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Cahiers d’études italiennes 12 | 2011 Filigrana Texte et image dans la culture italienne Poesia contemporanea e fotografia: corpo poetico e nutrimento immaginifico Nicolò Cecchella, Reggio Emilia e Emanuela Nanni Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/cei/598 DOI: 10.4000/cei.598 ISSN: 2260-779X Editore UGA Éditions/Université Grenoble Alpes Edizione cartacea Data di pubblicazione: 15 mars 2011 Paginazione: 147-177 ISBN: 978-2-84310-190-8 ISSN: 1770-9571 Notizia bibliografica digitale Nicolò Cecchella, Reggio Emilia e Emanuela Nanni, «Poesia contemporanea e fotograa: corpo poetico e nutrimento immaginico», Cahiers d’études italiennes [Online], 12 | 2011, online dal 15 septembre 2012, consultato il 26 mars 2021. URL: http://journals.openedition.org/cei/598 ; DOI: https://doi.org/10.4000/cei.598 © ELLUG

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Cahiers d’études italiennes 12 | 2011FiligranaTexte et image dans la culture italienne

Poesia contemporanea e fotografia: corpo poetico enutrimento immaginificoNicolò Cecchella, Reggio Emilia e Emanuela Nanni

Edizione digitaleURL: http://journals.openedition.org/cei/598DOI: 10.4000/cei.598ISSN: 2260-779X

EditoreUGA Éditions/Université Grenoble Alpes

Edizione cartaceaData di pubblicazione: 15 mars 2011Paginazione: 147-177ISBN: 978-2-84310-190-8ISSN: 1770-9571

Notizia bibliografica digitaleNicolò Cecchella, Reggio Emilia e Emanuela Nanni, «Poesia contemporanea e fotografia: corpopoetico e nutrimento immaginifico», Cahiers d’études italiennes [Online], 12 | 2011, online dal 15septembre 2012, consultato il 26 mars 2021. URL: http://journals.openedition.org/cei/598 ; DOI:https://doi.org/10.4000/cei.598

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R147Cahiers d’études italiennes, n° 12, 2010, p. 147-177.

POESIA CONTEMPORANEA E FOTOGRAFIA:CORPO POETICO E NUTRIMENTO IMMAGINIFICO

Nicolò CecchellaReggio Emilia ( fotografo)

Emanuela NanniUniversité Stendhal - Grenoble 3

Poesia e immagine appaiono come le declinazioni di una fonte comune dalla quale possono generarsi vicendevolmente e appartenersi. Ogni gesto espressivo, verbale o iconografi co, è il luogo in cui impera la forma, il luogo in cui si celebra il baudelairiano «culte des images» 1.

In queste pagine vorremmo non solo ripercorrere i tratti della rela-zione poesia-immagine, e nella fattispecie poesia e fotografi a, ma anche off rire un percorso di suggestioni, non tanto per defi nire una supremazia tra un mezzo o l’altro e nemmeno per stabilirne il livello di verità, ma per mettere in luce quelli che sono i collegamenti e i ponti tra queste due pratiche. Rendere visibili le comunanze, le correlazioni, i forti legami che sono all’origine di questi due corpi artistici. Si tratterà quindi di incon-trarne i continui richiami, i rimandi e le corrispondenze, partendo dal ruolo dell’immagine come luogo poetico, riportando la confessione di Baudelaire, poeta della modernità per eccellenza, che chiarifi ca quanto l’immagine possa essere uno dei luoghi privilegiati dell’ispirazione (che sia un’immagine diretta della visione del mondo o una sua rappresentazione iconografi ca), quasi un tempio da cui sia possibile trascendere, trasfondere e distillare, possibili parole per poter verbalizzare il suo voler: «Glorifi er le culte des images (ma grande, mon unique, ma primitive passion).» 2

Nella cultura italiana contemporanea, sebbene si tratti di qualcosa di radicato sin dai versi medioevali, se investighiamo questa supremazia visiva

1. C. Baudelaire, «Mon cœur mis à nu», Œuvres complètes, t. I, Paris, Gallimard, 1975-1976, p. 701. Utiliz-ziamo questa espressione in francese nel corso del nostro contributo perché così viene ripresa in riferimento al culto baudelairiano, da molti altri critici, anche nelle versioni italiane. 2. Ibid.

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agente nell’io del poeta, è innegabile il rimando alla sensibilità leopardiana, nutrita incessantemente dalla visione. La sua azione per eccellenza, prima di ogni altra, è la ricezione di ogni dato fi ltrato dagli occhi. «Vedere» è in Leopardi come per Baudelaire la matrice da cui trarre oltre che un piacere proprio e nobilitante, il raccolto iconografi co necessario per l’uomo e, suc-cessivamente, costituirsi come gesto portante del poeta, e più di un pensiero dello Zibaldone lo sottolinea con forza:

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io son vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna, udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra cam-pagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose: Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione 3.

Leopardi teorizzava dell’esistenza di una doppia vista come di una facoltà della pupilla e parallelamente dell’anima, una duplicità costante insita nello sguardo del poeta, un reale esercizio di vita. Gli occhi come i soli dotati dell’attributo della vita, sono non solo traccia della presenza vitale ma ne sono addirittura la prerogativa per eccellenza ed è per tal motivo che si chiuderebbero agli estinti come spiega ancora Leopardi nello Zibaldone: «Dunque la signifi cazione degli occhi è tanta, ch’essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbero a dare una sembianza di vita agli estinti.» 4

L’occhio del poeta ha da sempre la capacità di saper leggere dentro la luce, dentro i colori, la forma, la prospettiva di un’azione, o nel movi-mento, così come nel tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di parole. La sua guida sono, da sempre quelle «prunelles ardentes» che lo stesso Baudelaire attribuiva alla «tribu prophétique» 5 dei poeti, a quei loro occhi sempre aperti e capaci di familiarizzare con ogni forma sensi-bile, con il buio e con la luce, che sia una luce esterna o proveniente da un’interiorità o un’entità metafi sica. Questa permeabilità della sua parete poetica è parte viscerale-costitutiva del suo modo di percepire, del suo sentire: è come se un’immagine fosse addormentata nel buio della sua bocca e fosse risvegliata da una qualsiasi di queste sensazioni, come se il suo silenzio fosse lo spazio dove si coltiva la possibilità di un’imago.

Domina in questa sensorialità sempre accesa, sempre vigile, la poli-semia del termine stesso imago che già etimologicamente si delinea come

3. G. Leopardi, Pensiero n. 1118, in Zibaldone, Roma, Newton Compton, 2001, p. 928. 4. Id. Pensiero 2012, in ibid., p. 440. 5. C. Baudelaire «Bohémiens en voyage», Œuvres complètes, op. cit., p. 17.

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qualcosa di multiforme, opalescente: essa può designare la rappresen-tazione, la copia, il ritratto, ma anche la sembianza, lo spettro, l’ombra e l’idea. Il mondo dell’immagine e delle parole vive di una transitività propria, già testimoniata da continui passaggi dal verso verso la forma, e dalla forma verso il verso. Un esempio tra tanti è la concretizzazione in forme tangibili della poesia «Je suis belle» di Baudelaire, realizzata scul-toreamente da Rodin 6 o, viceversa, le poesie dello stesso Baudelaire quali «Danse macabre» e «Le Masque», che altro non sono se non trasposizioni in immagini verbalizzate delle sculture di Ernest Christophe 7.

Come ribadiva un altro grande poeta, Rainer Maria Rilke nel suo semplice titolo Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge 8 tutto in fondo è Aufzeichnung, termine traducibile in una pluralità di lessemi quali «appunto», ma anche «nota», «registrazione», «disegno». Con questa scelta lessicale Rilke ricorda che ogni gesto artistico non è che una prova del segno. Questa sua lunga narrazione in prosa d’intensa poeticità pubbli-cata nel 1910, aprirà per altro la strada alla teoria artistica e poetica del xx secolo, ed è nella direzione di questa continua reversibilità e natura plurima del segno artistico ed espressivo che poi si volgerà quasi tutta la pratica artistica del xxi secolo 9.

Il presupposto generalmente dato per incontrovertibile è che i poeti lavorano su materiale verbale, ma in realtà la voce, la loro prima voce, sgorga dalla visione, dai loro occhi, aperti o chiusi che siano, in continuo dialogo con l’io sotteso che tradurrà ad un pubblico il pensato 10.

6. La statua in bronzo con lo stesso titolo della poesia ispiratrice e realizzata nel 1882 è conservata oggi al Museo Rodin a Parigi. 7. Lo scultore francese Ernst Christophe (1827-1897) contemporaneo di Baudelaire, ispira il poeta con un gesso che l’artista intitola «Le masque». L’omonima poesia, n. XXI delle Fleurs du mal, è espressamente dedicata da Baudelaire allo scultore. La statua bronzea non verrà mai realizzata, ma una sua versione in gesso è oggi conservato al Museo d’Orsay. La stessa poesia «Danse macabre» nascerà dall’immaginario baudelairiano come un’ekphrasis in movimento di un’opera dell’amico scultore. Si tratta in questo caso di uno schizzo andato per-duto che illustrava, come il titolo preannuncia, la decadenza umana. 8. Ricordiamo che in italiano l’elemento concettuale del «segno» si diluisce se non addirittura si disperde nella resa italiana attestata in I quaderni di Malte Laurids Brigge, ove resta forse solo l’elemento della memoria e della registrazione. 9. Si veda M. Manotta, «La scrittura futurista», in Il Verri, Visibile e invisibile, n. 10-11 novembre 1999, p. 118. Manotta spiega che la scrittura futurista nel suo «poli-espressionismo simultaneista» illustra come l’espressione possa nascere con effi cacia, solo cambiando continuamente supporto, lingua e ordine della rappresentazione. 10. Nella lezione sulla visibilità Calvino descrive come le immagini nascano prima delle parole e incombano sull’artista e sul poeta come una sorta di pioggia «prima sotto forma di bassorilievi che sembrano muoversi e parlare, poi come visioni proiettate davanti ai suoi occhi, come voci che giungano al suo orecchio, e infi ne come immagini puramente mentali» (I. Calvino, «La visibilità» in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 83.) In questo saggio, inoltre, Calvino illustra i meccanismi di un duplice processo immaginativo: uno che procede dall’immagine alla parola nel circuito costantemente attivo negli autori e un secondo che scaturisce, invece, dalla parola ed arriva all’immagine, nell’atto della lettura.

