E così l'amore di conoscenza ci cadde, ma per poco, perché intendemmo di colpo che il bello non è tutto bello, godimento, ma sito o tana di animali insidiosi. Comunque fagocitò la notte quella esperienza.

2. Ripassammo per il ponte sul cimitero di Montmartre dove il giorno prima avevamo raccolto

una pioggia ed un’aria che ci erano parse d’aprile. Luigi che recitava ancora la storia del vigneto nel mentre scendevamo per il fondo a cerchio di Place de Clichy scansando le feci delle cagne parigine.

3. La mattina del terzo giorno. A Père Lachaise: brulichio di ombre e, a non finire, cippi, monumenti per l’area collinare estesa qui la nostra certezza di essere fugarono negli ultimi giorni di primavera, ma ci animò una brezza: “Rechi profumi di miele questa alle infinite morti e siano grandi con i grandi nell’area della villa regale quelle comuni”, proferimmo posando qualche fiore di serra acquistato nell’entrata di Père Lachaise. Qui non vi arrivò per suo volere Piero Gobetti nel Ventiquattro, quando incatenarono in Italia la parola: lo recarono qui trascorso, gli amici parigini, testimone di un esilio, di una follia in un tratto di italica storia.

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4. E che importa se la storia tante volte corrode il canto: noi ti mettiamo in questo, per una nostra uscita, generato; ed anche Voi, Oscar Wilde: dentro un enorme masso chiuso continua la prigione di Reading,

dove scriveste, fra l’altro: “Il mondo ci scacciava dal suo cuore/e Dio dal suo pensiero”. Nessuno ora Vi scaccia e come cimelio, nella loro sacca, tengono i vostri libri, non impassibili i giovani d’oggi. E pure a nostro nome, le nuove amiche parigine Vi porteranno rose o puramente fili d’erba in fiore, quando, oltre il meriggio, da una quercia cava, lancia lamenti uno strano pennuto come il gufo.

Parigi, 19 Giugno 1993

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SPARTITO DI DEDICHE

(…) Pictoribus atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas.

Orazio (De arte poetica liber)

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PER UN’ ESPRESSIONE D’ARTE

1. (…) Poi vento continuo, che sibili recò, piegando “i lavori” cresciuti per forza tra il sangue dei papaveri e le erbe nauseanti

alle capre dopo la floscia acqua sopra la terra guasta, un po’ più in là del mare, il tuo mare, Paolo…, e il tuo sguardo più esteso, beffardo qui vaga, in cerca di astrazioni per la carta e la tela approntate. Che, poi, fermano o riprendono nel cuore del giorno profili d’alberi e piante pieni di sangue ancora o asciutti da tempo, crocefissi all’uomo che non salpa, arrestato dalla terra. De Pasquale, questa terra parzialmente afflitta, ti elegge e tu la ri/tratti in questa sua agonia o dove più madre si apre al frutto, duro-rosso. 2. Intendo quando con ruggine e verde combini geometrie come sognate e poni davanti il “fustagno”- così s’indicava nei canti la donna - nell’accezione di natura e natura come esistenza di forza verde, in questa landa di più noie e più offese borghesi. Certe radure, compagno di segni, si leggono neo-idilli, si fanno propri pezzi illusori di terra, come si vorrebbe, forza e vita, portata alle pareti degli amici. Riesci in queste, parte per il tutto; e recale sui fogli e lascia che grigiastre tracce unte, binari monchi, rottami sentano gli altri, morte che piove sulle cose fatte.

Limina, Luglio 1990

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LIMONI DI COLORI Nel fuoco dell’ultimo luglio tu non hai fermato segni per le stelle cadenti nelle notti babeliche, ma frutti che lumi sono parsi generati dal sesso solare infallibile. Sì - lo confesso – io sono ritornato a vivere come i bambini che vedono fantasiosi e perturbati: e una mela è l’universale come la terra e la luna e gli astri; ed è stato per questo che l’ultima volta ti ho chiesto di eseguire ancora segni della natura, perversa di armonie, per le sue piccole aree con alberi che sconvolti dalla calura diventano caos, poi, cosa astratta nei fogli degli artisti. Che cosa vedo nelle chine e nei pastelli? Contengono limoni che paiono purezza, essenza delle terre perdute, sia che a terra li poni legati al ramo, gialli o verderame, sia che non cercati si fanno nella radura e sull’albero finiscono assieme alle more luccicanti dei rovi alti. E può darsi che tu, Paolo, abbia colto nei tuoi migliaia di fogli un segno, una leggenda mal nota: e i limoni non sono limoni: sono turgidi / anomali seni depositati da donne andate a resistere per le montagne agli estranei maligni di ritorno nell’Isola. Più bello se sulla terra arsa li dipingi con plastica forza di colori ed in alto il cielo è scarlatto, un annuncio di acqua forte che non arriva, non arriverà o cadrà sulla morte delle cose nei campi, assieme al vento, alle “sciagure umane”. Sogna con i segni, panacea alla mente afflitta nelle giornate che il sangue reca buio nelle coscienze.

Verona, Settembre 1992

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NEL RI / PARTIRE 1. Ventiquattro agosto del Novantatré, solis ultima dies. Ancora per il Sud, poeta in un fuoco che l’ ieri lontano di macerie mi evoca… Credevo di precipitare a morte qui, invece ri / parto o ri/salgo oggi; e te mi porto, la tua immagine aperta d’amico rimasta nel terrazzo l’altra sera con la brezza del mare a pochi passi. 2. Altre discese (credo) compirò, più pesante di tempo; ci rincontreremo, l’invito pure ti rinnoverò di andare per le terre della Valle d’Agrò: e non cercatori di funghi, strapperemo meglio frutti come occhi ai rigogliosi rovi. E forse sentiremo, Lo Giudice, un suono sordo verso Serra: sarà la brogna(1) soffiata da un gigante che inviterà ai campi……………………… Ora bastardo ed ingordo si consuma il giorno; ed io, a caldo, questa.… (1) In dialetto siciliano; in lingua, conchiglia.

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IN QUESTA ÈRA FOSCA 1. Per le cime del gelso con le more, questa mattina gli occhi vi ho lasciato: bianco-verde-rosa il frutto mi ha riportato meravigliosi (da un lato), caliginosi, tragici quegli anni del Quaranta inoltrato. Dico del gelso al margine della strada, prima della tua Scuola, dove, a te assegnato, di conoscenza cresce il verde umano, seppure riesce per le diverse vie di incertezze. 2. Delicato Angelo Scalco, paiono come queste more (acerbe, un po’ fatte, che cadono ad un soffio) i tuoi ragazzi, ed ardono di vita in questa èra che fosca ci consuma, ma conta ancora, amico, che noi, ora fioriti di tempo, sappiamo seminare. Forse un dono migliore che ti lascio / questi fonemi sono, in luogo di un paniere (“come un campiere” un tempo “al suo padrone”) di fragole e ciliegie.

Verona, 31 Maggio 1993

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STRANIERO Così come stramazzata la giornata con spezzoni di storie come cacciate dalla nostra memoria e con gli sguardi all’albero alto, ghigno della protervia umana. Scavatore di sale, Massimo Carbone, forse in questa riva di bazar con biacchi, parecchio urgi , ed io, ad ogni ritorno, mi motivo: riporto d’altra acqua piene le brocche là ove straniero m’innesto e non sempre metto occhio germogli e frutti

Praia a Mare, 15 Luglio 1993

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CANTO ALLA PROFESSORESSA (…) Perché tu sei quercia di conoscenza vera e, come tale, forza, io con te mi alleo “in una paura intelligente”: Raffaella, Omne aliud crimen mox ferrea protulit aetas. Forse perché tu consegni al virgulto ancora tenero del mio albero antichi segni e suoni, ancora suggestivi, io per te disperdo l’insidia di ogni fiacchezza che mi abbassa lo spirito di ionico. E rompo delicatamente una scocca di versi. Sono d’amore: per tutta la tua luce, giglio marino. Vedi, scrutatrice di storia eccelsa, come ancora umilia chi è venuto prima il nuovo sangue invece del verso o il canto. Ma tu, che luccichi nell’algida scaligera città, educa gli arboscelli. Che per te metteranno fiori e frutti.

Verona, Febbraio 1994

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DOLCE/AMARO 1. Dovevo per te scrivere da tempo, perché mai pago, non vigoroso in apparenza, vagante per la tua piana di palazzi ed ori, ma non ero fertile di segni e stimoli al tuo sentimento. Oggi, mentre si ripete l’Aprile, mi sento come carico per alleggerire ricordandoti come nell’Isolamondo ad uomini come te e me potevano sino ad ieri recidere la rosa dopo uccisi per piantarcela in bocca con il seguito di scempi di formiche e insetti. 2. Hai inteso, Bertani, viandante irrequieto, per gli ignobili, misero monello, come ad una donna, nella tua Verona, scannata come capra, conficcarono spietati dentro la dolce fonte un manico di scopa. Se io cascassi un giorno dalla collina del bene e dovessi ammazzare la donna che mi rinnova il sangue, lì, a quel posto, le porrei fiori policromi e freschi o versi con la rima. E, poi, non ti dimenticare: ti aspetto per pranzare in qualche rara bettola fuori mano fave novelle insieme a due ragazzi di colore…

Verona, 21 Marzo 1994

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PER L’OPERA APERTA D’UN ARTISTA 1. Dalla metà di quel Settanta ne sono caduti di anni nell’oscurità dell’ieri… ma vivida in me sento la tua storia d’arte. Che ora in questa sosta di maggio acquosa in Umbria, proietta la tua decisa rivoluzionaria opera aperta. 2. Ponte tra l’ieri e l’oggi, scientifici necessari, indica l’azione migliore dell’Animale qui sul globo vecchio dove ancora, più dell’ulivo, il pigmeo ricorre alla fionda… … Così, Edgardo, riprendi la storia con agilità, di segni, fermi pure aforismi quando diminuisce la giornata con la tua mente che si apre e semina forse schegge di saggezza.

Perugia, 3 Aprile 1994

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PER UN’ ATTRICE

Proprio di maggio questa pura aria, che ci accompagna per l’educata aperta campagna sotto i poco aprichi colli Euganei. E pensa: mi rifà la mente certo mitico orgoglio dell’abitante per il pendio di Arquà: dice della casa che abitò il Poeta. E tu, Rebeschini, che non di frutti, come il ciliegio che mille luci riverenti invia alla dimora di Francesco, pieghi, ma di tonfi all’anima…Così pari una tortora tra rovi, attendi la delizia che ritarda…

Arquà Petrarca, 13 Maggio 1994

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ABILI SEGNI 1. Non conoscesti soggiorni americani come l’artista Ernst che trovò il dripping lasciando gocciolare le vernici e i colori sulle tele per ottenere a caso puri effetti, comparse di uccelli all’improvviso strani sbilenchi come lasciati da mani fanciulleschi; tu qui, in questa verde informe area di Alta Italia, dalla Lucania greco-romana, aedo Lerose, fermasti abili segni. 2. Tu, quelle volte non inteso, non ti fermasti a casa lacrimoso; capisti in quanto conoscevi ciò che avviene sotto le pietre. Esprimono i tuoi quadri ora il pianeta tanto infinito di infiniti segni che, fermi, sono il moto di sostanze, leggibili/illeggibili o ignote, pure di incanto. 3. Tu tra la schiera di Vasarely, Mondrian, poi, Louis, Agan, Davis, Leblanc ed altri, aleggi diverso, così ti leggo, compagno di passeggio dal Settanta; tu non ti affliggi quando declinato rimani dalle cronache locali perché lo sai: virtù vuol dire la sicurezza d’un animo sgombro.