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Se «proprio dal confl itto tra il codice visivo e il discorso che lo inter-preta emergono le più profonde dinamiche della cultura contemporanea» 11, certamente il nodo immagine-poesia è sempre più nevralgico e il predo-minio della dimensione visiva è ormai al suo apice oggi. La ricerca del signifi cato sia ontologico che artistico si è sempre mossa in molteplici dimensioni, nel solo linguaggio non si è mai potuta sedare la sete di spie-gazione, nemmeno quando tale linguaggio assurge a un livello metafi sico, come può fare spesso la poesia. La trasversalità artistica pur non essendo un elemento d’esclusiva originalità del Novecento 12, ne diventa tuttavia uno degli aspetti inderogabili: se il Novecento scardina defi nitivamente la contrapposizione prosa/poesia e riporta a un’idea di scienza che si possa avvicinare all’umanesimo, è ancor più saldo e inscindibile il rapporto tra la poesia e l’immagine iconografi ca.

Da quando molto prima di Aristotele il Verbo ha cominciato a esser considerato l’elemento caratterizzante la condizione umana, questo ha in un primo momento liberato l’uomo dall’attributo primitivo del silenzio della materia 13 e si è coagulato in una parola che in bocca al poeta, ha saputo passare dal rianimare le parole antiche ai neologismi coniati e montati su nuove immagini. Ma l’esperienza della parola è giunta ben presto ad usura, a esaurire tutte le sue possibilità esperienziali e si è resa quasi sofi sticazione, zavorra da cui sdoganarsi. La poesia contemporanea va infatti incontro alla crisi del soggetto che dubita di poter ancora dire e signifi care, generando il luogo poetico contemporaneo per eccellenza, ossia l’io che dice di non poter dire. Un io che cerca di rigenerarsi con un viaggio a ritroso verso l’origine, aff rancato dall’ormai sfruttato segno verbale. Quando infatti l’esperienza immediata che si vorrebbe tradurre in verso sfi ora la rivoluzione metafi sica dechirichiana che scompone e scon-volge la percezione di spazio e tempo, il poeta contemporaneo confessa e

11. G. Patrizi, Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Roma, Donzelli, 2000, p. 5. 12. Tra le tante opere critiche che trattano del connubio testo-immagine, vedere l’opera di D. Bergez, Littérature et peinture, Parigi, Armand Colin, 2004. L’autore prende in considerazione il dialogo tra immagine iconografi ca e testo, passando in rassegna le varie epoche storiche dal Medioevo sin all’infl uenza esercitata dalle opere pittoriche su poeti contemporanei come Baudelaire e Char. Bergez mostra come l’ekphrasis sia frequente nel romanzo e nella poesia classica e che lo è diventato sempre più nella modernità, instaurando nei secoli un insopprimibile «dialogue serré entre écriture et fi guration» (p. 5). Si prenda inoltre in considerazione lo studio di M. Praz, Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive, Milano, Mondadori, 1971. Praz si soff erma sulla simultaneità e similarità dei mezzi espressivi adottati dalle varie arti per sviluppare l’ormai celebre oraziana defi nizione «Ut pictura poesis» nelle varie dimensioni in cui si può cogliere. Prende cioè in esame la dimensione poetica insita nelle immagini e la parte pittorica soggiacente alla scrittura in versi, considerando però anche una terza lettura, la più olistica e reale, quella di un’equivalenza ininterrotta tra pictura e poesis. 13. Si veda G. Steiner, «Le silence du poète», in Langage et silence, Parigi, Seuil, 1969, p. 57.

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riconosce l’impotenza della parola, e si lascia andare alla luce, al disaggre-garsi del dire sulla barriera del suono dell’indicibile.

Quest’idolatria, questa spinta poetica primordiale che parte dall’imma-gine e non immediatamente dalla parola, sarà sottolineata da moltissimi poeti, tra i quali potremmo riprendere Paul Valéry che a inizio Novecento tanto ha ispirato la poesia e la rifl essione estetica italiana sin dall’origine dell’ermetismo fi orentino. Valéry aff erma infatti:

La poésie pure est, en somme, une fi ction déduite de l’observation, qui doit nous servir à préciser notre idée de poèmes en général, et nous guider dans l’étude si diffi cile et si importante des relations diverses et multiformes du langage avec les eff ets qu’il produit sur les hommes 14.

L’idea mallarmiana della «poésie sans les mots», della poesia pura 15, cioè epurata dalla volontà tutta umana del dire, appare salvifi co orizzonte nel presente stanco della modernità. Rifacendosi quasi ad un desiderio d’origine perfetta e conclusa, liberata dalla incessante possibilità di errore, di quell’errore costitutivo che è nel fare, risalendo verso un’origine senza contaminazioni dove il regno è quello dell’essere. Verso questo assoluto va la poesia senza parole, incontrando come unico luogo abitabile l’origine stessa del vedere e della rappresentazione muta. Le pupille diventano quindi il luogo di dimora primigenio di questo stato. L’Essere non detto, che si impone con il suo Dasein 16 che sta, che è, si presenta innanzi facendosi l’unico corpo artistico possibile e proponibile.

Essere come soggetto/oggetto del vero inartifi cioso, paradossalmente ultimo gesto artistico del vivere, che con estrema rinnovata coscienza pone fi ne a se stesso. Tacitamente ha eliminato il chiacchiericcio dell’inutile, del suono, proprio come avrebbe voluto realizzare Mallarmé nel vedere trionfare «L’Indicible ou le Pur, la poésie sans les mots !» 17 Questa poesia germina nelle forme colte, dalla geometria di luce e colori, negli occhi fertili del poeta, di cui lo stesso Shakespeare citava la pupilla come fosse

14. P. Valéry, Œuvres complètes, t. I, 1957, p. 1457-1458. 15. Vedere E. Bonora, «Mallarmé la poesia pura e la critica crociana», in Gli ipocriti di Malebolge e altri saggi di letteratura italiana e francese, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1953. Bonora illustra come Mallarmé credesse in un impeto perfetto e puro che starebbe alla base del fare poesia e che andrebbe perse-guito sdoganando la parola dal suo primo signifi cato, dalla sua materialità per andare oltre, alla ricerca della perfezione dell’espressione. Rifi utava però il decorativismo parnassiano e la retorica romantica per cercare di dire le «esperienze essenziali nel dominio della parola e della vita interiore» (p. 124), verso una poesia che espri-messe l’assolutezza delle idee più pure, attraverso l’analogia, il controllo del ritmo musicale verso un tentativo continuo di avvicinamento all’assoluto. 16. In base alla concezione fi losofi ca hegeliana il Dasein, l’essere qui e ora, è l’unica categoria conchiusa e determinata. Nella sua trattazione Hegel spiega come l’unico modo di esperire e conoscere un oggetto sia ricorrere all’esperienza, fonte quindi delle percezioni. 17. S. Mallarmé, Œuvres complètes, Parigi, Gallimard, La Pléiade, 1945, p. 304.

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punta del pennello di un pittore, ed Éluard celebrava in Les Yeux fertiles, raccolta poetica dove la civetta col suo sguardo preciso troneggiava nel primo componimento. I poeti non hanno cioè mai perso il persistere e il dominare di una sorta di «enfance du regard» 18, una continua e fresca promenade degli occhi, anche quando il cielo e la terra sembrano essersi svuotati da ogni simbolo. Al contrario, come ricorda lo stesso Baudelaire, più le tenebre si fan dense e opprimenti, più le pupille del poeta sapranno farsi brucianti e ardenti, fi no a che sarà il poeta stesso a irradiare luce, a «tirer un soleil de son cœur» 19.

Non c’è pace nello sguardo del poeta che procede per aperture e chiu-sure fi gurali spesso puntuali, sgranando veloce una serie di simboli, in una condensazione non sempre legata a un fi lo narrativo descrittivo, senza potersi permettere facili indugi, né soste o anticamere alle scene madri, come in una «carrellata letteraria» 20 fattasi cantoria d’ininterrotte matrici. Quella del poeta non è quasi mai una pace della contemplazione ma una serie d’illuminazioni fi gurali, poi trasmutata in verso, nel suo ritmico e mai casuale cadere.

In questa incapacità, il volgersi al non verbale si fa movimento naturale, la parola poetica e l’immagine si dirigono verso la loro matrice comune che è la forma, ritornano al dato prelinguistico e sembrano entrambe sgorgare da elementi acronici, come lo sono la luce, la relazione con la fi gurazione della vita e della morte, la percezione del tempo.

L’avvento della luce elettrica: irruzione della tecnica nei meccanismi sensibili

Nell’attenzione che il poeta ha per il mondo e il reale, irrompe tra la fi ne del xix e il xx secolo a tormentare il suo occhio una nuova presenza che segnerà un cambiamento profondo rispetto a quella che è l’interpretazione classica del visibile e del visto. Tale elemento è in grado di mutare la percezione e la potenzialità dello sguardo, con un imporsi inesorabile ed esteso delle sue applicazioni. L’avvento dell’elettricità 21 nella vita dell’uomo e nella sua

18. Consultare R. Brague, Image vagabonde. Essai sur l’imaginaire baudelairien, Chatou, Les Éditions de La Transparence, 2008, p. 9. 19. C. Baudelaire, «Le Soleil» in Les Fleurs du mal, Œuvres complètes, t. I, op. cit., p. 83. 20. I. Calvino, «Presentazione» in Gli amori diffi cili, Milano, Mondadori, 2002, p. XXII. 21. Ricordiamo inoltre che lo stesso aggettivo «elettrico» sarà protagonista di vari versi e raccolte della prima metà del Novecento. Una a titolo di esempio è la silloge Poesie elettriche di Corrado Govoni, pubblicata nel 1911, che nel cuore dell’avanguardia primonovecentesca sconvolge la lingua poetica, puntellandola di neolo-gismi, molto spesso legati a questa invenzione tecnologica. Nella raccolta l’aggettivo «elettrico» si registra ben

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dimensione quotidiana esercita, infatti, la sua più grande infl uenza in quel che si delinea come il centro della vita moderna: la città.

Dal momento in cui l’illuminazione si diff onde nelle arterie della città, sia nella sua rete stradale sebbene ancora rudimentale, sia nell’ambito domestico, il poeta si trova costretto ad aff rontare un nuovo visibile. Si scopre a considerare diff erentemente l’uomo e il luogo dell’uomo, innanzi a una diversità off erta dal nuovo strumento elettrico che dà la capacità di agire e vedere sempre e in qualsiasi momento al di là della temporalità cronologica, dell’avvicendarsi del giorno e della notte. Improvvisamente la luce elettrica porta un esplorabile raddoppiato. E nel nuovo catalogo spazio-temporale, la notte si apre anche nelle direzioni che non aveva mai potuto off rire precedentemente, profi landosi come un immenso ventre sempre aperto, perché illuminato perennemente, innervandosi di strade percorribili, che si fan transito e binario di questa nuova esperienza. Si tratta di una rappresentazione, di un vedere nuovo, sotto una luce che non è più una luce naturale, ma fonte che illumina indiff erentemente tutto e tutti, e non è nemmeno più un’ombra che su tutto cala, ma è fascio che staglia e delinea l’oggetto illuminato, gettando il resto nell’ombra.

Non è quindi la notte leopardiana ma quella campaniana, dove la città è teatro, dove la vita è teatro, dove nella notte illuminata continuamente, come una quinta teatrale, l’uomo mima e recita il giorno o per lo meno la sua attività. E’ una notte abitata da un «io», che nelle sue case, come nelle vie, gioca il ruolo di spettatore e attante in una perenne platea, ove le facciate illuminate come palchi teatrali si fanno scena immediatamente, e l’uomo guarda se stesso sotto una luce che è artifi cio.

Questa attenzione per l’elettrico, per un eterno notturno illuminato è viva sia in un fulmineo, estatico Campana, sia in una rappresentazione più edulcorata, generalmente permeata di colori naturali e atmosfere sognanti quale è la poesia di Attilio Bertolucci dei quali riportiamo di seguito, com-ponimenti e frammenti scelti che entrambi i poeti dedicano alla notte:

[…]Nel silenzio caldissimo ambiguoDella notte voluttuosaScuotevasi il mare profondo:Era caldo il silenzio sullo sfondo

otto volte, di esse la prima occorrenza tra tutte è nella poesia «Venezia elettrica» dedicata ai poeti futuristi Mainetti, Buzzi e Lucini. In questo componimento, tra gondole di cartapesta e portali losangati, tuttavia la città brulica di «muri vaiolosi/ che ammalan l’acqua di colorazioni elettriche», (C. Govoni, Poesie elettriche, Macerata, Quodilibet, 2008, p. 8) mentre la luna viene ingoiata dalle fauci della laguna come una «pastiglia di chinino» (ibid.). L’elettricità come la velocità si fan sema della modernità, nuove divinità cui sottostare e da inseguire.

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Le navi inermi, drizzate in balziTerrifi ci al cieloallucinate in auroraElettrica inumana risplendentealla poppa per l’occhio incandescente.Un passo solitarioUn’ombra di un’ombra sui quais:La città giace sepoltanella luce uniforme fi ammeggiante.E le navi angosciateMi suadevano all’ultima avventura […] 22

O bell’insonnia o palpebradi rovere stinta stirata nello straziodella luce che mai smette di batterein questa notte metropolitana.o mia palpebra a fi lo di quell’altrao mia notte a sfi da di quell’altrao luce della mia notteche mai cessi di esistere. […]e quale diurno sereno seguirài nembi fi ttizi e quale quieto svolgersidel giorno primaverile sino all’animazionedi un crepuscolo infi nitamente benignoper il suo indugio di rosa sopra la città prostrata? 23

Sto al buio ma c’èluce nell’altra stanzain cui ti muovi e creiombre sul muro beff ardiConigli gigantiSparvieriNon mi è più dato di raggiungertiin paesi dove lucee moto sono possibilidove un frigorifero vieneaperto e chiusocon un tonfo vitaleche non mi appartiene più.[…]Tu continua a mimare

22. D. Campana, «Pei vichi fondi tra il palpito rosso», XXXIX, in Inediti, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 5-86. 23. A. Bertolucci, «Notte», in Viaggio d’Inverno, in Opere, Milano, Mondadori, 1997, p. 242.

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la commedia seralenella maniera dell’estraniamentoio dalla buia platealascerò che tu spengauscendo dalla comune.Allora accenderò plaudendoe piangendo. O ridendo 24.

Il rapporto tra il poeta e la luce è da sempre una tacita alleanza ricca di implicazioni, feconda d’ispirazione e rifl essioni, sin dal tropo medioe-vale della luce, quale attributo divino trasferito poi sulla donna amata, sin dalla Divina Commedia che si applica anche nella sua articolazione a riportare alla luce la coscienza e l’anima umana dopo il viaggio nell’antro infernale, verso la luminosità dilagante del Paradiso. Lo stesso Ungaretti è poeta innegabile della luce 25, e senza dubbio anche Quasimodo, nella sua ricerca per parola e forma, è attento inseguitore del riverbero e delle immagini 26. Come altri poeti, anche quest’ultimo individua nella cecità delle forme, più che in quella delle parole, il punto dove s’innesta la vera condanna umana, come restasse allo stadio di insoluto umano. Quando sono infatti le forme a tacere, ecco che il poeta non può non esserne inve-stito, inglobato, toccato e che il suo silenzio potrebbe scaturire da quella forma che non dice e non vede, non lo fa più vedere tramite esse. Le forme cieche, non hanno occhi e non possono esperire ma devono esserlo perché contengono in nuce «l’eidos [qui] fi gure un contour de visibilità intelligible» 27 Ma la cecità delle forme è anche espressione che esplicita come né il poeta né l’artista, mai, avvallino la visione del reale per creare, come se quest’ultimo fosse solo in minima parte ciò che si staglia davanti a loro e che venga successivamente forzato dalla memoria, l’unica ad avere

24. A. Bertolucci, «Interno notte», in Chroniques maritales, in ibid., p. 349. 25. Sono molteplici gli esempi in cui Ungaretti si abbandona alla suggestione e alla linea direttiva della luce che si fa arco portante della sua poesia. Nella raccolta Il sentimento del tempo, per esempio, il componimento «Primo amore» celebra una fortissima attenzione alle ombre e all’affi evolirsi della luce, quasi capace di generare materia: «Era una notte urbana,/ Rosea e sulfurea era la poca luce/ Dove, come da un muoversi nell’ombra,/ Pariva salisse la forma» (Il sentimento del tempo, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, p. 157.) Il sodalizio poeta-luce è particolarmente evidente nella poesia «Segreto del poeta» che si conclude con una constatazione eloquente della gestualità che la luce stessa, metamorfi zzata, può assumere: «E nel silenzio restituendo va,/ A gesti tuoi terreni/ Talmente amati che immortali parvero/ Luce.» (Il sentimento del tempo, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 253.) 26. Vedere la chiusa quasimodiana della poesia: «Airone Morto»: «Pietà che io non sia/ senza voci e fi gure/ nella memoria di un giorno» (Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1995, p. 83) e la sua continua attenzione per quella luce tutta interiore che anima e sostiene da diverse fonti amate, come ad esempio in «I semi della luce»: «[…] certo, l’alba sparge i semi della luce,/ ma io vedo perché mi guardano i tuoi occhi» (Tutte le poesie, op. cit, p. 513.) 27. J. Derrida, Mémoire d’aveugles. L’autoportrait et autres ruines, Parigi, Réunion des musées nationaux, 1990, p. 22.

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ancora occhi anche attraverso il passato e la longitudinalità del tempo. A questo proposito Deridda aff erma che la memoria è una «plus-de-vue, la vision du visionnaire du seer qui voit au-delà du présent visible, la sur-vue ou la survie de la vue» 28 un’altra vista appunto che va al dilà di spazio e tempo, anzi soprattutto del tempo e del semplice colpo d’occhio. La memoria è in grado di aggirare anche l’istante in cui la palpebra si chiude nello battito delle ciglia e può, in questo senso, vedere costantemente. Baudelaire conosceva bene la potenzialità della memoria che ne l’Art mné-monique celebra quale azione continua sulla forma, solo essa avrebbe «le sentiment parfait de la forme» 29 al dilà di qualsiasi percezione presente di qualsiasi altra forma di cecità, metaforica o meno.