Verona, Settembre 1995

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INSTRUMENTUM SCRIPTURAE 1. Calamus o stilus, penna: perché quotidiana mi pare atto nobile ch’io ti scriva. Quand’ero obbligato a trattare la terra che poco fioriva ti volevo lustra stilografica, simile a quella della maestra. Resti pure ora più prediletta del lapis, della macchina da scrivere del computer. Ed ovunque, per questo, posso ornare la mia mano, in attesa ad una stazione di treni - per stimoli d’uscita dalla piazza che più non mi sazia di volti e al contrario- fermando riflessioni salvifiche illusioni o il processo che ogni giorno m’imbastisco. 2. Talvolta, quando la mente s’inquieta e questo esistere caligini avviluppa, ti considero quale strumento magistrale fosti nella mano eschilea. “Oggi il cielo è grigio” scrisse una mia goccia di sangue per la prima volta sui banchi. Pure lei ti volle penna e “ancora” non ti abbandona, ti predilige come la tastiera al vile ozio bianco, ai fatui festini e dice che sei la sua nobile arma, dell’anima, s’intende; dice che ancora nane della conoscenza a scuola ti usano matita rosso-blu per lordare le pagine che scrive, con epiteti bassi quanto il loro sapere che non suona, non riedifica certo. 3. Ogni giorno la vita prende un po’ di morte e tu, adoperata,

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come si deve, orni questa bella mietitrice indefessa. Tu fosti alleviatrice di coscienze in vinculis; e, a proposito, mi prende ancora l’anima colui che ti strinse e scrisse stoicamente: “Preferisco morire in carcere” colpendo forte il suo oppressore: alludo al prigioniero nasitano, all’utopista Francesco Lo Sardo. Che si firmò a vita la perdita del sole e si scavò la fossa. 4. Mi motivasti... e scrissi e riscrissi: “Nei solchi ove spesso seminammo quei grossi chicchi d’orzo, la zizzania inconsistente e l’inutile avena verdeggiano; e la marruca e il cardo qui spuntano con le aguzze spine invece di violette delicate di narcisi purpurei”. (1) Per una che chiedeva, come preludio, versi.

Monaco di Baviera, 30 Novembre 1995

(1) Dalle Bucoliche di Virgilio, traduzione di S. Saglimbeni

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TESTI AD UNA MANTOVANA 1. (…) Di conseguenza, te ne andasti e ti accasasti alla periferia, in un abbaino, dopo che vi mandarono dal cuore d’un quartiere festoso, ove tuo padre aveva la gente che abbelliva con chirurgie ai volti e alle teste. Certo, confusa amica, non avevi terre con vacche, frutti ed ortaggi; eri solo la figlia del barbiere. Che, poi, venne sfrattato, incrociò le braccia avvilito… Laddove il lago di Virgilio ebbe sussulti o “palpitò, come velo di sposa / che s’apre al bacio del promesso amore” (1) (e fu Italia unita), tu ora resisti alla protervia e alla forza bieca antica. E così vivi. Per questo, un poeta, in questa esplosione di bruma scialba, fuori dalla storia, cura per te attenzioni fiorito com’è di tempo.

Mantova, 10 Dicembre 1995 (1) Da Poesie di Carducci

2. Laddove tu non cedi all’avanzata bieca degli altri esisti; e se fuori città dove ti aggiri in pieno inverno non ti perviene voce armoniosa pure vive questo tuo esistere nell’attesa che la strada metta fiori simili ad occhi di bambini rimasti nelle aree campagnole ad acchiapparsi lieti. Tu a me pari ancora come un piede di ciliegio stracolmo nel giugno maestoso, il mese che impiena alberi e piante. E ti immagino in giugno…, quando pulsa la natura dove ampio scorre il Mincio con lenti giri ed adorna le rive con tenere canne,(1) come rilevo da un tratto dell’eccelsa ancora scrittura virgiliana.

Mantova, Gennaio 1996

(1) Dalle Bucoliche di Virglio, traduzione di S. Saglimbeni

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3. Se eludi il cielo, il tuo cielo, poetessa, che nella piana mantovana miagoli, nulla muta e può solo il sogno recarti in geografie diverse. Ora ti dico: la tua angoscia non pare vera angoscia se non comprende frenesia di versi e lunghe attese per l’uomo che la testa ti sconvolge e ti bagna, in cambio, per l’intenso. Aspetta, attempata giumenta. Un giorno salperemo per non tanto lontano, per un luogo che io e tu giammai abbiamo visto ed è dove spesso transitiamo. Qui sotto un albero, strani, poeteremo e il sangue ci ribollirà. P. S. E se una dose di aporia ci prende, vuol dire che si vive da poeti.

Mantova, 20 Febbraio 1996 4. Mula di contadini dall’eguale natura, un po’ tardivamente quest’anno indossano il giallo le forsythie, ma tu sentirai lo stesso primavera che come un cuneo ti passa nell’intimo ancora mieloso. Così sei e resisti e sai donare a tanti un po’ di tanto in questa landa dove la poesia da millenni spera che l’ANIMALE sia meno animale.

Mantova, 14 Marzo 1996

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CAFFE’ CITTA’ 1. In questo incipit di aprile, che prende un po’ di inverno, quanto segue è per te, se possono parole, rade, naturalmente dette, recarti il mio costante senso di amicizia. 2. E’ forse nel carico di ansie che quest’uomo, tentando effluvi di saggezza, qui si eleva e sottoscrive esempi di equilibrio. Non altro, Vedovelli. Per la città, a tratti precipita la spera e mi decritta; ed è passato mezzogiorno.

Verona, 10 Aprile 1996

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POESIA E MATURITA’ Di estate. Io rileggo il Leopardi che virgilianamente si elevava per il suo amico Gino poetando: “Aureo secolo omai volgono, Gino, i fusi delle Parche. Ogni giornale, genere vario di lingue e di colonne, da tutti i lidi lo promette al mondo concordemente…”. Allora, di botto una strana alta febbre mi scoppia, mi passa per il sangue ancora mosto (miracolo?) di ritornare a scuola per la maturità ed ascoltare tra la vita novella un po’ di conoscenza, quella nostra, amico Giulio. Non voglio ridirti, in questo luglio acquoso, che aggiunge verde al verde in questa tua pianura estesa, grassa, di quella mia vita fresca che svettava tra turbini e incongruenze, ma ti racconto, in cambio, che lavoro con un gruppo di italiche docenti (io mi estraggo un po’ con versi, io che ancora verso latte seminale in omaggio a mio padre che non era alla mia età di oltre sessant’anni) e capitano o – meglio – presenzio la commissione che gracchia, scrive e segna…Donne, più donne…, quanto le pietre aguzze che scansavo scalzo nella mia infanzia, pura, scorrevole sulle mie aree strane, asciutte. Ora misurano le commissarie il sapere del sangue ribollente e può gelarsi: quesito il colloquiare e freddo e il verde-roseo frutto, tremulo e pudico, si ferma tra le foglie. “Il colloquio da tanto predicato è uno sproloquio, invece”, dice ai compagni un’esaminanda che misura inquieta il corridoio della scuola per anni frequentata e si partiva dalla campagna oltre Sanguinetto. Sì, è vero, Galetto (tu hai sentito; per anni hai proiettato luce

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di sapere nelle scuole ed hai inteso intendi questo esistere diverso, più terso), stanca davvero lavorare ed è lo studio una macina pesante che macina; e qui tante volte soccombe l’intenzione di ascesa e il volere da parte dei ragazzi si sminuzza, ma è di qui che deve avere luogo l’azione in chi prima conosce. La fiducia e l’amore in questi giorni della scrutinazione senza senso stramazzano; morte, prive di sale, si arrotolano tra forti illusioni di essere e contare un po’ di ore queste mie donne giudici di classe. Ed ora ancora un po’ di digressione: “E’ soltanto di un limite” (ricordo?) “di nulla e di morte può ormai la poesia, che è utopia, superflua”, scrivesti, amico Giulio. Ed io da questo limite di nulla ritrovo in mezzo al verde questa Pulchra che è la Brezza, poi, creatrice di moti ed armonie tra i tigli in filare lungo il viale; dal mio balcone sito al quarto piano osservo, ascolto, ri / sorgo poeta. Ignote ormai le donne commissarie.

Verona, 20 Luglio 1996

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TRIONFO DI RAFFINATEZZA Quindici ottobre del Novantasei, a Verona; una pioggia a zuppa villano mi prende, stempia gli ornamenti arborei cittadini. Ma vado per leggere il Pisanello veneto toscano. In Castelvecchio, entrato dietro ad una schiera giovane indifferente spenta, mi ri / nutro di antico e sperdo l’algido che la mente mi fora in questo autunno, Pisanello, con più pezzi raccolto. Che importa ora tutto ciò ch’è opaco sulla tua vita errabonda; contano le campagne, i castelli, gli azzurri con le barche, il bestiario, le donne, gli uomini, imago mundi, e la malinconia, tutto un trionfo di raffinatezza nella tua azione pura. Fu la poesia testimonianza della tua scrittura (più alta nel soggiorno mantovano?) Ora qui gazzettieri in Verona ti scrivono per essere. Tu, remota ombra, rechi decoro e affari.