Nel rapportarsi con la morte, lo stesso Pavese, vede la propria morte sorda che però ha occhi quasi vivi, preannunciarsi e incedere radunata negli occhi di un «tu», come delinea in una delle sue più celebri poesie 30: nelle pupille altere del volto amato, chiuso nella sua ieraticità. Anche nel suo viaggio mitologico nelle prose poetiche dei Dialoghi con Leucò, Pavese non distoglie mai l’attenzione dalla visione e dal segnalare il valore che attribuisce tanto alla vista quanto alla sua privazione, riprendendo più di una volta la fi gura del cieco Tiresia. Questo indovino, sacerdote e veggente, conoscitore del sesso maschile come di quello femminile, proprio nel dia-logo intitolato «I ciechi», mostra che per Pavese paradossalmente proprio perché «soltanto il cieco sa la tenebra» 31, è l’unico a sapere che vedere è quel che rende uomini e liberi. Per chi non vede invece il mondo è ben poca cosa, o meglio «Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro» 32. L’urto non è altro che un sentire più diretto, la percezione per avvicinamento massimo, una volontà estrema di contatto 33. La vista, il tatto e l’udito si agglutinano per essere superati forse solo dalla memoria. È proprio grazie a quest’ultima che spesso il cieco aggira l’ostacolo perché, non potendo vedere, deve forzatamente ricordare, attingendo alla stessa supervista di cui dispone il poeta

28. Ibid., p. 51. 29. C. Baudelaire, L’art mnémonique, in Œuvres complètes, op. cit., p. 895-897. 30. Si allude naturalmente alla poesia «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», perno e origine di una delle raccolte poetiche più lette del Novecento, capace di riassumere in una sola immagine quell’elemento destinale che si fa storia umana. 31. C. Pavese, «I ciechi» in Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1947, p. 26. 32. Ibid., p. 24. 33. Su questo scambio sensoriale tra tatto e visione Pavese gioca in tutto questo breve dialogo, e la portata metaforica di questi due modalità di entrare in relazione con gli eventi della vita è particolarmente pregnante in un’altra replica del cieco Tiresia quando aff erma «ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare» (Dialoghi con Leucò, p. 23) dove è evidente che il reiterare il verbo «toccare» non è casuale, ma sottolinea la portata simbolica e polisemica dell’atto.

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Dans le cas de l’aveugle, rappelons-nous, l’ouïe va plus loin que la main qui va plus loin que l’œil. La main s’étend à prévenir la chute, c’est-à-dire le casus, l’accident, elle en commémore ainsi la possibilité, elle garde en mémoire l’accident: une main est en ce lieu la mémoire même de l’accident 34.

Il poeta quindi ha la consapevolezza del cieco, del signifi cato del vedere e nella tradizione moderna ha quell’occhio che lo rende rimbaldianamente veggente-visionario e vedente.

La conoscibilità avviene cioè tramite le pupille, pupille esperte che la stessa Amelia Rosselli sente piene di un brulichio a metà tra il fi sico e il metafi sico, occhi di poetessa che nel registrare l’impeto, sembrano battere lo slancio dell’uomo dotato di obiettivo fotografi co:

E l’aria era calda e umida e scottante e i miei occhi pienidi grata febbre.I miei occhi pieni di grattacieli! Ed il tuo occhiosornione che guida la macchina della velocità peri ritrovi fangosi della tua tarda età. E la miagioventù che forse è più scaltra della tua abilemacchina fotografi ca 35.

Nella modernità architettonica e nell’impeto della velocità resta comunque scaltro il muoversi della pupilla del poeta, quasi a rivaleggiare con il dia-framma della macchina fotografi ca. La tecnica subentra nella vita dell’uomo del Novecento come quei grattacieli posti a riempire uno spazio umano prima somigliante a ben altro, ecco perché esplicitamente la Rosselli evoca uno strumento che rivoluziona il rappresentabile.

Contemporaneamente alla nuova dilatazione luminosa portata dall’elet-tricità, infatti, si ha l’invenzione di un nuovo mezzo tecnico espressivo come la fotografi a: se la luce ha cambiato il visibile del mondo, sarà la fotografi a a cambiare defi nitivamente la rappresentazione di esso. Il poeta da qui in poi si trova a misurarsi con la rappresentazione fotografi ca che a diff erenza di quella pittorica, ha la capacità tecnica, di condurre all’immediatezza della rappresentazione. È qui che il tempo dell’attimo luminoso, l’istante che fa luce, luce artifi ciale, colpisce la tenebra e la rischiara, strappando al buio una rappresentazione istantanea del visto, visibile; ed è sempre qui che il poeta intende (intellige) la valenza e forza rappresentativa di questo momento tempo lampo: la luce artifi ciale, che rischiara la tenebra s’impone come il momento poetico in cui si coglie nel buio, in cui il buio viene rotto.

34. J. Derrida, Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, op. cit., p. 23. 35. A. Rosselli, Le poesie, Milano, Garzanti, 2007, p. 266.

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Ed è in questo spazio illuminato, in questo attimo di luce che trova un suo luogo poetico, il paesaggio di cui e in cui parlare.

Questo tempo, questo lampo di tempo si può identifi care con l’istante in cui tutto il rappresentabile è avvenuto con un colpo di luce: il segreto della fotografi a è che il momento dell’ispirazione e quello del rappresen-tato coincidono.

Sintesi temporale e accelerazione tra vissuto e rappresentabile

Da questa facilità o brevità del tempo di rappresentazione non può che derivare un’accelerazione del percorso percettivo e rappresentativo. Ogni forma di rappresentazione altra rispetto alla fotografi a si fa infl uenzare profondamente da questo senso della velocità, sino all’estremizzazione dei movimenti avanguardistici che l’hanno elevata a tratto principale della fi sionomia del moderno. Poeta e fotografo si scambiano continua-mente intenti e indagano nelle stesse direzioni, aff rontando tematiche e impugnando mezzi espressivi e assunti fi losofi ci, in un comune abitare il moderno.

La grande problematica, o per lo meno una delle più pregnanti, che accomuna fotografi a e poesia, come del resto tutte le espressioni artistiche moderne, è l’iscrizione del tempo nell’opera e non viceversa, come acca-deva prima dell’avvento delle avanguardie. L’opera, sia iconografi ca che verbale, si relaziona in qualsiasi momento con una percezione simultanea di tutte le dimensioni temporali. La modernità è infatti il primo periodo storico in cui si può accedere a una conoscenza approfondita dell’imme-diato passato come di quello più remoto, ed è l’età che si proietta conti-nuamente nell’avvenire, pur cercando costantemente di permeare anche il presente. In narrativa è Proust, come sottolinea Alberto Asor Rosa, a scoprire la continuità del tempo e, contemporaneamente, a volerne sepa-rare e strappare all’oblio attimi ben defi niti, in arte e in poesia, saranno invece interventi come quelli dei futuristi a cercare d’inglobare il tempo all’opera. Il tempo diventa così uno dei materiali implicato direttamente nella costruzione molecolare stessa della poesia, come dell’immagine. Del resto non bisogna dimenticare che i futuristi fecero uso della fotografi a, soprattutto nella seconda fase di vita del movimento, quale momento di fusione e raggiungimento del mito della simultaneità e del dinamismo, una possibilità tecnico-espressiva per riuscire a fi ssare i gesti, pur cercando di mostrarli anche come movimenti fl uidi nello spazio.

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In ogni caso la fascinazione dei poeti futuristi per la rappresentazione fotografi ca, deriva forse dalla sua capacità di contribuire al grande volere futurista d’avviare una riduzione e contrazione dei tempi contenuti nella visione 36, sfociando in un dinamismo del linguaggio e in un’icastica eco-nomia della parola che poi tutto il Novecento sviluppa.

La quadridimensionalità è quella miscela di spazio-tempo che sfonda con le teorizzazioni di Bergson e di Einstein, i meccanismi ottocenteschi e tradizionali della percezione per portare a una nuova percettibilità, sia in relazione allo spazio che al tempo, generando delle opere defi nibili come «cronotipi» 37, vale a dire, diremmo noi, opere da esplorare perché porta-trici di una visione del tempo personalissima dell’autore. Un tempo che può essere contratto, sovrapposto, dilatato o profondamente rapsodiato e ricucito, e ancora sintagmaticamente sincopato. In questo senso la poesia si rastrema e asciuga formalmente, si fa tambur battente campaniano, per esempio, marinettiano o anche nello stile di Sanguineti, off rendo lembi di tale lingua attraversata dalla suggestione della velocità e dalla volontà di riprodurla anche strutturalmente.

E così la poesia può concentrare il tempo, avvenire in un lasso istan-taneo che traspone l’ispirazione in bocca prima che nella mente, dove secondo surrealisti e dadaisti si forma realmente il pensiero 38, in un brevissimo spazio di tempo. Oppure si dilaterà per arrivare alla mimesi del tempo interiore, il tempo della coscienza, come il fl usso nel fl usso di coscienza joyciano e nel continuum proustiano: uno tutto passato e l’altro tutto presente.

Le teorie freudiane dell’inconscio, la simultaneità e l’immediatezza dei dati forniti dalla coscienza teorizzati da Bergson, così come tutto il relativismo sia in ambito scientifi co che fi losofi co di inizio Novecento, mostrano che non solo il tempo può esser catturato e mimato, ma anche che è esplicitamente malleabile, rimodellabile e riformulabile. Si rende pertanto evidente, da un lato la sua fastidiosa arbitrarietà, e dall’altra il suo ridursi a pura entità senza valore né virtù. Se il tempo scompare come forma di misura, resta però come forma di esistenza, come modalità di

36. Si veda A. Asor Rosa, Novecento primo, secondo e terzo. Nuova edizione aggiornata di Un altro Novecento, Scandicci, La nuova Italia, 1999, pp. 107-109. 37. Ibid., p. 110. 38. Per i surrealisti la parola e il pensiero si pongono l’uno di fronte all’altra in una relazione inedita: il pensiero e non solo la parola, nascerebbe in bocca. I dadaisti, dal canto loro, vedevano nella bocca il luogo che conteneva sia l’oscurità in potenza che la potenza dell’oscurità, luogo quindi di creazione, sede della sostanza invisibile. Ma quella di Tzara e dei dadaisti era soprattutto volontà di decostruzione della lingua, alla ricerca d’una espressione tutta istintiva, nervosa e seducente, per associare la parola alla freschezza della sua immediatezza. L’immagine del pensiero che si forma in bocca è inoltre una formulazione che viene spesso evocata per rivendicare l’autonomia della parola e della lingua, cfr. M. Ragozzino, Dada, Dossier D’Art, Firenze, Giunti, 1994.

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essa, e nell’osservazione l’uomo stesso ne subisce l’evoluzione perché è diventato sempre più veloce, nel consumare immagini e nel contem-plarle da ogni punto di vista (letterario, fi losofi co, storico, sociologico). Paradossalmente, allora, per conoscere realmente ogni valenza dell’im-magine occorre più tempo. In quest’ottica la fotografi a permette sia di concentrare e conoscere quello spicchio di tempo che di riprenderlo, nel duplice senso di ritrarlo e di recuperarlo a più riprese. Può cioè lavorare costantemente sul piano della condensazione istantanea e su quello della conservazione della memoria.

Un altro aspetto caratterizzante della continua commistione tra foto-grafi a e poesia è la cessione da parte del poeta al fotografo, di una delle tematiche più classiche. Il legame profondo, la fascinazione e il mistero nei confronti del tema dell’aldilà, di quell’aldilà orfi co, che si spinge oltre la vita umana, in una nuova possibilità di conquista di spazio-tempo. Addirittura nel suo primissimo apparire, sin dai suoi primi passi consape-voli, la fotografi a ha questo stesso movimento. La macchina fotografi ca ha, quasi come caratteristica implicita, la facoltà di staccare gli eventi dalla loro temporalità, come se sapesse salvare dalla sequenzialità un singolo evento, isolandolo dagli altri, che sarebbero sostitutivi di esso, e normalmente creano una narrazione che si svolge in una sorta di continuo presente.

Orfeo: canti dalla camera oscura

Seguendo questa ermeneutica del sensibile che inevitabilmente si scontra con la realtà del tempo incoglibile e della morte quale onnipresente espe-rienza umana, si giunge necessariamente al mito di Orfeo e della sua sfi da inaudita con l’aldilà.

L’Orfeo che ritorna sui passi della perdita dell’amata in una sorta di regressione-evoluzione, in una discesa che cerca di arrivare alla fonte e all’origine prescritturale di tutto, si spinge là dove il segno umano non ha senso, e dove nemmeno guardare è concesso, verso il recupero di un destino che non può essere né pronunciato, né contemplato, nemmeno per un attimo.

Impugnare il mito di Orfeo quando si parla di poesia e arte è un per-corso transculturale quasi obbligatorio, poiché questo mito ha generato almeno simbolicamente le assi di diverse arti (musica, pittura, poesia) e poiché necessita per esser anche solo colto vagamente, un approccio sin-cretico, al crocevia di molti dualismi oltre che delle varie arti. Orfeo s’in-treccia inevitabilmente all’idea del poeta per eccellenza, poeta di cui spesso

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diventa garante di classe, l’iperonimo, il nume tutelare nonché l’archetipo. Questo soprattutto se si considera che nella storia della letteratura si è defi nita «orfi ca» quella tradizione di poesia che sembra celare in una veste enigmatico-oracolare una qualsiasi potenza divinatoria e di preveggenza, sebbene criptata. Orfeo è infatti vittima e carnefi ce, resuscita e uccide, è attante dell’oblio e del recupero, in una dicotomia perennemente giocata tra soff erenza umana ed esaltazione apollineo-dionisiaca, data dalla pos-sibilità elevatrice del suo canto. Al pari dello sguardo il canto d’Orfeo sa farsi più fatale di una Gorgone, perché per esistere necessita che una morte lo preceda, esige la perdita di Euridice. Cosicché ogni aspetto del mito d’Orfeo sembra ribaltabile nel suo contrario e nascondere lembi parados-sali. Orfeo è salvatore e al contempo assassino di Euridice, realizzando un atto mancato, una catabasi che però gliene fa riuscire benissimo un altro: essere introdotto tra i sapienti, nell’ordine dei veggenti, degli artisti, di chi può commuovere la divinità col suo agire. Paradossalmente, tuttavia, chi come lui ha questa «seconda vista» sembra privato della prima (come Omero). Con quella discesa mescola il suo vedere, il suo dire e il suo cantare agli strumenti divini, ne strappa alcuni elementi per imparare e insegnare a dire tramite altre immagini, quelle poetiche e quelle artistiche, vedrà tramite esse, e con esse imparerà a recuperare i morti, il passato, a strappare dall’oblio e dal nero. Proprio come nell’atto fotografi co s’illumina l’indistinto dimenticabile avvolto dal nero della possibile indiff erenza. Ciò che fa la fotografi a, allora, è una sorta di recupero orfi co dello sguardo, del desiderio del rappresentabile che vorrebbe un ritorno, una restituzione di un maltolto e che, nel tragitto del recupero, però, potrebbe anche non delinearsi eff ettivamente come quel che si credeva e si lasciava credere, ma si riconfi gura sempre e comunque. Infatti, ogni immagine poetica o foto-grafi ca che sia, a ogni nuovo occhio, suggerirà una nuova confi gurazione di senso, risistematizzerà il suo vissuto, ricucendo un passato e un presente in continua interazione.

La testa di Orfeo secondo la maggior parte di tutte le versioni e reinter-pretazioni del mito ellenico 39, è in grado di cantare e pronunciare profezie solo dopo la morte, lo farebbe quindi dalle viscere della terra, dall’interno di un crepaccio buio. Da questo dettaglio non marginale, nascerebbero tra-dizionalmente sia la poesia che la sua funzione oracolare di guida e profezia;

39. Vedere lo studio Ch. Segal, Orpheus: the myth of the poet, Baltimore, Th e John Hopkins University Press, 1993, che passa in rassegna le varie interpretazioni e tradizioni del mito, dalla sapienziale alla rilettura di Cocteau. Segnaliamo inoltre dei testi critici approfonditi e recenti come la raccolta di saggi di G. Guidorizzi e M. Melotti, Orfeo e le sue metamorfosi. Mito arte poesia, Roma, Carocci, 2008 e lo studio di M. G. Ciani e A. Rodighiero, Orfeo, variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2004.

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la poesia come lo sviluppo dell’immagine fotografi ca, allora sorgono dalla visione più vera, che non è quindi quella esercitata dai bulbi oculari in vita. Lo sguardo d’Orfeo, infatti, è

[…] magico, attivo e passivo a un tempo. Quale elemento attivo è off ensivo: è uno sguardo di morte, gorgonico, capace di off endere. Quale elemento passivo è un non-sguardo, simile a quello del cieco. Orfeo guarda Euridice, ma non la vede, l’annulla e vede soltanto il buio. […] Orfeo è un mediatore tra i mondi e per questo è perico-losissimo.

Le pupille orfi che non fanno che restare ciechi alle cose, non vedono real-mente quello su cui si posano, essi vedono con lo sguardo della memoria, con quello del desiderio. Ecco che secondo molti studiosi 40 probabilmente nell’idea di un Orfeo senza più testa, si deve cogliere un’altra sanzione forte, un interdetto comportamentale-visivo autorevole come quello della cecità. Questo sguardo che Melotti defi nisce assassino, eppure passivo è quasi un non-sguardo: quello del veggente, del resto, non vede ma pre-vede. È così forse anche quello fotografi co? Che toglie ai soggetti il loro aspetto fenomenico e li rende oggetti e che fa dell’oggetto un realia inter-rogabile, un evento?

La relazione tra fotografi a e morte è stata esplicitata da Barthes nella sua lunga rifl essione nella Chambre claire e, intrecciandosi con le dinamiche e i mitemi orfi ci, riporta a una constatazione tanto evidente quanto parados-sale: Orfeo non riprende nell’Ade la sposa morta, forse il suo sguardo uccide la vita che recupera, ancora una volta. Orfeo non fa che recuperare nella zona d’ombra e restituire poi, ripescando le forme dal rischio del buio della dimenticanza, sotto forma del suo canto immaginifi co. Orfeo si muove cioè in una zona d’ombra obliante mosso da una volontà simile a quella fotografi ca di salvare e preservare dalla perdita, traducendo in immagini che fi ssino e ancorino al mondo visibile e intellegibile oggetti e soggetti.

Analogamente la fotografi a, pur cercando di sottrarre alla Morte ogni sua forma, ogni suo ritratto non fa che relegarli allo statuto di testimo-nianza e strapparli dal fl usso della vita, nel fi ssarli per sempre. Calvino stesso aff erma che «la fotografi a ha un senso solo se esaurisce tutte le imma-gini possibili» 41 se cioè rastrema all’assoluto tutte le possibilità e sfi ora l’impossibilità di una sola immagine, che di per sé è già commemorazione di qualcosa che non è più. La fotografi a fornisce così quel doppio identico di qualcosa, di qualcuno che non è presente.

40. Vedere per esempio J. Hillman, «Il complesso di Orfeo: presenza (e assenza) nel mondo contemporaneo», in G. Guidorizzi e M. Melotti, Orfeo e le sue metamorfosi, op. cit., pp. 15-27. 41. I. Calvino, «L’avventura di un fotografo», in Gli amori diffi cili, Milano, Mondadori, 2000, p. 61.

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L’evento fotografia

Nel 1860-1861, Nadar, considerato il primo fotografo conscio del suo ruolo, dopo essersi spinto ad avere una visione aerea della città di Parigi, salirà non più in un alto celeste per avere la sua visione, ma scenderà nelle viscere della terra, cioè nelle catacombe, dove troverà davanti a sé il passato dell’umanità in forma di ossa. E’ in questa rappresentazione della morte che Nadar coglie la capacità della macchina fotografi ca di avere una rivincita temporale su di essa, realizzandone un chiaro simbolo nella sua rappresentazione, poiché la morte è cieca di fronte alla luce.

Parigi sotterranea, Le Catacombe, Félix Nadar, 1860. Archives photographiques (Médiathèque de l’architecture et du patrimoine) © CMN.