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LETTERA ALL’ARTISTA Mi sembri, amico nell’inizio del Settanta, ora indifferente ai rumori del mondo e senecanamente distanzi un po’ per volta questo esistere. Che ti carezza il segno, recandoti l’intenso, se lo depositi sul mezzo: una lama di zinco, carta, tavola, tela o altro. Io navigo per acque infide e queste sono la ragione, la spinta di esistere – resistere. Ho letto e, poi, riletto, in questi giorni, come fermi beltà di femminote e femminelle angosciate, algide di natura tra geometrie armoniose. Scostumale che è bello ed infuocale per me! Io ancora – lo sai – sono palo a più viti e così m’illudo assieme alle parole che maltratto, qualche volta, e rimetto ed esisto corpo e mente dannato a tratti per questo male antico. Ti vergo ancora: Sei un artista con tutto ciò che estrai dalla storia che volgarizzi sacra e l’attualizzi. E ritornano i santi nel tuo quadro, giocano alla palla: sereni quasi irridono quella bestialità, agonistica bieca consumata nei campi dello sport. Sì, tu giochi, ché la vita è gioco per te sinceramente, ma rimani afflitto perché, cuore d’artista, insegui il procedere a perno in questa vita che sale per il cielo che sempre s’allontana e le ali metalliche si squassano ed Icaro s’abbassa stramazzando, si fa carbone cenere. Ti dico ancora, amico, che in questo autunno sento sibili verso me rivolti; un’ombra dalle sette bellezze mi chiama, mi pare una donna staccatasi dalle tue tele estese, ma non è, non è una delle sette sorelle del profitto; comunque, è un’ombra d’una donna stupenda che sibila e vola per i campi di Père Lachaise che un anno della mia uscita visitai fuori Parigi. Anche adesso … se lì mi volessero e strapagando, non ti parlo, credimi, parabola discendente od ultima fase di vita se sopra ti dicevo che sono come un palo a più viti; ed è per questo che mi sibila, non mi attende decrepito, ma così, con miei fogli sparsi, il romanzo a metà, le poesie senza frasche raccolte. Sibila pure per te mentre sul foglio la carichi desnuda sotto cieli stupendamente a quadri? Se sì, è fausto in quanto le Sirene mangiano gli artisti nel più bello. Ed ave, Ferdinando! Il quindici novembre dell’anno Mille- novecentonovantasei, a Verona, dal poeta italiano Sebastiano.

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DA UN POETA ALL’ALTRO 1. Giulio Palumbo, dopo averti letto, qui non ti allineo fiori di giudizi confusi, come oggi si costuma, ma versi che mi scorrono antichi, non diversi da quelli del Sigillo. Come dei sogni di mite fanciulla quando apprendevi con aperto senno e pensieri esprimevi delicati ti ricordo ed effondo l’energia d’un profondo sentire, hai fermato con sapore elegiaco che prende. Ed è questo procedere di dire, così latino, che deve ri / farsi. Allora tu ri / prendi nei tuoi testi il tema della fede, antico, arduo; e ti fai luce, mandi lumi agli altri, a me, lettore incredulo rimasto. Così solo si svolge più compiuta, fatta d’immenso, la tua creazione; io, invece, tempo fa, ho ri / scoperto quei testi abbandonati di poesia che Virgilio Marone dagli idilli teocritei estrasse e rese eccelsa da quel modello di dialetto greco. E senti, senti come ho fatto miei gli esametri di tutti i dieci canti, ti cito uno scorcio, preso a caso: O Galatea, vieni, vieni avanti: quale divertimento è tra le onde? E qui la primavera è sorridente, qui, lungo i fiumi, sul terreno cresce la varietà del fiore, qui il pioppo argenteo si è adagiato sopra l’antro e pergolati intrecciano le viti quando sono flessibili; qui vieni e lascia che la furia delle onde imperversi sui lidi, o Galatea.(1) (1)Dalle Bucoliche di Virglio, traduzione di S. Saglimbeni

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2. E già; lo so, l’Isolamondo è il canto purissimo, di fuoco, che sentiamo, noi dolcemente illusi, figli veri. Per questo, educatore, scansi e canti l’offesa , che non passa se abbonda nella natura umana la mitezza. Il pianto della madre intenerisce, il tuo credo ti ispira; e qui v’è tutto, per te, il mondo offeso nella DONNA. Ed ora il mio saluto: e tanti beni dal Veneto ti manda Saglimbeni, che ti ricorda pure questo verso: Donna, se’ tanto grande e tanto vali.

Verona, 10 Febbraio 1997

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ELEGIA AGLI AMICI SICULI S’infiocca la mia mente questa sera con parole. Che ordino per voi come ricordo di niente e di vita; e pare sia caduta da quei giorni del mio rientro un’intensa caligine di tempo. Si completò la mia venuta giù: e vento di scirocco e di libeccio, deserto e tanta acqua nelle vie contrastanti la candida presenza di gabbiani in discordia sulla spiaggia di Terme Vigliatore. Mi arrestò, aggiungo, discretamente un virus in hotel con di fronte le Eolie come terra grigiastra accumulata. Vincenzo mi portò lenticchie cotte, mentre la moglie, l’energica Maria, privò dinanzi alla sua casa l’albero dalle arance rosso-fuoco. “Per il poeta, queste!” disse e rise perché aveva donato quella sera dicembrina che l’anno seppelliva. E venne Melo vestito di blu: qualcosa mi portò che io non vidi, ma, penso, una scodella d’amicizia ché stavo infermo; sciolse, poi, dei versi, giovane rimasto, alle Eolie, le sette signorine innamorate dalle case scappate ma fermate, per sempre, in mezzo al guado. Paulo pure venne, ma la tela scordò con i limoni e il sole, solo un’ampolla mi lasciò di mosto cotto-vino: (l’aprirò più avanti) “Un nettare”, mi disse. Fu la mattina dell’arrivo l’anima siccome rosa flaccida trascorsi alcuni giorni.

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E fu potere vero l’amicizia, seppure caduca, da qualche lato obliqua, che per l’Italia gotica mi spinse per un incontro giù che dissipò appena le ombre delle storie di ognuno.

Verona, 20 Febbraio 1997

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LO STORICO DELL’ISOLA 1. Sic et simpliciter, Amice! Se sapessi tastare al pianoforte ed avessi la barba più allungata, da più anni albeggiata,’ sarei un po’ di Brahms; eseguirei per te spartiti: intense lotte ti presero dagli anni rossi in poi. Erano gli anni del tuo sangue mosto, in quell’inizio del Quarantatré dei fuochi dell’insania (1) e della resistenza al disonore nella terra dei santi e dei poeti. Oggi io compio seicentottanta mesi, (2) l’età della quiescenza regolare che in te e in me, Francesco, ancora schiude porte di luce, anche intensa, se mi figuro i compagni che già mangiano terra; oppure nella cattività di quattro muri si muovono inerti o foglie, fuori, temono di restare sull’asfalto; tuttavia non canto il peana di vita più di altri, ma mi illudo se semino o impianto espressioni di dediche agli amici di oro e di legno. 2. Lo sai: l’ ho riletto (dall’unità d’Italia ai nostri giorni) Storia della Sicilia, una summa, un secolo di azioni sulla terra dove fiorisce il cedro, dove pure - è ciò che tanto importa - è caduto il latifondo. La Sicilia industriale, terziaria e urbana…, la Sicilia baciata da Goethe. Sì, voglio oggi fermarti la mia convinzione, naturalmente piena, per la tua azione di storico, scrutatore di fonti. Indaghi i moti vetusti dell’Animale in una zona del pianeta terra, l’Isolamondo,

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come una scheggia entrata nel tuo stato, pure nel mio; e di mille genti di vario sangue e tabe bivaccanti nell’Eden isolano, dolciastro- amaro, poi. Ho letto pure i quattrocento- settantasei fogli ove registri l’inquisizione in terra di Sicilia: il clero, la sua vis obliqua, il fuoco, la teratologia del libro dei libri che si sbandiera ancora… (3); così tu hai riesumato un coacervo di bruciati sul rogo, grazie pure alla magistratura religiosa del Santo Officio dell’Inquisizione: vittime oscure, volute da una chiesa di osservanti per obblighi o interessi, mettono fiori mentre le ricordi, trovano quiete nella tua scrittura, monumento elevato / sofferto. Qui ora, Francesco, la giornata s’allontana, ma il sole lascia blande geometrie strane sui muri rammendati dell’anfiteatro, storia, trista dentro, mercato, come a Ballarò e a Capo di Palermo.

Verona, 11 Aprile 1997 (1) Insania, riferita ai potenti che vollero la guerra. (2) Il conteggio dei mesi che corrisponderebbero ad anni 65. (3) Il libro dei libri, la Bibbia, che è teratologia, discorso di orrido, violenza.

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IL RITMO INTERIORE Mi domandi un segnale per i segni. Che pratichi da tempo: pure tu per essere dentro. Cielo, acque e terre dell’Isolamondo in te entrarono e non sperdesti quando uscisti al Nord, ed ora esterni e fermi, non maculae, su tela, carta e pietra, ma come note per musiche arcane, leggibili / illeggibili; e sta la vis qui del tuo canto dove dimori sdegnoso e solo dici di moti della terra nelle sue stagioni: sulle tue tele, più grandi di lavagne, depositi in colori il ritmo interiore, le meditazioni, i ricordi, tutto in astratto, perché non “esiste cosa” ch’è “più concreta dell’astratto”, scrivesti pure nei tuoi Pensieri. Certo ti leggo: i tuoi diversi testi prendono luce strana, perché insegui espressioni che l’esterno ti ispira o detta e l’interno ti nutre, ti matura per rimetterle, poi, sotto forme informi. Pastorello, pare che tu rechi sopra un campo un gregge variegato di colori, di effetti, che sono talvolta miei, quando la febbre afferra, scuote, nei suoni che intendo ed allineo per te.

Verona, 14 Settembre 1997

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DETTO QUASI IN VERSI

PER UN LIBRO DI UNA MOSTRA

1. Il mondo immondo se sarà più mondo…, scrivevo nel mio Chronicon, lettrice d’arte, Vergine Lea (come a scuola qui il tuo cognome, prima, poi, il nome), e pare che tu sia tanto in questo verso, perché per te l’immondo assurge ad arte recato nelle foto, le carte, le tele ed altri mezzi singolari che fermano i segni di chi si accende ed insegue identità. Ho letto Trasch / quando i rifiuti diventano arte, il tomo poderoso (Electa editrice); e mi piego sugli scritti, sulle infinite immagini in esso, riprodotte: un’impresa che eleva la tua fatica, “pietosa insania”, per ciò che tanti esprimono. 2. Tutti “noi stessi siamo cestinati o rigettati d’altri essere umani” hai scritto – pare crudele – , ma subito rincuori: “più o meno ogni giorno, dobbiamo ritrovare, raccattare e ricomporre frammenti di noi stessi”. Ed è poesia: dal brutto si rigenera il bello. Pensa che dalle carni putrefatte di buoi nascono api, si librano in aria, si posano sugli alberi fioriti e, dopo, il miele puro, cui ancora ricorriamo, il miele nelle metafore dei sognatori. E venia, Lea, per questa digressione, poetica, favola di Aristeo, virgiliana. Tu ricordi i sacchi di quell’Alberto Burri, come pretesto, per dire dell’impiego dei rifiuti di mille forme, di mille persone, come potranno questi rianimarsi: spazzatura o trash che nei saloni d’arte in tutto il mondo viene prediletta, riletta promuovendo linguaggi e lavoro; “nulla si crea e nulla si distrugge” ancora può valere ? 3. Ma leggo pure che per alcuni mesi nel museo di Trento e Rovereto, dalle estese

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aree, questa nostra temperie, che umana / disumana ci sorprende, qui efficace si fa mostra di testi innumerevoli. E gode l’età diversa, qui entrata, ricarica la mente “Eccentrico, necrofilo, ironico, drammatico, ma talvolta anche giocoso e segnato da leggerezze e garbo il percorso”, una Belli per il tuo assunto arduo ha scritto. Et hac lectione vidi; ora prima che gli alberi inizino a stempiarsi (atto d’arte naturale), mi recherò a Rovereto e a Trento e lascerò gli occhi soprattutto dove si trova la scatola piena di quel Piero Manzoni. Vergine Lea, ho detto quasi in versi, come da anni faccio per gli artisti: laddove l’arte c’è, la poesia come sorella prende per mano.