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Le catacombe di Parigi.Fonte della riproduzione:

http://www.fotografi a-artistica.com/articoli/Nadar.htm

Parigi dall’alto 1858.Fonte della riproduzione:

http://babilonia61.com/2008/04/02/nadar-parigi-e-le-prime-foto/

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L’aerostato di Nadar.Fonte della riproduzione:

http://babilonia61.com/2008/04/02/nadar-parigi-e-le-prime-foto/

Scendendo nelle catacombe a fotografare la morte, porta il suo volto alla luce del sole, come un reperto, che off re alla coscienza dei vivi e illumina i sotterranei umani. In questo modo dalla mano del poeta il compito della rappresentazione della morte scivola anche in quella del fotografo. Poeta e fotografo sono due pupille entrambe protese verso la lettura del mondo, atti a tradurlo ognuno nel suo alfabeto, di luce, forme, parole, fi no alla comunione dell’ «immagine poetica».

Metaforicamente parlando, se il corpo della macchina fotografi ca contiene uno specchio atto a rifl ettere il mondo e a restituirlo, il poeta, è, a sua volta, come uno specchio che lucido si tende e si fa sensibile, poi, reagendo nel silenzio della mente si esprime, fa l’esperienza della luce come la pupilla che s’impressiona e legge dentro l’enigma dell’immagine come una scrittura. Una scrittura di luce ove trova i caratteri per parlare di ciò che ha visto.

La loro fame non è statasaziata, i loro occhi svegli come se fosse mattina:Di più, di più perché febbriliIn questa veglia notturna che non sembra avere fi ne.[…]Temerariamente, la mano ardente nella mano,è concesso uccidere il sonno,fi ssare interpreti la faccia di Medusa

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Il doppio spettacolo raggianteDi luce incorruttibile[…]tocca qui il suo acme quasi insoff ribile.

Attilio Bertolucci, «Da un altro romanzo», 1997, in Opere, op. cit., p. 458.Il poeta contemporaneamente al suo misurarsi con le innovazioni del mezzo fotografi co, e nel suo moderno modo di rappresentare, unito al nuovo visibile di un mondo illuminato dalla luce elettrica, non può non cogliere il cambiamento di velocità, che avviene sia nel vivere moderno, che nel mondo rappresentato. Non può sottovalutare per sensibilità e tra-dizione, l’incidenza dell’elemento della luce. Si trova così di fronte a un nuovo tempo della rappresentazione, innanzi a un’accelerazione dell’espe-rienza umana, dell’esperienza diurna che viene modifi cata, perché in qual-siasi momento dell’antica notte è possibile vedere e farlo in un attimo, in un momento. E oltre a vedere, è possibile fi ssare uno di questi attimi fi no a renderlo singola esperienza della rappresentazione. L’attimo assieme alla luce diventa un altro dei luoghi del poeta, dove la fotografi a non fa che suggerirgli l’importanza del momento e quasi sindonicamente 42, non fa che intimargli che ciò che coglie e vede in quell’attimo è vero, rappresen-tabile in se stesso.

Nel ritmico cogliere il fl uire delle cose Campana rappresenta la lingua stessa come un materiale di sillabe e ritmo, aldilà di ogni senso racchiuso, come nella celebre «Batte Botte» che riportiamo interamente:

Ne la naveChe si scuote,Con le navi che percuoteDi un’auroraSulla proraSplende un occhioIncandescente:(Il mio passoSolitarioBeve l’ombraPer ilQuai)Ne la luceUniformeDa le navi

42. Aggettivo già utilizzato da un critico e fotografo di fama internazionale come G. Chiaramonte, «La dimora dello sguardo», Firenze Architettura, Anno X n. 1 - 1° semestre 2006, Firenze, Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, p. 10.

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A la cittàSolo il passoChe a la notteSolitarioSi percuotePer la notteDalle naviSolitarioRipercuote:Così vastaCosì ambiguaPer la notteCosì pura!L’acqua(il mareChe n’esala?)A le rotteNe la notteBatte: ciecoPer le rotteDentro l’occhioDisumanoDe la notteDi un destinoNe la nottePiù lontanoPer le rotteDe la notteIl mio passoBatte botte 43.

La singola parola, la singola sillaba, diventa così centrale in quello che è il tentativo di rappresentazione poetica: essa, da sola, o in sequenza, ritrova una forza e indossa una nuova veste per parlare. Grazie ai continui rimandi sonori sembra rimanere nello stesso luogo del sentire, aprendo, costante-mente e ritmicamente nel tempo di un attimo signifi cati nuovi, dilatan-done la sensazione, in quella che nonostante la verticalità della narrazione sembra una struttura radiante.

Così una poesia di un singolo verso, se non rastremata a singole parole, arriva ad avere la stessa valenza evocativa e il valore di un lungo componi-mento in versi. In questa poesia di Campana sono intrecciati e amalgamati in un corpo unico, tutti gli aspetti e tutte le potenzialità di questa parola umana e poetica, sicuramente vista in chiave moderna, ma rivestita quasi

43. D. Campana, «Batte botte» in Canti Orfi ci e altre poesie, Torino, Einaudi, 2003, p. 60-61.

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di una sua valenza primordiale, parola che si staglia decisa sulla pagina quasi come immaginata, ripercorrendo quella contemporaneità di visto e rappresentato propria della rappresentazione fotografi ca.

L’immagine nel suo aff ermarsi nel momento in cui è vista, porta con sé una forza implicita, una prepotenza, una forma di autoaff ermazione e si costituisce quasi come atto violento. E l’immagine fotografi ca è, per la natura stessa del suo mezzo, doppiamente violenta: perché lo scatto che la realizza, oltre a portarla al di fuori della temporalità, la separa con nitore da tutti gli altri momenti, da tutti gli altri scatti. Il poeta con la stessa consapevolezza e volontà di evidenziare singoli elementi rappresen-tando con la parola un momento, sa di fare violenza su tutta la narrazione. Questa si fa movimento istantaneo, accelerato, costellato di fi gura, denso di signifi cato, icona e parola.

Lo stesso Ungaretti coglie e carica il momento dell’esperienza poetica, rarefatta e accelerata, in uno dei versi più celebri di tutta la letteratura del Novecento. Il suo «m’illumino d’immenso» non fa che addensare in un sol verso le entità con cui la poesia e la modernità si confrontano: l’io, la luce e l’universo, vale a dire il valore del momento, la centralità dell’oggetto illuminato che si fa soggetto e che assorbe e rifrange luce nella luce, luogo di se stesso.

Tale concentrazione poetica caratterizza anche molte poesie di Caproni, in cui domina il valore del singolo verso, ai limiti del versicolo che si confronta, tra l’altro, con la portata esistenziale del segno verbale, del nome:

Il nome non è la personaIl nome è una larva.Di tutti i circostanti,a malapena è salva

– famelica – l’icona(Eroi e fi guranti) 44

E in un’altra poesia lo stesso poeta mostra il valore istantaneo della felicità che non potrà mai raggiungere in linearità, nella temporalità, l’altezza che raggiunge in un attimo.

Ho amato tanto…Felicità!Ho toccatoLe cime più alte del Pianto?Giorgio Caproni, «Interrogativo» (Ibid, p. 640.)

44. G. Caproni, «Il nome», in Il Conte di Kevenhüller, in L’Opere in versi, Milano, Mondadori, 1998, p. 632.

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Il poeta raccoglie ed esprime tramite l’attimo e l’essere nella luce il valore di un singolo momento a discapito di tutti gli altri, trasfondendo anche nel linguaggio, questo procedere per lampi, in una nuova ritmicità, al di fuori di una narratività descrittiva. È una parola che vive di se stessa e per se stessa, si fa cioè oggetto, soggetto ed esperienza come estratta da un lungo frasario quotidiano ed eletta, restituita al valore di se stessa, mostrando al contempo una pluralità di prospettive. Se prima il poeta era uno specchio in cui coagulare/raggruppare la visione, ora vediamo la parola rompersi, lo specchio del poeta cadere e farsi frammento di luce e immagine spoglia, distante, destabilizzante, contrastante, lontana da una narratività, e volutamente straniante per raccogliere diverse prospettive in una sorta di superrappresentazione, in una visione contemporanea di tutte le prospettive.

D’altro canto questa modernità implica un rischio profondo: l’immedia-tezza e facilità della comunicazione, veloce e semplifi cata, possono portare a pensare che tutto possa essere detto e dicibile, quando invece la rappresen-tazione resta uno dei movimenti ultimi, fatto dal poeta e dal fotografo, solo dopo aver analizzato e compreso a fondo questo rappresentabile 45. Come da un movimento che venga da una complessità che trova la sua rappresenta-zione grazie alla capacità dei suoi artefi ci e non dalla credenza, sempre più diff usa, che ogni momento del nostro vivere, estrapolato da ogni contesto, da ogni morale e da ogni valenza estetica, possa essere sempre conside-rato valido e degno di essere rappresentato iconicamente o verbalmente, o comunque, detto e mostrato. Tale movimento suggerisce che il tempo è fatto di eventi interessanti che valgono la pena di essere detti. Mai come ora questa percezione autorizza a pensare che qualunque evento avviato, qualsiasi coordinate morali abbia, necessiti di un completamento anche tramite la fotografi a o il mezzo verbale.

Lo stesso fl ash fotografi co propone e permette un’ulteriore illumina-zione artifi ciale, un’ulteriore luce assoluta capace di strappare dal buio ma anche, quasi, in grado di azzerarlo, tanto da poter generare momenti in cui il suo lampo al magnesio, nella luce notturna naturale, si confonde e si fonde in un continuum illuminato, fatto di picchi elettrici che ormai passano del tutto inosservati. Un po’ come le insegne moderne rutilanti e forse solo inizialmente realmente effi caci, che nel loro attuale giustapporsi

45. Sull’entità del rappresentabile fotografi co rifl ette anche I. Calvino in maniera solo apparentemente ludica in «L’avventura di un fotografo», quando contempla il vivibile e il fotografabile in un duplice scambio che si rivela, comunque, fallace: «vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima porta alla stupidità, la seconda alla pazzia» (I. Calvino, «L’avventura di un fotografo» in Gli amori diffi cili, op. cit., p. 53).