Verona, 16 Ottobre 1997

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ESEMPI DI EQUILIBRATI ATTI

1. Certo fu il tuo esistere ininterrotto per un avere, non per te solo, ma per le tante bocche attorno a te, esempio di equilibrati atti. Io, amico, ti ho eletto tra mille indifferenti che qui si erigono false spighe, vuote, giallognole, profananti chiese quando in queste appaiano rapite verso l’alto per la neve d’argento… 2. Lunga è franata la tua resistenza pura agli urti; e non hai atteso che esplodessero i meli occhi bianchi e vermigli. Come gli alberi nudi, vivi di verde erano le tue parole, che presagi sinistri mi cantavano di questo tempo che si chiude nebuloso e ci chiude tra muri di nuova barbarie. Io so dove tu sei, Milani: nei radi cuori come mele (di collina) che libere si compiono gustose; e tra questi, il mio, carico di quanto sto scrivendo per te, Amico.

Verona, 20 Novembre 1997

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SELVAGGIO CROMATISMO

1. Se lasci o fermi su vari mezzi immagini muliebri abbrutite, la terra quando infiora, nebuloso artista Colombini io del Sud in Veneto ti voglio un po’ intendere: parla meglio il poeta al pittore, non ti consta. 2. Invero, da parecchio – non ti genero fumi d’incenso – con l’occhio già senile ti scruto ri / fatto per la tua copiosa azione; la più recente mi richiama in mente tempi remoti del kéramos, materia degli artisti; da loro la brocchetta da Gurnià, policroma con il frutto marino, la tazza di Vaphiò, con sopra espressa la forza di quei tori catturati o ancora il cratere di Dipylon, necropoli, o artista, pervicace per il segno… 3. Paiono sine tempore, queste sculture multiple che esegui, (brocche, patere, buccheri), come etruschi. con quel selvaggio cromatismo che dirompe e la materia avvampa. 4. Mi rivedo, leggendoti, negli anni del Quaranta quando con tizzi spenti volevo lasciare qualche bizzarro segno sulla pietra dalla forma di pane; ciò che non ci bastava volevo disegnare: castagne, fichi e pere; invece sulle brocche, che riempivo d’acqua, i volti delle donne contadine, tra queste, mia madre, adoperando le more strafatte dell’aspro nero gelso, monumento, spuntato dalla terra.

Verona, 9 gennaio 1998

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PRIMAVERILE POETICO Ventuno marzo. Il giallo della forsythia…: tenuta da un po’ di terra dentro un coccio da più anni mi annuncia l’uscita dell’inverno qui dove il corso dei miei anni è fuori, in Alto, lontano. Ma con la mente mi fingo fruizioni di ritorni nell’Isola; e passo per Bafia dove dimori, aedo Aliberti, osservando frequenti cieli inerti cantando, solo, la malinconia. E ti par niente?

Verona, 21 Marzo 1998

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PREMESSA PER UNA CONFERENZA SULLA BELLEZZA E LA DEVOZIONE

ALLA DONNA NELLA POESIA POPOLARE 1. La diversità dei corpi nelle società umane, i corpi rigenerati delle nostre donne gabbate dal tempo, quelli delle donne islamiche avvolti interamente dall’alto in basso dentro una vile veste come sacco e con due fori per passare la vista, gentile Trinchi, considero . 2. Nella mia terra di scali e scoli passò diversamente l’islam, non fu, poi, la donna in cattività: fu “rosa fresca aulentissima”, “madonna, in tutte parti / di bellezze”, così come fu vista, prima di Dante, da Ciullo e dal Notaro di Lentini. Dopo fu il canto, non scritto, dei caprai, dei giornalieri e degli analfabeti strumentali. Io questo puro andavo cogliendo dall’oralità della comunità del mio paese. Nel canto, devozione alla donna, magnifiche metafore; e la speranza di una forza in due rendeva tollerabile il lavoro bestiale per il pane.

Verona, 23 Marzo 1998

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L’ARTE DI UN MOLISANO 1. Non mi lacrima stasera l’occhio sinistro se pure entra il freddo nel corno del bue in questo Ariete, così posso applicarlo per vergare parole, che sono per la tua arte lasciata nelle estese tele, ordinario Tamburro, ventoso molisano. Credimi: non conta disseppellire padri del colore, connettere stucchevoli, ardui discorsi per ciò che non euritmia esprimi. 2. Strade, mostruosità dei mezzi, come treni, vetture sconquassate, facciate di case a Montmartre con l’impiego del nero, del bianco calce, di qualche chiazza sanguigna eleggi, ma, soprattutto, per l’ultima tua arte, corpi rudi muliebri, non obbligati, con un po’ di pezza o senza e, dopo, la malinconia dorata del fresco umano (come Barbara) in partenza o nei Caffè seduta con bicchieri sul tondo marmoreo. 3. Dell’altro: ho letto che pure te la dulcis Parthenope alimentava negli anni giovanili, forti, quand’eri mosto… Da lì fu la tua storia d’uomo e d’arte, non nuovo molisano.

Verona, 26 Marzo 1998

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RISPOSTA RITMICA AD UNA LETTERA 1. Fine d’agosto. Leggo ora la tua del ventidue di luglio ché ero prima alla marina, verso la Magna Grecia, ed il mio grido scaglio barbarico sulle case del mondo, per dirla con il bardo americano(1) libero in tutto, dal verso all’amore. Pervenuta con carte che sapevano di trash, è stata più osservata, letta. Ora riposa, singolare, tra prestigiose diverse scritture, come cosa di uno che praticò l’azione di resistere all’ignominia dell’insania nera italica e germanica: da non declinare, da ri / valutare, invece. Mi è rifiorita la volontà di intenderti in quanto mi seduci per cui tento letture alle tue macchie ri / prodotte ed editate nei grossi volumi. Ti faccio sapere: sulle tele, quanto pareti, gli occhi ho scordato alcuni anni fa, è stato a Lugano, stava uscendo l’estate, le acque lagunari cupe, maleodoranti come le Banche dentro, tutte fuori luce. Tu mi ritornerai quegli occhi, Emilio? 3. No, no, non è perché hai asceso alberi di fama che qui ti verso parole, ma per il vento puro che erompe dal tuo esistere generandoti gesti eloquenti su questo mondo-immondo, come per Zanzotto, Sanguineti e Cacciari; pure io dall’isola qui a Verona, non tanto distante dall’Anfiteatro, dove lacrimo dentro, per le terre disdegnate, per quelle arse-nere, per il fuoco passato, dove gli ulivi sono crocifissi strani bigi. E tu m’intendi: come potrei compiere discese laddove son partito ed andare per i campi, “geometrie nere”?E chiudo ora dicendoti che andrò (ed è utopia), plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges, tacitianamente.

Verona, 27 Agosto 1998

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IL POETA LEGGE MEGLIO IL PITTORE Così tu mi apri, in tutta la lunghezza, una metropoli, complice il gesto. Che lascia scie di rossi, neri, gialli ed ocra sopra il mezzo. La giornata si muta per te: dalle acque dolci del tuo Garda esplodono lampi sinistri, che pagine diventano di forze atmosferiche, complice sempre il gesto pittorico. “Nell’oceano profondo / della tua anima / getto le mie parole / in fitta maglia…”, per te, con questo andante, ha poetato Giuliano Sala dopo le sue letture al quadro “Reti”, un’altra tua occasione di colori. Quand’ero fanciulletto mi accostavo afflitto – effetti puri della tenerezza – ai roseti malati, forse, di sete, o di scarsa, rada chirurgia. Anche tu li hai visti, osservati, Tomezzoli, dove sono rimaste smangiate da tempo quelle case dei Padri, come ornamenti ai muri, quadretti naturali. Con te vorrei un giorno (pure con Sala) da qui passare per le “foreste incantate”, terminale, come espresse forte nel tuo esteso cartone. Ora si compie lasciandomi ri / fatto questa mia lettura al tuo gesto per tutto il coacervo di fulgide macchie, non escluse quelle lasciate sul cartone per il “Tempo d’estate”. Tu per me colori; io per te parole, da quel giorno che venni al tuo atelier, ho sentito ed ordinato, che il poeta legge meglio il pittore. Come già ho scritto.

Verona, 3 Dicembre 1998

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PROTESTA 1. Non ho incivettato questa mia recente poesia che forse nel Duemila alle porte farò uscire nella speranza che sia eucrasia di assunti per la mente, non con il taglio, comunque, di altri (1) che da tempo ri / passo senza sciogliermi per cui incomincio a dribblarli. Io penso (pure tu?): non ha obbligo fiscale l’azione del poeta da mille e mille intesa come illusione, nel vacuo ozio, di essere e restare, oggi e domani, calludus Lerose………….. 2. Da parte mia appongo violenza quando la mente si ingombra di nugoli o si turba come nelle giornate autunnali, in quanto contro l’indifferenza della vita / vedo inutile anch’essa la virtù / e provo forte come non ho mai / il senso della nostra solitudine (2); mi violento, voglio dire meglio, per invenire ritmi come pepite, proprio in quest’èra algida di cattività dentro mattoni e ferro. 3. Ora si assiste a tanta fioritura di albagie (3) nei poeti che hanno seminato appena sillabe in terre fesse aride. E si irraggiano questi poeti, credono di librarsi lasciando sotto i timidi, ma io già fermai simili cose, anodine per chi si muove al buio e, paucis verbis (sono aulico), eos arceo, orazianamente: intendo quegli epigoni del nuovo.

Verona, 21 Dicembre 1998 (1) Allusione a Sanguineti e al Gruppo “63; (2) Da Poesie di Camillo Sbarbaro; (3) Un riferimento a coloro che imitano il Gruppo “63

e pure a coloro che, come i funghi, spuntano poeti.

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OSCURE VIE DELLA MEMORIA 1. Mentre ti scrivo, mi arriva un’aria fresca, che pare si avventi e mi sfracelli le imposte dello studio, senza rifarmi, in cambio, con odori d’un tempo, di quei limoni in fiore, Tropea, che bene conosci ed hai ricordato qualche volta con i tuoi segni euritmici, variabili, nuovi. 2. C’erano di questi tempi lì, nell’Isola lasciata – chissà per quale astrale, inesistente, sperato più vero esistere – ragazzi che posavano gli occhi vivi per i rami stracarichi del frutto pallido-rosso appena del ciliegio alto. E pure, salendogli addosso a questo e passando per i rami, strappavano gai il frutto acerbo, non acerbo, in quell’età. Compisti pure tu eroiche azioni così quand’eri per le nostre terre e ti alzavi fiorendo di giovinezza, di ansie e di fughe per essere ed esistere………………….? 3. Celie della memoria strane, mi dirai: è vero, ma in esse io spesso mi annego disperdendo per poco il pensiero del calcolo di questo nostro tempo. So che assai ti duoli, Amico, perché – credi – non sei o perché gli anni abbassano; tu, invece, sei, pure io sono stasera, mentre penso che – ancora qualche giorno – arriverò dove dimori per leggere il tuo sangue, le macchie policrome nelle estese tele dei cavalli, delle avvenenti femmine ignude, in tutto ciò che è caos ed è ordine, invece. E chiudendo, mi sono trovato la poesia: “nelle oscure / vie della memoria, nelle stanze / misteriose dove l’uomo fisicamente è un altro, / e il passato lo bagna col suo pianto…”. (1)

Verona, 18 Maggio 1999 (1) da Poesie di Pier Paolo Pasolini

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PER I GIORNI INSIEME 1. Come riscattato … , avendo variato l’ozio di quest’altra estate, presso di te sull’ Ionio, a Roccalumera. E pensa: da qui un tempo, nella primavera sanguigna e nel fuoco di conoscenza passai per approdare oltre. Ora questo, neppure sognato, ritorno, il bubbone del tempo mi ha richiamato e fatto rifiorire di memorie, che possono, fittizia panacea, tanto ad uno che come me si ostina nella semina verbale. Che tu, Matteo, pure senti nell’ozio o studio, quiescenza un po’ difesa nel giorno che vacuo assale……………… …………………….E a te il mio cuore sano per i giorni insieme, per quell’olezzo dalla striscia erbosa di alberi e piante, miei, una volta, sulla Collina della poesia, Limina. Questi ti fanno luce nei ritorni, ornamento alla casa ri / fatta in onore al padre falegname. 2. Volevo dire sopra dei poeti: non vogliono tanti morire; e s’armano dentro di illusioni, credono pure di rimanere, in qualche modo, al paese, nella memoria di chi verrà. Ed è serena quiescenza studiata di suoni, , ma a me pare anche un esistere degno in chi verde di età così si alimenta indifferente agli ammiccamenti di una vita vile. Mi consola, Amico, il fatto che tu vagheggi uno scritto per la memoria più tersa di uno vissuto per anni nel buio poi che osteggiò duro il regime, quella vergogna in questa storia italica…, che seguita ancora.

Limina, 31 Luglio 1999

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CATALEPTON * I Potevo pure gustare in quel ritorno qualche frutto d’un albero scampato al fuoco. Io l’avevo affondato un giorno che suonavano a festa le campane. Io studente dimezzato, zappatore obbligato. II Lo divulgarono con aria maligna: in quella greve estate a Caprino avevi reso l’aria irrespirabile con le tue uscite di deiezioni culturali lasciate nella piazza della comunità di indifferenti. Ma ti elevasti ugualmente quanto un campanile. III Rimani tra tanti che sono sempre pieni di deiezioni ….: e quando - non poco ti godi - ti cadono generano musiche, paiono di Beethoven, divine. IV Che allucinante aspirazione al divino, al mito! Tutto ciò perché siamo per certo delle larve verticali imperfette con il sangue di pecore o di iene. V Ci vedevamo una mattina inani con a petto la quercia, la maestosità dell’abete, pure dinanzi ad una vita d’erba tremante esile, uscita da una crepa del cemento armato.

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VI Per strade fesse (altri tempi) smaniavano asini e muli …. Sull’epa lo sbattevano con ritmo; agli angoli delle case contadine, con ruvide vesti lunghe, anziane donne pisciavano all’impiedi. E i ragazzi crepavano di risa, mentre le giovani in piume si urtavano tra loro. VII Non si contano i poeti; tra questi, il più squillante dimora, da sempre moribondo, dove muore l’Esperia. VIII Conscio di intaccare, se sconfino, la mia reputazione, ma invero la lingua non ha ossa e lesiona le ossa e le medesime, talvolta, di chi spesso la muove. IX E Baudelaire scriveva che è satanico il commercio “perché è una delle forme dell’egoismo e la più abietta”: era, senza volerlo, pure lui dentro una tabe sociale: siamo in tanti che traffichiamo parole per lo stato; noi maestri a favore o a sfavore di alberelli umani parole di regole. E non si illuda quel padano fine di viverne fuori con le case al sole, due sull’acqua ed una sopra il colle che rifugge; ed è pure poeta, tutto purista, moraleggiante, capace, quando si apre, di nutrire i cetrioli. X Ricordi... Salimmo impudichi ragazzi

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su mucchi di pietrame, le nostre “montagne”, e tirammo fuori ognuno la rosa implume: vinse chi mandò più lontano l’acqua giallastra. XI E’ primavera qui da giorni; e fuori persone ornate, anfananti, allevatrici di cani e calunnie. Defecano i fedeli nelle aiuole, per i lubrici marciapiedi; e cadono calunnie su chi sale; e tutto il male non vien per nuocere: Rimbaud passò alla nostra attenzione, alle indicazioni libresche perché tanto colpito per le sue parole bieche. Poeta, che trafficò armi e rivolse la sua rosa a Verlaine perché doveva ascendere alberi di fama. XII Ancora un ennesimo ritorno all’Isola: nei tre giorni di calura, che sono parsi mesi senza alcuna variante di brezza, pure a sera, si sentivano le donne anziane recitare da un balcone all’altro amari versi, piangevano, poi, per la terra arsa sul loro petto vecchio, per i fichi d' India dal frutto oppresso e nano, per il cielo eguale, infausto. XIII Remote estati…: di notte, senza luna. Mentre si stava seduti sui muretti a secco cercavano mani ruvide di maschi arsi il nido fiorito alle donne. S’era quietata la guerra da poco ma i ragazzi la volevano colpendosi con rancida frutta. XIV Un po’ fuori dall’Urbe mentre la giornata estiva declina oltre cattedrali verdi; compie la sua azione la civetta uscendo dall’oscura vagina arborea per alienare dalle gabbie i canarini, il canto ai bambini e ai vecchi.

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XV Crepuscolo ottobrino e nordico acquoso Da alcuni balconi dell’enorme con/dominio resistono occhi rossi di gerani, mentre il tossico dell’agiatezza addosso, spettrale, scontano presenze dentro; quest’ultima storia… XVI Per la vallata il treno, tra abeti fioriti di nevischio. Ed avanza febbraio, il sole ci corteggia a tratti tra Innsbruck e Verona. Vita spettacolare, poco fruita così da un treno, con a destra e a manca la terra a nuovo, alba. E c’è chi si racconta sommessamente e chi attende che si dilegui la caligine delle giornate avverse. XVII Dopo la lettura, l’altra sera, riflessioni su Ecuba: regina di ingegno, spense a Polimestore gli occhi e i due figli coadiuvata da altre donne forti di dolore dentro le tende in riva al mare, bivaccanti schiave dei duci vittoriosi greci. Agamennone - acceso sotto il ventre - si godeva la profetessa Cassandra, tra mille sventurate donne la più sventurata. In cambio valse la sua carne superna perché placò il duce che vide Polimestore fontana di sangue con i suoi figlioli esanimi e più in là il tesoro complice di Polidoro ombra. XVIII DE CAESA QUERCU (Esercizio, dedicato a E. Debenedetti) Ubi umbra erat, nunc se mortuam expandit querqus, nec cum turbinibus certat. " Nunc aspicio: et magna erat "ait vulgus. Pendent hic atque illic a corona niduli verni.

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Ait vulgus: “Nunc aspicio: et bona erat!”. Unusquisque laudat, unusquisque secat. Vesperi quisque it cum manipulo gravi. Per aera capinerae fletus: quaerit nidum, quem nunquam inveniet. * In più luoghi, dal 1992 al 1999

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ALTRA POESIA

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POESIA RITROVATA

Non è perché ti annidi sopra, in alto, leggiadro capitano di una fede, ch’io ti ricordi il venti di gennaio, ma per l’atroce martirio provato - raccontano - con le avvelenate sul corpo frecce. Io provo di dire parole blande, pure per il nome dall’avo preso; in seguito, da me. E poi tu mi riporti alla mia terra, lasciata tra le acque per la scelta di questa alta Italia. Una gentile

ti crede, ti ricorda in questo giorno, sconvolge me, si illumina e disperde

il suo timore, vacuo, in confronto al tuo supplizio, vero o di leggenda, non conta. Tu ispirasti, ancora ispiri artisti. Questo vale, soprattutto.

Verona, Gennaio 1970

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ET OMNIA FERT AETAS La croce del tempo, strumento di supplizi... Vorrebbe, questa, così verbale sulla lastra lustra, ancora orpello all’avello, ricordare i resti corporali, chiusi di uno nato a Limina duro lettore per farsi. E che cosa si può aggiungere di puro e di sobrio? Che egli scrutò mentre glabro obbligato un’infida terra, e ghiande contò, nocciole, spighe a luglio cadute ai mietitori dal mannello; verso sera o estate inverno, al ritorno dai campi in paese, provò nella camera angusta complice il libro, con lunghi o brevi versi su grigiastra carta: non tanti, ma scritti sotto esile luce che in lui si andava poi espandendo. Uscito poi dalla terra, ecco il mare, la città dove cadde e ricadde ed impiedi con voglie che erano battaglie. Questo per chi vorrà sapere un po’ di uno scrivente comparso nel Millenovecento32, per chi vorrà leggere il poeta, fumo a quella nera gente che si disfa al ferro, all’oro, vili, senza limpida sorte di scegliere e odorare viole delicate in riva ad un ruscello terso quando esce l’inverno. Et omnia fert aetas.

Verona, Dicembre1999

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PROMESSA MANTENUTA Proprio da chi dall’Isola equivoca, infamata a sproposito, in questa tua landa è arrivato, mantiene la promessa di versi o quasi fatta dinanzi a Mario, sagace interprete dell’ieri e dell’oggi, Tiengo del Polesine, insediato nella terra del Concilio, ancora aperto, a Faedo, comunità di poche anime, dove tu rude resisti e la tua azione vera non si smorza e ti oscuri all’ombra del glicine che potente fattosi ti insidia prepotente il cemento all’entrata. Durante le due sere a Faedo, dove hai assestato pietre per l’ozio altrui, si diceva (e precisava Geymonat) di storia, quella nostra, e asciutti restavamo certi di un suo volto terso - umano, ma v’era qualcosa in questa che olezzava di poesia. Che non è poi un andare a capo, un grafico gioco o un allineare parole ritmate o quasi. La poesia nei nostri discorsi a tavola, quella nelle aree educate per i vigneti nella discesa partendo da Faedo………………… Che cosa ancora di diverso io potrei, per appagare il tuo convinto invito, su questo foglio aggiungere? Che un altro maggio del Tempo è andato via. Il Tempo porta via tutte le cose, compresa la memoria.