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seriale, si fanno indistintamente invisibili. Un meccanismo di perdita della distinzione che Hegel spiegava a inizi Novecento in questi termini:

Ci si rappresenta l’essere – per esempio sotto la fi gura della pura luce – come chia-rezza del vedere non intorbidato, e il nulla, all’incontro, come il puro buio, e si connette la loro diff erenza con questa ben nota diff erenza sensibile.Se non che, nel fatto, quando ci si rappresenta in una maniera più precisa questo stesso vedere, è più facile accorgersi che nell’assoluta chiarezza non ci si vede né più né meno che nell’assoluta oscurità, e che così l’uno come l’altro vedere sono un puro vedere, un veder nulla.La pura luce e la pura oscurità sono due vuoti, che sono lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata nell’oscurità, quindi solo nella luce intorbidata, si può distinguere qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità deter-minata- e l’oscurità è determinata nella luce – quindi solo nell’oscurità rischiarata 46.

Questo perenne spettacolo porta a una costante produzione di aspetta-tive che vengono a realizzarsi nella rappresentazione, nella teatralità. Viene generato un bosco illusorio ricco di simboli, denso di luci, che invece d’illuminare, adombrano ottenendo l’eff etto di una notte. Una notte dove la luce artifi ciale paradossalmente rende invisibile quella naturale (sia la luce della vita che stelle e luna), una notte in cui la luce vera viene esauto-rata e dove resta sovrana un’immagine, usata per la sua componente più semplice, nella sua possibilità di essere riprodotta e di farsi riproducibile di ogni momento. Il percorso strettamente umano di analisi viene così ceduto, svincolandolo dal giudizio e dall’attribuzione del signifi cato, sal-vando l’oggetto del veduto in una memoria altra, in grado di conservare, sempre e comunque, gli eventi dalla dimenticanza e dall’oblio.

Non sarebbe quindi così insensato pensare che la macchina fotografi ca si ponga come un Dio, come un occhio che supervisione, che ci solleva da qualsiasi responsabilità, sorvegliandoci in nostra vece, registrando allo scopo di dimenticare 47.

46. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Bari, Biblioteca Universale Laterza, 1981, parte I, cap. I, nota 2. 47. Si parla dell’occhio di Dio in contrapposizione al grande occhio meccanico-mediatico che si rifà al celebre romanzo di George Orwell 1984. Ormai la tecnica ha soppiantato metaforicamente l’onnipresenza divina nel soggiacere a ogni evento e paragonare l’occhio di Dio a quello di telecamere, cineprese ed obiettivi fotografi ci è sempre più frequente nella critica sociologica così come nella letteratura che analizza utopia e distopia. In ambito poetico ricordiamo per esempio il volume di E. Baldini, A. Colombo, Utopia e distopia, Bari, Dedalo, 1993, che in un passaggio spiega «L’occhio del Controllore, posto al centro dell’edifi cio, diventa una chiara metafora del potere che tutto controlla e ordina. Metafora inquietante, perché richiama in maniera arcaica sia l’occhio di Dio, il potere religioso della visione, sia l’occhio di Medusa, che pietrifi ca» (p. 52). In ambito poe-tico questa supervisione oculare è sin dal xix secolo cantata da Victor Hugo che nella poesia «La Conscience» della raccolta La Légende des siècles, inscena la persecuzione psicologica di Caino che, ossessionato dai rimorsi, si sente oppresso dalla presenza di un occhio che lo segue dall’orizzonte sempre e ovunque, fi no a fi nire nella tomba con lui.

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Analogamente la parola svincolata da qualsiasi contesto, moltiplicata, ripetuta, quasi come un gioco di sonorità, è attivata dal linguaggio contem-poraneo per uscire dall’ansia tutta umana del silenzio, scivolando in un superlinguaggio. Quest’ultimo però non assicura la comunicazione e l’ef-fi cacia del detto, ma al contrario, le annega in un mare di segni sonori, spesso si tramuta in un’assenza di signifi cato e di linguaggio, andando verso un abuso del materiale verbale, dove viene generato rumore. Un frasario sonoro che si fregia dello statuto di grido moderno e che invece si svuota, si denuda del suo signifi cato e del suo signifi care. Pasolini sembra distaccarsi da quest’errore, e aver ben compreso i vantaggi e gli svantaggi della lezione della modernità, ed è così in grado di piegarla ossia di dominarla per par-lare di quella che gli sembra essere l’unica vera luce, la luce benigna, fi no ad usarla per defi nire la poesia stessa:

Alle volte è dentro di noi qualcosa(che tu sai bene, perché è la poesia)qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita […] 48

e sempre alla ricerca di questa luce «vera» Pasolini dice che:[…] solo il soleimprimendo pellicola può esprimerein tanto vecchio odio un po’ di vecchio amore. (Ibid., p. 21.)

Pasolini recupera così una luce antica, quella fatta di assi naturali, per farla passare dal moderno mezzo di rappresentazione.

Mimesi e corpi espressivi corrisposti

La poesia, insegna Bachelard, è semplicemente uno dei possibili destini della parola 49 e nel 1960, quando molte delle esperienze poetiche e artistiche del Novecento non si erano ancora consumate, e la civiltà dell’immagine non viveva ancora nel suo attuale parossismo, scriveva a tal proposito:

Une ère d’imagination libre vient de s’ouvrir. De toute part les images envahissent les airs vont d’un monde à l’autre, appellent et l’oreille et les yeux à des rêves agrandis. Les poètes abondent, les grands et les petits, les célèbres et les obscurs, ceux qu’on aime et ceux

48. P. P. Pasolini, «La Guinea», in Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964, p. 6. 49. Vedere G. Bachelard, La Poétique de la rêverie, Parigi, Presses universitaires de France, 1960, p. 3. In particolare Bachelard sostiene che l’immagine poetica apre un avvenire al linguaggio; non ne é un lapsus, ma una ricca possibilità.

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qui éblouissent. Qui vit pour la poésie doit tout lire. Que de fois, d’une simple brochure, a jailli pour moi la lumière d’une image neuve Quand on accepte d’être animé par des images nouvelles, on découvre des irisations dans les images des vieux livres. Les âges poétiques s’unissent dans une mémoire vivante. Le nouvel âge réveille l’ancien. L’ancien âge vient revivre dans le nouveau. Jamais la poésie n’est aussi une que lorsqu’elle se diversifi e. (Ibid., p. 23.)

Bachelard individua, confermando la chiosa e il credo baudelairiano, la stretta correlazione tra poeta e immagine, tra la parola poetica e il sostrato visivo-iconografi co che, dopo l’invenzione di Nadar, si confronta inevita-bilmente col materiale e le dinamiche fotografi che, nel loro off rirsi quali generatori di immagini, incursioni nelle forme e nel tempo.

Risalendo ancora più a ritroso Raymond Roussell, poeta francese di inizio Novecento, nel poemetto in alessandrini «La vue» 50, (La veduta) 1904 presentava già una marcata fenomenologia del vedere e una fi ne ana-lisi del mondo interpretato attraverso un fi ltro, che sia la scrittura o un obiettivo vitreo, off rendo un’intrecciata dialettica tra metapoesia e forme della percezione visiva e a tratti anche tattile:

Quelquefois un refl et momentané s’allumeDans la vue enchâssée au fond du porte-plumeContre lequel mon œil bien ouvert est colléA très peu de distance, à peine reculé:La vue est mise dans une boule de verrePetite et cependant visible qui s’enserreDans le haut, presque au bout du porte-plumeOù l’encre rouge a fait des taches, comme en sang.La vue est une très fi ne photographieImperceptible, sans doute, si l’on se fi eA la grosseur de son verre dont le morceauEst dépoli sur un des côtés, au verso ;Mais tout quand l’œil plus curieux s’approcheSuffi samment pour qu’un cil par moments s’accroche.Je tiens le porte-plume assez horizontalAvec trois doigts par son armure en métalQui me donne au contact une impression fraîche ;Mon œil gauche fermé complètement m’empêcheDe me préoccuper ailleurs, d’être distraitPar autre spectacle ou par un autre attrait

50. Quest’opera ispirò il fi losofo Michel Foucault che nella monografi a intitolata Raymond Roussel ne ana-lizzò l’archetipo dello sguardo e la lunga rifl essione fenomenologica sulla visione. Per quanto riguarda il pano-rama italiano, questi versi sono stati banco di prova traduttivo del poeta e traduttore Valerio Magrelli che ne assorbirà poi il movimento estetico e speculativo, scrivendo a sua volta molto frequentemente, come riportiamo in questo nostro articolo, della dialettica tra il vedere e l’enunciare.

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Survenant au dehors et vus par la fenêtreEntr’ouverte devant moi.Mon regard pénètreDans la boule de verre, et le fond transparentSe précise ; ma main, en remuant, le rend,Malgré ma volonté, fugitif et peu stable ;Il représente toute une plage de sableAu moment animé, brillant ; le temps est beau :Des clartés rares et minces courent sur l’eauS’arrondissent suivant le hasard de la houle 51.