Verona, 31 Maggio 2000

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AI GIOVANI DI UNGHERIA ITALIANI Il sei di maggio io ancora ricorro a questi quasi ritmi, nel ripartire, per voi fiorenti e per la terra di Ungheria, Zsombathely. La piana verde con l’argentea orogenesi, non distante, dolce vi sottraggo. Giovani del Sessanta qui da anni, trasmettete quanto “ poté la lingua nostra” e può ancora sebbene strozzata con barbarismi di lingue egemoniche. Io bene a voi e onore a voi lungo la via del ritorno, alla residenza di elezione, la città di Cangrande, dove ancora - e infallibilmente il tempo affloscia - lacrimo come vite potata nello stolido marzo, per ciò che non avrò.

In viaggio, 6 Maggio 2000

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PRECISAZIONE AD UNO SCALIGERO Orator o - meglio - garrulus (nell’accezione di armonioso) il mediterraneo, scaligero, già in letargo da giovane. Il tuo silenzio che trasmuti in dote, quando muovi cinerea la lingua moscia, non mi pare tale; è tossico soppresso, bassezza ed impotenza per cui ti irrita la capacità del verbo limpido, strapieno, pure poesia. Di conseguenza, non intendi partenze, esili, varchi di conoscenza di colui che sale qui, ma non si nordicizza, onora invece in questa tua distesa l’Unità. E ti credi, ti elevi se conquisti qualche epiteto basso nei confronti del forte e leale. Mi vergogno al tuo posto e mi affliggo.

Verona, 20 Giugno 2000

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L’INELUTTABILE* Quando mi accorsi infine che il corpo non era come ieri più che vero ruppi a risate per l’esistere despota e fu la volta ancora di poesia. Mi distolse all’istante una storiella di crudele saggezza: “C’è il peggio” disse un amico all’altro quando scorsero un tizio penzolante da un ulivo secco…………. Ripresi a poetare preso com’ero da una pollachiuria assai molesta, pure da un processo che gravava espansivo sul mio rene destro, sinistro. Tu me lo accorderai, Ineluttabile, sicuro, in cambio, un po’ di tempo. Vorrei laggiù, in questo nuovo anno, assaporare laddove sono uscito un po’ di aprile. Assieme a questo, dopo, Domina suavis, prendimi il corpo, prostralo infine mentre imbocco una via al paese con quella nota brezza estrema sul volto che congeda la collina. *Testo dedicato a Salvo Agnello

Verona, 27 Gennaio 2001

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TRIBUTO IN VERSI PER LAURA CATTANEO

Ricambio per la limpida missiva, come quelle che un tempo vergavamo per amici parenti, afflitti, analfabeti; vi ho letto un cuore schiuso, solidale ad un caduto. Mi è nato un fiore inaspettatamente nel corpo: non lo vedo. E potrei “cadere dalla vita”, come canta a Varvàra (1) Quasimodo ammalato ricoverato al Botkin di Mosca. Signora, tu resisti a questo esistere (il tuo, il mio e di mille)incognito, ti elevi e fiorisci cantando su Alture. Muovi adesso per me sulla tastiera le tue dita: soltanto un po’ di suono mi farà variato di natura .Come etereo. 1)Varvàra Alexandrovna, infermiera (cfr. la silloge Dare avere in Poesie e discorsi di Salvatore Quasimodo, Mondadori, 1983).

Verona, 25 febbraio 2001

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QUESTO ASSURDO VECCHIO VIZIO Che vuoi ch’io verseggi, quasi, in questo anno, che stramazza con il due, due zeri e uno, del prodotto mediale? Se ne avrò e suonerà discreto te lo invierò per posta o brevi manu se ti stanerò dallo spazio di carte e di cartacce. Ti posso comunque fare avere questo assurdo vizio vecchio che è l’oggetto scritto: e ti dice ch’io mi irrito e non vedo le mosse immagini mediali che da tempo cascano a mezzogiorno o a sera nei piatti pieni di brodo o d’ altro. Mi irritano le morti di gente vecchia e tenera, ma vergogna pure cade nelle pietanze ornata di mielose voci che invitano a lasciare il tuo avere là, dove si truffa: le banche, invise certo dalla poesia. E pure questa invisa dalle banche.

Verona, 31 Dicembre 2001

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CAVALCANTIANA Perch’i’ non conto più di tanto altri rientri alla Valle d’Agrò, arriva tu, leggera e piana, ballatetta, alla mia gente dura e pura che non salpa o è lassa smuorendo oltre quel letto asciutto grigiastro del torrente. Di queste, ballatetta, racconta mie ossa e carni compresse sebbene resista (e in alto le sospinga) la testa, atta a segni ancora, che non molesta le illusioni. Librata, ballatetta, per la Valle alla secca Collina dei Poeti, Limina, con accluso il cuore, per terre derelitte, poiché non ullus aratro dignus honos.(1) Difatti, io da Mantova, arata tersa da acque frequenti, eletta, per questo, ti affido, ballatetta, alla partenza; e toccherei il cielo se sapessi che, affranta, pervenuta, donne ti leggerebbero in fiore e ti conserverebbero tra i seni turgidi e veri. Non altro, ballatetta; viaggia agile e piana per l’aperta bislunga, anziana Italia.

Verona, 21 marzo 2002 (1) Dalle Georgiche di Virgilio

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MI ARRESTO D’ESTATE * Il tuo invito di scendere d’estate laggiù ambiguo. Io per questo, qui non afflitto mi arresto nel sole agostano che frequente affoga l’acqua forte.

Non scendo. Pure qui discretamente mi prende in certe ore una brezza: non è di Taormina o della nuova Limina, ma è della Lessinia mondata, verde. Al ritorno del Cane poi dalle scaglie d’un cedro del Libano mostruoso le cicale stridono forte. Tu mi dirai:“non sono le nostre”. Ed io in risposta: “ sono il pianto di una pletora di menti che va svanendo assieme al loro fumo”. Ascolta: Non potrà nulla accadere più bello della morte.(1) Mi è apparsa sul muro a secco ornato di gerani luminosa un meriggio a Caldiero dove vagavo ed inane ero tra gli annosi ippocastani. * Testo dedicato a Mario Allegri

Verona, 8 Agosto 2004

(1) Da Foglie d’erba di Walt Whitman

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DONO

DI UN ALTRO GIORNO 26 aprile del 2005. Oltre Quinzano, aprica area sul colle ingemmato di ulivi, un po’ mediterranea ... Al margine della livida traccia lacrima l’asparago amarognolo colto, mentre compare la lucertola. Strisciando riluce, si acquatta pudica nella pomeridiana luce. Un dono, un altro giorno che alla Signora io storno.

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ALTRE NOVITA’ Rosa demissa rosa, io non ti canto come in litania, ma così diversamente in breve, perché a singhiozzo sonnecchi vessata, complici lunghe stagioni di gocce intense versate in vari alvei muliebri. Non per questo erosivo il mio tormento, ma per le gocce fattesi carne umana, perdutamente incerta. Pure per te così, Ermini, che motivato adorni del nostro tempo giorni completi e pudico sorridi ai Bavio e ai Mevio? Ma questo tempo, che tutto si abbruna, presto - dicono - più non sarà: il globo si disfarà, ma ci saremo nel caos, i poeti.

Verona, 2 Febbraio 2006

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VERSI ALLA FIGLIA

Se imperversa su te la mala sorte, l’incertezza, la tremula paura, mentre ti aggiri fra la dura algida gente, non è proprio il fluire dinanzi a te di un nulla. Lento rientra, esplode l’Ariete; risorgi allora per il vecchio padre, che ti poèta dacché sei comparsa su questa plaga opaca che rigetti, pure a ragione. Egli ti recherà come una volta nel verde autunnale. Saltellò (lo ricordi?) quel mattino in campagna dalla rada siepe librandosi leggero un pettirosso. Potesse il tuo pensiero come il raro pennuto.

Verona, 9 Aprile 2006

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A Sebastiano Calabrò Come un destino nei torridi giorni - amico, lo riscrivo, e non mi disfo - la mia calata ennesima laggiù dove sono e non sono; e prima del vento si consuma il sofferto breve soggiorno agostano. Da tempo non osservo al nostro luogo l’apoptosi autunnale: tu non ricordi - caduta la calura - s’aprivano le capre, in processione andavano le tortore e le rondini, lunga la distesa salsa, i lidi d’Africa lontani... Ti lascio qui - tu pure presto andrai - nella brezza che prodiga arriva, a sera, la sola che consola chi ritorna.

Limina, 18 agosto 2008

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PER DONNA FOSCARINI

Non lo ricordo il volto che tu avevi (e non lo configuro), gli occhi, la chioma, se un trentennio è caduto nell’abisso del tempo che rientra invero amaro come polpa di mandorla selvaggia. Ma sento solo ora la tua voce, che accenna a un tuo esistere avverso e mi raggiunge qui in questa plaga dove vige il profitto, mentre smuore l’ umano decoro. La certezza in me si fa più intensa di arrivare laddove il cielo plumbeo dei Visconti sarà un astratto di nuvole bieche, mostruose e di acqua, che monderanno l’urbe mutata, ab illa, viva e morta. Ti rivedrò sicuro. Questi versi, quasi barocchi, ti spedisco intanto.

Verona, 12 settembre 2008

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10 aprile 2009 Così ti sei insediata, come un'adolescente angosciata, Primavera dal fiore di rapa, dalle api librate. Non si inquieta ora più di tanto il poeta se innanzi a lui rimane maria undique et undique caelum (1). E mutato si finge quell' èra del bellico disastro, nera; da poco appena alfabeta, fioriva con il verso di Tibullo e lo animava il povero Luciano con la sua lingua ellenica. E come allora, si inabissa il poeta - osteggiante gli atavici soprusi- nel cuore degli Antichi. Verso sera, mi pare che rovesci densi di un tempo versi, completamente tonda, la luna, nella piana veronese. (1) Dall’Eneide di Virgilio

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FIORI DI PESTE*

* Scritto, dopo il testo del 12 Giugno 2007, dal marzo al maggio 2008.

A Silvio Pozzani

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Protasi Non peste tutte quelle deiezioni cascate dalle bestie per le vie sbilenche del paese. Nei canestri venivano raccolte dalle donne come alimento per le graminacee. Al contrario, peste la protervia di acefali terrieri che noi superammo nel percorso d’una ascesa diversa: ed alfabeti fiorimmo lentamente con decoro. Non decliniamo però la pestilenza che frequente abbatteva i porcellini, precaria economia dei contadini, e li cani ci ficiru la festa. (1) I Un sentimento l’odio; e genera, se oltre resiste, guerre. Sottrae alla vita il piacere quotidiano di un esistere quieto. Allora la peste di Atene in armi nella Sicilia; la sua armata distrutta, due generali giustiziati e, tra le feci, morenti i prigionieri, dentro le latomie, le cave pietre a Siracusa. Dice della peste ateniese Tucidide, della guerra del Peloponneso che uccise, un lustro dopo l’altro, per vent’anni, i congiunti nemici Toccò, dopo, al cronista un ventennio di esilio. Tema mai concluso il suo luogo della morte. II Il sedici gennaio del 2008. Rileggo ill De rerum natura, di Lucrezio. Come mi avvinghia e mi dilania lo spirito verbale: il godimento è breve per gli umani,

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il tempo consuma le pietre. La peste che il Poeta canta prese le bestie; la verga si recisero uomini con il ferro, nella speranza di vivere ancora. Il morbo prima aveva invaso i genitali. Vivebant ferro privati parte virili. Su esanimi fanciulli corpi inanimati di genitori avresti potuto talora vedere, e viceversa figli esalare la vita su madri e padri. * *Examinis pueris super examinata parentum corpora nonnulumquam posses retroque videri matribus et patribus natos super edere vitam. III Qui una volta per una infezione, proveniente dal cielo, una stagione orrenda ci sorprese; e fuoco a non finire, che morte cagionò ad ogni bestia. L’acqua, che non mondava, i pascoli infettava. Cade fumante sotto il greve aratro il toro, sangue dalla bocca, misto alla schiuma, manda gli ultimi lamenti; muore pure difesa dai rifugi tortuosi la vipera; pessima l’aria agli stessi pennuti che esanimi precipitano dai nembi. E strage a caterva e cumuli di morti. La peste, questa, del Norico nel verso del Cantore mantovano. IV Non fu di Apollo una punizione, ma una peste primordiale che il cuore agghiacciò a Marco Aurelio a genti per tutto l’ Impero romano. Lo attesta Ammiano Marcellino.

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Nel tempo che il volgare si raffina e scorre lento da noi il Medioevo, una brigata di giovani, emergente la pese in Firenze, scioglie una varietà di grandi temi. Era il 1348: peste, femmine ardenti, campagne deserte,i nobili abituri vuoti, squallide bare, la vita abbrutimento e godereccia. La pietà di Boccaccio moralista, il suo racconto, il contagio, la scena dei due porci che si infettano zufolando muoiano, metafora di ieri e di oggi. Morte nera a Messina un anno prima. Le dodici galee genovesi ripassarono il mare, verso l’alto, all’ urlo della gente già infetta. Ai remi semimorti i marinai. V Scendeva dalla soglia d’ uno di quegli usci la madre di Cecilia, come la falce, la peste viaggiava sui carri; algidi e cupi i monatti; la scienza allo studio del morbo... Caddero uniti carità e soprusi. Nel tempo la Città, di evirati cantori allettatrice, (2) dedicò una strada al Ripamonti, inteso dal il Manzoni... Sicuramente la soglia ridiscese quella lombarda più orbata del suo sangue... Poterono tuttavia scampati finalmente unirsi quei ragazzi, i due vili meccanici. VI Le guerre come pesti nell’Italia aperta, spezzata e unita. Non doloravano

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i giovani uccisi sull’Isonzo e a Caporetto; le madri nelle case doloravano. E c’era pure l’ordine di morte ai disertori mangiati dalla rogna, denutriti. Ne caddero al motto blasfemo: “Dio e la patria ti maledica!”, mentre algido e lustro nutrito il generale Luigi Cadorna, carnefice.... “Monte Grappa, tu sei la mia patria...”. E poi il morbo, chiamato “ la Spagnola”. VII Il grido delle rondini più flebile e i fiori arrivavano aperti nella città: non goduti, coprivano i petali i marciapiedi polverosi. Niente feste dell’acqua e della carne, la gioia andava in fuga e il vento che levatosi soffiava sulla città appestata. Quando passò, gridi e gridi di allegria per la città. Ma la folla ignorava che il bacillo della peste non muore né mai scompare, può a lungo sonnecchiare dentro le proprie cose nelle case. E qui la peste di Orano, che leggemmo e la barbarie germanica in Francia, combattuta dal genio di Camus. VIII Nulla salus bello. La guerra, una peste. Che non era passata, restava invisibile - dicevano i contadini - mentre andavano ai campi, sognando la spiga, la luce dell’ulivo, l’allegria della vite. E chi la vide non corruttibile del corpo, ma dell’anima poi che contagiò per prima le donne, la porta aperta

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ad ogni male,(3) ma non si aprirono ai tedeschi le vere donne. Solo le prostitute. Fu nel Quaranta quella sorta di peste morale nella Napoli babelica. Ma tu non conosci il respiro dei giovani con mutile le arti e forati i polmoni, complici il gelo e la fame in Russia. E gli uomini-carbone, i protoantropi nerastri di Nagasaki e Hiroshima. IX In vero: dopo, l’uomo si rialzò, corse incontro all’opaco profitto. La mia anima non si nutre di edifici, non riceve salute dalle fabbriche neppure tristezza, insorgeva cantando Pablo Neruda. Le pesti dell’utile scienza, mentre si resta in più zone del globo saziati di mosche. X Divitias cogere... E avvelenò le teste il profitto, dilagò l’ignominia. Qui più si profila ora lo spettro della fame. XI Remote estati: more di rovo strappavano i ragazzi; nel refrigerio d’ autunno, le donne erbe mangerecce. Quel nutrimento della terra sana..... Ora appestata.

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Epilogo Brucia, appesta il rifiuto industriale a Napoli, che ora più muore cantando, con la tabe alle porte. Più remote Ischia e Capri. Fanciulli oltre i trent’anni, nell’agio, con la mente a pezzi buia; io, quasi a otto lustri doppi, vivo e mi inabisso in alto ove finisce la crepata Esperia. Non dovevo salpare dalle acque ioniche, ove, sopra l’Agrò, ebbi la tana. Arcana/ineffabile poesia un tempo il ronzio di api e il volteggiare di rondini basso. Non poco mi deprime la loro trista fine. Almeno io potessi cantare la favola di Aristeo e la lucciola errante appo le siepi, (4) invece sarò ancora per cantare la tabe della fame. E qui chiudo nel maggio del 2008, proprio di maggio questa impura aria. (5) (1) Un verso nel dialetto liminese di Alfio Casablanca (2) Da Dei Sepolcri di Foscolo (3) Da La pelle di . Malaparte (4) Da Canti di Leopardi (5) Da Le ceneri di Gramsci di Pasolini

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DALLA TRADUZIONE DELLE GEORGICHE

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PRIMO LIBRO

(vv. 471 – 511)

(…) Quante volte scorgemmo, in terra dei ciclopi, il Mongibello ribollire ad onde e vomitare globi di fiamme e sassi liquefatti dai crateri rotti! La Germania intese per l’esteso cielo un suono di armi; ebbero le Alpi insoliti sussulti, persino per i boschi consacrati fu intesa da tutti una potente voce e nel buio della notte si scorsero pallide ombre, come prodigiose, le greggi – cosa indicibile – parlarono; i fiumi si arrestano, le terre si aprono; nei templi va in lacrime mesto l’avorio; emettono sudore la statue di bronzo. Avanzò schiantando le selve con insano vortice l’Eridano, il re dei fiumi, e in ogni campo travolse gli animali, comprese le stalle. Furono frequenti in quello stesso tempo apparizioni di fibre nefaste nelle viscere tristi dei morti o uscite di sangue dai pozzi o forti urli di lupi nelle nottate in città. Non si verificarono altre volte più cadute di fulmini con il cielo quieto, nemmeno arsero tante comete sinistre. Per questo, Filippi vide il ripetersi di schiere romane lottare tra di loro con le stesse armi; non fu per i celesti un fatto indegno che l’Emazia e gli stessi campi dell’Emo due volte s’ingrassassero del nostro sangue. Sicuro, pure verrà il tempo quando in quei campi l’agricoltore, aprendo la terra con il ricurvo aratro, raccoglierà pili smangiati dalla scabra ruggine o colpirà con i pesanti rastri inconsistenti elmi e scorgerà stupito grandi ossa nei sepolcri sconvolti. O dèi patri, Indigeti, e Romolo, e Madre Vesta, che il Tevere etrusco e il Palatino romano salvaguardi, consentite che almeno questo giovane soccorra il secolo sconvolto! Scontammo in precedenza e tanto con il nostro sangue l’infamia di Laomedonte troiano; già da tempo, o Cesare, a noi ti invidia la celeste reggia e si chiede che sia tu a farti carico di trionfi umani, in quanto qui la legge non è legge; tante guerre nel mondo e la delinquenza presenta più volti; non si onora l’aratro; cacciati i coloni, regna per tutti i campi squallore e rigide spade sono ricurve falci. Di qui dichiara guerra l’Eufrate, di là i Germani; le città vicine, rotti i patti, si fanno guerra; per il pianeta impazzisce Marte (…)

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SECONDO LIBRO

(vv. 303 – 342) (…) Spesso agli incoscienti pastori scappa il fuoco che prima nascosto, coperto nella grassa corteccia s’attacca e prende per le alte foglie, cagiona un enorme strepito per il cielo; poi prende per i rami e per le alte cime e domina forte e avvolge con le fiammate completamente il bosco, invia al cielo un’atra nube di caligine simile alla pece soprattutto quando dall’alto si scatena una tempesta per i boschi e il vento fa grande gli incendi, li propaga. Quando ciò accade, le viti deperiscono dalle radici e, potate, non si rifanno uguali, verdi dalla profonda terra: non muore l'inutile oleastro con le sue foglie amare. Nessuno, tanto prudente, ti consigli di trattare la terra, ripida per il soffiare del vento di Borea. Allora l’inverno con il suo gelo paralizza i campi, non consente – buttati i semi – che la radice dura affondi nel terreno. Propizio il tempo per i vigneti durante la ridente primavera, quando ritorna l’uccello bianco odiato dai lunghi serpenti o con i primi freschi autunnali, quando ancora arde il sole e non tocca l’inverno con i cavalli; già finisce l’estate. In questo modo, la primavera è favorevole al verde, alle selve; a primavera si gonfia la terra, reclama i semi. Allora l’Onnipotente Padre Etere con piogge fecondatrici scende nel grembo della sposa lieta ed enorme alimenta unito al corpo di costei tutti i semi. Allora impervi boschi risuonano per il canto degli uccelli e, in certi giorni, gli armenti cercano amore; prolifera la cara terra e con le tiepide brezze dello Zefiro si aprono i campi; in tanti sovrabbonda un tenero umore e, con certezza, si affidano i germogli al nuovo sole; non teme il pampino nuovo l’incalzare degli austri o la pioggia spinta per il cielo dai potenti aquiloni, ma sporge le sue gemme e spiega tutte le sue foglie. Sarei certo che splendessero all’origine del mondo che cresceva giorni non diversi o che avessero altro tenore; la primavera era quella, l’enorme universo portava la primavera e gli Euri frenavano i freddi soffi invernali, quando le prime bestie bevvero la luce e la terrena progenie il capo sollevò dai duri campi e le bestie furono immesse nelle selve, le stelle nel cielo.