Le fi gure retoriche legate allo sguardo e alle dinamiche su cui lavora la fotografi a sono molteplici, e altrettanto numerose sono i modi in cui, da poeta a poeta, queste fi gure si snodano. A tratti esse sono declinate come un serbatoio lessicale in cui il poeta attinge per imbastire le metafore tra la visione e quelle della parola, altre volte realizzano invece la messa in scena dell’atto fotografi co stesso- o di una delle sue fasi, dallo scatto al lampo di magnesio, fi no allo sviluppo dell’immagine in camera oscura. Il primo gesto fotografi co che viene mimato e implicitamente citato, è spesso l’immediatezza dell’atto o, come direbbe Bachelard, quella forma di «polyphonie de sens que la rêverie poétique écoute et que la conscience poé-tique doit enregistrer» 52. Per l’immagine poetica vale quello che Friedrich Schlegel diceva del linguaggio: «c’est une création d’un seul je» (ibid.), quella percezione di atto umano vivo e completo, quello spazio della coscienza in cui germina e prolifera l’immagine poetica.

Alcune incursioni poetiche contemporanee nel mondo della fotografi a sono di lampante evidenza autoreferenziale. Ne è un caso la raccolta del poeta Paolo Ruffi lli che sin dal titolo La camera oscura, non può dar adito ad alcun dubbio: l’ispirazione e le scene si diramano da un continuo sovrapporsi tra atto poetico e atto fotografi co. Un componimento parti-colarmente in linea con tale movimento compositivo è il seguente:

L’oggetto che si èoff erto all’obiettivo,premuto e distaccato.Messo a morte,eppure lì sospesoa tempo indefi nitodisegnato, per assurdo,

51. R. Roussel, La vue, in Œuvres complètes, Parigi, Pauvert, 2007, pp. 3-5. 52. G. Bachelard, La Poétique de la rêverie, op. cit., p. 6.

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nel suo essere proteso.L’atto mancato 53.

Il referente fotografi co è indiscutibile e permea sia l’oggetto poetico che il suo disporsi ritmico, rapido, interrotto da continue pause e quasi incep-pato volutamente in diversi segmenti-fotogrammi, fi no alla fi ne. Un frammento poetico che sembra quasi illustrare il meccanismo fotogra-fi co che porta a immortalare gli oggetti, quasi una spiegazione in versi del fotografare e delle sue relazioni con la morte. Nella stessa direzione, solo accentuando parossisticamente la dimensione bellica dello scontro tra due sguardi, quello del fotografo e quello del fotografato, si muove una poesia di Valerio Magrelli, da sempre sensibile alle tematiche dell’ottica, della visione e alla sua linea speculativa. La volontà dal parte del poeta diventa quella di fare un tragitto nel terreno della visione, sino a spingersi al cro-cevia tra il meccanismo di generazione dell’incanto e quello quasi medico di generazione degli impulsi, fi no ai suoi vertici chimici.

In una sua poesia della sua seconda raccolta Nature e Venature, in aper-tura alla sezione «Amori» inserisce un intero componimento che rifl ette sul volto fotografato:

Ogni volto fotografatoÈ un’immagine bellica,il punto di tangenzatra l’aereo nemico e la navenell’attimo che precede l’esplosione.Ferma nell’istantanea del contatto fl agrante tra due sguardiimmolato, ripresomentre le fi amme covano giànella fusoliera crescendodentro i suoi tratti, vivesoltanto il tempo necessarioa compiere la missione del ricordo 54.

Ecco che l’atto fotografi co è quasi inscenato come una violenta defl agra-zione, sospinta nell’itinerario del recupero del reperto-ricordo, una mis-sione quindi pericolosa che impone attrito, violenza esercitata su una vittima «immolata» quasi oggetto-soggetto di un ratto che vuole portare a casa il bottino della memoria, e quasi si dimentica di quel che sta fi ssando, perché quei tratti son portati a sopravvivere giusto il tempo indispensabile a realizzare «la missione del ricordo». Magrelli, poeta tra i più originali e

53. P. Ruffi lli, La Camera oscura, Milano, Garzanti, 1992, p. 15. 54. V. Magrelli, «Amori», in Natura e Venature, in Poesie (1980-1992), Torino, Einaudi, 1996, p. 123.

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caratterizzanti la poesia italiana sin dal 1980, da sempre cede alla sedu-zione della geografi a dell’occhio, ai fenomeni ottici di riproduzione delle immagini, anche caleidoscopiche o semplicemente oculistiche. Così non stupisce trovare una sezione della sua raccolta Natura e Venature dal titolo «Clecsografi a» (dal tedesco Klecks = macchia, una sorta di scrittura con le macchie con impronte d’inchiostro). In essa il poeta sembra quasi muo-versi per analogia ad alcune fasi fotografi che, come mostra una delle poesie a metà della sezione, che descrive il morbido affi orare a galla dei lineamenti di una statua in acqua, seguendo quasi l’emergere tra gli acidi dei tratti di un volto su carta fotografi ca, durante lo sviluppo della pellicola:

[…] Ogni giorno è un frammento di quel corpoConcessoci ma ignoto,forse una guancia, forseappena un ciglio,in una crescita simile al modellodi una statua che immerso dentro l’acquaemerga gradualmentescoprendo solo la parte da scolpire,poco alla voltafi no a che la forma non sarà tutta apparsa,alta nell’aria, terminata, identica. (Ibid., p. 137.)

Il sogno e il terrore di molti poeti è «arrivare al verso estremo/ senza doverlo dire» 55, sedotti dalla capacità delle forme e del loro delinearsi tra luce e ombre, nel fare quel lavoro iconico e fi gurale che la parola non può davvero eseguire da sola, né per intero. Non per lo meno nell’epoca contemporanea, quando tutto è stato detto e quando ci si confronta sempre più con l’insuffi cienza della parola. Sebbene certamente «notre vie est dans le fait du discours […] il y a des actes de l’esprit qui prennent leurs racines dans le silence» 56, ricorda Steiner, e si decide di evadere dalla mera conoscenza verbale per cercare di deformare il linguaggio. Così l’arte informale rompe ogni possibilità di equivalenza con il codice lingua, si pone cioè non come ciò che si vede e può essere detto, la verosimiglianza non è più l’obiettivo dell’artista, e propone un’opera che può anche restare muta (nel cogliere l’assoluto) nel gettarci segni incomprensibili. O, come la fotografi a, può illuderci di essere ritratto, mimesi del reale, e poi, da parte sua, ingannarci sommamente scoprendosi deformazione, parodia,

55. V. Magrelli, «Ora serrata retinae», in Poesie (1980-1992), Torino, Einaudi, 1996, p. 97. 56. G. Steiner, «La retraite du mot», in Langage et silence, Parigi, Seuil, 1969, p. 27.

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un falso reale, farsi cioè essa stessa antilinguaggio nell’era della ritirata della parola. Ma del resto non solo «l’image se métamorphose, elle est la métamorphose» 57 e per la poesia contemporanea ormai arresasi alla confi sca della parola, facendone il tema centrale e decostruzionista, anche la foto-grafi a è conforto metaforico, foriero di elementi simbolici e meccanismi analogici da poter sfi orare e impugnare.

Che cosa possono avere ancora in comune poesia e fotografi a? Se la fotografi a, l’immagine si allontana nel suo giacere e off rirsi muto dal pro-lisso, dall’orpello e dalla cronaca esatta 58, anche la poesia evade dall’ordine sintagmatico prestabilito della lingua cercando una sua sintesi ’altra’, dove forse davvero «il pensiero calcola le sue membra/ e le chiama per nome» 59 nel tentativo di non disperdere alcun lineamento. Quelle magrelliane e di diversi poeti contemporanei sono continue «immagini che lampeggiano» quasi come «una impronta digitale/ dietro questa [mia] lingua» 60, in un continuo interrogare e frequentare i terreni della visione.

Senza dimenticare mai l’importanza del signifi care, fotografo e poeta sono forse uniti, oltre che per intenti, per attenzione agli stessi elementi sen-soriali, anche da un possibile errore, e da una comunanza di soluzioni ancor più antica: il signifi cato di Mnémosyne (madre delle muse) ovvero quello di una rappresentazione che abbia la facoltà di comunicare e rimemorare ai presenti ciò che è, e che è stato. E che non si faccia quindi sostitutivo della memoria ma luogo di conoscenza. Un passato che fu contemporaneo e che il poeta e il fotografo trasportano nel tempo, recuperando l’antichissima funzione dell’aedo, muovendosi nelle diverse dimensioni e densità dell’al-dilà e del passato. Questo movimento di derivazione antichissima è esplici-tato da diversi critici e fi losofi che ne recuperano l’intreccio. Bertolucci in concordanza con Pasolini:

Sopravvivenza, la nostra terra? Ma durano a lungoQuesti crepuscoli, come d’estate che mai, maiViene l’ora della lampada accesa, di quellefalene irragionevoli che vi sbattono contro,attratte e respinte dal chiarore che è la vita(eppure vita era anche il giorno che muore).Soltanto ci sia dato, in un tempo incertoDi trapasso, di ricordare, ricordare per noi

57. F. Dagognet, Philosophie de l’image, Parigi, Vrin, 1984, p. V. 58. Vedere ibid., p. IX. 59. V. Magrelli, «Ora serrata retinae», op. cit., p. 85. 60. Ibid., p. 38.

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E per tutti, la pazienza degli anniChe i lampi dell’amore ferirono-e si spensero 61.

Sempre alla biforcazione tra vita e morte, recupero e dimenticanza, l’uomo opera e rifl ette sul suo agire attraversando:

L’associazione di Lete, (oblio), e Mnémosyne, (che) sono nell’antica Grecia le due sorgenti che il morto, ovvero noi spettatori, dovrà scegliere per abbeverarsi, esaltandosi nelle dottrine mistiche e orfi che; l’una provocava nell’anima la dimenticanza della pro-pria vita umana vissuta, la caduta nel regno della notte, l’altra procurava la rivelazione del passato e del futuro, cioè una specie di immortalità 62

e traspone, così, il signifi cato della rivelazione immortale.

61. A. Bertolucci, «A Pasolini (in risposta)», in Le poesie, Milano, Garzanti, 1990, p. 229. 62. A. Seppilli, Poesia e magia, Torino, Einaudi, 1971, p. 404.