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TERZO LIBRO (vv. 322 – 366)

(…) Quando la lieta estate, con gli Zefiri che chiamano, spingerà per i boschi e per i pascoli l’uno e l’altro gregge, con la prima stella di Lucifero, prendiamo le fresche campagne, durante il nuovo mattino, mentre le piante biancheggiano e la rugiada sulla tenera erba è assai gradita al gregge. In seguito, quando la quarta ora del cielo avrà portato sete e le cicale lamentose, cantando, annoiano gli arbusti, ordinerò perché le greggi bevano in pozzi o in profondi stagni acqua limpida in canali di elci; ma con il mezzogiorno trova una valle ombrosa dove la grande quercia di Giove dall’antico tronco tenda gli enormi rami o dove un bosco oscuro si estenda con la sacra ombra; dopo, di nuovo si somministri limpida acqua e, di nuovo, all’occaso, si pascano, quando la sera fresca tempera l’aria e la luna rugiadosa già rigenera i boschi e risuonano i lidi per l’alcione, i rovi per il cardellino. Che cosa ancora cantando ti dirò? Dei pastori di Libia, dei pascoli, dei villaggi popolati con rade dimore? Spesso, di notte per l’intero mese, il gregge si nutre e vaga per estesi deserti senza alcuna dimora; molta pianura si estende. Ogni cosa, il pastore afro porta con sé: il tetto, il focolare, gli arnesi, il cane amicleo e la faretra cretese; così il romano, fiero con le armi patrie, quando s’immette per la strada carico d’un peso ingiusto e, fattosi il campo, sta in colonna, verso il nemico, prima che sia attaccato. Ma non in questo modo dove c’è la gente scizia e l’onda meotica e il torbido Istro, che volge gialle arene e dove il Rodope ritorna, dopo essersi spinto verso il polo. Là rinchiudono gli armenti nelle stalle, né erbe compaiono nei campi o sugli alberi foglie; ma estesamente giace la terra disamorata per i mucchi di neve e l’intenso ghiaccio che s’alza sette cubiti. Un inverno senza fine, ininterrotti i Cauri che recano freddo; in più, il Sole non dissipa mai le pallide ombre, né quando s’innalza recato da cavalli, né quando si lava il carro precipite nelle acque rossastre dell’Oceano. Improvvisamente s’incrosta la corrente del fiume e già l’onda regge sul dorso cerchi di ferro, e s’infrangono i bronzi dappertutto, dure si fanno le vesti addosso e i vini liquidi vengono tagliati dalle accette e interi laghi diventano solido ghiaccio, le gocce s’induriscono sulle incolte barbe ricciute.

QUARTO LIBRO*

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( vv. 116 – 157)

Se, in verità, alla fine dell’ultimo mio impegno, non ammainassi le vele e mi affrettassi a volgere la prua a terra, forse canterei pure quale cura, per coltivare, orni i prosperi giardini e i roseti biferi di Pesto e in quale modo la indivia goda bevendo ai ruscelli e le verdi rive godano dell’appio e il cocomero tra l’erba avvolto si ingrossi sul ventre; non escluderei il narciso che tardi infoglia e lo stelo flessuoso dell’acanto, le argentee edere e i mirti che amano i lidi. Infatti, non dimentico di avere scorto sotto le torri della rocca ebalia, dove abbevera le terre biondeggianti il bruno Galesio, un vecchio di Corico, che aveva pochi iugeri di terra abbandonata, terra infeconda ai giovenchi, terra non opportuna per gli armenti, pure per i vigneti. Ebbene, questo vecchio, piantando fra gli sterpi un po’ di cavoli e bianchi gigli, verbene, tenui papaveri, uguagliava in cuor suo le sostanze regali; e ritornando a tarda notte a casa riempiva la mensa con le proprie vivande. Il primo che coglieva le rose a primavera e i frutti in autunno, e quando il triste inverno rompeva con il freddo persino le pietre e con il ghiaccio allentava il corso delle acque, egli tagliava già la chioma al tenero giacinto, rinfacciando l’estate e gli zefiri che tardano a soffiare. Pertanto, era il primo che abbondava di api pregne e di parecchio sciame ed otteneva dai favi spremuti miele spumoso; possedeva tigli ed infiniti pini e quanti erano i frutti di cui il fertile albero si vestiva, nella primavera in fiore, altrettanti ne maturava in autunno. Pure egli piantò in filari olmi tardivi e duri peri e pruni che già producevano susine e il platano che già ristorava di ombre i bevitori. Ma io stesso, in verità, bloccato dall’iniquo spazio, non tratto queste cose, lascio che altri, dopo di me, ricordi. Ora, in conclusione, tratterò la natura che lo stesso Giove diede alle api, per la quale mercede, avendo queste seguito i suoni canori dei Cureti e i crepitanti bronzi, nutrirono i re del cielo nella spelonca dittea. Sole hanno in comune i figli, insieme le abitazioni della città, consumano l’esistenza sotto ferree leggi e, sole, accettano una patria e sicuri penati; memori dell’inverno che incede, sperimentano la fatica nell’estate e i prodotti accumulano per tutti.

Verona, Novembre 1995 - fine Luglio 1999 *La traduzione integrale è stata pubblicata nel luglio 2002

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DALLA TRADUZIONE

DELL’ENEIDE

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DAL QUARTO LIBRO* (vv. 160 - 196)

Intanto con grande frastuono il cielo inizia a sconvolgersi, incalza una tempesta di pioggia mista alla grandine; i compagni Tirii, la gioventù troiana e il dardanio nipote di Venere cercano, qua e là, spaventati, ripari diversi, per i campi. Si scatenano dai monti torrenti. Arrivano alla stessa spelonca Didone e il troiano. Per prima la Terra e la pronuba Giunone danno il segnale; rifulsero i folgori e il cielo consapevole della copula, le ninfe ulularono sul vertice del monte. Quello fu il primo giorno letale, la prima cagione delle disgrazie, né difatti, Didone valuta le dicerie o il nome, già non crede ad un amore segreto, lo denomina connubio; oscura, con questo nome, la colpa all'istante si diffonde la Fama per le grandi città della Libia, la Fama, nessun male è più alato: vige nel moto,acquista, vagante, potere; inerte, per prima, timida presto si eleva nell’aria, procede in terra, cela il capo tra le nubi. La Terra madre, spinta dall’ira degli dèi, la genera, come raccontano, ultima sorella a Ceo e a Encelado, rapidi i passi e le ali instancabili, terrificante mostro, enorme, che quante piume ha sul corpo tanti vigili occhi ha sotto (orribile a dirsi), tante lingue, altrettante bocche riecheggiano e drizza le orecchie. Sorvola durante la notte tra il cielo e la terra nell’ombra, stridendo, non abbandona gli occhi al sonno diletto; durante il giorno siede custode sulla cima di un tetto o sulle torri e paventa le grandi città, instancabile messaggera, come del falso e malvagio, come del vero. Allora, godendo, saziava con molte notizie le genti e narrava parimente le nuove vere e quelle mendaci: era giunto Enea, generato da sangue troiano, la bella Didone a quest’uomo non disdegnava ad aprirsi; ora alimentavano, con il sesso, quanto è prolisso, l’inverno, immemori dei loro regni e captati dall’oscena passione. Questo la cattiva dea diffondeva sulla bocca degli uomini.

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DAL SESTO LIBRO ( vv. 450 - 478)

Tra queste, con una recente ferita, smaniava nell’estesa selva la fenicia Didone. Non appena l’eroe troiano si arrestò vicino e tra le ombre la riconobbe oscura, come colui che all’inizio del mese vede o pensa di aver visto sorgere la luna tra le nubi, lasciò scorrere il pianto e le rivolse la voce con dolcissimo affetto: “Sfortunata Didone, vera, dunque, mi era pervenuta la nuova che ti eri negata con un’arma, avevi cercato la fine? Ahimè, io ti cagionai la morte? Lo giuro per le stelle, per i Superni e per la fede, se ne esiste nel cuore del pianeta, mio malgrado, regina, mi allontanai dal tuo lido. Ma gli ordini divini, che ora mi obbligano per queste ombre, attraverso orridi luoghi, attraverso la miseria e per la notte profonda, mi piegarono al loro potere, né potevo credere di cagionarti partendo un dolore tanto atroce. Rallenta il passo e non sfuggirmi allo sguardo. Chi sfuggi? Per destino, questa è l’estrema volta che ti parlo”. Con siffatti discorsi, Enea provava a lenire quel cuore ardente, che torvo osservava e lacrimava. L’ombra, girata, volgeva fissamente gli occhi al suolo; non si scompone nel volto, al discorso iniziato, stette più che dura selce o una roccia marpesia. Infine, lo sfuggì e ostile si rifugiò nel bosco intenso di ombre, dove il suo primo sposo Sicheo corrisponde all’affanno e ne uguaglia l’amore. Non di meno Enea, turbato da quel caso perverso, la segue di lontano e la compiange mentre si avvia. Poi riprende il cammino concesso. E ormai toccavano gli ultimi campi che riservati popolano i valorosi in guerra.

Verona, gennaio 2004 - fine luglio 2007

* La traduzione integrale è inedita.

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NOTA DELL'AUTORE Questa scrittura di versi, di cui sono stati pubblicati alcuni testi sul periodico Pagnocco, fondato da Giuseppe Cavarra e diretto da Felice Irrera, comprende cinque parti. La prima, dopo il testo “Promenade”, scritto a Parigi, è uno spartito di dediche ad amici, soprattutto, artisti, generici e di spicco interpretati diversamente con il ricorso al verso. La seconda comprende brevi testi dal titolo Catalepton (Alla rinfusa), che si concludono con una traduzione, volutamente imperfetta, in lingua latina, della “Quercia caduta” di Giovanni Pascoli. La terza è una silloge dal titolo Altra poesia. Dal testo “L'ineluttabile”, il titolo, dell'intera scrittura, DOMINA SUAVIS (Deliziosa signora). Che è thànatos, la fine biologica, ma il momento alto che resta, riflessivo e pure creativo. La quarta è un poemetto dai versi brevi, la memoria delle pesti dette dalle scritture di tutti i tempi. La quinta una scelta di traduzioni delle Georgiche e dell'Eneide, completamente tradotta, in corso di stampa.